numero 156 anno 16 novembre 2011
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il mensile della strada
de’tenis www.scarpdetenis.it
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ventuno Chi tutela il Quinto Stato?
Uomini che vedono passare i treni Il viaggio della loro vita ha un approdo precario: homeless sempre più numerosi nelle stazioni italiane. Cosa si fa per loro? Complessi i bisogni, diverse le risposte. E a Milano sta per nascere un Rifugio Milano E dopo di noi? Torino Lume di speranza Genova Incidenti e percorsi Vicenza Artigiani del sorriso Modena Notte coi volontari Rimini Per gli amici Scarp Firenze Vita da bipolare Napoli Claudio resta a casa Catania Giovanni ridotto a torcia Palermo Amore risveglia Psiche
editoriali
L’orgoglio che mobilita, in attesa di “consegnare” Roberto Davanzo direttore Caritas Ambrosiana
C
onsentitemi di far convivere in queste poche righe due sentimenti contrastanti, se non addirittura contraddittori. Già, perché la riapertura di quello che fu il “rifugio” di fratel Ettore scatena contemporaneamente orgoglio e rammarico, soddisfazione e mortificazione. Cerco di spiegarmi. Non ci sono dubbi che l’essere stati chiamati a ridare vita a un luogo che ha segnato un punto di non ritorno nella storia della solidarietà di Milano sia motivo di gratitudine e di orgoglio. Il “rifugio” di fratel Ettore è stato la testimonianza di una dedizione straordinaria verso quanti la vita ha visto gradualmente precipitare ai margini. Avere l’opportunità di ridire quella solidarietà, tenendo conPaolo Brivio to di quanto è cambiata la società e nel rispetto delle norme che in questi decenni il nostro paese si è dato, è una sfida intrigante. Rilanciare l’accoglienza notturna per una cinquantina di senza dimota per aprire un nuovo Rifugio. Ed è ra, cercando di mobilitare anzitutto forze volontarie e giovanili, è un’ottima notizia, anzitutto per coloro una scommessa che il “sistema Caritas” non poteva non accettache potranno fruire dei suoi letti, del suo re: proprio in una stagione di contrazione delle risorse destinate calore, della sua capacità di accoglienza. Peral sociale, non potevamo non esercitare uno sforzo di fantasia ché è vero che in Italia nel 2010 sono stati eroganel disegnare un modello operativo e organizzativo capace di te prestazioni in 2,6 milioni di casi (dato attestafar convivere poche, essenziali figure professionali, con – ci auto dal primo censimento nazionale sulla realtà guriamo – molte figure di volontari da formare, incoraggiare, delle persone senza dimora, di cui parliamo in quedotare di un senso di appartenenza a un progetto insieme sto numero, e di cui parleremo più ampiamente nel antico e moderno. prossimo) da parte delle strutture che si occupano di Ma dicevo che a questo sentimento di orgoglio rehomeless. Ma è altrettanto vero che questa mole di lasponsabile mi sento di dover affiancarne uno, quasi opvoro non basta, a dare ogni notte un riparo, a chi un tetposto, di rammarico e mortificazione. Per anni abbiamo to proprio non ce l’ha. E allora, prima di valutare politiinterpretato la nostra operatività con l’immagine della che e servizi, bisogna pensare a salvaguardare vite. Cosa sentinella. Di fronte alla domanda «perché di certi proche l’imminente Rifugio milanese farà, in modo generoblemi se ne deve occupare la chiesa?», la risposta che so e intelligente. ripetutamente ci siamo dati è andata nel senso delPerò, come attestano altri, ramificati e preoccupanti dal’anticipazione che sperimenta per consegnare. Non ci ti della stessa ricerca, il nostro paese si caratterizza per l’inesiamo mai pensati come “sostituti” della pubblica amsistenza di una strategia nazionale sulle politiche di contraministrazione. Ci siamo sempre visti come anticipatosto della grave emarginazione. E per la corrispondente asri, capaci di intercettare le povertà e i bisogni e di spesenza non tanto di erogazioni economiche (comunque inadeguate), ma di forme di programmazione concertata degli rimentare possibili soluzioni. Da “consegnare”: ecco ininterventi e dei servizi, a livello regionale e locale. vece quello che non ha funzionato. Il nostro anticipare Ne consegue che, per quanto si sforzino, i servizi (rie sperimentare aveva senso dentro la prospettiva di pofugi, e poi mense, unità di strada, centri diurni, sportelli di ter offrire alle istituzioni la nostra esperienza, perché la segretariato sociale, di ieri oggi e domani) finiscono per assumessero e la rendessero un modus operandi da atconcentrarsi, come attività principale, sull’erogazione tuare e replicare. Un “consegnare” tanto importante quandi prestazioni materiali. Mentre le azioni di reinserito decisivo, per potere liberare le nostre energie da impiemento abitativo, lavorativo e sociale rimangono defilagare per presidiare nuove povertà, nuovi bisogni. te, sullo sfondo, tra loro scollegate: senza una regia poEcco allora il motivo della frustrazione: dopo decenni di litica consapevole, difficilmente si aprono spiragli (animpegno nell’ambito della grave emarginazione, ci troviazi, meglio, prospettive) di reinclusione effettiva. mo a dover vivere il nostro protagonismo negli stessi serInsomma, un Rifugio serve. Ma bisogna evitare l’asvizi che – ci illudevamo – avrebbero potuto essere presi in suefazione assistenziale. Il rischio, cioè, che tutti credagestione dalla pubblica amministrazione. Noi e le realtà no sufficiente l’intervento materiale, quello che garantiche con i loro finanziamenti hanno reso possibile l’opesce sopravvivenza. Le persone senza dimora chiedono di razione. È forse questa la tanto declamata “sussidapiù. E noi con loro. Convinti che una società inclusiva sia – rietà”? Lasciateci almeno la libertà di porre la quecerto – più sicura. Ma soprattutto più umana. stione, di avanzare qualche sospetto.
Bene i letti, ma la regia?
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sommario Fotoreportage Rifugio caritas, la notte dello spot p.6
scarp Italia
cos’è È un giornale di strada non profit. È un’impresa sociale che vuole dar voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione. È il primo passo per recuperare la dignità. In vendita agli inizi del mese. Scarp de’ tenis è una tribuna per i pensieri e i racconti di chi vive sulla strada. È uno strumento di analisi delle questioni sociali e dei fenomeni di povertà. Nella prima parte, articoli e storie di portata nazionale. Nella sezione Scarp città, spazio alle redazioni locali. Ventuno si occupa di economia solidale, stili di vita e globalizzazione. Infine, caleidoscopio: vetrina di appuntamenti, recensioni e rubriche... di strada!
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La ricerca Homeless: diamo un volto agli “invisibili” p.20
L’approfondimento
come leggerci
Per contattarci e chiedere di vendere
L’inchiesta Lungo i binari c’è chi si ferma p.12
Curarsi ai tempi della crisi p.22
L’intervista Ermanno Olmi: «Gli atti di carità, il bene comune» p.26
scarp città Milano Gallaratese, i disabili e il dopo di noi p.28 Rapporto Caritas, povertà in ascesa p.32
Torino Due Tuniche, un Lume di speranza p.42
Genova I disegni e la vespa, incidenti e percorsi p.44
Vicenza Otto e Giulia, artigiani del sorriso p.46
Modena Torna a casa soltanto chi può p.48
Rimini Mi chiamo Franco, per gli amici Scarp p.50
Firenze Vita da bipolare nel baratro dell’alcol p.52
Napoli Nove su trenta, Claudio resta a casa p.56
Catania Giovanni la torcia, in strada si muore p.59
Palermo Amore accoglie, Psiche si risveglia p.62
scarp ventuno Dossier Noi, quinto stato qualificati e sfruttati p.66
Stili E puliamoli questi jeans p.70
caleidoscopio Rubriche e notizie in breve p.77
scarp de’ tenis
Il mensile della strada Da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe - anno 16 n. 156 novembre 2011 - costo di una copia: 3 euro
Per abbonarsi a un anno di Scarp: versamento di 25 € c/c postale 37696200 (causale ABBonAmento ScArP de’ tenIS) Redazione di strada e giornalistica via Copernico 1, 20125 Milano (lunedì-giovedì 8-12.30 e 14-16.30, venerdì 8-12.30), tel. 02.67.47.90.17, fax 02.67.38.91.12 Direttore responsabile Paolo Brivio Redazione Stefano Lampertico, Ettore Sutti, Francesco Chiavarini Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli Redazione di strada Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Tiziana Boniforti, Roberto Guaglianone, Alessandro Pezzoni Sito web Roberto Monevi, Paolo Riva Hanno collaborato Aghios, Andrea Barolini, Damiano Beltrami, Simona Brambilla, Roberto Capuano, Marcella Caluzzi, Maria Chiara Catania, Salvatore Couchoud, Umberto D'Amico, Massimo De Filippis, Giuseppe Del Giudice, Maria Di Dato, Maria Esposito, Sara Galasso, Massimiliano Giaconella, Silvia Giavarotti, Maria Chiara Grandis, Franco Gentile, Gaetano “Toni” Grieco, Laura Guerra, Elena Leoni, Bruno Limone, Paolo Meneghini, Paola Malaspina, Mary, Gheorghe Mateciuc, Mirco Mazzoli, Emanuele Merafina, Alessandra Mercurio, Mirella, Silvia Montella, Mr Armonica, Nemesi, Stefano Neri, Aida Odoardi, Marianna Palma, Daniela Palumbo, Cinzia Rasi, Paolo Riva, Nadia Sabatino, Generoso Simeone, Roberto Stramonio, Sandra Tognarini, Valentina, Antonio Vanzillotta, Gabriella Virgillitto, Marta Zanella, Yamada Foto di copertina Romano Siciliani Foto Riccardo Benvegnù, Archivio Scarp Disegni Claudia Ferraris, Silva Nesi, Psichedelio, Luigi Zetti Progetto grafico Francesco Camagna e Simona Corvaia Associato all’Unione Editore Oltre Società Cooperativa, via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo Stampa 1996 Stampa Tiber, via della Volta 179, 24124 Brescia. Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero Periodica Italiana è in vendita dal 13 ottobre al 17 dicembre 2011.
La notte dello spot Per raccontare un progetto di qualità occorreva puntare sulla qualità. In tutto. Anche per lo spot che presenta, con le facce e le storie dei venditori di Scarp, il nuovo Rifugio Caritas alla stazione Centrale, progetto sostenuto da Enel Cuore, Fondazione Cariplo, Ferrovie dello Stato, Fondazione Milan onlus con la collaborazione di Trenord. E così la macchina da presa è stata affidata a Giacomo Gatti, regista giovane ma affermato. E con la sensibilità giusta per raccontare la storia di una panchina, che non sarà più un letto. Vi portiamo dietro le quinte del minifilm che impreziosisce la campagna di comunicazione per il Rifugio. Grazie anche all’impegno di BB Productions, di Paolo Pelizza, alla sua troupe e ai tanti che hanno dato una mano, ora lo spot è pronto per andare in onda! Giacomo Gatti nasce a Milano dove vive e lavora come regista, docente e giornalista. La passione per il cinema inizia alle scuole medie. Tra il 1999 e il 2005 diventa aiuto-regista pubblicitario. Alternando l’attività professionale a quella artistica riesce, con quattro cortometraggi girati in pellicola 35 mm, a ottenere riconoscimenti in festival nazionali e internazionali. Nel 2005 firma la regia di Genio Perpetuo, “promo” internazionale della Biennale d’Arte di Venezia. Dal 2006 inizia la collaborazione con il regista Ermanno Olmi per cinque film-documentari, tra cui, già distribuiti, Kounellis – Atto unico, Terra madre, Rupi del vino (con il ruolo di “collaboratore alla regia”). Nel 2010 realizza il documentario 170 anni dell’Istituto dei Ciechi di Milano; nel 2011 partecipa al film collettivo Milano 55,1 - Cronaca di una settimana di passioni, sulle elzioni che portano Giuliano Pisapia a diventare sindaco di Milano. Riccardo Benvegnù fotografo, regista teatrale, giornalista e bancario di professione. Come fotografo di scena ha curato i backstage dei film di Giacomo Gatti
6. scarp de’ tenis novembre 2011
fotoreportage
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La notte dello spot
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fotoreportage
Costumi, trucco, macchine di scena. E poi il vento, la nebbia, il treno che si muove a comando. E la Centrale di notte, che prende vita con le facce di Scarp. Tanti elementi e tante idee, per costruire un piccolo film che racconta, con rispetto e con un tocco di poesia, la dura condizione di tanti homeless. Tirando la volata al Rifugio...
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TRENORD PER LA LOMBARDIA CHE SI MUOVE
Una società unica in Italia, esclusivamente dedicata al trasporto ferroviario regionale. Un nome in cui si fondono la storia e la competenza di due leader: Trenitalia e LeNORD (FNM). Una missione chiara: dare risposte nuove ed efficaci alla domanda di mobilità pubblica dei cittadini lombardi.
WWW.TRENORD.IT
NUMERO VERDE 800.500.005
anticamera Aforismi di Merafina I RAMI I rami degli alberi sono come le braccia dei bambini L’OROSCOPO L’oroscopo sbaglia perchè le stelle non stanno ferme IL FUTURO Il futuro è una grande sfida di bugie
Notte d’autunno Notte d’autunno umida di pioggia. Le nubi stanno sospese sull’estremo orizzonte del mare. Splende la luna su di esse, pallida attraverso la nebbia. Paiono le nubi oscure isolette, magico arcipelago che muta forma all’alito del vento. Chi ospitate, isolette vaganti sul mare immoto? Forse le stelle stanche, in viaggio nel lungo cammino della notte. Mary
Se sarò Tutto ha un inizio e una fine, il vecchio lascia il posto al nuovo non devo avere paura del domani perché diventerà un oggi e poi un ieri. Sarà ciò che sarà anche se sarò più forte o più debole in svariate situazioni. Il mio spirito giocondo mi avvolge fra le sue grandi ali, mi sussurra dolcemente che ci sarà un domani Cinzia Rasi
Sabrina è una rosa blu Sabrina è una bambina un’amabile bambina diversa da quasi tutte le altre. Ma chi ha detto che tutte le persone debbono essere uguali, pensare, agire, apparire uguali? Per me Sabrina è come una rosa blu, avete mai visto una rosa blu? Ci sono le rose bianche, le rose rosa, le rose gialle e un’infinità di rose rosse, ma blu? Un giardiniere sarebbe felice di avere una rosa blu; la gente verrebbe da lontano per vederla, sarebbe rara, diversa, bella. Anche Sabrina è diversa ecco perché in qualche modo è come una rosa blu. Ci sono molte cose che Sabrina non capisce e ci sono molte cose di Sabrina che gli altri non capiscono: che Sabrina è come un gattino senza coda, che Sabrina sente una musica diversa, che Sabrina deve essere protetta. Sabrina è come una rosa blu delicata e bellissima. Ma le rose blu sono così rare che ne sappiamo poco, troppo poco; sappiamo solo che hanno bisogno di essere curate di più e di essere Amate di più. Dal nonno per Sabrina novembre 2011 scarp de’ tenis
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Homeless in stazione. Sempre più numerosi. Che si fa per loro?
Lungo i binari c’è chi si ferma Difficile dire quanti siano. L’anno scorso, Fs ne ha contati 13 mila in 11 scali ferroviari del paese. Sono soprattutto uomini e stranieri. Vi si rifugiano perché, in fondo, la stazione è un buon luogo dove stare se non si ha casa: offre riparo, sicurezza, incontri. Ma non è il posto giusto: infatti le Ferrovie, tramite la rete sempre più fitta degli help center, provano a porre le condizioni per percorsi di reinserimento sociale
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di Francesco Chiavarini In stazione c’è chi arriva e se ne va. E chi arriva e si ferma. Secondo una celebre definizione del sociologo polacco Zygmunt Bauman, i primi sono i turisti che viaggiano perché lo desiderano, attratti irresistibilmente dal mondo globale. I secondi sono i vagabondi, che si muovono perché trovano inospitale, fino ai limiti della sopportazione, il piccolo mondo locale in cui sono confinati. Gli appartenenti all’una e all’altra categoria solo raramente si incrociano. Quando accade, non è sempre per scambiarsi qualche parola carina o di conforto. Più spesso si ignorano, preferendo seguire le traiettorie delle loro vite, come su due binari paralleli. Ma come il dottor Jekyll e mister Hyde, gli uni contati 13 mila, in 11 stazioni, lungo tute gli altri sono, in realtà, le due identità ta la penisola, da Chivasso a Catania. dello stesso organismo (sociale), le due Il dato è largamente sottostimato. facce della stessa medaglia. Così, menTuttavia, poiché corrisponde a persone tre sono aumentati i primi, sono crevere, costituisce, come dicono gli espersciuti in numero anche i secondi. ti, un campione statisticamente rappreNegli ultimi anni le stazioni ferroviasentativo. Quindi, se non precisa davverie, non potendo trattenere i viaggiatori, ro quanti sono i mister Hyde delle stahanno cercato almeno di intrattenerli, zioni, può dirci almeno e con molta pretrasformandosi in piazze commerciali, cisione chi sono. Ebbene, se state con negozi, ristoranti, locali sempre più pensando a un tizio, italiano, con la barsimili a quelli che si potrebbero trovare ba bianca, i capelli scarmigliati, i vestiti nei centri cittadini. Così facendo, divensdruciti, alito aromatizzato dall’alcol, tando sempre più città nelle città, i vecinnamorato della vita randagia, siete chi scali ferroviari sono risultati anche fuori strada. A dispetto delle apparenze, più attraenti per i vagabondi, che si soil vagabondo, l’alter ego del turista, il no riversati tra i binari, dando vita a un mister Hyde delle stazioni è un giovane, universo sempre più multietnico ed spesso di carnagione scura senza essere eterogeneo, in cui le vecchie storie di didi colore, in ogni caso straniero, masagio si sommano alle nuove forme schio, con la disperata voglia di trovare dell’esclusione sociale. una casa e un lavoro, quindi di sottostare alle stesse regole e di godere degli Alter ego del turista identici benefici del suo invidiato dottor Quanti sono, in Italia, gli homeless che Jekyll. “abitano” le stazioni? In un paese che Stando, infatti, ai dati dell’Onds, solo recentemente si è proposto di cenpubblicati a marzo nell’indagine “Mind sire, dopo decenni, i suoi senza tetto, la the Gap”, i due terzi dei senza dimora prima e banale domanda non ha una censiti sono uomini (il 73%) e stranieri risposta altrettanto semplice. Le stime (il 78%), prevalentemente nordafricani variano di molto. La sola cosa certa è (provenienti da Marocco, Eritrea, Egitto, che nel 2010 l’Osservatorio nazionale Somalia, Algeria e Tunisia) ed est-eurosul disagio e la solidarietà (Onds), voluto pei (Romania, Polonia, Ucraina). Più dal Dipartimento delle politiche sociali della metà di loro (il 54%) ha meno di 40 delle Ferrovie dello Stato italiane, ne ha
l’inchiesta
Minoranza italiana Gli italiani che guardano passare i treni, senza doverli prendere, sono invece ormai una minoranza, il 22%. Ma nemmeno loro corrispondono al ritratto tradizionale del clochard romantico delle pellicole cinematografie. «Soprattutto nelle stazioni di provincia del Sud Italia, dove la presenza degli italiani è più alta rispetto alla media nazionale – afferma
lo studio Onds –, sempre di più accanto agli emarginati cronici, quelli che più assomigliano ai nostri cliché, compaiono giovani disoccupati o persone più mature, tra i 40 e i 50 anni, espulse dal mondo del lavoro». «La stazione raccoglie il disagio che non trova risposta in città. È sempre stato così. E lo è a maggior ragione ora che la stazione è diventata un centro commerciale – osserva Alessandro Radicchi, direttore dell’Onds –. Se ci si pensa un attimo, la stazione è un buon posto per chi non ha una casa dove tornare la sera. È un riparo dalla pioggia e dal freddo, che viene pulito regolarmente. È un luogo sicuro, perché presieduto dagli agenti della Polfer, percepiti dalle persone in strada più spesso come una garanzia dalle aggressioni di altri emarginati che come una minaccia. Inoltre, in stazione ci si può lavare. E poi passa tanta gente: può capitare, più o meno casualmente, che qualcuno perda il portafoglio. Ma se è vero che è un buon posto, tuttavia non è il posto giusto dove un senza dimora possa stare. Per il sem-
Il popolo delle stazioni 13 mila FONTE: OSSERVATORIO NAZIONALE DISAGIO E SOLIDARIETÀ
anni. Per costoro «la condizione di homeless – afferma lo studio – rappresenta una tappa obbligata, quasi un rito di passaggio verso l’inserimento nella nuova società, tappa alla quale segue in molti casi una sistemazione più accettabile». In stazione, insomma, pure loro cercano di trattenersi il meno possibile. Ma la durata dell’attesa, in questo caso, non dipende dagli orari del treno, bensì dall’arrivo di una sanatoria che apra inaspettatamente la possibilità di regolarizzarsi, da un’offerta di un lavoro più o meno in chiaro, dalla generosità, più o meno pelosa, di un connazionale che offre un alloggio.
i senza dimora in 11 stazioni italiane, censiti nel 2010
73%
gli uomini tra gli homeless censiti
78%
gli stranieri tra gli homeless censiti
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le stazioni in cui Trenitalia, tramite Onds, ha aperto help center
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le persone senza dimora che potranno essere accolte dal nuovo Rifugio Caritas in stazione Centrale, a Milano
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lungo i binari c’è chi si ferma plice fatto che è stata costruita per altri scopi». Proprio per aiutare i senza tetto a capire la differenza che passa tra un posto buono per loro e un posto giusto dove potere sperare di migliorare la propria condizione, le Ferrovie hanno aperto nelle stazioni gli help center. In questi sportelli, gli operatori non offrono assistenza in senso proprio, ma orientano gli homeless verso altri servizi cittadini: dormitori, mense, centri diurni, ambulatori. Strutture che possono essere presenti fisicamente anche nei pressi delle stazioni, come nel caso di Roma Termini, dove accanto allo sportello sorgono anche un centro diurno, un poliambulatorio, un ostello e una mensa. O come accadrà a Milano, dove sta per aprire i battenti un rifugio notturno, proprio sotto i binari della Centrale. «Proprio questi due casi dimostrano in modo inequivocabile che le Fs non vogliono solo allontanare i senza dimora dalle stazioni, facendo un repulisti di presenze scomode – commenta Radicchi –. Al contrario, vogliono un’operazione autenticamente sociale: gli homeless vengono aiutati a uscire dalle stazioni, per evitare che, rimanendoci, si trasformino in casi cronici. Per questo motivo gli help center sorgono solo là dove ci sono almeno due condizioni: un
comune sensibile e disponibile a farsi carico delle sue responsabilità, anche nei confronti dei cittadini più bisognosi; un vivace tessuto di associazioni ed enti non profit, impegnati nell’assistenza sociale. Senza queste due garanzie, non è possibile immaginare percorsi di emancipazione fuori dalle stazioni, e non avrebbe senso creare uno sportello che di quel cammino è il primo passo».
Milioni sul piatto Il primo help center ad aprire i battenti, in Italia, è stato nel 2000 quello della stazione Centrale di Milano. Poi, nel 2002, è stata la volta di Roma Termini. Dalle due esperienze iniziali, e dopo la sottoscrizione di una convezione tra Associazione nazionale dei comuni italiani e Ferrovie dello Stato, è nata la rete degli sportelli di ascolto. Nel 2008 un significativo impulso alla costruzione del network sociale è stato dato dal progetto “Cuore in stazione”, firmato da Fs ed Enel Cuore, onlus collegata al colosso nazionale dell’energia elettrica, che ha deciso di mettere sul piatto 3 milioni di euro, in tre anni, per la ristrutturazione di nuove sedi, il potenziamento delle attività presenti, l’acquisto di camper mobili. Attualmente gli help center sono operativi in 11 stazioni della penisola (Roma Termini, Milano, Genova Corni-
gliano, Bologna, Firenze Santa Maria Novella, Chivasso, Pescara, Napoli, Foggia, Catania e Rimini). Sono iniziati i lavori a Torino e Menfi e si sono gettate le basi per prossime aperture a Messina, Mestre, Trieste, Lecce, Como, Bologna, Bari, Varese, Ancona, Perugia. Poiché la preoccupazione di salvaguardare il decoro delle stazioni e offrire, nel contempo, un aiuto ai senza tetto che vi abitano non è solo italiana, molte
Rifugio notturno per 56, qui operò
Il nuovo centro d’accoglienza in Centrale: collaborano Fs, Enel Cuore, Fondazione Cariplo Un posto per chi non sa dove passare la notte. Un luogo dove essere accolti e ripartire. È questo il “Rifugio Caritas”, il dormitorio, che sta per essere realizzato nei pressi della stazione Centrale di Milano. Il centro di accoglienza sarà in grado di offrire 56 posti letto, aprirà ogni sera alle 18 (alle 19 in estate) e chiuderà alle 8.30 della mattina. Gli ospiti avranno a disposizione lenzuola e coperte, un armadietto per il deposito del vestiario, la possibilità di utilizzare un locale lavanderia. La mattina potranno fare colazione. Il Rifugio Caritas sarà, come si dice in gergo, un servizio a bassa soglia, concepito quindi per dare ai senza dimora una risposta immediata a un bisogno concreto e urgente: quello di trovare un riparo per la notte. Per questa ragione, una quota dei posti sarà anche a disposizione per l’accoglienza dei casi più disperati: gli homeless che gli agenti della
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polizia e i volontari incontrano per strada, persone talmente marginali e disorientate che non hanno nemmeno la forza di chiedere aiuto. Tuttavia, il centro potrà anche essere la tappa di un percorso di emancipazione. Almeno questo è quello che cercheranno di fare i due operatori part time in servizio e i volontari, orientando gli ospiti verso la rete dei servizi sociali presenti in città.
Fu visitato da Madre Teresa Il centro di accoglienza sarà operativo dall’inizio del prossimo anno. Ma prima di Natale è prevista l’inaugurazione, alla presenza dell’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, e delle autorità cittadine. Per il mondo della solidarietà milanese, l’apertura di questa struttura ha un si-
l’inchiesta qualificazione degli anni Novanta ha continuato a essere il punto di raccolta del disagio sociale: oggi vi bazzicano circa 400 senza tetto, che si mescolano ai circa 120 mila passeggeri al giorno.
Modello in Europa
grandi città europee hanno elaborato strategie di risposta. La Gare du Nord di Parigi, che con i suoi 800 mila passeggeri al giorno è uno degli snodi più importanti al mondo, ospita al suo interno, e nella zona circostante, a seconda delle stagioni, una popolazione tra i 600 e gli 800 senza dimora. A Berlino, la stazione nei pressi dello Zoo, frequentata negli anni Settanta e Ottanta da prostitute e tossicodipendenti, anche dopo la ri-
«A parte la Spagna che, per ragioni di sicurezza, dopo l’attentato della stazione di Atocha a Madrid dell’11 marzo 2004 ha interdetto ai senza dimora gli scali ferroviari – spiega Carlo Carminucci, dell’Istituto superiore di formazione e ricerca per i trasporti – in tutti gli altri paesi le aziende ferroviarie hanno preso atto che i soggetti gravemente emarginati sono una presenza con la quale bisogna fare i conti». Le ferrovie francesi, ad esempio, controllano attività di assistenza all’interno delle stazioni, stipulando convenzioni con le organizzazioni non profit. Le ferrovie tedesche, attraverso l’intermediazione della Bahnhofsmission, l’organismo per gli interventi sociali del gruppo, coordinano attività di ascolto e orientamento verso la solida rete dei servizi municipali. A seconda della storia e delle tradizioni di ogni paese, emergono insomma stili e modalità di intervento diversi. Da qualche tempo, tuttavia, si guarda proprio all’Italia come a un modello. Nel 2010 anche la Fondazione delle fer-
rovie spagnole, infatti, ha aderito alla Carta europea della solidarietà, promossa dalle reti ferroviarie di Italia, Francia, Belgio, Lussemburgo e Polonia. Le reti firmatarie hanno ottenuto l’approvazione, da parte della Commissione Ue, del progetto Hope in Stations, che indica proprio gli help center, realizzati dal gruppo ferroviario italiano, come strumento innovativo per fronteggiare il degrado sociale nelle stazioni. «È ancora presto per dire se sorgeranno anche a Parigi o a Varsavia sportelli come i nostri. Certamente – assicura Franca Iannaccio, ricercatrice dell’Onds che segue il progetto europeo – siamo un punto di riferimento». La punta più avanzata di conciliazione di interessi contrapposti: quello dei viaggiatori e dei vagabondi. Nell’attesa che il dottor Jekyll e mister Hyde scoprano di assomigliarsi più di quanto credono. Anzi, di esser le due identità dello stesso corpo sociale. E in fondo, dello stessa umanità.
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Un centro accogliente In basso, un’anticipazione di come sarà l’ingresso del Rifugio Caritas in Centrale, realizzato con il contributo di Enel Cuore, Ferrovie dello Stato, Fondazione Cariplo e Fondazione Milan
Fratel Ettore
o, Fondazione Milan e Caritas gnificato anche simbolico. Il nuovo servizio si trova in via Sammartini, in uno dei tunnel sotto i binari: non uno spazio qualsiasi, ma i locali dove per anni Fratel Ettore Boschini, noto a tutti semplicemente come Fratel Ettore, ha offerto fino alla sua morte, nel 2004, sostegno e riparo agli “ultimi della fila”, catalizzando anche l’entusiasmo di centinaia di volontari, che hanno voluto condividere con lui una fondamentale pagina della storia dell’impegno sociale meneghino. Impegno consacrato anche dalla visita, nel 1979, di Madre Teresa di Calcutta all’ostello di Fratel Ettore. Il nuovo dormitorio nasce ora da una collaborazione di più soggetti: verrà aperto grazie al contributo di Enel Cuore (la onlus di Enel), Ferrovie dello Stato
Italiane (che mettono a disposizione gli spazi) e Fondazione Cariplo, nell’ambito del progetto “Un cuore in stazione”. L’iniziativa è stata sostenuta anche da
Fondazione Milan. I soggetti finanziatori e donatori hanno chiesto a Caritas Ambrosiana di farsi carico della gestione.
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lungo i binari c’è chi si ferma
La stazione di Milano non è più la stessa. Tutta nuova. Ma continua ad attrarre chi non ha casa. Italiani “cronici”, stranieri protetti da San(s) Papier
Scintillante Centrale, ci dormono in tanti di Paolo Riva
Sabato sera di fine ottobre. San Siro è pieno per Inter-Juve. La Centrale un po’ meno, almeno di viaggiatori di passaggio. Le persone che dormono nelle sue vicinanze invece sono tante. Lungo via Aporti e via Sammartini, che costeggiano i binari, molti degli ingressi ai depositi della stazione accolgono giacigli di fortuna. Nell’ombra, ma anche a un paio di metri dai turisti che salgono e scendono dai pullman per gli aeroporti. Tra cartoni e materassi, sacchi a pelo e coperte, i pochi volti che spuntano sono spesso stranieri. Poco più in là, in piazza Luigi di Savoia, la polizia locale effettua controlli su giovani immigrati. Appena sbucati su piazza Duca d'Aosta invece, a poca distanza dall’inA ben vedere però, forse, San Benegresso della metropolitana, c’è un andetto Giuseppe Labre o San(s) Papier ziano senza dimora che spinge un carsarebbero stati una scelta più azzeccata. rello della spesa con tutti i suoi averi. Sta Il primo è un santo vero ed è consideracercando un posto dove passare la notto, volgarmente, il protettore dei “barte. Che, per fortuna, non si preannuncia boni”. Il secondo, invece, è un’invenziotroppo rigida. O, almeno, non rigida ne moderna e, secondo diversi collettiquanto era stato il dicembre dello scorvi, veglierebbe su tutti i migranti irregoso anno. Allora, dopo la morte per assilari. Entrambe le categorie, in Centrale, deramento di una senzatetto ucraina, in sono ben rappresentate. «Ogni giorno piazza Duca d’Aosta erano state mondi qui passano circa 250 persone per i tate due tende della Protezione civile. motivi più vari. Alcuni solamente per Avrebbero dovuto accogliere le persone guardare la tv e stare al caldo. Altri persenza un posto dove dormire, ma seché cercano aiuto e vengono al nostro condo molte delle associazioni che servizio d’ascolto. Generalmente sono operano nel settore, sono state un’espesenza dimora cronici o immigrati irrerienza negativa. Per alcuni, addirittura golari». A parlare è Maurizio Rotaris, refallimentare. sponsabile, per la fondazione Exodus, di Sos Stazione Centrale. Il centro è Un’africana nel vuoto aperto ormai da 21 anni e, insieme a Un anno dopo, smontate le tende, la quello gestito direttamente dal comune piazza rimane tagliata in due dai lavori di Milano, è uno dei due help center deldi riqualificazione dello spazio antistanla stazione. te la stazione e nel mezzo della facciata Secondo gli operatori, gli stranieri dello scalo spicca un tetraedro illuminaprivi di una sistemazione stabile costito. É un’installazione di acciaio e luce tuiscono i due terzi del totale delle predell’architetto Mario Botta, dedicata a senze attorno alla Centrale e sono in Francesca Cabrini. É stata posta qui nel crescita, mentre gli italiani sono prevanovembre 2010, quando – a lavori di lentemente senza dimora “radicati”. Inrinnovamento della Centrale quasi ultifatti, entrati in stazione e passati di fianmati –, il portico d'ingresso è stato recinco alle serrande abbassate degli oltre 90 tato per impedire l’accesso notturno agli negozi dello scalo ferroviario rinnovato homeless, e la stazione è stata dedicata, e riadattato a scintillante centro comsu proposta dell’allora sindaco Letizia merciale, si incontra un gruppo di hoMoratti, alla patrona degli emigranti.
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meless che sembra essere in strada da parecchio. Resteranno nei pressi delle partenze dei Frecciarossa fino a che le forze dell’ordine non li costringeranno ad andarsene. In stazione funziona così, ormai da una quindicina di anni. Al binario 11, ormai vuoto, c’è invece una ragazza africana. Si dimena. Muove la testa nervosamente, come a dare violenti colpi in aria, al nulla. É una di quelle persone che il nuovo assessore comunale alle politiche sociali, Pierfrancesco Majorino vorrebbe inserire in “una mappa milanese dei nuovi poveri”, per poterli far entrare nel circuito dei servizi. Vicino a lei ha il suo unico bagaglio: una grande borsa da discount in plastica bianca.
