UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA DIPARTIMENTO DI SCIENZE ECONOMICHE ED AZIENDALI “M.FANNO” CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN ECONOMIA E DIREZIONE AZIENDALE
TESI DI LAUREA
“I MODELLI DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE MEDIE IMPRESE: UN’ANALISI COMPARATA”
RELATORE: CH.MO PROF. DIEGO CAMPAGNOLO
LAUREANDO: CRISTIAN CECCATO MATRICOLA N. 1018126
ANNO ACCADEMICO 2012 – 2013
INDICE
ABSTRACT
3
INTRODUZIONE
4
1. CAPITOLO PRIMO IN MEDIA STAT VIRTUS? 1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. 1.6. 1.7.
9
Premessa Le medie imprese e il sistema produttivo italiano Le medie imprese secondo Mediobanca Le medie imprese secondo GE Capital Le medie imprese: altre fonti Una prospettiva internazionale Conclusioni
9 9 13 23 28 41 42
2. CAPITOLO SECONDO UNA RICOGNIZIONE TEORICA IN TEMA DI INTERNAZIONALIZZAZIONE 2.1. Premessa 2.2. Il ruolo della globalizzazione 2.3. La teoria del vantaggio monopolistico 2.4. La teoria dell’internalizzazione 2.5. Il paradigma eclettico della produzione internazionale 2.6. L’investimento diretto estero “pro-trade” 2.7. Le modalità dell’internazionalizzazione 2.7.1. Le esportazioni dirette 2.7.2. Le esportazioni indirette 2.7.3. Gli accordi strategici 2.7.4. Le joint ventures internazionali 2.7.5. Gli investimenti diretti esteri 2.8. Scelte localizzative e attrattività dei paesi 2.9. Il processo di internazionalizzazione 2.10. Conclusioni 1
43 43 43 45 46 47 50 51 52 53 55 57 58 59 63 65
3. CAPITOLO TERZO ANALISI DEI DATI
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3.1. Premessa 3.2. Il campione 3.3. Le esportazioni 3.4. Le strategie di penetrazione commerciale 3.5. La produzione all’estero 3.6. Quando e perché le imprese italiane producono all’estero? 3.7. Un confronto tra diverse classificazioni 3.8. Conclusioni
67 67 71 78 97 120 135 144
4. CAPITOLO QUARTO MEDIE IMPRESE: DISCUSSIONE DEI MODELLI DI INTERNAZIONALIZZAZIONE 4.1. Premessa 4.2. Le esportazioni 4.2.1. Le esportazioni: scelte localizzative 4.2.2. Le esportazioni: un’analisi settoriale 4.3. Le strategie di penetrazione commerciale 4.3.1. Le strategie di penetrazione commerciale e l’export 4.4. La produzione all’estero 4.4.1. La produzione all’estero e le esportazioni 4.4.2. La produzione all’estero: motivi e attività svolte 4.5. Limiti e prospettive per una ricerca futura 4.6. Conclusioni
146 146 146 148 150 152 154 156 159 160 161 162
APPENDICE: I SETTORI INDUSTRIALI SECONDO LA CLASSIFICAZIONE ATECO 2002 165 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
166
2
ABSTRACT
Il sistema economico italiano è caratterizzato da una forte presenza di piccole e medie imprese. Le imprese di media dimensione sono considerate la punta di diamante del tessuto produttivo del nostro paese e sono dotate di una forte proiezione internazionale. Non sono solo le grandi imprese italiane a competere nei mercati globali, ma anche quelle medie e piccole. Il nostro obiettivo è analizzare la relazione tra la dimensione dell’impresa e l’internazionalizzazione. A tal fine applichiamo tre diverse definizioni di media impresa: la prima fornita dall’Unione Europea, la seconda da Mediobanca R&S e la terza da GE Capital. L’analisi svolta è di tipo quantitativo ed è basata su un campione fornito da Unicredit e contenente dati che si riferiscono al triennio 2004 – 2006. I principali risultati ottenuti possono essere così sintetizzati:
è presente una relazione tra la dimensione dell’impresa e la competizione internazionale attraverso l’export: le grandi imprese che esportano sono, in percentuale, più di quelle medie, mentre quest’ultime sono, in percentuale, più di quelle piccole. La stessa relazione sussiste se osserviamo il rapporto tra esportazioni e fatturato totale.
applicando diverse definizioni di media impresa si ottengono delle differenze, in quanto secondo le classificazioni di Mediobanca R&S e di GE Capital non sussiste la relazione di cui al punto precedente, bensì la presenza di una massa critica necessaria per la competizione nei mercati internazionali, per la quale le percentuali di medie e grandi imprese che esportano sono tra loro simili;
per quanto riguarda le strategie di penetrazione commerciale, le percentuali di medie e grandi imprese che ricorrono a queste forme sono simili e sempre maggiori a quelle delle piccole. L’unica eccezione è la struttura fissa a gestione diretta, modalità nella quale le grandi imprese si distinguono con percentuali di ricorso maggiori di quelle delle medie;
è presente una relazione tra la dimensione dell’impresa e la produzione all’estero: più grande è la dimensione e maggiore è la percentuale di imprese che producono all’estero, sia attraverso investimenti diretti esteri che accordi contrattuali;
le medie imprese sono meno dipendenti dalla produzione all’estero, in quanto il valore dei beni che realizzano al di fuori del paese d’origine è, in percentuale sul loro fatturato totale, minore di quello delle piccole e delle grandi imprese.
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INTRODUZIONE
Il tessuto economico italiano è caratterizzato da una presenza particolarmente forte di piccole e medie imprese. La categoria delle imprese di medie dimensioni è, in Italia, significativamente rilevante. Questa affermazione non tiene conto tanto della numerosità, quanto dell’importanza dell’apporto che queste unità produttive danno al sistema economico italiano. Le medie imprese sono, infatti, da più autori considerate la punta di diamante del sistema produttivo italiano (Corò, 2008; Coltorti, 2010; Venanzi, 2012). Queste hanno reagito meglio delle piccole e grandi imprese alle crisi che hanno, nel tempo, attraversato il nostro sistema economico. Nel periodo di stagnazione nei primi anni del ventunesimo secolo, inoltre esse hanno consolidato la loro posizione competitiva. Le medie imprese italiane hanno una forte proiezione internazionale. Esse sono attive in delle nicchie di mercato, le quali sono formate da un numero limitato di tipi di prodotto. Questa strategia garantisce spesso, però, una leadership a livello mondiale (Gagliardi, 2006). Le medie imprese italiane sono alfieri del made in Italy all’estero. Esse effettuano produzioni ad elevata qualità, tipiche del nostro paese e le esportano in tutto il mondo. Esse sono, inoltre, particolarmente eccellenti nella produzione di tecnologie ed in particolare di beni capitali e produttivi. Questa è l’altra categoria di produzioni nelle quali le medie imprese italiane svolgono un forte ruolo nei mercati internazionali. Per questo motivo le medie imprese italiane, pur rappresentando numericamente una quota marginale del sistema produttivo italiano, hanno un ruolo fondamentale nella creazione del prodotto interno lordo del nostro paese. Tutte le ragioni sopra descritte ci hanno indotto a effettuare una analisi sui modelli di internazionalizzazione che le medie imprese italiane scelgono. L’internazionalizzazione è un tema molto importante, in quanto il dibattito su di essa è molto acceso. Vi sono discussioni sulla positività di questo fenomeno (Coltorti, 2010) e su quali siano le modalità da scegliere, per le imprese di un paese in cui la manifattura è ancora importante (Corò, 2008). Vi sono discussioni su quali siano le strategie che meglio si adattano alle imprese di varie dimensioni e settori (Iacobucci e Spigarelli, 2007) e su quali siano le motivazioni che portano a queste conclusioni (Resciniti e Matarazzo, 2012). Di sicuro c’è che in questo momento particolare per il nostro sistema produttivo, l’internazionalizzazione è la forza trainante, in quanto i consumi interni non solo ristagnano, bensì decrescono. Al fine di comprendere se, anche nella scelta delle strategie di competizione all’estero, le imprese italiane di medie dimensioni si distinguano da quelle piccole e da quelle grandi, abbiamo deciso che l’analisi da effettuare 4
deve essere una analisi comparata. Questo al fine di comprendere se, date le particolari produzioni nelle quali le medie imprese sono competitive, anche i modelli di internazionalizzazione scelti siano diversi rispetto a quelli di piccole e grandi imprese. Abbiamo, quindi, effettuato un’analisi su un campione di imprese italiane, contenente sia piccole che medie e grandi imprese. I limiti delle tre classi dimensionali sono stati basati sulla definizione di media impresa data dall’Unione Europea. Secondo questa sono medie le imprese tra i 50 e i 249 addetti (compresi), che rispettano almeno un limite tra il fatturato inferiore ai 50 milioni di euro e il totale attivo di bilancio inferiore ai 43 milioni di euro. Abbiamo analizzato le modalità di entrata nei mercati esteri maggiormente scelte dalle imprese di ogni categoria dimensionale. Abbiamo effettuato, per ogni modalità di entrata, anche un’analisi dell’incidenza che i flussi commerciali e produttivi hanno sul fatturato. Per ogni modalità di internazionalizzazione abbiamo, inoltre, effettuato una analisi delle scelte localizzative effettuate da piccole, medie e grandi imprese. Abbiamo anche cercato di comprendere come le scelte di strategie di penetrazione commerciale e di produzione all’estero influiscano sulle scelte relative all’export. Nel caso della produzione all’estero, abbiamo cercato di comprendere come essa si relazioni ad una serie di motivazioni che spingono
all’internazionalizzazione.
Abbiamo,
inoltre,
analizzato
i
modelli
di
internazionalizzazione scelti da piccole, medie e grandi imprese, a seconda del settore nel quale esse sono operative. Dall’analisi effettuata è emerso che le esportazioni sono la modalità di internazionalizzazione maggiormente scelta dalle imprese italiane: sia piccole, che medie e grandi. Abbiamo, inoltre, notato una relazione tra la dimensione e la dipendenza del fatturato totale dalle esportazioni: il grado di apertura internazionale maggiore lo hanno le grandi imprese, seguono le medie e poi le piccole. Le aree maggiormente scelte come target delle esportazioni sono i paesi europei, seguiti dal Nord America e dai paesi asiatici. Analizzando le strategie di penetrazione commerciale abbiamo visto come solo nel caso della strategia più avanzata, ovvero la struttura fissa a gestione diretta all’estero, le grandi imprese risultino scegliere tale modalità in misura significativamente maggiore rispetto alle medie imprese. In tutte le altre strategie di penetrazione commerciale, invece, medie e grandi imprese si comportano nel medesimo modo. Anche in questi casi, i paesi maggiormente scelti come obiettivo di queste strategie sono i paesi europei. Abbiamo visto, altresì, come la scelta di una strategia di penetrazione commerciale all’estero si colleghi con una maggiore dipendenza dalle esportazioni. In tutti i casi descritti le diversità tra i modelli delle medie imprese e quelli delle piccole e delle grandi sono legati alla dimensione dell’impresa stessa. In alcuni casi abbiamo, 5
addirittura, notato delle similarità tra le strategie delle grandi e quelle delle medie imprese, mentre le piccole imprese sono caratterizzate da un grado di apertura internazionale minore. Il caso nel quale le strategie internazionali delle medie imprese si distinguono in modo sostanziale rispetto a quelle delle piccole e delle grandi imprese è stato scoperto analizzando la produzione all’estero. Sebbene la percentuale di imprese che localizzano all’estero parte della loro catena del valore attraverso investimenti diretti esteri e accordi contrattuali di produzione sembri legata alla dimensione dell’impresa, diversamente avviene per l’incidenza della produzione all’estero sul fatturato. Le medie imprese hanno quest’ultimo valore molto minore rispetto a quelli delle altre categorie dimensionali. La motivazione sembra essere quella addotta da alcuni autori, i quali affermano che le medie imprese localizzino all’estero la realizzazione di attività a basso valore aggiunto, per poi effettuare le trasformazioni maggiormente rilevanti in Italia ed esportare i prodotti finiti (Nanut e Tracogna, 2011). Abbiamo, invece, avuto una conferma relativamente ai settori nei quali le medie imprese risultano particolarmente competitive a livello internazionale, cioè la meccanica e il tessile. Conferma, seppur parziale, l’abbiamo ottenuta anche rispetto al fatto che gli investimenti diretti all’estero e l’export non siano fattori sostitutivi, bensì complementari, soprattutto per le imprese di dimensione non piccola. Le imprese medie e grandi che producono all’estero, infatti, esportano anche in misura maggiore. Anche in questo caso, inoltre, i paesi europei sono quelli maggiormente scelti per questa modalità di internazionalizzazione, sia nel caso degli investimenti diretti all’estero che degli accordi contrattuali. Al fine di aumentare la profondità dell’analisi abbiamo confrontato i risultati che si ottengono applicando la definizione di media impresa dell’Unione Europea con altre due definizioni di media impresa: una è fornita da Mediobanca R&S e l’altra da GE Capital. La prima afferma che sono medie le imprese tra i 50 e i 499 addetti, con un fatturato tra i 15 e i 330 milioni di euro, mentre la seconda definisce il Mid Market, il quale è costituito da imprese tra i 5 e i 250 milioni di euro di fatturato. Effettuando un confronto tra i risultati dell’applicazione delle diverse classificazioni, si nota un diverso numero di medie imprese: 1208 applicando la definizione dell’Ue, 1379 con quella di Mediobanca R&S e, infine, ben 2128 con quella di GE Capital. In tutti e tre i casi le medie imprese sono attive prevalentemente nei settori meccanici,
tessili
e
delle
industrie
alimentari.
Analizzando
le
strategie
di
internazionalizzazione di piccole, medie e grandi imprese, a seconda delle diverse definizioni sopra descritte, emerge che anche i risultati in merito all’export cambiano. Con la definizione dell’Unione Europea c’è significatività sia nelle differenze tra la percentuale di piccole e quella di medie imprese che esportano, che tra la percentuale di medie e grandi imprese esportatrici. Applicando le definizioni di Mediobanca R&S e di GE Capital, invece, troviamo 6
significatività solo nelle differenze tra i valori delle piccole e quelli delle medie imprese. Questo configura una presenza di una massa critica necessaria per competere nei mercati internazionali, la quale è superiore ai limiti dimensionali delle medie imprese secondo l’Unione Europea. Analizzando il grado di dipendenza del fatturato dalle esportazioni, invece, abbiamo riscontrato delle significatività nelle differenze tra i valori dell’indice export/fatturato delle piccole e quello delle medie imprese e tra quello delle medie e quello delle grandi imprese, applicando le definizioni dell’Unione Europea e di Mediobanca R&S. In questo caso, infatti, l’unica definizione sulla base della quale non c’è significatività tra i valori delle medie e quelli delle grandi imprese è quella di GE Capital. Applicando le diverse definizioni di piccole, medie e grandi imprese abbiamo riscontrato anche alcune differenze nei risultati relativi alle modalità di internazionalizzazione maggiormente strutturate. Una prima diversità è relativa alla percentuale di imprese che ricorrono a strutture fisse gestite da imprese miste partecipate. Applicando la definizione di Mediobanca R&S abbiamo una significatività delle differenze tra i valori di tutti gli aggregati dimensionali, mentre ricorrendo alle classificazioni dell’Ue e di GE Capital, le uniche differenze significative sono tra i valori di piccole e medie imprese. Dato che le grandi imprese, secondo Mediobanca R&S, sono di dimensioni maggiori, sembra esserci una massa critica che influenza il ricorso a questa forma di internazionalizzazione. Le altre diversità tra i risultati ottenuti applicando le diverse definizioni sono relative alla produzione all’estero. Mentre i risultati attinenti alle percentuali di imprese che producono all’estero sono simili per tutte e tre le definizioni, delle differenze si riscontrano relativamente all’incidenza della produzione all’estero sul fatturato totale di piccole, medie e grandi imprese. Mentre applicando le definizioni di Mediobanca R&S e quella dell’Unione Europea abbiamo delle significatività nella differenze tra tutti gli aggregati dimensionali, applicando la classificazione di GE Capital non c’è nessuna differenza significativa. Questo avviene sia relativamente alla produzione tramite investimenti diretti esteri che accordi contrattuali di produzione. In conclusione, possiamo affermare di aver potuto confermare con questa analisi l’originalità dei modelli di internazionalizzazione delle medie imprese italiane. È stato, inoltre, confermato che questi particolari modelli potrebbero essere dovuti alle produzioni nelle quali le imprese italiane di medie dimensione si distinguono. Questi risultati sono coerenti anche con quanto affermato dalla letteratura internazionale circa i fattori che favoriscono o rendono necessaria l’internazionalizzazione (Hymer, 1976; Dunning, 1988). Coerenti risultano, inoltre, le scelte tra esportazioni e modalità di entrata maggiormente strutturate nelle diverse nazioni (Porter, 1990). Sono state identificate alcune discordanze tra le opinioni, relative alle medie imprese, 7
di vari organismi, come l’Unione Europea, Mediobanca R&S e GE Capital. Il fine perseguito in questa analisi non è stato quello di mettere in dubbio queste diverse opinioni, bensì quello di mettere in luce quali diversità nelle strategie si possono creare andando a modificare il “corpo” delle medie imprese. Ogni commento a delle statistiche di questo tipo non può prescindere da una consapevolezza di tale pluralismo. Il lavoro è organizzato in quattro capitoli, ognuno suddiviso in vari paragrafi. Nel primo capitolo viene effettuata una presentazione delle medie imprese attraverso le principali statistiche prodotte a livello nazionale in tema. Nel secondo capitolo è presente una ricognizione teorica della letteratura su alcuni temi dell’internazionalizzazione. Nel terzo capitolo sono presentati i risultati della nostra analisi statistica sui modelli di internazionalizzazione delle medie imprese. Nel quarto capitolo, infine, viene effettuata una discussione dei risultati della nostra analisi, alla luce dei contributi della letteratura presentati e sono effettuate delle conclusioni generali.
8
1
IN MEDIA STAT VIRTUS?
1.1
Premessa
In questo momento così drammatico per il nostro sistema produttivo sta emergendo la tendenza dell’Italia a confermarsi paese esportatore. Questo tratto del nostro sistema–paese è proprio ora ben segnalato dal fatto che le esportazioni sono l’unica componente economica del Prodotto Interno Lordo (PIL) in crescita. Allo stesso tempo infatti assistiamo non al ristagno, ma addirittura alla decrescita di tutte le altre componenti. Questo aiuta a farci capire l’importanza dell’internazionalizzazione per le nostre imprese. La media impresa si è conquistata il centro della scena economica per le sue performance, per la sua capacità di essere internazionale e di restare nello stesso tempo ancorata al contesto di origine (Costa, 2012). In questo capitolo noi presenteremo le caratteristiche delle medie imprese italiane, svolgendo anche alcuni confronti con le medie imprese dei maggiori paesi europei. Presenteremo, inoltre, dei dati sull’internazionalizzazione delle imprese italiane e, su di questi, svolgeremo alcune analisi.
1.2
Le medie imprese e il sistema produttivo italiano
Un importante fattore di distinzione del tessuto imprenditoriale italiano rispetto ai sistemi produttivi degli altri paesi europei è rappresentato dall’importanza delle così dette PMI, ovvero le imprese piccole e medie. All’interno di questa categoria si distinguono per competitività le medie imprese. Nella letteratura ci sono varie definizioni di questi aggregati produttivi. Una delle definizioni maggiormente rilevanti è quella fornita da Mediobanca R&S, la quale parla di medie imprese come “le imprese organizzate come società di capitale che realizzano un fatturato annuo tra 15 e 330 milioni di euro, che occupano non meno di 50 e non più di 499 addetti e che non sono controllate da imprese di grande dimensione e da gruppi stranieri” (Mediobanca R&S, 2013). Secondo Daniela Venanzi (2012) nel 2010 le imprese medio-grandi presentavano in media non più di 500 dipendenti e 180 milioni di fatturato, mentre le medie imprese non più di 165 dipendenti e 65 milioni di fatturato. Vi sono poi delle imprese così dette “del Quarto Capitalismo”. Queste sono medie imprese (e alcune 9
grandi imprese) che derivano da una duplice trasformazione. Parte è infatti dovuta alla crisi del modello fordista della grande impresa, che portò allo snellimento delle fabbriche. Parallelamente grazie alla crescente esternalizzazione delle grandi imprese, nacquero delle imprese più piccole che risposero a tale esigenza delle imprese di dimensioni maggiori (Coltorti, 2008). Queste imprese sono, inoltre, caratterizzate da una presenza internazionale. Diversa è, invece, la definizione delle soglie dimensionali delle imprese fornita dall’Unione europea nel 2011, secondo la quale le micro-imprese hanno meno di 10 addetti e non superano almeno un parametro tra il fatturato annuo di 2 milioni di euro e il totale di bilancio di 2 milioni di euro e le piccole imprese hanno meno di 50 addetti e non superano almeno un parametro tra i 10 milioni di fatturato e i 10 milioni di totale attivo. Infine le medie imprese hanno meno di 250 addetti e non superano almeno un parametro tra i 50 milioni di euro di fatturato e i 43 milioni di euro di totale attivo. Infine, una definizione di mid market particolare viene, invece, data da GE Capital (2012). Secondo questa struttura la definizione dei parametri dimensionali che distinguono le medie imprese varierebbe da paese a paese. Così nel mercato tedesco risulterebbe media l’impresa tra i 20 e i 1000 milioni di euro di fatturato, in quello italiano tra i 5 e i 250 milioni di euro, in Francia tra i 10 e i 500 milioni di euro e, per finire nel Regno Unito l’impresa media è tra i 15 e gli 800 milioni di sterline di fatturato, corrispondenti a tra 20 e 1000 milioni di euro. Il mid market inglese è, perciò, simile a quello tedesco. La punta di diamante del sistema produttivo italiano viene da molti considerata essere formata dalle medie imprese (Coltorti, 2011; Venanzi, 2012). Non è, infatti, un caso che le medie imprese, come messo in luce da Venanzi nel 2012, abbiano reagito alla crisi del 2008 meglio delle grandi imprese. Le medie imprese risultano (secondo i dati, derivanti da una ricerca di Mediobanca, citata dall’autrice) maggiormente solide in ben quattro fondamentali. Innanzi tutto, le imprese di medie dimensione hanno pareggiato nel 2010 i livelli del fatturato e del valore aggiunto che le stesse avevano nel 2006, mentre questo non avviene né per le grandi imprese, né per i grandissimi gruppi. In secondo luogo, sebbene anche le medie imprese abbiano sofferto una riduzione sia dell’occupazione che degli investimenti, in entrambi i casi tale calo risulta, comunque, meno accentuato rispetto alle grandi imprese. Le imprese di media dimensione risultano aver sofferto meno della crisi anche se osserviamo degli indici di redditività operativa e di redditività netta, valori che, per quanto riguarda i grandi gruppi, tendono ad azzerarsi nel 2010. Infine, anche la generazione di cash flow risulta aver risentito meno della crisi nelle medie imprese che non nelle grandi. Nello stesso periodo, le imprese di medie dimensioni risultano essere, inoltre, meno indebitate e il costo del debito risulta, per esse, essere minore. È infatti da notare che sia nella fase nella quale in Italia prevalse la 10
grande impresa, cioè negli anni ’50 e ’60, che in quella nella quale si affermarono i sistemi locali di piccola impresa (anni ’70 e ’80), l’economia italiana viveva una fase espansiva. Al contrario la media impresa ha dimostrato in questi anni di poter emergere in una fase di crisi (Corò, 2008). Le ragioni di questa recente dimostrazione di maggiore competitività da parte delle medie imprese può essere anche fatta risalire a ragioni riguardanti le scelte effettuate in passato dalle grandi imprese. Secondo Coltorti (2011), infatti, le grandi imprese italiane hanno affrontato il processo di globalizzazione in un’ottica di riduzione dei costi e delocalizzazione all’estero di quote importanti di attività produttive. Nel contempo in Italia si sono affermati dei sistemi produttivi che rientrano nel così detto “Quarto Capitalismo”, il quale è rappresentato quasi nella sua interezza da imprese di medie dimensioni. Queste imprese hanno, inoltre, sviluppato un modello di business particolare (Coltorti, 2008). Esse sono specializzate nella produzione di una gamma limitata di beni e cercano di costituirsi o si sono già costituite delle nicchie di mercato, in modo da riuscire a raggiungere il livello di leader mondiale, nonostante la loro media dimensione (Gagliardi, 2006). Questa situazione viene raggiunta dalle medie imprese italiane, in particolare, nei settori dei beni di fascia alta del made in Italy e nei beni di capitale e nelle tecnologie di produzione. In entrambi i casi i mercati maggiormente importanti risultano essere quelli dell’Asia ed Europa orientale (Corò, 2008). La struttura produttiva delle imprese del Quarto Capitalismo è snella e spesso c’è il ricorso all’organizzazione per filiera o reti. Questo da luogo a due vantaggi: il primo è dovuto alla flessibilità che si ottiene, mentre il secondo a un’economia di costi di produzione, raggiunta attraverso il ricorso all’esternalizzazione (Gagliardi, 2006). In questo contesto la produttività diminuisce all’aumentare delle dimensioni e questo è verificato sia in Italia che in Germania e Spagna (Coltorti, 2011). Il modello di business sopra descritto consente, infatti, la sostituzione delle economie di scala tradizionali, collegate alla grande dimensione dell’impresa con economie di scala “esterne” all’impresa, ma interne al sistema. Queste consentono, quindi, di aumentare l’efficienza a tutte le imprese, siano esse piccole, medie o grandi. La diffusione di tecnologie di rete ha, infatti, elevato i potenziali di frammentazione tecnica dei cicli produttivi. Il fenomeno della frammentazione della produzione si è pertanto esteso anche a settori tipicamente scale intensive, come l’automotive e la chimica, mentre nell’informatica si osserva l’aumento del ricorso ad acquisizione in service di costosi applicativi (Corò, 2008). In ultima analisi da sottolineare è il fatto che il Quarto Capitalismo può essere considerato un motore di sviluppo secondo il modello di Romer (Coltorti, 2011). Le ragioni principali sono tre. La prima è costituita dal fatto che mantiene molto ampia la platea degli imprenditori e quindi il potenziale per nuove idee e progresso tecnico. La seconda ragione è costituita dalla 11
solidità patrimoniale e dalla flessibilità sopra descritte, mentre la terza è dovuta al fatto che questa organizzazione è “non rival”, in quanto è assumibile anche da nuovi entranti (Coltorti, 2011). Uno dei vantaggi delle medie imprese viene indicato nel loro carattere imprenditoriale. Questa caratteristica non si limita, inoltre, all’imprenditore, ma tende a caratterizzare anche i dipendenti e in alcuni casi potrebbe contraddistinguere anche fenomeni riguardanti la pubblica amministrazione (Corò, 2008). Secondo Audretsch (2007), infatti, l’economia imprenditoriale pone maggiore attenzione al mercato che non alla gerarchia. Baumol (2002) sottolinea, inoltre, il ruolo degli incentivi di mercato nel creare e diffondere l’innovazione, fino al punto di riconoscere nel capitalismo imprenditoriale il maggiore successo nel costruire condizioni durature di benessere (Baumol, Litan, Schramm, 2007). Le medie imprese rappresentano, inoltre, il terreno ideale per l’innovazione, in quanto è vero che investono in ricerca e sviluppo meno delle grandi imprese, però oltre una certa soglia dimensionale la produttività della ricerca si riduce a causa di problemi di coordinamento organizzativo. Questi sono causati da maggiori difficoltà nella distribuzione degli incentivi all’innovazione e dalla maggior distanza tra la produzione e la commercializzazione dell’innovazione (Corò, 2008). La presenza di spazi di crescita anche all’interno dei settori tradizionali si adatta, inoltre, alla ricerca di nicchie di mercato ad alto valore, nelle quali le medie imprese italiane sono molto competitive. Le imprese di media dimensione sembrano preferire, infatti, delle piccole innovazioni tendenti ad una evoluzione, piuttosto che cambiamenti radicali (Corò, 2008; Coltorti, 2011). Le medie imprese italiane si distinguono anche per il sistema di relazioni con il tessuto produttivo e istituzionale locale, caratterizzante il Quarto Capitalismo. I vantaggi offerti dall’essere inseriti in un sistema produttivo locale sono diversi. Il promo vantaggio è la creazione di un mercato del lavoro specializzato, il quale evolve per il learning by doing, ma anche per gli investimenti individuali e collettivi. Il secondo vantaggio è costituito dalla possibilità di accedere a mercati particolari di input intermedi, i quali comportano vantaggi dalla presenza di una filiera. La terza economia esterna è costituita da una comune cultura produttiva, la quale facilità fenomeni di diffusione dell’innovazione (Corò, 2008). Quanto sopra indicato ci porta ad analizzare nella nostra ricerca le medie imprese italiane, anche in rapporto alle piccole e alle grandi. Per far questo cominceremo col presentare i risultati di varie ricerche, le quali assumono diverse definizioni di media impresa.
