VOSTOK – In treno da Mosca a Pechino
1. Vanno a trovare le fidanzate L’impiegato dell’ufficio visti di Torino l’aveva anticipato. Dopo aver discusso degli ultimi chiarimenti burocratici e doganali, della carta di immigrazione e della registrazione obbligatoria in Russia, dopo che il discorso aveva perso la sua cornice istituzionale, l’uomo aveva detto che negli ultimi anni il rigore nei controlli si era allentato perché ci sono molti italiani che vanno a mettere su degli affari o vanno a trovare le fidanzate. Dopo un’attenta analisi sociologica dell’ultima proposizione ho pensato a questa sintesi: attempati uomini italiani in cerca di sesso a prezzi accettabili, dolce compagnia e scambio di effusioni pagano con contanti e regalie giovani donne russe che sarebbero ufficialmente le loro fidanzate. Gli attempati uomini italiani incontrano le giovani donne russe loro fidanzate qualche volta all’anno, i più facoltosi raggiungono Mosca e le altre città anche una volta al mese. Gli uomini vanno a trovare la fidanzata consapevoli o meno del fatto che la fidanzata russa ha in realtà altre decine di fidanzati, sparsi in mezza Europa, che in cerca di sesso a prezzi accettabili, dolce compagnia e scambio di effusioni pagano con contanti e regalie giovani donne russe.
2. I nuovi zar: c’è del marcio a Mosca? È sabato mattina, sono le 6. La Russia sembra abbia perso una guerra. Il risveglio è lento. In giro ci sono solo i tassisti e alcuni ragazzi che fanno colazione al MacDonald’s o dormono sbronzi sui tavolini di qualche bar dove si trovano dalla sera precedente. Mi aggiro in una città fantasma che aspetta solo il momento buono per esplodere. Viale Tverskaya incomincia ad essere attraversato dalle macchine che dopo circa un’ora diventano migliaia, un flusso continuo che unisce la parte nord-ovest della città con il centro. La metà delle automobili si aggira su un prezzo superiore agli 80000 euro, circa 4 milioni di rubli, cifra che la metà della popolazione russa può solo sperare di vincere in qualche lotteria o di guadagnarla dopo vent’anni di lavoro. Dopo aver visto altre città della Russia europea ed asiatica, si ha la netta sensazione che buona parte della ricchezza della Federazione sia concentrata nei 30 - 40 km² che costituiscono il centro finanziario di Mosca. Gli episodi di censura, intimidazioni, violenze, torture, di cui possono essere vittime oppositori politici e giornalisti alla ricerca della verità sugli affari che riguardano i petro-rubli, fa pensare a un potente e remunerativo asse fra ex boiardi di regime, mafia e Chiesa ortodossa. Quel potere nero e atavico, nascosto momentaneamente dalla Rivoluzione d’Ottobre, è ritornato in forme diverse e aggiornate. A Yekaterinburg, nella principale chiesa ortodossa della città, edificio vicino al luogo in cui furono uccisi i Romanov, è in atto un lenta riabilitazione dell’ex famiglia imperiale con tanto di fotografie in posa che trasmettono la santità e magnanimità dello zar e della zarina, dipinti come nuovi martiri della cristianità. Al di là delle correnti di partito, delle messe, dei proclami, delle
concessioni o meno di autonomie, dei prossimi mondiali, della Siberia, della Cecenia e dell’Ucraina, la storia sembra la stessa vecchia storia: un gruppo egemone di qualche migliaio di persone, utilizzando consueti narcotici come religioni e mezzi di informazione, fa di tutto perché il grosso della ricchezza nazionale rimanga bene o male sempre nelle stesse mani e venga trasmessa alle proprie generazioni. Chiunque vi si opponga merita l’eliminazione ma, elemento forse fondamentale, bisogna ingegnarsi nello spiegare agli altri milioni di abitanti che l’eliminato, in senso fisico, mentale o comunicativo, sarebbe stato un evidente pericolo per l’incolumità e la sicurezza di tutta la nazione.