Soglia bassa, è importante È domenica ora, e la stazione è affollata. La ragazza africana, invece, è più tran-
l’inchiesta
L’impegno di Ferrovie dello Stato Italiane e di Enel
I progetti di Fs nel sociale. Per portare “Un cuore in stazione”
quilla. Rimesta nella confusione della sua borsa. Cerca dei fazzoletti. Si intravedono coperte e confezioni di assorbenti. È seduta all’inizio di un binario e sopra la sua testa uno dei grandi schermi pubblicitari passa lo spot di un settimanale femminile ricco di consigli per la cura del corpo. Il suo, di corpo, è trasandato, sporco, con le treccine nere che si sono aggrovigliate in appariscenti rasta. Alla Casa della carità se la ricordano: nel 2007 ogni tanto compariva al servizio docce della struttura. Anche se priva dei documenti, era conosciuta dagli operatori, si capiva che la lunga permanenza in strada le aveva causato qualche problema di salute mentale. Non è mai diventata un’ospite della Casa. Difficilmente sarà stata in altri centri. «In gran parte, a Sos Stazione Centrale arrivano persone che non vanno nei dormitori e che, più in generale,
Esperienza fallimentare? Le tende anti-freddo montate l’anno scorso in piazza Duca D’Aosta
Le stazioni, soprattutto nelle grandi metropoli e in ogni parte del mondo, non rappresentano solo il centro della mobilità urbana, ma anche, purtroppo, il luogo dove maggiormente si concentra il disagio sociale. Per questo il Gruppo Fs ha avviato numerosi progetti sociali nelle aree ferroviarie, d‘intesa con l’associazionismo e gli Enti locali. Il risultato di questa sinergia Ferrovie Italiane - enti locali - terzo settore sono gli Help Center, sportelliantenna della rete di solidarietà cittadina, presenti nelle principali stazioni italiane. Il loro compito istituzionale è quello di avvicinare e ascoltare le persone in difficoltà e indirizzarle verso le strutture dedicate presenti sul territorio. Nel 2010, a livello nazionale, la rete degli Help Center, coordinata dall’Osservatorio Nazionale sul Disagio e Solidarietà nelle Stazioni, ha effettuato circa 140.000 interventi, prendendo in carico 13.500 nuove persone con disagio sociale. Ogni giorno mediamente sono effettuati dagli Help Center circa 330 interventi di aiuto, e circa 50 nuove persone disagiate sono avviate al percorso di reinserimento sociale. In questi anni l’Help Center è diventato un modello europeo e grazie al progetto Hope In Stations, finanziato dalla Commissione Europea, apriranno Help Center anche nelle stazioni di Parigi, Bruxelles, Lussemburgo e Varsavia. Ma l’impegno sociale di Fs non riguarda solo la costituzione di Help Center. In molte importanti stazioni sono attivi Centri diurni, notturni per persone senza fissa dimora, gestiti dalle più grandi realtà associative italiane, come la Caritas, Sant’Egidio, la Fondazione Centro Astalli. In questa linea di attenzione al sociale si inserisce il nuovo Rifugio Caritas di Milano Centrale in via Sammartini. Gli oltre 700 mq di locali, concessi dal Gruppo Fs alla Caritas Ambrosiana in comodato d’uso gratuito per vent’anni rinnovabili, sono stati ristrutturati grazie allo sforzo finanziario di Enel Cuore e di Fondazione Cariplo. Ma il contributo di Ferrovie dello Stato Italiane non si esaurisce qui. Da dicembre anche i volontari del Gruppo Fs scenderanno in campo come protagonisti di una grande raccolta fondi sui treni dove si chiederà ai nostri clienti di acquistare un panettoncino per contribuire al finanziamento di questa iniziativa. È il nostro contributo all’Anno Europeo del Volontariato, e un modo per dare concretezza ai principi fondanti del “Libro verde sulla responsabilità sociale d’impresa” della Commissione Europea, che ispirano il nostro lavoro. Daniela Carosio - direttore comunicazioni esterne Ferrovie dello Stato Italiane hanno poco a che fare con i servizi – continua Rotaris –. Chi è homeless fatica a entrare nei centri di accoglienza. A volte si rifiuta. Chi non è in regola con i documenti, invece, è molto diffidente. Secondo me, la prima accoglienza dovrebbe essere un diritto per tutti, come il sistema sanitario. Eppure con la giunta Moratti queste tipologie di poveri non erano considerate. Erano invisibili. Cosa farà Pisapia?». Il 28 ottobre il comune ha varato il nuovo piano anti-freddo, che parte a metà novembre. Prevede il 10% di posti letto in più rispetto all’anno scorso, maggiore coinvolgimento di associazioni e cittadini e lo spostamento delle tende di piazza Duca d'Aosta nella sede della Protezione civile, in via Barzaghi. Gli irregolari, però, ha dichiarato l’assessore Majorino, criticando la nor-
ma sulla clandestinità, «finché c'è questa legge non potremo ospitarli nelle strutture comunali». Ignara che tutto questo la riguardi, la ragazza africana si alza da sotto lo schermo. Cammina piano, a piccoli passi, uno dopo l'altro. Ha in mano un biglietto. Lo oblitera vicino a un Frecciarossa, ma non parte. Si gira e procede lentamente verso la sala d’attesa. E si perde nella folla. È anche per persone come lei che, conclude Rotaris, «l’accoglienza a bassissima soglia è importante. Anzi, fondamentale. All’assistenza più elementare andrebbe sempre riservata una quota di fondi pubblici adeguata. Senza, è inutile fare progetti mirabolanti. É inutile pensare a reinserire le persone nella società, se queste muoiono per strada di freddo».
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lungo i binari c’è chi si ferma
Genova
Soleluna, pasti e non solo «Contano le persone, non i piatti» «La cucina è sempre ottima, il servizio eccezionale», attacca Antonio, con un largo sorriso che conferma la sua soddisfazione. Lì vicino fa eco Tatiana: «È proprio vero, ogni volta è tutto perfetto». Sono le sette e mezza di sera, a Cornigliano, periferia del ponente genovese. Il dialogo va in scena all’interno dei locali della stazione ferroviaria, dove da cinque anni Trenitalia ha creato un servizio mensa (nella foto sotto) per persone in difficoltà, gestito dai volontari dell’associazione Soleluna. La cena è stata servita da poco. Antonio e Tatiana frequentano la mensa da un bel po’ di tempo. Le loro sono storie di vite normali, in cui il disagio arriva un giorno all’improvviso, ospite inatteso e sgradito. Antonio, calabrese d’origine, ha vissuto per trent’anni a Torino, dove lavorava come muratore. Poi l’impresa edile ha chiuso e a lui è risultato impossibile rimettersi nel mercato del lavoro. «Mi si chiudevano in faccia tutte le porte – racconta –, ho cambiato città per vedere se le cose andavano meglio». Non è molto diversa la storia di Tatiana, che arriva dall’Ucraina e in Italia ha sempre fatto la badante. «Poi il signore che assistevo è morto. Sono rimasta senza lavoro. Non mi piace dover dipendere dall’aiuto di qualcuno, ma questa è l’unica soluzione che ho per mangiare». Una scelta obbligata: questo pare essere oggi la mensa della stazione di Cornigliano. A confermarlo è Marco Girella, presidente di Soleluna. «Rispetto a cinque anni fa – racconta – l’utente tipico non è più il senza dimora, la persona che vive sulla strada da anni, ma chi, fino a ieri, aveva una vita normale. Poi, magari, perde il lavoro, si separa dal coniuge. E non sa come arrivare a fine mese…». E così i volontari hanno il loro bel daffare. «Certe sere ci sembra di dover moltiplicare pani e pesci – sorride Girella –. E comunque facciamo sempre del nostro meglio». Nato come gruppo di volontari che portava pasti caldi nelle stazioni, Soleluna nel 2006 ha raccolto l’opportunità offerta da Trenitalia di usare gratuitamente un locale nella stazione di Cornigliano, da adibire a centro di aiuto per i bisognosi. Diverse altre organizzazioni hanno dato il loro contributo, offrendo generi alimentari e arredi nuovi; così, si è creata una struttura integrata con docce, servizi igienici, guardaroba e una mensa, che serve circa ventimila pasti annui. Senza scoraggiarsi davanti alle difficoltà, i soci di Soleluna ogni sera portano avanti la loro avventura, lavorando a progetti sempre nuovi (è allo studio la creazione di un ambulatorio dentistico gratuito) e avendo presente che il valore aggiunto del servizio non è il pasto in se stesso. Perché, come ricordano le volontarie indaffarate in cucina, Marina, Jolanda e Paola, «quello che conta non è mettere in tavola un piatto di pasta, ma essere attenti alla persona, farla sentire importante». Paola Malaspina
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Firenze
Nell’albergo di lusso osservo onde umane sulle banchine Se devo essere sincero, non ho mai frequentato troppo, nella mia militanza da homeless, la stazione centrale di Firenze, detta familiarmente Santa Maria Novella. Da fiorentino voglio però dire che, dal punto di vista architettonico, è meravigliosa. Un esempio del razionalismo, uno dei rari lati buoni del fascismo (a dire il vero non me ne vengono in mente altri). Proprio alla vicinanza dell’omonima chiesa deve il fatto di essersi conservata benissimo durante la guerra mondiale, visto che i bombardieri angloamericani avevano ordini tassativi di evitare il centro, per non danneggiare tutto quel ben di Dio di monumenti che adorna la città. In compenso ci avrebbero pensato i tedeschi. Ma questa è un’altra storia. Dopo miliardi di passeggeri, la stazione ai tempi nostri comincia a mostrare i segni dell’usura; ma nelle parti meglio conservate è evidente la qualità della struttura: dal disegno, dovuto alla penna di Michelucci, architetto e nume della faccenda, all’altissimo artigianato dei rivestimenti, quelli originali, fino al design dei sedili superstiti, quelli lungo le banchine dei treni, ergonomici ante litteram, oltre che belli a vedersi. Ho fatto questa lunga premessa per dirvi che per un senza tetto Santa Maria Novella è un albergo di gran lusso. Un posto davvero comodo per pernottarci. Certo, ci sono inconvenienti. Bisogna,
Napoli
Passa il mondo degli smarriti, c’è chi torna a ripagare il caffè Bussa alla porta a vetri che si affaccia sulla banchina. Entra e chiede: «C’è posto per stanotte?». L’operatore lo fa accomodare e gli rivolge un sorriso. Prima di scorrere l’elenco, gli chiede il nome. «Vuole un caffè?», domanda. «Sì, grazie, fa l’altro, e un po’ si rilassa. Forse capisce che ha trovato qualcuno con cui parlare. All’Help center della stazione centrale di Napoli, in fondo al binario 1, la stessa scena si ripete, ogni giorno della settimana, dal 2006. A chiedere aiuto sono uomini. Alcuni italiani. Molti stranieri. Arrivati dal Nordafrica, soprattutto. Ma anche donne. Per lo più badanti polacche, ucraine, moldave. Qual-
l’inchiesta
ad esempio, scampare alle ispezioni della Polfer. Bravissimi cristiani gli agenti, per carità. Ma quando ti beccano nel mezzo della notte e ti cacciano via, non sono affatto carini. Questa è una delle controindicazioni, ricompensata però da altri vantaggi.Volete mettere il piacere di un caffè e di una pasta allungata dalla buonanima di qualche volontario alle 7 della mattina? E poi, che dire del fascino del posto in sé: l’arrivare e il ripartire dei treni assomiglia alle onde che si frangono su una spiaggia, un movimento infinito e sempre uguale, persone che si spargono sulle banchine come acqua sulla battigia, poi si ritirano dentro i treni che partono per fare posto ad altri treni e altre persone, momenti di alta marea e di bassa, un brulichio di emozioni, ritardi, anticipi, incontri previsti o no. Uno spasso starlo a guardare, per chi deve ingannare il tempo. Di bello, poi, c’è quella luce la mattina nella sala della biglietteria, il sole che batte sui gradini esterni e scalda tutti coloro che hanno tempo e voglia di sedersi per due minuti, un tepore che ti coccola il corpo intirizzito dopo la notte fredda. E poi fuori c’è la chiesa di Santa Maria Novella. I palazzi del centro storico di Firenze. Per voi viaggiatori frettolosi che arrivate e andate via di corsa, forse è poco. Ma per noi che qui restiamo è molto, moltissimo. Buon viaggio, beneamatissimi. Roberto Stramonio
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cuna è rimasta senza lavoro e senza alloggio, dopo la morte dell’anziana che assisteva, e non sa più dove andare. Ad ascoltare tutti sono Alfonso Landi, coordinatore del progetto, e Antonio Barbato, operatore di emergenza, che cura i rapporti con l’utenza per l’associazione “La Tenda”. «L’utenza cambia, a seconda delle stagioni – spiegano –. In quest’autunno dalle temperature miti, ad esempio, sono passati un centinaio di persone a settimana. Un picco si è registrato nel trimestre luglio-settembre, quando sono arrivati 150 giovani africani da Lampedusa, poi smistati nei vari centri della rete di accoglienza e una volta recuperate forze ed energie hanno proseguito il loro viaggio verso il nord Europa, in particolare la Francia». All’Help center gli operatori danno informazioni preziose: dove dormire, mangiare, lavarsi, curarsi, disintossicarsi in tutti i sensi dalle asprezze della strada. «Ma soprattutto stiamo ad ascoltare – spiega Landi –. Spesso dare loro retta, prestare attenzione a quello che hanno da dire, risponde al loro bisogno più grande. E non è un caso, infatti, che qualcuno da qui ripassa, anche quando il posto letto lo ha già rimediato da qualche parte. E magari vuole solo restituirci quel caffè che gli offrimmo la prima volta». Laura Guerra
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Catania
Nacque con l’allargamento, adesso ci torniamo anche noi… L’Help center, alla stazione di Catania (colazione del mattino, nella foto di grazia Di Stefano), è nato cinque anni fa: era il 2 dicembre 2006. Nacque subito completo: sin dal principio furono attivati servizi di pronta accoglienza (docce e mensa), di ascolto, di prossimità, di orientamento alle risorse del territorio e al lavoro. Il centro fu aperto alla vigilia dell’allargamento a Romania e Bulgaria dell’Unione Europea (avvenuto a inizio gennaio 2007), in previsione dei flussi di immigrazione che sarebbero potuti pervenire dai due paesi dell’Europa dell’Est. In effetti, agli inizi, la maggior parte dell’utenza era rappresentata da donne di nazionalità romena e bulgara, in cerca di occupazione come badanti e assistenti domestiche. Per costoro, come per gli altri utenti, fu attivato (con grande successo) lo sportello lavoro, per facilitare l’incontro tra domanda-offerta di lavoro; tantissime sono state le donne inserite in famiglia come collaboratrici domestiche e colf. Ma sin dagli inizi è stata attiva pure la scuola di italiano per migranti, mentre solo successivamente è stato aperto lo sportello di consulenza psicologica e legale. «Oggi l’utenza dell’Help center è notevolmente aumentata: negli ultimi due anni abbiamo registrato un incremento del 60% delle richieste di aiuto, soprattutto da parte di famiglie catanesi. Del resto anche nei dormitori cittadini oggi la percentuale di catanesi è il 50% degli utenti, mentre fino a un paio di anni fa gli stranieri erano in netta maggioranza», sintetizza Valentina Calì, attuale responsabile dell’Help center etneo. Un altro cambiamento importante riguarda la provenienza degli utenti stranieri: oggi molti tra coloro che bussano sono afgani, tunisini e curdi. Arrivano da noi, essendo fuggiti da paesi provati da guerre civili. Ma un incremento di richieste di aiuto riguarda anche i giovani, italiani o stranieri che siano: «Addirittura – spiega Valentina Calì – tali richieste provengono dai genitori, che si espongono per chiedere lavoro per i propri figli. E mi ricordo di un caso particolare: venne a chiederci aiuto un giovane di trent’anni che era caduto in una brutta depressione. A causa della rottura della relazione con la fidanzata, aveva perso il lavoro ed era finito in strada. Lo abbiamo aiutato a rimettersi in piedi e gli abbiamo trovato un lavoro in Germania, ora vive lì e sta bene. Un bel successo». Con l’Help center di Catania Centrale, Scarp ha una relazione storica: le attività di redazione e sociali vi si sono svolte per circa un anno, dopo lo “sbarco” del giornale nella città siciliana. E ora stiamo per tornarci. Gabriella Virgillitto
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Diamo un volto agli “invisibili” Ricerca nazionale sulle persone senza dimora: i dati sui servizi in Italia a cura della Redazione Censire, insieme al paese visibile, anche quello nascosto. È l’obiettivo di una ricerca (voluta dal ministero del welfare, copromossa e cofinanziata da Caritas Italiana, realizzata da Istat e Fio.psd – Federazione italiana organismi per le persone senza dimora) in corso da due anni in tutto il paese, con l’obiettivo di colmare una lacuna conoscitiva di almeno due decenni. Proprio mentre l’Istat sottopone il paese al censimento generale della popolazione italiana, il censimento degli homeless in Italia – metodologia innovativa, finalità di elevato rilievo sociale: un’iniziativa destinata a fare scuola, persino in Europa –, è giunto a un primo approdo. I risultati dell’indagine quantitativa e qualitativa sui servizi attivi in Italia per i senza dimora sono infatti stati presentati giovedì 3 novembre a Roma, nella sede dell’Istat. Li hanno illustrati Linda Laura Sabbadini (capo dipartimento Istat delle statistiche sociali e ambientali), Nello Musumeci (sottosegretario del ministero del lavoro), monsignor Vittorio Nozza (direttore di Caritas Italiana) e Paolo Pezzana (presidente di Fio.psd). L’analisi ha riguardato gli enti (727) che erogano servizi (mense, dormitori, centri diurni, unità di strada e altre iniziative) nelle aree metropolitane, ma anche nei comuni e nei capoluoghi
di provincia con più di 30 mila abitanti. Essi agiscono in 158 comuni della penisola, sfatando il mito che i senza dimora siano un problema solo delle grandi città. Questo numero di Scarp de’ tenis andava in tipografia proprio nelle ore della presentazione romana; il nostro giornale tornerà su questo importante processo, e soprattutto sui dati che la prima parte della ricerca nazionale ha espresso, nel prossimo numero.
Anonime, non securitarie L’aggiornata e documentata fotografia dei servizi prelude peraltro alla seconda fase della ricerca. Dal 20 novembre al 20 dicembre verrà infatti scattata un’importante e inedita (per l’Italia) istantanea della realtà delle persone senza dimora. Nel breve volgere di un mese è infatti necessario intervistare, con i questionari forniti dall’Istat, presso le mense e le accoglienze notturne di 140 città italiane, ben 5.500 persone senza dimora. Per questo motivo Fio.psd, incaricata dell’operatività dell’indagine, in settembre e ottobre è andata alla ricerca di volontari che conducano le interviste, in accordo con i referenti locali e con le oltre 400 associazioni coinvolte (in quanto sedi delle strutture di accoglienza, diurna e notturna, presso le quali si svolgeranno i colloqui, rigorosamente anonimi) nella seconda parte del censimento. “Dai un volto agli
Censimento in due fasi Persone senza dimora pranzano in una mensa. A destra, il logo della seconda fase della ricerca: interviste a 5.500 homeless
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l’inchiesta
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INFO www.ricercasenzadimora.it facebook “Dai un volto agli invisibili”.
I servizi e gli “utenti” FONTE: RAPPORTO SUI SERVIZI ALLE PERSONE SENZA DIMORA (ISTAT, MINISTERO DEL LAVORO, CARITAS, FIO.PSD - 2011)
invisibili, regalaci un’intervista” è stato lo slogan scelto da Fio.psd per “arruolare” volontari intervistatori. I questionari rivolti ai senza dimora prevedono una parte specifica per capire le cause della grave povertà dell’intervistato e per svelarne il percorso di esclusione sociale. L’indagine diretta sul campione dei 5.500 senza dimora, assicurano i promotori, non ha alcuna finalità securitaria; l’intento è migliorare la conoscenza della vita di queste persone per aiutarle. Ma soprattutto questa rilevazione è l’innesco di una novità storica: l’Istat ha infatti deciso, dopo l’esperienza del censi-
mento, di dare continuità alla rilevazione della povertà estrema. È un passaggio chiave, per impostare politiche efficaci di cittadinanza e di inclusione, sostengono i promotori dell’indagine. E dovrebbe essere la condizione che evita situazioni paradossali del recente passato, per esempio l’esclusione dei senza dimora – non contemplati dalle statistiche sulla povertà – dal recepimento del bonus incapienti e della social card. Inoltre la conoscenza delle storie aiuterà a migliorare i servizi, quindi la prevenzione. Un validissimo motivo, tra i tanti, per collaborare alla rilevazione. E per attenderne con ansia gli esiti definitivi, attesi intorno alla metà del 2012.
727
gli enti e le organizzazioni che erogano servizi alle persone senza dimora, censiti in 158 comuni
2.615.990
le prestazioni che si calcola siano fornite ogni anno ai senza dimora dai servizi censiti
34%
i servizi che forniscono risposte ai bisogni primari (cibo, vestiario, igiene), mentre il 17% è un alloggio diurno, il 4% offre accoglienza notturna, il 24% segretariato sociale e il 21% accompagnamento sociale
14%
i servizi erogati direttamente dagli enti pubblici: raggiungono il 18% dell’utenza. Considerando enti privati che si avvalgono di finanziamenti pubblici, si raggiungono i due terzi di servizi e utenza
20%
l’utenza raggiunta dai servizi lombardi, rispetto al totale nazionale. Segue il Lazio con il 17%
5.500
le interviste ad altrettante persone senza dimora, da realizzare tra 20 novembre e 20 dicembre in circa 140 città italiane
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Ticket cari. Tempi di attesa lunghi. Sempre più la sanità italiana induce a ricorrere a prestazioni private. E molti non se lo possono permettere
Difficile curarsi ai tempi della crisi di Ettore Sutti
La crisi sta rendendo sempre più complicata la nostra vita. Anche curarsi, una pratica che dovrebbe essere semplice in un stato come il nostro, dove la spesa sanitaria pubblica è, per buona parte, coperta dal Servizio sanitario nazionale. Nel 2009 è stata pari a 110,6 miliardi di euro, il 7,3% del Pil: una cifra che supera i 1.800 euro annui per abitante, con un aumento dell’1,9% rispetto ai 108,5 miliardi di euro del 2008. E nel 2010 si stima che raggiungerà i 114,7 miliardi di euro. Su base nazionale, il 36,8% dei 1.800 euro annui che si spendono per curare ogni abitante è destinato a servizi in regime di convenzione, mentre oltre la metà (ben il 56,8%) riguarda la fornitura di servizi e di attenersi al suo giudizio. Si tratta di erogati dal privato. In Italia, la spesa in un corretto rapporto tra medico e paconvenzione è indirizzata in prevalenziente che, tra l’altro, non solo ha il vanza verso l’assistenza farmaceutica taggio di evitare indagini inutili e costo(28,4%), l’assistenza medica (25,3%) e le se per il servizio sanitario, ma anche di prestazioni fornite dalle case di cura priridurre, per chi ne ha davvero bisogno, i vate (23,9%). Ma oltre la metà delle pretempi di attesa per la diagnostica». stazioni sanitarie, si diceva, sono inteIn verità l’introduzione, da parte ramente a carico delle famiglie. Il masdell’ultima Finanziaria, del superticket siccio ricorso al privato avviene anche da 10 euro su ogni ricetta per prestazioperché i ticket sanitari riducono la conne di diagnostica e specialistica sembra venienza della sanità pubblica, ma soaver influito sul modo in cui i cittadini prattutto perchè nel settore privato si accostano alle cure e richiedono prequasi non esiste la lista d’attesa. Come stazioni. «L’impatto dei costi dei ticket dire: se hai davvero bisogno, devi cosi sta facendo indubbiamente sentire – munque pagare. E molti non riescono continua Corti –, anche se bisogna ripiù a farlo. cordare che per una serie di prestazioni Più richieste ai medici di famiglia essenziali le fasce più deboli della popolazione sono garantite dalle esenzio«Quello a cui noi stiamo assistendo – ni per reddito, invalidità o patologia. Il racconta Fiorenzo Corti, segretario geproblema è che esiste una parte, anche nerale della Fimmg (Federazione italiaconsistente, della popolazione che si rena medici di medicina generale) Lomca dal medico come se si recasse al subardia, nonchè responsabile della copermercato, con una lista predefinita municazione della Fimmg nazionale – degli esami da fare. Sono quelli che freè un cambio di mentalità da parte dei quentano con più frequenza gli studi nostri assistiti. In parallelo, c’è un aumedici, quelli che sono disposti a cammento della quantità e della qualità dei biare medico pur di farsi prescrivere gli servizi che ci vengono richiesti. Tanto esami selezionati, quelli che affollano per capirci: fino a qualche tempo fa i con i codici bianchi le sale d’attesa dei nostri assistiti arrivavano in studio chiepronto soccorso e quelli che, non condendo direttamente la possibilità di actenti, si rivolgono al mercato privato per cedere a una visita specialista. Oggi acottenere esami il più delle volte inutili. cade sempre meno. La tendenza è quelSi tratta di una parte minoritaria della la di farsi visitare dal medico di famiglia
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popolazione, ma che crea non pochi problemi al resto dell’utenza. Bisogna tener conto che ogni medico di famiglia riceve e visita dalle 40 alle 50 persone al giorno. Questo significa che, solo in Lombardia, ogni giorno vengono visitate circa 350 mila persone. Un vero esercito di assistiti, ognuno con la proprie particolarità e la propria storia clinica, che ogni buon medico di famiglia conosce e sa come gestire».
Mi curerò tra sei mesi... Il problema maggiore resta quello delle liste d’attesa. Spesso infinita. Per alcuni esami i tempi di attesa sono superiori ai sei mesi. Troppi. E allora molti preferiscono rivolgersi al mercato privato, dove le liste di attesa, di fatto, non esistono. E sono sempre di più gli italiani che
testimoni Welfare Italia - Farsi Prossimo
Qualità a prezzi accessibili, il privato garantisce il diritto
scelgono questa opzione: tra tutti i paesi Ocse, le famiglie italiane sono quelle che spendono maggiormente per la sanità leggera e la quasi totalità della spesa sanitaria privata in Italia è clientela interamente solvente. Anche nell’ambito delle specialità mediche inserite nei Livelli essenziali di assistenza (Lea) la spesa delle famiglie italiane è significativa, visto che oltre il 56,8% delle visite specialistiche è pagato interamente dalle famiglie. «Qui siamo spesso al paradosso – osserva ancora Corti – che proprio per via dei problemi rilevati in precedenza, accade che quando una persona si trova nella reale necessità di fare un esame urgente (anche se esistono canali preferenziali in dotazione ai medici), si ritrova costretto a pagarlo sul mercato
Operare nel settore della sanità privata, in Italia, non significa solo fare una scelta di mercato finalizzata al business. In molti casi, la sanità privata non si pone in antitesi, ma a completamento del sistema di sanità pubblico. Infatti vi sono casi di specialistiche a proposito dei quali si registrano carenze di offerta, se non addirittura una scelta, da parte dell’istituzione pubblica, di delegare determinate prestazioni a soggetti privati. E poiché molte famiglie che non possono essere considerate povere, ma che possono contare su un reddito inferiore ai tremila euro al mese (il 65% delle famiglie italiane) rischiano di trovarsi in difficoltà, quando devono ricorrere a queste prestazioni, si aprono spazi per chi vuole offrire servizi di qualità, a prezzi ragionevoli. È questa la constatazione che ha spinto una delle principali sigle della cooperazione sociale in Italia, il Consorzio Gino Mattarelli (Cgm) a creare “Welfare Italia”, società pensata per promuovere l’apertura di 130 nuovi poliambulatori, nei prossimi cinque anni, in tutto il territorio nazionale. Attualmente sono attive cinque strutture: a Milano, Canegrate (Mi), San Pellegrino Terme (Bg), Acireale (Ct) e Pontedera (Pi). «Ciascun centro – spiegano a Welfare Italia – ha caratteristiche che rispettano la storia e la specificità del territorio in cui nasce. Sono strutture private a tutti gli effetti, ma in ogni caso non hanno scopo di lucro. Riteniamo infatti che la salute delle persone non possa essere “mercificata” secondo logiche di profitto. Allestiamo dunque ambulatori le cui prestazioni hanno costi inferiori del 30% rispetto alle medie di mercato, tempi di attesa massimi di una settimana, garantiscono la presa in carico da parte di un medico che seguirà il paziente in maniera continuativa e interventi specifici in settori nei quali la domanda inevasa dal settore pubblico è elevata (psichiatria, psicoterapia, counselling familiare, logopedia)». A Milano, partner di Welfare Italia è il consorzio Farsi Prossimo Salute, costola del sistema di cooperative sociali ispirato da Caritas Ambrosiana. «Tra sanità pubblica e privata – spiega il presidente, Giovanni Lucchini – noi vogliamo rappresentare una terza via». Il centro di Milano (in viale Jenner) offre prestazioni nell’ambito delle principali specializzazioni: odontoiatria, cardiologia, ginecologia, medicina fisica e riabilitazione, fisioterapia, oculistica, dermatologia, psichiatria, logopedia, medicina sportiva. «Il nostro obiettivo è offrire risposte in tempi più rapidi del pubblico a prezzi contenuti – afferma Lucchini –. Ma non solo. Farsi Prossimo Salute si impegna a creare un fondo di solidarietà per dare la possibilità a persone e famiglie “non solventi” di accedere in forma gratuita e anonima alle prestazioni del poliambulatorio. Si può contribuire con una piccola quota (5 euro) al finanziamento di queste cure, sottoscrivendo una Carta Salute che garantirà sconti del 20% su tutte le prestazioni del poliambulatorio. Il consorzio raddoppierà questo contributo, alimentando così il fondo di solidarietà». Curarsi è un diritto di tutti. E condividerlo fa solo del bene. privato. Qui il nostro ruolo diventa centrale per gestire al meglio la situazione, anche se alcuni medici si vedono costretti ad utilizzare esami e diagnostica per quella che viene definita “medicina difensiva”. Sempre più spesso, infatti, fuori dagli ospedali o dagli studi medici si incontrano avvocati specializzati in richieste di danni che lavorano a percentuale. Di fronte a reiterate richieste da parte di pazienti di un certo tipo, si è dunque portati a “concedere” esami che
non si ritengono magari essenziali, per evitare di essere chiamati a rispondere in tribunale. Siamo al paradosso: scelgo di non curarti come vorrei, per evitare di essere citato per non averti curato...». Sul fronte della spesa sanitaria, in questi anni, la coperta dei conti è diventata via via sempre più corta e, per i prossimi anni, è previsto un nuovo “Patto per la salute”, da stipularsi tra governo e regioni entro aprile 2012. La manovra finanziaria specifica quote pernovembre 2011 scarp de’ tenis
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Con il contributo di IED
Opera San Francesco
Cure di base, ma gratis per tutti: «Richieste in continuo aumento» Loro curano tutti. Gratuitamente. Senza guardare se una persona che soffre ha i documenti oppure no. Rispondono a un bisogno. Loro sono l’Opera San Francesco per i poveri, che a Milano garantisce 32-33 mila visite gratuite all’anno, una media di circa 140 al giorno. «Cerchiamo di offrire a tutti almeno i livelli minimi di assistenza – spiega la responsabile dell’ambulatorio, suor Annamaria Villa –: i nostri 168 medici, tutti volontari, offrono una cura completa alle persone che si rivolgono a noi. Il paziente viene seguito in tutti suoi bisogni, per ottenere una risposta adatta alle proprie esigenze. Chi si rivolge a noi non può accedere al servizio sanitario nazionale, oppure presenta tante e tali fragilità che gli impediscono di frequentare i normali canali di cura. L’utenza di questo tipo viene normalmente segnalata dai servizi sociali o dai centri di ascolto, che affettuano per noi un opportuno screening. Quello che noi cerchiamo di fare è creare un rapporto continuativo con i nostri assistiti, tarando l’intervento sulla base dei diversi bisogni e delle diverse culture di appartenza. Al centro abbiamo curato persone di 129 etnie...». Uno dei servizi che negli anni è andato via via aumentando, al punto che è stato necessario assumere ulteriore personale, è quello delle cure dentali, a cui possono accedere tutti indistintamente. «Non abbiamo lista d’attesa – continua suor Annamaria – : chi primo si presenta, prima viene visitato, fino a un massimo di dieci “nuove” visite al giorno, che si aggiungono alle sedute di cura calenderizzate». Non tutti, è intuibile, sono disposti a mettersi in fila dalle 4 del mattino; inoltre l’ambulatorio si limita alle cure di base: cura il dolore e il dente, cercando di salvaguardarlo, non effetua implantologia o interventi più avanzati. «Ma se fino a qualche tempo fa questo tipo di offerta scremava di molto le richieste – conclude la religiosa –, oggi assistiamo a un aumento importante di richieste. Segno che la situazione economica di molte famiglie sta diventando sempre più complicata...». Fondazione Opera San Francesco per i Poveri Onlus Viale Piave 2 - 20129 Milano (per donazioni: 02.77.122.400) centuali e aree di risparmio. Per il 2013, il 30% dei risparmi si dovrà ottenere dai prezzi di riferimento per beni e servizi, il 40% da interventi sulla spesa farmaceutica e un altro 30% dal nuovo tetto di spesa sui dispositivi medici. Per il 2014, i nuovi ticket dovranno da soli garantire il 40% dei risparmi. I ticket continuano, dunque, a fare la parte del leone, nella convinzione che siano utili per ridurre la spesa farmaceutica ed evitare l’uso inappropriato di prestazioni sanitarie, senza però considerare che i farmaci vengono prescritti dai medici e che con essi viene colpita una fascia della popolazione non così povera da poter contare sulle esenzioni, ma nemmeno tanto ricca da potersi permettere cure specialistiche private. E così si giunge al punto che le famiglie italiane con un reddito mensile di tremila euro (vale a dire il 65% della popolazione) so-
vente rimandano l’operazione ai denti, o la vista di controllo dello specialista.
Sanità privata in crescita Su questo quadro si inserisce la sanità privata, in grado, spesso, di offrire prestazioni meno costose rispetto al pubblico, con tempi di attesa nulli. La tendenza a pagare di tasca propria, pur di ottenere una visita in tempi ragionevoli e da un medico fidato, riguarda tutte le specialità mediche della cosiddetta “sanità leggera” ed è andata aumentando nell’ultimo decennio. La conseguenza è che gli italiani spendono in media di più dei francesi, dei tedeschi, degli inglesi, ad esempio, quando hanno bisogno di un dentista, di un ortopedico, di un oculista, di un cardiologo. Una situazione sempre più insostenibile, in tempi di crisi economica: si è nelle condizioni di dover ricorrere di più al mercato priva-
Regione che vai ticket che trovi ABRUZZO: 36,15 euro + 10 euro modulazione in base al redditto BASILICATA: 36,15 euro + 10 euro superticket CALABRIA: 45 euro + 1 euro quota fissa + 10 euro superticket CAMPANIA: 36,15 euro (fino a 50 euro per pacchetti ambulatoriali) + 10 euro quota fissa (5 euro per esenti) + 10 euro superticket EMILIA ROMAGNA: 36,15 euro + superticket in base a reddito FRIULI VENEZIA GIULIA: 36,15 euro + 10 euro superticket LAZIO: 36,15 euro + 15 euro per risonanze magnetiche o tac + 4 euro per prestazioni o pacchetti ambulatoriali + 10 euro superticket LIGURIA: 36,15 euro + 10 euro superticket LOMBARDIA: 36,15 euro + da 0 a 30 euro superticket in base al tipo si prestazione MARCHE: 36,15 euro + superticket n base a reddito MOLISE: 36,15 euro + 15 euro per risonanze magnetiche o tac + 4 euro per altre prestazioni PIEMONTE: 36,15 euro + ticket variabile in base alla prestazione PUGLIA: 36,15 euro + 10 euro superticket SARDEGNA: 46,5 euro + 1 euro di quota fissa SICILIA: 36,15 euro + 2 euro di quota fissa si ricetta + 10% del valore tariffario eccedente i 36,15 euro + 10 euro superticket TOSCANA: 36,15 euro + superticket in base a reddito VALLE D’AOSTA: 36,15 euro VENETO: 36,15 euro + 5 superticket (redditi inferiori ai 29 mila euro) 10 euro tutti gli altri UMBRIA: 36,15 euro + superticket modulato in base a reddito to, ma non sempre si hanno i mezzi per farlo. E mentre alcuni abusano di viste e controlli, può capitare che altri tralascino o rimandino. «Bisogna stare attenti – conclude Corti –: un eccesso di offerta sanitaria rischia, senza un soggetto che razionalizzi, di stimolare la richiesta, aumentando il numero di esami non necessari». E per di più difficili da pagare.