12
1.3
Le medie imprese secondo Mediobanca
La definizione di media impresa adottata da Mediobanca Ricerche & Studi comprende le imprese tra i 50 e 499 addetti. L’altro requisito da rispettare riguarda il fatturato annuo, il quale deve essere compreso tra 15 e 330 milioni di euro. Questa definizione, tra quelle citate nel precedente paragrafo, risulta essere quella che presenta i valori di fatturato maggiori, sia nel limite minimo (15 milioni di euro, contro i 10 della definizione dell’Unione Europea e i 5 del Mid Market di GE Capital) che nel limite massimo (330 milioni contro i 50 dell’Ue e i 250 di GE Capital). Inoltre anche come numero di addetti la media impresa assunta da Mediobanca risulta maggiore di quella dell’Unione Europea (il Mid Market di GE Capital non assume un numero di addetti nella sua definizione). Infatti, sebbene il limite minimo coincida (50 addetti), il limite massimo differisce di molto (499 contro 249). Una prima conclusione è che, quindi, la media impresa secondo Mediobanca è più grande delle medie imprese secondo GE Capital e l’Unione Europea. Cominciamo ad effettuare un confronto tra le medie imprese, le imprese medio-grandi e i gruppi di maggiori dimensioni. A tal fine, Mediobanca R&S definisce le imprese mediograndi come imprese simili, per struttura alle medie, che hanno superato la soglia dei 330 milioni di euro di fatturato, ma che si mantengono al di sotto della quota di 3 miliardi dello stesso. I grandi gruppi superano, invece, tale quota. La tabella sotto riportata contiene i valori percentuali sul totale del fatturato e delle esportazioni. Tale analisi è svolta per settori di produzione.
13
Figura 1.1
Fatturato totale ed esportazioni per classe dimensionale di impresa e produzione (val. % del totale) Fatturato totale Medie imprese
Imprese mediograndi (*)
Esportazioni
Gruppi maggiori (*)
Medie imprese
Imprese mediograndi (*)
Gruppi maggiori (*)
Alimentare
21,4
14,7
6,8
11,9
6,7
3,1
Beni per la persona e la casa (º)
21,3
20,3
6,1
22,3
21,2
5,6
Meccanico
31,4
29,8
68,2
42,4
43,3
76,5
Altri settori
25,9
35,2
18,9
23,4
28,8
14,8
5,1
8,2
2,4
3,0
5,4
0,1
12,3
14,2
5,9
12,0
11,3
4,6
Metallurgico
6,4
10,0
8,2
6,7
8,7
7,0
Altri
2,1
2,8
2,4
1,7
3,4
3,1
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
62,1
54,0
23,8
66,9
61,9
26,1
Carta e stampa Chimico e farmaceutico
Totale di cui: made in Italy (^)
(*) Dati non consolidati relativi alle principali società manifatturiere italiane rilevate da Mediobanca (base Dati cumulativi, edizione 2011). (º) Tessile e abbigliamento; pelli e cuoio; legno e mobili; ceramiche e prodotti per l’edilizia; gioielleria e oreficeria; beni diversi per la persona e la casa. (^) Alimentare; legno, mobili e piastrelle; prodotti in metallo; macchine, attrezzature ed elettrodomestici; imbarcazioni, moto, bici e articoli sportivi; tessile, abbigliamento e moda. Fonte: Unioncamere e Mediobanca, 2012, “Le medie imprese industriali italiane (2000, 2009)”
Come possiamo osservare, la distribuzione del fatturato totale è diversa a seconda delle varie classi dimensionali considerate. Abbiamo, inoltre, anche delle differenze tra la distribuzione del fatturato e la distribuzione delle esportazioni, all’interno della stessa classe dimensionale. Osserviamo, inoltre, che le medie imprese sono molto operative nelle produzioni del made in Italy, sia per quanto riguarda il fatturato totale che le esportazioni, anzi, per quest’ultime tale fenomeno è anche maggiormente accentuato. Anche le imprese medio-grandi seguono questa linea, sia pur con valori percentuali del made in Italy minori, mentre i grandi gruppi si attestano appena sopra il 20% in tutti e due i valori. Andando ad osservare la distribuzione tra i vari settori possiamo vedere che i grandi gruppi concentrano la grande maggioranza del loro fatturato nel settore meccanico (68,2%), mentre il secondo gruppo per consistenza è quello degli altri settori con solo il 18,9%. Il settore meccanico è quello nel quale le medie imprese producono la maggior quota di fatturato (31,4%), mentre rappresenta il secondo gruppo per le imprese medio-grandi (29,8%). La differenza sostanziale è che nelle imprese medie e mediograndi il fatturato è distribuito in modo molto più uniforme che non nei grandi gruppi, infatti per le prime abbiamo ben quattro gruppi sopra il 20%, mentre le seconde ne hanno tre, con il 14
gruppo residuale degli “Altri settori” oltre il 35%. Andando ad osservare i valori percentuali relativi alle esportazioni possiamo vedere che il settore meccanico risulta trainante per tutte le classi dimensionali di impresa. Esso rappresenta in tutti i casi il valore più alto e in tutti i casi il valore percentuale delle esportazioni (per il settore meccanico) è maggiore rispetto a quello del fatturato. In tutti i casi possiamo, invece, osservare che il valore percentuale delle esportazioni per le produzioni alimentari risulta minore rispetto al valore del fatturato e, comunque, tale valore per le medie imprese risulta maggiore rispetto ai valori di grandi gruppi e imprese medio-grandi. Per tutti gli altri settori, invece, il valore delle esportazioni segue abbastanza fedelmente quello del fatturato. Abbiamo, così, un ruolo molto importante per le imprese di medie dimensioni sia del settore dei beni per la persona e per la casa sia della chimica. Dopo aver analizzato la distribuzione del fatturato e delle esportazioni all’interno delle varie produzioni, per medie imprese, imprese medio-grandi e grandi gruppi, osserviamo ora la distribuzione di questi valori per tipologia di tecnologia nella quale opera l’impresa. Questa analisi verrà effettuata ancora discriminando per classi dimensionali di impresa. Da notare è che le varie classi di tecnologia seguono la definizione fornita dall’OCSE nel 2011. Secondo questa i settori ad alta tecnologia sono:
aeronautica ed aeronautica spaziale, farmaceutica;
computers e macchine da ufficio e contabilità;
strumenti radio, TV e comunicazione;
strumenti medici di precisione e ottici.
I settori a tecnologia medio-alta sono:
macchinari e apparati elettrici;
veicoli a motore;
chimica (farmaceutica esclusa);
strumenti per la ferrovia e il trasporto, macchinari e strumenti.
I settori a tecnologia medio bassa sono:
costruzione e riparazione di navi e barche;
gomme e materiali plastici;
coke, prodotti petroliferi raffinati e carburanti nucleari;
altri prodotti minerali non metallici, prodotti metallici di base.
15
I settori a bassa tecnologia sono:
Manifattura e riciclo;
Legno, pasta, carta, prodotti di carta, stampa e publishing;
Prodotti alimentari, bevande e tabacco;
Tessuti, prodotti di tessuto, pelle e calzature.
Figura 1.2
Fatturato ed esportazioni per classe dimensionale di impresa e tipo di tecnologia (val. % del totale) Medie imprese Fatturato Export %
Imprese medio-grandi (*) Fatturato Export
4,2
4,0
10,1
8,5
% 12,0
Medio-alta tecnologia
24,5
34,1
29,9
40,8
57,6
58,2
Medio-bassa tecnologia
26,8
27,0
21,4
20,3
16,7
17,0
Bassa tecnologia
44,5
34,9
38,6
30,4
13,7
8,8
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Alta tecnologia
Totale
%
%
Grandi gruppi (*) Fatturato Export
%
% 16,0
(*) Dati relativi alle principali società manifatturiere italiane rilevate da Mediobanca (base Dati cumulativi, edizione 2011) Elaborazioni basate su classificazioni OCSE (ISIC Rev.3 – Technology Intensity Definition – OECD, online document; http://www.oecd.org/sti/inno/48350231.pdf). Fonte: Unioncamere e Mediobanca, 2012, “Le medie imprese industriali italiane (2000, 2009)”
Come possiamo osservare le medie imprese e le imprese medio-grandi hanno la percentuale di fatturato prodotto maggiore nella classe delle produzioni a bassa tecnologia. Al contrario i grandi gruppi hanno il valore più elevato nella classe della tecnologia medio-alta. Se andiamo, tuttavia, ad osservare la colonna relativa alle esportazioni possiamo vedere che le imprese medio-grandi hanno il valore più elevato nella riga delle produzioni a medio-alta tecnologia, mentre per le medie imprese tale valore si avvicina molto a quello delle produzioni a bassa tecnologia. Questo significa che le medie imprese che operano nei settori a tecnologia medioalta hanno un export particolarmente buono, se confrontato con il loro fatturato. Se consideriamo, inoltre, le due classi di tecnologia medie (medio-alta e medio-bassa) possiamo vedere che, oltre che per i grandi gruppi, anche per le imprese medie e medio-grandi la somma di questi valori supera il 50%. Possiamo pertanto affermare che il tessuto produttivo industriale italiano è particolarmente attivo nei settori a media tecnologia. Continuiamo la nostra digressione sulle caratteristiche delle imprese che svolgono produzioni a diversa tecnologia, riportando i dati del valore aggiunto pro capite e del costo del lavoro 16
pro-capite. Tale analisi viene effettuata, ancora una volta, per le imprese medie e mediograndi e per i grandi gruppi.
Figura 1.3
Valore aggiunto e costo del lavoro pro capite per classe dimensionale di impresa e tipo di tecnologia (val. in migliaia di €) Medie imprese
Imprese medio-grandi (*)
Grandi gruppi (*)
Va netto pro capite
CL pro capite
Va netto pro capite
CL pro capite
Va netto pro capite
CL pro capite
‘000 €
‘000 €
‘000 €
‘000 €
‘000 €
‘000 €
Alta tecnologia
66,7
46,5
84,0
56,5
69,1
56,2
Medio-alta tecnologia
57,7
39,4
52,5
43,7
26,1
56,8
Medio-bassa tecnologia
49,6
42,5
53,4
46,4
26,3
43,9
Bassa tecnologia
51,2
40,1
58,6
45,5
n.c.
45,5
Totale
53,3
40,8
58,1
46,2
42,7
48,2
VA = Valore aggiunto; CL = Costo del lavoro (*) Dati relativi alle principali società manifatturiere italiane rilevate da Mediobanca (base Dati cumulativi, edizione 2011) Elaborazioni basate su classificazioni OCSE (ISIC Rev.3 – Technology Intensity Definition – OECD, online document; http://www.oecd.org/dataoecd/43/41/48350231.pdf). Fonte: Unioncamere e Mediobanca, 2012, “Le medie imprese industriali italiane (2000, 2009)”
Da questi dati possiamo evincere che per tutte le classi dimensionali le produzioni ad alta tecnologia hanno una resa in termini di valore aggiunto maggiore rispetto a quella delle altre produzioni. Osserviamo, allo stesso tempo, un fenomeno particolare. Le imprese medie e medio-grandi risultano, infatti, molto più produttive rispetto ai grandi gruppi, nei settori a media tecnologia. Questo ci conferma che tali settori si adattano molto a dimensioni medie e non grandi, grazie anche alla possibilità di sfruttare economie di scala esterne. Se andiamo ad osservare il costo del lavoro, possiamo vedere che per le imprese di medie dimensioni il valore più elevato è nelle produzioni hi-tech. Il valore più basso è, invece, per queste classi dimensionali, nelle produzioni a medio-alta tecnologia, mentre in tali produzioni i grandi gruppi hanno il loro valore di costo del lavoro più elevato. Questo ci da una conferma della competitività delle medie imprese nei settori a medio-alta tecnologia. Analizziamo ora la distribuzione del valore aggiunto delle medie imprese italiane nei vari settori.
17
Figura 1.4
Ripartizione del valore aggiunto delle medie imprese italiane nel 2009
Fonte: Unioncamere e Mediobanca, 2012, “Le medie imprese industriali italiane (2000, 2009)”
Come possiamo osservare le medie imprese italiane nel 2009 producono il loro valore aggiunto prevalentemente nel settore meccanico, con il 37,9%. Al secondo posto stanno i beni per la persona e la casa con il 20%. Possiamo, pertanto, vedere che nei due settori maggiori viene prodotto più del 50% del valore aggiunto delle medie imprese italiane. Il terzo settore è l’alimentare con il 15,4%, perciò se consideriamo i primi tre settori insieme raggiungiamo quasi i tre quarti del valore aggiunto totale prodotto dalle medie imprese. Analizziamo ora la struttura di capitale delle medie imprese italiane e i loro investimenti. L’analisi è effettuata per due tipi di classificazioni: la prima distingue la zona territoriale della sede dell’impresa in Italia, mentre la seconda il tipo di produzione. Vengono presentati, inoltre, degli altri dati economici come il fatturato, il valore aggiunto e le esportazioni.
18
Figura 1.5
Alcuni indicatori riguardanti le medie imprese italiane Capitale investito tangibile
Fatturato
Valore aggiunto
Esportazioni
Investimenti fissi lordi nel 2009
Milioni di euro Nord Ovest
39.619
54.848
13.298
21.198
2.240
NEC
48.429
67.001
15.028
23.912
2.787
Centro Sud e Isole
10.324
13.471
3.064
3.358
641
Totale
98.372
135.320
31.390
48.468
5.668
Alimentare
17.455
28.958
4.849
5.763
1.135
Beni per la persona e la casa
23.462
28.833
6.366
10.821
1.013
Meccanico
30.966
42.510
11.909
20.562
1.859
Altri settori
26.489
35.019
8.266
11.322
1.661
in % Nord Ovest
40,3
40,5
42,4
43,7
39,5
NEC
49,2
49,5
47,8
49,4
49,2
Centro Sud e Isole
10,5
10
9,8
6,9
11,3
Totale
100
100
100
100
100
Alimentare
17,7
21,4
15,5
11,9
20
Beni per la persona e la casa
23,9
21,3
20,3
22,3
17,9
Meccanico
31,5
31,4
37,9
42,4
32,8
Altri settori
26,9
25,9
26,3
23,4
29,3
Capitale investito tangibile = attivo immobilizzato netto + circolante netto – immobilizzazioni immateriali Fonte: Unioncamere e Mediobanca, 2012, “Le medie imprese industriali italiane (2000, 2009)”
Dai dati sopra presentati possiamo vedere come il capitale investito tangibile delle medie imprese “risieda” nel NEC (Nord Est e Centro) maggiormente, rispetto alle altre aree in Italia. Tale area risulta essere la prima anche se osserviamo tutti gli altri valori. Al secondo posto c’è il Nord Ovest, il quale non risulta essere staccato di molto in nessuna delle statistiche riportate, mentre all’ultimo posto c’è l’area del Sud e Isole, la quale, al contrario delle altre due sembra non essere un buon terreno per le medie imprese italiane. Andando ad effettuare una analisi settoriale, invece, osserviamo che la parte del leone spetta alle produzioni del settore meccanico. Questa riga risulta, infatti, avere il valore più elevato per tutte le statistiche presentate. Esse, come già affermato in precedenza, risulta essere produzioni dove le medie imprese sono molto competitive anche nei mercati internazionali. Per quanto riguarda l’alimentare da rilevare è che il fatturato risulta essere elevato, sebbene tale settore sia quello che rivela il più basso valore di capitale investito tangibile, quindi con un alto rendimento dei fattori produttivi. Cominciamo ora una analisi dell’andamento economico delle medie imprese italiane rispetto alle altre imprese. Il seguente grafico presenta l’andamento nei primi dieci anni del 19
ventunesimo secolo del margine operativo netto, in percentuale del fatturato. Il margine operativo netto corrisponde al reddito operativo meno svalutazioni e ammortamento
Figura 1.6
Margine operativo netto in % del fatturato (linee tratteggiate: stime su dati Mediobanca R&S)
Fonte: Unioncamere e Mediobanca, 2012, “Le medie imprese industriali italiane (2000, 2009)”
Come possiamo osservare, l’andamento delle imprese medie e medio-grandi è stato, negli anni considerati, molto simile. Andamento simile si registra, a dire il vero, anche per imprese a controllo estero e multinazionali europee, solo che le prime hanno avuto un forte aumento nella statistica considerata dal 2009 al 2010. Le seconde, invece, partivano nel 2000 da valori maggiori e Mediobanca R&S stima un forte aumento dal 2009 al 2010 anche per loro. I maggiori gruppi italiani hanno invece una curva molto al di sotto delle altre e spesso negativa. Questo ci dice, perciò, che le medie imprese hanno difficoltà a reggere il ritmo delle multinazionali estere, però fanno comunque molto meglio dei maggiori gruppi italiani. Sotto riportiamo alcuni indicatori di redditività dell’attività delle medie imprese, distinguendo per area di appartenenza e settore di produzione. Gli indici presentati sono il margine operativo netto (MON) diviso il valore aggiunto (VA), il valore aggiunto diviso il capitale investito (CI) e infine il più consueto ROI (Return on Investment), il quale è dato dal reddito operativo diviso per il capitale investito.
20
Figura 1.7
Indice di redditività delle medie imprese per area e settore
MON/VA
2009 VA/CI
ROI
Variazione rispetto al 2000 MON/VA VA/CI ROI
Nord Ovest
20,6
31,4
7,2
-7,8
-9,5
-6,0
NEC
19,0
30,3
6,4
-9,6
-8,0
-5,7
Nord Est
18,6
30,4
6,3
-8,6
-7,5
-5,2
Centro NEC
20,7
29,8
6,8
-13,9
-9,7
-7,8
Centro Sud e Isole
19,0
28,5
6,0
-16,5
-6,8
-7,8
Totale medie imprese
19,7
30,5
6,7
-9,3
-8,5
-6,0
Chimico e farmaceutico
23,5
33,6
8,7
-2,8
-3,6
-2,3
Meccanico
21,4
36,6
8,6
-9,4
-14,0
-8,8
Alimentare
25,6
26,2
7,2
0,1
—
-0,9
Carta e stampa
14,0
31,6
5,4
-12,6
-6,1
-5,6
Beni per la persona e la casa
13,3
26,9
4,2
-17,6
-11,3
-8,9
Metallurgico
12,6
21,8
3,3
-8,8
-9,5
-4,7
Altri settori
13,6
29,3
4,6
-13,9
-10,0
-6,6
Made in Italy
20,3
31,0
6,9
-10,2
-8,9
-6,6
Fonte: Unioncamere e Mediobanca, 2012, “Le medie imprese industriali italiane (2000, 2009)”
Cominciamo con l’analizzare i valori per le aree territoriali. Il valore dell’indice MON/VA più elevato è delle imprese del Centro, seguito ad appena un 0,1 di differenza dalle imprese del Nord Ovest. Se osserviamo le variazioni rispetto al 2000, per altro, le imprese del Centro sono anche quelle che perdono di più nei nove anni considerati. L’indicatore MON/VA è n indicatore di efficienza, questo significa che le medie imprese del centro sono le più efficienti, ma anche quelle che hanno avuto il maggior calo. L’indice VA/CI è invece un indice di redditività del capitale investito. In questa misura sono le imprese del Nord Ovest quelle con il valore più alto, seguite da quelle del Nordest. Se andiamo, invece, ad osservare il ROI, i valori maggiori sono ancora quelli del Nord Ovest, seguiti, ancora una volta, da quelli del Nord Est. Da notare è che, osservando la colonna delle variazioni, tutte le imprese hanno un saldo negativo rispetto al 2000. Le imprese del Nord Est sono, però, quelle che hanno conservato meglio i propri valori, in tutte e tre le statistiche considerate. Andiamo ora a svolgere l’analisi per settore di produzione. Il settore delle industrie alimentari risulta quello con il valore dell’indice MON/VA più elevato, seguito dal settore chimico e farmaceutico e da quello meccanico. Il settore meccanico primeggia, invece, nell’indice di redditività dei fattori VA/CI. In questa statistica hanno buoni risultati anche il settore chimico farmaceutico e quello della carta e stampa. Nel ROI, invece, i valori più elevati sono quelli del settore chimico e farmaceutico, seguito dal settore meccanico e da quello alimentare. Osservando le colonne delle variazioni, possiamo vedere gli unici valori positivi in tali colonne. Sono del settore alimentare, che è cresciuto, seppur di poco, rispetto al 2011. È l’unico caso in tutta la 21
tabella e questo restituisce all’alimentare un valore di settore anticiclico in periodi negativi come è stato questo, secondo i dati che abbiamo. Se osserviamo i dati relativi al made in Italy, possiamo osservare che il MON/VA e il ROI si posizionano appena al di sotto dei tre settori maggiormente produttivi, mentre il VA/CI al di sotto dei primi due. Nella tabella sotto riportata presentiamo un confronto tra gli indicatori di profitto delle imprese italiane nel 2009. Tale raffronto viene effettuato per classi dimensionali.
Figura 1.8
Indicatori dei tassi di profitto nel 2009 Imprese medio-grandi (*)
Medie imprese Margine operativo netto in % del valore aggiunto
18,6
16,6
-9,4
1,9
11,9
37,3
29,7
22
16,2
Proventi finanziari in % del valore aggiunto Valore aggiunto in % del capitale
Maggiori gruppi italiani (*)
ROI
6,1
6,3
4,5
48,3
42
41,2
4,5
5,1
6,7
Poste straordinarie in % del risultato corrente
-12,1
-26,4
-147,8
Aliquota fiscale media in % dell’utile lordo (º)
38,2
28,1
28,9
2,4
3,1
-2,4
Debiti finanziari in % del capitale Costo del debito in %
ROE
(*) Dati relativi alle principali società manifatturiere italiane rilevate da Mediobanca (base Dati cumulativi, edizione 2011). Nel valutare il costo del denaro dei grandi gruppi occorre considerare le politiche di finanziamento infragruppo. Le poste straordinarie dei gruppi maggiori sono influenzate principalmente dall’adeguamento del valore delle partecipazioni in portafoglio. (º) Calcolata escludendo le società con risultato ante imposte in perdita. Fonte: Unioncamere e Mediobanca, 2012, “Le medie imprese industriali italiane (2000, 2009)”
Se osserviamo il ROI ed il ROE, la classe dimensionale che presenta i valori più elevati è quella delle imprese medio-grandi, seguita da vicino dalle medie imprese. Valori più bassi presentano, invece, i grandi gruppi italiani. Se andiamo ad osservare le sotto-voci, vediamo, però, che le medie imprese hanno i valori più alti nelle righe del margine operativo netto in percentuale del valore aggiunto e nel valore aggiunto in percentuale del capitale. Le imprese medio-grandi e i grandi gruppi hanno, invece, valori molto più elevati rispetto a quelli delle medie imprese alla voce “Proventi finanziari in % del valore aggiunto”. Questo denota come le medie imprese si basino su un’economia molto più “industriale” e molto meno finanziaria, rispetto alle altre imprese. Se andiamo ad analizzare le voci successive vediamo come le medie imprese siano quelle che presentano la percentuale maggiore di indebitamento finanziario sul capitale, pur mantenendo il più basso costo del debito. Esse sono, inoltre,
22
quelle che pagano una percentuale maggiore di imposte sull’utile lordo: il 38,2% a fronte dei valori delle imprese medio-grandi e dei grandi gruppi, appena superiori al 28%.
1.4
Le medie imprese secondo GE Capital
GE Capital non da una definizione di media impresa, bensì di Mid Market. Come già affermato in precedenza, inoltre, tale definizione varia a seconda del paese considerato. Essa è basata, al contrario di quanto visto sopra per Mediobanca R&S, sul solo fatturato e in Italia comprende le imprese tra i 5 e i 250 milioni di euro di fatturato. Come possiamo osservare il limite minimo risulta essere molto inferiore rispetto a quello previsto nella definizione di Mediobanca R&S (il quale è 15 milioni di €). Anche il limite massimo è inferiore a quello di Mediobanca R&S (330 milioni di €), ma molto superiore a quello della definizione di media impresa dell’Unione Europea (50 milioni di €). È, inoltre, da rilevare che per una serie di ragioni relative ad alcune particolarità della legislazione italiana, il Mid Market in Italia risulta essere composto da imprese più piccole rispetto ai Mid Markets degli altri paesi europei. Secondo una ricerca di GE Capital del 2012 le medie imprese italiane sono all’incirca 62.000 unità, per numero quasi il triplo di quelle tedesche e di quelle nel Regno Unito, nonchè il 70% in più che non in Francia (Malshe et al., 2012). Esse, inoltre, contribuiscono al Pil per il 41%, contro il 32% di quelle tedesche, francesi e del Regno Unito, ma risultano superiori anche sotto il profilo della produttività, con un valore aggiunto per dipendente di 45.600 € contro i 33.600 € degli altri paesi di cui sopra (Malshe et al., 2012). Sotto riportiamo alcuni grafici che presentano il ruolo delle medie imprese nell’economia italiana. Questi dati, insieme al contributo al PIL di cui abbiamo discusso sopra ci permettono di capire il potenziale molto elevato delle medie imprese italiane (secondo la definizione di GE Capital).
23
Figura 1.9
Alcuni dati sulle medie imprese italiane
Fonte: Malshe et al., 2012, “Medie imprese motore di sviluppo”, GE Capital.
Da rilevare è il fatto che le medie imprese italiane risultano essere appena l’1,6% del totale nazionale. Esse, allo stesso tempo, però, contano per ben il 32,7% dei ricavi totali e occupano il 28,3% dei dipendenti. Inoltre, non è da trascurare il fatto che producono più del 40% del PIL italiano. Questi dati ci aiutano a capire l’alto potenziale di questa fascia produttiva. Le medie imprese italiane risultano essere leader anche come produttività, sia nei confronti delle altre imprese italiane che nei confronti delle controparti europee. A riprova di ciò, presentiamo dei grafici che rappresentano il Pil per dipendente.
Figura 1.10
Pil per dipendente per dimensioni dell’impresa e paese europeo
Fonte: Malshe et al., 2012, “Medie imprese motore di sviluppo”, GE Capital.
Come possiamo osservare dal grafico, il quale rappresenta il Pil per dipendente, nel confronto con le altre imprese italiane, le medie imprese risultano vincitrici. Anche le piccole imprese risultano fare meglio delle grandi imprese, per altro. Nei confronti delle altre medie imprese europee, invece, c’è maggior battaglia. Le medie imprese italiane risultano essere le più produttive anche nel confronto europeo, però sono seguite da quelle tedesche e francesi, in 24
sostanziale parità. Le imprese inglesi, invece, nonostante siano definite con parametri molto simili a quelli delle medie imprese tedesche, fanno molto peggio. Il loro valore risulta, infatti, essere anche minore di quello delle piccole imprese italiane. Se consideriamo i soli settori manifatturieri, le medie imprese risultano essere ancora più importanti. Esse sono infatti molto attive in questi settori e queste imprese sono ancora più produttive delle altre medie imprese. Le 23.000 medie imprese manifatturiere italiane contribuiscono, infatti, al PIL per oltre 48.000 euro per dipendente (Malshe et al., 2012), che è un valore maggiore di quello visto nel grafico precedente.
Figura 1.11
Contributo delle medie imprese al PIL del settore manifatturiero, per dimensioni e paesi europei
Fonte: Malshe et al., 2012, “Medie imprese motore di sviluppo”, GE Capital.
Guardando il grafico del contributo al PIL del settore manifatturiero, per dimensione d’impresa, possiamo vedere come il contributo delle medie imprese manifatturiere italiane sia maggiore a quello delle piccole e delle grandi imprese, ma, soprattutto, maggiore rispetto a quello calcolato tenendo conto di tutti i settori, presentato in un grafico in precedenza. Se, invece, osserviamo il confronto internazionale con le medie imprese degli altri paesi europei, possiamo vedere che ancora una volta le medie imprese italiane primeggiano. Oltretutto, anche in questo caso, la differenza rispetto ai competitors europei è ancora più accentuata. Nella seguente tabella presentiamo un confronto tra piccole, medie e grandi imprese. Tale analisi è svolta per ogni singolo settore, che rientra nei settori industriali, ed è basata sul contributo al PIL.
25
Figura 1.12
Contributo al PIL per sotto-settori manifatturieri e dimensione delle imprese
Fonte: Malshe et al., 2012, “Medie imprese motore di sviluppo”, GE Capital.
Da i dati presentati otteniamo un panorama nel quale le medie imprese contribuiscono al PIL di ogni singolo sotto-settore per più del 50% in più dei tre quarti dei settori analizzati. I settori nei quali il contributo delle medie imprese risulta essere più pesante sono il tessile (79%), i prodotti chimici, alimentari e le bevande (76% ognuno), la gomma e plastica, le macchine da cantiere e i settori cartieri (75%). Come abbiamo, tuttavia, già affermato, sono però molti altri i settori nei quali le medie imprese contribuiscono per una parte maggiore rispetto alle altre. Tra questi, importanti sono il settore metalmeccanico, i settori metallurgici e i settori elettrici. I settori nei quali, invece, le grandi imprese risultano dare un contributo più importante al PIL rispetto alle medie imprese sono i veicoli a motore e le attrezzature da trasporto, il petrolio e i 26
prodotti del tabacco. Questi sono settori prevalentemente scale intensive, perciò non stupisce che le grandi imprese forniscano un contributo maggiore. Le piccole imprese sembrano, invece, adattarsi bene ai settori del legno e del mobile, del tessile e delle riparazioni, ma anche nel settore metalmeccanico. In tali settori il contributo al PIL delle piccole imprese risulta essere maggiore rispetto a quello delle grandi imprese. Da rilevare risulta, inoltre, che, come affermato dagli autori della ricerca di GE Capital, il contributo delle medie imprese manifatturiere maggiore a quello delle grandi è una particolarità italiana. In Francia, Germania e Regno Unito, infatti, il contributo delle grandi imprese è maggiore rispetto a quello delle medie. Le medie imprese italiane si distinguono anche per la loro attività di ricerca dei nuovi mercati. Nella seguente tabella presentiamo i ricavi derivanti dalle attività al di fuori dell’Unione Europea.
Figura 1.13
Ricavi derivanti da attività extra Ue delle medie imprese
Fonte: Malshe et al., 2012, “Medie imprese motore di sviluppo”, GE Capital.