3. Quattro treni per Ulan Bator Le impiegate russe di poste e stazioni nel loro rapporto con i non russi possono essere divise in due tipologie. Uso il femminile non a caso, questi lavori sembrano quasi prerogativa delle donne. La prima tipologia mostra immediata diffidenza, noia nello stare a sentire qualcuno che non parli russo. Caso tipico è quello accadutomi all’agenzia Intourist di Novy Arbat a Mosca. Glorioso simbolo del turismo e tempo libero durante il periodo sovietico, le agenzie Intourist, dopo la caduta del comunismo, sono entrate nel libero mercato. Mi reco per fare i biglietti che, con diverse tappe, mi porteranno a Pechino. Ci vado alle nove, è chiuso, il sabato aprono alle dieci. Ritorno alle dieci, all’ingresso una signora bionda, molto probabilmente un’impiegata, che fuma una sigaretta. Mi accingo a varcare l’entrata della mitica agenzia ma la signora mi fa capire che aprono alle 11 nonostante proprio sulla porta di vetro all’entrata si capisca che nei fine settimana l’orario non sia 09 – 20, ma 10 – 20. E se l’agenzia è chiusa, che cosa ci fa la signora bionda all’ingresso? Non insisto, ritorno alle 11, varco l’ingresso e mi sento già trionfante. Incontro l’impiegata alla prima scrivania. Con le dieci parole di russo che conosco le dico che devo fare dei biglietti ferroviari. La prima impiegata mi indica una sua collega in fondo: è la signora bionda di un’ora prima che fumava una sigaretta all’ingresso e che mi aveva fatto ritornare alle 11. Lo scambio di sguardi è degno di un film di Sergio Leone, i due cow-boys che si scrutano prima del duello finale. Mi avvicino alla sua scrivania e la signora sbuffa, davvero una calda accoglienza. Le mostro il mio foglio con i dettagli dei biglietti. Il tutto naturalmente tradotto in cirillico. Presentare qualcosa scritto in inglese ti fa già perdere in partenza. La signora guarda il foglio, non mi invita a sedermi, io mi siedo lo stesso. È fatta, sono nell’agenzia Intourist più centrale di Mosca e fra qualche minuto avrò i miei biglietti per Pechino. I secondi scorrono come secoli, proprio come negli attimi che precedono i duelli nei film di Sergio Leone. La signora arriccia il naso, nyet! Il messaggio è chiaro: non può fare i biglietti. Io sono sorpreso, ma come? L’agenzia Intourist, dove da qualche decennio si possono fare i biglietti ferroviari, non fa più biglietti? No, niente da fare, inutile insistere. Mi scrive dove posso fare i biglietti: stazione Belorussky, quasi cinque kilometri di distanza. Dopo due chilometri a piedi e una metropolitana raggiungo la stazione, è quella dove sono arrivato prendendo l’Aeroexpress dall’aeroporto Sheremetyevo. Biglietteria tratte internazionali, aspetto in fila, fortunatamente prima di me c’è solo una signora. È il mio turno, con le stesse poche parole di russo e il mio foglietto con traduzione in cirillico faccio la stessa richiesta. L’impiegata chiama una sua collega che molto probabilmente parla inglese e si occupa di quelli come me. Arriva la collega, una bella signora sui cinquant’anni che prende amorevolmente il mio foglio e studia le soluzioni. Siamo alla seconda tipologia di impiegate russe, completamente opposta a quella precedente. Fa
prima un’accurata ricerca di tratte, giorni e orari. Mi spiega che i biglietti si possono fare tutti, tranne l’Ulan Bator-Pechino, il treno russo passa solo la domenica e non il giovedì, questo biglietto lo dovrò fare a Ulan Bator, prendendo un treno delle ferrovie mongole. Dopo la prima fase arriva la seconda: stampare i biglietti. Tutto procede bene, quest’incontro compensa quello precedente: quest’impiegata delle ferrovie russe, stazione Belorussky, sportello tratte internazionali, è bella, gentile, educata e paziente nei confronti di uno sventurato che a causa del destino avverso non è riuscito nella sua vita a imparare il russo. Come dicevo tutto procede bene fin quando la fila non incomincia ad aumentare. La signora non spiega ai