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«Gli atti di carità, il bene comune» Intervista a Ermanno Olmi: «Sono gli anni della resa dei conti con chi, come noi, ha creduto alla ricchezza come affermazione di progresso» di Daniela Palumbo
Grande maesto di origini operaie Ermanno Olmi nasce a Bergamo nel 1931. I genitori sono di origini modeste, madre operaia e padre ferroviere, perso presto, morto nella seconda guerra mondiale. Olmi non finisce gli studi liceali e ancora giovanissimo si trasferisce da Treviglio a Milano, per seguire i corsi di recitazione dell’Accademia di Arte drammatica. È molto giovane quando realizza i primi documentari: fra il 1953 e il 1961 ne gira circa quaranta. Il successo arriva con quello che è considerato a tutt’oggi il suo capolavoro: il lungometraggio L’albero degli zoccoli si aggiudica, nel 1978, la Palma d’oro a Cannes e il premio César per il miglior film straniero. In seguito si trasferisce da Milano ad Asiago, dove ancora oggi risiede. Dopo una lunga malattia, torna alla regia nel 1987: è un’escalation di lavori cinematografici e documentari acclamatissimi. Nel 2008 ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla mostra del cinema di Venezia
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Ermanno Olmi è un maestro del cinema contemporaneo. Ma per quest’uomo mite, di 80 anni, il termine “maestro” supera le barriere del cinema e della finzione e diventa parola che investe la vita, il suo essere uomo. Olmi è un maestro di vita. Involontario, ignaro del suo ruolo: per questo maggiormente credibile. Nel suo ultimo film, Il villaggio di cartone, da un mese nelle sale italiane, parla di immigrati e di carità, e lo fa con modalità di insubordinazione alle regole scritte, alle leggi degli uomini. Non è certo un rivoluzionario, Ermanno Olmi, eppure con questo suo ultimo lavoro invita esplicitamente a non rispettare le regole quando vanno contro la giustizia umana, raccontandoci che la carità non ha valore se non affonda le radici nella giustizia sociale. Tutto il resto è, semplicemente, ipocrisia. In tutti i suoi film o documentari, cefisso appeso al soffitto sopra l’altare Olmi è stato capace di raccontare il viene ammainato come un inutile simondo – spesso quello degli umili: da mulacro. E dunque cosa è una chiesa qui l’accostamento a Pasolini – guarvuota, senza più simboli sacri? Una dando ai fenomeni sociali più urgenti, chiesa senza più giorni, dove ormai non senza mai perdere di vista una vena risuoneranno canti e parole di vita di umanista, anzi intimista. Il suo è uno eterna? Cos’è che fa di una chiesa il luosguardo poetico, mai succube del sengo della fede, ma ancora di più la casa timentalismo; anzi, la realtà è resa dal dove si celebra il patto dell’amore e delsuo cinema in maniera cruda, attraverla comunione? Non sono forse gli atti di so i ritratti delle persone semplici. E ancarità il bene comune, prima ancora di che i luoghi rappresentati – il mondo ogni convinzione di fede? Una chiesa operaio, la terra dei contadini – non che si svuota e accoglie una umanità hanno niente di aulico. La poesia è nelraminga in cerca di una casa dove ripalo sguardo, nella capacità, che è anche rare: non è forse questo il vero tempio la cifra stilistica di Olmi, di trattenere e di un dio misericordioso? raccontare la bellezza della semplicità. Maestro, le pareti nude e l’altare spogliato delle prime sequenze del suo ultimo film sono immagini forti in una chiesa. Eppure non è lì, sembra dirci, che risiede la vera razzia, non è lì che Cristo viene offeso. Quelle pareti, prive della speranza e della giustizia che Cristo rappresenta, sono un simbolo dell’ipocrisia di chi usa i simboli come parole vuote e senza umanità? La chiesa del vecchio parroco non serve più: in una certa parte della città non ci sono più fedeli. Si chiude e si portano via gli ornamenti preziosi, si imballano le statue dei santi. Anche il grande cro-
Non è solo l’Italia a non accogliere, a chiudersi e tacere di fronte a chi viene lasciato indietro, in mare o in altri luoghi a morire... È l’uomo, a tutte le latitudini, a soffrire di questo male. Che memoria avremo di questi anni? Questi che stiamo vivendo sono gli anni della resa dei conti con coloro che, come noi, hanno creduto alla ricchezza anche come affermazione di progresso sociale e civile. Non è stato così. Quella che credevamo ricchezza si è rivelata un inganno, anzi una truffa. Ma ancora peggio: ha generato un degrado sociale e un imbarbarimento nei nostri com-
l’intervista
portamenti. Si diceva che la nostra società di sviluppo avanzato avrebbe aiutare e salvato i paesi dal flagello della fame. Bugie! Adesso sappiamo che proprio la nostra ricchezza è la causa di tutte le povertà. E che per i popoli miserabili è venuto il momento della giustizia. Ma noi sbarriamo i nostri confini e non diamo il nostro soccorso ai loro appelli. Ma non finirà così. E se non saremo noi a cambiare la storia, sarà la Storia a cambiare noi. Chi come lei denuncia e guarda la realtà con gli strumenti della pietas e dell’insurrezione morale verso le ingiustizie, quando analizza la quotidianità di oggi, si sente sconfitto? Credo che quando cominceremo a sentirci degli sconfitti, a credere di essere sconfitti dalla storia, quello sarà invece il nostro ritorno alla dignità di uomini. Sarà un lento cammino, ma non dovrà mancare nelle nostre vite. Certamente avrà dei costi e non sarà facile accettarlo, ma è inevitabile. Olmi, in una società bulimica di consumi, quando è che la carità è un va-
Chiesa accogliente Una scena de Il Villaggio di cartone ultimo lavoro di Ermanno Olmi, da un mese nelle sale italiane
lore e non un lavarsi la coscienza? La società bulimica di consumi e cose da accaparrare è alla fine. E non è certo un male: questo ci farà più consapevoli dei nostri comportamenti: come distinguere e riconoscere la diversità del valore di un atto di carità compiuto per amore, solo per amore, o se invece è per levarsi di mezzo un fastidio e magari facendosi vanto del nostro obolo. È lecito mettersi contro le leggi degli uomini, in favore degli ultimi? Le leggi dettano le regole che danno ordine ai nostri modelli di vita: e in queste noi ci rispecchiamo. Tuttavia, quando una legge o una regola ci impone atti che la nostra coscienza rifiuta, non solo dobbiamo disobbedire, ma aabbiamo il dovere di ribellarci con ogni mezzo. A costo della nostra vita. Perché se rinunceremo alla verità, sarà la stessa giustizia umana a condannarci.
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Il villaggio di cartone e il tempo dei giusti Un gruppo di clandestini africani prende possesso di una vecchia chiesa sgomberata. Assiste incredulo l’ex parroco della chiesa. In principio il vecchio prete fugge e si rifugia in sacrestia. Intanto (i rifugiati sono clandestini) non tarda l’arrivo di chi deve far rispettare le leggi. Qualcuno li aiuta, altri scappano, altri combattono. Anche il vecchio prete deve decidere da che parte stare: dopo un primo momento in cui tutto gli sembra perduto riesce a risorgere e trova dentro di sé uno spirito nuovo nella sua missione sacerdotale. La sua ex chiesa non sarà più la chiesa delle cerimonie e degli orpelli dorati, ma la casa di Dio dove trovano rifugio i miseri e i derelitti. Ha inizio il tempo della carità dei giusti. Il villaggio di cartone, di Ermanno Olmi, 2010, con Michael Lonsdale (sceneggiatore e scrittore), Rutger Hauer, Massimo De Francovich e Alessandro Haber novembre 2011 scarp de’ tenis
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milano VIAGGIO IN PERIFERIA 3. GALLARATESE Tanti disabili nei caseggiati popolari: timori e risposte dal basso
E dopo di noi? Il quartiere ci pensa Como Programmare non è tutto, ma può battere gli sprechi Torino “Due tuniche” rinnovate, un Lume di speranza Genova Incidenti e percorsi, disordinate autoanalisi Vicenza Otto e Giulia nelle piazze, artigiani del sorriso Modena “Emergenza freddo”, una notte con i volontari Rimini Mi chiamo Franco, per gli amici sono Scarp Firenze Vita da bipolare nel baratro dell’alcol Napoli Poco sostegno ai disabili, Claudio resta a casa Catania Giovanni la torcia, di strada si può morire Palermo Amore che accoglie, Psiche che si risveglia
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di Simona Brambilla e Paolo Riva Periferia nord di Milano. Fermate della metropolitana di Bonola, San Leonardo, Molino Dorino. A sette chilometri dal Duomo. Sono le coordinate giuste per individuare sulla cartina del capoluogo milanese una delle zone con il più alto numero di residenti diversamente abili dell’intera città: il Gallaratese. Il quartiere, nato negli anni Cinquanta, è costituito per lo più da grandi complessi di edilizia pubblica e la sua popolazione iniziale era composta da giovani famiglie di lavoratori. Molti di loro erano operai del vicino stabilimento dell’Alfa Romeo al Portello. Avevano avuto l’alloggio dallo Iacp (Istituto autonomo case popolari, che nel 1996 è diventato Aler); in seguito, ne sono diventati i proprietari. All’epoca delle assegnazioni, però, se si avevano dei figli disabili a carico, si aveva diritto a un punteggio più alto. la recente apertura di Casa Betti. Ma soÈ il caso di Michele Procopio, calano anche le parole di don Riccardo Febrese settantenne, emigrato al nord sta, responsabile della comunità pastomolti anni fa per trovare un posto anche rale della Trasfigurazione del Signore, lui come operaio all’Alfa. Due anni dopo che comprende quattro parrocchie delessere arrivato al Gallaratese, ha scoperto la disabilità della figlia Elisabetta. E da quel momento ha iniziato a occuparsi del problema. Insieme agli altri genitori del quartiere, ha dovuto lottare parecchio, per far emergere un fenomeno che nei primi anni Settanta era ancora sommerso.
Lottare contro la vergogna «All’inizio, qui erano in molti ad avere vergogna dei figli – racconta oggi Procopio –. Non li facevano uscire di casa, se non per frequentare la scuola speciale. Noi abbiamo cercato di convincerli che il problema della disabilità non si deve vivere solo in famiglia. É l’intera società a doversene fare carico». Tutte le attività di Procopio e degli altri genitori che con lui hanno fondato l’associazione “Presente e Futuro” si sono orientate verso questo obiettivo. Gli abitanti del Gallaratese, anche molte persone senza disabili a carico, nel corso degli anni si sono dati da fare per agevolare la vita dei portatori di handicap, delle loro famiglie e più in generale di chi ha bisogno d’aiuto. A testimoniarlo è
scarpmilano la zona. «La comunità è vivace, disponibile e collaborativa – spiega –. I volontari, quando si cercano per alcuni compiti, si trovano sempre. Come è successo ultimamente, per dare una mano ad alcuni ragazzi stranieri arrivati da Lampedusa». Anche comune e consiglio di zona 8, grazie alle sollecitazioni da parte della cittadinanza, si sono dimostrati attenti alla presenza di persone diversamente abili nel quartiere. Negli anni sono stati molti gli interventi realizzati. Il primo, e forse quello ancor oggi più impresso nella memoria degli abitanti del quartiere, è stato l’apertura, nel 1982, del primo Centro diurno disabili (Cdd), spazio strutturato per favorire il processo di crescita e d’integrazione sociale di persone temporaneamente o permanentemente disabili, fornendo occasioni per sviluppare e migliorare le capacità relazionali e i legami che l’individuo instaura con la comunità.
Una rete di servizi territoriali Oggi i centri diurni sono diventati due: uno in via Appennini, uno in via Ippodromo. Secondo Donato Gerardi, operatore del Sicet-Cisl, fanno parte di una buona rete di servizi territoriali: «I disabili a carico delle famiglie che vivono
Vista dall’alto I palazzi che contraddistinguono il quartiere Gallaratese
Il quartiere
Progressi dagli anni Sessanta, ma oggi gli anziani soffrono Arrivando da Lampugnano e lasciandosi alle spalle ippodromo e stadio, le case popolari del Gallaratese non fanno una brutta impressione. Anzi. La maggior parte dei condomini ha un bell’aspetto. Le torri costruite negli anni Sessanta, sulla campagna bagnata allora dal fiume Olona, adesso interrato, hanno le facciate ben tenute e tutta la zona, che a partire dal dopoguerra si è allargata verso l’esterno della città, sembra tranquilla. A un primo impatto, assai migliore di altre periferie milanesi, segnate da una forte concentrazione di edilizia pubblica. «Il quartiere è sempre stato tranquillo, e nel tempo è migliorato», riconoscono gli anziani della zona, ricordando i tempi in cui per fare la spesa dovevano viaggiare per quasi cinque chilometri e i mezzi pubblici erano scarsi. La linea rossa è arrivata negli anni Ottanta, proprio quando sono iniziate le vendite degli alloggi popolari. «Da allora la zona è migliorata – racconta Donato Gerardi, che lavora qui per il sindacato Sicet-Cisl dal 1960 –. Molti inquilini hanno acquistato le loro abitazioni e oggi circa l’80% dei residenti vive in una casa di proprietà. Così molti palazzi sono stati ristrutturati, rinforzati e abbelliti». A cambiare, però, non sono stati solo gli edifici. Attirate dalla vivibilità e dai prezzi accettabili del Gallaratese, nuove famiglie hanno raggiunto gli abitanti storici del quartiere: gli anziani. «Quando ho cominciato a lavorare, avevo a che fare soprattutto con operai. Oggi qui convivono persone provenienti dalle classi sociali più disparate – prosegue Gerardi –: giovani coppie e famiglie sotto sfratto, immigrati, pochi, e persone facoltose che hanno comprato per poi affittare». «I nuovi arrivati – riflette don Riccardo Festa – hanno attenuato solo in parte la depressione demografica vissuta dal quartiere negli ultimi anni. Per le quattro parrocchie di cui sono responsabile, stampiamo circa 11 mila foglietti degli avvisi, per un totale di 22 mila persone. È un piccolo dato: ma fa capire quanto siano numerose le coppie anziane e le famiglie monogenitoriali. Molte delle quali fanno fatica». Anche a causa della casa. «Le ristrutturazioni sono state pagate dai nuovi proprietari – spiega ancora Gerardi – e c’è una minoranza di persone che, pur essendo riuscite ad acquistare l’alloggio, non riescono a sostenere le spese. Rischiano il pignoramento e noi del sindacato, con il fondo sociale, possiamo aiutare solo chi è in affitto». Così, le richieste che le parrocchie hanno ricevuto per accedere agli aiuti del Fondo Famiglia e Lavoro della diocesi non sono state poche. «In molti casi – riprende don Festa – sono le coppie separate ad essere sotto pressione, ma sempre più spesso lo è anche la generazione tra i 60 e i 70 anni. A volte queste persone, con il loro impegno e le loro pensioni, accudiscono i vecchi genitori, e al tempo stesso aiutano la famiglia dei figli». «È vero – conferma Marco Tansini, consigliere di zona eletto nelle liste del Pd –; gli anziani sono una delle realtà a cui si deve prestare attenzione». In zona 8, della quale Tansini è il presidente della commissione politiche sociali, ci sono sei Centri di aggregazione multifunzionale. E non solo, come testimonia la storia dell’associazione “Presente e Futuro”, nel campo della disabilità. In via Enrico Falck, per esempio, c’è la Casa del giovane. È lì dagli anni Cinquanta, quando don Abramo Martignoni la fondò per dare tetto e sostegno ai ragazzi venuti a Milano per studiare o lavorare. Allora gli ospiti erano giovani provenienti dal sud Italia. Oggi, invece, la Casa accoglie minori stranieri non accompagnati, ma qualche mese sono “dirottati” nelle sue strutture anche profughi provenienti da Lampedusa. «È nato subito un gruppo di volontari che ha proposto ai nuovi arrivati un corso di italiano e li ha coinvolti in attività e uscite – spiega don Festa, presidente della fondazione che gestisce il centro –. Sono persone tra i 18 e i 30 anni, che hanno mostrato una gran voglia di ambientarsi e di fare». Il Gallaratese, con i suoi problemi di ogni giorno, non si chiude ai bisogni degli altri. novembre 2011 scarp de’ tenis
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L’esperienza
CasaBetti, missione autonomia: «Il territorio ci dà una mano» Elisabetta ha 41 anni, è una delle inquiline di “CasaBetti”, alloggio che accoglie persone adulte con disabilità mentale. Quando il padre, Michele Procopio, la saluta, a volte le dice: «Perché non vieni a casa, solo per qualche giorno?». Lei lo bacia e lo accompagna alla porta, il messaggio è chiaro: «Ti voglio bene papà, ma sto bene qui. Da sola». Il padre di Elisabetta è stato uno dei fondatori di CasaBetti, aperta nell’aprile 2011: «Ero presidente del Coordinamento genitori disabili per i Centri diurni disabili del comune di Milano. Negli incontri periodici noi genitori cercavamo di risolvere i problemi che sorgevano nei Cdd. A un certo punto abbiamo cominciato a pensare al “dopo di noi”: cosa accadrà ai nostri ragazzi? Eravamo coscienti che occorrono progetti di vita autonoma e che dobbiamo prepararli noi, per tempo. Da lì è nata “Presente e Futuro”, l’associazione della quale sono presidente». Oggi la onlus conta oltre cento soci. La sua roccaforte è proprio nel quartiere Gallaratese, nato nella prima metà degli anni Sessanta dall’esigenza di rispondere al bisogno abitativo di molte giovani famiglie. Tante provenienti dal sud. CasaBetti ha potuto diventare una realtà anche grazie alla solidarietà delle forze sane del Gallaratese. Una di queste è l’attuale parroco della chiesa Santi Martiri. «Due anni fa – racconta Michele Procopio – don Riccardo Festa ci ha dato la disponibilità di alcuni locali di proprietà della parrocchia a prezzi calmierati: così, all’inizio di quest’anno, abbiamo potuto, grazie anche al sostegno di Ledha e Caritas, che ne hanno accompagnato la nascita, dare concretezza al progetto residenziale integrato che abbiamo chiamato “CasaBetti” perché i locali sono situati nella via omonima, al civico 62, nel nostro quartiere». “CasaBetti”, i cui mobili sono stati donati dall’Ikea, viene gestita dalla cooperativa “Azione Solidale”, che da anni lavora sul tema “Dopo di noi... durante noi”, con azioni di sperimentazione di vita autonoma e di sostegno alle famiglie delle persone con disabilità. Nell’appartamento ci sono attualmente 8 persone disabili mentali, fra i 30 e i 55 anni di età, assistite notte e giorno da personale specializzato: educatori, infermieri e psicologi, che alternano le presenze. “CasaBetti” – tre camere doppie e due singole, tre bagni attrezzati per disabili e un ampio giardino con orto – è in convenzione sperimentale con il comune di Milano. Le famiglie pagano una retta mensile calcolata sulla base del reddito, nella stragrande maggioranza dei casi versano quasi totalmente la pensione di invalidità dei figli. La particolarità di “CasaBetti” è il tentativo, in parte già avviato, di integrazione con il territorio: «Cerchiamo di fare rete nel quartiere: il supermercato della zona ci offre la spesa a prezzi stracciati e sono i nostri ragazzi che vanno a farla, la chiesa ha sensibilizzato i parrocchiani sul tema. Accanto a noi ci sono due famiglie solidali, della Rete delle famiglie solidali: hanno in affido minori in difficoltà e hanno stretto amicizia con i nostri ragazzi, a volte li invitano a cena, o li accompagnano a fare la spesa. E poi possiamo contare su tanti volontari che animano i week end degli ospiti». Sempre al Gallaratese, c’è un’altra realtà per disabili, Casa famiglia Gerico, centro diurno per persone disabili, con 15 utenti adulti accompagnati, nelle attività di mantenimento delle abilità acquisite, da educatori specializzati e da tanti volontari del quartiere. PER CONTRIBUIRE AL SOSTENTAMENTO DI CASABETTI www.presenteefuturo.org Daniela Palumbo
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nelle case popolari sono assistiti in tutte le loro occorrenze medico-sanitarie – commenta –. Quando sono arrivato qui, negli anni Sessanta, non c’era tutta questa accortezza: famiglie e ragazzi si dovevano arrangiare da soli. Inoltre, negli ultimi anni, la regione Lombardia ha favorito migliorie di tipo strutturale: per esempio, sono state ampliate le porte degli ascensori e dei bagni, per facilitare l’ingresso delle carrozzine. Purtroppo, però, tutto ciò ha riguardato solo le famiglie che sono ancora in affitto, mentre chi ha comprato gli alloggi popolari (e ormai sono la maggioranza) per eliminare le barriere architettoniche ha dovuto e deve fare tutto di tasca propria». Le vendite delle case popolari sollevano anche un’altra questione legata ai disabili. Quella dei numeri. I nove Cdd della zona 8 seguono infatti circa 250 persone. I disabili, però, sono molti di più, in questa parte della città. Secondo i dati Aler, le persone diversamente abili residenti al Gallaratese sono 289 su 1.542 abitazioni in affitto, ma queste rappresentano ormai solo il 20% degli alloggi popolari. «A livello cittadino, dati precisi non ce ne sono. Quando in passato abbiamo chiesto al comune, ci hanno risposto che “i numeri bisogna cercarli spulcian-
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Lo skyline Nonostante la massiccia presenza di case popolari, il Gallaratese non appare affatto degradato
do faldone per faldone”...», si rammarica Elisabetta Malagnini, che lavora nell’area disabili di Caritas Ambrosiana e
che il Gallaratese lo frequenta con la parrocchia e con “Presente e Futuro”, associazione di cui è volontaria. «Il fatto che manchino numeri sul fenomeno credo sia un classico esempio di mancanza delle istituzioni nei confronti delle associazioni. L'opposto di quello che andrebbe fatto: cioè facilitare il lavoro di un terzo settore attivo e vivace come quello di Milano», rincara la dose Marco Tansini, giovane presidente della commissione politiche e servizi sociali – salute – pari opportunità della zona 8. Un’analisi quantitativa, invece, sarebbe molto utile «Soprattutto per programmare risposte efficaci, sempre più necessarie con l’invecchiamento dei genitori di questi ragazzi – chiarisce Elisabetta Malagnini –. Non esiste un’analisi dinamica del fenomeno, gli unici dati certi sono quelli relativi ai ragazzi disabili che hanno frequentato le scuole dell’obbligo e i Cdd, ma la dispersione è un rischio forte. Basta pensare ai problemi legati alla disabilità delle persone straniere, che rischiano più facilmente di altre di essere abbandonate, lasciate sulle spalle delle famiglie. Soprattutto in un periodo come questo, dati precisi aiuterebbero anche a razionalizzare gli interventi, a ottimizzare le risorse e a pianificare con anticipo le azioni che poi devono essere fatte con urgenza». E anche se il problema andrebbe risolto a livello cittadino, il consigliere
Tansini, dal canto suo, risponde per quello che lo riguarda: «Il lavoro del consiglio di zona a proposito del problema dei disabili deve agevolare il rapporto tra associazioni e comune. Concretamente significa scambiarsi le conoscenze e avere una comunicazione più efficiente. Vogliamo anche cercare nuovi spazi da mettere a disposizione delle associazioni. Soprattutto in questo settore, ne servono molti. E vorremmo cercare di utilizzare locali del comune lasciati vuoti».
Insieme per il “Dopo di noi” Gli spazi e gli aiuti sono sempre più necessari, soprattutto man mano che i genitori dei ragazzi disabili (del Gallaratese e non solo) invecchiano, e riescono sempre meno a fronteggiare le necessità dei loro figli. «Per affrontare il problema del “dopo di noi”, tra il 1999 e il 2000 è nata l’associazione di cui sono presidente – spiega orgoglioso Procopio, parlando di “Presente e Futuro” –. Dopo tutte le battaglie che abbiamo fatto in questi anni, riguardanti il presente dei nostri ragazzi, dobbiamo preoccuparci di cosa faranno in futuro, quando noi genitori non ci saremo più. Passi in avanti ne abbiamo fatti, ma molti disabili vivono ancora a casa con madri e padri, ormai molto anziani. Dove andranno dopo la morte dei genitori? Quale organismo sostituirà la famiglia? Casa Betti non basta certamente per tutti. A mio parere bisogna ancora lavorare in questa direzione. Noi come associazione vorremmo aprire un’altra comunità, ma non riusciremo comunque a risolvere da soli il problema del “dopo di noi”».
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La cooperativa compie vent’anni: nonostante l’ostracismo del mercato, ha consentito a tanti soggetti fragili di avere una casa
Calabrone Dar, c’è un alloggio per tutti di Silvia Montella Dar uguale casa. Casa uguale vita. È su questo principio che la cooperativa Dar, che prende il nome dal termine che in arabo vuol dire – appunto – casa, ha basato tutto il suo operato. Una cooperativa unica nel suo genere, che si pone l’obiettivo di creare opportunità di abitazione a canone sostenibile per le fasce deboli delle popolazione: immigrati, quindi, ma non solo. E una storia lunga vent’anni, che merita di essere raccontata. Lo facciamo con Giorgio D’Amico, per tanti anni vicepresidente di Dar e oggi membro del consiglio di amministrazione. «Già nel 1991 – attacca – cominciavamo a capire che l’immigrazione si portava con sé alcuni seri problemi: gli immigrati arrivavano, ma non trovavano condizioni di lavoro accettabili né sistemazioni abitative adeguate. Per questo è nata Dar, per richiesto da parte di Dar un’importante dare a chi arrivava in Italia la possibilità riflessione: come scegliere a chi mettedi avere un alloggio a un prezzo sostere un tetto sopra la testa, tra tante pernibile, in modo da conquistare una stasone in difficoltà? bilità nelle relazioni, e potersi meglio in«All’inizio usavamo un sistema a tegrare nel nostro paese». punti analogo a quello dell’Aler, valutando i bisogni delle persone, ma poi Dall’emergenza all’attesa questa modalità è risultata impraticabiDi certo, in vent’anni le cose sono molle – chiarisce D’Amico –. Non ci siamo to cambiate. Così come è cambiata la tipiù sentiti di mettere in fila i bisogni. pologia delle persone che si rivolgono a Una moglie col cuore malato vale più o Dar: «Inizialmente gli stranieri appena meno di due bambini piccoli? Questo arrivati in Italia venivano da noi, per lo tipo di decisioni mettevano in difficoltà più senza casa, in una situazione di fornoi e anche i nostri soci. Allora ci siamo te emergenza, che noi potevamo però affidati al criterio cronologico: ogni peraffrontare e spesso risolvere. Oggi, invesona che arriva si iscrive, diventando ce, le attese per una casa sono molto socio della cooperativa, ci dice di che lunghe, anche 7 o 10 anni; quando chiagrandezza è l’alloggio che cerca. Dopomiamo i soci perché hanno ricevuto dichè le viene assegnato un numero, ed l’alloggio spesso sono in Italia già da entra in lista d’attesa. Quando abbiamo molti anni, e magari in qualche modo a disposizione un gruppo di case all’inhanno già risolto la loro situazione». terno dello stesso complesso, cerchiaNon solo: cambiano anche le richiemo di dividerle tra italiani e stranieri, in ste degli inquilini. «Prima ogni proposta modo che non si creino ghetti». di alloggio che facevamo veniva subito accettata – afferma D’Amico –, ma oggi è diverso: ci confrontiamo con una doL’ascolto contro la morosità manda già allenata a vivere e sopravviUn problema che si pone quando si vere a Milano». parla di affitti è la morosità, il ritardo nel I criteri per l’assegnazione degli alpagamento del canone. Per prevenirlo loggi rappresentano un fattore cruciale. Dar ha puntato tutto sull’ascolto e la fiPerche se la domanda è cambiata, non ducia reciproca: «Ci sono tre persone accenna certo a diminuire. Questo ha che tengono i contatti con i nostri soci
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assegnatari, conosciuti uno per uno. Quando si verifica una morosità, per prima cosa contattiamo le persone interessate per farci spiegare come mai non sono arrivati i pagamenti. Vogliamo capire, anzitutto, da dove nasce la difficoltà. Il più delle volte il ritardo viene recuperato nei mesi successivi o con piani a più lunga scadenza. In una piccola minoranza di casi, dobbiamo intraprendere azioni legali, anche perché talvolta, per fortuna assai raramente, ci sono utilizzi scorretti dell’abitazione, come i subaffitti: situazioni che non possiamo accettare». Dietro a ogni socio di Dar c’è una storia diversa, spesso dolorosa, ma che grazie alla cooperativa porta a un recupero e all’integrazione. Come è emerso
Mix sociale ed etnico Gli alloggi che la cooperativa Dar gestisce nel quartiere Stadera
scarpmilano in occasione della festa dei vent’anni di Dar, quando sono stati festeggiati quattro soci divenuti finalmente cittadini italiani: «È stato possibile alla fine di un percorso cui Dar ha partecipato da protagonista, dando la possibilità di avere una casa a un costo sostenibile, condizione indispensabile per acquisire stabilità sociale ed economica e ottenere la cittadinanza. Devo dire che oggi queste persone sono italiani molto più orgogliosi di esserlo di tanti nostri connazionali...». Per Dar, “casa” non vuol dire avere solo un tetto sopra la testa, spiega D’Amico: «A chi non ha la casa manca un elemento essenziale della vita, perché non c’è la possibilità di avere rapporti sociali, che sono l’essenza stessa dell’esistenza. Le relazioni sociali devono accogliere e sostenere la persona che arriva da lontano; per questo abbiamo capito che dovevamo aggiungere all’offerta di un tetto anche servizi di inclusione sociale, che portiamo avanti sia con i nostri soci, sia insieme ad altre realtà associative che operano nel territorio. Questo fa di noi un soggetto unico nel panorama milanese e lombardo». Gli esempi sono tanti, e rappresentano un vero e proprio accompagnamento verso l’integrazione: ci sono progetti di insegnamento dell’italiano agli stranieri, o la banca del tempo, decollata al quartiere Stadera, che prevede lo
La storia
Gli affitti, i bandi, le garanzie: due decenni di battaglie e progetti Venti candeline sulla torta, tanto impegno e un bilancio (sociale ed economico) sicuramente positivo. La cooperativa Dar è nata nel 1991 su iniziativa di un piccolo gruppo di persone, tra cui Piero Basso, primo animatore dell’idea, e Sergio D’Agostino, attuale presidente. Giorgio D’Amico, a lungo vicepresidente, rievoca i primi tempi della cooperativa, che sono stati molto difficili: «All’inizio non avevamo credito né sul mercato immobiliare né con le pubbliche amministrazioni, e abbiamo fatto molta fatica a trovare gli alloggi da mettere a disposizione dei soci. L’obiettivo era reperirli in modo tale da poterli affittare a canone molto basso, ma senza “buttare per aria” i nostri bilanci. Ci siamo rivolti al comune, al Pio Albergo Trivulzio e all’Aler, che sapevamo avere molti alloggi vuoti e in cattive condizioni, proponendo loro di affittarceli per periodi di tempo lungo (dai 15 ai 20 anni). Noi li avremmo messi a posto e poi affittati ai soci a un canone non simbolico ma comunque basso, in modo da poter recuperare nell’arco dei 15 anni i soldi inizialmente investiti». I primi segnali sono arrivati solo dopo quasi dieci anni, come ricorda Giorgio D’Amico: «La nostra proposta, dopo molti tentativi, ha cominciato ad avere risposte dal comune alla fine degli anni Novanta. Quando io sono arrivato, nel 1998, la cooperativa aveva disponibili una ventina di alloggi, prevalentemente di provenienza comunale. In seguito, anche l’Aler è diventata sensibile e abbiamo proseguito su questa linea, fino a che questa relazione non ha subito una battuta d’arresto, per motivazioni prevalentemente politiche. Abbiamo quindi cercato altre strade, ci siamo associati ad altre cooperative, abbiamo partecipato a bandi di riqualificazione urbana, come nel quartiere Stadera o ad Affori, rivelatisi due veri e propri successi, due pietre miliari della storia della cooperativa». Nel primo caso, allo Stadera, sono stati assegnati 48 appartamenti, che compongono un bel mix sociale ed etnico. Ad Affori, invece, nel 2001 Dar ha aderito al consorzio cooperativo “Ca’ Granda”, partecipando alla costruzione di un nuovo complesso residenziale, il “Villaggio Grazioli”. Oggi Dar si configura come realtà consolidata nel panorama milanese e lombardo, con circa 230 alloggi, da Seregno a Cernusco, da Lodi a Trecella e nella grande Milano. E Dar non è solo affitto: di fronte alla richiesta di numerosi soci di essere aiutati nell’accesso alla proprietà dell’alloggio, Dar ha deciso anche di offrire la propria garanzia a coloro che intendono acquistare una casa.
scambio di prestazioni tra le persone che vi abitano. Oltre a questo, c’è anche la volontà di conservare la cultura di origine degli stranieri, come dimostra il progetto di insegnamento dell’arabo ai bambini nati in Italia, che viene impartito dalle stesse madri arabe, a cui la cooperativa “insegna a insegnare”.
Tanti progetti per il futuro Tanti i progetti in corso. E tanti altri per il futuro. È sempre Giorgio D’Amico a fornire le anticipazioni: «Siamo in un periodo di svolta della vita associativa, perché abbiamo in cantiere progetti
molto ambiziosi, che consentiranno a Dar di fare un salto di qualità potrebbero portarci a raddoppiare il numero di alloggi gestiti. È una sfida molto grande e impegnativa, ma la vogliamo affrontare con entusiasmo». Insomma Dar ce l’ha fatta. Alla faccia di chi non l’ha sostenuta. Conclude D’Amico: «Dar è come un calabrone, è un oggetto che non dovrebbe poter esistere perché non ubbidisce a nessuna delle regole che il mercato vorrebbe imporre. Eppure, nonostate tutto, eccoci qua. E riusciamo anche a tenere in ordine i nostri bilanci...».
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Decimo rapporto di Caritas Ambrosiana: richieste in aumento ai centri d’ascolto, con la crisi; tornano italiani e lavoratori
Dieci anni di povertà, radiografia di un’ascesa di Francesco Chiavarini Aumentano le persone che chiedono aiuto alla Caritas, nel territorio metropolitano e diocesano. Crescono in particolare gli uomini, gli italiani e i disoccupati. Cercano lavoro, ma sempre di più anche aiuti economici. Esplode la questione del reddito: quasi la metà degli utenti non arriva alla fine del mese, anche quando hanno un lavoro. È questo il preoccupante quadro che emerge dal 10° Rapporto dell’Osservatorio diocesano delle povertà e delle risorse, presentato dalla Caritas Ambrosiana durante un convegno a fine ottobre. L’osservazione sugli utenti di 59 centri d’ascolto (campione statisticamente significativo, rispetto agli oltre 300 centri attivi in diocesi) si avvale quest’anno di una carta in più: il confronto con quanto accaduto nel corso di un decennio. Ciò permette di indicare alcune linee di tendenza: noritari, tra gli stranieri che affluiscoanche se statisticamente non del tutno ai centri d’ascolto Caritas, gli irreto rilevanti, sono in ogni caso interesgolari, il cui numero è calato della santi per cogliere l’evoluzione del femetà, scendendo al 7,8%, benché nel nomeno del disagio, in un decennio, loro complesso gli immigrati contitra le fasce deboli della popolazione. E nuino a rappresentare la componente anche dal confronto tra i dati del 2010 largamente maggioritaria. Consistencon quelli del 2007, l’anno precedente anche la variazione che ha riguarte alla crisi, si osservano significativi dato i disoccupati, aumentati del cambiamenti tra gli utenti dei centri 12,7%, sino a rappresentare, nel 2010, d’ascolto. il 63,9%, quindi la netta maggioranza delle persone che hanno chiesto aiuto Richieste sempre in aumento alla Caritas. Dal Rapporto 2010 si evince che, anTra il 2007 e il 2010 è cambiata anzitutto, sono in aumento le persone che la natura delle richieste. Sono auche chiedono aiuto: gli utenti, rispetto mentati di un quarto (+ 6,5%) coloro al 2007, cioè al periodo immediatache chiedono beni materiali e servizi mente precedente alla crisi che stia(nel 2010 sono stati un po’ meno di un mo vivendo, sono il 10,7% in più, e adterzo degli utenti: il 30,4%). Quasi raddirittura il 59% in più rispetto al 2002. doppiato è anche il numero di coloro Si è registrato, insomma, un trend di che chiedono sussidi economici (nel crescita ininterrotto negli ultimi dieci 2010, l’11,2% degli utenti). anni, se si esclude una lieve flessione Il lavoro resta comunque la richiesta registratasi tra il 2005 e il 2006. principale (51,6% nel 2010). L’occupaLa crisi, inoltre, modifica anche la zione è stata il bisogno prioritario ritipologia degli utenti. Nel 2010 gli uoscontrato dagli operatori dei centri di mini hanno raggiunto il 35,8%, creascolto, sempre sopra il 50%, nell’arco scendo del 5,7% rispetto al 2007. E dodi tutto il decennio. A partire dal 2007 po il calo osservato nella prima metà è esplosa però la questione del reddidegli anni 2000, gli italiani sono risalito: mentre prima della crisi riguardava ti e sono arrivati a rappresentare più poco più del 30% degli utenti, nel 2010 di un quarto degli utenti totali (il sono stati poco meno del 50% coloro 26,4%). Sono diventati sempre più mi-
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che hanno chiesto aiuto perché non riescono a far quadrare il bilancio familiare, anche se hanno un lavoro.