Come possiamo osservare le medie imprese italiane sono quelle che hanno la percentuale maggiore di ricavi derivanti da attività extra-Unione Europea. Esse raggiungono ben il 30% del fatturato, a fronte del 25% delle medie imprese tedesche e il 24% delle medie imprese francesi. Molto staccate risultano essere, ancora una volta, le medie imprese inglesi, le quali ottengono dalle attività al di fuori dell’Unione Europea meno del 20%. Analizziamo ora il rapporto delle medie imprese italiane con l’innovazione. Esse svolgono un ruolo molto importante all’interno del sistema italiano, tuttavia in un confronto europeo dimostrano delle evidenti difficoltà. Nei grafici sotto raffigurati sono rappresentati i brevetti delle piccole, medie e grandi imprese in Italia, in percentuale sul totale e il numero di brevetti detenuti dalle medie imprese in Europa.
27
Figura 1.14
Numero di brevetti detenuti dalle medie imprese italiane, per dimensioni (val.%) e in confronto ai paesi europei (val. assoluti)
Fonte: Malshe et al., 2012, “Medie imprese motore di sviluppo”, GE Capital.
Come possiamo osservare, le medie imprese detengono quasi il 50% del totale dei brevetti posseduti dalle imprese italiane. Questo è un risultato importante perchè ci fa capire come la fucina dell’innovazione italiana stia nelle medie imprese. I risultati presentati nell’altro grafico sono, invece, molto meno confortanti. Le imprese italiane di media dimensione detengono, infatti, più di 350.000 brevetti in meno rispetto alle medie imprese tedesche. Anche le medie imprese francesi e inglesi detengono molti più brevetti di quelle italiane. Le medie imprese inglesi, pur avendo dimostrato nei grafici già presentati di avere un ruolo meno importante di quelle italiane, tedesche e francesi, sono le seconde per numero di brevetti. La cosa che stupisce è che le medie imprese italiane hanno un ruolo fondamentale nell’innovazione italiana, ma un ruolo molto marginale nel panorama europeo.
1.5
Le medie imprese: altre fonti
Per completare il quadro sulle medie imprese che abbiamo cominciato a raffigurare con i precedenti capitoli, riportiamo ora dei dati sulle medie imprese derivanti da altri studi. Questi sono, in particolare, basati su delle classificazioni che non comprendono il fatturato o altri indicatori economici, bensì il solo numero di addetti. Le prime ricerche che presentiamo sono dell’Istat. In particolare i seguenti dati sono tratti dal Rapporto Annuale Istat 2013. Cominciamo con una analisi riguardante i modelli di governance delle imprese italiane. La seguente figura mostra la quota di imprese familiari sul totale, per classe di addetti e per settore.
28
Figura 1.15
Imprese familiari e non familiari, per classe di addetti e macrosettore (val. %, anno 2011)
Fonte: Istat, 2013, “Rapporto Annuale 2013”, elaborazione su dati provvisori del Censimento dell’industria e dei servizi.
Come possiamo osservare la quota di imprese familiari cala in proporzione del crescere dell’impresa. In tal senso, si può vedere come le medie imprese (se definite come con 50 – 249 addetti) si posizionino in una fascia dove c’è, ancora, una quasi parità tra imprese familiari e imprese non familiari. Nelle imprese con più di 250 addetti, invece, le imprese familiari sono una minoranza, però importante, infatti esse rappresentano circa il 30% di tale classe di addetti. Osservando l’analisi per macro-settore di appartenenza, possiamo, invece, notare come in tutti i macrosettori vi sia una grande maggioranza di imprese familiari. Il settore maggiormente “familiare” è quello del commercio, tuttavia l’industria in senso stretto è seconda, per percentuale, staccata di poco. Un aspetto collegato alle caratteristiche di cui sopra è il sistema di gestione dell’impresa. Nel seguente grafico raffiguriamo la percentuale delle imprese a gestione manageriale sul totale delle imprese, per classe di addetti. Per gestione manageriale si intendono i casi in cui la gestione prevede l’intervento di manager interni o esterni all’impresa (Istat, 2013).
29
Figura 1.16
Imprese familiari a gestione manageriale, per classe di addetti (val. %, anno 2011)
Fonte: Istat, 2013, “Rapporto Annuale 2013”, elaborazione su dati provvisori del Censimento dell’industria e dei servizi.
Come possiamo osservare, anche in questo caso, la percentuale di imprese manageriali risulta essere legata alla dimensione (in senso di addetti, in questo caso) dell’impresa. Possiamo, tuttavia, vedere anche un “salto” che è presente nel passaggio dalle imprese fino a 49 addetti alle classi successive. In questo caso, infatti, visibilmente la crescita percentuale delle imprese a gestione manageriale è più che proporzionale. Questo ci dice che già dalla media impresa le attitudini in senso di gestione dell’impresa sono diverse. Viste le differenze, in tema di assetti di governance, che caratterizzano le piccole, medie e grandi imprese, proviamo ora a capire come tali differenze si riflettano sulla strategia dell’impresa. Il seguente grafico raffigura la percentuale di imprese che adottano una determinata strategia. L’analisi è effettuata, ancora una volta, discriminando per classi di addetti.
30
Figura 1.17
Principali strategie adottate dalle imprese, per classe di addetti (val. %, anno 2011)
Fonte: Istat, 2013, “Rapporto Annuale 2013”, elaborazione su dati provvisori del Censimento dell’industria e dei servizi.
Nel 2011 la maggioranza delle imprese italiane ha seguito una strategia volta a difendere la propria quota di mercato. La percentuale di imprese che dichiarano di aver preferito tale strategia è, infatti, la più alta per tutte le classi di addetti. Le imprese nella fascia con oltre 250 addetti risultano essere quelle che hanno preferito maggiormente tale strategia, mentre seconde, con poco distacco, sono le imprese della fascia tra 50 e 249 addetti. Anche le piccole imprese sono, tuttavia, ben al di sopra del 50% in questa statistica. La differenza tra le piccole e le medie e grandi imprese è visibile, in misura maggiore, nelle altre strategie. Le imprese con il maggior numero di dipendenti risultano essere prime anche nelle strategie di aumento della gamma dei prodotti e, quindi, diversificazione, che nella strategia di accesso a nuovi mercati. In entrambi i casi le imprese intermedie sono seconde. Nel primo caso le due classi di addetti maggiori superano il 50%, mentre le piccole imprese sono ben al di sotto di tale quota. Anche nel secondo avviene questo fatto, sebbene le quote risultino essere minori. Caso particolare è la strategia di “Attivazione/incremento di relazioni tra le imprese”. In questa statistica non si raggiunge per nessuna classe di addetti il 50%. La cosa più importante è, però, che in questo caso la quota della classe di addetti tra i 50 e i 249 risulta essere maggiore rispetto alla classe superiore. Le medie imprese, nel 2011, sono quelle che cercano, quindi, con maggior forza strategie di relazione con le altre imprese. Nella seguente figura riportiamo i dati relativi alle percentuali delle imprese che hanno fatto ricorso a forme di relazione di vario tipo tra imprese, per classe di addetti.
31
Figura 1.18
Relazioni intrattenute dalle imprese, per classe di addetti (val. %, anno 2011)
Fonte: Istat, 2013, “Rapporto Annuale 2013”, elaborazione su dati provvisori del Censimento dell’industria e dei servizi.
Come possiamo vedere, le imprese “grandi” per classe di addetti risultano essere quelle che ricorrono maggiormente a tutte le forme di collaborazione previste dall’Istat, a parte gli accordi informali, per i quali sono davanti le medie imprese. Le due modalità di relazione maggiormente usate sono la commessa e la subfornitura, per le quali sia le medie che le grandi imprese superano la quota del 50%. In tutti gli altri casi il valore più elevato è, comunque, minore del 30%. Le piccole imprese, inoltre, non dimostrano di ricorrere con particolare frequenza a relazioni con altre imprese, infatti in nessun caso le piccole imprese superano il 50%. Analizziamo ora i drivers di competitività percepiti dalle imprese italiane nel 2011. Il seguente grafico raffigura la percentuale di percezione di piccole, medie e grandi imprese su quattro possibili fattori di vantaggio: prezzo, qualità, flessibilità produttiva e diversificazione produttiva. Sotto raffigurato c’è anche un altro grafico che riporta gli stessi valori, calcolati, però, questa volta non sulla base della classe di addetti ma sul macro-settore di appartenenza.
32
Figura 1.19
Principali punti di forza dell’impresa per classe di addetti e macro-settore (val. %, anno 2011)
Fonte: Istat, 2013, “Rapporto Annuale 2013”, elaborazione su dati provvisori del Censimento dell’industria e dei servizi.
Come possiamo osservare, il fattore competitivo percepito come maggiormente importante da tutte e tre le classi di addetti è la qualità. In tutti e tre i casi la percentuale è molto maggiore del 50%. Il valore più elevato è quello delle medie imprese, le quali dimostrano di voler competere proprio sulla qualità. Le medie imprese risultano essere quelle che ritengono maggiormente importante anche la flessibilità produttiva. Anche in questo caso, quindi, c’è conformità con quanto visto negli studi precedenti. Le medie imprese privilegiano la competizione sulla qualità e cercano di ricorrere a strutture produttive flessibili. Le piccole imprese sono, invece, quelle che hanno il valore percentuale più elevato nella percezione dell’importanza del prezzo per la competizione. È, tuttavia, da rilevare che le piccole imprese non privilegiano, però, tale tipo di competizione, perchè comunque la percentuale di risposte delle piccole imprese per la qualità è poco meno del 70%, contro il 30% del prezzo. Le grandi imprese, invece, sono quelle che giudicano, in percentuale maggiore, la diversificazione produttiva come importante fattore di competitività. Anche in questo caso viene confermato quanto visto in precedenza, negli altri studi. Se andiamo ad effettuare una analisi per macrosettore, possiamo vedere come, anche in questo caso la qualità venga percepita come fondamentale dalla maggior parte delle imprese di tutti i macro settori. Le imprese industriali sono, in questo caso, quelle con la percentuale più alta, seguite dal commercio. Nel caso della flessibilità produttiva, invece, le imprese industriali sono prime col 40% circa, contro un 33
valore inferiore al 20% delle costruzioni. Le imprese commerciali sono, invece, quelle che ritengono maggiormente importante la diversificazione e il prezzo. Dopo aver visto quale è la percezione di piccole, medie e grandi imprese sui principali punti di forza vediamo ora, invece, quale è la percezione sui principali ostacoli alla competitività. Nel grafico sotto riportato sono raffigurate le percentuali di risposta alla domanda sulla percezione dei principali ostacoli competitivi, per classi di addetti. Le possibili modalità sono: mancanza di risorse finanziarie, mancanza di domanda, oneri amministrativi e burocratici e contesto socio ambientale.
Figura 1.20
Principali fattori che ostacolano la competitività delle imprese, per classe di addetti (val. %, anno 2011)
Fonte: Istat, 2013, “Rapporto Annuale 2013”, elaborazione su dati provvisori del Censimento dell’industria e dei servizi.
Possiamo vedere una notevole differenza nella percezione degli ostacoli alla competitività, tra classi di addetti. Le piccole imprese sono quelle che soffrono di più la scarsità di risorse finanziarie. In questo caso c’è una sorta di relazione inversa tra la percentuale e la dimensione dell’impresa. Stessa relazione c’è nel caso degli oneri amministrativi e burocratici e anche in questa statistica le piccole imprese risultano avere il valore più elevato. Per medie e grandi imprese, invece, il principale ostacolo percepito è la scarsità o mancanza di domanda. Questa motivazione è addetta con forza anche dalle piccole imprese. Le imprese intermedie sono quelle che percepiscono questo problema con maggior forza. Le grandi imprese sono, invece, quelle che percepiscono in modo percentualmente maggiore come un problema il contesto 34
socio-ambientale. Questo conferma quanto affermato dal Coltorti (2011), secondo il quale le grandi imprese hanno, in questi anni di crisi, cercato un risparmio in senso di tutele dei lavoratori e dell’ambiente. Come è noto, in questa fase le medie imprese si dimostrano particolarmente attive anche sul campo dell’internazionalizzazione. La seguente tabella ci da una conferma di questo. Essa raffigura l’incidenza percentuale delle imprese con esportazioni, per settore, area di destinazione e classe di addetti.
Figura 1.21
Incidenza delle imprese con esportazioni in crescita per settore, area di destinazione e classi di addetti (var. % tra gen. – giu. 2011 e gen. – giu. 2012) Classe di addetti 50 - 249 250 e oltre 51,6 54,5
1-9 48,5
10 - 49 49,3
Offerta specializzata
48,5
52,1
53,2
46,8
51,2
Alta intensità tecnologica
47,7
46,9
49
45,4
47,5
Economie di scala
50,1
49
49,8
46,4
49,3
Mercati Ue
42,6
45,2
45,5
44,7
44,8
Mercati extra Ue
51,3
53,3
55,7
57,1
53,2
Totale
48,7
49,9
51,4
48,9
49,8
Manifattura tradizionale
Totale 49,4
Fonte: Istat, 2012, “Performance delle imprese manifatturiere sui mercati esteri”.
Risulta interessante notare come le medie imprese siano quelle che, osservando i totali, abbiano la percentuale maggiore di imprese che hanno aumentato le esportazioni. Da notare è anche il fatto che siano l’unica classe dimensionale nella quale più del 50% delle imprese hanno aumentato la loro presenza internazionale. Effettuando un’analisi a livello di classe di attività, osserviamo come per la manifattura tradizionale il primato indiscusso spetti alle grandi imprese. Interessante è il fatto che per produzioni ad alto valore aggiunto, in questo caso rappresentate dalle imprese ad offerta specializzata e ad alta intensità tecnologica siano le medie imprese quelle che hanno ampliato maggiormente le loro esportazioni e che anche in settori di scala esse si posizionino appena dietro delle micro-imprese (1 – 9 addetti). Analizzando i mercati serviti, le medie imprese risultano quelle che più hanno aumentato le loro esportazioni verso i mercati Ue, mentre sono le seconde per i mercati extra-Ue di poco dietro alle grandi imprese. In tutte le classi di addetti, per altro, si registra una percentuale di imprese che hanno aumentato le esportazioni verso i paesi al di fuori dell’Unione Europea superiore al 50%. Al fine di continuare la presentazione di dati sull’internazionalizzazione, presentiamo la seguente
tabella,
fornita
dall’ICE
(Agenzia 35
per
la
promozione
all’estero
e
l’internazionalizzazione delle imprese italiane). Essa contiene i dati delle esportazioni per classe di addetti, però distinguendo questa volta anche per area geografica di destinazione delle merci.
Figura 1.22
Esportazioni per classe di addetti e area geografica di destinazione delle merci (val. %,anno 2009 - 2010) 2009 da 1 a 9
da 10 a 49
da 50 a 249
250 e oltre
addetti non specificati
totale
Europa
7,1
18,2
29,4
44,2
1,0
197.242,0
Africa settentrionale
9,8
17,4
27,0
45,4
0,3
10.944,0
10,5
26,6
21,4
41,2
0,2
4.331,0
America settentrionale
4,7
15,1
30,1
49,6
0,4
18.187,0
America centro-meridionale
5,6
16,5
26,1
51,4
0,4
8.760,0
Medio Oriente
7,9
18,3
29,4
44,0
0,5
14.175,0
Asia centrale
5,4
14,5
26,3
48,3
5,5
4.939,0
Asia orientale
7,1
19,0
27,4
45,8
0,7
19.638,0
Oceania e altri territori
5,2
18,0
24,7
51,8
0,4
3.250,0
Mondo
7,0
18,1
28,9
45,1
0,9
281.466,0
Altri paesi africani
2010 da 1 a 9
da 10 a 49
da 50 a 249
250 e oltre
addetti non specificati
totale
Europa
7,2
18,9
28,6
44,6
0,7
226.410,0
Africa settentrionale
8,6
16,8
21,8
52,6
0,2
12.442,0
Altri paesi africani
12,4
22,6
26,4
38,6
0,0
4.184,0
America settentrionale
5,3
15,0
29,0
50,3
0,4
21.467,0
America centro-meridionale
5,8
17,3
27,4
49,3
0,2
10.674,0
Medio Oriente
7,4
17,9
28,8
45,5
0,4
14.847,0
Asia centrale
6,2
21,8
26,2
45,7
0,1
5.538,0
Asia orientale
7,2
19,0
28,7
44,8
0,4
23.784,0
Oceania e altri territori
5,8
17,2
25,4
51,4
0,2
3.628,0
Mondo
7,1
18,6
28,2
45,5
0,6
322.974,0
Fonte: ICE, 2012, “L’Italia nell’economia internazionale. Sintesi del rapporto 2011 - 2012”.
Come possiamo osservare, le grandi imprese aumentano la loro quota di esportazione, dal 2009 al 2010 nei paesi europei, nell’Africa settentrionale e in America settentrionale. Le medie imprese, invece, hanno aumentato la loro percentuale di esportazione negli altri paesi africani, in America Centro-meridionale, in Asia Orientale e in Oceania. Questo ci dimostra come le medie imprese abbiano, in questi anni, cercato di espandersi in nuovi mercati, anche 36
geograficamente lontani. Anche le micro e piccole imprese hanno aumentato la loro quota non solo in Europa, ma cercando nuovi mercati, tuttavia la specificità per i mercati “lontani” risulta più forte per le medie imprese. Discutiamo ora le strategie adottate dalle imprese italiane nel 2012, con la seguente tabella, tratta da una ricerca della Fondazione Nordest.
Figura 1.23
Tipologie delle imprese secondo le strategie attuate (val. %, anno 2012) Innovatrici solitarie
Passive TUTTI
Esploratrici
Reticolari
Multitasking
Totale
41,9
14,9
19,5
18,6
7,1
100,0
Industria
35,6
15,8
28,0
11,4
9,2
100,0
Commercio
49,4
12,6
11,5
21,6
4,8
100,0
Servizi
46,8
14,9
11,6
21,3
5,5
100,0
10-19 addetti
50,9
15,2
13,6
15,1
5,1
100,0
20-49 addetti
29,3
16,7
26,5
17,3
10,2
100,0
50-99 addetti
16,4
9,6
37,0
26,0
11,0
100,0
100 e più addetti
23,2
7,1
37,5
21,4
10,7
100,0
Nord Ovest
39,2
13,8
22,7
14,9
9,4
100,0
Nord Est
34,3
16,6
23,8
16,0
9,4
100,0
Centro
42,5
16,0
19,4
17,7
4,6
100,0
Sud e Isole
51,2
14,0
11,6
18,0
5,2
100,0
Sì, già fatto
22,0
-
34,1
31,7
12,2
100,0
Sì
36,2
15,2
22,5
17,4
8,7
100,0
No Non ha senso per la sua attività
42,5
19,6
18,1
13,3
6,5
100,0
44,8
10,9
19,1
18,6
6,6
100,0
2,6
3,3
63,1
27,1
100,0
55,5
19,2
25,3
-
-
100,0
-
-
73,2
-
26,8
100,0
50,0
26,4
-
23,6
-
100,0
Settore
Dimensione
Area geografica
Apertura a capitali
Partecipa a forme di aggregazione Sì 3,9 No Internazionalizzate Forti Deboli Non internazionalizzate
58,6
19,0
-
22,4
-
100,0
Innovazione Innovatori forti
1,0
43,3
27,3
16,2
12,2
100,0
Innovatori moderati
55,4
0,3
19,6
17,3
7,4
100,0
Non innovatori
68,9
0,2
12,2
16,4
2,3
100,0
Fonte: Fondazione Nordest – Unicredit, 2012, “L’Italia delle imprese. Rapporto 2012”.
37
Questa analisi cerca di analizzare i comportamenti delle varie imprese rispetto a vari “oggetti”, tra i quali vi sono l’innovazione e l’internazionalizzazione. È stata effettuata una cluster analisys con riferimento ai processi di innovazione realizzati negli ultimi tre anni, di internazionalizzazione, di apertura del proprio capitale a soggetti terzi e alla partecipazione a forme di aggregazione. Sono emerse cinque diverse classificazioni di imprese. La prima è costituita dalle imprese “passive”, cioè prive di iniziative in qualsiasi delle direzioni sopra descritte. Vi sono poi imprese “innovatrici solitarie”. Queste sono “rivolte” prevalentemente verso il loro interno, fanno innovazioni di prodotto e processo, ma sono disinteressate rispetto all’adesione a reti d’impresa e a progetti strategici che prevedano anche solo l’internazionalizzazione. Il terzo gruppo è costituito da imprese “esploratrici”. Queste imprese hanno aperto il proprio capitale a terzi, sono internazionalizzate e hanno processi di innovazione, però non partecipano ad alcuna forma di aggregazione. Vi sono poi imprese “reticolari”, poco internazionalizzate, ma aperte al capitale terzo e partecipanti a reti di imprese. L’ultimo gruppo è quello delle imprese multitasking, ovvero che sono attive in tutti i fronti descritti da quanto analizzato. La classe di addetti “50-99” risulta essere quella con la percentuale minore di imprese passive. Allo stesso tempo, tale classe di addetti è anche quella che ha la quota più alta di imprese reticolari e di imprese multitasking. Nella categoria delle imprese esploratrici le imprese tra 50 e 99 addetti sono al secondo posto, con appena il 0,5% in meno rispetto alla classe superiore. Tale categoria è quella maggioritaria per le due classi di addetti maggiori. Osservando i macro-settori di appartenenza, le imprese industriali sono prime nelle categorie innovatrici solitarie, esploratrici e multitasking, però sono le meno reticolari. Esse sono, inoltre, quelle che hanno il valore più basso nella categoria delle imprese passive. Per area geografica, le imprese del Nord Est sono quelle con meno imprese passive, ma con la percentuale maggiore di imprese innovatrici solitarie, esploratrici. Esse sono alla pari delle imprese del Nord Ovest nella categoria delle imprese multitasking. Le imprese maggiormente reticolari sono, invece, le imprese del Sud. Per concludere la presentazione dei dati sulle medie imprese, riportiamo ora alcuni grafici in tema di innovazione. Il seguente grafico contiene i valori percentuali delle imprese che dichiarano di aver introdotto innovazioni di prodotto, sul totale. L’analisi è effettuata discriminando a seconda di varie caratteristiche, come la classe dimensionale, il settore di appartenenza, l’area territoriale e l’internazionalizzazione.
38
Figura 1.24
Incidenza delle imprese che hanno introdotto innovazioni di prodotto nel triennio 2010 – 2012 (val. %, anno 2012)
Fonte: Fondazione Nordest – Unicredit, 2012, “L’Italia delle imprese. Rapporto 2012”.
Come possiamo osservare, la classe dimensionale che, in percentuale, ha introdotto maggiormente innovazioni di prodotto è la classe con 100 dipendenti e più. Seguono, quasi alla pari, le classi “20-49” e “50-99”. Tutte e tre queste classi hanno valori superiori al 50%, mentre solamente la classe di imprese più piccole ha un valore minore di tale soglia. Osservando la ripartizione per macro-settori di appartenenza, notiamo che le imprese maggiormente innovatrici sono le imprese industriali e queste sole hanno una quota superiore al 50%. Per ripartizione territoriale, invece, le imprese maggiormente innovatrici del loro prodotto sono, invece, le imprese del Nord Est, seguite da quelle del Nord Ovest. Dopo aver presentato i dati sull’innovazione di prodotto delle imprese italiane, mostriamo ora quelli sull’innovazione di processo. Il grafico sotto riportato è analogo a quello precedente e presenta i dati percentuali sulle innovazioni di processo nel triennio 2010 – 2012.
39
Figura 1.25
Incidenza delle imprese che hanno introdotto innovazioni di processo nel triennio 2010 – 2012 (val. %, anno 2012)
Fonte: Fondazione Nordest – Unicredit, 2012, “L’Italia delle imprese. Rapporto 2012”.
Se osserviamo i dati per classe di addetti, possiamo vedere che, in questo caso, c’è una più accentuata relazione diretta tra dimensione dell’impresa e innovazione di processo. In questo caso, infatti, la classe di addetti “100 e più” presenta il valore più elevato, la classe “50-99” il secondo valore più elevato, la classe “20-49” il terzo, ecc. Osservando l’analisi per settore possiamo vedere come, anche in questo caso, le imprese industriali risultino le più innovatrici. La differenza è che questa volta il distacco rispetto alle altre è maggiore. Osservando le aree territoriali, otteniamo questa volta, qualcosa di diverso rispetto a quanto visto in precedenza. Le imprese del Nord Ovest risultano, infatti, questa volta, avere il valore più elevato, mentre il Nord Est ha il secondo valore.
40
1.6
Una prospettiva internazionale
Nei dati fin qui presentati abbiamo potuto osservare come le medie imprese italiane abbiano delle performance, nei mercati internazionali, molto interessanti. Esse sono dotate di una forte proiezione internazionale, la quale rappresenta anche una risposta alla stagnante domanda interna italiana (Corò, 2008). Le medie imprese hanno dimostrato notevoli capacità di adattamento nelle reti commerciali e distributive, in seguito all’emergere di importanti mercati all’estero. Questo processo ha riguardato principalmente due segmenti: i beni di fascia alta del made in Italy e i beni di capitale e le tecnologie di produzione (Corò, 2008). Allo stesso tempo sono aumentate le importazioni dai paesi emergenti. Per specializzazione settoriale queste tendono a sovrapporsi al profilo dei tradizionali vantaggi comparati dell’Italia. Se osserviamo, tuttavia, tale scenario in una prospettiva di nuove “catene globali del valore”, possiamo vedere all’interno dei processi di frammentazione internazionale della produzione una misura della capacità delle imprese di governare operazioni manifatturiere sempre più globali (Corò, 2008). Finora sono stati crescenti i flussi di importazione dalle economie low cost, tuttavia il decentramento produttivo deve seguire sempre meno la logica low cost seeking, a causa del venir meno degli storici fattori di convenienza. Tali vantaggi si stanno, infatti, erodendo a causa dell’alzarsi del livello medio delle retribuzioni nei paesi emergenti, delle fluttuazioni delle valute, le quali fanno si che sia meno conveniente esportare da tali paesi e, infine, dei costi delle materie prime e di trasporto (Resciniti e Matarazzo, 2012). Il decentramento produttivo deve, quindi, seguire una logica market seeking e ricorrere a forme radicali di modalità di entrata, come gli accordi e gli investimenti diretti all’estero. Tali operazioni hanno, infatti, la finalità di migliorare l’integrazione nel tessuto socioeconomico locale (Resciniti e Matarazzo, 2012). Le medie imprese devono, inoltre, puntare su nuovi mercati, intensi non solo in senso geografico, ma anche in senso strategico, ricercando spazi per il futuro. Al fine di poter usufruire al meglio dei bacini di domanda dei paesi emergenti, inoltre, bisogna puntare non su un lusso da super élite, bensì su beni di fascia medio-alta. I settori premium si stanno, infatti, facendo sempre più affollati e per competere in essi nei mercati internazionali poter puntare su un generico brand made in Italy, anche se molto conosciuto in Italia, non è più sufficiente. Sono poche le imprese che possono vantare marchi molto forti e conosciuti anche all’estero e per le altre, i costi necessari ad aumentare la brand awareness rischiano di essere superiori alle potenzialità. Le medie imprese devono, quindi, modificare il proprio modello di business in funzione di soddisfare i bisogni dei mercati internazionali (Resciniti e Matarazzo, 2012). Altri autori identificano, tuttavia, nei processi di internazionalizzazione, come sono stati negli anni scorsi, un problema per 41
l’economia italiana. Questi sarebbero, infatti, insieme alle politiche di delocalizzazione perseguite dalle grandi imprese e, in parte, anche dalle medie, alla base della crisi del 2008 (Coltorti, 2011). Gli investimenti diretti italiani all’estero, inoltre, pur fruttando rendimenti superiori a quelli esteri in Italia, non avrebbero volumi tali da influire sui saldi negativi tra export e import (Coltorti, 2011). Diversa è, in questo caso, anche la soluzione proposta. Essa consiste, infatti, nel ricorso a strategie di nicchia e nella ricerca di competitività attraverso lo sfruttamento di economie di scala esterne, ricavate dall’appartenenza a un “sistema” di imprese di dimensione intermedie come quello del Quarto Capitalismo. Tali strategie si basano sul fatto che la globalizzazione aiuterebbe ad estendere le nicchie (Coltorti, 2011). Tra i due approcci che abbiamo visto vi sono delle evidenti similitudini, ma anche delle evidenti differenze. Entrambi vedono nella globalizzazione un’opportunità per “conquistare” nuovi spazi per i propri prodotti. La differenza sta nel fatto che un approccio propone un cambiamento del modello di business per sfruttare questi spazi, mentre l’altro propone una evoluzione, attuando un’estensione della nicchia che si sta presidiando.
1.7
Conclusioni
In questo capitolo abbiamo presentato un’importante parte del tessuto produttivo italiano: le medie imprese. Per fare questo abbiamo analizzato dei dati forniti da vari organismi, soprattutto al fine di fornire un quadro il più completo possibile sulle performance delle imprese di media dimensione, anche in rapporto alle piccole e grandi imprese. Le opinioni sulle medie imprese sono, infatti, variegate. In quasi tutti i casi abbiamo potuto osservare l’importanza dei risultati di queste unità produttive e, spesso, anche il loro primato rispetto alle altre. Nel precedente paragrafo abbiamo potuto constatare come le opinioni sulle performance internazionali delle medie imprese, ma soprattutto sulle strategie da scegliere in tema di internazionalizzazione, siano ancora più contrastanti, rispetto a quelle sulle altre caratteristiche. Per questo motivo noi ci occuperemo, nei prossimi capitoli, delle strategie di internazionalizzazione delle medie imprese. Nella nostra analisi confronteremo, inoltre, tali strategie con quelle delle piccole e grandi imprese.