suoi connazionali la situazione. Il primo ad arrivare non si mette dietro di me ma al mio fianco con totale disprezzo della privacy. All’inizio penso si tratti di qualche personaggio della stazione fin quando non arriva una signora che si piazza sull’altro lato. Arrivano gli altri che fanno lo stesso e così capisco che, tranne quando si digita il pin di una carta di credito, quelli in fila si posizionano vicini a te, fanno pressione psicologica nei confronti dell’impiegata, ascoltano quello che stai facendo, dove stai andando, chi sei. La fila non è verticale, si creano due file laterali in maniera orizzontale. Del concetto di privacy sembra che non gliene importi niente a nessuno. La seconda tipologia delle impiegate russe può però arrivare anche agli estremi. I suoi connazionali in fila, per la signora occupata con me, sembra che non esistano. Incominciano i mugugni, c’è chi magari rischia di perdere il treno, ma nulla sembra smuovere l’impiegata russa impegnata nel sacro compito di far arrivare un viaggiatore italiano almeno a Ulan Bator. I minuti passano, i mugugni aumentano ma nessuno si azzarda a parlare o accennare una protesta. O meglio, la protesta è silenziosa. Vai, l’ultimo biglietto è stato fatto, posso pagare ed evitare il linciaggio. Ma è proprio adesso, quando tutto sembra finito, che la gentile signora sfida la sorte e, dopo aver controllato sul computer che ci fossero i posti, che gli orari fossero giusti, dopo aver poi stampato una alla volta i biglietti, non paga della sua disponibilità, incomincia a spiegarmi, con un corso improvvisato e veloce, come funziona e come sono strutturate le indicazioni di un biglietto delle ferrovie russe. Aspetti che conoscevo già ma che ascoltavo con finto interesse forse anch’io non pago di quella dose di bellezza e pazienza che casualmente mi venivano offerte alla stazione Belorussky di Mosca. La signora mi consegna i biglietti, mi augura buon viaggio, io la ringrazio, la saluto, prendo i biglietti e mi allontano dall’ormai consistente gruppo in attesa. This is Russia.
4. Lenin e i bambini della Jacuzia La fila per vedere Lenin è lunga. Almeno un migliaio di persone, quasi tutti gruppi di turisti russi che arrivano dai vari distretti della Federazione. Incontro una famiglia che alloggia nel mio ostello. Tre adulti e tre bambini, molto probabilmente suocera, marito, moglie, figlio e figlie della coppia. Prendo la cartina e chiedo all’uomo di indicarmi la loro città di provenienza. Vengono dalla Jacuzia, estremo oriente russo, da una cittadina a nord di Yakutsk. La suocera infatti ha i tratti degli abitanti che prima della colonizzazione zarista abitavano in piccoli gruppi questa parte del continente asiatico. I nanai erano cacciatori, pescatori, raccoglitori. Lui prende il tablet e mi fa vedere le foto della sua città. Appare una cava gigantesca e mi fa capire con i gesti che lì c’è il suo lavoro. Come altre città della Siberia più profonda, il centro abitato si è sviluppato attorno a un’industria o una miniera. Fuori dalla città, prima di incontrarne un’altra, centinaia di kilometri di foresta. Aspetto in fila in compagnia della famiglia siberiana, i bambini giocano. Dopo quasi un’ora e
i controlli di rito, entriamo nel mausoleo che contiene la salma del padre della rivoluzione. I bambini smettono di giocare, per loro è come entrare in un castello misterioso. Tutto è buio, si vede a stento, coppie di soldati che compaiono nell’oscurità fanno la guardia. Il suo corpo imbalsamato è in una teca di vetro. È possibile passarci accanto continuando a camminare. Una visione di una ventina di secondi. Chi si ferma per un pensiero, un ricordo, addirittura una preghiera, è spronato dalle guardie a riprendere il cammino e non creare ostacoli alla lunga fila, un serpente di esseri umani che continua incessante. Il tutto dura un paio di minuti e siamo fuori dal mausoleo, all’aria aperta vicini al Cremlino. I bambini riprendono a giocare.