Un reddito di autonomia «Il lavoro è stata la questione centrale in tutti i dieci anni che abbiamo monitorato. La crisi l’ha accentuato, ma ha messo in luce anche un altro aspetto del disagio: non è più sufficiente avere un’occupazione per potersi considerare al riparo dalla povertà – ha dichiarato don Roberto Davanzo, direttore di Caritas Ambrosiana –. I working poors, di cui i sociologi parlano da qualche anno, sono ormai
Un presidio di prossimità I centri di ascolto Caritas sono un importante strumento per capire i bisogni del territorio
scarpmilano L’identikit degli utenti
Soprattutto donne e stranieri, ma le tendenze cambiano
una quota, fortunatamente ancora minoritaria ma in preoccupante ascesa, degli utenti dei centri di ascolto Caritas. Sono uomini, non più solo donne, italiani e non più solo stranieri, che con il coraggio della disperazione superano la vergogna sociale di bussare alle porte del parroco per chiedere non più il lavoro, che sanno di non poter ottenere, ma i “lavoretti”, prestazioni occasionali, il pagamento delle bollette del gas e della luce e dei libri di scuola dei figli. Da queste storie emerge una rassegnazione e una mancanza di prospettive che toglie il respiro. Ridare ossigeno a queste persone è la
Nel 2010 si sono rivolte ai 59 centri di ascolto del campione (un sesto del totale) e ai servizi Sai (Servizio accoglienza immigrati), Sam (Servizio accoglienza milanese), Siloe (Servizi integrati lavoro, orientamento educazione) di Caritas Ambrosiana ben 17.610 persone. Di costoro è possibile tracciare il seguente identikit. Genere: femmina. Le donne rappresentano i due terzi del totale degli utenti (11.307 persone, pari al 64,2%). Nazionalità: straniera. Gli immigrati costituiscono il 73,6% degli utenti. Spiccano, per numerosità, i cittadini extracomunitari (57,2%), i comunitari sono l’8,6%, gli irregolari il 7,8%. Più della metà provengono da cinque paesi: Perù (14%), Marocco (11,7%), Ecuador (9,7%), Romania (9%) e Ucraina (8,4%). Un quarto del totale degli stranieri rivoltisi a Caritas è in Italia da meno di cinque anni, il 7,3% da meno di un anno. Età: tra i 35 e i 44 anni. I soggetti che si rivolgono ai centri di ascolto e ai servizi Caritas sono mediamente giovani: un terzo (36,8%) ha meno di 35 anni, un ulteriore terzo (il 29,1%) ha tra i 35 e i 44 anni. Gli over 65 sono il 2,9%. Stato civile: coniugati o celibi. I coniugati sono il 49%, seguono i celibi (25,6%), i separati e i divorziati (14,1%), i conviventi (5,5%), i vedovi (5,5%). Il 16,7% delle donne è separata o divorziata, la percentuale è più bassa tra gli uomini (9,2%). Titolo di studio: licenza media o diploma. Hanno la licenza media inferiore il 38,2%, il diploma il 26,7%, la licenza elementare il 12,4%, la qualifica professionale il 12,2%, la laurea il 7,5%. Condizione occupazionale: disoccupati di breve o lungo periodo. I disoccupati di breve periodo sono il 39,9%, seguono i disoccupati di lungo periodo (24%) e le persone alla ricerca del primo lavoro (5,2%). Una quota significativa, circa il 17%, è costituita da soggetti occupati regolarmente.
sfida dei prossimi anni. A essa la politica, anzitutto, deve assumersi la responsabilità di fare fronte, intervenendo sul mercato del lavoro, ma anche modificando i sistemi di protezione sociale, oggi incapaci di dare una risposta ad ampie fasce della popolazione». Dall’analisi dei dati contenuti nei rapporti sulle povertà degli ultimi dieci anni emerge che i servizi Caritas e i centri di ascolto hanno non solo svolto una funzione sostituiva dei servizi per l’impiego pubblici, ma sono diventati “il collettore di una domanda sempre più marcata per le politiche esplicite di contrasto alla povertà”. Per dare una risposta a questo bisogno, servirebbe un ripensamento dell’impostazione corrente del welfare. A questo proposito da Delegazione regionale delle Caritas lombarde (che riunisce le dieci Caritas diocesa-
ne) ha proposto in estate l’attivazione sperimentale, in Lombardia, del reddito di autonomia. Secondo questa proposta, i beneficiari riceverebbero un sostegno economico, a fronte della sottoscrizione di un patto vincolante, che prevede ad esempio l’iscrizione ai centri per l’impiego, la partecipazione a corsi di riqualificazione professionale, l’obbligo di frequenza scolastica per i figli. La misura dovrebbe sostituire misure già esistenti: la copertura finanziaria sarebbe quindi garantita, in buona parte, da una razionalizzazione della spesa sociale. «L’analisi dei dati del 10° Rapporto sulle povertà impone la necessità di dare riposte più incisive. Quella del reddito minimo è una delle ipotesi più accreditate», ha commentato don Roberto Davanzo. L’appello sarà raccolto dalle istituzioni regionali?».
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testimoni Entrambi giunti con la “primavera araba”. Entrambi accolti a metà...
O il tetto, o i documenti: Ahmed e Moussa, destini paralleli di Generoso Simeone
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no ha avuto i documenti, ma non l’accoglienza, perché dorme ancora in stazione Centrale. L’altro ha avuto l’accoglienza, ma non i documenti. E il rischio di diventare un clandestino da espellere è altissimo. Due storie simili, quelle di Ahmed e Moussa, che dimostrano l’inadeguatezza delle risposte che l’Italia ha messo in campo nel fronteggiare l’ondata migratoria figlia della primavera araba. Ahmed è tunisino, ha 20 anni, sbarca a Lampedusa a fine marzo. Vuole l’Italia, l’Europa, l’occidente; è carico di speranze e sogni. I primi dieci giorni sull’isola li trascorre in una tenda che si è costruito da solo, poi lo trasferiscono al Cara di Trapani. Moussa di anni ne ha 23, lui è maliano e da sette anni viveva in Libia, dove si era costruito una discreta posizione economica facendo il macellaio. Poi è scoppiata la guerra e per lui le cose sono diventate difficili. I ribelli lo accusavano di essere un mercenario, le truppe fedeli a Gheddafi lo ritenevano un fiancheggiatore degli insorti. A fine aprile scappa, imbarcandosi anche lui per Lampedusa. Qui è detenuto due settimane al Cie, poi viene smistato al Cara di Bari. Nei centri di accoglienza richiedenti asilo si decide il destino dei due ragazzi. A Trapani, ad Ahmed viene rilasciato un permesso di soggiorno elettronico per motivi umanitari valido sei mesi. Può lasciare il centro liberamente. Lui sfrutta questa possibilità risalendo la penisola sui treni, perché vuole arrivare in Francia. Dopo diversi tentativi andati a vuoto, riesce a scavallare oltralpe. A Lione trova un lavoro di carico-scarico merci. A Bari, Moussa fa la richiesta di asilo politico e, in attesa che la sua domanda venga esaminata, viene portato in pullman, di notte, in un campo allestito dalla Croce Rossa a Bresso, in provincia di Milano, prima di finire ospite in un residence di Pieve Emanuele, sempre nell’hinterland milanese. Ahmed in Francia ci rimane poco, perché a settembre il permesso ottenuto in Italia gli scade e i suoi datori di lavoro non ne vogliono sapere. Tra l’altro il documento che ha in mano non è convertibile in un permesso francese e anche l’accesso alla tutela sanitaria è negato. Rientra in Italia, a Milano, dove gli capita più di una disavventura. Viene derubato e malmenato. Si ammala di bronchite. Infine arriva alla Casa della carità attraverso il passaparola. Viene curato, ma non lo si può ospitare, perché la struttura è piena. E nessun altro centro di accoglienza ha posto. Si riesce però a fargli ottenere, attraverso una dichiarazione di ospitalità, il rinnovo per altri sei mesi del permesso di soggiorno. Lui un pezzo di carta dunque ce l’ha, ma non ha ancora trovato un tetto sopra la testa. L’esatto opposto di Moussa. Da quando lo hanno portato a Pieve Emanuele, lì è rimasto. Tutti i giorni. Senza fare niente. Gli è stato fissato l’appuntamento con la commissione territoriale di Milano, che dovrà esaminare la sua domanda di asilo. La data è a dicembre. Teme che la richiesta sia rigettata, perché lo sono state quasi tutte quelle dei suoi compagni. Ha un tetto: ma rischia l’espulsione.
Il tunisino ha il permesso, ma dorme alla stazione. Per il maliano l’accoglienza c’è, ma forse verrà respinto...
www.casadellacarita.org
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Viaggio nel laboratorio di Sesto san Giovanni, dove collaborano artisti, operatori sociali e persone con problemi psichici
I frutti di Wurmkos arte, non terapia di Maria Chiara Catania Un giovane e brillante artista di successo, insoddisfatto però da una carriera sempre più intrappolata nelle logiche del mercato. E un giovane operatore sociale, stanco dei soliti lavoretti di pittura e basso artigianato, continuamente proposti alle persone con cui lavorava ogni giorno. Siamo a Sesto San Giovanni, e i due giovani protagonisti del racconto sono Pasquale Campanella, l’artista, e Claudio Palvarini, il responsabile della cooperativa Lotta contro l’emarginazione, che si occupa di persone con disagio psichico. Dal loro incontro, nel 1987, è nato Wurmkos, parola senza significato, laboratorio sperimentale al confine tra arte e sociale, divenuto nel 2005 una Fondazione. Gli anni del varo del progetto erano quelli successivi all’entrata in vigore della legge Basaglia, che sancì la chiusura dei manicomi, e del dibattito su quale dovesse essere il destino tecniche non sono rilevanti, quello che dei pazienti psichiatrici, soprattutto i conta è quello che si mette in campo. più gravi. Non si trattava soltanto di Wurmkos vuole invece essere un camtrovare soluzioni terapuetiche, ma sopo neutro, in cui le energie di un moprattutto di immaginare opportunità mento fanno generare una comunicae percorsi dal punto di vista sociale, e zione più vera, non incanalata e strutdi ragionare sulla qualità della vita delturata nelle tecniche». le persone affette da disagio psichico. Per capire il significato più profondo e autentico di questa esperienza, bisogna anzitutto abbandonare ogni L’energia del momento stereotipo legato al concetto di malatNell’alveo di quella riflessione si coltia, di cura e di progetto. La malattia locò sin dal principio Wurmkos, labonon è una discriminante, perché il ratorio cresciuto, negli anni, nella sua gruppo è aperto e in esso ognuno sede di via Falck 44, grazie agli utenti mantiene la propria individualità, codella cooperativa e alle persone che vi me persona, prima che come paziensi sono lasciate coinvolgere – oggi cirte. E la cura non esiste: Wurmkos non ca una ventina – lavorandovi attivapretende di darsi compiti, in questo mente. Sono stati (e sono) studenti, senso, invece esiste il beneficio che operatori, artisti e critici d’arte. Il ruoogni persona trae per sé. Quanto al lo di questi ultimi non è quello di maeprogetto, non è il risultato da raggiunstri: non insegnano le tecniche dell’argere, ma il viaggio da percorrere: «Per te, a dipingere con l’acquarello o con noi l’idea più importante non è realizla tempera, a modellare l’argilla e a dezare subito qualcosa, ma accompacorare la ceramica. Nel laboratorio di gnare le persone nella vita di tutti i Wurmkos, infatti, si impara piuttosto a giorni – prosegue Campanella –. È un tirare fuori le energie, spesso represse, atteggiamento mentale diverso da chi, che neppure si pensa possano esistere. nell’arte, vuole fare carriera». Ogni inPasquale Campanella ribadisce concontro in laboratorio, due volte la setvinto che Wurmkos non fa arte terapia, timana per tutto l'anno, si rivela così non ha mai voluto farla e mai la farà: sempre diverso, a seconda della parte«L’arteterapia ha più a che fare con la cipazione di ognuno e dell’energia, apmedicina che con l’arte – spiega –; le
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punto, del momento. L’aspetto relazionale, dunque, e le dinamiche di gruppo all'interno della dimensione progettuale collettiva, sono gli elementi fondanti dell’impegno sociale di Wurmkos, forse più dell’esito puramente artistico che, tuttavia, ne costituisce una delle caratteristiche distintive. L’arte, intesa come mezzo di espressione di sé, diventa anche il ponte attraverso cui accedere al cosiddetto “mondo normale”, e soprattutto, a una porzione privilegiata di esso: tutti i lavori, infatti, hanno un valore certificato sul mercato dell’arte, vengono catalogati e vanno a costituire il patrimonio della Fondazione. Diventano mostre, anche nell’ambito di fiere, isti-
scarpmilano tuzioni museali e eventi espositivi molto prestigiosi in Italia e all’estero, come la Biennale di Venezia, a cui Wurmkos partecipò nel 2001 con “Eden”. Altri ancora vengono venduti a vario titolo, e addirittura capita che non vengano prese in considerazione richieste specifiche da gallerie o collezionisti, per mantenere saldo il valore sociale, non solo estetico, del laboratorio e dei suoi frutti.
Non siamo outsider Al di là dell’autorevolezza delle occasioni e dei luoghi in cui Wurmkos ha avuto visibilità e si è fatto conoscere, la cosa più importante, come si è detto, è che ogni persona coinvolta nel laboratorio acquista un ruolo. E questo accade nelle mostre personali, così come in quelle collettive: «La fortuna di Wurmkos – sintetizza Campanella – è creare una dimensione che immette nella vita di tutti i giorni. Siamo nel mondo dell’arte, perché siamo artisti come tutti gli altri. C’è chi inizia a viaggiare, chi acquista autonomia nelle attività abituali, chi inizia a leggere giornali e riviste per cercare recensioni e commenti sul laboratorio». Inevitabile, in un tale contesto, che ogni etichetta precostituita si annulli. E che Wurkmos rifiuti le definizioni – come outsider art e art brut – che iden-
tificano produzioni riconosciute come artistiche, ma realizzate in generale da non professionisti, e in particolare dai pazienti ricoverati negli ospedali psichiatrici, poiché tendono ad accentuare la divisione tra “noi”, i sani, e “loro”, i malati. «In fondo l’arte fa parte del quotidiano e non è prerogativa di alcuni. Una cosa è la vita ai margini, un’altra una vita anormale». Constatazione spiazzante, quanto disarmante nella sua ovvietà: esiste forse una linea di demarcazione, che riconosce ad alcuni la possibilità di avere qualcosa da esprimere e che ad altri la nega? «Quando abbiamo fatto una delle nostre prime mostre, nel 1989 a Muggia, in provincia di Trieste, non ci siamo presentati al pubblico in anticipo, e nessuno aveva capito che era una mostra fatta da persone con problemi psichiatrici – continua a raccontare l’artista sestese». Da allora a oggi numerosi progetti hanno riscosso successo di critica, sono durati anche diversi anni e sono stati realizzati nonostante l’imprevedibilità degli eventi (l’aggiunta di persone nuove, lo spontaneo allontanamento di altre, tanti sbagli ed errori che «non si possono evitare perché intrinseci al progetto stesso, e necessari per andare avanti»).
Abitare alla Parpagliona Non può esserci una griglia di valutazione, che indichi l’importanza di una realizzazione rispetto alle altre. Dovendo fare un esempio, si può citare “WurmkosAbitare”, durato ben quattro anni e attento al tema dell’abitare come condizione vitale per il benessere di qualsiasi persona e per il riconoscimento della sua dignità. «Ci si è concentrati sul soggetto – riflette Campanella –, non sull’ambiente esterno: è fondamentale creare una sinergia tra lo spazio e chi ci vive dentro». Dove per spazio si intende la casa, ma anche l’ospedale, luogo il più delle volte anonimo, in cui diventa impossibile ritrovare una propria armonia. Ne è nata anche un’esperienza di accoglienza concreta, la casa della Comunità Parpagliona: stabile completamente ristrutturato e recuperato grazie alla creatività e l’impegno del laboratorio. Oggi diverse persone, tra cui anche artisti, vi condividono una vita “normale”. Chi l’ha detto che l’arte migliora la vita?
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Palcoscenico d’eccezione Due momenti dell’opera-installazione “Bandiere/Ritornello”, che ha partecipato alla 54ª Biennale di Venezia, nello scorso giugno novembre 2011 scarp de’ tenis
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l’altra milano Ci vanno tutti, bisognosi e abbienti. Prezzi abbordabili. E qualche opacità
Mercatini dell’usato, poche regole tante occasioni di Antonilo Vanzillotta
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MERCATINI DELL’USATO, A MILANO, sono in costante crescita. E non conoscono cri-
si. È un settore a cui attingono tutti, dai poveri ai più abbienti, alla ricerca di oggetti a poco prezzo, ma anche di antiquariato d’autore, o del disco in vinile anni Settanta. Le regole di questi mercati sono poche e chiare: le persone che vogliono vendere qualcosa decidono un prezzo insieme al commerciante, e gli eventuali guadagni sono divisi al 50%. Nel caso in cui dopo un mese l’oggetto risulti invenduto, il prezzo viene dimezzato. Non sempre, però, tutto il resto è altrettanto trasparente... “Porto di mare”, in via Brenta a Milano, è uno dei tanti mercatini dell’usato sorti in città come funghi. Il proprietario è di origine indiana. «Il giro d’affari non è granché – racconta –, perché in questi tipi di bazar il lavoro onesto non paga: io ho due dipendenti in regola, in più mi appoggio a due “padroncini” con i furgoni, quando c’è da fare qualche trasporto. Il guadagno dovrebbe esserci, perché è tutto senza Iva. Ma tra affitto, stipendi, contributi e spese varie, se ne vanno più di 15 mila euro al mese. Quanta roba usata devo vendere per recuperare questo importo? Guardati in giro. I clienti sono davvero pochi...». Fuori dal suo capannone c’è anche l’insegna della compravendita di oro e argento: almeno questa funziona? «É una palla al piede: l’oro costa 24 euro al grammo, mentre l’argento 0,40 centesimi. Se fai acquisti regolari devi registrare tutti i movimenti in entrata e in uscita. Non scappa nulla. E i guadagni sono davvero minimi». Eppure negozi di questo tipo stano spuntando come funghi, nelle vie di Milano. «È un mercato in piena crescita, ma pieno di magagne e cose losche – racconta il commerciante indiano –. Qui da me, però, si trova di tutto, e tutto in regola». I tantissimi prodotti allineati sugli scaffali sono tutti in conto vendita: nel giro di pochi mesi, una volta venduta la merce, il vecchio proprietario viene rimborsato. «È un mercato che si basa su una filosofia politically correct, quella del riutilizzo, che aiuta a non gonfiare le discariche abusive e a far risparmiare gli acquirenti». C’è di tutto, si diceva, in questi mercatini: abbigliamento vintage, dischi in vinile – molto gettonati –, poi dvd, chitarre, biciclette, calciobalilla. E ancora: scarpe sportive, libri, fumetti, televisori, arte povera, sedie raffazzonate i cui prezzi vanno dai 5 euro in su, fino a pregevoli letti indiani (anche più di un migliaio di euro). Gli sconti dopo circa due mesi di “esposizione” sono interessanti, e non sono pochi i commercianti che frequentano i mercatini di antiquariato per rifornirsi. Tra i clienti c’è di tutto: extracomunitari disperati, studenti squattrinati, pensionati, antiquari a caccia di lampadari o “cineserie”. «Con questa attività i guadagni sono molto risicati – torna a lamentare il negoziante –; si vive alla giornata, sperando, ogni giorno, di arrivare al successivo. Se segui le regole, se fai tutto a norma di legge, ricavi appena i soldi per mangiare...».
Il commerciante indiano: «Compro e vendo di tutto. Ma seguendo le regole, basta appena per mangiare»
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latitudine como Siticibo raccoglie eccedenze alimentari. E nelle mense si mangia meglio
Programmare non è tutto, ma aiuta a battere lo spreco di Salvatore Couchoud
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ra i tanti sprechi che maggiormente feriscono la sensibilità collettiva, e penalizzano non marginalmente il reddito familiare e il bilancio di settori strategici, quali l’ambiente e l’industria agroalimentare, figurano sicuramente le tonnellate di cibo fresco che, quotidianamente, finiscono in discarica. Un vero delitto: cibo perfetto che viene buttato, solo perchè considerato non più “buono”. La buona novella è che anche Como ha da tempo dichiarato guerra a questa forma di spreco, avviando e consolidando un progetto di riduzione alla fonte delle eccedenze, che sta già dando risultati di rilievo. In collaborazione con il Banco Alimentare della Lombardia, i 45 volontari della Siticibo, organizzazione lariana che sin dal 2005 opera nel campo dello smistamento in tempo utile dell’esubero alimentare alle mense dei poveri della città, hanno rafforzato le attività di micrologistica locale e hanno consolidato i rapporti con una rete che include ben sedici donatori di cibi freschi e cotti. Oltre a ciò, si è esteso e intensificato in modo capillare il raggio d’azione della Siticibo, che nel 2011 ha permesso di raccogliere, nella sola provincia lariana, qualcosa come 173.151 chilogrammi di derrate di provenienza industriale, 90.159 chili di merci recuperate dalle strutture della grande distribuzione coinvolte nel progetto (supermercati delle catene Bennet, Esselunga e Iper) e 26.147 chili di pane e frutta dalle mense scolastiche e aziendali, nonché dai molti dettaglianti che hanno deciso di aderire all’iniziativa. In dirittura d’arrivo c’è ora anche un nuovo portale on line, studiato appositamante per ottimizzare la gestione del surplus alimentare che viene man mano raccolto. L’obiettivo è articolare una rete di comunicazione interattiva, che consenta di evitare, come è avvenuto qualche volta in passato, che una determinata organizzazione venga letteralmente “sommersa” dalle eccedenze, mentre altre ne accolgano solo una quota minima e irrisoria. L’utenza, giacchè è forse questa la vera cartina di tornasole della bontà del lavoro intrapreso, sembra aver davvero apprezzato gli sforzi compiuti da Siticibo: se si chiede “come si mangia” agli abituali frequentatori della mensa vincenziana di via Tatti, di quella serale di via Grossi e di quella della Piccola Casa Ozanam, si scopre che l’indice di gradimento è diventato ora medio-alto, e travalica di gran lunga quello degli anni trascorsi, generalmente caratterizzato da mugugni e lamentele sulla qualità e quantità dei pasti. A conferma del fatto che l’organizzazione e la programmazione non saranno forse tutto nella vita, ma sono di grande importanza, in qualsiasi sfera delle attività umane...
Centinaia di tonnellate di cibo recuperate ogni anno: per ottimizzare il servizio, presto anche un portale internet
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torino Inaugurata la nuova struttura dello storico centro di ascolto Caritas. Con un servizio per sofferenze spirituali e psichiche
Due Tuniche, un Lume di speranza di Gheorghe Mateciuc «Desidero rivolgere anche pubblicamente, come ho già fatto prima personalmente, il mio più vivo grazie agli operatori e volontari di questo centro. Che riapre con prospettive nuove e ricche di servizi per tante persone soggette a povertà estreme, a volte permanenti a volte temporanee». È iniziato così il saluto dell’arcivescovo Cesare Nosiglia all’inaugurazione del centro di ascolto “Le Due Tuniche”. Il 3 ottobre, in corso Mortara, al numero 45/C, è stata infatti inaugurata la nuova sede del centro di ascolto per le persone in povertà ed emarginazione. Il centro era nato alla fine degli anni Ottanta, voluto dall’allora direttore Caritas, don Sergio Baravalle, e costruito dal diacono Mario Devito, che lo coordinò fino al 2007, nacque inizialmente per accogliere persone senza dimora. Ma nel tempo ha visto cambiare i destinatari della sua azione caritativa: dalle povertà più gravi fino
I dati
Richieste in forte aumento, arrivano anche i laureati... Il numero delle persone che sono passate tra gennaio e inizio settembre 2011 al centro Le Due Tuniche è alto: 700 persone (570 per la prima volta); nel 2010 erano state 546 e 360 nel 2009. Per la maggior parte si tratta di italiani (tra cui 30 stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana e 22 persone senza fissa dimora). Si è registrata una preponderanza di arrivi dal nord della città (quinta, sesta e settima circoscrizione), ma aumenta il numero delle persone che abitano in altri comuni della diocesi. Almeno un terzo delle persone che si rivolgono a “Le Due Tuniche” vive seri problemi familiari; in particolare molto rappresentati sono i nuclei monoparentali, solitamente composti della sola donna o da questa e i figli. Circa il 70% delle persone accolte sono disoccupate, inoccupate o hanno un lavoro precario. La scolarità degli utenti è in genere medio-bassa (scuola elementare o media inferiore), ma nel 2011 sono stati ben 13 i laureati che si sono rivolti a “Le Due Tuniche”, contro i soli 5 di due anni addietro. Le principali problematiche presentate sono state: necessità di lavoro, sussistenza quotidiana, mantenimento della casa (affitti, caparre, ma anche costo delle utenze), infine spese sanitarie e necessità particolari, legate alla condizione complessiva della persona. I 15 volontari hanno effettuato oltre 60 visite presso le case delle famiglie che lo hanno richiesto e hanno prestato circa 5 mila ore di assistenza, nei primi mesi del 2011, a tutti coloro che richiedevano aiuto. Roberto Capuano
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alle nuove forme di vulnerabilità, emerse nell’ultimo biennio di crisi. Inoltre gli utenti non provengono più solo da alcuni quartieri della città, ma da tutta l’area metropolitana. E anche da altri centri della diocesi torinese. Ulteriore nota per certi versi dolente: dal 2009 a oggi è aumentato, anzi triplicato, il numero di persone ascoltate.
Accesso libero a tutti L’accesso è aperto a tutti, il martedì e il giovedì mattina, purché siano italiani (per gli stranieri è competente l’Ufficio migranti). Dopo il primo colloquio, chi ha bisogno di ulteriori incontri deve prenotarsi, o viene indirizzato verso agenzie più adeguate ad affrontare i problemi riscontrati. Il centro ospita anche un nuovo servizio, denominato “Lu.Me.”, per aiutare le persone che affrontano situazioni di lutto, ma anche per quanti nelle parrocchie, o al di fuori, si trovano a dover sostenere altre persone con problemi di fragilità mentali. L’obiettivo del centro di ascolto non è offrire assistenza economica, ma ascoltare le persone e le loro esperienze di vita, accompagnarle verso i servizi pubblici e privati, sostenerle con varie forme di consulenza, individuare strategie e creare reti intorno alla persona e ai suoi bisogni. «Il disagio economico, la perdita del lavoro – ha spiegato Pierluigi Dovis, direttore della Caritas diocesana di Torino – portano a sentirsi diversi, dunque ad abbassare le capacità di autostima delle persone e a impedire alla macchina della persona di camminare velocemente. Il rischio è che in pochissimo tempo si cada in forme non solo di povertà grave, ma anche di difficoltà in-
scarptorino
L’ascolto si rinnova Il vescovo Cesare Nosiglia taglia il nastro del centro d’ascolto, affiancato dal sindaco, Piero Fassino, e dal direttore della Caritas diocesana, Pierluigi Dovis
teriore, dalla quale è difficile emergere». Per questo il direttore della Caritas ha lanciato un appello a tutti i cittadini di buona volontà, perché si aggiungano ai 15 volontari del centro nell’accompagnamento delle persone in difficoltà. Anche il sindaco di Torino, Piero Fassino, ha sottolineato l’importanza della vicinanza tra i cittadini: «Credo che questa ubicazione sia significativa, nel momento in cui stiamo riprogettando questa città. Questa trasformazione ha bisogno di radicarsi su valori forti come la solidarietà. La fraternità è un valore da far vivere ogni giorno. Una città è una comunità fatta di relazioni, soprattutto quando si è più fragili». E parte della società civile sta già dando una mano. “Le Due Tuniche” infatti lavora in accordo con l’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo, l’Atc (Agenzia territoriale per la casa) della provincia di Torino, i servizi sociali del comune, molte aziende di servizi e una fittissima rete di centri di ascolto parrocchiali. Le risorse economiche necessarie al funzionamento provengono da una quota dell’otto per mille e da offerte liberali, alcune ottenute dalla generosità d’imprese o da piccole campagne promozionali, come quella da 2011 al Liceo Valsalice di Torino. Ma le necessità sono sempre maggiori: bisogna fare sempre di più.
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I ricordi
La maschera della felicità, una scarpa frutto della pesca Riaprendo il cassetto della memoria, da tempo chiuso, improvvisamente saltano fuori prepotenti domande che non hanno mai avuto risposta. Domande nate da nessun ricordo: nessuna foto, eventi importanti ma non abbastanza per un padre biologico. Mio padre. Le parole risuonavano forti come urlo, ero una maschera invisibile, dovevo costruirmi un muro per difendermi, non potevo buttarlo giù per scappare. Avevo solo 4 anni, e sono finita in collegio insieme ai miei fratelli, ma con loro sono stata solo due anni, in quanto mio fratello è finito in un collegio di salesiani, e qui la prima separazione. Sono stata un breve periodo di tempo con mia sorella ma litigavamo spesso perché lei, condizionata da mio padre, si sentiva la mamma e io non potevo accettarlo e per questo arrivavo a picchiarla. Mio padre all’epoca ci separò e solo oggi ho preso coscienza del perchè lo ha fatto. Si è sentito solo, tradito, perché io pensavo alla mamma che vedevo sporadicamente. Non avendo vissuto a misura di bambina, ho dovuto crescere molto in fretta, indossando la maschera della felicità. A volte penso di non essere cresciuta del tutto, mi mancano i passaggi da bimba, da adolescente. A questo punto vorrei concludere con un ricordo divertente. Durante una vacanza in Francia, a mio padre viene in mente di andare a pescare e con fare solenne annuncia che avremmo mangiato il pesce, che a noi non piaceva. Quindi abbiamo fatto sparire le esche, lui le ha ricomprate, ma il frutto della sua pesca è stato una scarpa, cosa per la quale era impossibile non ridere. Ci ha buttato fuori dal camper. All’ora di pranzo, ci siamo messi a raccontare barzellette, ma niente da fare, niente pranzo. Ci siamo arrangiati, andando in un negozio a comprarci pane e formaggio. Com’era buono, un buon sapore quello della libertà… Nemesi
genova Disagio mentale, scelte sbagliate, alcol. Tanti fattori possono rovinare esistenze. Disordinate autoanalisi: tra rifugi e progetti
I disegni e la vespa, incidenti e percorsi di Stefano Neri Lasciatemi stare. Non ne voglio più sapere di ascolto, contratti, condizioni. Me ne sto per i fatti miei; mi prendo una vacanza dalla vita. Mi trovo un posto per la sera, dove sono da sola, dove non c’è nessuno con cui parlare, conversare, discutere. Litigare. In fondo parlo bene con me stessa, con quella bella voce roca che mi ritrovo; consumata dal vento tagliente e dal fumo della sigaretta. La riviera è piena zeppa di bei posti da occupare, non mi darà fastidio nessuno. Ci ho provato a tirarmi su, ci ho provato a fondo, ma evidentemente qualcosa non quadra. C’è qualcosa, qualcuno che congiura contro di me; che lavora alle mie spalle, incessantemente. Che ordisce complicate trame per sviarmi e rendermi difficile l’esistenza. Da anni ormai vivo in strada e mi va bene così. Nessuno mi può togliere la libertà, quel senso di distacco da tutto ciò che ledi parole; che mi facevano sentire una vega. D’altra parte sono già stata legata abra regina. Ma poi quel giorno ho lasciato bastanza; matta, mi dicevano. Ma matla mia cartellina sul treno; non l’ho più to è chi pensa di rinchiudere o incatenaritrovata. E ho perso tutti i miei pensieri. re uno spirito libero, chi cerca stoltamente di amputare l’anima di una persona. Perciò ho chiuso. E ho cominciato con i quadri. Non li trattengo per me, salvo Perciò vado, cammino, vedo. Osservo il qualche rara eccezione. Li produco, li mondo dalla mia particolare, unica anammiro, mentre mi danno una meravigolazione; e cerco di riprodurlo, di trasfegliosa energia positiva. Successivamente rire su carta tutte le emozioni che provo. li regalo. A chi capita, a chi mi ispira (se li Sì, dipingo. Sono una pittrice. Disevogliono ovviamente…). Senza chiedere gno. Coloro un’esistenza che si è fatta griné ricevere consigli da nessuno. Perché gia, algida. Un tempo scrivevo; pagine e non ne voglio più sapere di parole che mi pagine di parole intrecciate. Fiumi, mari
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legano. Perciò prendete i miei dipinti. Ma lasciatemi stare.
Un terrazzo desolante Da questo terrazzo la vista è desolante, le voci del corridoio sono sgradevoli, l’odore della stanza mi provoca il mal di stomaco. E sono fermo qui, in questo letto rialzato che sa di ospedale. Mi alzo con le stampelle, a fatica, per fare due passi. Tutto qui. Sogno di correre su un prato, attraversato da una folata di vento che mi scompiglia i capelli. E invece sono qui, grazie a quel maledetto incidente… Tra quel poco che mi è rimasto ho ancora una vespetta, fondamentale per portarmi al lavoro, ovunque io desideri. È stata fedele compagna dei miei ultimi anni; sono arrivato persino a La Spezia! Quel giorno tirava un vento maledettamente forte e, ironia della sorte, ero tremendamente in ritardo per andare al lavoro. Perciò, uscito dall’alloggio – dell’associazione – in cui abitavo, salii in sella come inseguito da un branco di lupi, aprii il gas e misi a dura prova il motore della mia “bella”. A un certo punto, all’imboccatura di una via principale, valutai con ovvia fretta le distanze e, scartando a tutta birra un furgoncino, andai a scontrare violentemente una cabina telefonica. Risultato: diverse fratture, di cui una scomposta a una gamba. Capite bene che, avendo un contratto di quelli che chiamano a tempo determinato, ero sul filo del rasoio; chiaramente, essendo indisposto, il lavoro non mi è stato rinnovato. Non so ancora per quanto tempo ne avrò: mi aspetta – dicono – una lunga riabilitazione, con ginnastica, esercizi, stampelle. E dire che sono uno che salta
scarpgenova da una parte all’altra, che ha fatto sport, che è stato quasi in cima al monte Bianco. Che, per sfuggire a dei malviventi, è saltato in un fiume da un ponte di non so quanti metri… E ora mi trovo qui, in questa struttura. Nuova, perfetta in tutti i suoi aspetti; pulita, e ben gestita. Ma triste, molto triste. Forse se qualcuno venisse a trovarmi lo sarebbe un po’ meno. Ma sono una testa calda e in tanti ambienti ho fatto, come si dice, terra bruciata. La terra è bruciata, sotto i miei piedi. Quando uscirò non troverò il lavoro pronto ad aspettarmi e nel frattempo c’è un affitto che, seppur basso, devo comunque onorare. Qui esco sul terrazzo, e non ho nemmeno la consolazione di una bella vista. Anzi, è assolutamente desolante...