42
2
UNA
RICOGNIZIONE
TEORICA
IN
TEMA
DI
INTERNAZIONALIZZAZIONE
2.1
Premessa
La letteratura, in tema di strategie di internazionalizzazione, è molto ampia. Questa si può dividere, sostanzialmente, in tre ambiti: il primo è relativo alle motivazioni dell’entrata e alla scelta della modalità, dell’area e del timing dell’internazionalizzazione; il secondo è relativo alla gestione dell’impresa internazionale; il terzo, infine, studia i processi di sviluppo dell’internazionalizzazione. Nel primo ambito sono presenti contributi relativi alle ragioni che spingono le imprese all’internazionalizzazione e contributi relativi allo studio delle varie modalità di entrata, nonché dei fattori che influiscono sulla scelta tra queste. Parte di queste teorie dibatte, poi, della scelta delle nazioni nelle quali internazionalizzarsi e del timing corretto per l’entrata. I contributi relativi al secondo ambito, invece, trattano della struttura ottimale dell’impresa e della strategia da perseguire al presentarsi di certe condizioni. Ampia è, inoltre, la discussione sull’organizzazione dell’impresa internazionale e, in particolare, sulla gestione delle filiali e sui modelli migliori di organizzazione di queste. Al terzo ambito si rifanno
una
serie
di
contributi
che
prevedono
delle
fasi
di
evoluzione
dell’internazionalizzazione delle imprese. Noi, non ci occuperemo delle teorie appartenenti al secondo ambito di studi presentato. Tratteremo, però, una serie di contributi rilevanti in tema di strategie di decisione relative ai fattori fondamentali dell’internazionalizzazione. Illustreremo, altresì, delle teorie relative ai processi di internazionalizzazione.
2.2
Il ruolo della globalizzazione
Negli anni scorsi abbiamo assistito ad un fenomeno di apertura globale dei mercati e di intenso sviluppo del commercio internazionale. Questo processo viene chiamato globalizzazione. In questo contesto, anche lo stock di investimenti diretti esteri è cresciuto costantemente dagli anni ottanta (Caroli, 2008). Le ragioni che hanno portato la globalizzazione a raggiungere la rilevanza attuale sono molteplici. Una prima spinta deriva dall’intensa e prolungata crescita economica di paesi precedentemente marginali dal punto di vista industriale. È stata, infatti, trovata una correlazione tra il grado di sviluppo economico di 43
un paese e il suo ruolo come attore o destinazione negli investimenti diretti esteri (Caroli, 2008). La seconda ragione dello sviluppo del fenomeno globale risiede nel grande sviluppo che è avvenuto nelle tecnologie, soprattutto quelle relative ai trasporti e alle comunicazioni. Altro motivo risiede nella progressiva integrazione economico politica tra le nazioni. Un ultima spinta alla globalizzazione viene, infine, dalla convergenza dei modelli culturali e comportamentali delle persone (Caroli, 2008). Secondo Caroli (2008) la globalizzazione influenza l’agire delle imprese in cinque ambiti: il mercato, la concorrenza, la produzione, le risorse e, infine, le persone e i valori. Dal punto di vista dei mercati, la globalizzazione offre alle imprese nuove opportunità, ma anche nuove minacce. Essa ha, infatti, allargato in modo sostanziale l’ambito competitivo delle imprese. Questo, però, rappresenta anche un rischio, in quanto si viene a determinare una minore protezione dei mercati geografici d’origine (Caroli, 2008). Si sviluppano delle nicchie globali, attraverso le quali le imprese possono estendere la loro produzione e metterla a valore (Grandinetti e Rullani, 1996; Coltorti, 2011). Il secondo ambito sul quale agisce la globalizzazione è la concorrenza, la quale risulta molto intensificata dalla competizione con imprese straniere. È emersa la necessità di organizzare la propria produzione e le attività su scala sovra-locale, sfruttando le interrelazioni che esistono tra i vari territori (Caroli, 2008; Corò, 2008). Secondo Caroli (2008) gli approcci seguiti per aumentare la propria competitività sono cinque:
Sviluppo a livello globale della linea di prodotti e del marchio consolidati nel mercato locale, attraverso lo sfruttamento dei vantaggi di scala, dei bassi costi di produzione e del possesso di tecnologie adeguate;
Sviluppo della ricerca e dello sviluppo per garantire continua innovazione dell’offerta, in relazione alle specifiche esigenze nei diversi mercati geografici;
Specializzazione in una nicchia di mercato dove poter raggiungere rapidamente una leadership a livello globale;
Sfruttamento della grande disponibilità di risorse naturali nel proprio paese e produrre anche per i mercati esteri;
Sviluppo del modello di business sperimentato con successo nel proprio mercato geografico, adattandolo alle specificità dei contesti geografici nelle diverse aree geografiche, spesso attraverso l’acquisizione di imprese nei paesi target.
Il terzo ambito di influenza della globalizzazione è l’organizzazione della produzione. I cambiamenti maggiormente rilevanti si manifestano attraverso la crescente dispersione in paesi diversi delle attività della catena del valore e nel volume di investimenti realizzati nei 44
paesi diversi da quello d’origine. Le due direttive che guidano la localizzazione estera sono: la volontà dell’impresa di avere un maggiore radicamento nei mercati geografici più rilevanti e la ricerca di condizioni di produzione maggiormente vantaggiose (Caroli, 2008). La globalizzazione ha influenzato anche lo sviluppo delle risorse. Questo è avvenuto con l’apertura dei mercati finanziari e la conseguente maggiore disponibilità e facilità di accesso ad esse. Anche le risorse materiali sono state, però, oggetto dell’influenza della globalizzazione, infatti nelle imprese multinazionali adesso la casa-madre decide una serie di fornitori eccellenti, per una determinata macro-area geografica. Sarà poi compito del fornitore globale adattare le proprie produzioni alle richieste. Questo fenomeno è chiamato global sourcing (Caroli, 2008). L’altro effetto della globalizzazione, oltre all’aumento della disponibilità di risorse, è, però, il forte aumento della competizione per queste (Caroli, 2008). L’ultimo ambito di influenza della globalizzazione è quello delle persone e dei valori. Secondo Caroli (2008) assume cruciale importanza il raggiungimento di un equilibrio tra l’autonomia che deve essere lasciata alle singole consociate e il controllo sul loro operato per garantire la necessaria unitarietà e coerenza tra le azioni svolte da ciascuna componente del gruppo. La globalizzazione influisce anche sulla gestione del capitale umano. È prassi consolidata che nei gruppi globali siano impiegati dei dipendenti di nazionalità diversa da quella della sede corporate. Al fine di garantire un equilibrio tra le diversità e un orientamento convergente sta emergendo la presenza di una funzione di diversity management, con le finalità di gestire i problemi e valorizzare le differenze.
2.3
La teoria del vantaggio monopolistico
Secondo Hymer (1976) le motivazioni dei processi di internazionalizzazione risiedono nelle caratteristiche dell’impresa. Le imprese diventano multinazionali perché hanno dei vantaggi, in alcune attività, nei confronti dei concorrenti. Questi vantaggi possono riguardare sia attività materiali che attività immateriali. Essi possono essere vantaggi dovuti all’innovatività del prodotto, al possesso di un marchio o di un brevetto,
all’esperienza nella gestione del
processo produttivo, all’elevata differenziazione del prodotto, a un particolare know how di vendita. Altri vantaggi possono venire dal possesso di skills specialistiche, dalla capacità di raccogliere capitali e dalla presenza di economie di scala e di integrazione verticale. L’impresa, attraverso lo sfruttamento di questi vantaggi, espande il suo mercato, a livello nazionale, attraverso l’aumento delle quote di mercato, ma anche le fusioni e acquisizioni. Questa crescita determina un aumento dei profitti (Hymer, 1976). Quando il processo di 45
concentrazione si ferma non può più continuare perché il mercato è diventato un monopolio o un oligopolio, l’impresa comincia ad espandersi oltre i confini nazionali. Le risorse provengono dagli elevati profitti monopolistici o oligopolistici. Le modalità di entrata che le multinazionali adottano possono essere la concessione a imprese straniere delle licenze di produzione, oppure l’investimento diretto all’estero. Da notare è, però, che la semplice presenza di vantaggi specifici non giustifica l’intervento della multinazionale attraverso investimenti diretti esteri. Sono, infatti, imperfezioni di mercato quali barriere all’entrata, sia tariffarie che non, elevati costi di trasporto e svantaggi fiscali a far preferire l’IDE all’export. Altri fattori come l’incertezza, asimmetrie informative e la non trasferibilità di alcune risorse influenzano, invece, la scelta tra una modalità di entrata tramite concessione di licenze e investimenti diretti esteri. Questi ultimi, infatti, risulteranno favoriti qualora l’impresa detenga vantaggi derivanti da un know how specialistico e da assets intangibili, i quali non possono essere facilmente trasferiti (Hymer, 1976).
2.4
La teoria dell’internalizzazione
La teoria dell’internalizzazione definisce il fenomeno scatenante dell’internazionalizzazione nella presenza dei costi di transazione (Buckley e Casson, 1993). Buckley e Casson (1976) cominciarono la loro analisi con tre osservazioni (Heinsz, 2003):
L’impresa massimizza il proprio profitto in un mondo fatto di mercati imperfetti;
Quando i mercati dei beni intermedi sono imperfetti, c’è un incentivo a bypassarli creando una sorta di “mercato interno”. Questo avviene ponendo sotto il possesso e il controllo di un singolo le attività legate dal mercato;
L’internazionalizzazione dei mercati oltre i confini nazionali genera le imprese multinazionali (Buckley e Casson, 1976).
Il ruolo della multinazionale è, quindi, quello di incrementare l’efficienza globale del sistema produttivo, producendo internamente ad essa laddove i suoi costi organizzativi risultino minori rispetto ai costi di utilizzo del mercato. L’internazionalizzazione consiste, perciò in una internalizzazione su scala globale. Le principali forme di imperfezioni del mercato sono due: una riguarda il mercato di beni intermedi in alcuni processi produttivi multistage, mentre la seconda riguarda il mercato della conoscenza (Heinsz, 2003). Nel primo caso il beneficio cercato riguarda la gestione dei processi downstream, in presenza di mercati che non funzionano bene. Nel secondo caso, invece, sono l’assenza di mercati futuri certi, la 46
concentrazione bilaterale del potere contrattuale e le estreme condizioni di questo particolare mercato a favorire l’internalizzazione. È, pertanto, l’abilità di innovare che il vantaggio specifico cruciale che porta all’internazionalizzazione (Buckley e Casson, 1976). I fattori che influiscono sugli incentivi a internalizzare agiscono insieme e sono di vari tipi:
Industry-specific;
Region-specific;
Nation-specific;
Firm-sepcific (Buckley e Casson, 1976).
Secondo gli autori il focus è sui fattori industry-specific e su quelli firm-specific. I primi sono relativi alle caratteristiche strutturali e tecnologiche del paese, mentre i secondi sono relativi alle singole imprese. Come abbiamo già spiegato sopra, infatti, Buckley e Casson (1976) vedono le principali cause scatenanti l’internalizzazione nel tipo di processo produttivo e nel particolare vantaggio specifico dell’impresa sulla conoscenza. I fattori nation-specific e region-specific, invece, sono collegati ai fattori culturali e alle istituzioni presenti nelle aree geografiche. In questo senso, in particolare, similarità nell’ambiente istituzionale tra vari paesi favoriscono l’internazionalizzazione attraverso l’internalizzazione dei mercati (Buckley e Casson, 1976; Heinsz, 2003). Nei paesi politicamente instabili, invece, le multinazionali preferiscono rapporti con soggetti locali , in luogo dell’internalizzazione, al fine di ridurre i rischi, potenziali e crescenti di un intervento del governo. Le multinazionali, prima di internalizzare, devono, inoltre, analizzare se l’acquiescenza alle richieste del governo locale sono compatibili con un profitto nel lungo termine. In caso di produzione esse devono, altresì, cercare di giustificare i loro metodi di produzione alla luce dei criteri sociali richiesti dal governo (Buckley e Casson, 1976).
2.5
Il paradigma eclettico della produzione internazionale
Il paradigma eclettico dell’impresa multinazionale rappresenta una teoria che combina diverse metodologie. Esso combina, infatti, alcuni findings della teoria del vantaggio monopolistico, con la spiegazione dell’internazionalizzazione attraverso la teoria dei costi di transazione. Per la prima volta, inoltre, esso introduce delle variabili di tipo localizzativo, che spiegano la produzione in alcuni paesi rispetto ad altri. Il paradigma eclettico di Dunning (1981) è basato su uno schema su tre livelli. Esso comprende, infatti, vantaggi derivanti dalla proprietà 47
(ownership advantages), vantaggi da internalizzazione (internalization advantages) e, infine, vantaggi localizzativi (location advantages). Per questo motivo esso è chiamato anche OLI framework. Gli ownership advantages derivano dal controllo i specifiche risorse aziendali trasferibili all’estero a basso costo. In tal senso deve esserci sia il possesso di un vantaggio specifico (come nel modello del vantaggio monopolistico), sia la capacità, da parte dell’impresa di sfruttarlo coordinando internamente le attività della catena del valore. Secondo Dunning (1988) gli ownership advantages possono essere di tre tipi:
Un primo tipo deriva dal possesso privilegiato a un particolare asset che genera valore:
Un secondo tipo consiste in vantaggi che ha una filiale (branch plant) contro una impresa de novo;
Un terzo tipo sono i vantaggi da possesso che derivano dalla diversificazione geografica e dalla “multinazionalità” per se.
I vantaggi da internalizzazione sono relativi al contrasto delle imperfezioni del mercato. Questa parte è stata esplorata dalla letteratura in tema di costi di transazione. Maggiore è l’influenza di questi costi, maggiore sarà la propensione dell’impresa a spingersi nella produzione internazionale (Dunning, 1988). La terza questione trattata nel paradigma eclettico della produzione internazionale riguarda la decisione di “dove” produrre. Questa decisione riguarda i così detti location advantages. Esso concerne la percezione del massimo interesse a combinare dei prodotti intermedi trasferibili nello spazio, prodotti nel paese della casa-madre, con almeno alcuni fattori immobili di cui è dotata una nazione, oppure degli altri prodotti intermedi prodotti li (Dunning, 1988). Questi possono riguardare un trattamento di favore da parte del governo, anche fiscale, oppure la presenza di competenze di lavoro qualificate. All’interno del paradigma eclettico, la presenza di un vantaggio specifico nei confronti dei concorrenti è un prerequisito per qualsiasi forma di internazionalizzazione. La presenza di vantaggi di internalizzazione, invece, influisce sulla scelta tra esportazioni, investimenti diretti all’estero e concessioni di licenze. In particolare una necessità di protezione dei propri asset intangibili può portare al ricorso a contratti di franchising o a joint ventures (Dunning, 1981). I vantaggi localizzativi, invece, favoriscono l’investimento diretto in un determinato paese. Presentiamo ora una successiva formulazione del paradigma eclettico della produzione internazionale, fatta dallo stesso Dunning nel 1988. La differenza principale rispetto al modello precedente concerne gli ownership advantage. Essi sono, in questo modello divisi in due tipi: Oa e Ot. I primi sono relativi al possesso di specifici assets, da parte di una multinazionale, rispetto a quelli posseduti dalle altre. I secondi derivano invece dalla governance comune di più assets specifici. 48
Figura 2.1
Il paradigma eclettico della produzione internazionale (versione del 1988)
Main types of international production 1- Market seeking (import substituting)
Factor endowments (Affecting geographical distribution of L) Home country for creation of Oa (=mobile endowments / intermediate products) Host country advantage in immobile endowments with which Oa have to be used eg. Natural resources, some kinds of labour Market size & character
2- Resource seeking (supply oriented)
3- Efficiency seeking (rationalised invstment)
Market failure Structural (Affecting L Transactional (Affecting and Oa) Ot, L and I) Firm specific = Search and negotiating proprietary Oa (eg. costs Knowledge) priviledged access to inputs Protection against misrepresentation or Restrictions on trade in infringement for property goods rights Natural (transport costs) b) Artificial (import controls) Oligopolistic market structure
Part of international portfolio to spread risks
Home Country – as above, but also market size & character
As above but also priviledged access to markets
Avoidance of risks of breach of contract and intrruption of supplies
Host country. Availability fo resources, natural, labour (export processing), tecnology (eg. Investments by idcs in dcs) VERTICAL Mainly as 1 & 2 above
Incentives offered by Governments to fdi (also rilevant for 1 & 3)
Absence of future markets
HORIZONTAL Usually distribution of factor endowments not very relevant, as international production in countries with similar resource structure LATERAL Of limited importance in effect
a)
Oligopolistic market structure As above, but as investment influenced more by supply than market considerations. Government induced structural imperfections likely to be of considerable importance eg. Tax differentials, investment incentives, performance requirements, etc.
Protection against actions of competitors
Economics of vertical integration
As with 2 above Economies of scale and scope Rosk reduction through product diversification As above, but in respect of ancillary activities eg. Various services – shipping consultancy etc.
Note that as above regional integration and reduction of trade barrier aids rationalised investment
Fonte: Dunning, 1988, “The eclectic paradigm of international production: a restatement and some possible extensions”, Journal of international business studies
In una successiva formulazione, Dunning (1993) cercò di introdurre elementi di dinamicità al modello del paradigma eclettico. La formulazione del 1981, infatti, è rappresentata da un
49
modello sostanzialmente statico. Il modello del 1993 è formato da cinque fasi (Dunning, 1993), queste sono:
Una prima entrata iniziale nei mercati esteri: l’impresa comincia delle transazioni al di fuori dei confini nazionali. I motivi possono essere due: acquistare beni a minori costi, oppure proteggere il mercato esistente o cercarne di nuovi, per gli output prodotti dalle attività nel paese della casa-madre;
Investimento in facilities collegate al commercio: Dunning (1993) rileva che la maggior parte delle imprese al primo accesso ai mercati esteri esporta, sia direttamente che indirettamente. Quindi per la maggior parte delle imprese l’investimento all’estero vero e proprio avviene in una seconda fase;
Movimenti a monte o a valle della catena del valore: questo è un passaggio dal possesso di assets all’estero meramente collegati al commercio al possesso di assets produttivi e al trasferimento di parte della catena del valore all’estero. Mentre nella seconda fase gli investimenti necessari sono finanziariamente limitati, in questa, invece, sono rilevanti.
Approfondimento e allargamento del value-added network: c’è un aumento delle attività effettuate all’estero e anche un allargamento della gamma di prodotti realizzati dalle filiali nei paesi stranieri.
Verso l’integrazione regionale o globale del network del valore: la produzione è globalizzata. Ogni consociata produce almeno un prodotto differente e, spesso, vi sono degli scambi con la casa-madre. Anche le attività di ricerca e sviluppo sono globalizzate. Secondo Dunning (1993) il raggiungimento di questa fase dipende da vari fattori, come i tipi di prodotto e il loro range, l’eventuale presenza di economie di scala o di raggio d’azione (economies of scope), le caratteristiche del paese nel quale è effettuato l’investimento, la facilità di trasferimento di beni intermedi e, infine, l’attitudine e la strategia dell’impresa multinazionale (Dunning, 1993).
2.6
L’investimento diretto estero “pro-trade”
La teoria per la quale gli investimenti diretti all’estero, con particolari caratteristiche, tendono ad aumentare il commercio internazionale è stata proposta da Kojima nel 1973. L’autore, analizzando esportazioni e importazioni nei paesi nei quali le multinazionali giapponesi avevano investimenti diretti all’estero, notò come questi investimenti diretti non avessero una 50
funzione di sostituzione rispetto al commercio tra paesi, bensì di sviluppo. Egli ha, quindi, analizzato le caratteristiche di questi IDE e teorizzato che il fattore di sviluppo stia proprio in questi. Secondo Kojima (1973), infatti, le caratteristiche degli investimenti diretti esteri delle imprese americane sono diverse rispetto a quelle degli IDE giapponesi. Di conseguenza il modello americano fu definito, da Kojima “Anti-trade foreign direct investment” (Ozawa, 2007). Gli investimenti diretti all’estero delle multinazionali giapponesi si indirizzano verso i settori manifatturieri nei quali il vantaggio comparato del paese d’origine si sta disgregando. I paesi destinazione sono, così, quelli meno sviluppati e con un alto grado di risorse e disponibilità di lavoro. Gli investimenti diretti all’estero delle imprese americane, invece, tendono a concentrarsi in paesi sviluppati. Secondo Kojima (1973), inoltre, l’obiettivo di questi ultimi è quello di vendere prodotti ad alta tecnologia direttamente attraverso le consociate nei paesi stranieri. In questo senso, questo modello di IDE viene definito “antitrade” e sostitutivo (Ozawa, 2007). Gli investimenti diretti secondo il modello giapponese, invece, tendono a portare sviluppo e ad aumentare il commercio col Giappone: sia le importazioni che l’export. Diversamente dal modello neo-classico, inoltre, la profittabilità dell’IDE è, nel modello di Kojima (1973), inversamente proporzionale al gap tecnologico del paese in via di sviluppo rispetto al Giappone. Diversamente rispetto al modello neo-classico di Mundell (1957), inoltre, i flussi di capitale aumentano all’espandersi, nel paese nel quale avviene l’investimento, dell’industria meno capital intensive e al contrarsi delle industrie maggiormente capital intensive (Ozawa, 2007). Kojima (1973) spiega, inoltre, gli effetti ottimizzanti nei confronti del commercio internazionale degli investimenti diretti delle multinazionali giapponesi col fatto che queste fanno delle joint ventures con partecipazioni minoritarie nei paesi in via di sviluppo. La fonte principale dei profitti di queste multinazionali risiede, invece, nell’export (Kojima, 1973).
2.7
Le modalità dell’internazionalizzazione
Al fine di operare nei mercati esteri, l’impresa si dota di una strategia di entrata negli stessi. Quest’ultima influenza, ed è allo stesso tempo influenzata, dalla strategia competitiva dell’impresa stessa. La prima influenza le opportunità che si possono cogliere attraverso la seconda, mentre la volontà di perseguire una certa strategia competitiva fa sì che siano favorite alcune modalità di entrata rispetto ad altre (Caroli, 2008). Noi presenteremo ora le principali modalità di entrata in un mercato estero. 51
2.7.1
Le esportazioni dirette
Le esportazioni dirette consistono in attività di commercializzazione nei mercati di altri paesi, realizzate direttamente da strutture operative dell’impresa esportatrice (Caroli, 2008). Il grado di “profondità” di tale struttura può variare. Essa può, infatti, commerciare direttamente col cliente finale, oppure con il sistema distributivo locale e con dei grossisti. In questo caso l’impresa deve attivarsi per mantenere delle relazioni con i membri del sistema distributivo (Caroli, 2008). Secondo Caroli (2008) questa strategia è più efficace rispetto al ricorso a traders internazionali nei seguenti casi:
Produzione su commessa;
Vendita di impianti e macchinari di elevato valore e complessità;
Produzioni ad altissima tecnologia;
Mercato basato su gare pubbliche.
L’impegno organizzativo per l’impresa che intende esportare direttamente è gravoso. Le esportazioni dirette si realizzano attraverso la costituzione di una rete vendita appositamente per l’estero. Essa può essere costituita da personale dipendente o indipendente, assunto dall’impresa con contratti di collaborazione. Le imprese di dimensione minore generalmente preferiscono la seconda modalità. Gli agenti hanno il compito di favorire i contatti con i clienti e spesso sono “agenti con deposito”, ovvero autorizzati a gestire un magazzino di prodotti all’estero. Essi si occupano di tutte le attività connesse alla vendita (Caroli, 2008). In alcuni casi possono essere affiancati agli agenti dei venditori con competenze tecnicoprofessionali, oltre che commerciali. Le spese di viaggio e permanenza all’estero dei venditori sono generalmente abbastanza rilevanti. Per questo l’impresa deve valutare attentamente se non sia il caso di interagire direttamente con gli agenti, senza ricorrere alla figura del venditore (Caroli, 2008). Al verificarsi di certe condizioni può rivelarsi necessario costituire un ufficio di rappresentanza in un paese estero. Queste condizioni sono tre: rilevanza in termini di volumi di vendita, valore delle stesse o numero di soggetti con i quali si hanno rapporti; caratteristiche del business che richiedono una presenza strutturata; perseguimento di una presenza commerciale significativa (Caroli, 2008). L’ufficio di rappresentanza svolge le seguenti funzioni:
Realizzazione di studi e ricerche sul mercato locale e sulle dinamiche della competizione e predisposizione di rapporti informativi alla casa madre; 52
Sviluppo di relazioni con attori locali rilevanti e lobbying;
Coordinamento delle attività della rete di venditori nel mercato estero;
Organizzazione delle attività logistiche;
Gestione delle problematiche giuridiche e amministrative relative alla presenza dell’impresa e dei suoi prodotti nel paese estero (Caroli, 2008).
In alcuni casi l’impresa può costituire in determinate aree una centrale logistica, nella quale possono, talvolta, essere svolte anche alcune attività di lavorazione del prodotto. La forma maggiormente avanzata, prevede, invece, la presenza di una sussidiaria commerciale dell’impresa all’estero (Caroli, 2008).
2.7.2
Le esportazioni indirette
Le esportazioni indirette si manifestano nella forma indiretta quando il produttore non gestisce direttamente le operazioni commerciali nel mercato estero, ma si avvale a tal fine di un operatore indipendente, collocato nel suo stesso paese (Caroli, 2008). Talvolta l’impresa costituisce una unità, al suo interno, avente la funzione di mantenere i contatti con l’operatore indipendente. Quest’ultima, comunque, non svolge alcuna funzione diretta col mercato estero. Vi sono diverse tipologie di operatori indipendenti e questi si distinguono secondo due elementi:
La complessità della loro organizzazione: può esserci il singolo professionista, oppure delle realtà maggiormente strutturate, fino ad arrivare a grandi trading companies.
L’acquisizione della proprietà dei beni che vengono venduti all’estero: può esserci una attività di semplice intermediazione commerciale, ma anche un’acquisizione della proprietà dei beni, i quali vengono successivamente venduti per conto proprio (Caroli, 2008).
Vi sono varie tipologie di intermediari internazionali. Elenchiamo ora le principali figure, descrivendone i tratti essenziali. Una prima figura è il buyer, ovvero un soggetto indipendente che risiede in un determinato paese e rappresenta un certo numero di imprese estere interessate ad un contatto con potenziali fornitori attivi in quella zona (Caroli, 2008). Generalmente sono le grandi catene di distribuzione e i franchisor commerciali ad aver contatti con i buyer, affidandogli due incarichi: 53
Identificare l’offerta più conveniente per soddisfare un’esigenza congiunturale;
Identificare prodotti e/o marchi da inserire nel proprio portafoglio, per migliorare la differenziazione dell’offerta complessiva (Caroli, 2008).
Il buyer opera sulla base di una lettera di intenti, indicante la tipologia di transazione che egli può impostare (Caroli, 2008). Una seconda figura è il broker. Egli svolge la funzione di collegare il produttore con il compratore e di fornire un eventuale supporto consulenziale. Egli opera, inoltre, sia sul lato delle esportazioni che su quello delle importazioni (Caroli, 2008). C’è, poi, l’export management company. Questa è una impresa commerciale che opera nei mercati internazionali come unità di vendita per diversi produttori attivi a livelli diversi di una stessa filiera (Caroli, 2008). I prodotti venduti dalle export management companies costituiscono una offerta integrata e non in concorrenza. Le trading companies sono società specializzate nel commercio all’estero di prodotti realizzati da terzi. Sono di grandi dimensioni e acquistano direttamente dal produttore, per poi vendere per conto proprio nei mercati internazionali (Caroli, 2008). Esse possono essere società indipendenti, oppure collegate a grandi gruppi industriali. Esse offrono una serie di servizi ausiliari alla vendita, come trasporto internazionale, stoccaggio, assicurazione e finanziamento delle esportazioni e sviluppo dei canali distributivi (Caroli, 2008). Le funzioni principali svolte dalle trading companies sono:
Valutazione della convenienza dei mercati esteri e predisposizione della strategia di commercializzazione;
Creazione di pacchetti di finanziamento per le imprese clienti per facilitare la transazione;
Ricerca di partner nei mercati esteri per la realizzazione di accordi commerciale o anche di produzione estera;
Predisposizione di attività di countertrade (intermediazione e consulenza extravalutaria sui beni più complessi) e intervento diretto nella loro attuazione (Caroli, 2008).
Vi sono, infine, i consorzi per l’esportazione. Questi sono strutture costituite al fine di consentire a un certo numero di piccole e piccolissime imprese di poter raggiungere una massa critica che consenta l’internazionalizzazione (Caroli, 2008). La funzione che svolge il consorzio può variare anche sensibilmente. Essi può, infatti, limitarsi ad effettuare un’attività di consulenza e appoggio alle imprese, oppure può svolgere un ruolo imprenditoriale, organizzando le offerte delle imprese consorziate e svolgendo attività di marketing.
54
2.7.3
Gli accordi strategici
Gli accordi strategici sono intese di medio-lungo termine tra due o più imprese, strutturate contrattualmente per il raggiungimento di specifici obiettivi, funzionali alle strategie competitive o di crescita nei mercati esteri dei singoli partner coinvolti (Caroli, 2008). Le parti sono generalmente una impresa che vuole aumentare la sua presenza internazionale con imprese maggiormente consolidate nei mercati target. Gli accordi si distinguono dalle forme viste in precedenza per i contenuti di natura non solo commerciale, la proiezione di mediolungo termine, la rilevanza dei profili organizzativi, l’investimento di risorse da parte di tutti gli attori coinvolti (Caroli, 2008).