5. Platskart I treni russi per le lunghe tratte hanno posti di prima, seconda e terza classe. Il viaggio in prima classe è fatto in uno scompartimento da due cuccette. Il viaggio in seconda, la kupe, in uno scompartimento da quattro cuccette. Il viaggio in terza classe, la platskart, non è fatto in nessuno scompartimento ma in un vagone da 52 cuccette. Il samovar del treno è una sorta di boiler con un rubinetto. Dispensa giorno e notte acqua bollente. È possibile mangiare cibi liofilizzati e preparare tè e caffè. Ogni vagone è governato dalla provodnitsa, l’assistente di carrozza. C’è ne sono due per vagone che fanno i turni. Controlla biglietti e passaporti all’ingresso nel treno, consegna lenzuola pulite, è addetta alla pulizia dei bagni e di tutti gli spazi del vagone, si occupa di tutte le incombenze e le necessità che possono presentarsi. Sul treno del mio primo percorso, Mosca – Yekaterinburg (25 h), nessuna parla inglese ma una signora moldava parla un po’ di francese e così mi affido a lei. Le assistenti di carrozza sono delle figure storiche della Transiberiana. Queste donne serie e precise, spina dorsale delle ferrovie russe, da più di un secolo, insieme a macchinisti, meccanici e operai, loro quasi tutti uomini, permettono a questi treni di collegare per migliaia di chilometri le diverse città della Federazione Russa. Sono molto scrupolose nel loro lavoro e non perdono tempo nel richiamare e rimproverare qualcuno che infrange il regolamento o rovina l’armonia del loro regno. Il mio primo treno russo raggiungerà come ultima tappa la città di Severobaykalsk, dopo il lago di Bajkal, in direzione di Vladivostok, a quattro giorni da Mosca. Alcune delle dipendenti, con i dovuti turni, fanno il viaggio per intero. Le prime dieci ore mi servono da tirocinio. È importante capire come funzionano le cose. Sono su una delle cuccette superiori e non passa molto tempo prima che io capisca che sono meglio le cuccette in basso. C’è il tavolino, è lì che è possibile sedersi, chi sta in basso detta i tempi del pranzo, della cena, ecc…Meglio quindi trovare un buon vicino. Il primo è un uomo sulla cinquantina, pelato, con un tatuaggio sul braccio destro. Molti over 50 hanno gli stessi tatuaggi, ricordo del servizio militare fatto nell’Armata Rossa. Il mio primo vero mentore, sul primo treno russo, è Vadiel, uno studente di Omsk che per le vacanze estive lascia Mosca dove studia informatica e va a raggiungere la famiglia. Vadiel parla un discreto inglese e mi guida indicandomi dove vanno sistemati i bagagli e spiegandomi brevemente qual è il rapporto fra cuccetta superiore e cuccetta inferiore. È di origine tatara, sua madre è cristiana ortodossa, il padre è musulmano e lui non sa cosa essere. Durante la breve tappa a Nizhny Novgorod scendiamo dal treno per comprare qualcosa da mangiare e bere. Il chioschetto non vende birre ma non c’è da disperarsi. Le magre pensioni hanno costretto molte signore dall’aspetto di simpatiche nonnine a instaurare un vero e proprio contrabbando di alcolici. Nelle stazioni e sui treni ne è ufficialmente vietato il consumo. Non passa che qualche minuto e le
simpatiche nonnine escono dalle loro borse birre fredde a prezzi ragionevoli coperte da buste scure. Io e Vadiel ne compriamo due, offre lui dice, un ricordo per me della Russia, anche se, come il padre musulmano, è astemio. Finiti gli studi vorrebbe cercare lavoro a Kazan. È un ragazzo simpatico, poco più che ventenne, che in 25 ore ha mangiato un pacco di patatine, bevuto un succo di frutta, andato in bagno una sola volta, letto un paio di libri e dormito infine per quindici ore di fila. Il viaggio l’ha fatto più volte, conosce i tempi. Si sveglierà prima del mio arrivo a Yekaterinburg e così ci saluteremo. Oltre a studenti, militari, uomini e donne in viaggio per lavoro, i treni della linea transiberiana trasportano molte altre tipologie di viaggiatori. Faccio a Vadiel una domanda dalla risposta già scontata: gli aerei costano troppo e i treni no. Viaggiatori da soli o intere famiglie che vanno a trovare i parenti fanno le loro 25, 30, 40 ore di viaggio, munite di tutto il necessario. Ognuno ha uno zainetto o borsa apposita fornita di tutti i generi alimentari. Sul treno si parla, si mangia, si beve, si va in bagno, si dorme. Ciascuno con il proprio ritmo ciclico, un lavoro che va avanti da più di cento anni.