Un monastero anti-alcol Mi sono rifugiato in questo monastero. Raccolto, accogliente, incastonato tra le montagne. Per cercare una sorta di serenità che il tempo, le esperienze, le sofferenze mi hanno strappato via con forza. Mi sono chiuso qui per fuggire dal bicchiere, quella maledetta droga che impesta il mio corpo e la mia mente. Che mi sta rovinando la vita. All’interno di questa struttura mi sento protetto, al sicuro; ma la vita è là fuori. Le persone, gli amici, gli operatori hanno – sicuramente – perso la fiducia nei mie confronti. E non ho mai avuto alcun sostegno dalla famiglia, una famiglia assente e molto problematica. Ho bisogno di qualcuno che mi ascolti e creda in me. Trascorro le giornate con un senso pieno, lavoro. Spazzo e rastrello i cortili, pulisco la sala di accoglienza, libero il terreno dalle sterpaglie, aiuto a preparare la sala da pranzo. Fac-
Immaginario Sulla riva del mare, color rosso fuoco, sotto una cascata, onde si scagliano con forza sugli scogli. Un battello scorre lento, quasi a voler fermare il tempo… mentre alcuni pescatori calano reti nel mare alla luce delle lampare. Massimiliano Giaconella
cio camminate in montagna, e guardo dall’alto quel mondo che faccio così fatica a capire e accettare. Qui sono pazienti con me, hanno compreso la situazione e non mi mettono fretta. Ma non posso approfittare più di tanto di questa ospitalità. Devo farmi forza e scendere a valle. Con tutti i rischi che questo comporta; anche se ho acquisito maggior forza interiore e mi sento
più determinato. Penso che, se ne avrò bisogno, cercherò un posto più protetto anche in città; dove la mia situazione possa essere controllata. Perché non mi fido così tanto di me stesso. E perché nel mio caso c’è bisogno di un confronto. Cerco di vivere fino in fondo questi giorni che ancora mi concedo; per portarmi dietro, alla mia partenza, la tranquillità di questo rifugio.
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Forum terzo settore
Cinque giovedì in piazza contro i tagli al welfare Il Forum genovese del terzo settore lancia un “appello alla mobilitazione e alla proposta” contro i tagli che le manovre finanziarie impongono al sociale, soprattutto con gli aggiornamenti di luglio e agosto. Cinque giovedì in piazza, dal 27 ottobre al 24 novembre, per difendere i cittadini più fragili, chiedendo un tavolo di confronto con il sindaco Marta Vincenzi, incontri con istituzioni locali e parlamentari genovesi. La situazione, per il comune di Genova è chiara e drammatica. In città ci sono oltre 24.300 persone da assistere, tra minori, adulti in difficoltà, anziani da prendere in carico, persone portatrici di disabilità: per loro nel 2010 c’erano a bilancio 45 milioni, scesi a 41 nel 2011. Per il 2012 non se ne prevedono più di 20. «Significa – spiega il Forum genovese – coprire solo le spese per i minori in comunità, imposte per legge, e quelle per gli anziani in residenze protette. Per tutti gli altri non resterebbe nulla». Uno scenario fosco, davanti al quale le organizzazioni non profit genovesi hanno deciso di scendere in strada, davanti a prefettura, regione, provincia e comune, più una manifestazione conclusiva in piazza de Ferrari: «Non ci sfugge – commenta Claudio Regazzoni, portavoce del Forum – che la situazione economica del nostro paese impone a tutti di condividere i sacrifici e il terzo settore genovese è disponibile a considerare quali e quanti risparmi e soluzioni innovative siano possibili anche nella spesa sociale. Ma non si può accettare la logica dei tagli ciechi, che non considerano il dovere di rispondere ai bisogni dei concittadini più deboli e non intravvedono le ricadute devastanti dell’implosione dei servizi sociali, anche in termini di prevenzione, sicurezza e occupazione». Nel sociale genovese, oltre al volontariato, si contano circa 50 cooperative sociali di tipo A e B, più o meno 1.700 lavoratori, una parte consistente dei quali impegnati in servizi convenzionati con il comune e appartenenti alle cosiddette “fasce deboli”. «È il piano generale della nostra società che rischia di saltare – avverte Regazzoni –: ci rendiamo conto che la crisi ha dimensioni mondiali e che tutti abbiamo il dovere di affrontarla in spirito di collaborazione, ma quello che manca, a livello governativo, e a cascata nelle amministrazioni locali, è una visione e una prospettiva d’insieme, che dica al paese dove si sta andando e con quali strumenti. Non sostenere il welfare è un enorme problema, non solo per le persone bisognose di assistenza, ma per la tenuta di tutta la società. Governo e parlamento non possono trascurare questo dovere: bisogna tornare a considerare la spesa sociale un investimento in grado sia di rafforzare la convivenza, sia di creare lavoro, anche per chi diversamente resta escluso». Mirco Mazzoli novembre 2011 scarp de’ tenis
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vicenza Artisti di strada: regalano buonumore a tutti, senza pretendere nulla in cambio. Eppure spesso sono visti come un fastidio...
Otto e Giulia artigiani del sorriso di Chiara Lambrocco
Pensieri di clown Sopra, Otto il Bassotto e Giulia dei Quattro Elementi, intervistati dalla redazione vicentina di Scarp. Sotto, performance “stradale” di Otto
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Nella sede di Vicenza della redazione di Scarp abbiamo intervistato Otto il Bassotto e Giulia dei Quattro Elementi, due artisti di strada. Appartengono a gruppi diversi, ma vivono insieme in un casolare, una piccola “comune” con altre persone; hanno l’orto, le galline solo per fare le uova, amano condurre una vita tranquilla e fare le prove anche in casa. Subito ci raccontano un segreto: «Non si deve mai perdere il rapporto con la strada, se si vuole evolvere e rimanere artisti validi». Poi spiegano cos’è la “Convocatoria”, il momento in cui l'artista attira la simpatia della gente, per convincerla a fermarsi, a seguire lo spettacolo. È la fase più difficile, perché in quel momento sei un estraneo in strada, quindi la gente tende a essere diffidente. «Aiutano le movenze, sorrisi, musica, costume – spiega Giulia –. Ma in una società materialista come la nostra, è difficile vendere una gioia, quantifica- to contatto con il proprio personaggio. Gli artisti di strada si cuciono da sé gli re il prezzo di un sorriso». Lo spettacolo di Giulia è molto par- abiti, vanno a caccia di oggetti e induticolare. Lo fa insieme a Paolo. Gli altri menti nei mercatini dell’usato, si predue dei Quattro elementi sono persone parano da soli gli oggetti di scena. scelte a caso, tra il pubblico: un adulto e un bambino. Il canovaccio si basa su Ma se uno non ha molta manualità? una parodia della magia ottocentesca, Mi aiuta lei – dice Otto, indicando Giudove però il protagonista, il mago, perde lia –. È bravissima... Per noi è importansempre, non gli riesce nessuna magia. «I tissimo poter improvvisare spettacoli bambini restano sbigottiti – racconta nelle strade, senza organizzazione di feancora Giulia –; l’adulto invece vive que- stival. È così, nella difficoltà del primo sta situazione come un fallimento». approccio, che lo spettacolo migliora. Parte fondamentale di questo gene- Ma in Italia rischiamo sempre di prenre di spettacoli è l’artigianato. Inteso co- dere la multa, a causa della scarsa regome arte di arrangiarsi per essere a stret- lamentazione su questo genere di in-
scarpvicenza trattenimenti. Invece gli artisti di strada sarebbero una grande risorsa turistica, come succede in altri paesi europei, e anche altrove, come in Argentina.
esibirsi. I nostri spazi sono sì lungo corso Palladio, l'arteria principale che solca il centro storico. Ma ci relegano in punti poco visibili, o troppo piccoli.
E invece cosa accade? Che i vigili ti multano e ti sequestrano il materiale da un momento all’altro, anche se un momento prima un collega più accondiscendente ti aveva detto di occupare lo spazio liberamente – sbotta Giulia –. Oppure succede che, dopo averti applaudito durante il Festival, il giorno dopo ti trattino da senza dimora.
Otto e Giulia poi descrivono il nord come una realtà dove il pubblico sa apprezzare la tecnica. Ma è al sud che si crea una vera e propria magia. La tecnica non ha alcun peso, tutto si basa sulla simpatia. È più difficile rompere il ghiaccio, ma quando si conquista la gente si riceve calore, amicizia, inviti a pranzo e a cena. E si riempiono gli spettacoli con il passaparola. «La comicità – conclude Otto – è percepita e vissuta diversamente, a seconda dei posti dove vai. L’artista di strada deve avere molta capacità di empatia e adattamento».
E a Vicenza? A noi – raccontano i due clown – pare assurdo, eppure è vero: in piazza dei Signori gli artisti di strada non possono
Il commento
Ma qual è l’offerta giusta? Il valore di un incontro... Incontrare due artisti di strada, tolti la maschera e il costume di scena, può voler dire scoprire il lato serio, ma non meno affascinante, di chi ha scelto la strada come luogo dove esprimersi. Si svelano in questo modo l’impegno di una professione e i motivi di una passione. Giulia e Otto si raccontano così, alla redazione di Scarp Vicenza, senza trucco e senza trucchi, narrando di viaggi, di incontri, di esperienze, di maestri a cui si ispirano. Dalle loro parole emergono il bello e il duro di una vita per la strada. È una continua sfida. Per migliorarsi nella tecnica, per imparare a conoscere la gente, per farsi conoscere per quello che si è: artisti alla ricerca dello spirito antico della strada. “Clown” è una parola elevata: tanti provano a farlo, ma solo pochi possono vantare l’esperienza e la bravura di esserlo. Insieme ci si confronta. Si parla dei Festival che in genere danno un “cappello” sicuro, ma spesso troppo “facile”. Dell’Italia e degli italiani, di nord e di sud, di comicità tedesca, della democrazia portata da uno spettacolo senza biglietto d’ingresso. E poi di politica e di cultura e di quanto sia più facile vietare che regolamentare. In giro c’è di tutto, ci sono i bravi e i meno bravi, c’è chi si improvvisa giocoliere per una sera. Ma l’artista vero lo vedi subito: ha cura e rispetto di chi incontra, dei propri attrezzi, del costume e del lavoro. E il cappello da riempire è importante, se si vuole mangiare, ma prima vengono la gioia e il brivido e la passione di stare lì, se davvero «ami la tua presenza», con la strada e la piazza a fare da palcoscenico. Alla fine, cosa finisce nel cappello? Quant’è l’offerta giusta da mettere? «In un mondo mercificato – dice Giulia – ci insegnano che tutto ha un prezzo. Ma quel che facciamo noi è far incontrare di nuovo le famiglie, che sono il futuro su cui la società dovrebbe investire. Adulti e bambini, riuniti attorno a uno stesso spettacolo, liberi, potendo finalmente sorridere insieme. Dove altro può succedere una cosa del genere…?». Nel cappello, allora, cosa metti? Chi lo conosce, il valore di quel sorriso? Paolo Meneghini
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Storia a puntate
Albeggia sul ponte San Michele «Le stelle stanotte mi son sembrate coriandoli, e la Via Lattea zucchero filato». «Già, l’amore è una grande giostra senza età, un continuo carnevale senza limiti né tempo». Si guardano intensamente negli occhi. Blu oceano quelli di lei, neri neri quelli di lui. «Mi ami ancora, anche ora che è giorno?» «Di più; l’eclissi s’è mangiata via le ombre che fanno male, per lasciare posto al nostro sole». «Ma siamo solo due barboni!», dice piangendo lui. «Ti sbagli, io sono Ida e tu Alfi, non importa dove viviamo né come; c’è qualcosa di più profondo, lo senti? È giù, nella pancia... Respiralo». Alfi si porta le mani all’addome gonfio, poi prende quelle di lei. «Mi amerai per sempre, luna, eclissi, sole, neve, grandine o rugiada?». «Abbiamo già avuto stanotte il nostro per sempre: niente, neanche il destino, può separare ciò che l’amore ha unito». Intanto è giorno fatto. Un artista di strada suona il violino. Ida e Alfi si abbracciano, aspettando la prossima eclissi lunare. Aspettano che il cielo gridi i loro nomi di esseri umani tra le stelle senza bisogno di nessun “per sempre”. Si salutano, finalmente ubriachi fradici di vita, e non più di alcol da strada. (fine della seconda puntata) Chiara Lambrocco novembre 2011 scarp de’ tenis
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modena Notte coi volontari del progetto “Emergenza freddo”. Nei mesi invernali, assistono chi vive in strada. Senza imporre relazioni...
Torna a casa soltanto chi può di Marcella Caluzzi Arriviamo puntuali all’appuntamento, fissato alle 22 nella sede della Croce Blu di Modena. Ad aspettarci troviamo un gruppo di persone che qui, con l’arrivo della stagione fredda, si ritrovano abitualmente. Perché quando le temperature scendono pericolosamente, i camini sbuffano senza sosta e i termosifoni lavorano sodo, anche a Modena c’è chi si deve accontentare, se è fortunato, di un automobile. O se lo è meno di un cartone, di una coperta, di una panchina. È la Croce Blu, la sede e il punto di partenza del progetto “Emergenza freddo” (più informalmente ribattezzato “Ronda della solidarietà”), promosso dal comune di Modena in collaborazione con protezione civile, Croce Blu, Agesci, Misericordia e Vivere sicuri. Abbiamo incontrato i volontari di “Emergenza freddo” una fredda notte di febbraio, una prima volta. Ora il progetto modenese si rimette in moto. Incontriamo il gruppo che “ronderà” la città, armato di panini e termos di tè caldo, formato da sei ragazzi e ragazze dell’Agesci, proveEro assorto nei miei pensieri, pensavo che da lì a breve nienti da diverse parti della provincia sarebbe potuta cambiare di Modena. Con loro, l’assessore alle la mia vita, politiche sociali, sanitarie e abitative UNA SENTENZA. del comune di Modena, Francesca MaMa non fu essa letti, e Annalisa Righi, dirigente del sera cambiarmela. vizio sociale di base del comune. Fu il dolce viso di una ragazza, lei maestra che seguiva i processi per studi. Progetto contro il freddo Dopo un lungo sguardo Prima della partenza, chiediamo all’asdi curiosità, sessore Maletti di spiegarci com’è strutci sorridemmo scambiandoci turato il progetto, come si svolge e a chi alcune parole. è rivolto. Ci lasciammo «“Emergenza freddo” nasce tre anni scambiandoci fa dall’esigenza di dare risposte, sia di i nostri recapiti. Quando tornai indietro carattere sociale che sanitario, alle perraccontai sone senza dimora e a chi è senza utenai miei compagni ze, nei periodi in cui le temperature sodella ragazza no più rigide, perciò da novembre a e della promessa marzo. L’anno scorso le persone, ospiche ci saremo tenuti tate in due centri convenzionati con il in contatto comune di Modena, uno per le donne e con la posta, Nessuno ci credeva, uno per gli uomini, sono state 14. Queneanche io. st’anno si è verificato un aumento: da Sono stati anni novembre 2010 fino a metà febbraio bellissimi.. 2011 sono state 20 le persone senza diAghios mora ospitate nelle due strutture. E poi
Una ragazza
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ci sono state altre 21 persone per cui non si è presentata l’opportunità di una ospitalità a livello residenziale, sia perché loro non volevano, sia perché non c’erano i requisiti per una ospitalità. Per costoro però abbiamo richiesto e ottenuto l’apertura notturna della sala d’attesa della stazione, da dicembre a marzo». Il progetto messo in piedi dal comune riparte dunque a novembre. E prevede un’assistenza ai clochard, che va dall’ospitalità in strutture convenzionate all’assistenza sanitaria per chi ne ha bisogno, dalla predisposizione della sala d’attesa della stazione (misura attuata per la prima volta nel 2009-2010) al monitoraggio quotidiano della stazione stessa, ma anche di altre zone della città, in cui ulteriori persone potrebbero dormire al freddo. Ogni sera, nel periodo di attivazione del servizio, vengono garantite a chi è in strada assistenza, bevande calde e generi alimentari. E questo comporta un forte dispiego di volontari di varie associazioni, che garantiscono la copertura del servizio fino a marzo. «Prima della partenza – ci spiega Vincenzo Ignarra, incaricato al settore “Protezione civile” dell’Agesci – i volontari della Croce blu preparano il tè, noi scout arriviamo un po’ prima e prepariamo i panini. Poi raccogliamo zaini con tè e cibo e partiamo per il giro, che ha tre tappe fondamentali: le torri e i corridoi del Centro Direzionale 70, le gradinate dell’ex ippodromo al parco Novi Sad, la sala d’attesa della stazione dei treni, dove è concentrata la maggior parte delle persone a cui prestiamo servizio». Partiamo dunque anche noi con loro, in questo giro esplorativo, seguendo
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Panini per tutti, chiacchiere con chi vuole I volontari del progetto “Emergenza freddo” con alcuni senza dimora alla stazione di Modena
con il loro camioncino. Prima veloce fermata al Direzionale 70, segue una deviazione rispetto al percorso “tradizionale”: si decide di andare anche nella zona del cimitero di San Cataldo, dove un signore vive all’interno della sua automobile. Alcuni scendono dal camion e un paio di ragazzi vanno a vedere se c’è qualcuno all’interno dell’a-
Anche io «sono stato dieci giorni senza togliere le scarpe, come tutti loro. Non abbiamo servizi, non abbiamo niente e va bene così, perché ognuno di noi, se è qui, qualche colpa ce l’ha. Però non è detto che si debba pagare sempre il prezzo più alto...
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bitacolo. Ma non siamo fortunati, e nemmeno lui: in macchina non c’è nessuno. Si riparte perciò verso il Novi Sad, sulle cui gradinate un tempo vivevano alcuni clochard, ma nemmeno loro stasera si fanno vivi. Si riparte così per la tappa finale, verso la stazione. Qui, ad attenderci, al contrario sono in parecchi: una ventina di persone, alcune delle quali dormono già sulle panchine e sul pavimento della sala d’attesa (ormai è mezzanotte e mezza). Altri invece sono fuori, e al nostro arrivo non esitano ad accettare tè e panini offerti dai ragazzi. E volentieri iniziano a chiacchierare con loro e con noi.
Necessario creare una relazione «Alcuni ci conoscono già e con loro abbiamo un rapporto di fiducia, si lasciano andare e si confidano – racconta Angela Salis, responsabile Agesci dell’assistenza alla popolazione colpita da calamità per la protezione civile –. Altre persone magari si limitano a dirti ciò di cui hanno bisogno, e non cercano la relazione. Questo dipende da come stanno e da cosa riusciamo a trasmettere. Indispensabile è avere molto tatto e rispetto, perché la relazione nasce se entrambe le persone lo vogliono e intendono condividere il proprio sapere, le proprie emozioni, episodi di vita. La relazione non si impone. Noi mettiamo a disposizione le nostre capacità personali ma anche professionali, poi mettiamo in campo tutte le competenze che abbiamo, in quanto scout, sul fronte dell’accoglienza, con lo scopo di mettere a proprio agio le persone». Mentre i ragazzi si danno da fare tra l’esterno della stazione, la sala d’attesa e
il sottopassaggio centrale, riusciamo a scambiare qualche parola con alcuni “ospiti” della stazione, tra un sorso di tè e un morso al panino. «Io non dormo qui – spiega un uomo sui 60 anni –, vengo a prendere il tè, a passare il tempo. Ho qualche amico, che mi dà la possibilità di lavarmi e dormire a casa sua. Però anche io sono stato dieci giorni senza togliermi le scarpe dai piedi, come tutti loro. Non abbiamo servizi, non abbiamo niente. E va bene così, perché ognuno di noi, se è qui, qualche colpa ce l’ha. Però non è mica detto che si debba pagare sempre il prezzo più alto...». Il suo parlare è lucido, fermo, pacato. «Ho compiuto 64 anni in febbraio – continua –. Non sono più giovane, se devo andare a chiedere una casa non ci vado. Cerco però di fare qualche cosa, dei lavoretti: se una persona ha buona volontà, qualcosa trova sempre da fare. E quando ho do: che sia una sigaretta, oppure 50 centesimi». Qualcosa, in cantiere, per lui comunque sembra esserci: «C’è il progetto di creare una cooperativa – conclude –, che prenderà gente di strada ed ex carcerati, gente che sappia e abbia voglia di fare. Tre pagine di lavori che possiamo fare. A 64 anni mi rimetto in circolo...». Progetti notturni. Ormai è l’una, il gruppo scout-comune comincia a ricomporsi. A raccogliere gli zaini vuoti. È ora, per chi può, di tornare a casa.
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rimini Sulla sua bici sempre una copia del giornale. Perché è timido. Ma ha trovato il coraggio di esporsi. Per sé. E per aiutare altri
Mi chiamo Franco, per gli amici Scarp di Franco Gentile
Non manca una messa Franco Gentile davanti a una chiesa del centro di Rimini
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Mi chiamo Franco, ho 57 anni e da circa due sono un venditore di Scarp de’ tenis. Ho conosciuto questo progetto grazie all’incontro con una persona che già era impegnata in questo lavoro. La sua esperienza mi ha incuriosito e così mi sono rivolto alla redazione di Scarp a Rimini. Per motivi di salute, infatti, qualche anno fa ho dovuto abbandonare l’azienda nella quale avevo un impiego stabile. A seguito di questo e di situazioni familiari difficili, mi sono ritrovato in condizione di disagio. Data la quale, ho iniziato questa attività: più che per un discorso economico, anche e soprattutto per impegnare un po’ del mio tempo, considerato che – facendo solo qualche lavoretto saltuario – di tempo ne avevo abbastanza... Le prime volte, quando il prete faceva il discorso, io restavo fuori dalla chiesa; forse un po’ mi vergognavo. Piano piano soggezione. E poi non ero molto pratico ho sentito il bisogno di partecipare alla della vendita, perché era un lavoro che messa e ho capito che, mentre il sacernon avevo mai fatto. Ma con il tempo le dote faceva il discorso, stavo bene percose sono cambiate: più mi impegno in ché stava parlando di me e del mio laquesto lavoro, più vado a vendere e più voro. Cominciare a vendere è stato difmi piace. ficile, a causa del mio carattere, perché ero una persona molto timida e chiusa. Relazionarmi con gli altri mi metteva Vendere mi fa sentire utile Quando indosso la pettorina di Scarp mi sento bene. Adesso sono una persona orgogliosa di me e della mia vita. Vendere Scarp mi fa sentire utile anche ad altre persone, che come me hanno bisogno. Da qualche settimana ho vinto la mia paura più grande in questo lavoro: parlare ai fedeli, testimoniando la mia espierienza. Mi emozionava molto parlare davanti a tante persone. Adesso chiedo sempre al parroco di poter parlare dall’altare, perché così mi sento protagonista. Alla fine della messa, infatti, sono tante le persone che si fermano a fare domande e a comprare la rivista. E mi rendo conto che, in questo modo, mostrano interesse per me e per il lavoro che svolgo. La prima volta che ho letto il messaggio mi sono fermato all’altare e, facendo il segno della croce, ho chiesto a Lui di aiutarmi. Mi ha dato ascolto. Al termine della messa anche il parroco è stato soddisfatto di quello che ho fatto.
scarprimini Ricordo in particolare una domenica quando un signore – fermandosi e acquistando due copie della rivista – mi ha ringraziato per il lavoro che faccio. E io ho ringraziato lui. La cosa più bella di quando parlo alla gente è il fatto di sentirmi protagonista, essere al centro dell’attenzione di grandi, piccoli e anziani.
Scarp è sempre con me Nel cestino della mia bici ho sempre una copia di Scarp de’ tenis, agli amici parlo spesso di questo lavoro e di quello che provo nell’impegnarmi in esso. Sono cambiato molto grazie a questa esperienza, perché mi rendo conto
che anche il mio modo di relazionarmi con gli altri è cambiato. Prima ero timido e mi bloccavo. Ora da qualche tempo, oltre alla vendita in chiesa, vado – da solo – a proporre il giornale nelle biblioteche del territorio e sono più motivato anche nel partecipare alle feste e alle varie manifestazioni, alle quali siamo presenti. I miei amici, spesso, invece di chiamarmi Franco mi chiamano Scarp, perché sanno quanto questo lavoro sia importante per me. E questo mi fa molto piacere. Non ho mai mancato una messa, anche quando il parroco mi ha avvertito che ci sarebbe stata poca gente: io mi metto in gioco. Non manco mai la prima funzione della domenica, anche quando è di mattina molto presto, o devo fare molta strada. Il freddo e la pioggia non mi spaventano: vado comunque a vendere Scarp e il Ponte. Una volta ho persino dormito fuori casa per arrivare in orario, perché questo lavoro mi piace e mi fa essere orgoglioso di me. Spero di non smettere mai. Ringrazio la redazione di Scarp, che mi dà la possibilità di vendere il giornale e provare questa gioia. Per me vendere Scarp è una cosa bella perché, attraverso questo lavoro, aiuto me stesso e
Il racconto
Il trucchetto che ho imparato trattandosi di lavoro altruistico Cosa può significare passare ogni estate, sabato e domenica, a vendere per messe e chiese giornali per aiutare gli emarginati sociali? Ma soprattutto, cosa può significare per una diciassettenne? Non saprei. Una nuova esperienza. Quando facevo la volontaria alla Caritas, mi era stato proposto di aiutare uno dei miei futuri colleghi a vendere Scarp. Forse perché non avevo niente da perdere, forse perché ero esaltata dalla novità del momento, quella mattinata vendemmo (quasi) tutte le copie a disposizione. Infatti, non potendone più di aspettare la fine della messa, io e un altro volontario ci eravamo incamminati per bar e negozi a proporre il giornale alla buona, a chi incontravamo. E fu un giro molto fortunato. Così pensai che potevo farlo anche io. La mia situazione famigliare purtroppo non mi garantisce l’università. E la Caritas proponendomi Scarp non solo mi aiutava a essere più autonoma, ma anche a mettere qualche soldino da parte per gli studi. All’inizio ero davvero entusiasta di lavorare. Essendo, poi, un po’ idealista, per me era come una missione: l’Italia (e così Rimini) doveva sapere dei suoi emarginati sociali. Ero un elaboratore automatico di parole: intontivo la gente con una “pappardella” assurda e compravano per disperazione... Ma presto il continuo girare per chiese, l’inesperienza, certi “no-batosta” della gente, e un senso sempre più premente di inerzia causato, forse, dal micidiale confronto che mi facevo con gli altri giovani, mi causarono nel lavoro insicurezza, incostanza e distrazione. Dovetti smettere per un po’, anche per la scuola. Evidentemente non l’avevo presa abbastanza seriamente. Ma quest’estate mi sono ricreduta. Ora non solo conosco molto meglio il territorio riminese, ma anche tante nuove persone e realtà sociali. Di quest’estate, per esempio, ricordo indimenticabili chiacchierate con preti messicani, nigeriani e polacchi, venuti in Italia per studiare. Ma vendere Scarp aiuta veramente gli altri e te stesso, e non solo gli emarginati sociali, e non solo con i soldi. È un’ottima informazione, per la quale vale anche la pena prendersi qualche batosta o figuraccia ogni tanto. Ed è questo il trucchetto migliore che ho imparato: trattandosi di un lavoro altruistico, un modo è mettersi da parte e lasciare che lo scopo del progetto, “l’aiutare gli altri” ti riempia e ti ispiri. Qualunque sia il guadagno della giornata! Sara Galasso
so che sto aiutando anche altri. Quando torno in redazione e il mio borsone è quasi vuoto sono contento, anche quando gli altri ragazzi vendono più di me. Non è una gara a chi vende di più, sono contento lo stesso perché siamo tutti una stessa famiglia: siamo Scarp!
È una soddisfazione arrivare in redazione con la sacca vuota. Sì, certo, i soldi fanno comodo a tutti, ma per me la cosa più importante è la soddisfazione che provo quando il mio carico è leggero. Perché significa che quella giornata è andata bene ed è stata positiva.
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firenze Ero quadro. Ho lasciato il lavoro. Sono stato risucchiato dalla bottiglia. Lotto ogni giorno per risalire: una guerra senza fine
Vita da bipolare nel baratro dell’alcol di Anonimo fiorentino
«ilNonostante bere facesse parte della mia vita quotidiana sin dalla mattina, nonostante fossi finito a dormire giornate intere, senza più interessi, senza più cura di me, non mi ero ancora accorto di essere diventato alcolista. Accadde solo alla fine, quando non avevo più soldi, quindi non potevo più nemmeno bere...
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Mia sorella mi ha detto: «Tu sei un bipolare, pertanto sei pericoloso, né io né mamma e papà vogliamo avere nulla a che fare con te» (questo è quanto mi ha detto al telefono il 25 giugno 2011, il giorno successivo la mia dimissione dall’ospedale Careggi di Firenze, reparto Spdc - Servizio psichiatrico diagnosi e cure, dove dal 17 giugno ero stato ricoverato in emergenza e che ringrazio per l’umanità, la professionalità, le cure e il sostegno medico e morale che ancora adesso mi danno per far sì che possa tornare ad avere un rapporto con me stesso e con la società concreto e sereno, e soprattutto lontano dall’alcol e dai suoi effetti devastanti). Avevo 35 anni quando tutto ebbe inizio. Vivevo da solo da diversi anni, ero indipendente, sportivo, curavo passioni e hobby, vivevo una vita normale, come tanti, affrontando piaceri o dispiaceri come chiunque altro. In qualche caso mi era già capitato di avere qualche periodo di leggera depressione e ansia; mi ero rivolto al medico di base e ad alcuni psicologi, ma sembrava che tutto dipendesse da stress da lavoro. Quel giorno invece scattò in me un interruttore che non sapevo esistesse. Stavo guidando sulla Roma-Napoli. D’un tratto iniziò a piovere a dirotto e sentii una terriprescrisse un antidepressivo di nuova bile sensazione di soffocamento. Mi generazione e un sedativo. fermai alla prima piazzola di sosta, leggermente rassicurato dalla presenza di una volante della stradale. Mi sentivo La discesa negli inferi dell’alcol come completamente immerso nelFino a quel momento il mio rapporto l’acqua, tremavo, sudavo, il cuore batcon l’alcol era di bevitore occasionale; teva a mille, la vista era confusa e la senmi capitava di bere giusto quando uscisazione di non riuscire a respirare era vo con gli amici, per lasciarmi un po’ tale che per alcuni istanti credetti di andare, ma tutto finiva lì, anche perchè, morire. Passò circa mezz’ora e, com’era facendo attività sportiva, tenevo molto giunta, la sensazione passò. A quel alla mia forma fisica. punto ritenni necessario rivolgermi a Nel periodo in cui iniziai ad avere gli uno psichiatra, che mi diagnosticò un attacchi di panico lavoravo per una disturbo depressivo accompagnato da multinazionale dell’informatica. Ero un ansia e attacchi di panico (Dap); mi quadro, anche se la crisi economica era
scarpfirenze alle porte e la preoccupazione su come si stavano mettendo le cose in azienda fece aumentare il mio stato d’ansia. Finché arrivò un drastico ordine dagli Stati Uniti: diminuire il numero delle risorse umane in Europa di 8 mila dipendenti. Tale politica di riduzione riguardava soprattutto chi era inquadrato su stipendi alti, la tendenza era quindi di lasciare risorse giovani e a basso stipendio e invogliare (a volte con minacce celate e mobbing) l’uscita spontanea dall’azienda di chi, come me, garantiva qualità, ma rappresentava un costo elevato. Fu così che i livelli di ansia aumentarono e nell’alcol trovai un sedativo, che mi consentiva di non pensare. Giunse quindi il momento in cui l’azienda iniziò a ricorrere ad ammortizzatori sociali, poi a offrire incentivi all’uscita. Avrei voluto avere qualcuno accanto per essere consigliato, ma non avevo nessuno, né parenti, né colleghi o amici: la scelta era solo mia. La decisione da prendere era dura, il mercato del lavoro nel mio settore era già appiattito, ma di fronte alla possibilità di percepire un incentivo di due anni di stipendio, rispetto al rischio di trovarmi sia senza lavoro sia senza una base economica, mi convinsi ad accettare la buonuscita.
Da benestante a senza dimora Ricevetti allora, nel giro di due mesi, 50 mila euro. Cercai di progettare qualcosa, come un’attività in proprio, ma non avevo idee e l’alcol era l’unica cosa che sembrava sostenermi. Pensavo addirittura che mi aiutasse a pensare meglio, ma ormai erano più le giornate in cui crollavo per ore a dormire che quelle passate a cercare soluzioni per il futuro. Questa situazione andò avanti per mesi, tentativi maldestri di investimenti, denaro speso inutilmente. Il bello, o meglio il brutto della situazione, era che non mi rendevo minimamente conto di essere ormai dipendente dall’alcol e che a poco a poco chi conoscevo tendeva ad allontanarsi sempre più. Quando me ne accorsi, era troppo tardi: in pochi mesi avevo speso tutto ciò che avevo ricevuto come incentivo dall’azienda e il mio fisico era completamente cambiato, non riuscivo a guardarmi allo specchio. Non ero nemmeno più in grado di pagare l’affitto.
Malattie che tolgono anni di vita una sostanza che provoca morte Disturbi mentali e comportamentali affliggono circa il 10% della popolazione adulta mondiale. Tra 250 e 600 mila persone in Italia soffrono di schizofrenia. L’oscillazione dei dati statistici è dovuta al fatto che si conteggiano solo i numeri dei casi portati all’attenzione del sistema sanitario e si stimano quelli che appartengono a un sommerso diagnostico più o meno visibile. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, i nuovi casi ogni anno sono tra 7 e 14 per 100 mila abitanti, nell’età tra i 15 e i 54 anni. Purtroppo è una malattia che colpisce gente giovane, ma oggi non è più inguaribile. Il fattore genetico è oggi il più studiato per giungere alla cura del disturbo bipolare, con l’obiettivo di bloccarne la trasmissione ereditaria. Molto spesso tali studi sono messi in relazione con quelli sulla schizofrenia, per comprendere se vi sia una sorta di continuità tra le due patologie, o se al contrario, come indicano vari studi di farmacologia e neurobiologia, si tratti di due patologie separate, nonostante i vari punti di contatto. Pare comunque che una persona su tre possa essere guarita dal disturbo bipolare; un’altra persona su tre avrà invece bisogno di proseguire le proprie cure e di tempo, subendo limitazioni rispetto alla vita “normale”. Solo la terza, purtroppo, si cronicizzerà, e avrà difficoltà crescenti nel mantenersi sulla soglia di un normale sistema di relazioni sociali. La malattia che “sottrae dieci anni di vita” a chi ne è colpito ha un indice di mortalità attorno al 10% e spesso la morte è dovuta a suicidio. Anche l’alcolismo si può combattere. Oggi, oltre che con le terapie psicologiche e i percorsi di auto mutuo aiuto, si cerca di farlo con nuovi trattamenti farmacologici che puntano a ridurre il craving – ossia il desiderio incoercibile di bere –, diminuendo così l’incidenza, la severità e la frequenza delle ricadute. Solo in Italia questo problema riguarda circa 1,5 milioni di persone. L’Organizzazione mondiale della sanità stima che nel mondo l’alcol provochi complessivamente 2,5 milioni di morti ogni anno, il 4% di tutti i decessi. In Italia sono almeno 30 mila l’anno i decessi per cause alcol-correlate e l’alcol è la prima causa di morte fino ai 24 anni.