I vantaggi potenziali di questa forma di
internazionalizzazione sono:
Condivisione degli investimenti necessari, con la conseguente riduzione dell’impegno finanziario e organizzativo;
Immediato accesso a risorse e competenze distintive complementari alle proprie e opportunità di valorizzare le proprie risorse e competenze nell’ambito internazionale;
Possibilità di raggiungere più rapidamente la dimensione critica per essere competitivi nei mercati internazionali;
Sviluppo di una migliore conoscenza delle caratteristiche del mercato estero, delle sue dinamiche competitive e dei fattori economici, e non, che ne influenzano l’evoluzione (Caroli, 2008).
Tre fattori esterni che favoriscono la stipula di accordi strategici sono:
La crescente complessità dell’ambiente competitivo, che richiede un insieme di risorse e competenze non sempre disponibili in maniera adeguata all’interno di una singola impresa;
Il tendenziale accorciamento del ciclo di vita dei prodotti e delle tecnologie;
Le politiche attuate dai governi locali, orientate a favorire l’investimento da parte di imprese straniere (Caroli, 2008).
Elenchiamo ora le principali tipologie di accordi strategici. Una prima forma è il licensing. Questo è un contratto in base al quale un soggetto di un paese (licensor o licenziante) attribuisce a un soggetto di un altro paese (licensee o licenziatario) il diritto di utilizzare e sfruttare economicamente in un determinato ambito territoriale specificati prodotti o assets (anche immateriali) di sua proprietà (Caroli, 2008). Questa forma consente, in pratica, di 55
diffondere a livello internazionale una propria offerta attraverso l’azione di imprese terze. Gli asset maggiormente oggetto di questo tipo di contratti sono il marchio, le tecnologie di processo e di prodotto, i processi e le strutture produttive, i prodotti e le conoscenze codificate relative ai processi gestionali e ai modelli di business (Caroli, 2008). In cambio della concessione il licensee si impegna ad attuare determinate azioni di sviluppo del mercato e a pagare delle royalties al licensor. I vantaggi del licensing sono la non necessarietà di rilevanti investimenti e la possibilità offerta di diffusione rapida ed estesa del proprio marchio e dei propri prodotti. I rischi sono, invece, relativi alla perdita del controllo sul marketing e il rafforzamento del licenziatario, il quale può, in futuro, trasformarsi in un concorrente. Altre questioni critiche sono relative alla determinazione della solidità aziendale del licensee e la corretta determinazione e stipula del contratto (Caroli, 2008). Una seconda forma è il franchising. Attraverso questo contratto il franchisor trasferisce al franchisee il diritto di usare il proprio nome, il proprio marchio e il proprio format di vendita a fronte del pagamento di un corrispettivo (Sicca, 2001). Questa forma offre al franchisor vari vantaggi:
La possibilità di penetrare in un certo numero di mercati esteri in tempi relativamente brevi;
La diffusione internazionale del marchio;
La possibilità di stabilire linee di comportamento strategiche e di attuare politiche di marketing;
La possibilità di poter aumentare notevolmente i volumi di produzione senza particolari problemi sul fronte del loro assorbimento da parte dei distributori (Caroli, 2008).
Il franchising internazionale presenta due problemi principali: la gestione dei flussi di prodotti dal franchisor al franchisee e l’organizzazione della rete di franchisee. Caroli (2008) afferma che la soluzione a quest’ultimo problema sta nel ricorso alle figure del franchise broker, dell’area developer o del master franchisee. Un’altra forma di accordo strategico consiste nel contratto di produzione. Con questo contratto un’impresa affida a un produttore collocato in un altro paese il compito di realizzare una determinata produzione destinata alla vendita principalmente nel mercato geografico; essa mantiene comunque il controllo sul marketing e sulla distribuzione della suddetta produzione. Generalmente il contratto prevede che vi sia un trasferimento di conoscenza tecnologica e successivamente di assistenza tecnica (Caroli, 2008). I contratti di gestione sono degli accordi con i quali una impresa internazionale gestisca un’attività produttiva costituita e finanziata dall’investitore locale; la remunerazione è 56
normalmente parametrata sui benefici che l’attività produce (Caroli, 2008). Vi sono, infine, delle alleanze commerciale con le quali imprese di paesi diversi operanti nello stesso business determinano un certo grado di interazione delle rispettive offerte (Caroli, 2008).
2.7.4
Le joint ventures internazionali
Le joint ventures internazionali sono la forma più avanzata di alleanza strategica. Sul piano giuridico una joint venture può essere anche realizzata tramite un accordo contrattuale tra determinati soggetti con l’obiettivo di realizzare un determinato progetto. Nella prospettiva internazionale pare, tuttavia, maggiormente rilevante il tipo di joint venture che prevede la costituzione di una nuova società partecipata dalle parent companies (Caroli, 2008). Una joint venture internazionale è, quindi, una nuova società costituita da due o più operatori di diverse nazionalità per la realizzazione di attività chiaramente precisate e di interesse comune (Caroli, 2008). Vi sono vari modelli di joint venture internazionale. Il primo tipo consiste in una società costituita da una impresa di un determinato paese, la quale apporta risorse e competenze di prodotto, al fine di sviluppare il mercato di quest’ultimo. Gli altri soggetti sono, invece, imprese locali che apportano la conoscenza del mercato locale e la rete distributiva (Caroli, 2008). Il secondo tipo di joint venture consiste in una impresa costituita da due o più imprese di paesi diversi interessate a unire le forze in una determinata area di business, al fine di entrare in un determinato mercato estero. La società è costituita attraverso l’apporto, da parte delle parent companies, del proprio ramo d’azienda operante nel paese (Caroli, 2008). I vantaggi forniti dalle joint ventures internazionali sono:
Riduzione dell’investimento finanziario e della complessità organizzativa richiesti dall’entrata in un mercato estero;
Netta separazione della posizione competitiva nel mercato estero dove opera la joint venture da quella che l’impresa ha negli altri ambiti ove è presente direttamente;
Sviluppo di una struttura la cui evoluzione potrebbe generare nuove opportunità di sviluppo competitivo per le imprese che ne detengono il controllo;
Nel caso in cui nella joint venture vengano apportate risorse significative, essa è vista con favore dal governo locale, il quale potrebbe accordare condizioni di favore (Caroli, 2008).
Eventuali rischi delle joint ventures internazionali sono, invece, legate a problemi di compatibilità che potrebbero manifestarsi tra le parent companies. Un secondo problema è 57
legato alla sua governance e alla qualità delle procedure operative con cui la joint venture beneficia dei vantaggi derivanti dai rapporti con le parent companies (Caroli, 2008).
2.7.5
Gli investimenti diretti esteri
L’investimento diretto estero è definito come un investimento da parte di un’entità residente in un paese in un’impresa residente in un altro paese, finalizzato ad acquisirne il controllo, in modo da gestire le attività di quest’ultima, in maniera integrata e funzionale a quelle che la prima gestisce nel paese di origine o altrove (Caroli, 2008). L’IDE può essere realizzato tramite due modalità:
Insediamento di nuove strutture produttive che implicano l’incremento della capacità produttiva nel territorio ospitante (investimento di tipo greenfield);
Acquisizione della proprietà (o quantomeno di una quota di controllo) di aziende già esistenti nel paese estero (Caroli, 2008).
Se l’IDE è realizzato in zone precedentemente destinate alla produzione e rese disponibili attraverso una attività di conversione o bonifica, esso è detto brownfield. Da rilevare è che, in alcuni casi la scelta della modalità può essere obbligata da alcune condizioni imposte da legislazioni locali, oppure da alcuni condizioni di favore offerte dal governo locale, ma vincolate all’attuazione di qualche modalità di internazionalizzazione. I possibili obiettivi alla base di un investimento diretto estero possono essere:
L’avvicinamento al mercato;
La riduzione dei costi di produzione;
L’avvicinamento alle fonti di generazione di input produttivi rilevanti;
L’acquisizione di risorse (materiali e immateriali) rilevanti per competere e non disponibili in maniera adeguata nell’area geografica di origine;
La razionalizzazione della struttura produttiva internazionale per aumentare l’efficienza complessiva e ottimizzare la dislocazione geografica della capacità produttiva (Caroli, 2008).
58
2.8
Scelte localizzative e attrattività dei paesi
La scelta di dove indirizzare la propria internazionalizzazione è molto importante. La decisione relativa a quale area o nazione scegliere influenza, infatti, tutti gli altri elementi del processo di internazionalizzazione. Essa, inoltre, non è reversibile, se non subendo ingenti costi. Presentiamo ora alcuni modelli che vogliono fornire degli strumenti per la scelta localizzativa. Il primo modello che presentiamo è quello del vantaggio competitivo delle nazioni di Porter (1990). I principi sui quali l’autore ha basato la sua analisi sono due:
Per analizzare la competitività delle nazioni occorre concentrarsi sulla performance delle imprese. Il ruolo delle nazioni è, infatti, quello di creare un contesto nel quale le imprese possano svilupparsi;
Affinché il vantaggio competitivo delle nazioni sia sostenibile, è necessario che queste abbiano un vantaggio dinamico. Le imprese devono, cioè, poter accrescere il loro vantaggio competitivo attraverso l’innovazione e il miglioramento (Grant, 2006).
Il modello del vantaggio competitivo delle nazioni di Porter (1990) assume la forma di un diamante, all’interno del quale vi sono quattro caratteristiche delle nazioni che possono influenzarne l’attrattività. All’interno del modello questi elementi si influenzano anche tra di loro. Essi sono:
Condizioni dei fattori di produzione: fondamentale è il ruolo delle risorse sviluppate internamente, mentre a seguire importante è anche quello delle risorse altamente specializzate. La disponibilità limitata delle risorse può stimolare lo sviluppo di competenze aventi una funzione sostitutiva di esse (Grant, 2006);
Condizioni della domanda: esse costituiscono il principale stimolo alle innovazioni e al miglioramento della qualità (Grant, 2006). Un grande mercato interno può fornire alle imprese benefici relativi alla grande domanda. La domanda, fornisce, inoltre, informazioni sul mercato e nel caso di beni sofisticati, può stimolare l’innovazione (Porter, 1990);
Settori collegati e di supporto: in molti settori una risorsa fondamentale è la presenza di settori correlati e di sostegno. Porter (1990) affermò che i punti di forza di un paese tendono a essere associati a dei “raggruppamenti” di settori (Grant, 2006).
Strategia e struttura dell’impresa e della concorrenza: la concorrenza ha il ruolo di stimolare l’innovazione e la ricerca del vantaggio competitivo. La concorrenza interna ad 59
una nazione è, generalmente, più forte rispetto a quella tra imprese di nazioni diverse (Grant, 2006).
Figura 2.2
Il diamante del vantaggio competitivo delle nazioni Firm strategy, structure and rivalry
Factor conditions
Demand conditions
Related and supported industries
Fonte: Adattamento da Porter, 1990, “The eclectic competitive advantage of nations”, Harward Business review
Secondo Caroli (2008) i fattori considerati nella valutazione dell’attrattività di un territorio possono essere raggruppati in otto sottoinsiemi:
Mercato;
Risorse umane;
Infrastrutture materiali;
Tessuto economico;
Istituzioni e politiche pubbliche;
Sistema normativo;
Qualità sociale e ambientale;
Immagine e reputazione del territorio.
La scelta dell’impresa dipende non solo da come si presentano i fattori di attrattività del territorio, ma anche dall’orientamento dell’impresa relativamente a tre questioni:
La scelta relativa alla configurazione sovralocale della catena del valore;
Le modalità di acquisizione dei fattori di vantaggio competitivo attraverso le relazioni con gli interlocutori del nuovo contesto insediativo;
La dinamica attraverso cui si attua la valorizzazione all’interno di tutta l’impresa delle competenze acquisite in una determinata zona geografica (Caroli, 2008). 60
Il grado di attività di un’area geografica è funzione della qualità delle relazioni che l’impresa può attivare con gli attori che costituiscono il sistema territoriale (Caroli, 2008).
61
Figura 2.3
Tassonomia dei criteri di valutazione dell’attrattività di un territorio
Mercato
Risorse umane
Infrastrutture
Tessuto economico
Istituzioni e politiche pubbliche
Sistema normativo
Qualità sociale e ambientale
Immagine e reputazione
Dimensione e tasso di crescita
Caratteristiche qualitative della domanda
Prossimità ad altri mercati
Dimensioni della forza lavoro
Qualità delle risorse umane componenti la forza lavoro
Costo del lavoro
Flessibilità del lavoro
Relazioni industriali
Trasporti
Telecomunicazioni
Infrastrutture logistiche
Sistema universitario e della formazione superiore
Servizi di pubblica utilità
Accesso e disponibilità delle materie prime
Qualità e dimensione dei territori locali
Sistema distributivo
Sistema finanziario
Struttura del sistema industriale locale
Risorse country specific
Pubblica amministrazione centrale e locale
Istituzioni economiche locali
Politiche economiche e industriali
Politiche per l’impresa
Politiche per gli investimenti diretti esteri
Leggi e regolamenti in materia amministrativa e ambientale
Leggi e regolamenti in materia contrattuale e societaria
Normativa fiscale
Regolamentazioni settoriali
Coesione sociale
Sicurezza
Qualità ambientale e urbanistica
Qualità culturale, artistica e ricreativa
Reputazione generale del luogo
Reputazione del luogo come sede di attività produttive
Politiche d’immagine
Fonte: Caroli, 2008, “Gestione delle imprese internazionali. Seconda edizione”, McGraw-Hill
62
2.9
Il processo di internazionalizzazione
Il processo di internazionalizzazione è stato oggetto di una vasta ricerca empirica e teorica. A livello internazionale le principali scuole che si possono identificare sono relative all’internationalization model di Johanson e Vahlne (1977) e all’innovation-related internationalization model di Cavusgil (1980) (Gankema, Snuif e Zwart, 2000). Un modello italiano che descrive queste dinamiche è, invece, quello di Caroli (2008). In questo paragrafo noi presenteremo questi modelli. Johanson e Vahlne (1977) vedono il processo di internazionalizzazione come una serie di fasi successive, nel quale l’impegno internazionale dell’impresa aumenta in relazione alla conoscenza e all’apprendimento dell’impresa sul mercato estero (Iacobucci e Spigarelli, 2007). Gli state aspects sono due: le risorse impegnate nei mercati esteri (market commitment) e la conoscenza del mercato estero posseduta dall’impresa in un determinato momento (Johanson e Vahlne, 1977). Il commitment cresce al crescere dell’integrazione delle risorse all’estero con le risorse allocate in altre parti dell’impresa. Inoltre il commitment è maggiormente elevato se le risorse sono specializzate. La conoscenza, invece, si presume essere alla base delle decisioni. Quest’ultime, inoltre, dipendono dal grado di conoscenza posseduta (Johanson e Vahlne, 1977). C’è una correlazione tra conoscenza e commitment, in quanto la conoscenze è considerata una risorsa e quindi una maggior conoscenza porta a un maggior commitment. I change aspects, invece, sono le attività correnti (current activities) e le decisioni di investimento di maggiori risorse. Le attività correnti sono soggette a un ritardo nella manifestazione dei loro effetti. Maggiore è questo ritardo, maggiore sarà il commitment. Le decisioni relative al commitment hanno, invece, due tipi di effetti: effetti economici ed effetti di incertezza (Johanson e Vahlne, 1977). I primi sono associati alla scala delle operations dell’impresa, mentre le seconde sono associate all’incertezza dei mercati. Le imprese sviluppano il loro impegno nel mercato estero attraverso il seguente processo:
Nella fase iniziale vengono svolte solo esportazioni non regolari;
Nella seconda fase le esportazioni aumentano e vengono veicolate attraverso un distributore indipendente e poi attraverso una filiale commerciale;
L’impresa decide, poi, l’investimento diretto estero (Johanson e Vahlne, 1977).
63
Figura 2.4
L’internationalzation model di Johanson e Vahlne (1977) State aspects
Change aspects
Market knowledge
Commitment decisions
Market commitment
Current activities
Fonte: Johanson e Vahlne, 1977, “The internationalization process of the firm – a model of knowledge development and increasing foreign market commitments”, Journal of international business studies
L’innovation-related internationalization model di Cavusgil (1980) viene chiamato anche Imodel, per distinguersi dal modello di Johanson e Vahlne. Quest’ultimo, infatti, è chiamato anche U-model, da Uppsala, la quale è una città della Svezia. L’I-model (Cavusgil, 1980) concentra la spiegazione delle fasi del processo internazionale sulla dinamica e sul trend della propensione all’esportazione dell’impresa (Iacobucci e Spigarelli, 2007). Il processo di internazionalizzazione è considerato analogo al processo di adozione di un prodotto (Gankema, Snuif e Zwart, 2000). Ogni stage rappresenta una “innovazione”:
Stage 1: marketing domestico. L’impresa è interessata solo al mercato domestico e non esporta. L’impresa non intende effettuare esperimenti nel campo delle esportazioni;
Stage 2: Pre-export. L’impresa cerca informazioni e valuta la fattibilità delle attività esportative. Le informazioni necessarie, come i costi, i rischi, i canali distritutivi, ecc. sono carenti. L’indice export/fatturato è vicino a 0;
Stage 3: Coinvolgimento sperimentale. L’impresa comincia ad esportare in piccole quantità. L’export in paesi lontani (anche culturalmente è limitato). Il coinvolgimento è marginale e intermittente. L’indice export/fatturato varia da 0 a 9%.
Stage 4: Coinvolgimento attivo. C’è un sistematico sforzo per aumentare il fatturato da esportazioni, anche in più paesi. Un’organizzazione adatta è pronta a supportare queste attività. L’indice export/fatturato varia da 10 a 39%.
Stage 5: Coinvolgimento impegnativo. L’impresa è profondamente dipendente dai mercati esteri. I manager sono continuamente impegnati in decisioni relative all’allocazione di risorse limitate ai mercati esteri. Molte imprese sono coinvolte in investimenti diretti esteri e accordi di licensing. L’indice export/fatturato è 40% o più (Cavusgil, 1980).
64
Il processo evolutivo dell’internazionalizzazione è stato teorizzato anche da Caroli (2008). Secondo l’autore questa “evoluzione” è atta a far assumere all’impresa una certa configurazione strategica e organizzativa. Le fasi che egli identifica sono quattro:
Entrata nel mercato estero: l’impresa definisce l’area geografica nella quale collocarsi, definisce gli obiettivi di tale insediamento e pone in essere le attività di base per il raggiungimento di questo fine. Durante questa fase l’impresa compie una prima analisi sulle risorse disponibili e su quelle necessarie.
Assestamento della presenza sul mercato estero: questa fase consiste nella gestione dell’impatto economico, strategico e organizzativo della nuova dimensione geografica dell’attività. Vengono definite le routine da mantenere e spesso vengono trascritte in un piano strategico di medio termine le attività da svolgere.
Sviluppo della posizione competitiva nel mercato estero: c’è una spinta “innovativa” che porta le operazioni internazionali ad avere importanza analoga, se non superiore, a quelle nel paese d’origine. L’impresa entra progressivamente a far parte di una rete esterna da cui emergono fattori di stimolo e di vincolo. In questa fase comincia ad emergere il trade-off tra autonomia delle filiali e controllo della casa-madre.
Razionalizzazione della posizione internazionale: la catena del valore di ogni area di business nel quale l’impresa opera viene riorganizzata a livello globale. Le relazioni tra filiali e casa-madre assumono sempre maggiore complessità e diventano un fondamentale elemento della posizione competitiva a livello globale. È necessario intervenire in quattro ambiti: organizzazione del portafoglio dei mercati, determinazione del ruolo di ciascun mercato nella strategia globale, riorganizzazione della catena del valore sulla base delle sinergie e dei vantaggi competitivi a livello locale, organizzazione di una rete interna, nella quale si consolidano le relazioni tra tutte le sussidiarie e la casa-madre (Caroli, 2008).
2.10
Conclusioni
In questo capitolo abbiamo effettuato una ricognizione della letteratura in tema di internazionalizzazione. Quest’ultima è molto vasta, perciò, in questa sede abbiamo preferito concentrarci sulle questioni maggiormente attinenti alla nostra ricerca. Abbiamo, in particolare, presentato le teorie che spiegano le motivazioni, per le quali le imprese tendono 65
ad internazionalizzarsi. Abbiamo riportato i principali modi di entrata, da parte delle imprese, in nuovi paesi e le principali caratteristiche e i vantaggi e gli svantaggi maggiormente rilevanti di ognuna di queste modalità. Abbiamo, quindi, presentato le teorie che definiscono i criteri di localizzazione dei nuovi insediamenti produttivi delle imprese. Per concludere abbiamo riportato le teorie che vedono l’internazionalizzazione come un processo dinamico. Nei seguenti capitoli svolgeremo delle analisi sulle imprese italiane e discuteremo i risultati, alla luce di quanto presentato in questo capitolo.
66
3
3.1
ANALISI DEI DATI
Premessa
In questo capitolo svolgiamo una analisi statistica relativa ai modelli di internazionalizzazione adottati dalle medie imprese. Questa disamina è di tipo comparato, ovvero le strategie delle medie imprese vengono confrontate con quelle delle piccole e delle grandi imprese. I dati provengono da un campione fornito da Unicredit. Le analisi che facciamo riguardano l’export, le strategie di penetrazione commerciale e quelle di produzione all’estero. Relativamente a quest’ultima, vengono svolte anche delle analisi sulle motivazioni e sull’attività svolta. Al fine di aumentare la profondità dell’analisi viene, infine, svolta anche una analisi delle principali strategie, comparando i risultati ottenuti adottando le definizioni di media impresa fornite dall’Unione Europea, da GE Capital e da Mediobanca R&S.
3.2
Il campione
Al fine di analizzare il tessuto produttivo italiano e le direttive di competitività di piccole, medie e grandi imprese noi ricorreremo ad una analisi di tipo statistico. Per far questo ci avvarremo di un campione fornito da Unicredit. Esso contiene rilevazioni su 5.137 imprese provenienti da ogni area dell’Italia. La dimensione minima è di 11 dipendenti, perciò nella nostra analisi esuleremo dalle micro-imprese, inoltre ci concentreremo sulle imprese manifatturiere. I settori di attività delle imprese aventi un fatturato non inferiore a un milione di euro, e con un numero di addetti maggiore di 10 considerati nell’universo di riferimento, sono: l’industria alimentare, delle bevande e del tabacco, l’industria tessile e dell’abbigliamento, l’industria del cuoio, pelli e calzature, l’industria del legno e dei prodotti in legno, l’industria della carta, stampa ed editoria, la fabbricazione di coke e le raffinerie di petrolio, l’industria chimica, l’industria della gomma e delle materie plastiche, la lavorazione dei metalli non metalliferi, la metallurgia, l’industria meccanica, l’industria elettronica, la fabbricazione di mezzi di trasporto, le altre industrie manifatturiere (Unicredit, 2008). Le rilevazioni sono state effettuate sulla base di un questionario, il quale è riportato nel “Rapporto Corporate Unicredit 2008, decima indagine sulle imprese manifatturiere in Italia”. Esso si basa su un confronto tra gli andamenti delle imprese nel triennio 2004 – 2006. I dati relativi ai questionari sono stati poi ricontrollati e sottoposti ad un esame critico dal personale 67
di Unicredit addetto alla ricerca. Per i dati di bilancio sono state utilizzate le banche dati AIDA e CEBI, inoltre il campione viene ritenuto statisticamente rappresentativo (Unicredit, 2008). La consistenza numerica dei vari aggregati per dimensione (classe di addetti) e zona geografica di provenienza dell’impresa sono sotto riportati, nelle seguenti tabelle.
Figura 3.1
Suddivisione del campione Unicredit per classe di addetti Classe di addetti 11 – 20 21 – 50 51 – 250 251 – 500 Oltre 500 Totale
Numero 1.721 1.575 1.421 235 185 5.137
% 33,5 30,6 27,7 4,6 3,6 100,0
Fonte: elaborazione propria su dati provenienti dal “Rapporto Corporate Unicredit 2008. Decima indagine sulle imprese manifatturiere in Italia”, Unicredit, 2008
Figura 3.2
Suddivisione del campione Unicredit per area geografica di appartenenza Aree geografiche Nord Ovest Nord Est Centro Mezzogiorno Totale
Numero 2.203 1.486 836 612 5.137
% 42,9 28,9 16,3 11,9 100,0
Fonte: elaborazione propria su dati provenienti dal “Rapporto Corporate Unicredit 2008. Decima indagine sulle imprese manifatturiere in Italia”, Unicredit, 2008
Figura 3.3
Suddivisione del campione Unicredit per classe di addetti e area geografica di appartenenza (val. assoluti)
11-20
Nord ovest Nord est 754 459
Centro 299
Sud 209
Totale 1.721
21-50
684
460
252
179
1.575
51-250
578
442
222
179
1.421
251-500
104
73
34
24
235
Oltre 500
83
58
27
17
185
2.203
1.492
834
608
5.137
Totale
Fonte: elaborazione propria su dati provenienti dal “Rapporto Corporate Unicredit 2008. Decima indagine sulle imprese manifatturiere in Italia”, Unicredit, 2008
Al fine di utilizzare il campione Unicredit in nostro possesso per effettuare l’analisi delle strategie internazionali delle piccole, medie e grandi imprese è stato effettuato un lavoro preliminare finalizzato a rendere i dati maggiormente adatti ai nostri scopi. Per la definizione delle soglie dimensionali delle imprese noi abbiamo fatto ricorso, come richiamato anche in precedenza a quanto stabilito dall’Unione Europea nel 2011. Secondo tali 68
limiti le piccole imprese hanno meno di 50 addetti, mentre è sufficiente che sia rispettato uno dei seguenti parametri economici: fatturato annuo non superiore a 10 milioni di euro e totale di bilancio annuo non superiore a 10 milioni di euro. Le medie imprese hanno meno di 250 addetti, e rispettano almeno un parametro tra 50 milioni di euro di fatturato annuo e 43 milioni di euro di totale di bilancio annuo. Le grandi imprese superano tali soglie (Ue, 2011).
Figura 3.4
Definizione di micro, piccole e medie imprese dell’Unione Europea (allegato alla raccomandazione 2003/361/CE) Effettivi: Unità lavorative - anno (ULA)
Totale di bilancio annuo
Fatturato annuo
Medie
< 250
<= 50 milioni di €
Oppure
<= 43 milioni di €
Piccole
< 50
<= 10 milioni di €
Oppure
<= 10 milioni di €
Micro
< 10
<= 2 milioni di €
Oppure
<= 2 milioni di €
Fonte: “La nuova definizione di PMI”, Unione Europea, 2011
A seguito del lavoro preliminare di preparazione del campione per l’analisi e dell’applicazione di questa definizione, noi lavoreremo con dei dati che si riferiscono al seguente numero di piccole, medie e grandi imprese.
Figura 3.5
Ripartizione del campione che verrà analizzato per classi dimensionali di impresa Numero
In %
Piccole imprese
1224
43,65%
Medie imprese
1208
43,08%
Grandi imprese
372
13,27%
2804
100,00%
Totale Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Nella seguente tabella riportiamo le principali produzioni delle piccole, medie e grandi imprese che abbiamo presentato. Esse sono riportate in forma di codici ATECO, secondo la classificazione del 2002. I principali settori sono la “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” (codice 29), la “Fabbricazione e lavorazione dei prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti” (28), le “Industrie alimentari e delle bevande” (15), le “Industrie tessili” (17), la “Fabbricazione di mobili; altre industrie manifatturiere” (36) e la “Metallurgia” (27).
69
Figura 3.6
Ripartizione del campione che verrà analizzato per settore e classe dimensionale di impresa (*) Cod. ATECO 2002
% di imprese su totale imprese Piccole Medie Grandi imprese imprese imprese 0,00 0,00 0,00
Estrazione di carbon fossile, ecc.
10
Estr. petrolio greggio, gas naturale, e servizi connessi
11
0,00
0,00
0,00
Estr. di minerali di uranio e torio
12
0,00
0,00
0,00
Estr. di minerali metalliferi
13
0,00
0,00
0,00
Altre industrie estrattive
14
1,88
0,83
0,27
Industrie alimentari e delle bevande
15
9,72
7,95
9,95
Industria del tabacco
16
0,00
0,00
0,00
Industrie tessili
17
6,45
8,36
6,72
Abbigliamento e pellicce
18
3,43
3,15
2,96
Concia del cuoio, borse, calzature, ecc.
19
3,19
4,14
2,42
Indust. del legno e prod., esclusi mobili
20
3,19
1,82
1,08
Fabbricaz. pasta carta, carta, cartone
21
2,94
2,40
1,08
Editoria, stampa e riprod. supporti reg. Fabbricaz. Coke, raffinerie petrolio e combustibili nucleari Fabbric. prod. chimici e fibre sintetiche
22
3,51
2,24
1,88
23
0,49
0,33
1,88
24
4,82
5,79
8,33
Fabbr. articoli in gomma e mat. plastiche
25
5,39
4,80
3,76
Fabbr. prod. della lavoraz. di minerali non metalliferi
26
6,29
6,04
8,60
Metallurgia Fabbr. e lav. prod. in metallo, esclusi macchine e impianti Fabbr. di macchine e apparecchi meccanici Fabbr. di macch. per ufficio, elaboratori e sistemi informatici Fabbr. di macch. ed apparecchi elettrici nca
27
2,45
5,46
9,95
28
14,87
12,58
8,87
29
14,54
15,89
14,78
30
0,65
0,17
0,54
31
3,76
4,30
4,84
Fabbr. appar. Radiotelevisivi e comunic. Fabbr. appar. medicali, di precisione, strumenti ottici e orologi Fabbr. di autoveicoli, rimorchi e ecc.