6. L’ora di Mosca (Yekaterinburg) Yekaterinburg – Irkutsk, dagli Urali al lago di Bajkal, circa 3300 km e 55 ore su un treno che è partito a Mosca e arriverà a Chita, estremo oriente russo. È il mio tratto più lungo, attraverso la sterminata taiga siberiana puntellata da piccoli villaggi con case in legno. Le fermate sono tante con soste anche di un’ora nei centri più grandi come Omsk e Novosibirsk. Nel nostro scompartimento da quattro posti uno è vuoto e lo rimarrà per tutto il resto del viaggio. Il primo occupante che incontro è un anziano signore con orologio dell’Armata Rossa, molto probabilmente un reduce. Scenderà dal treno dopo qualche ora. Sul tavolino in bellavista il suo coltellaccio. La prima volta si rimane un po’ intimoriti ma poi si capisce che tutti gli uomini in viaggio lungo la linea Transiberiana, più discrete le donne, posseggono due oggetti fondamentali, gli strumenti minimi per la trasversata: il bicchiere da tè e un coltellaccio per salame, frutta, ecc… Le altre compagne di viaggio sono Nina e Anya, due signore siberiane. La prima è salita con me a Yekaterinburg accompagnata da una donna, un ragazzo e dei bambini, forse la figlia e nipoti. Si salutano con sorrisi a abbracci, Nina ritorna a Irkutsk, è andata a trovarli. Anya torna a Ulan Ude e sostituisce l’uomo che è sceso. Entrambe sono cordiali e gentili. Ci allontaniamo da Yekaterinburg, due ore di fuso in più rispetto a Mosca che ne ha, durante l’ora solare, due in più rispetto all’Italia. In tutta la Russia treni e stazioni utilizzano l’ora di Mosca. Un controllo centralistico da parte del governo e una comodità per le ferrovie. Utilizzare per treni e stazioni gli orari con la differenza del fuso in centinaia di paesi e decine di città creerebbe caos e disguidi. La tua mente è quindi divisa in due: una parte è rimasta a Mosca e l’altra corre per la taiga cercando di aggiornare l’orario. Passiamo il tempo con svariati pseudodiscorsi fatti di gesti, segni e le mie dieci parole in russo. Dell’Italia conoscono i nostri vanti nazionali: Totò Cotugno, Al Bano e Celentano. Nina canticchia felicità. Poi si mangia, si beve il tè o il caffè e si dorme. Tutto continua e ricomincia. La mente, il corpo e il metabolismo sono sdoppiati in due. Una parte, forse quella più razionale, è ancora nella capitale, vicina ai palazzi del potere. L’altra è quella desiderosa di conoscenza, quella che durante la notte, insieme ad altre cinquecento persone, ascolta il rumore continuo delle ruote metalliche e si addentra nel ventre infinito di una terra chiamata Siberia.
A mezzanotte del secondo giorno arriviamo a Novosibirsk, la città più grande fra Yekaterinburg e Irkutsk. La sosta è di un’ora, esco per fare delle foto e prendere aria. Le zanzare attaccano appena scendi dal treno, la serata è afosa. Lungo la strada ferrata le emozioni sono molteplici, quasi metafora della vita. Centinaia di sigarette, scene di abbracci e saluti, famiglie che si dividono o si riuniscono, pensosi viaggiatori solitari, gli affari che non vanno, volti allegri, tristi, una fidanzata che piange. Scene che uniscono, in un unico abbraccio internazionale, a prescindere da età, sesso, opinioni politiche e religione, i binari di tutte le stazioni del mondo.
7. Irkutsk Arrivo a Irkutsk di prima mattina, siamo a più di cinquemila chilometri da Mosca, il lago di Bajkal è a circa settanta chilometri. Dopo un po’ di giri trovo un ostello vicino alla stazione, faccio una doccia, preparo il letto, esco. Dopo qualche centinaio di metri, mentre attraverso una strada quasi in prossimità del centro della città, vedo avvicinarsi un Suv nero che non ne vuole sapere di fermarsi, faccio uno scatto ed evito l’automobile di qualche centimetro con il suo proprietario che procede come se nulla fosse. Sebbene durante la stagione estiva la città abbia un discreto flusso turistico, alcuni abitanti non mostrano particolare gentilezza nei confronti degli stranieri. Maledico il Suv, tutta Irkutsk e continuo. A differenze delle città precedenti, il tessuto urbano presenta un mix di elementi europei e asiatici. Ex importante nodo commerciale delle pellicce e della seta proveniente dalla Cina, rifugio obbligato o volontario per dissidenti, per secoli ultimo avamposto russo in terra siberiana, ora Irkustk è caotica, industriale, piacevolmente trash. Molti lavoratori sono buriati o mongoli che raggiungono la città russa per un salario più alto. Le vecchie case in legno costruite trecento anni prima dai coloni cosacchi (foto1) convivono con centri commerciali e locali moderni. Il traffico è intenso e i limiti di velocità quasi