Nonostante ciò, nonostante il bere facesse parte della mia vita quotidiana sin dalla mattina, nonostante fossi finito a dormire giornate intere, senza più interessi, senza più cura di me, dei rapporti con gli altri, come se mi fossi lasciato andare a un destino segnato, non mi ero ancora accorto di essere diventato alcolista. Accadde solo alla fine, quando non avevo più denaro, quindi non potevo più nemmeno bere. Rimanevo a letto giorno e notte, immerso nella sporcizia, con il terrore che mi gelava il sangue nelle vene ogni volta che sentivo suonare il citofono o il campanello di casa. Finché una mattina di marzo mi svegliai. Avevo dolori ovunque, specialmente al torace e alla testa; non riuscivo a muovere il braccio destro. In bocca percepivo un sapore ferroso, come di sangue. Con fatica mi alzai, raggiun-
si il bagno: quando mi trovai davanti allo specchio, mi sembrò di vedere un’altra persona. Avevo un ematoma che partiva dalla testa fin sotto l’occhio destro, aprii la bocca e vidi che gli incisivi avevano lacerato la lingua come se l’avessi presa a morsi. Pensai che qualcuno fosse entrato in casa di notte, che mi avessero sedato e colpito a sangue, ma non poteva essere andata in quel modo; ero completamente disorientato. Chiamai il 118 per circa mezzora; la risposta era sempre una voce registrata che diceva di richiamare, perché tutte le linee erano occupate. Così mi infilai una tuta e pian piano raggiunsi a piedi l’ospedale, che per fortuna non era lontano. Al pronto soccorso mi fecero passare il triage. Mi riscontrarono una frattura scomposta al troclite e alla testa dell’omero destro, dove si congiungono spalla e braccio. Diverse costole fratnovembre 2011 scarp de’ tenis
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Grazie a chi, ogni giorno, ci permette di aiutarli.
Ogni giorno offriamo 2.500 pasti caldi, 160 visite mediche e 200 docce.
Ogni giorno offriamo gratuitamente a più di 2.000 persone pasti caldi, vestiti, docce e assistenza medica e sociale. Se volete essere utili ma non sapete come, usate le nostre mani. Così potrete sostenere chi ha veramente bisogno regalandoci un po’ del vostro tempo o con una semplice donazione. Opera San Francesco per i Poveri è il vostro modo più semplice per aiutare. Ringraziamo:
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scarpfirenze turate, la lacerazione della lingua e un ematoma alla testa per fortuna con assenza di trauma cranico. Dopo le cure, tornai a piedi a casa Avevo mille domande in testa, nessuna risposta. Solo dopo venni a scoprire di avere avuto un attacco convulsivo causato dall’astinenza da alcol: un fenomeno chiamato delirium tremens.
La caduta che non di ferma Ormai non potevo più restare in quell’appartamento, il padrone di casa pressava da tempo perché la riconsegnassi, così mi rivolsi a mia sorella e quindi ai miei genitori, con i quali non avevo più rapporti da oltre 13 anni. Passai un paio di mesi a casa dei miei, vicino Roma, ma la convivenza era tutt’altro che semplice. Trovai un lavoro come operatore di call center ma appena avevo qualche spicciolo lo usavo per bere. Non riuscendo più a gestire la situazione e il rapporto con i miei mi rivolsi a un’assistente sociale, che mi trovò un posto in un centro di accoglienza a Roma e mi organizzò una visita in un reparto specializzato nel trattamento e la cura dal disturbo dell’alcolismo. Iniziai così un periodo di 15 giorni in day hospital: visite mediche, controllo del tasso alcolico, incontri (sia privati sia di gruppo) con psicologhe. Dopo qualche giorno uno psichiatra mi diagnosticò un “disturbo bipolare di tipo II con dipendenza alcolica e predisposizione ad attacchi di epilessia”. Grazie alle terapie quotidiane, già dai primi giorni iniziai a sentire gli effetti del non bere. Si trattava di pochissimo tempo, troppo poco, ma ogni giorno era una conquista e la cosa più importante era condividere parte della giornata con persone con il mio stesso problema: ciò mi faceva sentire come in un guscio protettivo. Visitandomi per le dimissioni, il primario del reparto mi disse: «Ci rivedremo presto». Un ex alcolista rimarrà comunque un alcolista a vita. La dura verità è questa: una volta che si diventa dipendenti dall’alcol, bisogna restarne lontani per sempre. Basta abbassare una sola volta la guardia per perdere le inibizioni e far sì che il cervello, che ha provato il piacere di quella sostanza, si convinca ad assumerne ancora. È quella che si chiama “ricaduta”: garantisco che è
come quando con fatica si scala una montagna, ma arrivato in cima si scivola ricadendo al suolo. Ci si fa male, soprattutto ci si rende conto di quanto sia difficile non ricadere nel baratro.
Scalare una montagna Questa montagna, e oggi ho 40 anni, l’ho scalata più volte. E altrettante sono caduto. L’ultima volta, pochi mesi fa, la caduta mi ha portato vicino alla morte. Oggi, grazie a medici, amici che non si sono allontanati, alla Caritas che mi dà sostegno, la montagna la sto scalando di nuovo. Ma questa volta consapevole che, accanto, ho qualcuno che in me crede. Sento una spinta dietro le spalle, che mi aiuta a continuare a salire. Quello che voglio far capire a chi soffre di disturbo bipolare, e di alcolismo, è che le strade per uscirne esistono. E soprattutto che, una volta disintossicati e acquisita la corretta terapia, bisogna aver cura di sè stessi; non bisogna mai pensare che il problema sia finito, le cure non devono mai essere smesse, semmai riviste nel tempo. Non bisogna mai abbassare la guardia. Mai. L’errore più ricorrente è sentirsi sicuri di sè, si deve avere l’umiltà di riconoscere che il problema è più forte di noi. Ogni giorno può rappresentare
una battaglia vinta contro l’alcol, ma la guerra non finisce lì e continuerà finché finalmente non sarà trovata una cura definitiva per risolvere questi problemi. E l’unico modo corretto per aiutare chi ne soffre, è rivolgersi a chi è competente, cercando di far capire a chi sta male che sta rasentando il fondo. Biasimare e giudicare è deleterio e peggiorativo per lo stato emotivo del soggetto. Per il resto la cosa più importante è la volontà, da parte della persona che sta male, di essere curata. Senza di questa il problema non può essere risolto.
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Disturbi psichici, a chi rivolgersi una rete aperta per aiutare chi è malato Progetto Itaca (Associazione volontari per la salute mentale onlus) Numero Verde 800.274.274 (da cellulare 02.29007166), attivo da lunedi a venerdi ore 9-22,30, domenica 15,30-19 (il sabato e nei festivi infrasettimanali il servizio non è attivo). Centri per la salute mentale a Firenze Zona 1 Csm Borgognissanti, via Borgo Ognissanti 22, tel 055.2285505 lunedi-venerdi 7,30-19,30; sabato 7,30-13,30 Zona 2 Csm Villino Borghi, via Lorenzo il Magnifico 100, tel 055.6264409 lunedi-venerdi 7,30-19,30; sabato 7,30-13,30 Zona 3 Csm presso Iot, viale Michelangelo 41, tel 055.6577460 lunedi-venerdi 7-19; sabato 7-13 Zona 4 Csm Lungarno S. Rosa, lungarno Santa Rosa 13, tel 055.2285643 lunedi-venerdi 7,30-19,30; sabato 7,30-13,30 Zona 5 Csm La Pira, via P. Fanfani 17, tel 055.419992 lunedi-venerdi 7,30-19,30; sabato 7,30-13,30
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napoli Meno di un terzo delle ore: senza insegnante di sostegno, non può stare a scuola. Come altre migliaia di ragazzi disabili
Nove su trenta, Claudio resta a casa di Laura Guerra
Caro Claudio Caro Claudio ti vorrei conoscere e ti vorrei vedere un po’ sorridere. Sei un ragazzo meraviglioso. La mamma ti sta sempre vicino. Il papà, anche se se n’è andato via, ti porta nel cuore e non può mai dimenticarti. Tu stai sereno, loro ti sono sempre vicino. Per sempre. Umberto D’Amico
Claudio è un ragazzo autistico. Ha 11 anni, frequenta la prima media e da quando è iniziata la scuola lui va in classe solo un’ora al giorno, perché i dirigenti dell’istituto che frequenta possono garantirgli solo nove delle trenta ore di sostegno necessarie. E che di ore ne servirebbero tranta e non nove, lo certificano gli operatori sanitari e gli psicologi del servizio sanitario pubblico. I dirigenti dell’Ufficio scolastico regionale, però, sembrano avere le mani legate: a causa dei pesanti tagli agli organici, il sostegno full time non può essere concesso. Solo nel caso in cui il Tar (Tribunale amministrativo regionale) ordinasse con una sentenza che a Claudio il tempo pieno deve essere garantito, questo potrà essere fatto. Ma ci vuole tempo; il ricorso al Tar deve essere presentato dalla famiglia, nel caso specifico la madre, che da sola provvede a Claudio, dopo che il padre li ni senza insegnanti di sostegno o con ha abbandonati al loro destino. Oggi la un’ora al giorno sono circa 95 mila – racdonna, insegnante, è costretta ad ascontano –. Gli insegnanti non specializsentarsi dal lavoro, per assistere il razati sono circa un terzo del totale; le rigazzo. E per fare ricorso al Tar ci vogliosorse per formazione e aggiornamento no tra gli 800 e i mille euro... del personale sono inesistenti e la conStorie come quella di Claudio, a Natinuità didattica, che per un bambino poli e in Campania ce ne sono migliaia. disabile è innanzitutto continuità affetSe ne occupa “Tutti a Scuola”, associativa, continua a essere negata». zione che, da alcuni anni, oltre a moniIn Campania, gli alunni disabili sotorare l’andamento in cifre del progresno 22.010, di cui oltre 17.200 invalidi al sivo abbandono a se stesse di famiglie 100%. «Chi ha queste diagnosi di gracon bambini e ragazzi disabili, offre vità, alla luce di sentenza della Corte cosupporto e assistenza legale. «Gli alunstituzionale avrebbero diritto a un rapporto alunno-insegnante uno a uno».
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I docenti non specializzati nella regione Campania sono circa un terzo del totale; le risorse per formazione e aggiornamento del personale sono inesistenti. E la continuità didattica, che per un bambino disabile è innanzitutto continuità affettiva, è tuttora negata
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Ci ha fatto pensare In Campania gli alunni disabili, sul totale degli alunni, sono il 2,2%. La proporzione è inferiore a quella di Lazio (2,9%), Abruzzo (2,7%), Sicilia (2,6%), Piemonte(2,5%), Lombardia, Liguria ed Emilia-Romagna (2,4%). La concentrazione riguarda soprattutto Napoli e provincia, dove risiedono 13.100 dei 22.010 alunni disabili in Campania. Il caso di Claudio ci ha fatto pensare, riflettere e scrivere. Quelli che seguono sono i testi composti dai nostri redattori di strada. Si parla di diritto alla scuola negato, di famiglia e malattia, ma anche di speranza e voglia di leggerezza.
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scarpnapoli Un detenuto di 11 anni e una madre forte come una quercia “Un piccolo detenuto di 11 anni”: è la storia di un ragazzo autistico, che non può andare a scuola perché mancano i soldi per accoglierlo. È una cosa normale in Italia, non è una notizia eclatante. Però, che ne pensate della madre? Io non la conosco ma a sentire questa storia ho pensato che è una donna forte, che porta il peso della malattia del figlio. Si può parlare di lei come di un’insospettabile quercia, che ha trovato una grande forza, eppure ha avuto grandi delusioni: un figlio malato, il marito che diventa Pilato, cioè se ne lava le mani per vigliaccheria o per impotenza. La scuola non accetta il bambino, ma lei non si dà per vinta, farà ricorso al Tribunale e continuerà a combattere da sola, con tutte le sue forze. Sono sicuro che lo farà fino in fondo, come tutte le mamme del mondo. Massimo de Filippis
Fosse marziano sarebbe lo stesso, lo porterei sul prato dello sport Il governo italiano è come una fabbrica in tilt. Ossessionata dal pareggio di bilancio, taglia le spese. E tagliando tagliando, si costruiscono macchine che si rompono appena messe in strada. Leggi sulla scuola che licenziano maestri, leggi sulla sanità che tagliano assistenza ai malati, regole fiscali che puniscono chi da sempre paga le tasse e condonano chi le evade, altre su una giustizia sempre meno giusta e sempre più lontana dalla gente. E tagliano pure le risorse per le forze dell’ordine, tanto sono nate per ubbidire... Con tanti saluti all’etica professionale, politica, umana. Proprio qui il nostro piccolo Claudio diventa il fulcro della storia. Gli manca tutto, ma proprio tutto, in primis la nostra conoscenza della sua malattia: è autistico e nessuno sa cosa vuol dire, fosse marziano per noi sarebbe lo stesso. Neanche suo padre sa di che si tratta e noi non siamo in grado di giudicarlo se ha voluto “chiamarsi fuori”. Certo, vengono in mente altri padri, che fanno quadrato attorno al loro figlio debole. Ma, si sa, ci sono uomini veri e uomini no. Ma c’è qualcosa che mi interroga: se pure Claudio avesse tutto il sostegno possibile, da qui all’eternità, gli sarebbe utile davvero? Potrebbe mai lavorare? Non si sa. Sembra già un piccolo atleta? Bene. Lo sport è sano, molto più della scuola e della stessa società civile. Mamma e nonna mi daranno del matto, ma nei loro panni tenterei di insegnare al mio piccolo, amato autistico, la competizione sportiva. Per sé, per la sua autostima, soprattutto per farlo uscire da galera e portarlo su un grande prato verde. Proprio quello su cui nascono speranze... Bruno Limone
La scuola è o non è un diritto garantito a tutti? Sembra strano, ma oggi in Italia l’istruzione non è un diritto garantito a tutti. Questo delude. Anzi, delude molto. Immaginiamo il piccolo Claudio che non può andare a scuola perché ha poche ore di sostegno: questo fa rabbia. Un dramma che vivono molte mamme. Ma la cosa che sciocca di più è che non è stato accettato dal padre. Ci siamo riconosciute in questa madre e ci sentiamo vicine alla sua situazione. Oggi in Italia se una famiglia ha un problema del genere vive molte difficoltà: affettive, burocratiche, giuridiche, pratiche. Nella Costituzione, l’articolo 34 dice che la scuola è aperta a tutti, ma è davvero così? Sembra proprio di no. Speriamo tanto che i giudici che esamineranno il ricorso della madre possano riportare giustizia. Maria Esposito e Marianna Palma
La lotta di Claudio Caro Claudio, voglio augurarti una bella adolescenza, ti auguro di lottare la tua autonomia, ti auguro di giocare e di avere tanti amici. Ti auguro di uscire dal tuo riccio di essere libero di esplorare il mondo che ti circonda; ti auguro di spezzare le catene della tua prigionia dorata e di riprenderti la tua libertà. Ti auguro di vivere la tua vita con spensieratezza e spontaneità e di riprendere in mano il filo della tua esistenza ancora così giovane e immatura. E che tu possa crescere sano, sereno, libero e lottare contro ogni forma di male interiore ed esteriore. Maria di Dato
L’assenza dello stato, la fuga del padre Il primo fatto che mi colpisce di questa storia è l’assenza dello stato. Non è volere scaricare tutto sui politici, ma in questo caso la carenza delle istituzioni è lampante e grave. Ci vorrebbe un’assistenza adeguata. E per garantire a tutti i bambini e ragazzi che hanno bisogno di sostegno, aiuto, presenza e condivisione ci vogliono investimenti, strutture, personale e organizzazione. Manca tutto; e non solo per i ragazzi disabili a scuola. Malati mentali, carcerati, handicappati sono spesso abbandonati a se stessi. Quando l’assistenza c’è, è molto limitata. E un bambino con una grave disabilità è costretto a soffrire e a essere prigioniero di una vita che non ha scelto. Il secondo punto che mi colpisce è la fuga del padre. Comportamento grave, forse peggiore di quello dello stato. Nessuno può giudicarlo, nessuno. Dicono che i grandi dolori dividono o uniscono. In questo caso hanno diviso una famiglia. Giuseppe del Giudice novembre 2011 scarp de’ tenis
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Giornata diocesana Caritas: presentati i progetti “Desh pradesh”, sulle comunità rom, e le interviste sui problemi e le risorse di Napoli
Ascoltare la metropoli è “bene-dire” la città di Laura Guerra Integrazione delle persone rom; problemi e risorse del territorio diocesano. Sono stati questi i temi della giornata organizzata dalla Caritas diocesana di Napoli per presentare i risultati di due progetti realizzati grazie ai fondi otto per mille messi a disposizione da Caritas Italiana. La prima parte è stata dedicata a Desh Pradesh (“A casa lontano da casa”), azione che in un anno e mezzo di attività ha realizzato un monitoraggio dei campi rom presenti a Napoli e provincia, registrato le presenze e analizzato le condizioni di vita e di integrazione del “popolo del vento”. Nel corso dei lavori è stato presentato il volume Il Rompicapo, curato da Giancamillo Trani, responsabile dell’ufficio immigrazione e vicedirettore della Caritas diocesana. Dei duri pregiudizi di cui sono vitti«Dobbiamo battere il pregiudizio, ma i nomadi in Europa ha parlato il precarità è anzitutto contribuire a cambiasidente della federazione “Romani”, che re pensieri, azioni e comportamenti che ha sottolineato il rischio che una deriva causano indifferenza, discriminazione, razzista possa nascondersi nei comporlontananza»: così il cardinale Crescentamenti quotidiani di tutti. zio Sepe, che ha presieduto i lavori. L’arNel pomeriggio sono stati invece civescovo ha ricordato che «dove c’è capresentati i risultati di “Ascolto Metrorità e amore, lì c’è Dio: non c’è precetto politano”, ricerca-indagine su tutto il terpiù forte e più significativo di questo ritorio diocesano, con un focus particonell’aprirsi ai fratelli diversi per cultura, lare sul primo, sull’undicesimo e sul doetnia e religione, nell’accogliere i fratelli dicesimo decanato. Dalla comparaziorom che arrivano nelle nostre comunità. ne di territori così eterogenei, è emersa È una sfida che affronta difficoltà e preuna fotografia in chiaroscuro. I decanagiudizi, ma è da vincere, in un’epoca in ti sono realtà potenzialmente ricche di cui la globalizzazione non deve essere risorse umane e pastorali, ma non le solo un processo economico, ma anche esprimono in maniera compiuta. di inclusione e di integrazione».
Uno strumento che dice di noi Al centro del confronto ci sono stati anche i risultati della ricerca “Il territorio della diocesi di Napoli tra problematiche e speranze” realizzato dall’Osservatorio risorse e povertà, con il metodo di interviste a campione. Disinteresse al bene comune, mancanza di lavoro, degrado territoriale, mancanza di ideali, assenza di cultura e di aggregazione, questione rifiuti, l’assenza dello stato sul territorio: questi i tasti dolenSfide per la chiesa ti per gli intervistaIl cardinale Sepe, ti. Sul versante delintervenuto alla le risorse, invece, la Giornata Caritas
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presenza dei giovani, l’impegno di tanti volontari, le parrocchie aperte, il patrimonio artistico, culturale, naturalistico. Un intervistato su quattro considera il disinteresse al bene comune il problema maggiore che affligge Napoli, mentre il 33% indica nella mancanza di lavoro la questione più urgente da affrontare, seguita dal degrado territoriale (31,5%), dalla crisi dei valori e dalla mancanza di ideali (29,4%). «Educare al bene comune – ha sottolineato monsignor Antonio Di Donna, vescovo ausiliare di Napoli – è la vera sfida educativa per la chiesa, oggi. E anche la sfida pedagogica per la Caritas, che in questa ricerca si fa carico di analizzare i territori. Il valore di questo lavoro sta nel fatto che ci offre molte informazioni preziose e richiama tutti all’eticità e alla cura del bene comune». «Questa ricerca – ha sottolineato don Enzo Cozzolino, direttore della Caritas diocesana di Napoli –, è uno strumento che ci dice tanto di noi, della nostra città, delle nostre comunità, della nostra famiglia umana, sociale e civile. La mettiamo a disposizione di tutti con l'intenzione sincera di “bene-dire”, cioè dire bene per poter poi ben fare, nell'interesse di tutti». La ricerca è stata realizzata intervistando un campione di 315 persone rappresentative di varie categorie sociali, equamente distribuite nei 13 decanati. «È stato un lavoro condiviso con le comunità locali – ha rimarcato Maria Adele Ciotola, responsabile dell’Opr della Caritas diocesana –; il suo valore aggiunto è proprio nella partecipazione attiva e nella condivisione di coloro che abbiamo coinvolto e che volentieri hanno dato il loro prezioso contributo».
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catania Aveva un lavoro. E una famiglia. Ma non un posto per dormire. Gli ha dato fuoco un altro homeless. E la città è indifferente...
Giovanni la torcia, di strada si muore di Gabriella Virgillito Un gabbiotto, ripostiglio di un distributore di benzina, può essere un ottimo posto per dormire, se sei una persona senza dimora. Protetto dalle pareti di sbarre, ti senti al sicuro. La strada è lì, a pochi centimetri. Ma tu puoi ricoprire di stracci il pavimento e sdraiarti tranquillo, in attesa che passi la notte. A questo deve aver pensato Giovanni Mirabile, 57 anni, catanese, impiegato comunale senza dimora. Proprio così: Giovanni un lavoro ce l’aveva, faceva l’operatore ecologico al comune di Catania. Ma la separazione dalla moglie e i problemi in famiglia hanno fatto sì che il suo stipendio non bastasse per mantenersi un tetto sopra la testa. Ed è finito in strada, tra dormitorio e marciapiede. Ma la strada ha le sue regole. E i suoi hanno potuto salvarsi, grazie pericoli. Così, nella notte del 22 ottobre, a un commerciante tunisino qualcuno, acceso dalla rabbia e dall’al- che, assistendo alla scena, ha col, ha deciso di dare fuoco, con uno cominciato a urlare, svestraccio coperto di liquido infiammabi- gliandoli e consentendo loro Ultimo giaciglio le, al senza dimora che dormiva sdraia- di fuggire prima che l’incenIl ripostiglio to dentro la cabina del distributore. dio li raggiungesse. del distributore «Aiutatemi, aiutatemi, sto brucianA rivelare alla polizia l’iarso dal rogo do vivo»: sono le ultime parole pronun- dentità dell’autore dell’inciate da Giovanni Mirabile, mentre ve- cendio che ha ucciso Mirabiniva trasportato d’urgenza all’ospedale le sono state le telecamere di sorveFenomeno preponderante Cannizzaro di Catania, con ustioni di se- glianza degli esercizi commerciali della Giovanni faceva parte dell’esercito di condo e terzo grado sul 95% della su- zona e alcuni abitanti del quartiere. Si persone che abitano la Catania dei marperficie corporea. A nulla sono valsi i tratta di una zona della città dove si sogini, vivono rifugiati all’interno di un’autentativi di spegnere quella torcia uma- no spesso registrati attentati incendiari tomobile, trascorrono la notte nei pronna, compiuti da due ragazzi che per ca- dolosi, proprio ai danni dei tanti senza to soccorso o si riparano in rifugi di forso si trovavano sul posto. Per Giovanni tetto che hanno trovato rifugio nella vituna. E ogni giorno bussano alle porte non c’è stato scampo: è morto dopo cina (e abbandonata) ex palestra di della Caritas. Per chiedere un pasto calqualche giorno in ospedale. scherma. «Questo episodio costringe la do, o la doccia. Era separato, padre di tre città a porre attenzione alla condizione figli di 10, 15 e 20 anni. Ma i difficili rapdelle persone senza dimora – ha dichiaporti con la moglie, che spesso sfociaDepresso e ubriaco vano in liti violente, avevano fatto si che Ad appiccare il fuoco è stato Tudor Vio- rato padre Valerio Di Trapani, direttore dovesse stare lontano dalla famiglia. rel Tanase, romeno, anche lui senza di- della Caritas diocesana di Catania –. Il mora. Quella notte, ha raccontato ai po- povero Giovanni in maniera non corret«La povertà non è più un fenomeno liziotti che l’hanno fermato, era molto ta è stato chiamato clochard, ma noi marginale ma preponderante, al sud depresso a causa di problemi familiari e sappiamo che i romantici clochard non Italia – prosegue padre Di Trapani –. A aveva bevuto parecchio. Dopo aver da- esistono, se non nell’immaginario della Catania, gli accessi ai servizi Caritas soto fuoco a Giovanni Mirabile, si è spo- gente. Esistono invece uomini e donne no aumentati del 60%. Si fa un gran distato nella vicina piazza Spirito Santo, che soffrono povertà ed emarginazione; scorrere di sviluppo. Ma è vano parlartentando di dar fuoco ad altri due senza che non riescono più a correre la terrine, se non a partire dalla condizione di bile gara della sopravvivenza, scartati dimora, suoi connazionali, che dormipersone che la crisi la soffrono in un vano in un angolo. Per fortuna i due dalla società come pezzi difettosi». modo terribilmente drammatico».
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catania Librino, periferia difficile. Ma ci sono strumenti per avviare percorsi di riscatto. Un esempio: il reinserimento lavorativo di ex detenuti
Dal carcere al lavoro, borse per ricominciare di Alessandra Mercurio Le borse lavoro non determinano l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato e non comportano per il lavoratore la cancellazione dalle liste di collocamento. Alla loro conclusione, inoltre, per il datore di lavoro non esiste alcun obbligo di assunzione. Ci si augura però che per i “borsisti” che avranno dimostrato di possedere buona volontà e di aver acquisito le giuste competenze questa esperienza si trasformi in un lavoro vero, definitivo. In ogni caso, comunque vada, le borse lavoro rappresentano una valida opportunità per chi non ha lavoro, consentendogli di acquisire competenze spendibili anche altrove. Nell’ambito del progetto “Fonda-Azioni per Librino”, che a Catania coinvolge diverse agenzie di solidarietà, grazie all’intermediazione della cooperativa “Centro Orizzonte Lavoro”, sono state realizzate undici borse lavoro, tutte a favore di ex detenuti residenti nel problematico quartiere catanese. Tre di queste si sono conLe borse sono uno strumento di policluse molto felicemente: la “FG Recytica attiva del lavoro, particolarmencling”, infatti, un’azienda catanese che te indicato per le persone a rischio opera nel settore dello smaltimento e di esclusione sociale. In questo cadel riciclaggio dei rifiuti, ha deciso di asso, a Librino, di chi si tratta? sumere i borsisti che per sei mesi hanno Grazie al progetto “Fonda-Azioni per svolto l’esperienza in maniera efficace. Librino”, abbiamo attivato undici borse I borsisti sono impegnati part time rivolte a giovani-adulti entrati nel cir25 ore alla settimana, per un periodo di cuito penale, ma anche a soggetti svansei mesi, e ottengono un’indennità di taggiati, dai 16 anni in su, che abitano 500 euro al mese. Spesso l’esperienza in quel quartiere. I borsisti ci sono stati inizia e va avanti con non poche diffisegnalati dall’Uepe (Ufficio per l’esecucoltà. In particolare, a volte il borsista zione penale esterna) e dall’Ussm (Uffinon riesce a integrarsi subito all’interno cio di servizio sociale per i minorenni) dell’azienda. Oppure si verificano dei del ministero della giustizia. Dopo aver problemi nel rispetto degli orari di lavoeffettuato una selezione degli utenti, ro e delle norme di comportamento. abbiamo lavorato sulle motivazioni e Periodicamente si realizzano ore di curato l’inserimento del borsista, teformazione, in presenza di un tutor che nendo conto da un lato delle preferentiene i contatti col borsista, la ditta ospize, delle attitudini e delle capacità del tante, i genitori (se minore) o il coniuge, giovane, dall’altro lato delle opportuper lavorare sulle motivazioni e moninità formative offerte dalle aziende. torare l’andamento dell’esperienza. La dottoressa Claudia Cannata, tuLe aziende si sono dimostrate favotor per l’inserimento lavorativo per conrevoli ad accogliere i borsisti? to della cooperativa Centro Orizzonte Quando siamo passati alla fase del conLavoro, si occupa dell’attivazione delle creto inserimento lavorativo del borsiborse lavoro, tenendo i contatti con i sta, abbiamo dovuto fare i conti con la borsisti e le aziende ospitanti e monitoscarsa disponibilità delle imprese: porando l’andamento formativo della chi datori di lavoro sono disposti ad acborse stesse. cogliere persone entrate nel circuito pe-
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La difficoltà «principale è far acquisire una nuova mentalità, orientata al lavoro, non al guadagno facile. A volte il giovane non riesce a integrarsi subito all’interno dell’azienda. Ma resta un ottimo modo per valorizzare se stessi
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nale, anche quando queste sono sinceramente decise a imprimere una svolta alla loro vita. Ma se la società non li aiuta, poi non ci si può meravigliare quando delinquono. E il borsista? Quali difficoltà incontra? La difficoltà principale è acquisire una nuova mentalità, orientata al lavoro, piuttosto che al guadagno facile. A vol-
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«Imparo comportamenti più corretti» Borsisti all’opera Momenti del progetto “Fond-Azioni per Librino”
La storia / 1
«Ho sbagliato, ma cambiare si può...»
te il giovane non riesce ad integrarsi subito all’interno dell’azienda, perché non è abituato a rispettare le regole e gli orari di lavoro e a interagire proficuamente con altre persone (colleghi, responsabile dell’azienda). Altre difficoltà sono il basso livello di scolarizzazione e di professionalità, ma soprattutto l’impellente bisogno di denaro per sostenere se stessi e la famiglia. Qual è l’utilità delle borse lavoro? Si tratta di un’esperienza che consente ai giovani di lasciare la strada e intraprendere un percorso formativo, confrontandosi con un ambiente lavorativo sano. La considero un’opportunità valida per imparare un nuovo mestiere e acquisire competenze spendibili sul mercato, ma soprattutto per valorizzare se stessi, crescere come persona e potersi reinserire socialmente.
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«Appena uscito dal carcere, sono stato aiutato dalla Caritas diocesana di Catania – racconta un borsista di 49 anni, residente a Librino –. Per sei mesi ho svolto la mia attività con una borsa lavoro in un’azienda di smaltimento e riciclaggio dei rifiuti. Mi occupavo dello smontaggio di vecchie apparecchiature elettroniche, della raccolta di rifiuti ingombranti e dello smaltimento di elettrodomestici. Quando ho accettato di iniziare questa esperienza, non avevo assolutamente niente: solo il desiderio di ricominciare davvero da zero. Per questo motivo, ho colto subito questa opportunità insieme ad altri due colleghi borsisti. Ora è tanta la voglia di mantenere un lavoro onesto e serio, in un ambiente in cui mi sono integrato bene». Riferendosi ai numerosi giovani del suo quartiere, aggiunge: «Vivere in maniera legale a Librino è davvero difficile. Lavoro non se ne trova, specie per chi ha una famiglia da mantenere. Come fare? Sarebbe importante comunicare il valore di un lavoro onesto, anche se a volte dubbio che un lavoro onesto ti fa realizzare qualcosa di più...». Alessandra Mercurio
«Corriere espresso. Potrei definire così il mio attuale lavoro presso la cooperativa Don Bosco di Catania – spiega Giacomo Russo, 42 anni –. Quando, ad aprile, ho iniziato questa esperienza e mi è stata spiegata la mia mansione, ho pensato che si trattasse di un lavoro semplice: consegna di lettere, pacchi postali, merce, documenti, colli. Tutta posta urgente da recapitare a grosse aziende, banche, notai di Catania e provincia. Ma ho capito presto che si tratta di un’attività utile e non banale. Anzi, richiede una grande responsabilità perché è molto importante curare i rapporti umani e dimostrare sempre educazione, cortesia e professionalità sia con i clienti della cooperativa, che con coloro a cui gli stessi inviano il materiale. Così, sto imparando ad assumere comportamenti corretti e rispettosi verso gli altri, a coltivare un forte senso di responsabilità e il desiderio di dare e ricevere ogni giorno fiducia. Quando gli altri dimostrano di avere fiducia in te, tu questa fiducia non la puoi tradire. Sono convinto che chiunque intraprenda, come me, un’esperienza di borsa lavoro, abbia bisogno di lavorare molto sull’autostima e sulla fiducia nei confronti degli altri e degli altri verso di sé. Sì, non c’è dubbio, la fiducia degli altri ti dà la spinta, il coraggio e il piacere di iniziare nuovi percorsi di vita». Alessandra Mercurio
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palermo Centro Dedalo, nel cuore della città: spazio di espressione e relazioni per persone con disagio mentale. Come Mario ed Elena
Amore accoglie, Psiche si risveglia di Nadia Sabatino Arrivo al centro Dedalo alle 16.30. Non avrei potuto immaginare un’accoglienza migliore! Subito gli ospiti del centro, incuriositi ma anche felici della mia visita, si presentano: il primo è Marco, poi si avvicinano Mario, Elena, gli altri. Dopo aver parlato con Massimiliano Bracco, psicologo, psicoterapeuta e presidente dell’associazione “Porte Aperte”, cui fa capo il centro, partecipo anch’io entusiasta alle attività. Ogni pomeriggio una diversa, in una atmosfera ludica ma, al contempo, con un’importante funzione riabilitativa. Oggi, per esempio, si canta. È in programma il laboratorio: Laura e Roberta dirigono il coro, altri due operatori, Daniele e Angelo, suonano batteria e chitarra, mentre operatori e utenti cantano assieme. La musica è piacevole, dallo stesso tempo e dallo stesso ritmo trapelano tante emozioni diverse. ciò, insieme al percorso di sostegno psicologico e psichiatrico, gli ha permesso di diminuire gli aspetti negativi della sua Mario, storia di un pittore vita e di sentire il suo valore di persona. Mario desidera raccontarmi la sua stoOggi lavora, è sicuro di sé, si propone e ria: proviene da una famiglia con un lifa delle mostre. «Al centro – avverte – si vello socio-culturale basso. Ha conoimpara a vivere con gli altri e a mettersi sciuto il centro per caso, partecipando in gioco, soprattutto quando arriva genalla mostra di pittura Creativamente, orte nuova». Gli operatori lo aiutano, soganizzata nel 2006 dall’associazione come momento di sensibilizzazione del territorio e lotta allo stigma. È un pittore e ha messo a disposizione del centro la sua arte, dipingendo murales come la raffigurazione della statua di Canova “Amore che risveglia Psiche”, che si trova proprio all’ingesso del centro, visibile a tutti i passanti, simbolo del modus operandi dell’associazione nei confronti della sofferenza psichica. «È Amore – spiega l’uomo – che con un bacio risveglia Psiche: ciò rappresenta l’intesa che ci dev’essere tra la nostra parte emotiva e quella razionale, tra parte intima e parte consapevole. In questo modo si raggiunge l’armonia, quindi la felicità». Mario ama dipingere. «La vita artistica è strettamente legata alla mia esistenza». Al centro Dedalo ha avuto la possibilità di esprimersi e di raccontare ciò che sentiva attraverso l’arte. Tutto
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no persone di cui si può fidare e su cui può contare sempre. Il centro per Mario è una famiglia: «Un’oasi che ti accoglie, ti abbraccia e ti accetta per quello che sei». A differenza che nella vita quotidiana, al centro c’è la possibilità di fare esperienze senza pregiudizi e giudizi. Una sorta di “palestra” della mente e delle relazioni, in cui potersi allenare per riaffrontare la vita esterna con maggiore fiducia e sicurezza.
Elena non vuole andare a casa È il turno di Elena, che frequenta il centro da cinque anni. Qui cucina, canta, disegna. Non vuole mai andare a casa, si diverte, ha degli I murales di Mario amici, prima fre- “Amore che risveglia quentava un corPsiche” e (a destra) “Primavera sarà” so di formazione
scarppalermo per uscire di casa. Il centro è una seconda famiglia, si è subito trovata bene. Elena adesso è molto più sicura di sé, esce da sola, va in farmacia e a fare la spesa. L’associazione “Porte Aperte” è nata nel dicembre 2004 con il fine di migliorare la qualità di vita e favorire la piena partecipazione sociale di persone con schizofrenia, ritardo mentale, autismo. Offre servizi di psicoterapia, gruppi di sostegno alle famiglie, consulenze legali e psichiatriche, riabilitazione psicologica e integrazione sociale. Collabora con il dipartimento di salute mentale dell’Asp 6 di Palermo, proseguendo il lavoro clinico-sanitario in uno spazio di vita non sanitario, affinchè la persona consolidi l’esito della cura nel proprio contesto di vita naturale. Ed è proprio dall’esito di questa integrazione che si può valutare l’efficacia complessiva di un intervento riabilitativo.