32
1,80
1,49
1,34
33
2,78
1,82
1,34
34
0,98
1,99
3,49
Fabbr. di altri mezzi di trasporto
35
0,49
1,24
2,15
Fabbr. mobili e altre ind. manifatturiere
36
6,37
7,20
3,76
(*) I settori sono riportati in forma di codici ATECO secondo la classificazione Istat del 2002 (http://www.istat.it/it/files/2011/03/ateco2002.pdf?title=Classificazione+Ateco+2007+-+01%2Fott%2F2009++Ateco+2002+-+Volume+integrale.pdf)
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
70
3.3
Le esportazioni
Cominciamo ora col presentare i dati sulle esportazioni per zona geografica e dimensione dell’impresa. Per far questo usiamo due stimatori: la percentuale di imprese che esportano, sul totale delle imprese, per dimensione, e la percentuale derivata dal quoziente tra il valore del fatturato esportato e il valore del fatturato totale annuo. Questi dati si riferiscono al solo anno 2006. Una annotazione importante è che, da ora in avanti, un asterisco sul valore delle medie imprese starà ad indicare la significatività a livello 95% del test di ineguaglianza delle medie dei valori di piccole imprese e di quelli delle medie imprese. Analogamente un asterisco sui valori delle grandi imprese starà ad indicare la significatività, a livello 95%, del test di ineguaglianza delle medie dei valori di grandi imprese e di quelli di medie imprese. Figura 3.7
Percentuale di imprese esportatrici e percentuale dell’export sul fatturato totale, per dimensione di impresa % di imprese che esportano
% Esportazioni sul fatturato totale
Piccole imprese
58,25
23,77
Medie imprese
74,67*
33,79*
Grandi imprese
81,99*
38,55*
* Un asterisco sul valore delle medie imprese indica significatività a livello 95% del test unidirezionale effettuato tra i valori delle piccole e quelli delle medie imprese; un asterisco sul valore delle grandi imprese indica significatività a livello 95% del test unidirezionale tra i valori delle medie e i valori delle grandi imprese. Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
71
Figura 3.8
Percentuale di imprese esportatrici e percentuale dell’export sul fatturato totale, per dimensione di impresa 90,00
81,99
80,00
74,67
70,00 60,00
58,25
50,00 40,00 30,00
38,55
33,79
% di imprese che esportano % Esportazioni sul fatturato totale
23,77
20,00 10,00 0,00 Piccole
Medie
Grandi
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come si può vedere sembra esserci una relazione diretta tra le dimensioni dell’impresa e entrambi i nostri stimatori, sia nel caso della percentuale di imprese esportatrici sia nel caso del peso del fatturato esportato sul fatturato totale. Le medie imprese manifatturiere non si dimostrano essere alla pari delle grandi imprese industriali né per numero di imprese esportatrici, né per percentuale delle esportazioni sul fatturato totale. In entrambi i casi, però, le imprese di media dimensione dimostrano di avere dei valori superiori a quelli delle piccole imprese. Al fine di introdurre una maggiore profondità nella nostra analisi, presentiamo la seguente tabella. Essa riporta i dati delle percentuali delle esportazioni, in ognuna delle aree territoriali oggetto di analisi, sul fatturato esportato totale. Tale analisi è stata effettuata con riferimento anche alla dimensione dell’impresa. I paesi dell’Unione europea dei 15 sono Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Danimarca, Irlanda, Regno Unito, Grecia, Portogallo, Spagna, Australia, Finlandia e Svezia. I paesi entrati nell’Ue nel 2004 sono Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria.
72
Figura 3.9
Percentuale di imprese esportatrici e percentuale di esportazioni in ogni area su fatturato esportato totale, per dimensione di impresa e area geografica Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese % % % % imprese esportazioni % imprese esportazioni % imprese esportazioni esportatrici su fatturato esportatrici su fatturato esportatrici su fatturato esportato esportato esportato
Paesi Ue15 Paesi entrati nell'Ue nel 2004 Russia Altri paesi europei (Turchia inclusa) Africa Asia (Cina esclusa) Cina Usa, Messico e Canada Centro e Sud America Australia e Oceania
53,27
75,50
68,54*
68,82*
73,92*
59,58*
6,29
20,02
12,42*
15,68*
16,40*
11,55*
4,33
14,18
7,04*
6,86*
11,29*
7,11
5,56
24,15
7,28*
8,92*
11,29*
7,32
3,59
17,95
6,29*
6,20*
6,99
5,31
6,62
21,20
11,51*
12,34*
16,13*
10,11
2,12
8,42
6,37*
4,95*
10,22*
5,79
9,97
13,88
18,54*
12,10*
29,84*
13,10
3,84
14,02
6,62*
6,08*
8,06
3,86*
2,12
8,59
3,97*
2,58*
6,18*
2,48
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.10
Percentuale imprese esportatrici, per dimensione di impresa e area geografica
80,00 70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
73
Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Figura 3.11
Percentuale esportazioni in ogni area su fatturato esportato totale, per dimensione di impresa e area geografica
80,00 70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00 Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Se osserviamo la percentuale di imprese che esportano, per area geografica, possiamo vedere che la percentuale di medie imprese che esportano è significativamente maggiore di quella delle piccole, per tutte le aree geografiche. La percentuale di grandi imprese che esportano, invece, è significativamente maggiore di quella delle medie imprese in tutti i casi, a parte due. Questi sono l’Africa e il Centro e Sud America. Questa tabella mostra, inoltre, come le piccole imprese concentrino le loro esportazioni maggiormente in alcune aree territoriali. La zona maggiormente importante per le loro esportazioni è quella dei paesi dell’Ue dei 15, che per le piccole imprese rappresentano più di tre quarti del fatturato esportato. Altre zone significative sono gli altri paesi europei, inclusa la Turchia e l’Asia (Cina esclusa), comunque in tutti le differenze tra piccole e medie imprese sono statisticamente significative. Per quanto riguarda le medie imprese, invece, abbiamo rilevato una significatività statistica nei test di ineguaglianza rispetto ai valori delle grandi imprese solo per quanto riguarda la percentuale media delle esportazioni nell’area Ue15 e dei paesi dell’Ue dal 2004 sul fatturato totale e lo stesso valore calcolato per il Centro e Sud America. In nessun altro caso è stata rilevata significatività a tali test. Possiamo pertanto affermare che le medie imprese, pur con una elevata concentrazione delle esportazioni nei paesi europei e nell’America Centromeridionale, tendano ad avere delle strategie di internazionalizzazione simili a quelle delle grandi imprese, almeno per quanto riguarda la scelta dei mercati serviti. Presentiamo ora una tabella che riporta il rapporto (in percentuale) tra esportazioni e fatturato totale annuo delle piccole, medie e grandi imprese. Queste informazioni ci servono per capire come la dimensione dell’impresa influenzi il grado di apertura internazionale, a seconda delle varie produzioni. 74
Figura 3.12
Percentuale esportazioni su fatturato, per dimensione di impresa e settori di appartenenza % esportazioni su fatturato
Codice ATECO 2002 Altre industrie estrattive
14
Piccole 7,00
Industrie alimentari e delle bevande
15
15,09
21,76*
19,86
Industrie tessili
17
29,86
33,50
47,28*
Abbigliamento e pellicce
18
26,88
31,29
45,18
Concia del cuoio, borse, calzature, ecc.
19
39,66
45,26
39,56
Indust. del legno e prod., esclusi mobili
20
9,11
14,59
7,75
Fabbricaz. pasta carta, carta, cartone
21
11,83
21,03*
48,75*
Editoria, stampa e riprod. supporti reg.
22
4,71
15,74*
11,57
Fabbricaz. Coke, raffinerie petrolio e comb. nucleari
23
23,83
9,00
21,43
Fabbric. prod. chimici e fibre sintetiche
24
26,03
33,41
32,03
Fabbr. articoli in gomma e mat. plastiche
25
17,62
31,17*
59,86*
Fabbr. prod. della lavoraz. di minerali non metalliferi
26
11,30
23,26*
25,09
Metallurgia
27
28,87
36,38
38,84
Fabbr. e lav. prod. in metallo, esclusi macch. e impianti
28
19,78
34,53*
41,06
Fabbr. di macchine e apparecchi meccanici
29
36,28
48,77*
54,64
Fabbr. di macch. per ufficio, elaboratori e sistemi infor.
30
12,50
5,00
60,00
Fabbr. di macch. ed apparecchi elettrici nca
31
28,33
35,37
41,06
Fabbr. appar. Radiotelevisivi e comunic. Fabbr. appar. medicali, di precisione, strum. ottici e orologi Fabbr. di autoveicoli, rimorchi e ecc.
32
25,14
37,89
62,00
33
34,33
37,00
39,20
34
49,58
22,25*
27,54
Fabbr. di altri mezzi di trasporto
35
19,17
42,00
48,13
Fabbr. mobili e altre ind. manifatturiere
36
35,70
35,22
40,50
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
75
Medie 8,50*
Grandi 8,00
Figura 3.13
Percentuale esportazioni su fatturato, per dimensione di impresa e settori di appartenenza
60,00 50,00 40,00 Piccole imprese
30,00
Medie imprese 20,00
Grandi imprese
10,00 0,00 14
15
17
18
19
20
21
22
70,00 60,00 50,00 40,00
Piccole imprese
30,00
Medie imprese Grandi imprese
20,00 10,00 0,00 23
24
25
26
27
28
29
70,00 60,00 50,00 40,00
Piccole imprese
30,00
Medie imprese Grandi imprese
20,00 10,00 0,00 30
31
32
33
34
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
76
35
36
La prima importante informazione che possiamo trarre da questa tabella è che in nessun settore le piccole imprese hanno un valore del quoziente esportazioni/fatturato significativamente superiore a quello delle medie imprese, eccezion fatta per il settore “Fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semi-rimorchi” (codice 34). In nessun caso le medie imprese, invece, hanno un valore significativamente maggiore a quello delle grandi imprese. Andando ad analizzare i dati per singolo settore, possiamo vedere che le medie imprese hanno valori significativamente maggiori a quelli delle piccole imprese nei settori “Altre industrie estrattive” (14), “Industrie alimentari e delle bevande” (15), “Fabbricazione della pasta-carta, della carta e del cartone e dei prodotti di carta” (21), “Editoria, stampa e riproduzione di supporti registrati” (22), “Fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche” (25), “Fabbricazione di prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi” (26), “Fabbricazione e lavorazione dei prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti” (28), “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” (29). Possiamo vedere, perciò, come i macro-settori nei quali le medie imprese si distinguono, nei confronti delle piccole, siano le industrie alimentari, cartiera e della stampa, meccanico-metallurgica e chimica. Nelle industrie tessili e dell’abbigliamento e delle pelli c’è, invece, sostanziale parità. Le grandi imprese risultano avere un peso delle esportazioni superiore rispetto alle medie nei seguenti settori: “Industrie tessili” (17), “Fabbricazione della pasta-carta, della carta e del cartone e dei prodotti di carta” (21), “Fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche” (25). Le grandi imprese, quindi, risultano maggiormente aperte all’internazionalizzazione nei settori tessile, cartiero, nel settore petrol-chimico che si riferisce alle plastiche. Nei settori meccanici risulta così esserci sostanziale parità tra medie e grandi imprese. In altri settori, come le industrie tessili, invece, c’è evidentemente una soglia dimensionale necessaria per avere una certa massa critica, tale da permettere la competizione internazionale. Per altri settori, come le industrie alimentari, l’editoria, parte dei settori chimici e della metallurgia e, soprattutto, la meccanica, invece, la massa critica necessaria per competere nei mercati esteri è raggiunta già da imprese di media dimensione e non c’è, poi, differenza nel peso delle esportazioni sul fatturato tra medie e grandi imprese. Vi sono, poi, delle produzioni nelle quali c’è una differenza nel peso dell’estero sul fatturato sia tra le piccole e le medie imprese, che tra le medie e le grandi imprese. Questi sono i settori cartieri e petrol-chimici.
77
3.4
Le strategie di penetrazione commerciale
Le strategie di penetrazione commerciale che analizziamo in questa sede possono assumere quattro modalità: strutture fisse a gestione diretta, strutture gestite da traders locali, strutture fisse gestite da imprese miste partecipate e, infine, altri tipi di azioni promozionali. Di queste solo l’ultima si configura come una strategia che non prevede necessariamente l’uso di una struttura fissa all’estero. Nella seguente tabella mostriamo le percentuali di imprese che si avvalgono, rispettivamente di strutture fisse proprie a gestione diretta all’estero, di strutture gestite da traders locali, di strutture fisse gestite da imprese miste partecipate e di altre forme promozionali all’estero.
Figura 3.14
Percentuale di imprese che adottano strategie di penetrazione commerciale, per dimensione d’impresa e tipo di strategia % di imprese con strutture fisse a gestione diretta all'estero
% di imprese che usano strutture fisse gestite da traders locali
% di imprese con strutture fisse gestite da imprese miste partecipate
% di imprese che usano altre forme promozionali all'estero
Piccole imprese
4,98
4,15
1,58
4,31
Medie imprese
9,18*
10,03*
3,12*
8,93*
Grandi imprese
13,71*
9,43
4,04
9,16
* Un asterisco sul valore delle medie imprese indica significatività a livello 95% del test unidirezionale effettuato tra i valori delle piccole e quelli delle medie imprese; un asterisco sul valore delle grandi imprese indica significatività a livello 95% del test unidirezionale tra i valori delle medie e i valori delle grandi imprese. Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
78
Figura 3.15
Percentuale di imprese che adottano strategie di penetrazione commerciale, per dimensione d’impresa e tipo di strategia
16,00 13,71
14,00
% di imprese con strutture fisse a gestione diretta all'estero
12,00 10,03 9,18 8,93
10,00
9,43
9,16
% di imprese che usano strutture fisse gestite da traders locali
8,00 6,00
4,98 4,15
4,31 3,12
4,00 2,00
4,04
1,58
% di imprese che usano altre forme promozionali all'estero
0,00 Piccole imprese
% di imprese con strutture fisse gestite da imprese miste partecipate
Medie imprese
Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come si può osservare, le percentuali delle medie imprese sono maggiori rispetto a quelle delle piccole imprese in tutti i casi sopra descritti. Altresì i valori delle grandi imprese sono significativamente maggiori di quelli delle medie imprese solo nel caso delle strutture fisse a gestione diretta. Questo denota, ancora una volta, una significativa somiglianza tra le strategie internazionali delle grandi imprese e quelle delle medie imprese. Risulta, infatti, evidente che le grandi imprese primeggiano rispetto alle medie imprese solamente nella modalità che è più impegnativa sia per costi e risorse necessarie che per il commitment dovuto. Al contrario è chiaro come tra le medie imprese e le piccole imprese questa comunanza non vi sia, in quanto le medie imprese presentano valori superiori in tutte le voci di cui sopra. Al fine di svolgere un’analisi maggiormente complessa sulle scelte in merito alla presenza in aree estere con strutture fisse a gestione diretta presentiamo la tabella sotto riportata. Questa ci serve a comprendere se le differenze emerse dalla precedente analisi si riferiscano solo a questioni numeriche oppure se vi siano anche delle scelte diverse sul piano dei mercati di riferimento nei quali scegliere la suddetta modalità d’entrata.
79
Figura 3.16
Percentuale di imprese con strutture fisse a gestione diretta all’estero
% di imprese con strutture fisse a gestione diretta all'estero
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Paesi Ue15
3,40
6,74*
8,09
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
0,41
0,84
3,23*
Russia
0,50
1,18*
1,89
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
0,58
0,67
2,43*
Africa
0,17
0,59*
0,81
Asia (Cina esclusa)
0,41
1,01*
2,16*
Cina
0,25
0,67
4,04*
Usa, Messico e Canada
0,50
1,60*
3,23*
Centro e Sud America
0,33
0,50
1,89*
Australia e Oceania
0,00
0,25*
0,27
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.17
Percentuale di imprese con strutture fisse a gestione diretta all’estero
9,00 8,00 7,00 6,00 5,00 4,00 3,00 2,00 1,00 0,00 Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Per quanto riguarda la differenza tra piccole e medie imprese possiamo osservare come i valori delle medie imprese siano maggiori di quelli delle piccole nei paesi dell’Unione Europea dei 15, in Russia, Africa, Asia (Cina esclusa), Nord America e Australia e Oceania. Volendo scendere maggiormente nel dettaglio si può notare che la differenza maggiore c’è proprio nei paesi europei dell’Unione dei 15, cioè i più vicini a noi. Per quanto riguarda invece le grandi imprese, possiamo osservare come non vi sia una significatività statistica nell’ipotesi che esse abbiano, in media, più strutture fisse a gestione diretta nei paesi dell’Unione Europea dei 15 rispetto alle medie imprese. I valori nei quali c’è una differenza statisticamente consistente e le grandi imprese hanno valori maggiori sono 80
relative ai paesi entrati nell’Ue nel 2004, agli altri paesi europei, in Asia e Cina e nelle Americhe. In linea generale queste sono le aree nelle quali le medie imprese si comportano come le piccole, a parte l’Asia e il Nord America, nei quali anche le medie imprese hanno un valore significativamente superiore a quello delle piccole imprese. Sembrano, pertanto, esserci delle aree nelle quali le medie imprese sono particolarmente ben insediate. Tra queste c’è una forte presenza nei grandi paesi europei, mentre in Russia e in Africa le medie imprese hanno, comunque un’attività paragonabile a quella delle grandi imprese. Con la seguente tabella andiamo ad effettuare un’analisi delle esportazioni delle imprese che si avvalgono di strutture fisse a gestione diretta all’estero.
Figura 3.18
Percentuale di imprese che esportano e percentuale di export su fatturato totale delle imprese con e senza strutture fisse a gestione diretta, per dimensione di impresa Imprese con strutture fisse a gestione diretta % di imprese che % Esportazioni esportano sul fatturato totale
Imprese senza strutture fisse a gestione diretta % di imprese che esportano
% Esportazioni sul fatturato totale
Piccole imprese
83,33
39,45
56,63
22,78
Medie imprese
88,99
42,11
73,19*
32,94*
Grandi imprese
96,08
48,61
79,69*
36,79*
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.19
Percentuale di imprese che esportano e percentuale di export su fatturato delle imprese con e senza strutture fisse a gestione diretta, per dimensione di impresa 120,00 100,00
88,99
83,33
40,00
79,69
73,19
80,00 60,00
96,08
56,63 39,45
42,11 32,94
48,61 36,79
22,78 20,00
% imprese che esportano (imprese con SFGD) % export su fatturato (imprese con SFGD) % imprese che esportano (imprese senza SFGD) % export su fatturato (imprese senza SFGD)
0,00 Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
81
Come si può vedere le imprese con strutture fisse a gestione diretta hanno, in media, esportazioni maggiori per tutte le classi dimensionali. E’ altresì vero che anche le percentuali di imprese che esportano sono maggiori nel caso delle strutture fisse a gestione diretta, tuttavia questo non ci stupisce. Se andiamo ad osservare la significatività delle differenze tra gli aggregati dimensionali, vediamo che non sembrano esservi differenze all’interno delle imprese con strutture fisse a gestione diretta. Al contrario, nelle altre c’è consistenza nei test sia per le differenze tra piccole e medie imprese che tra medie e grandi. Le imprese con strutture fisse a gestione diretta dimostrano, quindi, di riuscire ad ottenere le stesse performance, a prescindere dalla loro dimensione. Per analizzare eventuali concentrazioni delle esportazioni in delle aree geografiche per le imprese con strutture fisse a gestione diretta all’estero, presentiamo la tabella sotto riportata. Figura 3.20
Percentuale di export in ogni area su fatturato esportato totale delle imprese con strutture fisse a gestione diretta, per dimensione di impresa e area geografica
% Esportazioni su fatturato esportato
Imprese con strutture fisse a gestione diretta Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Paesi Ue15
67,02
63,51
51,43*
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
28,29
8,86*
7,96
Russia
21,00
5,53*
8,76
Altri paesi europei (Turchia esclusa)
13,33
10,47
5,12
Africa
28,75
6,77*
4,17
Asia (Cina esclusa)
23,57
16,25
16,40
Cina
10,00
2,79*
11,14*
Usa, Messico e Canada
14,44
12,77
12,10
Centro e Sud America
28,00
7,71*
4,25
6,67
2,58
1,81
Australia e Oceania Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
82
Figura 3.21
Percentuale di export in ogni area su fatturato esportato totale delle imprese con strutture fisse a gestione diretta, per dimensione di impresa e area geografica
80,00 70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00 Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come si può vedere la concentrazione del fatturato esportato delle piccole imprese con strutture fisse a gestione diretta, risulta meno accentuata rispetto a quella delle imprese che esportano (in generale). Le differenze vi sono nei paesi entrati nell’Ue nel 2004 e in Russia, in Africa e nel Centro e Sud America. Le medie imprese dimostrano, invece, una maggiore preferenza ai paesi europei maggiori, rispetto alle grandi imprese, mentre le grandi imprese preferiscono maggiormente la Cina rispetto alle medie. Questi risultati risultano coerenti con quanto visto in precedenza, ovvero che per le imprese internazionalizzate con strutture fisse a gestione diretta le differenze tra classi dimensionali si livellano. A quanto sembrerebbe questo avviene anche a livello di scelta del portafoglio dei mercati serviti. Data l’influenza che il possesso di strutture fisse a gestione diretta ha sui risultati internazionali, al fine di effettuare un confronto tra varie modalità di entrata in aree estere a fini di distribuzione, presentiamo ora una analisi basata, questa volta, sul ricorso a strutture gestite da traders locali. Cominciamo con la seguente tabella, la quale presenta la percentuale di imprese che si avvalgono di strutture fisse gestite da traders locali.
83
Figura 3.22
Percentuale di imprese con strutture gestite da traders locali, per dimensione di impresa e area geografica
% di imprese con strutture gestite da traders locali
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Paesi Ue15
2,49
6,91*
2,70*
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
0,50
2,70*
1,62
Russia
0,41
1,52*
2,16
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
0,41
0,84
1,89*
Africa
0,08
0,93*
0,81
Asia (Cina esclusa)
0,25
1,52*
3,23*
Cina
0,50
1,10*
1,89
Usa, Messico e Canada
0,75
1,60*
1,89
Centro e Sud America
0,00
1,01*
1,35
Australia e Oceania
0,25
0,76*
0,54
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.23
Percentuale di imprese con strutture gestite da traders locali, per dimensione di impresa e area geografica
8,00 7,00 6,00 5,00 4,00 3,00 2,00 1,00 0,00 Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo osservare le medie imprese ricorrono, in percentuale, a strutture gestite da traders locali in misura maggiore rispetto alle piccole imprese. Le differenze tra piccole e medie imprese sono, infatti, sempre significative a livello 95%, a parte che per l’area degli altri paesi europei. Minori sono i casi di significatività dei test di invarianza tra i valori di medie e grandi imprese. In questo caso, sono significativi solo i test per l’area degli altri paesi europei e per l’Asia (Cina esclusa) con i valori delle grandi imprese maggiori. Nel caso
84
dell’area dei paesi dell’Unione Europea dei 15 c’è significatività e sono i valori delle medie imprese ad essere maggiori. La seguente tabella ricalca il funzionamento di quella sopra presentata per le imprese che hanno strutture fisse a gestione diretta. Abbiamo scelto il ricorso a traders locali, in quanto è la strategia distributiva che comporta il minor commitment, anche minore rispetto alle strutture partecipate, le quali comunque comportano un esborso finanziario.
Figura 3.24
Percentuale di imprese che esportano e percentuale di export su fatturato totale delle imprese con e senza strutture gestite da traders locali, per dimensione di impresa Imprese con strutture gestite da traders locali % di imprese che % Esportazioni esportano sul fatturato totale
Imprese senza strutture gestite da traders locali % di imprese che esportano
% Esportazioni sul fatturato totale
Piccole imprese
86,00
35,84
56,75
23,06
Medie imprese
91,60
42,97*
72,75*
32,76*
Grandi imprese
100,00
58,66*
80,06*
36,30*
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.25
Percentuale di imprese che esportano e percentuale di export su fatturato totale delle imprese con e senza strutture gestite da traders locali, per dimensione di impresa
120,00 100,00 100,00
91,60 86,00 80,06
80,00
60,00
72,75
% export su fatturato (imprese con traders locali)
58,66
56,75 42,97
40,00
35,84
36,30
32,76
20,00
0,00 Medie imprese
% imprese che esportano (imprese senza traders locali) % export su fatturato (imprese senza traders locali)
23,06
Piccole imprese
% imprese che esportano (imprese con traders locali)
Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
85
Possiamo osservare come, analogamente a quanto avviene per le strutture fisse a gestione diretta all’estero, non vi siano sostanzialmente differenza, all’interno delle imprese che si avvalgono di traders, tra piccole e medie imprese nella percentuale di imprese che esportano. Inoltre, per quanto riguarda la quota di imprese che esportano, non c’è in questo caso alcuna differenza significativa neanche tra le medie e le grandi imprese. Al contrario, invece, per quanto riguarda la percentuale di fatturato derivante dall’export, vi sono significative differenze sia tra le piccole e medie imprese che tra le medie e le grandi. C’è, quindi, una diversità nel peso delle esportazioni sul fatturato, la quale segue la dimensione dell’impresa. Diversamente da quanto avviene, quindi, per le imprese con strutture fisse a gestione diretta, non c’è nel caso delle imprese che ricorrono a traders locali una similarità di strategie di export, indipendentemente dalla dimensione. Analogamente alle analisi svolte in precedenza, andiamo ad analizzare anche per il ricorso a traders locali la distribuzione tra le varie aree geografiche delle esportazioni. La tabella sotto riportata presenta tali dati per le varie classi dimensionali.
Figura 3.26
Percentuale di export in ogni area su fatturato esportato totale delle imprese con strutture gestite da traders locali, per dimensione di impresa e area geografica
% Esportazioni su fatturato esportato
Imprese che ricorrono a str. gestite da traders locali Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Paesi Ue15
72,45
64,78
48,19*
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
30,86
26,35
8,67
Russia
33,20
8,13*
12,75
Altri paesi europei (Turchia esclusa)
25,00
12,29
18,67
Africa
85,00
10,43
10,77
Asia (Cina esclusa)
23,20
17,28
18,60
6,00
6,60
12,00
Usa, Messico e Canada
15,17
16,62
12,27
Centro e Sud America
20,00
12,68
3,85*
Australia e Oceania
20,00
4,68
5,36
Cina
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
86
Figura 3.27
Percentuale di export in ogni area su fatturato esportato totale delle imprese con strutture gestite da traders locali, per dimensione di impresa e area geografica
90,00 80,00 70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00 Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia esclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
In questo caso c’è una differenza significativa tra le piccole e le medie imprese solo per quanto riguarda la Russia. Al contrario per i paesi Ue non c’è nessuna differenza sostanziale tra le piccole e le medie imprese. Differenza, che, invece, è presente in tali aree tra le medie e le grandi imprese, con le prime maggiormente concentrate in tale zona. Inoltre le medie imprese esportano maggiormente rispetto alle grandi imprese anche nel Centro e Sud America. Questo ci restituisce un panorama nel quale le medie imprese che fanno ricorso ai traders locali sono, in media, molto simili sia alle piccole imprese che alle grandi imprese. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che, come detto anche in precedenza, i traders risultano essere la soluzione di penetrazione distributiva maggiormente economica sul piano dei costi, anche se probabilmente non la più efficace. Nella seguente tabella presentiamo le percentuali di imprese che hanno strutture fisse gestite da imprese miste partecipate, sul totale e per classe di addetti.
87
Figura 3.28
Percentuale di imprese con strutture gestite da imprese miste partecipate, per dimensione di impresa e area geografica
% di imprese con strutture fisse gestite da imprese miste partecipate
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Paesi Ue15
1,16
1,43
2,16
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
0,17
0,42
0,81
Russia
0,00
0,93*
0,27
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
0,00
0,00
1,08*
Africa
0,08
0,34
0,27
Asia (Cina esclusa)
0,08
0,34
1,35*
Cina
0,08
0,25
1,08*
Usa, Messico e Canada
0,25
0,51
1,08
Centro e Sud America
0,00
0,25
0,27
Australia e Oceania
0,00
0,00
0,27*
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.29
Percentuale di imprese con strutture gestite da imprese miste partecipate, per dimensione di impresa e area geografica
2,50 2,00 1,50 1,00 0,50
Piccole imprese Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
0,00
Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
La sola differenza significativa tra piccole e medie imprese è nell’area della Russia, mentre tra le medie e le grandi imprese le differenze significative vi sono nell’area degli altri paesi europei, dell’Asia e Cina e dell’Oceania. Per quanto riguarda le altre aree vediamo che, comunque, le tendenze sono a dei valori delle medie imprese maggiori rispetto a quelli delle piccole e quelli delle grandi maggiori di quelli delle medie. Nella seguente tabella riportiamo i valori percentuali delle imprese con strutture fisse gestite da imprese miste partecipate che esportano sul totale e la percentuale derivante dal quoziente 88
tra esportazioni e fatturato delle imprese che hanno strutture fisse gestite da imprese miste partecipate. Questi valori vengono, inoltre, confrontati con quelli delle imprese che non adottano questa forma di penetrazione commerciale.