inesistenti. Molte automobili sono ritoccate con marmitte grosse e rumorose, altre continuano la loro esistenza incidentate, senza paraurti o con qualche altra parte mancante. Dopo il mio quasi investimento, assisto a un quasi incidente. La giornata è calda. A differenza di Yekaterinburg che nelle 24 ore ha un clima sostanzialmente piacevole, Irkutsk presenta notti fresche ma giornate estive in cui la temperatura può tranquillamente superare i 40 gradi. Oggi è una di quelle. Vedo la città, varie fotografie, fra cui quella di un bambino che fa un giro sul cammello di un circo, ritorno in ostello. Saluto Masha, la ragazza che ci lavora, e vado in cucina a mangiare qualcosa. Arrivano quattro coreani, ci salutiamo, si sistemano nelle camerate. Arriva poi un viaggiatore solitario che suona uno scacciapensieri che dice di aver comprato a Mosca. Infine un signore sulla sessantina, vestito bene, forse qualcuno che gestisce l’ostello, in compagnia di una bambina, penso la nipote, e di un vietnamita. Quando scopre che sono italiano si accende in lui un’improvvisa luce. Avanza lentamente verso di me, mi abbraccia, appoggia la sua guancia sulla mia e inneggia a una presunta fratellanza italo-russo-buriata. È proprio in questo momento che ho un’illuminazione sulla città e i suoi abitanti: a Irkustk cercare di investire un viandante al suo primo ingresso in città è segno di cortesia e manifesta il benvenuto che la popolazione locale vuole rendere al forestiero.
foto 1
8. Ulan Bator Lascio Irkutsk e prendo il treno che mi porterà a Ulan – Ude, capoluogo della Repubblica Autonoma della Buriazia. Sono sempre in Russia ma la maggioranza della popolazione è buriata, etnia di ceppo mongolo. La tratta è la più breve, solo otto ore. Costeggiamo per quasi duecento chilometri il Lago di Bajkal e proseguiamo verso sud-est. Mi accorgo distrattamente che un paio di chilometri prima di arrivare a Ulan-Ude, a sinistra del binario, c’è un carro armato in pensione e svariate torrette di controllo. Fino agli anni ’90 la città era conosciuta per le numerose fabbriche di armi e affini. La sosta è di un giorno e una notte. È qui che sulla piazza centrale c’è la più grande testa di Lenin del mondo (ben 7 metri di altezza). L’indomani, prima del treno per Ulan-Bator, mi intrufolo nella sede centrale del Partito Comunista Buriato. La maggior parte delle impiegate sono donne. Mi accompagnano dalla signora che lavora come ufficio stampa, una donna corpulenta che mi fa accomodare, mi offre tè e tramezzini con burro e mi chiede cosa diavolo ci faccia lì. Rifiuto gentilmente i tramezzini ma la compagna ufficio stampa Dolzhidma Dorzhieva (foto 2) insiste dicendomi che non si può andare via dalla sede del partito senza aver mangiato qualcosa. Parliamo dello stato di salute dell’Internazionale comunista e dopo le racconto del mio viaggio. Dolzhidma mi dice che il partito buriato se la passa male e che per parecchi anni ha lavorato a Ulan-Bator. In Cina invece il partito è messo bene (chissà perché). Tramite me cerca di stabilire un collegamento con il partito in Italia ma io le spiego che da noi le dinamiche sono un po’ cambiate. Prima di fare una foto ricordo, la donna sparecchia la scrivania, dice che le foto con tè e tramezzini nella sede del partito non stanno bene. Scambiamo i contatti e ci salutiamo. Vado a visitare il museo di storia locale e poi continuo il mio giro per le strade della città. È qui che l’incrocio fra i due continenti e il multiculturalismo della Federazione Russa sono facilmente percepibili. In alcuni manifesti pubblicitari per capi d’abbigliamento è rappresentato un sorridente ragazzo buriato con occhi a mandorla che tiene sulle spalle una sorridente ragazza russa (foto 3). Per secoli terra contesa, adesso a Ulan-Ude buriati e russi convivono pacificamente con il benestare della politica governativa. La notte è stata movimentata. Siamo usciti dalla Russia e siamo entrati in Mongolia. I controlli doganali dalla parte russa sono lunghi e scrupolosi. Si ritirano tutti i documenti, si compila la dichiarazione bagagli, si consegna la carta di immigrazione, la polizia controlla tutti gli scompartimenti e, nonostante le precedenti e numerose verifiche già effettuate in territorio russo, si assicura che la foto del passaporto corrisponda alla fisionomia dei diretti interessati. Dopo qualche ora usciamo dalla Federazione Russa ed entriamo in Mongolia. Temendo poco attacchi terroristici, essendo fuori dai giochi internazionali e avendo molti interessi nei confronti degli occidentali che portano bei quattrini con il trekking, dalla parte mongola si percepisce