Dal labirinto uscire si può «L’associazione – riferisce Massimiliano Bracco – ha un pensiero metodologico che prevede un passaggio dal malato alla persona. Non curare, dunque, ma si prende cura delle persone che presentano un disagio psichico, migliorando la loro percezione di sé come persone con risorse, non come malati a vita». Il servizio di riabilitazione viene erogato sia attraverso interventi individuali realizzati da figure professionali, come l’operatore d’appoggio, sia attraverso attività di gruppo, come avviene appunto al centro Dedalo. La funzione
La struttura
Dedalo, terapia e incontri anche per i famigliari «Il centro Dedalo è uno spazio di incontro e di socializzazione; nato nel gennaio 2006 in seguito a un’attenta analisi dei bisogni reali degli utenti, dei familiari e dei servizi socio-sanitari. L’obiettivo principale è combattere l’emarginazione e il ritiro sociale, attraverso un punto di riferimento stabile nel territorio, che sia a stretto contatto con la cittadinanza. È situato in una zona centrale di Palermo, per consentire anche simbolicamente un percorso di piena integrazione psicosociale nel tessuto cittadino, ed è aperto al pomeriggio, dalle 16 alle 20. Lo spazio è piccolo; il principio è quello di adattarsi alle risorse, a ciò che si possiede. Questo chiaramente si applica anche alla metodologia di lavoro del centro. Si svolgono attività di socializzazione, per la gestione della vita quotidiana (visite in città, laboratori di cucina, di informatica, di bricolage, uscite pomeridiane e serali di gruppo), e attività ludicoricreative (animazione, giochi, laboratorio artistico, di lettura, di canto, di ascolto musicale, karaoke, cineforum, gite). I laboratori hanno una valenza terapeutica: sono uno strumento essenziale per far emergere le risorse personali, artistiche e creative. Di fondamentale importanza sono, inoltre, i gruppi di discussione, sostegno e problem solving. Il centro è anche un punto di riferimento significativo per i familiari, che possono incontrarsi fra loro, condividere le esperienze, partecipare a gruppi di sostegno psicologico, creare gruppi di auto mutuo aiuto, e soprattutto diminuire il carico assistenziale quotidiano.
dell’operatore d’appoggio è sostenere la persona nel suo percorso riabilitativo volto all’inserimento psicosociale, attraverso lo svolgimento delle normali attività di vita quotidiana. Compito dell’operatore è soprattutto intervenire sul piano cognitivo, comportamentale ed emotivo nelle aree deficitarie, ad esempio l’area dell’autonomia, della cura del
sè, della gestione delle relazioni e degli affetti (proprio quello che è avvenuto in maniera soddisfacente con Elena), e aiutare a costituire una rete sociale di riferimento piuttosto stabile. Si interviene contemporaneamente, dunque, al fine di incrementare la fiducia in se stessi, l’autostima, ma anche per migliorare le capacità relazionali e la comunicazione interpersonale. Alla fine del mio pomeriggio un po’ speciale al centro Dedalo, oltre ai sorrisi delle persone che ho conosciuto, rimango ancora colpita da un murale, il cui autore è sempre Mario. L’immagine è quella di un labirinto con una forma un po’ anomala. Non è un labirinto difficile, la sua forma a spirale fa sì che il percorso porti facilmente all’uscita: la patologia si può affrontare e si può “uscirne” senza incontrare ostacoli. Il centro Dedalo accompagna la persona in questo percorso, fornendo gli strumenti affinchè sia davvero semplice e conduca a un benessere generale. Il quale, anche se non elimina totalmente il disturbo, contribuisce ad attenuarlo, sottolineando le risorse e ciò che di bello e speciale ognuno possiede. INFO www.associazioneporteaperte.it
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poesie di strada
A papà Tante le cose che avrei voluto dirti, ma te ne sei andato via prima… e non me ne hai lasciato il tempo. Lasci dentro di me e dentro tutti quelli che ti hanno voluto bene un vuoto incolmabile, insostituibile! Dicono che il tempo aiuti a superare i dolori più grandi, ma io so solo che, oggi, a un mese dalla tua scomparsa, non mi sembra ancora vero di dover fare a meno di quel modo tutto tuo, tra il burbero e l’affettuoso, di trattare i tuoi adorati figli, me compresa, che tanto ti ho fatto soffrire in questi ultimi anni, con le mie dipendenze e i miei continui ricoveri. Spero tu mi abbia perdonato. Sappi che io farò di tutto per riconquistare la tua fiducia. Sappi che saprò comportarmi come una brava mamma, insegnando a Matilde tutto quello che tu hai insegnato a me. So che tu, da lassù, mi aiuterai a diventare finalmente una donna adulta, responsabile e matura. Ti prometto che tornerai a essere fiero della tua “bambina”. Con amore, tua figlia Valentina
Emma Prenditi Sbocciano le gemme, il tempo… nascono le foglie, da un ramo sboccia l’ultima gemma, non genera foglie ma ne nasce un bellissimo fiore profumato, delicato. Sboccia l’ultima gemma, ne nasce un bellissimo fiore, quel fiore si chiama Emma. Mr Armonica
Quello che vorrei Tutte le lingue vorrei parlare. Come più dolce suona in ognuno, vorrei sempre poter chiamare ogni creatura che incontro buona. Vorrei sempre poter sentire il desiderio di far del bene. Vorrei sempre paziente udire la voce di chi ha tante pene. Vorrei a chi ha un tormento dare sollievo, dare conforto. Vorrei poter chiamare amico chi è solo e chi non è buono, per potergli un poco donare il mio desiderio di amare. Offrire un fiore a chi non ama, per fargli conoscere il dono che a noi uomini è stato dato: il grande, immenso amore che non pensa, chi gli è dinanzi, ma che vede in quell’uomo, scolpito, le sembianze di Cristo patito. Gaetano “Toni” Grieco
Il tempo di ascoltare e di imparare, il tempo di vedere la bellezza, il miracolo e il colore di chi ami. Prenditi il tempo di mostrare che te ne occupi, che crei memorie e apprezzi i momenti speciali. Il tempo è prezioso: usalo bene. Prenditi il tempo per curare vecchie ferite, tempo per permetterti di crescere e soprattutto prenditi il tempo di essere te stesso e di credere in te. La farfalla non ha mesi, solo momenti, ma vola intorno ai fiori e si prende il suo tempo. Silvia Giavarotti
Le mie scarpe Le mie scarpe hanno la suola rovente di strade impraticabili, indirizzi sbagliati. Hanno “vissuto” scalinate rapide senza mai giungere alla cima, guadagnato anticamere anonime di uditori distratti. Le mie scarpe hanno la suola di gomma, assottigliata dal peregrinare, la pelle logora dall’andatura greve, da troppe pietre d’inciampo. Hanno lacci sfilacciati che hanno smarrito ogni funzione, ma sono lì, miseramente penduli e marroni senza più alcuna pretesa di eleganza. Aida Odoardi
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ventuno Ventuno. Come il secolo nel ventunodossier Quinto Stato, l’Italia quale viviamo, come l’agenda invisibile. Il popolo dell’economia per il buon vivere, come della conoscenza: quasi due milioni l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. di persone nel nostro paese. Ventuno è la nostra Lavoratori a caccia idea di economia. Con qualche proposta per i commesse: ma chi li tutela? agire contro l’ingiustizia e di Andrea Barolini l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno.
ventunostili La battaglia di “Abiti Puliti” contro la sabbiatura dei jeans. Per la protezione dei lavoratori e per evitare morti assurde. La risposta delle griffe. Intanto, a Milano, si compra l’abito un tanto al grammo...
21 di Maria Chiara Grandis e Sandra Tognarini
ventunorighe Più imprese straniere. Ma la crisi...
tratto da Dossier statistico immigrazione Caritas-Migrantes 2011
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21ventunodossier Ormai sono quasi due milioni, in Italia. Lavoratori preziosi, eppure esclusi dagli ammortizzatori sociali. Chi li rappresenta?
Noi, Quinto Stato qualificati e sfruttati dossier a cura di Andrea Barolini
Grafici, designer, traduttori, web designer, consulenti, freelance. Difficilmente Il popolo degli “atipici” assegnabili a rigide categoria o classi sociali. Ma con un tratto in comune. Quello legato alle Era dicembre 2009. Il governatore di Bankitalia, futuro banchiere centrale numero uno d’Europa, Mario Draghi, ricevendo una laurea honoris causa dal“zero tutele”. l’università di Padova, lanciava l’allarme: «Esiste una massa di lavoratori priva di Professionisti sì, tutela. Sono persone escluse dal sistema degli ammortizzatori sociali. E sono un milione e seicentomila». Il riferimento era a tutti coloro che, in caso di perdita del ma del precariato: lavoro, non possono contare su alcuna forma di sostegno. Da allora – complice la sussidi inadeguati crisi, la continua pressione sul mercato del lavoro e l’incapacità di chi governa di fornire risposte efficaci – la situazione, in Italòia, è ulteriormente peggiorata. Tanto da per la malattia, far parlare di un “Quinto Stato”: fatto di professionisti autonomi, flessibili e indila disoccupazione, pendenti. Non è solamente il popolo delle parstata il leit motiv delle politiche occupala maternità. tite Iva. Né si tratta di una nuova catezionali di tutti i governi della seconda E prospettive infauste goria identificabile in una specifica clasrepubblica. Dal primo esecutivo Prodi, se sociale. Sono piuttosto grafici, tradutche nella seconda metà degli anni Noper le pensioni... tori, web designer, consulenti, freelance vanta ha dato il là all’avvento del lavoro Cercano commesse di ogni tipo. Ventenni o cinquantenni, atipico con il pacchetto Treu, passando con contratti sporadici, temporanei o poi per la riforma Dini e arrivando alla per mantenere sè semplicemente inesistenti. Gente speslegge Biagi firmata dal governo Berlue le famiglie. so altamente qualificata, che lavora sensconi. Il sistema che ne è disceso ha diza orari, senza week end, senza sussidi mostrato di faticare a “tenere” già in Ma in tempi di crisi, di disoccupazione o malattia. Cercando tempi di espansione economica. Ed è è ancora più duro di mese in mese le “commesse” con cui semplicemente crollato alla prima crimantenere sé stessi e le proprie famisi. Ciò perché la flessibilità è stata sotrovare lavoro. glie. Uno squarcio di pieno Ottocento, prattutto precarizzazione, non sostenuE protezione sociale... nel moderno mondo globalizzato. ta da un forte sistema di salvaguardia
Un regime di apartheid che nega ogni protezione
Le loro condizioni di lavoro sono spesso insostenibili: per questo i cittadini del Quinto Stato stanno cominciando a organizzarsi. Per combattere prima di tutto il portato di una flessibilizzazione del mondo del lavoro che è
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sociale. Il risultato è stato la creazione di «un regime di apartheid tra protetti e non protetti», per utilizzare le parole di Pietro Ichino. Eppure è proprio questo il momento in cui si sente maggiormente il biso-
lavoro e tutele (mancanti)
Fonte: elaborazioni Ires-Cgil su dati Istat, Rcfl
tabella 1. Retribuzione media dei dipendenti per modalità contrattuale e anzianità lavorativa (media primo semestre 2009)
Fonte: elaborazioni Centro studi Acta su dati Inps
tabella 2. L’andamento dei contributi versati alla Gestione separata
gno di una rete di protezione. «Nelle dieci fasi di recessione che dal 1948 al 2007 hanno investito l’economia occidentale, soltanto la più recente ha visto 24 mesi ininterrotti di riduzione del lavoro – osservava Dario Banfi, dell’Associazione dei consulenti del terziario avanzato (Acta), in uno scritto dell’agosto 2010 –. La Cgil ha calcolato la disoccupazione reale in Italia intorno al 12%. Le richiese di sussidi e il ricorso alla cassa integrazione sono aumentati del 500% anno su anno». A farne le spese sono i più vulnerabili: 3,6 milioni di persone, secondo un’analisi di Isfol. «Comprese – ricorda il ricercatore Emiliano Mandrone – le “finte” partite Iva, che sono 1,3 milioni». Ovvero quelle aperte da lavoratori che fatturano in realtà a un solo committen-
te, unicamente per venire incontro alle esigenze dell’azienda di risparmiare gli oneri dei contratti “tradizionali”.
Bisogno di rappresentanza L’Acta è nata proprio per dar voce a questo segmento del mondo del lavoro italiano (e non solo), immerso in un silenzio assordante. Costituita nel 2004, l’associazione rappresenta i numerosissimi attori di quella che sociologi ed economisti hanno battezzato “l’economia della conoscenza”. Professionisti, destinati a ricoprire ruoli sempre più da protagonisti nel prossimo futuro. L’Agenzia europea per lo sviluppo professionale parla di 7 milioni di posti di lavoro creati nel comparto della conoscenza, nel continente, entro il 2020 (a fronte di una contrazione di 2 milio-
L’Associazione dei consulenti del terziario avanzato (Acta) prova a dare risposte alla “fame di rappresentanza” dei lavoratori atipici, spina dorsale della “economia della conoscenza” all’italiana
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ventunodossier
In università
Accademici? Si, ma finiti ...in serie C! I lavoratori di serie B (i parasubordinati, i precari, moltissimi professionisti privati) non sono i fanalini di coda del sistema-lavoro italiano. Se, infatti, freelance e “autonomi” possono – per lo meno – vantare un inquadramento giuridico, esistono migliaia e migliaia di prestatori di servizi, consulenze e collaborazioni ultraqualificati, che risultano semplicemente inesistenti. Impalpabili per il fisco e per la previdenza pubblica. Così come per il diritto. Per avere un’idea della portata del fenomeno il consiglio è farsi un giro in una qualsiasi università pubblica del paese. Ci si accorgerà che, insieme al (sempre più ridotto) corpo docente “ufficiale” (professori, ricercatori, borsisti) esiste un gigantesco, oscuro mondo parallelo di collaboratori nascosti. Che contribuisce in modo determinante alla didattica. Si tratta, di fatto, di veri e propri assistenti di cattedra, che si occupano dei ricevimenti degli studenti, di sostituire i professori di ruolo a lezione, di interrogare i candidati agli esami. Su di loro non esistono statistiche, stime, previsioni, censimenti. Né il ministero né alcun altro istituto ha mai indagato a fondo il fenomeno. Eppure, in molti giurano che senza di loro alcune facoltà sarebbero semplicemente impossibilitate ad andare avanti. Indicazioni ufficiose di associazioni di categoria parlano di decine di migliaia di professionisti. Eccola, la serie C del sistema...
ni e mezzo nell’industria tradizionale). Un popolo che chiede rappresentanza, diritti, welfare. «Paghiamo le pensioni degli altri – ricorda uno spettacolo teatrale organizzato da Acta a gennaio –, ma noi non ne avremo una sufficiente a sopravvivere». In più, spesso, scontano l’etichetta di evasori, per colpa di quelli (purtroppo non pochi) che scelgono la furbizia a scapito del diritto. Basta uno sguardo agli obblighi contributivi per comprendere come (per chi non evade, ovviamente) si sia di fronte a una vera e propria sperequazione. Chi ha una partita Iva o è un parasubordinato cede infatti all’Inps il 26,7% del proprio reddito. In più, qualora non dovesse raggiungere la soglia minima prevista per ottenere una pensione, non potrà neppure riavere indietro i propri risparmi (per questo il Partito radicale
ha presentato un disegno di legge, all’inizio di ottobre, per modificare la normativa su tali “contributi silenti”). In ogni caso, qualora si dovesse raggiungere l’agognata pensione, Acta ha calcolato che, secondo le regole attuali, a fronte di 100 mila euro di contributi versati, si avrebbe diritto ad una pensione massima di 5.620 euro annui. Lordi. E la cifra è perfino destinata a diminuire, in base ai nuovi coefficienti che seguiranno, con ogni probabilità, i futuri innalzamenti dell’età pensionabile.
Iva semplificata, addio Un sistema palesemente iniquo, dunque. Che però nessuno ha interesse a modificare, dal momento che è proprio la Gestione separata del nostro principale ente previdenziale (quella “dedicata” al Quinto Stato) a beneficiarne, inca-
Rapporto Ires
Conoscenza, la risorsa su cui non si investe L’avvento delle nuove tecnologie informatiche ha trasformato qualsiasi sistema di produzione sull’intero pianeta. Una sorta di “rivoluzione”, che ha colpito anche l’industria, modificando tempi e modalità del lavoro. Se fino a pochi anni fa a dominare la produzione globale erano infatti i prodotti fisici, oggi migliaia di colossi economici mondiali commerciano e vendono “idee”. Beni immateriali, intangibili. Capitale finanziario che si intreccia con quello sociale, umano, culturale. A produrre tutto ciò sono i nuovi professionisti del knowledge working. Gary Becker, premio Nobel per l’economia nel 1982, ha sintetizzato con queste parole il senso del fenomeno: «Le informazioni, la conoscenza, le stesse abitudini delle persone, sono decisivi. E i paesi che non investono sulle persone crolleranno. Il ventunesimo secolo – ha profetizzato, in un intervento al Festival dell’economia di per lo più lavoratori a termine, mentre Trento del 2007 – segnerà la rivoluzione una sempre più risicata minoranza viedel capitale umano, e il sapere sarà semne assunta a tempo indeterminato»: in pre più il fondamento di ogni aspetto Piemonte solo il 16,1% (era il 17,7 nel della nostra vita». 2008); nelle Marche il 13,2% (16,5% nel L’economia della conoscenza, in2008), in Toscana il 13,7% (16,8% nel somma, ha potenzialità non solo di cre2008), nel Lazio il 22,4% (26,2 nel 2008), scita quantitativa, ma di sviluppo qualiin Veneto il 26,6% (32,7% nel 2008). Se tativo. A patto, però, che sia “accompaanche si volesse considerare tale trend gnata” da un sistema di lavoratori, non una conseguenza inevitabile del nuovo di sfruttati. Un rapporto dell’Ires (Istitumercato del lavoro (il che è tutto da dito ricerche economiche e sociali) di mostrare), tale dinamica non può non aprile sottolinea che i contratti a tempo essere accompagnata da un sistema di indeterminato sono sempre più rari in tutela sociale, che solo le istituzioni posItalia. «Nel primo semestre 2009 – si legsono garantire. Il rischio, altrimenti, è un ge nel documento –, rispetto allo stesso balzo indietro di decenni nei diritti dei periodo del 2008, i nuovi assunti sono lavoratori. Già avvenuto per troppi.
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lavoro e tutele (mancanti)
merando enormi quantità di capitali, a fronte di scarsissime voci in uscita (essendo una gestione ancora giovane). Così, quest’anno, la “cassa” dei lavoratori autonomi chiuderà in attivo di 7,2 miliardi di euro, a fronte di prestazioni erogate per soli 300 milioni. Per quanto riguarda le tasse, inoltre, le notizie fanno ugualmente tremare. Non solo: i dati Istat ricordano come le retribuzioni medie siano decisamente più basse per chi ha, ad esempio, un contratto a tempo determinato, rispet-
to a chi è assunto sine die. Il governo, nell’ultima legge finanziaria, ha addirittura operato un ulteriore giro di vite su uno degli anelli più deboli della catena del lavoro atipico: quello costituito dai titolari di partita Iva che hanno aderito ai cosiddetti “regimi minimi”, ovvero coloro che non fatturano oltre i 30 mila euro annui, e che per questo beneficiano di una tassa forfettaria (onnicomprensiva) del 20% e, soprattutto, possono evitare il pesante onere della tenuta delle scritture conta-
bili. È stato introdotto infatti un limite massimo di 5 anni per l’adesione a tale regime e, in più, ciò varrà unicamente fino al compimento dei 35 anni. E se è vero che per chi aprirà una piccola impresa nel 2012 sarà applicata un’aliquota forfettaria ancora più vantaggiosa (il 5%), il risultato sarà che circa il 90% dei 500 mila attuali aderenti non potranno più beneficiare della partita Iva semplificata. C’è davvero da domandarsi se sia questo l’unico modo per far quadrare i conti del nostro stato.
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tabella 3. L’occupazione in Italia nel 2008 (per mille unità)
Dall’Acta
Rivendicazioni e proposte, un Manifesto per ottenere un welfare “distribuito” Dallo scorso maggio i lavoratori autonomi hanno un loro Manifesto. Redatto e presentato dall’associazione Acta, costituisce al contempo una pesante denuncia dell’attuale condizione del variegato e spesso vituperato mondo dei collaboratori, dei freelance e dei parasubordinati. Nel documento sono contenute una serie di proposte e una lista di rivendicazioni a cui il mondo politico e il sistema previdenziale dovranno – o almeno si spera – dare risposte. Le richieste sono diverse. Anzitutto, un welfare “distribuito” e non più ad uso esclusivo delle categorie già tutelate. Poi la corresponsione di un’indennità di malattia che comprenda anche la degenza domiciliare e i congedi parentali, un sistema di strumenti per attutire le conseguenze dei casi di prolungata assenza di commesse e di disoccupazione, l’adozione di una “maternità universale” (ossia un importo da corrispondersi per cinque mesi a tutte le mamme, indipendentemente dal fatto che siano dipendenti o autonome, che siano stabili o precarie, che lavorino o non lavorino ancora). Insomma: ammortizzatori sociali, per
chi è quasi privo di diritti. A leggere il Manifesto c’è da chiedersi a cosa siano servite le lotte dei lavoratori, se si torna oggi a chiedere ciò che sembrava ampiamente conquistato. «In questo mondo nuovo il sindacato non ha mai smesso di cercare gli elementi di continuità con la fabbrica, sulla base del paradigma della contrapposizione fra lavoro e capitale e fra imprenditore e lavoratore subordinato – spiegano Anna Soru e Alfonso Miceli, presidente e vicepresidente di Acta –. Il legame del sindacato con i lavoratori di questo settore è perciò molto allentato, se non inesistente: i suoi iscritti continuano a essere in prevalenza gli occupati della grande fabbrica, i dipendenti della pubblica amministrazione, i pensionati». I rappresentanti dei lavoratori, in altre parole, dovrebbero comprendere come quello degli “atipici” non sia più una stortura del sistema che riguarda una minoranza: sembra, al contrario, imporsi sempre più, fenomeno in rapida espansione. Se i sindacati non sapranno dare risposte, milioni di lavoratori resteranno privi di rappresentanza . novembre 2011 scarp de’ tenis
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La campagna Abiti Puliti interpella i grandi marchi della moda: no alle “sabbiature”, sì alla tutela dei lavoratori
E puliamoli questi jeans! L’idea della «campagna è nata in Turchia. In quel paese la schiaritura dei jeans oggi è vietata. Ma troppi lavoratori ci hanno lasciato la vita
»
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di Maria Chiara Grandis «Non è stato facile, ma in Italia è andata molto bene: su nove produttori contattati, otto hanno abbandonato la tecnica della sabbiatura dei jeans». È soddisfatta Deborah Lucchetti, coordinatrice della campagna “Abiti puliti”, sezione nazionale della Clean Clothes Campaign, rete internazionale che si batte per migliorare le condizioni di lavoro nell’industria mondiale dell’abbigliamento. Tutto è cominciato poco più di un anno fa, quando in Turchia si è scoperto che il sandblasting – cioè la tecnica di schiaritura dei jeans, praticata utlizzando sabbia sparata con pi-
stole ad aria compressa – provoca ai lavoratori malattie respiratorie, come la silicosi, di cui si può anche morire. A livello internazionale H&M e Levi’s sono state le aziende che per prime hanno reagito e abolito il procedimento dalle loro filiere produttive. In Italia, dopo varie pressioni, sono arrivate le adesioni (tra gli altri) di Gucci, Replay, Benetton, Diesel, Prada, Armani, Versace e Cavalli. Resta fuori, tra i più noti, solo Dolce&Gabbana.
Morire per un paio di jeans «L’idea della campagna è nata in Turchia – spiega Lucchetti – proprio dove
campagna abiti puliti Le campagne
Azioni per diventare consumatori critici, anche quando scegliamo un vestito La Clean Clothes Campaign è una coalizione di organizzazioni e associazioni attiva in 15 paesi dell’Unione Europea e collabora con campagne gemelle promosse negli Stati Uniti, in Canada e in Australia. Attiva dal 1989, ha come obiettivo far rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori impiegati nei paesi in via di sviluppo e poveri, nel settore tessile e dell’abbigliamento. Oltre alla mobilitazione contro la sabbiatura dei jeans, sul sito www.cleanclothes.org sono elencate le altre campagne: c’è “Better Bargain”, per tutelare i lavoratori dei discount, spesso sottopagati per garantire prezzi bassi sugli scaffali e ingolosire i consumatori; interessante, tra le molte altre, anche una delle più antiche e note, ovvero quella per sensibilizzare la Federazione internazionale delle associazioni
ora la tecnica della schiaritura dei jeans con la sabbia è vietata». Ed è lì, nel settembre 2010, che sono stati presentati per la prima volta i risultati degli effetti del sandblasting sugli operai che lo praticano. «Spesso lavorano senza adeguate protezioni, e respirano la polvere che si disperde nell’ambiente. Mentre all’inizio si pensava fosse tubercolosi, solo mettendo insieme tutti i casi si è capito che il problema era un altro. E per la maggior parte sono ragazzi giovani ad essersi ammalati». In Turchia, su 10 mila lavoratori impiegati nel settore tessile, il 70% è
calcistiche (Fifa) verso i diritti dei lavoratori che cuciono i palloni da calcio in India, Pakistan, Cina e Tailandia. In Italia la Clean Clothes Campaign è rappresentata da “Abiti Puliti”, campagna promossa da diverse associazioni: Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Coordinamento Nord-Sud del Mondo, Fair e Manitese. Aderiscono anche altrAqualità, Assobotteghe, CtmAltromercato, Fondazione cuturale Responsabilità Etica, Gas Birulò, Libero Mondo, Rete Radié Resch. La campagna ha una pagina facebook e un suo sito internet, www.abitipuliti.org, che contiene notizie e aggiornamenti sui problemi e sulle campagne in corso, ma anche informazioni per diventareun consumatore critico anchein materia di abbigliamento.
Rischio silicosi Jeans lavorati in aziende asiatiche: a destra, la pericolosa sabbiatura. Sopra, loghi di Abiti Puliti e dell’iniziativa anti-sabbiatura
potenzialmente a rischio di contrarre la silicosi, a causa del silicio che si trova nella sabbia usata per schiarire i jeans. Porta alla morte per insufficienza respiratoria. «La campagna – avverte Lucchetti – ha pensato prima a informare le imprese poi, date le loro reticenze, si è evoluta in una fase pubblica di sensibilizzazione dei consumatori, iniziata a febbraio. Così abbiamo ottenuto i primi risultati».
Una campagna sul web Sono diverse le richieste della Clean Clothes Campaign contro la sabbiatura dei jeans: alle imprese si chiede di cessare l’uso del sandblasting in tutta la filiera produttiva, ai governi nazionali di varare leggi che la vietino, ai consumatori di non acquistare prodotti dannosi per la salute dei lavoratori, agli stilisti di non crearne. La campagna si è svolta innanzitutto sul web ed è stata sospinta dai social network come Facebook, che per esempio ha favorito l’autorganizzazione dei cittadini in vista di azioni mirate. «In occasione degli interventi novembre 2011 scarp de’ tenis
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pubblici che abbiamo promosso, ho incontrato gruppi di consumatori che mi hanno raccontato le azioni intraprese nei loro territori, come l’inserimento delle etichette nei jeans in vendita nei negozi, dove si legge “Questo prodotto nuoce gravemente alla salute”. Facebook – prosegue Lucchetti – ci è servito anche per fare pressioni sulle imprese che, a volte, hanno addirittura oscurato i nostri commenti sulle loro pagine. Questo significa che siamo riusciti a suscitare interesse sul tema, sul quale però c’è ancora grande disinformazione. La prima reazione di tutti coloro che ci contattano è la sorpresa, poi viene l’indignazione».
La reazione delle imprese italiane Non tutte le aziende che hanno aderito alla campagna lo hanno fatto allo stesso modo. «Gucci, per esempio, non solo ha cessato l’utilizzo del sandblasting, ma ci ha anche aperto
le porte delle aziende fornitrici, che abbiamo visitato insieme. È stato l’esempio più avanzato di responsabilità – riconosce la curatrice della campagna italiana –. Altri invece si sono solo limitati a una dichiarazione formale di cessazione della sabbiatura: chi a partire da quest’anno, come Benetton, chi dal prossimo, come Diesel. Non è molto, ma è un passo avanti. Versace, ad esempio, è arrivato tardi, ma poi ha dichiarato di aver inserito il rifiuto del sandblasting nei contratti: è una posizione che giudichiamo interessante. Altri si sono limitati a dire pubblicamente di non utilizzare la tecnica». Una sola impresa non ha aderito all’appello di “Abiti puliti”, sottolinea la coordinatrice: «Dolce&Gabbana, che ci ha contattati solo per comunicare di non essere interessata all’argomento. Fra l’altro nulla è cambiato neanche dopo le 50 mila firme raccolte dalla piattaforma internazionale
Change.org, che si occupa di petizioni via web. Che dire? Siamo allibiti».
Secondo passo, risarcire Anche a livello internazionale la campagna sta dando buoni risultati e le aziende che aboliscono la sabbiatura sono in aumento. «Ma non cantiamo vittoria facilmente né ci accontentiamo delle dichiarazioni di carta – frena Deborah Lucchetti –. Non ci basta nemmeno bandire la tecnica dalle filiere produttive perché, ora, bisogna pensare al risarcimento dei lavoratori colpiti dalla malattia». L’operazione non è facile, perché l’industria tessile dell’abbigliamento mondiale non solo è delocalizzata, ma anche parcellizzata in lunghissime catene produttive, che arrivano fino ai laboratori clandestini, al lavoro a domicilio, per di più in paesi dove c’è una scarsa attenzione alle norme, alle convenzioni internazionali e ai sistemi di sicurezza. «Solo in Turchia
Nuovi consumi
Camicia e pantalone, un tanto al grammo di Sandra Tognarini
I capi blu (il top) costano solo 15 centesimi al grammo. L’idea è stata vincente: fa risparmiare e permette di riusare eccedenze 72. scarp de’ tenis novembre 2011
Adesso vi vestiamo un tanto al grammo. È la parola d’ordine del negozio temporaneo “Kilo Fascion, diamo peso alla moda” che ha aperto i battenti a marzo in corso Vittorio Emanuele 30 a Milano, “tempio” dello shopping meneghino. «Dovevamo chiudere a fine giugno – dice Daniele Carella, uno dei responsabili del personale –, ma l’iniziativa ha avuto un grande successo, quindi pensiamo di andare avanti fino a gennaio». Cambiano i tempi. E, complice la crisi, si irrobustiscono pratiche commerciali inedite, ispirate dall’esigenza di far risparmiare il lavoratore, persino utili (entro certi limiti) anche a evitare sprechi. Ma come funziona la vendita? La merce è divisa per categorie: gialla (good, buono), rosa (better, migliore) e blu (best, il meglio). ridere di più e sono più educati). A ogni categoria corrisponde un prezzo In vendita, abbigliamento uomo, in centesimi al grammo, da quella più a donna e bambini, t-shirts, jeans di tutti buon mercato, la gialla, a quella più ca- i tipi, felpe, scarpe, accessori e bianchera, la blu. Ciò che si è scelto si pesa su bi- ria. Dietro l’angolo, c’è sempre l’occalance simili a quelle dell’ortofrutta del sione. I fashion victim possono trovare supermercato. Poi, con lo scontrino, si vere e proprie chicche anche di famosi va a pagare alla cassa. L’acquisto non si marchi, ma non le novità. Un po’ come cambia, ma ci sono i camerini per le se un negozio di musica vendesse solo prove. L’ambiente, su tre piani, è spar- dischi in vinile. E anche questa atmosfetano, ma divertente. Non molto diverso ra vintage ha il suo fascino. da quelli dei grandi magazzini più alla Il gioco vale la candela, per il consumoda (anzi, qui i commessi paiono sor- matore, perché la formula del prezzo al
campagna abiti puliti
l’80% dei lavoratori del tessile è in nero, come si fa a rintracciarli?», esemplifica Lucchetti. E poi ci sono altri fattori di complicazione: «In Turchia, come in molti altri paesi, esistono fortissimi fenomeni migratori. Molti lavoratori possono aver contratto la malattia lì, ma poi essersi spostati nei paesi di origine o in altri ancora. Sarà difficile censirli e risarcirli. E poi ci sono le zone dove il sandblasting è ancora praticato, penso al Bangladesh, alla Cina, all’Africa del nord... Sarà sempre più difficile capire la portata del fenomeno. E affrontarlo».
Ecco perché le associazioni che aderiscono alla Clean Clothes Campaign e, per l’Italia, ad “Abiti puliti”, chiedono l’intervento dei governi nazionali, ma non solo. «Se da un lato le istituzioni dovrebbero fare leggi che vietino la produzione di jeans trattati e scoloriti tramite tecniche pericolose come la sabbiatura, d’altro canto l’Unione europea dovrebbe vietare l’importazione di prodotti con certe caratteristiche. C’è ancora molto lavoro da fare. Staremo a vedere anche quello che farà l’Oil, l’Organizzazione internazionale del lavoro».
Il vezzo di mode assurde Per le organizzazioni che la combattono, la tecnica del sandblasting va abolita anche grazie a un lavoro culturale profondo. «Parliamo di un problema circoscritto, perché riguarda solo i jeans – specifica Lucchetti –. Ma è comunque una questione di primaria importanza, non solo perché porta alla morte dei lavoratori, ma anche perché è un paradigma della globalizzazione. E cioè di un sistema di produzione distribuito in tutto il pianeta che beneficia di minori costi di produzione e di vantaggi dovuti alle scarse protezioni che ci sono in paesi senza regole, o dove le norme non vengono rispettate, mettendo a repentaglio la vita di migliaia di persone. Una globalizzazione ingiusta, che antepone a tutto il vezzo di mode poco interessanti, inutili e assurde. Cosa c’è di più assurdo, che pensare di danneggiare la salute di un lavoratore per un paio di jeans?».
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Chi compra a Kilo Fascion? Persone di tutti i tipi e di tutte le tasche. Signori distinti alla ricerca dell’abito giusto, ragazze attente alla maglia ultima moda, donne in caccia di convenienza
grammo permette di risparmiare. E molto. Di questi tempi non guasta e in un batter d’occhio ti rinnovi il guardaroba. Infatti, è bene chiarirlo, la merce in vendita è tutta nuova. Nulla di usato. Proviene da scorte che altrimenti andrebbero al macero. Ma non è possibile acquistare più di dieci capi per volta. Ovviamente, da marzo parecchi sono ritornati per finire la “lista della spesa”. Chi compra al “Kilo Fascion”? Gente di tutti i tipi e di tutte le tasche. Giovani, anziani, coppie e famiglie al completo. Come in tutti gli altri negozi. Nel sabato della “vasca”, da San Babila al Duomo, l’occhiata alle vetrine è di rigore e il problema dell’ingresso un po’ defilato del negozio “un tanto al grammo” è stato risolto con un efficace servizio di volantinaggio sul palcoscenico del passeggio. Il temporary store si candida a mettere radici. Si è infatti inserito in un segmento di mercato che, evidentemente,
non era occupato da nessuno. Tanto che le attività commerciali vicine, soprattutto quelle nella stessa fascia di prezzo, si sono mostrate infastidite. E di recente hanno persino chiesto ispezioni e controlli.