Figura 3.30
Percentuale di imprese che esportano e percentuale di export su fatturato totale delle imprese con e senza strutture gestite da imprese miste partecipate, per dimensione di impresa Imprese con strutture fisse gestite da imprese miste partecipate % % di imprese Esportazioni che esportano sul fatturato totale
Imprese senza strutture fisse gestite da imprese miste partecipate % % di imprese Esportazioni che esportano sul fatturato totale
Piccole imprese
73,68
33,82
57,71
23,43
Medie imprese
89,19
46,95
74,17*
33,36*
Grandi imprese
100,00
53,13
81,18*
37,79*
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.31
Percentuale di imprese che esportano e percentuale di export su fatturato totale delle imprese con e senza strutture gestite da imprese miste partecipate, per dimensione di impresa
120,00 100,00 100,00 80,00 60,00 40,00
89,19
81,18
74,17
73,68 57,71 33,82
% export su fatturato (imprese con SFGIMP)
53,13
46,95
37,79
33,36
% imprese che esportano (imprese con SFGIMP)
23,43
20,00
% imprese che esportano (imprese senza SFGIMP) % export su fatturato (imprese senza SFGIMP)
0,00 Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come si può osservare per quanto riguarda le imprese che ricorrono a strutture gestite da imprese partecipate non vi sono significative differenze né tra le quote medie di imprese esportatrici per classe dimensionale, né nella percentuale dell’export sul fatturato totale tra piccole, medie e grandi imprese. Questo suggerirebbe un andamento analogo a quello già visto per le strutture fisse a gestione diretta. In questo caso le strutture sono solo partecipate, il commitment in tali iniziative può essere variabile da una situazione all’altra. Si presume, però, 89
che tale impegno sia, comunque, maggiore di quello profuso nel ricorso alla mediazione di traders. Presentiamo ora anche i dati relativi alla distribuzione del fatturato esportato delle imprese con strutture fisse gestite da imprese miste partecipate, per dimensione di impresa. Possiamo vedere come non vi sia alcuna differenza significativa tra i valori dei vari aggregati dimensionali nemmeno analizzando per ogni singola area geografica.
Figura 3.32
Percentuale di export in ogni area su fatturato esportato totale delle imprese con strutture gestite da imprese miste partecipate, per dimensione di impresa e area geografica Imprese con str. fisse gestite da imprese miste partecipate
% Esportazioni su fatturato esportato
Piccole imprese 75,85
Medie imprese 61,38
Grandi imprese 57,80
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
13,00
8,00
5,00
Russia
20,00
17,31
8,64
6,00
5,45
Paesi Ue15
Altri paesi europei (Turchia esclusa) Africa
60,00
13,64
5,56
Asia (Cina esclusa)
20,00
15,38
8,00
8,00
7,27
18,33
8,00
Centro e Sud America
12,50
15,00
Australia e Oceania
10,00
23,33
Cina Usa, Messico e Canada
8,33
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.33
Percentuale di export in ogni area su fatturato esportato totale delle imprese con strutture gestite da imprese miste partecipate, per dimensione di impresa e area geografica
80,00 70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
90
Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia esclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Presentiamo i dati attinenti alla percentuale di imprese che svolgono altri tipi di azioni promozionali all’estero.
Figura 3.34
Percentuale di imprese con altri tipi di azioni promozionali, per dimensione di impresa e area geografica
% di imprese con altri tipi di azioni promozionali
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Paesi Ue15
3,07
6,32*
5,93
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
0,33
1,35*
1,08
Russia
0,58
1,60*
1,62
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
0,50
0,51
1,35*
Africa
0,17
0,59*
0,54
Asia (Cina esclusa)
0,75
1,52*
1,35
Cina
0,50
1,18
0,54
Usa, Messico e Canada
0,41
1,68*
1,89
Centro e Sud America
0,25
0,59
1,35
Australia e Oceania
0,00
0,17
0,27
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.35
Percentuale di imprese con altri tipi di azioni promozionali, per dimensione di impresa e area geografica
7,00 6,00 5,00 4,00 3,00 2,00 1,00 0,00 Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo osservare, le medie imprese hanno valori più elevati rispetto alle piccole imprese. C’è, inoltre, significatività per quanto riguarda le aree dei paesi dell’Unione Europea, sia i 15 che quelli entrati nel 2004, dell’Africa, dell’Asia (Cina esclusa) e del Nord America. Per quanto riguarda le differenze tra i valori delle medie e delle grandi imprese vediamo una sola significatività, nell’area degli altri paesi europei. Questo ci dice che questa 91
strategia è usata dalle medie e dalle grandi imprese in modo strategicamente simile, almeno per quanto riguarda la distribuzione geografica. Nella seguente tabella, per completare il quadro, presentiamo le quote di imprese esportatrici e la percentuale di fatturato derivante da esportazioni sul fatturato totale, per le imprese che ricorrono ad altri tipi di azioni promozionali.
Figura 3.36
Percentuale di imprese che esportano e percentuale di export su fatturato totale delle imprese con altri tipi di azioni promozionali, per dimensione di impresa Imprese con altre azioni promozionali % di imprese che esportano
% Esportazioni sul fatturato totale
Imprese senza altre azioni promozionali % Esportazioni % di imprese che sul fatturato esportano totale
Piccole imprese
86,54
52,38
56,67
22,41
Medie imprese
88,68
44,25*
73,27*
32,77*
Grandi imprese
100,00*
55,62*
80,12*
36,68*
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.37
Percentuale di imprese che esportano e percentuale di export su fatturato totale delle imprese con altri tipi di azioni promozionali, per dimensione di impresa
120,00 100,00 100,00
88,68
86,54
80,12
80,00 60,00
73,27 56,67 52,38
% imprese che esportano (imprese con altre forme prom.) % export su fatturato (imprese con altre forme prom.)"
55,62 44,25
40,00
36,68
32,77 22,41
20,00
% imprese che esportano (imprese senza altre forme prom.)
0,00 Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Per quanto riguarda le imprese che ricorrono ad altri tipi di azioni promozionali, possiamo osservare che i dati riguardanti le grandi imprese sono significativamente maggiori, rispetto a quelli delle medie imprese sia per la quota di imprese esportatrici sul totale, sia per la 92
percentuale di esportazioni sul fatturato totale. Al contrario non vi sono significative differenze tra le piccole e le medie imprese in tale statistica. Nel peso delle esportazioni sul fatturato, invece, le differenze significative vi sono sia tra piccole e medie imprese, che tra medie e grandi. Quest’ultima modalità di azioni di penetrazione commerciale e distributiva è una categoria residuale e questo probabilmente giustifica in parte questi risultati. Non riusciamo infatti a determinare il commitment necessario per queste operazioni e nemmeno il costo, relativamente maggiore o minore rispetto alle altre modalità. Sotto presentiamo l’analisi della distribuzione geografica delle esportazioni per la categoria di imprese che ricorrono ad altri tipi di azioni promozionali all’estero.
Figura 3.38
Percentuale di export in ogni area su fatturato esportato totale delle imprese con altri tipi di azioni promozionali, per dimensione di impresa e area geografica
% Esportazioni su fatturato esportato
Imprese che ricorrono a altri tipi di azioni promozionali Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Paesi Ue15
77,34
65,96*
65,03
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
27,50
7,55*
7,00
Russia
18,20
16,50
6,27
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
19,20
16,17
2,64
Africa
24,33
9,17*
1,54
Asia (Cina esclusa)
22,67
19,51
3,43*
7,29
2,40
Usa, Messico e Canada
15,75
13,14
13,77
Centro e Sud America
15,00
6,86
8,00
5,00
3,55
3,50
Cina
Australia e Oceania Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
93
Figura 3.39
Percentuale di export in ogni area su fatturato esportato totale delle imprese con altri tipi di azioni promozionali, per dimensione di impresa e area geografica
90,00 80,00 70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00 Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come si può notare, in questa analisi, non vi sono molte differenze significative tra le varie classi dimensionali di imprese. Le uniche differenze significative sono tra le piccole imprese e le medie imprese per quanto riguarda la quota di esportazioni nei paesi dell’Unione Europea dei 15 e dell’Africa e tra le medie e le grandi imprese per quanto riguarda l’area geografica dell’Asia, Cina esclusa. Questi risultati sembrano consistenti con quanto affermato prima a riguardo della residualità di questa categoria di imprese. Al fine di effettuare un confronto, proponiamo queste ulteriori tabelle, le quali rappresentano le imprese che non adottano alcuna strategia commerciale.
Figura 3.40
Percentuale di imprese che esportano e percentuale di export su fatturato totale delle imprese con nessuna strategia di penetrazione commerciale, per dimensione di impresa Imprese che non adottano nessuna strategia di penetrazione commerciale
% di imprese che esportano
% Esportazioni sul fatturato totale
Piccole imprese
54,09
21,26
Medie imprese
69,30*
30,28*
Grandi imprese
75,56*
32,86
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
94
Figura 3.41
Percentuale di imprese che esportano e percentuale di export su fatturato totale delle imprese con nessuna strategia di penetrazione commerciale, per dimensione di impresa 75,56
80,00 69,30
70,00 60,00
54,09
50,00 % di imprese che esportano 40,00
32,86
30,28 30,00
% Esportazioni sul fatturato totale
21,26
20,00 10,00 0,00 Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.42
Percentuale di export in ogni area su fatturato esportato totale delle imprese senza strategie di penetrazione commerciale, per dimensione di impresa e area geografica
% Esportazioni su fatturato esportato
Imprese che non adottano strategie di penetrazione commerciale Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Paesi Ue15
76,39
70,25*
62,82*
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
18,42
15,29
13,57
Russia
11,81
5,22*
5,47
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
24,98
7,42*
6,35
Africa
15,02
5,01*
5,52
Asia (Cina esclusa)
20,71
10,25*
8,16
8,70
4,43*
4,33
Usa, Messico e Canada
13,41
11,37
13,37
Centro e Sud America
12,92
5,10*
2,93
8,62
2,27*
1,49
Cina
Australia e Oceania Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
95
Figura 3.43
Percentuale di export in ogni area su fatturato esportato totale delle imprese senza strategie di penetrazione commerciale, per dimensione di impresa e area geografica
90,00 80,00 70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00
Piccole imprese Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia esclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Da queste analisi emerge l’importanza delle strategie commerciali nel livellare le differenze nelle strategie di esportazione tra le varie imprese. Queste tabelle, infatti, presentano delle forti differenze tra piccole, medie e grandi imprese nella quota di imprese esportatrici sul totale e anche significative differenze tra piccole e medie imprese, per quanto riguarda la percentuale di export sul fatturato totale annuo. La seconda tabella mostra invece la distribuzione geografica delle esportazioni e quindi la strategia di portafoglio dei mercati serviti. In questo caso, come possiamo osservare vi sono significative differenze tra le strategie delle piccole imprese e quelle delle medie. Le piccole imprese concentrano maggiormente le loro vendite all’estero nell’area dei paesi dell’Unione Europea dei 15, negli altri paesi europei (diversi da quelli entrati nell’Ue nel 2004), in Asia e Cina. Tra le medie e le grandi imprese, invece, l’unica differenza è dovuta al fatto che le prime privilegiano maggiormente i paesi dell’Unione Europea dei 15, tuttavia le strategie delle imprese che esportano verso le altre aree non presentano differenze statisticamente rilevanti. Questo ci dice quindi che le strategie di penetrazione commerciale e distributiva tendono a modificare maggiormente le “mosse” delle piccole imprese, rendendole simili a quelle delle medie e delle grandi, che non le strategie di queste ultime due.
96
3.5
La produzione all’estero
Passiamo ora alla descrizione e analisi dei casi di imprese che hanno parte della loro produzione svolta all’estero. Questa categoria si divide in due distinte modalità: gli investimenti diretti all’estero e gli accordi produttivi contrattuali con imprese terze. Le ragioni alla base della scelta fra una di queste due sono infatti ben distinte. La produzione all’estero attraverso IDE ha, infatti, una funzione propedeutica alle esportazione, per merito della sua funzione di facilitazione della crescita del mercato estero nel quale si produce (Barba Navaretti et al., 2010). Al contrario il ricorso ad accordi contrattuali (international outsourcing) risponde a delle logiche di implementazione dell’efficienza attraverso outsourcing. La seguente tabella mostra le scelte a riguardo della produzione all’estero delle piccole, medie e grandi imprese del nostro campione, distinguendo anche tra investimenti diretti esteri ed accordi produttivi.
Figura 3.44
Percentuale di imprese con investimenti diretti all’estero e accordi contrattuali per la produzione all’estero, per dimensione di impresa % di imprese che hanno IDE
% di imprese che ricorrono a accordi contrattuali
Piccole imprese
0,83
0,75
Medie imprese
2,58*
2,17*
Grandi imprese
7,28*
4,85*
* Un asterisco sul valore delle medie imprese indica significatività a livello 95% del test unidirezionale effettuato tra i valori delle piccole e quelli delle medie imprese; un asterisco sul valore delle grandi imprese indica significatività a livello 95% del test unidirezionale tra i valori delle medie e i valori delle grandi imprese. Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
97
Figura 3.45
Percentuale di imprese con investimenti diretti all’estero e accordi contrattuali per la produzione all’estero, per dimensione di impresa
8,00
7,28
7,00 6,00 4,85
5,00
% di imprese che hanno IDE 4,00 2,58
3,00
% di imprese che ricorrono a accordi contrattuali
2,17
2,00 1,00
0,83 0,75
0,00 Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
L’informazione saliente che possiamo trarre da questa tabella è che ci sono differenze significative nelle strategie di produzione internazionale sia tra piccole e medie imprese che tra medie e grandi imprese. La seconda informazione importante è che sembra esserci una relazione diretta tra le dimensioni delle imprese e la scelta di produrre all’estero. Non c’è, infatti, sostanziale uguaglianza tra le percentuali delle medie imprese e delle grandi imprese, questa volta. Altra informazione importante è che, in media, sembra esserci una propensione all’IDE maggiore di quella agli accordi contrattuali. Noi abbiamo testato questa ipotesi per tutte e tre le classi dimensionali, tuttavia, abbiamo trovato un riscontro significativo al 95% solo per le grandi imprese. Questo significa che, almeno statisticamente, per le piccole e medie imprese ricorrere a una modalità di produzione all’estero o all’altra è analogo. La seguente tabella mostra la percentuale media derivante dal quoziente tra il valore della produzione effettuata all’estero attraverso, rispettivamente, investimenti diretti esteri e accordi produttivi contrattuali, e il fatturato totale annuo. Questo valore è calcolato solo per le imprese che hanno investimenti diretti all’estero e accordi produttivi e ci restituisce l’importanza della produzione all’estero per le piccole, le medie e le grandi imprese.
98
Figura 3.46
Percentuale di fatturato derivante dalla produzione all’estero tramite investimenti diretti e accordi contrattuali, per dimensione di impresa % Fatturato da IDE su fatturato totale (solo imprese che hanno IDE)
% Fatturato da accordi produttivi su fatturato totale (solo imprese che hanno accordi prod.)
Piccole imprese
54,27
51,20
Medie imprese
23,06*
20,31*
Grandi imprese
35,79*
29,23
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.47
60,00
Percentuale di fatturato derivante dalla produzione all’estero tramite investimenti diretti e accordi contrattuali, per dimensione di impresa 54,27 51,20
50,00 40,00
35,79 29,23
30,00
23,06 20,31
% Fatturato da IDE su fatturato totale (solo imprese che hanno IDE) % Fatturato da accordi produttivi su fatturato totale (solo imprese che hanno accordi prod.)
20,00 10,00 0,00 Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Questa tabella ci fornisce più di qualche indicazione importante. Innanzi tutto, le piccole imprese che producono all’estero, sia attraverso IDE che accordi produttivi contrattuali, hanno la maggiore incidenza del fatturato derivante da questa componente sul fatturato totale. Prima avevamo detto che le piccole imprese sono quelle che hanno la minore percentuale di unità che producono all’estero, tuttavia quando producono all’estero lo fanno con un coinvolgimento maggiore rispetto alle medie e alle grandi e questo aumenta l’importanza di questa componente. La seconda informazione importante è che le grandi imprese che hanno degli investimenti diretti esteri basano una quota maggiore del loro fatturato su questi ultimi, rispetto alle medie imprese omologhe. Queste due informazioni ci restituiscono uno scenario nel quale le medie imprese che producono all’estero sono quelle che hanno l’incidenza dell’estero sul fatturato minore rispetto alle altre. Per quanto riguarda invece gli accordi 99
produttivi contrattuali abbiamo, come affermato che le piccole imprese hanno una incidenza maggiore rispetto alle medie e alle grandi, tuttavia tra queste ultime due non c’è una significativa differenza. Abbiamo fatto, anche in questo caso il test di significatività incrociato, ovvero quello dell’ipotesi che l’incidenza dell’IDE sia uguale di quella degli accordi produttivi contrattuali, per ogni classe dimensionale. Per piccole, medie e grandi imprese abbiamo trovato, in tutti i casi, una accettazione di questa ipotesi. I fenomeni descritti potrebbero essere il frutto delle limitate risorse di cui dispongono le piccole imprese. Questo fatto causerebbe pertanto una sorta di “specializzazione” obbligata e quindi una scelta fra competere con forza nell’ambito nazionale oppure nell’ambito internazionale. Per quanto riguarda le medie imprese, invece, non soffrono di tale obbligo di specializzazione, in quanto per risorse e competenze si avvicinano molto di più alle grandi imprese che alle piccole. Essendo le medie imprese la punta di diamante del sistema produttivo italiano, quindi solo parte della produzione viene svolta all’estero, valorizzando così il sistema produttivo italiano. La tabella sotto riportata presenta la percentuale di imprese con IDE e l’incidenza del valore della produzione all’etero tramite IDE sul fatturato totale annuo per aree geografiche e classi dimensionali di imprese.
Figura 3.48
Percentuale di imprese con investimenti diretti all’estero e incidenza della produzione tramite investimenti diretti all’estero in ogni area su fatturato totale, per dimensione di impresa e area geografica Piccole imprese
Medie imprese
Incidenza della % % produzione imprese imprese tramite con IDE con IDE IDE su fatturato
Incidenza della produzione tramite IDE su fatturato
% imprese con IDE
Incidenza della produzione tramite IDE su fatturato
4,57*
27,06*
Paesi Ue15
0,57
32,43
0,99
13,92*
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
0,16
100,00
0,66
23,13*
Russia Altri paesi europei (Turchia inclusa) Africa
Grandi imprese
0,54
50,00
0,27*
30,00
0,33*
30,00
0,17
10,00
0,27
10,00
Asia (Cina esclusa)
0,16
50,00
0,41
13,40
0,81
36,67*
Cina
0,08
70,00
0,58*
28,29
1,08
38,75
Usa, Messico e Canada
0,17
10,00
0,54
21,00
Centro e Sud America
0,08
10,00
0,54*
26,50
Australia e Oceania Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
100
Figura 3.49
Incidenza della produzione tramite investimenti diretti all’estero in ogni area su fatturato totale, per dimensione di impresa e area geografica
120,00 100,00 80,00 60,00 40,00
Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia esclusa)
Medie imprese Russia
0,00 Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Piccole imprese Paesi Ue15
20,00
Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Osservando la tabella, possiamo notare come le percentuali di imprese che hanno degli investimenti diretti all’estero siano, nel nostro campione, molto basse. Gli unici valori superiori all’1% sono nella categoria delle grandi imprese e sono nell’area dell’Unione Europea dei 15 e nella Cina. A livello di significatività statistica, possiamo osservare come vi siano differenze significative tra i valori delle medie imprese e quelli delle piccole nelle aree degli altri paesi europei e della Cina. Tra i valori di grandi e medie imprese, invece, le differenze statisticamente rilevanti consistono nelle aree dell’Unione Europea dei 15, della Russia e del Centro e Sud America. Andando ad osservare l’incidenza della produzione tramite IDE, vediamo che è significativa l’ipotesi che il valore della produzione tramite IDE delle piccole imprese sia maggiormente concentrato nei paesi europei (Ue dei 15 e paesi entrati nell’unione europea nel 2004) rispetto a quello delle medie imprese. Inoltre abbiamo anche tale statistica, solamente per i paesi dell’Unione europea dei 15, nel caso delle grandi imprese, significativamente superiore a quella delle medie imprese. Tale situazione si verifica anche per l’Asia (Cina esclusa). In tutti gli altri casi abbiamo un comportamento simile tra piccole, medie e grandi imprese. Coerentemente con quanto visto nella tabella precedente non abbiamo mai un caso in cui una percentuale delle medie imprese risulti maggiore rispetto a quelle delle grandi imprese. Il comportamento, in termini di incidenza del valore della produzione tramite accordi contrattuali produttivi con imprese estere sul fatturato totale annuo, delle imprese da noi 101
analizzate è simile a quello nei confronti dell’incidenza del valore della produzione tramite IDE. Nella tabella sotto riportata presentiamo tali valori.
Figura 3.50
Percentuale di imprese con accordi contrattuali produttivi e incidenza della produzione tramite accordi contrattuali in ogni area su fatturato totale, per dimensione di impresa e area geografica Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Incidenza Incidenza Incidenza prod. prod. prod. % imprese % imprese % imprese tramite tramite tramite con accordi con accordi con accordi accordi accordi accordi contrattuali contrattuali contrattuali contrattuali contrattuali contrattuali su fatturato su fatturato su fatturato Paesi Ue15 Paesi entrati nell'Ue nel 2004 Russia Altri paesi europei (Turchia inclusa) Africa
0,41
37,40
1,08*
21,15
4,57*
23,53
0,25
50,00
0,25
10,00
0,27
30,00
0,27
30,00
Asia (Cina esclusa)
0,16
Cina
0,08
0,41*
15,00
52,50
0,41
18,40
0,54
30,00
70,00
0,58*
21,14
1,08
35,00
Usa, Messico e Canada
0,17
10,00
0,54
25,00
Centro e Sud America
0,08
10,00
Australia e Oceania Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.51
Incidenza della produzione tramite accordi contrattuali su fatturato, per dimensione di impresa e area geografica
80,00 70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
102
Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Osservando le colonne relative alla percentuale di imprese con accordi contrattuali, possiamo vedere come le grandi e le medie imprese ricorrano in misura maggiormente frequente a questa forma di internazionalizzazione. Il valore più alto è quello delle grandi imprese nell’area dell’Unione europea dei 15. Tale valore risulta anche quello più alto per la sola categoria delle medie imprese. Le differenze statisticamente significative vi sono tra le medie e le piccole imprese nelle aree dell’Unione Europea dei 15, degli altri paesi europei e della Cina. L’unica differenza significativa tra i valori di grandi e medie imprese consiste nell’area dell’Ue dei 15. Risulta da notare che nessuna categoria dimensionale è presente in tutte le aree. Piccole e medie imprese non hanno valori per la Russia, mentre nessuna categoria per Africa e Oceania. Analizziamo ora, invece, le colonne relative all’incidenza della produzione tramite accordi contrattuali sul fatturato. Come possiamo osservare, in questo caso i valori di piccole, medie e grandi imprese vengono considerati statisticamente non diseguali in modo addirittura totale. Tra le piccole, medie e grandi imprese non vi sono differenze significative. Questo ci restituisce uno scenario nel quale le piccole, le medie e le grandi imprese distribuiscono il loro fatturato, derivante da prodotti commissionati all’estero, in modo tra loro simile, senza differenze rispetto alle dimensioni delle imprese stesse. Dopo aver constatato il peso della produzione all’estero tramite investimenti diretti all’estero e tramite accordi e contratti, ci occupiamo ora della performance, in termini di esportazioni, delle imprese che utilizzano le modalità di internazionalizzazione di cui sopra. La nostra analisi tiene in considerazione entrambe le modalità (produzione tramite investimenti diretti all’estero e produzione tramite accordi e contratti) congiuntamente. Abbiamo così quattro possibili classi di imprese:
le imprese che hanno gli IDE, ma non gli accordi contrattuali;
le imprese che ricorrono ad accordi contrattuali per la produzione all’estero, ma che non hanno investimenti diretti all’estero;
le imprese che ricorrono ad entrambe le modalità;
le imprese che non usano nessuna delle due alternative.
La tabella seguente presenta i valori delle esportazioni di tutte queste classi e per classe dimensionale dell’impresa.
103
Figura 3.52
Percentuale di esportazioni sul fatturato totale, per dimensione di impresa e modalità di produzione all’estero attuata
% esportazioni su fatturato
Imprese che hanno IDE e non accordi contrattuali
Imprese che hanno accordi contrattuali e non IDE
Imprese che hanno sia accordi contrattuali che IDE
Imprese che hanno ne accordi contrattuali ne IDE
Piccole imprese
26,67
50,00
36,00
23,76
Medie imprese
39,00
37,40
51,33
33,42*
Grandi imprese
60,22*
7,00
45,82
37,44*
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.53
Percentuale di esportazioni sul fatturato totale, per dimensione di impresa e modalità di produzione all’estero attuata
70,00 60,22 60,00 50,00
45,82
36,00
40,00 30,00
51,33
50,00
26,67
39,00 37,40
37,44
33,42
23,76
Imprese che hanno IDE e non accordi contrattuali Imprese che hanno accordi contrattuali e non IDE Imprese che hanno sia accordi contrattuali che IDE
20,00 7,00
10,00
Imprese che hanno ne accordi contrattuali ne IDE
0,00 Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo osservare, i valori delle piccole imprese non risultano mai significativamente superiori a quelli delle medie imprese. Viceversa i valori delle medie imprese sono maggiori delle piccole imprese nel caso delle imprese che non hanno né investimenti diretti all’estero né accordi produttivi. In questa categoria abbiamo anche che i valori delle grandi imprese sono maggiori a quelli delle medie, perciò nelle imprese che non hanno alcuna fase della loro produzione svolta all’estero le esportazioni sono direttamente correlate con la dimensione dell’impresa. I valori delle grandi imprese con investimenti diretti e non accordi contrattuali risultano significativamente maggiori a quelli delle medie imprese. Non c’è, invece, alcuna significatività nelle differenze tra piccole e medie imprese, con omologa strategia internazionale. Infine, non vi sono differenze statisticamente rilevanti nei valori delle imprese che hanno sia accordi contrattuali che investimenti diretti all’estero. Se affermiamo, quindi, 104
che il ricorso ad entrambe queste forme di produzione all’estero siano indicatore di una forte internazionalizzazione, le imprese con queste caratteristiche non risentono di differenze nella loro struttura dei ricavi, dovute alla dimensione delle imprese stesse. Analizziamo ora la struttura geografica delle esportazioni delle imprese delle categorie viste sopra, ovvero le imprese che hanno degli IDE, le imprese che hanno degli accordi contrattuali produttivi con imprese estere, le imprese che hanno entrambi i sistemi di produzione e le imprese che, invece, non hanno nessuna di queste due modalità. Anche questa volta discriminiamo per la dimensione delle imprese stesse. La finalità è analoga a quella delle tabelle di questo tipo usate, in precedenza, per le politiche distributive, cioè capire quali sono i principali mercati e se vi sono differenze tra le imprese con caratteristiche differenti. Cominciamo con i valori delle imprese che hanno degli investimenti diretti all’estero e nessun accordo produttivo con imprese straniere.
Figura 3.54
Percentuale di esportazioni in ogni area sul fatturato esportato totale delle imprese con soli investimenti diretti all’estero, per dimensione di impresa e area geografica
% Esportazioni su fatturato esportato Paesi Ue15
Imprese che hanno IDE e non accordi contrattuali Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese 38,00 72,22 60,11
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
6,00
Russia
25,00
25,00
11,00 6,00
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
8,00
Africa
60,00
6,00
Asia (Cina esclusa)
7,67
Cina
8,00
Usa, Messico e Canada
5,00
Centro e Sud America Australia e Oceania
20,00
13,75
22,50
8,00* 8,00
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
105
Figura 3.55
Percentuale di esportazioni in ogni area sul fatturato esportato totale delle imprese con soli investimenti diretti all’estero, per dimensione di impresa e area geografica
80,00 70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00
Piccole imprese
Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia esclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
L’unica differenza significativa è tra medie e grandi imprese, nella percentuale di esportazioni in Centro e Sud America su fatturato totale. Risulta di interesse il fatto che solo le grandi imprese presentano tutte le modalità, in quanto questa categoria risulta l’unica ad avere degli IDE in tutte le aree territoriali oggetto di analisi. Le piccole imprese non hanno degli investimenti diretti all’estero in Asia e Cina, ma neanche in Africa e Oceania e questo è dovuto probabilmente ai costi che comporta una scelta di investimenti diretti in paesi così lontani, in alcuni casi anche culturalmente. Le medie imprese non hanno invece IDE nell’area degli altri paesi europei, Russia, nell’Asia e Cina e in Oceania. Se confrontiamo questa tabella con la prima tabella che abbiamo rappresentato, sulla percentuale del valore delle esportazioni sul fatturato (per tutte le imprese), possiamo osservare come in quel caso le differenze significative fossero tra le medie e le grandi imprese nell’area dei paesi dell’Unione Europea dei 15 e dei paesi entrati nell’Ue nel 2004, mentre qui le differenze significative le abbiamo nei paesi del Centro e Sud America. Questo ci rappresenta le differenze di strategia tra le imprese che hanno degli investimenti diretti all’estero e le altre imprese, in quanto questa modalità, come già affermato influenza profondamente gli obiettivi. Nella tabella sotto riportata presentiamo i dati delle percentuali dei ricavi da esportazioni sul fatturato totale delle imprese che hanno solo accordi produttivi contrattuali.