invece un clima più distensivo. Il poliziotto addetto al controllo passaporti scherza con il mio nome italiano e velocizza le procedure. La permanenza nelle due stazioni al confine è di circa sei ore. Arrivo a Ulan Bator verso le 06,30 del mattino. L’ostello dista poco più di un chilometro. Intorno alla stazione e nel parco adiacente vedo il lento risveglio di un esercito di disperati che carica sulle spalle il proprio fagotto e ricomincia il suo continuo vagare per le strade della città. Nella capitale mongola gli esclusi dal passaggio al capitalismo sono davanti ai miei occhi. Non fanno caso a uno dei tanti occidentali con lo zaino in spalla. Sembrano fantasmi a cui la gente si è abituata e danno uno sconcertante tocco folcloristico alla prima vera e propria città asiatica. Sin dalle prime luci il traffico riprende incessante. Mi sistemo in ostello, la maggior parte degli ospiti è qui per trekking di
svariati giorni nelle vallate e alloggia nella capitale solo per i preparativi. Ulan Bator è una città chiassosa e molteplice. Accanto ai vecchi condomini di architettura sovietica sono stati costruiti enormi palazzi di vetro, simbolo dei nuovi tempi e della svolta economico-politica. Il giorno dopo mi reco al monastero buddista di Gandantegchenling (foto 4). Nel 1921, dopo la liberazione dall’oppressione della Cina Manchu, la Mongolia ha imboccato la strada del socialismo ed è diventata uno stato-satellite dell’Unione Sovietica fino alla svolta del 1989. In un manifesto di propaganda degli anni ’30 che ho visto successivamente al museo nazionale, è rappresentata una collina dalle cui spalle esce un carro armato con la stella rossa guidato da un fiero soldato mongolo che mette in fuga i monaci buddisti. Nelle intenzioni degli ideatori rappresentava il progresso di un una nuova civiltà che scaccia il passato, le sue strutture e le sue superstizioni. Adesso il buddismo e la libertà di culto sono tornati. E come accade per alcuni, in Italia lo sappiamo, diventano un business molto vantaggioso. Il monastero si erge su un quartiere di baracche abitato da disgraziati. Il biglietto di ingresso è di 4000 tugrik, circa un euro e cinquanta. Gli ingressi in un giorno estivo possono essere centinaia. I primi ad entrare sono il sottoscritto e una comitiva di una trentina di giapponesi. Loro sono tutti maschi sui cinquant’anni ad esclusione della guida e di una ragazzina, probabilmente figlia di uno di loro. Si tratta di un viaggio aziendale, pratica molto diffusa in Giappone, in cui il gruppo si amalgama, si crea coesione e si sta anche lontano dalle proprie mogli per godere delle bellezze locali. In molti casi le visite a monumenti e musei sono un puro ornamento ad altre attività culturali che si svolgono in piena notte. In ogni modo sia i monaci buddisti che i night manager fanno i loro guadagni (è ormai costume diffuso utilizzare vocaboli inglesi per parole che nella lingua madre potrebbero creare ambiguità o essere politicamente sconvenienti: il galoppino sfruttato e precario è quindi un runner, nelle cene di beneficienza dove i ricconi pensano di pulirsi la coscienza per le enormi disparità nella distribuzione della ricchezza non si fa la carità ma charity, il Piano Lavoro, parola alchemica che potrebbe far risvegliare le masse, è il Jobs Act. E infine i papponi adesso preferiscono considerarsi dei night manager). Tornando a noi, per fare le fotografie all’interno del tempio in cui appare subito un Buddha dorato alto dieci metri è necessario pagare una piccola sovratassa. Non accetto e pace alle fotografie all’interno, qualcuna la faccio di nascosto perché i buoni monaci sono sempre in agguato. All’ingresso uno di loro contava i primi incassi della giornata e li affidava a un malandato uomo della security. All’interno del tempio, davanti a dei piccoli Buddha votivi, vedo una grande teca di vetro piena di banconote lasciate dai visitatori come offerta. I giapponesi, forse per farsi perdonare le trasgressioni notturne, sono molto generosi. Una volta fuori dal tempio vedo uno dei buoni monaci che gira in macchina, una buona berlina, sicuramente un sogno per quelli che vivono nel quartiere fuori dal tempio. Vicino a questo è in costruzione un grande edificio a forma di tempio in cui non mi scandalizzerei se inserissero anche un baretto o addirittura un ristorantino. È così che la natura dell’uomo mi appare nella sua universalità. Dopo aver lasciato la S. Giovanni Rotondo mongola ritorno nel cuore pulsante di una città sempre in movimento. Alle spalle dei palazzi le colline e oltre, per centinaia di chilometri, le grandi praterie.