Tutto cominciò con le aste Ma chi c’è dietro a Kilo Fascion? Lilla International Group (www.lillainternationalgroup.it), una delle prime trading company di fashion re-marketing al mondo. Si occupa di vendita delle eccedenze produttive, rendendo i grandi marchi (ma non solo) accessibili a un nuovo pubblico. Presente in tutti i segmenti distributivi, gestisce oltre un milione e mezzo di capi a stagione, mantenendo rapporti stabili con i principali gruppi del made in Italy. La storia del gruppo è iniziata nel 1970, con l’acquisto delle licenze da “battitore” nei mercati rionali del cen-
tro-nord Italia. I battitori mettevano la merce in vendita come all’asta: il cliente che offriva il prezzo più alto si aggiudicava il capo. Poi è arrivata l’apertura del primo discount multibrand, cioè multimarchio, in Italia. E, a fine anni Ottanta, l’acquisto delle rimanenze dai più famosi negozi monomarca. Fino a quegli anni, i fondi di magazzino non erano altro che pezzi obsoleti e privi di valore. Nei discount, invece, i capi di grandi marchi hanno iniziato a essere venduti a prezzi accessibili anche a chi non avrebbe avuto la possibilità di acquistarli. Adesso c’è la nuova sfida, un esperimento che, in relazione ai capi d’abbigliamento, agli accessori e alla biancheria, viene fatto per la prima volta non solo in Italia, ma al mondo. “Kilo Fascion” è aperto, anche la domenica, in orario continuato fino alle 21. Venerdì e sabato chiude alle 23.
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La borsa non è un
O C O I G
Fondi etici: l’investimento responsabile ETICA SGR: VALORI IN CUI CREDERE, FINO IN FONDO. Etica Sgr è una società di gestione del risparmio che promuove esclusivamente investimenti finanziari in titoli di imprese e di Stati selezionati in base a criteri sociali e ambientali. L’investimento responsabile non comporta rinunce in termini di rendimento. È un investimento “paziente”, non ha carattere speculativo e quindi ben si coniuga con la filosofia di guadagno nel medio-lungo termine comune a tutti gli altri fondi di investimento. Parliamo di etica, contiamo i risultati. I fondi Valori Responsabili si possono sottoscrivere presso tutte le filiali e i promotori di Banca Popolare Etica, Banca Popolare di Milano, Banca Popolare di Sondrio, Banca di Legnano, Simgest/Coop, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Casse Rurali Trentine, Banca Popolare dell’Alto Adige, Banca della Campania, Banca Popolare di Marostica, Eticredito, Cassa di Risparmio di Alessandria, Banca di Piacenza, Online Sim e presso alcune Banche di Credito Cooperativo. Per maggiori informazioni clicca su www.eticasgr.it o chiama lo 02.67071422. Etica Sgr è una società del Gruppo Banca Popolare Etica. Prima dell’adesione leggere il prospetto informativo. I prospetti informativi sono disponibili presso i collocatori e sul sito www.eticasgr.it
LIPPER FUND AWARDS 2010
Premio Migliori Risultati Categoria Risparmio Gestito
Valori Responsabili Monetario e Valori Responsabili Obbligazionario Misto Rendimenti a tre anni (2007-2009)
LIPPER FUND AWARDS 2009
Premio Migliori Risultati Categoria Risparmio Gestito
Valori Responsabili Monetario e Valori Responsabili Obbligazionario Misto Rendimenti a tre anni (2006-2008)
LIPPER è una storica agenzia di rating e fund research, appartenente al Gruppo Reuters, che ogni anno individua – dopo un’attentissima analisi – i prodotti di investimento migliori sul mercato. I Lipper Fund Award-Italia premiano in particolare i migliori fondi a tre anni di diritto italiano ed estero venduti in Italia.
MILANO FINANZA
GLOBAL AWARDS
2009
Valori Responsabili Obbligazionario Misto - Rendimento a un anno (2008)
21ventunostorie Le tante sorprese dell’azienda agricola dei Citta, a Chivasso
Ale abbraccia Alvaro, si cresce sereni all’agriasilo
Archivio della generatività italiana INFO www.generativita.it
di Marta Zanella Gli studiosi dicono che per uscire dalla crisi occorre ritrovare il coraggio dell’intrapresa, declinandolo in maniera moderna. Cioè coinvolgendo i molteplici “capitali” comunitari (umano, relazionale, sociale, economico). Questo suggeriscono, fra l’altro, le esperienze raccontate dall’Archivio della generatività italiana, progettato dall’Istituto Luigi Sturzo e dall’Almed (Alta scuola in media) dell’Università Cattolica. Esperienze che hanno saputo reinventare la tradizione, hanno prodotto valori e significati, hanno saputo affrontare le sfide della contemporaneità in modo generativo. Di benessere condiviso, solidarietà, coesione sociale. Scarp vi racconta le più significative
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A VITA IN CAMPAGNA È DURA. Chiede fatica e lunghi periodi senza un giorno di riposo. Chiede entusiasmo, per non arrendersi. Ma poi, arrivano le soddisfazioni. La famiglia Citta ha deciso di scommettere sulla propria campagna e oggi, dopo trent’anni, si può proprio dire che abbia vinto. Nel 1984 a Chivasso, terra agricola del torinese, i coniugi Emilia e Mauro decidono di investire le loro energie per continuare la tradizione familiare dell’allevamento della razza bovina Piemontese. Ma le difficoltà nel settore sono tante, per sopravvivere bisogna inventarsi nuovi sbocchi. Così nel 1995, oltre all’azienda agricola, i Citta si aprono all’accoglienza e sperimentano un agriturismo, che ospita visitatori nei week end, e la fattoria didattica, che si rivolge soprattutto alle scuole durante la settimana. «Il nostro – racconta Federico Citta, uno dei due figli, 24 anni, responsabile di una parte delle attività dell’azienda agricola “Piemontesina” – è sempre stato un lavoro di famiglia, anche perché, quando si seguono i ritmi della natura, spesso non ci sono ferie e vacanze. Dopo dieci anni, questa vita iniziava a diventare pesante, così abbiamo deciso di affrontare una nuova sfida». L’esperienza della fattoria didattica, che nel tempo aveva proposto alle scolaresche percorsi sempre più strutturati di conoscenza della campagna, ha convinto a puntare ancora di più sui bambini; con il sostegno di Coldiretti e delle istituzioni locali, nel 2006 i Citta hanno aperto il primo “agriasilo” d’Italia. Oggi la fattoria accoglie quotidianamente una ventina di bambini dagli 8 mesi ai 6 anni e li accompagna nella prima crescita dentro i ritmi, i colori, i profumi, i sapori della campagna. All’agriasilo nascono grandi amicizie, come quella ha per protagonista Alessandro, un bambino che ha iniziato a frequentare lo scorso anno con il suo gemellino, e che all’inizio non ne voleva sapere di sporcarsi: non gli piaceva giocare con la creta, non era entusiasta nemmeno di impastare uova e farina. «Poi ha conosciuto Alvaro – racconta Emilia – ed è nato un grande feeling: Alessandro corre ad abbracciarlo, Alvaro chiude gli occhi, si lascia coccolare, e ha una gran pazienza col suo piccolo amico. Il punto è che Alvaro è il nostro asino, e il bambino non si fa più problemi a sporcarsi o lasciarsi riempire di pelo. Anche questo intendo quando racconto che il contatto con la natura e gli animali trasmette ai piccoli grande serenità». L’interazione uomo-campagna, credono i Citta, è una forte base per diventare adulti più sicuri, più aperti, più capaci di creare. E più pazienti, perché quando si ha a che fare con la natura la cosa più importante è sapere aspettare. Gli asini, invece, sono una novità nell’azienda: dal primo gruppo, introdotto nel 2009, è scaturito un allevamento finalizzato alla produzione di latte d’asina, pregiato soprattutto per bambini con problemi di intolleranza alimentare. E i figli Manuele e Federico sperimentano anche una gamma di cosmetici, di cui l’ingrediente principale è proprio questo latte. Oggi profumo d’asino: e mi sento meglio.
Nella ogni giorno una ventina di bambini dagli 8 mesi ai 6 anni. Intanto si sperimenta il latte d’asina: non solo da bere
AZIENDA AGRICOLA LA PIEMONTESINA Tel. 02 70102804 Fraz.Mandria 13/b - Chivasso (To) cell: 347 3037284 www.lapiemontesina.it
[email protected]
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ventun righe tratto da Dossier immigrazione Caritas-Migrantes 2011
Più imprese stranieri. Ma la crisi... Nel periodo 2000-2009 il Pil dell’Italia è cresciuto solo dell’1,4%, contro il 10% dei paesi dell’euro. Notevole è stata la flessione durante la grande crisi del 2008-2009, con la perdita di 800 mila posti di lavoro e di 6,5 punti del Pil, mentre la ripresa è più debole rispetto alle aspettative (+1,2% nel 2010 e, secondo la stima Istat, +0,7% nel 2011). Più di un quarto dei giovani lavoratori è disoccupato e sono 2 milioni quelli scoraggiati, che né studiano né cercano lavoro. I lavoratori immigrati (2.089.000 secondo l’Istat, circa 200 mila in più, includendo i non residenti) costituiscono un decimo della forza lavoro in Italia, sono determinanti in diversi comparti produttivi e rinforzano il mercato occupazionale per via di un tasso di attività più elevato, della disponibilità a ricoprire anche mansioni meno qualificate e della bassa competizione (almeno sul piano generale) con gli italiani, se non nel sommerso. Anche gli immigrati però stanno pagando gli effetti della crisi e sono arrivati a incidere per un quinto sui disoccupati. Il protrarsi dello stato di disoccupazione per i non comunitari pregiudica il rinnovo del permesso di soggiorno, costringendoli al rimpatrio o a trattenersi irregolarmente. Ma la difficile fase attuale non blocca il dinamismo imprenditoriale, essendo il numero delle imprese gestite da immigrati aumentato nel 2010 di 20 mila unità, arrivando nel complesso a 228.540.
76. scarp de’ tenis novembre 2011
lo scaffale
Le dritte di Yamada “Il libro si scrive col testo, con l’immagine, ma soprattutto con l’assemblaggio delle pagine, ed è questa la bellezza e la potenza del libro: nel momento in cui apriamo un libro illustrato succede qualcosa Don Virginio Volontari non su una pagina, ma tra due pagine, e dunque al servizio (e stranieri) degli altri nel mondo ci rendiamo conto che è gigantesco”. (Anne Herbauts, illustratrice). Don Virginio “Giovani per Provate a guardare i libri di Beatrice Alemagna – Colmegna, per il mondo” è illustratrice e autrice fra le più geniali e premiate degli anni alla guida un progetto ultimi anni, originaria di Bologna e volata a Parigi della Caritas della Caritas Ambrosiana, ora bergamasca: ormai da qualche tempo –, provate a metterci proprio presidente della 400 ragazzi sono la testa, dentro: il grande formato lo consente e la Casa della carità partiti, in dieci bellezza delle immagini lo chiederà ai vostri occhi. di Milano, racconta anni, per fare Quando sarete a spasso negli spazi disegnati da lei, la sua vita in volontariato in vicino ai suoi personaggi e tra le miriadi di poetici un libro denso diversi paesi della e appassionato; terra, teatro di dettagli, vi accorgerete di essere dentro un altro descrive i tanti progetti Caritas di mondo: questo succede quando si ha in mano un amici e maestri, aiuto e sviluppo. libro illustrato in cui si tirano la volata l’arte e con una dolcezza Il libro racconta, la letteratura, l’immagine e il testo. che quasi stride raccogliendo Continuo a scrivere “libro illustrato”, e non “libro con la dura scorza le loro voci, del suo volto serio. le esperienze illustrato per bambini”, perché in realtà un bel libro Autoritratto che conducono a illustrato dovrebbe essere per tutti, “parlare ai bambini convincente di sentirsi Straniero, e far sognare gli adulti, allo stesso tempo; la giovinezza un prete ruvido e per un attimo, può durare tutta la vita...”: è a quel magma lì che innovatore, che con la possibilità i sentimenti illustrati, e raccontati in un albo rievoca in queste di osservare il pagine le sue mondo da un altro disegnato, parlano. battaglie per gli punto di vista: Di libri inutili, ne esce uno al secondo. Siamo ultimi. quello delle circondati da libri sopravvalutati, appoggiati da persone indifese. uffici-stampa feroci che li impongono ovunque, Virginio Colmegna ordinati in quantitativi tali da invaderci gli occhi senza Non per me solo. Paola Amigoni Vita di un uomo Elena Catalafamo che lo vogliamo; che bello, invece, quando il libro al servizio Claudio Visconti a cui chiediamo di seminarci con le sue monete d’oro degli altri. Straniero, per un ci aspetta in libreria, ci chiama – con le sole sue forze – Casa editrice attimo sfuggendo poeticamente alle tristi regole della Il Saggiatore In dialogo televisione e del mercato. Il libro-sirena di Beatrice Pagine 126 Pagine 106 Euro 15 Euro 14 Alemagna che mi ha chiamato è stato Un Leone a Parigi (Donzelli editore): l’ho aperto, ho avuto il colpo d’occhio del suo incanto, e non ho neppure finito di guardarlo: mi sono fiondata in cassa con due copie, una per me e l’altra per il mio nipotino Pietro. Ho pagato, sono arrivata a casa, ho aperto il sacchetto e, finalmente, gli ho dedicato il tempo giusto, un tempo che lo slegava dall’essere un oggetto appena comprato: avevo sotto gli occhi una storia, un’avventura che si sarebbe rivelata fondamentale per il personaggio in questione (leone curioso e solitario), che lasciava la sua casa, prendeva un treno e arrivava alla Gare de Lyon (!) senza nessun bagaglio. L’unione poetica tra il testo e l’immagine era così profonda e felice che, magicamente, si ripeteva il miracolo e le pagine diventavano un mondo: ero dentro una Parigi color crema, vicino a questo meraviglioso leone che capiva, passando attraverso la tristezza, com’era stato importante per lui partire e scoprire quanti strati avessero le cose e le persone prima di rivelarglisi, nello splendore di un’architettura o di un sorriso. Tutti i libri di Beatrice Alemagna regalano l’intuizione e la voglia di guardarli in un momento ritagliato apposta che poi – scolpito – diventa, e resterà, magico. Il suo sito, www.beatricealemagna.com, per conoscerla.
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Beatrice Alemagna Un leone a Parigi (Donzelli editore)
Riprendersi la scuola (e il futuro) La scuola raccontata da Alex Corlazzoli ci riguarda. Riguarda il nostro futuro e quello dei nostri figli. È per questo che dovremmo essere preoccupati per il quadro, lucido e ricco di dati, che emerge dal testo. Come scrive Maria Luisa Busi nella chiosa del libro: la scuola è il pezzo d’Italia che dovremmo amare di più, difendere di più. Ma oggi è il più sofferente. Imperdibile l’intervista a Mario Lodi, maestro di una stagione della nostra scuola oggi dismessa. Alex Corlazzoli Riprendiamoci la scuola Altreconomia pagine 134 Euro 8
On Nonostante la crisi attività di volontariato in crescita Il volontariato cresce, nonostante la crisi. Il dato emerge dall’indagine svolta dall’Istat su 19 mila famiglie (49 mila persone). Nel 2001 le persone che avevano svolto attività di volontariato erano l’8,4%, nel 2010 hanno raggiunto il 10%. Si evidenzia una maggiore propensione a fare volontariato in chi ha uno status occupazionale elevato, più impegno nei piccoli comuni che nelle grandi città e una maggiore partecipazione degli uomini e di coloro che sono nella fascia di età tra i 45 e i 64 anni. Dai dati Istat emerge una maggiore propensione al volontariato nel nord, rispetto al centro, al sud e alle isole.
Off Senza connessione digitale i giovani avvertono il nulla Una ricerca scientifica lo conferma: i giovani non possono più vivere se non sono connessi. «Il senso del nulla mi ha invaso il cuore. Sento di aver perso qualcosa di importante». Si sono espressi più o meno così i mille universitari di 10 paesi in 5 continenti, che hanno partecipato all’esperimento dell’Università del Maryland: 24 ore senza connessione digitale, in dotazione solo un telefono fisso e un libro. Ma non sono bastati a non farli soffrire di solitudine. Il 100% dei ragazzi coinvolti nell’esperimento, d’altra parte, ha un telefonino, l’85 un computer proprio e la maggioranza (59%) ha mosso i primi passi su internet prima dei dieci anni. Arrivati all’università, passano fra le 3 e le 4 ore al giorno in rete nel 42% dei casi, fra le 5 e le 6 ore al giorno nel 25% dei casi con un’unica, incontrastata attività preferita: la socializzazione. Il tempo trascorso ogni giorno in collegamento con un social network è di due ore in media.
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Milano
Charity art contest: i linguaggi dei giovani animano la città È stato un successo che gli organizzatori già pensano di replicare, il primo “Charity art contest” di Milano, terminato il 5 novembre. “4thePeople” (Per la gente) era il titolo del concorso artistico promosso da Caritas Ambrosiana: la manifestazione artistica e culturale ha centrato l’obiettivo di intercettare il mondo giovanile. In mostra 60 opere di giovani creativi, collocati nei negozi di Porta Ticinese, che hanno trasformato il quartiere in un museo diffuso, mentre gli scrittori Giorgio Falco, Fabio Geda, il regista Mimmo Sorrentino e l’attore Mohamed Ba hanno dialogato sul tema dell’accoglienza. Il progetto voleva rendere protagonisti i giovani, invitandoli a esprimersi con i loro linguaggi e sollecitandoli a vivere diversamente un luogo ricco di fascino e di arte, che rischia di essere
banalizzato se lasciato al solo imperativo dell’happy hour. INFO www.caritas.it
Milano
L’incontro tra culture affidato al teatro: un affare da bambini La Casa delle culture del mondo ospita “Mitico Mondo!”, ciclo di laboratori di animazione teatrale interculturale per bambini a cura di Chiara Romanò, operatrice teatrale e drammaterapista. Il ciclo è promosso dalla provincia di Milano. Fra gli appuntamenti, dedicati a bambini dai 7 agli 11 anni, segnaliamo: il 20 novembre, “Lo stomaco degli uomini”, Groenlandia; il 4 dicembre, “La lettura del labirinto”, Tibet; 22 gennaio, “Verso il giorno”, Hawaii; 5 febbraio, “Il tempo del sogno”, Australia; 19 febbraio, “La mente e le orecchie”, Sudan; 4 marzo, “I nomi dei potenti”, Guatemala. La partecipazione è gratuita. INFO tel. 02.33.49.68.54/30
Miriguarda di Emma Neri
Prendere a pugni e calci il disagio, kickboxing vuol dire sviluppo Prendere a pugni e calci il disagio: è la sfida che l’associazione sportiva Boxesir, grazie a 50 mila euro della onlus “Insieme per i bambini”, lancia a 50 adolescenti, da 14 a 18 anni, che vivono nelle aree a rischio di Milano, attraverso il progetto “Sport e sviluppo”. Un ring come alternativa alla strada, cattiva maestra. Il kickboxing è uno sport particolare, dove il coordinamento tra la tecnica marziale dei calci e il pugno chiuso delle mani diventa un esercizio per prendere confidenza con le proprie emozioni, alla ricerca di un equilibrio. I ragazzi si alleneranno due volte alla settimana e saranno affiancati anche da uno psicologo e un nutrizionista. A loro si chiede di impegnarsi con costanza negli allenamenti e condividere con gli altri successi e sconfitte. I partecipanti, tra cui 12 ragazze, provengono da quattro strutture d’accoglienza, recupero e assistenza giovanile. Tre le palestre coinvolte: due a Milano (Boxesir in via Cilea 106 e Accademia europea in via Melzo 9), l'altra è a Monza (City gim in via Morandi 4). INFO www.insiemeperibambini.it
caleidoscopio Genova
“Dialogo nel buio”: niente da vedere, molto da imparare Dopo Milano, dove ha raggiunto quota 400 mila visitatori in cinque anni, “Dialogo nel buio” sbarca a Genova, e le persone cieche diventano guide e protagoniste di un evento spiazzante. La mostra sensoriale è infatti interamente al buio: non c’è niente da vedere, ma molto da imparare. Il viaggio nell’oscurità trasforma i gesti quotidiani più semplici (camminare per strada, muoversi in casa o bere un caffé) in un’esperienza straordinaria (e straordinariamente difficile). La mostra è davvero un’esperienza di dialogo fra ciechi e vedenti, ma in un “campo” favorevole ai primi, ovvero al buio. A Genova è stata allestita dall’istituto David Chiossone, in piazza del Caricamento; sarà visitabile fino al 12 luglio 2012. INFO tel. 010.83.42.423
Vicenza
Sportello telefonico: mamme (esperte e neo) si scambiano esperienze L’associazione Convivium Vicenza propone uno sportello telefonico con l’intento di creare una “rete” di mamme per il supporto morale di altre (e neo) mamme. Il servizio è gestito da madri volontarie preparate all’ascolto, per favorire un’apertura al dialogo e incoraggiare a raccontare gli stati d’animo delle mamme più giovani, in un clima di autentica accoglienza. Una volta che le nuove avranno richiesto il servizio saranno le mamme più navigate a telefonare alle neofite con cadenza periodica concordata. Il servizio è gratuito. INFO cell. 328.75.25.295
[email protected]
Vicenza
“Huomologando”, i giovani di Thiene vicini agli homeless “Siamo troppo piccoli per cambiare il mondo da soli, ma abbastanza grandi per cominciare a costruire insieme”. È lo slogan di “Huomologando”, blog dell’associazione di giovani di Thiene (Vicenza), uniti dal desiderio-urgenza
Cittadiniperl’Europa racconto di Angelo Caldarola
La diversità fa sistema Citizens for United Europe (Cittadini per l’Europa unita) è un progetto di sensibilizzazione e invito alla riflessione rivolto ai cittadini europei, in vista di un’integrazione continentale basata sul dialogo interculturale e la partecipazione attiva alla vita politica. Nell’ambito del progetto, condotto da Caritas Ambrosiana con partner europei, è stato promosso il concorso letterario sul tema “Volontariato e cittadinanza attiva per la costruzione dell’Europa”. Scarp pubblica i racconti dei cinque vincitori, a partire da questo numero. «Ho deciso: devo partire. Devo girare il mondo, conoscere per sapere, scoprire il senso del percorso di vita e di ciò che ci circonda». Inizia così il racconto di un volontario pugliese nel suo viaggio oltre l’esperienza della gratuità, alla ricerca del senso della vita e dell’ispirazione per formarsi cittadino europeo e cosmopolita. «Porto con me un messaggio di pace e fraternità. Prendo le chiavi della mia Vètonde – Bitonto – e mi lascio accompagnare dai colori e dai profumi de la premavèire – di primavera – della mia terra del sud. Nel tragitto inebrio i miei occhi con gli olivi secolari e le antiche rocce aguzze della Murgia, murex, scolpite nei millenni. Un vecchio contadino locale si sfoga dinanzi alla scritta Pace stampata sulla mia maglietta. Tùtte re crestièune nàscene lìbere che re stèsse derìtte e s’ònna chembertèue come frèute e ssoure: “Tutte le persone nascono libere e con gli stessi diritti, e devono comportarsi come fratelli e sorelle”, osa saggiamente nel suo vernacolo e mi consegna l’eredità morale della nostra terra e delle sue meraviglie... Noi apparteniamo a tutto questo!». In ogni cultura, anche di tipo cosmopolita, rimane come sorgiva il legame naturale d’amore e di appartenenza alla terra, radici profonde nella comunità e nel territorio, solide fondamenta di un nuovo patriottismo globale. Non può esserci, dunque, una reale partecipazione e crescita della cultura globale se non passando attraverso un’interpretazione estensiva del localismo, all’interno di esperienze passionali. Origina così il glocalismo territoriale (pensare globale – agire locale), coeso e solidale, che abbandona definitivamente il tradizionale individualismo solitario di campanile. Al centro di questa moderna interpretazione del sistema glocale vi è sempre l’individuo con le sue peculiarità, l’entità umana, il suo patrimonio locale materiale e immateriale, del gruppo di appartenenza, che si integra universalmente attraverso nuovi strumenti e metodi di sistema. È la diversità, dunque, che oggi fa sistema, affiancata al carattere transregionale/nazionale e multilaterale delle azioni, alle sinergie conseguite attraverso cooperazioni europee sostenibili, all’innovazione degli strumenti di informazione/comunicazione per alta visibilità e accessibilità e ai contenuti, per la promozione, soprattutto tra i giovani, della consapevolezza e della ricchezza insita nelle diversità. Questa interpretazione di glocalismo, temprata in un’ottica multidimensionale (sociale, culturale, ambientale, artistica) può superare ogni barriera di polarizzazione sociale urbana, regionale, nazionale. «Il viaggio continua nel popolare sobborgo East End di Londra, con il suo tipico cockney e l’urbanistica contraddittoria, attraverso i quartieri poveri di Lods...». L’ordinamento comunitario comprende, tra i principi guida della costruzione europea, la coesione sociale. Messaggio chiaro, per tutti i “nuovi” volontari d’Europa!
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di vivere in un paese diverso: solidale e interculturale. I ragazzi hanno sviluppato vari progetti, fra cui l’incontro periodico con i senza dimora. Offrono a casa loro una piccola ospitalità costante, e ogni venerdì sera trascorrono un po’ di tempo con le persone senza dimora che sostano alla stazione. Il 16 novembre alle 20.30, presso il patronato San Gaetano di Thiene, organizzano un incontro per raccontare la loro esperienza. E cercare nuovi giovani volontari. INFO
[email protected]
Firenze
AnimalAgenda 2012: per i diritti, contro i maltrattamenti L'editore Terra Nuova propone un’agenda 2012 dedicata agli animali. Tre le associazioni animaliste (oltrelaspecie.org, campagnaperglianimali.org, viverevegan.org) coinvolte
nel progetto AnimalAgenda, che nasce per sensibilizzare contro la crudeltà delle sperimentazioni sugli animali. L’agenda contiene articoli e contributi di personaggi di spicco della cultura e dell’attivismo animalista. Gli introiti dell’agenda in carta riciclata (costo, 10 euro) finanzieranno le attività delle associazioni. INFO www.aamterranuova.it
Firenze
Le donne raccontano, “corti” sperimentali al “Festival dei popoli” Pomeriggio dedicato alle donne, nella Biblioteca delle Oblate di via dell’Oriuolo. Mercoledì 17 novembre, alle 17, la fondazione “Il cuore si scioglie” propone un incontro con due donne del Libano e due dell’India che offriranno testimonianze sulla vita e la condizione femminile nei loro paesi. Saranno presenti associazioni impegnate nella tutela, consulenza e assistenza alle donne; durante
Street art di Emma Neri
Street artist veneti in galleria, Siki svela le contraddizioni dell’oggi Con Urbanizeme exhibition, mostra dell’arte dei writer e degli street artist a Padova e Vicenza (allestita al Misael Project, in Galleria Porti 3, a Vicenza), l’arte di strada entra in galleria. Le opere dei giovani artisti diventano sculture o installazioni che avranno l’opportunità di essere lanciate in una vetrina di alto profilo artistico. Sono dieci gli artisti che espongono: tra essi, i vicentini Nolac, Sparki e Koes. Gli altri sono Dado, Etnik, Hate, Jeos, Sabe, Yama, Joys. INFO
[email protected] Fino al 28 gennaio 2011 il “Banksy asiatico”, così è stato soprannominato Farhan Siki, per la forza dei suoi messaggi e per
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la qualità delle sue opere, avrà il suo battesimo europeo a Milano, in viale Stelvio 66, dove verranno ospitate le sue 15 opere inedite. L’indonesiano porta in Italia i suoi contenuti provocatori e irriverenti, fonte di riflessione sul mondo contemporaneo. Siki, in particolare, è portatore di una forte coscienza sociale, che sapientemente miscela con umorismo ed estetica audace: raccoglie loghi, brand, icone e simboli della cultura di massa, per inciderli sulla tela (e prima sui muri), dove acquistano significati iperbolici e di parodia, svelando le contraddizioni della cultura contemporanea, in cui tutto sembra concludersi con l’atto dell’acquisto. INFO www.primomarellagallery.com
Pillole senza dimora Stazione Centrale, il massaggio reca benessere Nuova iniziativa di “Sos Stazione Centrale” della Fondazione Exodus, in collaborazione con un gruppo di massaggiatori e terapisti dell’associazione culturale Melitea di San Donato Milanese. Questi ultimi offriranno gratuitamente massaggi e terapie ai senza dimora che frequentano Sos, il centro di aiuto per i gravi emarginati, nel sottopasso Tonale Pergolesi. Una volta al mese gli homeless potranno beneficiare di cure e attenzioni del gruppo di volontari dell’associazione Melitea. Anthony, pecora nera (?) dei Ciccone È il fratello di Madonna e vive sotto un ponte. Non è la trama di un film, è storia. Si chiama Anthony Ciccone, ha 55 anni, e da un anno e mezzo è uno dei tanti homeless che popolano le strade di Traverse City, Michigan. Tutto è cominciato quando è stato licenziato dall’enoteca del padre (!). Dunque Anthony non aveva tutti i torti, quando ha detto a una radio che la sua famiglia gli ha voltato le spalle. La popstar, terza di sei figli, finora ha scelto il silenzio.
A Londra gli homeless guidano alla scopertà della città “invisibile” Londra vista con gli occhi di un homeless. Accade grazie agli Unseen Tours, le visite alla città con la guida di un homeless. Dopo il successo dei due tour pilota, l’anno scorso, gli itinerari sono ormai diventati cinque, ideati dalla Sock Mob, rete di volontari che batte le strade della capitale britannica ogni settimana, offrendo aiuto ai senzatetto. Sono possibili tour di gruppo; biglietti prenotabili online al prezzo di 5 o 8 sterline, il 50% va alle guide.
caleidoscopio l’incontro, verrà offerto té con assaggi etnici e italiani. Fino al 19 novembre Firenze ospita anche il “Festival dei Popoli”, ovvero il 52° festival internazionale del film documentario. L’idea-guida della sesta edizione è pensare il festival come laboratorio permanente, con un’attenzione rivolta in primis ai giovani autori e alle nuove scoperte. Ampio spazio sarà dunque dedicato alla sperimentazione dei nuovi territori del cinema del reale; al contempo, saranno attivate collaborazioni con enti, istituzioni e soggetti che si occupano di arte contemporanea, fotografia, musica, letteratura e nuove tecnologie. INFO www.festivaldeipopoli.org
Napoli
“Indinapolicinema”, le produzioni libere vogliono emergere È nata “Indinapolicinema”, associazione per lo sviluppo, la realizzazione e la diffusione del cinema indipendente, che mira ad aggregare registi, autori, documentaristi, attori, tecnici della cinematografia campana. L’associazione, presieduta dal regista Maurizio Fiume, sulla scia di analoghe realtà regionali (Lazio, Piemonte, Lombardia), intende promuovere e diffondere il cinema indipendente, in un territorio dove il 70% delle pellicole è realizzato da cineasti indipendenti. Eppure, manca una
legge regionale sul cinema che regoli i bandi, garantisca una gestione trasparente dei fondi e preveda incentivi fiscali e contributivi. Indinapolicinema sta lavorando a una bozza di legge regionale quadro
allo Sheraton Hotel di Catania dal 24 al 26 novembre. Il convegno intende vuole mettere al centro i diritti del bambino, cittadino di oggi e di domani, favorendo il confronto fra soggetti della società civile, magistrati, famiglie e istituzioni. INFO www.seminareilfuturo.it
pagine a cura di Daniela Palumbo per segnalazioni
[email protected] sul cinema indipendente, da proporre alla regione Campania. L’obiettivo più ambizioso è riuscire a realizzare a Napoli, nei prossimi tre anni, tre “lunghi” di finzione, tre “corti” di finzione e tre documentari narrativi col marchio Indinapolicinema e ottenere riconoscimenti internazionali. L’assemblea costitutiva di Indinapolicinema è aperta a tutti i cineasti e filmaker campani. INFO facebook.com/indinapolicinema
Catania
“Cittadini in crescita”: convegno dei Magistrati per la famiglia L’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia ha organizzato il trentesimo congresso nazionale, sul tema “Cittadini in crescita: tra inclusione ed esclusione”. L’importante appuntamento dell'Aimmf si svolgerà
Cerchiamo un’auto in buone condizioni! L’associazione Amici di Scarp de’ tenis onlus, promossa dal giornale e Caritas Ambrosiana, cerca un’automobile in buone condizioni per gli spostamenti delle persone senza dimora nell’ambito del progetto Scarp. L’associazione ringrazia fin d’ora aziende o persone che possano effettuare la donazione. INFO tel 02.67.47.90.17
Tarchiato Tappo - Il sollevatore di pesi
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street of america Veterano della vita di strada, “consulente” degli attivisti anti Wall Street
I consigli di Bob agli indignati pivelli di Damiano Beltrami – da New York
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Ante litteram Agli indignati newyorkesi che hanno occupato Zuccotti Park, Bob Marcana (nella foto) insegna come tenersi la testa calda la notte, come tenerla a posto quando si fanno vivi i provocatori. E come scroccare una sigaretta con classe
PPOLLAIATO SU UNA POLTRONCINA DA UFFICIO circondata di cartelli che strillano rabbia con-
tro il governo americano e l’ingordigia degli speculatori di Wall Street, Bob Marcana lascia correre lo sguardo oltre le variopinte tende da campeggio di Zuccotti Park, oltre i grattacieli, oltre un’esistenza più aspra di quanto preventivato. Per la prima volta dopo tanto tempo, dice, si sente euforico. «Per una vita ho pensato di essere un alcolizzato senza casa e senza fortuna», racconta con un sorriso disegnato sul viso. Marcana è un quarantanovenne atticciato, con una leggera barba argentata e gli occhi sepolti tra folte sopracciglia. Ora si rivaluta: «Pensavo di essere un fallito e invece, per tutto questo tempo, senza saperlo, non ho fatto altro che protestare contro Wall Street. Sono un indignado ante-litteram!». A quasi due mesi da quando un composito gruppo di attivisti, tra cui studenti, disoccupati, hippy e anarchici, si è radunato a due passi da Wall Street per protestare contro l’eccessivo potere esercitato dalle banche sulla politica del paese, la vita di strada ha guadagnato crescente appeal. Così, nel grande circo di Zuccotti Park, veterani della vita randagia come Marcana si stanno ritagliando un piccolo ruolo da consulenti: dispensano consigli ai pacifici indignati newyorchesi su come campare nella giungla urbana. «Benchè sgambettino avanti e indietro con quell’arietta saccente e la presunzione dei grilli parlanti, sono dei pivelli in materia – scherza Marcana –. Devi insegnargli tutto. Come tenersi la testa calda di notte, come tenere la testa a posto quando si fanno vivi i provocatori, come scroccare una sigaretta con classe». Paradossalmente, nello stesso momento in cui il sindaco Michael Bloomberg ha sfoderato dati trionfalistici del comune che parlano di una riduzione del numero di senzatetto in città, una legione di indignati ha trasformato un parchetto semi-privato in una tendopoli. E così da giorni Marcana, che ha eletto Zuccotti Park a sua dimora, segue i potenziali epigoni e ne misura le potenzialità: «Alcuni sono troppo arrendevoli, se non gli arrivassero i soldi da internet qui fuori non resisterebbero neppure un giorno. Certi invece hanno la tenacia che ti permette sempre di rimediare un boccone». Al momento gli obiettivi del movimento sono ancora vaghi. Alcuni dicono di volere disfarsi della Federal Reserve, altri puntano il dito contro la corruzione dei banchieri, altri ancora vorrebbero partiti meno litigiosi e miopi, più fondi a scuola e sanità, no a qualsiasi guerra. Ciò che hanno in comune, dicono gli organizzatori attraverso il sito ufficiale occupywallst.org, è essere parte di quel novantanove per cento della popolazione che non può più sopportare l’avidità dell’un per cento, di cui i banchieri di Wall Street sono il simbolo. «Francamente non so cosa si otterrà qui a Zuccotti Park – sospira Marcana –. Per ognuno di noi significa qualcosa di diverso. Io ho trovato la mia comunità, la mia casa. Quasi quasi vado in banca a chiedere un mutuo!».
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82. scarp de’ tenis novembre 2011
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