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9. Il cielo sopra Pechino
In compagnia di una ragazza cinese e di un ragazzo svedese, dopo 25 ore di treno da Ulan-Bator raggiungo Pechino. Dalika vive e lavora a Bruxelles. Mathias è un ingegnere dei trasporti che lavora per una compagnia danese. Non perdo tempo per cercare di carpire informazioni dalla prima donna di nazionalità cinese con cui mi trovo a parlare. Come percepiscono lei e i suoi familiari la figura di Mao Tse Tung, come può essere definito il modello economico cinese, qual è la situazione politica nel Tibet e nello Xinjiang, ateismo di stato, ecc…gli argomenti sono questi e poi la discussione si alleggerisce. Arriviamo a Pechino in tarda mattinata. L’hinterland è pieno di palazzi in costruzione e il cielo presenta la sua inconfondibile patina grigiastra. La stazione centrale è un girone infernale, un flusso continuo di uomini e donne impegnati nei loro piccoli e grandi affari. Al caldo umido è unita un’aria quasi irrespirabile. Durante i tre giorni di permanenza mi muovo fra gli hutong a est di Piazza Tienanmen, i quartieri storici fatti di piccole case ammassate e vicoli infiniti. In queste strade il traffico è limitato e l’aria diventa quasi normale. Gli abitanti mi guardano incuriositi, io procedo con discrezione. I loro volti non sono mai ostili. Una parte della città che non è stata ancora sacrificata al mostro che avanza. Sono passati venti giorni da quando con due zaini e una macchina fotografica sono uscito verso le 6 del mattino dal mio appartamento di Asti e ho raggiunto la stazione. La notte molti pensieri affollavano la mia mente. Adesso è arrivato il momento di ritornare, riportando tutto a casa. Dopo i numerosi controlli e il sequestro dei miei due accendini da parte della polizia cinese, mi siedo e aspetto. Fra un po’ ci sarà l’imbarco per il volo che da Pechino mi porterà ad Abu Dhabi e poi a Roma. Un uomo con occhi azzurri, capelli bianchi e tratti mediterranei è seduto al mio fianco. Ci salutiamo e incominciamo a parlare. Lui è un ingegnere navale, viene dalla Grecia, ha
moglie e figli. Periodicamente parte per periodi di circa quindici giorni e raggiunge i porti di mezzo mondo per occuparsi di assemblaggio dei motori. Mi elenca i paesi in cui è stato, sono decine e ci sono quasi tutti i continenti. Solo in Italia ha lavorato nei porti di Cagliari, Livorno, Genova, Venezia. Il suo sguardo è vivace ma nel fondo malinconico, quello di chi ne ha viste tante. Lentamente la discussione scivola sulla Grecia, l’economia, il disastro. A quel punto dà un segno di resa e restiamo in silenzio. Dopo qualche secondo, quasi come consolazione comica che solo il cabaret italiano può dare, mi chiede di Berlusconi e Renzi. Ritornano, per quanto amari, i sorrisi. L’imbarco è iniziato, ci mettiamo in fila e saliamo sull’aereo. Ci rincontriamo ad Abu Dhabi dove lui aspetta il volo per Atene. Ci salutiamo augurandoci buona fortuna. Io poi prenderò il volo che mi porterà a Roma Fiumicino, il treno da Fiumicino a Roma Termini, il treno da Termini a Torino Porta Nuova e infine quello da Torino ad Asti. È il 22 luglio dell’anno del Signore 2014, la giornata è nuvolosa, la temperatura piacevole e le colline del Monferrato scorrono dal finestrino.