106
Figura 3.56
Percentuale di esportazioni in ogni area sul fatturato esportato totale delle imprese con soli accordi contrattuali, per dimensione di impresa e area geografica Imprese che hanno accordi contrattuali e non IDE
% Esportazioni su fatturato esportato
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese 85,00 65,00
Paesi Ue15 Paesi entrati nell'Ue nel 2004
22,00
Russia
10,00
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
8,75
Africa
10,00
Asia (Cina esclusa)
20,00
100,00
10,00
Cina
10,00
Usa, Messico e Canada
10,00
Centro e Sud America
10,00
Australia e Oceania
10,00
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.57
Percentuale di esportazioni in ogni area sul fatturato esportato totale delle imprese con soli accordi contrattuali, per dimensione di impresa e area geografica
120,00 100,00 80,00 60,00 40,00
Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
Medie imprese Russia
0,00 Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Piccole imprese Paesi Ue15
20,00
Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo vedere, le grandi imprese ricorrono a questo tipo di produzione in scarsa quantità. L’unico caso riguarda, infatti, l’Africa. Le medie imprese risultano quelle che usano questa modalità di internazionalizzazione in tutte le zone, mentre le piccole imprese che hanno accordi produttivi contrattuali esportano prevalentemente in Europa e Cina. Da notare è il fatto che non vi sono differenze significative in questa tabella. 107
Nella tabella sotto riportata presentiamo i valori percentuali derivanti dal quoziente tra fatturato da esportazioni e fatturato totale annuo per zone geografiche e classi dimensionali d’impresa, per le imprese che hanno sia accordi produttivi contrattuali che investimenti diretti esteri.
Figura 3.58
Percentuale di esportazioni in ogni area sul fatturato esportato totale delle imprese con investimenti diretti all’estero e accordi contrattuali, per dimensione di impresa e area geografica Imprese che hanno sia accordi contrattuali che IDE
% Esportazioni su fatturato esportato
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Paesi Ue15
71,67
69,58*
48,69
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
50,00
7,00
5,00
15,00
21,11*
8,00
6,25
8,00
10,00
8,50
16,67
6,00
14,44
Russia Altri paesi europei (Turchia inclusa)
36,67
Africa Asia (Cina esclusa)
3,00
Cina Usa, Messico e Canada
7,73
11,36
Centro e Sud America
2,50
4,56
10,00
Australia e Oceania
8,00
15,00
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.59
Percentuale di esportazioni in ogni area sul fatturato esportato totale delle imprese con investimenti diretti all’estero e accordi contrattuali, per dimensione di impresa e area geografica
80,00 70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00
Piccole imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
108
Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Medie imprese Grandi imprese
Analogamente a quanto avviene per le imprese che hanno solo accordi contrattuali produttivi, anche in questo caso non vi sono molte differenze significative tra le strategie delle imprese di diverse classi dimensionali. Uno di questi casi è tra le piccole e medie imprese nell’area dell’Unione Europea dei 15, mentre l’altro tra le medie e le grandi imprese in Russia. Anche in questo caso possiamo affermare che, probabilmente, il fatto che imprese anche di classi dimensionali diverse usino queste modalità di internazionalizzazione fa si che esse abbiamo certe caratteristiche comuni. Per completare il quadro riportiamo anche i valori della statistica analizzata, per le imprese che non ricorrono né a investimenti diretti all’estero né ad accordi contrattuali produttivi.
Figura 3.60
Percentuale di esportazioni in ogni area sul fatturato esportato totale delle imprese che non producono all’estero, per dimensione di impresa e area geografica
% Esportazioni su fatturato esportato
Imprese che non hanno né accordi contrattuali né IDE Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Paesi Ue15
75,61
68,75*
60,43*
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
21,20
15,80*
12,07
Russia
15,15
7,03*
6,37
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
23,99
9,11*
7,66
Africa
18,83
5,98*
4,87
Asia (Cina esclusa)
21,98
12,60*
9,84
Cina
8,89
4,94*
4,80
Usa, Messico e Canada
14,13
12,27
13,29
Centro e Sud America
14,23
6,06*
4,00
9,08
2,61*
2,42
Australia e Oceania Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
109
Figura 3.61
Percentuale di esportazioni in ogni area sul fatturato esportato totale delle imprese che non producono all’estero, per dimensione di impresa e area geografica
80,00 70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00 Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo osservare, in questo caso le differenze significative tra i valori delle piccole e quelli delle medie imprese sono molte di più. Le piccole imprese tendono ad avere delle esportazioni maggiormente concentrate. L’unica differenza significativa tra i valori delle medie e quelli delle grandi imprese c’è, invece, nei valori della zona dei paesi dell’Unione Europea dei 15. I valori di questa tabella sono comprensibilmente simili a quelli della prima tabella di questo tipo sulle esportazioni sopra riportata. Presentiamo ora una tabella che avevamo già riportato in precedenza, questa volta però con un fine diverso. Prima abbiamo, infatti, testato la significatività delle differenze tra i valori delle piccole, medie e grandi imprese. Ora testiamo invece la significatività delle differenze tra i valori delle imprese con diverse modalità di produzione all’estero, all’interno di ogni categoria dimensionale. L’obiettivo è comprendere se alcune modalità, come gli investimenti diretti all’estero, sono collegate con un peso maggiore in termini di esportazioni e se vi sono differenze in questi effetti, dovuti alle dimensioni delle imprese. La tabella sotto presentata riporta, quindi, i valori percentuali delle esportazioni sul fatturato annuo totale.
110
Figura 3.62
Test di significatività sulla differenza tra la percentuale di export su fatturato delle imprese con varie modalità di produzione all’estero, per dimensione di impresa
Imprese che hanno IDE e non % esportazioni su fatturato accordi contrattuali
Imprese che hanno accordi contrattuali e non IDE
Imprese che hanno sia accordi contrattuali che IDE
Imprese che hanno ne accordi contrattuali ne IDE
Piccole imprese
26,67
50,00
36,00
23,76
Medie imprese
39,00
37,40
51,33 (b)
33,42
Grandi imprese
60,22 (a)
7,00
45,82
37,44
(a) valori delle grandi imprese con IDE e non accordi contrattuali sono significativamente maggiori dei valori delle grandi imprese senza IDE e accordi contrattuali (b) valori delle medie imprese con IDE e accordi contrattuali significativamente maggiori dei valori delle medie imprese senza IDE e accordi contrattuali Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo osservare, l’ipotesi che le imprese che hanno degli investimenti diretti all’estero abbiano una percentuale di fatturato da esportazioni maggiore rispetto alle altre imprese è significativa solamente per le grandi imprese. In questo caso, infatti, questa statistica, per le imprese con IDE, risulta significativamente maggiore a quella delle imprese che non ricorrono né agli investimenti diretti, né agli accordi contrattuali. Per quanto concerne le piccole e le medie imprese, invece, non vi sono differenze significative tra i valori delle imprese che producono attraverso solo degli investimenti diretti all’estero e quelli delle imprese che ricorrono solo ad accordi contrattuali. Per le medie imprese, inoltre, il fattore che si sostanzia in un superiore valore della statistica riportata è la produzione all’estero attraverso sia IDE che accordi contrattuali con imprese straniere. Per le medie imprese, questa categoria è anche quella per la quale le esportazioni sono maggiormente importanti. Dopo aver visto le modalità con le quali le imprese italiane internazionalizzano la loro produzione, cerchiamo ora di capire quali parti della loro catena del valore le imprese italiane scelgono di realizzare all’estero. La seguente tabella presenta i dati relativi a quali attività vengono realizzate all’estero da imprese che hanno parte della produzione in paesi stranieri. Pertanto sono presenti le percentuali di piccole, medie e grandi imprese che realizzano ogni attività sul totale, rispettivamente, delle piccole, medie e grandi imprese. Importante è il fatto che la somma, per aggregato dimensionale, non fa 100 in quanto nella domanda del questionario Unicredit sono ammesse risposte multiple.
111
Figura 3.63
Attività svolta all’estero dalle imprese che producono all’estero, per dimensione di impresa (valori % sul totale delle imprese)
Attività svolta all'estero (val. % su tot. imprese)
Piccole imprese Medie imprese
Grandi imprese
Prodotto finito
83,33
69,70
73,08
Semilavorato
25,00
30,30
46,15
Componenti
0,00
15,15
26,92
Servizi finanziari e assicurativi
0,00
0,00
0,00
Servizi informatici e comunicazioni Servizi di ricerca e sviluppo, ingegneria e progettazione
0,00
0,00
0,00
0,00
3,03
0,00
Servizi di trasporto e logistica
8,33
0,00
7,69
Altri servizi alle imprese
0,00
12,12
0,00
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Attività svolta all’estero dalle imprese che producono all’estero, per dimensione di impresa (valori % sul totale delle imprese)
90,00 80,00 70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00
Altri servizi alle imprese
Medie imprese Servizi di trasporto e logistica
Servizi informatici e comunicazioni
Servizi finanziari e assicurativi
Componenti
Semilavorato
Prodotto finito
Piccole imprese Servizi di ricerca e sviluppo, ingegneria…
Figura 3.64
Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo vedere, l’attività più svolta in tutte e tre le categorie dimensionali è la realizzazione all’estero del prodotto finito. La percentuale più elevata è quella delle piccole imprese, con più dell’80%, seguita dalle grandi imprese con più del 70%. Le medie imprese hanno, invece, un valore meno elevato, anche se, comunque, superiore al 60%. Questo dato ci dice che la produzione all’estero delle medie imprese risulta, mediamente, essere strumentale alla realizzazione del prodotto finale in Italia. La seconda modalità maggiormente frequente in tutte e tre le categorie è la realizzazione di semilavorati. Anche in questo caso il valore maggiore è quello delle grandi imprese (più del 40%), mentre seguono medie e piccole 112
imprese (rispettivamente 30% e 25%). Segue la produzione all’estero di componenti, all’interno della quale c’è, anche in questo caso, un primato delle grandi imprese, con medie imprese a seguire. Le altre possibili attività specificate rientrano in un largo spettro dei servizi. Le medie imprese sono quelle che svolgono con maggior frequenza queste attività. Questo, insieme al fatto che le medie imprese hanno il valore meno elevato nella categoria “Prodotto finito” sembra confermare una globalizzazione progressiva delle catene del valore delle medie imprese. Nella seguente tabella presentiamo i valori percentuali derivanti dal rapporto tra esportazioni e fatturato totale annuo delle piccole, medie e grandi imprese, a seconda dell’attività che realizzano all’estero.
Figura 3.65
Percentuale di esportazioni sul fatturato totale, per dimensione di impresa e attività svolta all’estero Piccole Medie imprese imprese 40,20 47,61
% Esportazioni su fatturato Prodotto finito Semilavorato
43,33
Componenti
Grandi imprese 53,95
52,80
37,00
44,40
43,00
Servizi finanziari e assicurativi Servizi informatici e comunicazioni Servizi di ricerca e sviluppo, ingegneria e progettazione Servizi di trasporto e logistica
90,00
Altri servizi alle imprese
43,00 50,00
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
113
Figura 3.66
Percentuale di esportazioni sul fatturato totale, per dimensione di impresa e attività svolta all’estero
100,00 90,00 80,00 70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00
Piccole imprese Altri servizi alle imprese
Servizi di trasporto e logistica
Servizi di ricerca e sviluppo, ingegneria e progettazione
Servizi informatici e comunicazioni
Servizi finanziari e assicurativi
Componenti
Semilavorato
Prodotto finito
Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Per quanto riguarda le imprese che realizzano all’estero il prodotto finito, possiamo osservare che non consistono differenze significative tra le varie classi dimensionali, anche se sembra esserci una relazione diretta tra la dimensione e la propensione all’esportazione. Per quanto concerne i semilavorati, invece, la percentuale di esportazioni sul fatturato delle medie imprese è la più elevata. Il valore più basso è, invece, quello delle grandi imprese. Per la produzione all’estero di componenti la situazione vede il valore delle medie imprese più elevato rispetto a quello delle grandi, mentre le piccole imprese non hanno tale modalità. Il valore più elevato, per le piccole imprese, è delle imprese che realizzano all’estero servizi di trasporto e logistica. Siccome la domanda ammetteva risposta multipla, probabilmente queste imprese realizzano all’estero anche prodotti finiti o semilavorati e cercano quindi un’internazionalizzazione maggiore. Anche i dati delle medie e grandi imprese che producono servizi sono, però, elevati. Analizziamo ora le principali produzioni delle piccole, medie e grandi imprese che svolgono parte della produzione all’estero, per attività effettuata e classe dimensionale dell’impresa. Cominciamo con la seguente tabella, riportante i dati relativi alle imprese che realizzano all’estero il prodotto finito.
114
Figura 3.67
Principali produzioni delle imprese che realizzano all’estero il prodotto finito, per dimensione di impresa Codici ATECO (2002) delle imprese che realizzano all'estero il prodotto finito
Piccole imprese Cod. ATECO
Medie imprese Val. %
Cod. ATECO
Grandi imprese Val. %
Cod. ATECO
Val. %
Abbigliamento
18
24,00 Prod. in metallo
28
15,63 Macch. elettriche
31
14,29
Meccanica
29
16,00 Meccanica
29
14,06 Meccanica
29
11,43
Mobili e manifat.
36
16,00 Tessile
17
10,94 Prod. in metallo
28
11,43
Tessile
17
8,00 Cuoio e calzature
19
7,81 Chimica
24
8,57
Prod. in metallo
28
8,00 Mobili e manifat.
36
7,81 Ind. alimentari
15
5,71
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo osservare, le piccole imprese che realizzano all’estero il prodotto finito sono maggiormente concentrate nella produzione corrispondente al codice ATECO 18, ovvero “Confezione di articoli di abbigliamento; preparazione, tintura e confezione di pellicce”. Gli altri codici più frequenti sono corrispondenti alla “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” (29) e “Fabbricazione di mobili; altre industrie manifatturiere” (36). Seguono “Industrie tessili” (17) e “Fabbricazione e lavorazione dei prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti” (28). Quindi possiamo affermare che, per le piccole imprese che realizzano all’estero il prodotto finito, vi sia una predominanza dei settori tessili e meccanici. Tra le medie imprese, le produzioni maggiormente frequenti sono la “Fabbricazione e lavorazione dei prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti” (28), davanti
alla
“Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” (29). Seguono le “Industrie tessili (codice 17), “Preparazione e concia del cuoio; fabbricazione di articoli da viaggio, borse, marocchineria, selleria e calzature” (19) e la “Fabbricazione di mobili; altre industrie manifatturiere” (36). Per quanto riguarda le grandi imprese, la produzione maggiormente frequente è la “Fabbricazione di macchine ed apparecchi elettrici Nca” (31). Seguono i codici 29 e 28, già visti anche nelle piccole e medie imprese e il codice 15 (“Industrie alimentari e delle bevande”). Possiamo quindi affermare che i settori meccanici sono quelli maggiormente rappresentati. C’è, inoltre, una evidente differenza tra le piccole imprese e le medie e grandi, infatti, per quanto riguarda le prime, anche il settore dell’abbigliamento è importante. Nei casi delle medie e grandi imprese, invece tali produzioni sono molto più ridimensionate. Per proseguire riportiamo nella tabella sottostante i dati relativi alle imprese che producono all’estero semilavorati.
115
Figura 3.68
Principali produzioni delle imprese che realizzano all’estero semilavorati, per dimensione di impresa Codici ATECO (2002) delle imprese che realizzano all'estero semilavorati
Piccole imprese Cod. ATECO Abbigliamento 18
Medie imprese Val. % Cod. ATECO 30,77 Meccanica 29
Grandi imprese Val. % Cod. ATECO 18,42 Tessile 17
Val. % 13,64
Tessile
17
15,38 Tessile
17
13,16 Gomma e plastica 25
13,64
Meccanica
29
15,38 Chimica
24
13,16 Macch. elettriche
31
13,64
Cuoio e calzat.
19
7,69 Prod. in metallo
28
10,53 Ind. alimentari
15
9,09
Chimica
24
7,69 Abbigliamento
18
24
9,09
7,89 Chimica
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Una importante informazione che si può trarre da questi dati è che le imprese che realizzano all’estero semilavorati sono prevalentemente attive nelle produzioni del tessile e abbigliamento, ma anche della meccanica e della chimica, sia per piccole che per medie e grandi imprese. Osserviamo, infatti, nelle prime posizioni di tutte e tre le categorie dimensionale i codici 18 (“Confezione di articoli di abbigliamento; preparazione, tintura e confezione di pellicce”), 17 (“Industrie tessili”), e, nelle piccole e medie imprese, “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” (29). Nelle grandi imprese, vi sono, invece, il codice 25 (“Fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche”) e il codice 31 (“Fabbricazione di macchine ed apparecchi elettrici Nca”). Tra le piccole imprese, ha, inoltre un ruolo importante la “Preparazione e concia del cuoio; fabbricazione di articoli da viaggio, borse, marocchineria, selleria e calzature” (19), mentre tra le medie imprese c’è la presenza dei settori chimici (24), metallurgici (28). Anche nelle grandi imprese c’è la presenza del codice 24, insieme col codice 15, che identifica le industrie alimentari. Presentiamo ora i dati relativi alle imprese che producono all’estero componenti dei loro prodotti.
116
Figura 3.69
Principali produzioni delle imprese che realizzano all’estero componenti, per dimensione di impresa Codici ATECO (2002) delle imprese che realizzano all'estero componenti
Piccole imprese Cod. ATECO
Medie imprese
Val. %
Cod. ATECO
Grandi imprese
Val. %
Cod. ATECO
Val. %
Chimica
24
20,00 Meccanica
29
21,43 Chimica
24
28,57
Prod. in metallo
28
20,00 Mobili e manifat.
36
21,43 Macch. elettriche
31
21,43
Meccanica
29
20,00 Lavoraz. minerali 26
14,29 Prod. in metallo
28
14,29
Altri mezz. trasp.
35
20,00 Tessile
17
7,14 Mobili e manifat.
36
14,29
Mobili e manifat.
36
20,00 Cuoio e calz.
19
7,14 Abbigliamento
18
7,14
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Notiamo, innanzi tutto, una frammentazione minore. Possiamo osservare che le cinque produzioni con più piccole imprese raggiungono il 100%, mentre per quanto riguarda le medie imprese il 71,43% e le grandi l’85,72% . Tra le piccole imprese le produzioni sono tutte alla pari e sono la “Fabbricazione di prodotti chimici e di fibre sintetiche e artificiali” (24), “Fabbricazione e lavorazione dei prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti” (28), “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” (29), Fabbricazione di altri mezzi di trasporto (35) e la “Fabbricazione di mobili; altre industrie manifatturiere” (36). Nelle medie imprese vediamo codici che si riferiscono alla meccanica e alla manifattura (29 e 36), alla lavorazione dei minerali (26) e al tessile e alle calzature (17 e 19). Nelle grandi imprese c’è una produzione che va per la maggiore. Questa è la “Fabbricazione di prodotti chimici e di fibre sintetiche e artificiali” (24). C’è poi la “Fabbricazione di macchine ed apparrecchi elettrici Nca” (31). Seguono: “Fabbricazione e lavorazione dei prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti” (28), e il codice 18 che si riferisce all’abbigliamento e pellicce. Nel caso delle imprese che producono componenti all’estero c’è, quindi, un forte orientamento relativo alle produzioni della chimica e della meccanica. Nella seguente tabella mostriamo le produzioni delle imprese che svolgono all’estero servizi informatici e di comunicazione. Come possiamo vedere, sono presenti due soli codici. Questi sono nelle piccole imprese e sono i codici 25, cioè “Fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche” e 29, “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici”. Le medie e le grandi imprese, dai dati nel nostro campione, non realizzano servizi informatici e di comunicazione.
117
Figura 3.70
Principali produzioni delle imprese che realizzano all’estero servizi informatici e di comunicazione, per dimensione di impresa
Codici ATECO (2002) delle imprese che realizzano all'estero servizi informatici e di comunicazione Piccole imprese Cod. ATECO Gomma e plastica 25 Meccanica
29
Medie imprese Val. % 50,00
Cod. ATECO
Grandi imprese Val. %
Cod. ATECO
Val. %
50,00
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Continuiamo ora nella rappresentazione delle principali produzioni delle imprese che svolgono delle attività all’estero. Presentiamo ora i principali settori delle piccole, medie e grandi imprese che realizzano all’estero servizi di ricerca e sviluppo.
Figura 3.71
Principali produzioni delle imprese che realizzano all’estero servizi di ricerca e sviluppo, per dimensione di impresa
Codici ATECO (2002) delle imprese che realizzano all'estero servizi ricerca e sviluppo Piccole imprese Cod. ATECO
Medie imprese Val. %
Cod. ATECO
Grandi imprese Val. %
Altre ind. estratt.
14
50,00
Meccanica
29
50,00
Cod. ATECO
Val. %
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Le medie imprese hanno due codici ATECO: “Altre industrie estrattive” (14) e “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” (29). Le piccole e grandi imprese non svolgono servizi di ricerca e sviluppo all’estero. Presentiamo, nella seguente tabella, le principali produzioni delle imprese che realizzano all’estero servizi di logistica.
118
Figura 3.72
Principali produzioni delle imprese che realizzano all’estero servizi di logistica, per dimensione di impresa Codici ATECO (2002) delle imprese che realizzano all'estero servizi di logistica
Piccole imprese Cod. ATECO Meccanica
Medie imprese Val. %
29
Cod. ATECO
Grandi imprese Val. %
100,00 Cuoio e calzature 19
Cod. ATECO
Val. %
100,00 Macch. elettriche
31
50,00
Mobili e manifat.
36
50,00
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
La sola produzione delle piccole imprese è la “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” (29). Anche all’interno della categoria delle medie imprese c’è un solo codice, il quale corrisponde alla “Preparazione e concia del cuoio; fabbricazione di articoli da viaggio, borse, marocchineria, selleria e calzature” (19). Le grandi imprese sono, invece, dei settori 36 e “Fabbricazione di macchine ed apparecchi elettrici Nca” (31). Per concludere la nostra analisi relativa ai settori di appartenenza delle imprese che svolgono delle attività all’estero, presentiamo i dati delle imprese che producono servizi diversi dalle categorie già presentate in precedenza.
Figura 3.73
Principali produzioni delle imprese che realizzano all’estero altri servizi, per dimensione di impresa Codici ATECO (2002) delle imprese che realizzano all'estero altri servizi
Piccole imprese Cod. ATECO Prod. in metallo 28 Mobili e manifat.
36
Medie imprese Val. % Cod. ATECO 50,00 Tessile 17 50,00 Abbigliamento
18
Grandi imprese Val. % Cod. ATECO 20,00 Cuoio e calzature 19 20,00 Meccanica
Gomma e plastica 25
20,00
Prod. in metallo
28
20,00
App. Medic., ecc.
33
20,00
29
Val. % 50,00 50,00
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo osservare le piccole imprese sono attive nelle produzioni del settore meccanico (28) e della “Fabbricazione di mobili; altre industrie manifatturiere” (36). Le medie imprese sono, invece, attive nelle produzioni tessili e abbigliamento (17 e 18), chimici (25), meccanici (28) e medicali (33). Le grandi imprese, invece, svolgono “Preparazione e 119
concia del cuoio; fabbricazione di articoli da viaggio, borse, marocchineria, selleria e calzature” (19) e “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” (29).
3.6
Quando e perché le imprese italiane producono all’estero?
Passiamo ora ad un’analisi sul “quando” le imprese italiane hanno cominciato la loro internazionalizzazione. Questa analisi la svolgiamo con riferimento alla produzione all’estero, cioè agli investimenti diretti all’estero e agli accordi contrattuali produttivi. La seguente tabella raffigura l’anno medio del primo investimento o accordo all’estero delle imprese del campione analizzato. Questa analisi è svolta per zone geografiche e classi dimensionali di impresa.
Figura 3.74
Anno medio del primo investimento o accordo di produzione all’estero, per dimensione dell’impresa e area geografica
Anno del primo investimento/accordo
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Paesi Ue15
1989
1996
2002*
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
2004
1998
1993
Russia
2005
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
1996
Africa
1995
Asia (Cina esclusa)
1994
2003
2004*
Cina
1994
1996
Usa, Messico e Canada
2005
1995
Centro e Sud America
2004
1998
Australia e Oceania * Un asterisco sul valore delle medie imprese indica significatività a livello 95% del test unidirezionale effettuato tra i valori delle piccole e quelli delle medie imprese; un asterisco sul valore delle grandi imprese indica significatività a livello 95% del test unidirezionale tra i valori delle medie e i valori delle grandi imprese. Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
120
Figura 3.75
Anno medio del primo investimento o accordo di produzione all’estero, per dimensione dell’impresa e area geografica
2010 2000 1990 1980 1970 1960 1950 1940 Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo osservare, le piccole imprese sono quelle che hanno l’anno medio del primo investimento o accordo maggiormente anteriore. Questo risale al 1989 e riguarda l’area dei paesi europei che facevano parte dell’Unione europea dei 15. Le piccole imprese risultano le prime in tale statistica anche per i paesi Asia (Cina esclusa), con una data media di investimento
nel 1994.
Nel 1994
si
colloca
anche
l’anno
medio
del primo
investimento/accordo in Cina da parte delle medie imprese. Tale valore è, inoltre, il valore maggiormente anteriore per le medie imprese. Per le grandi imprese, invece, il valore medio più basso è il 1993 dei paesi entrati nell’Unione Europea nel 2004. Le piccole e le medie imprese sono, pertanto, state le prime imprese ad investire in percentuale rilevante in Asia e in Cina. Le medie imprese, in particolare, si sono spinte in questo paese, dimostrando una notevole capacità di ricerca di nuovi mercati. Le grandi imprese sono, invece, arrivate in Asia a seguire, anche se non molti anni dopo, tuttavia sono le prime ad aver “esplorato” i mercati americani. Le medie imprese, invece, negli ultimi anni si stanno concentrando proprio nei mercati del Centro e Sud America e del Nord America, mentre le grandi mostrano interesse per la Russia. Svolgiamo adesso un’analisi di maggior dettaglio sull’anno medio del primo investimento. Discriminiamo ora, infatti, per modalità di produzione all’estero. Le modalità possibili sono tre: solo investimenti diretti all’estero, solo accordi contrattuali produttivi e, infine, sia investimenti diretti che accordi contrattuali. L’obiettivo è, questa volta, capire se le differenze 121
tra piccole, medie e grandi imprese cambiano a seconda di queste modalità. La seguente tabella raffigura i valori delle imprese che hanno solo investimenti diretti all’estero.
Figura 3.76
Anno medio del primo investimento delle imprese con solo IDE, per dimensione dell’impresa e area geografica
Anno del primo investimento (imprese che hanno solo IDE) Paesi Ue15
Piccole imprese 2000
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Medie imprese
Grandi imprese
2003
2000
1992
2005
1995
2003
Russia Altri paesi europei (Turchia inclusa) Africa Asia (Cina esclusa) Cina
2005
Usa, Messico e Canada
1995
Centro e Sud America
1998
Australia e Oceania Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo vedere, in questo caso, per quanto riguarda le piccole e le medie imprese l’anno del primo investimento nei paesi dell’Ue15 è posteriore rispetto a quanto raffigurato nella tabella mostrata in precedenza. Per quanto concerne, invece, gli investimenti diretti nei paesi entrati nell’Unione Europea nel 2004 e nell’Africa, tale data risulta anteriore o uguale, per le medie imprese. Questo significa che nei paesi dell’Unione Europea dei 15 le piccole e medie imprese hanno seguito una politica che prevedeva prima una “esplorazione” attraverso accordi contrattuali e successivamente un investimento. Per altre zone, come i paesi nell’Ue dal 2004, invece, la politica seguita è stata quella dell’investimento. Per quanto riguarda le grandi imprese, invece, questa differenza è molto meno marcata. Resta comunque da notare che una delle date maggiormente anteriori è, in questo caso, quello delle medie imprese in Africa, questo a conferma delle affermazioni fatte sulla ricerca dei nuovi mercati da parte delle medie imprese. Sotto riportiamo, ora, la tabella contenente i dati relativi all’anno medio del primo accordo contrattuale di produzione con imprese straniere. I dati riguardano, questa volta, imprese che svolgono parte della produzione all’estero attraverso solamente accordi contrattuali.
122
Figura 3.77
Anno medio del primo accordo delle imprese con solo accordi contrattuali, per dimensione dell’impresa e area geografica
Anno del primo accordo (imprese che hanno solo accordi contrattuali)
Piccole imprese
Paesi Ue15
1999
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
2001
Medie imprese 1980
Grandi imprese 2007
Russia Altri paesi europei (Turchia inclusa)
1977
Africa Asia (Cina esclusa) Cina
1992
Usa, Messico e Canada Centro e Sud America Australia e Oceania Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo osservare, in questo caso sono le medie imprese ad avere l’anno medio del primo accordo anteriore. Esse sono, inoltre, le imprese a presentare il maggior numero di aree di interesse. Effettuando un confronto con la tabella precedente, riguardante le imprese con investimenti diretti all’estero, possiamo osservare come per le piccole e medie imprese i valori della tabella sugli accordi contrattuali siano anteriori, mentre quelli delle altre imprese siano posteriori. Questo potrebbe essere dovuto a una storia internazionale delle piccole e medie imprese, le quali prima hanno fatto ricorso ai contratti con imprese straniere, mentre poi hanno deciso di ricorrere a degli investimenti diretti all’estero. Per concludere la nostra analisi “storica” sulle strategie internazionali delle imprese contenute nel nostro campione, presentiamo ora la tabella contente i dati dell’anno medio del primo investimento o accordo delle imprese che hanno sia investimenti che accordi contrattuali.
123
Figura 3.78
Anno medio del primo investimento o accordo delle imprese con sia IDE che accordi contrattuali, per dimensione dell’impresa e area geografica
Anno del primo investimento (imprese che hanno sia IDE che acc. contrattuali)
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Paesi Ue15
1982
2000*
2002
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
2006
2005
1980
Russia
2005
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
2002
Africa Asia (Cina esclusa)
1994
2003
Cina
1996
Usa, Messico e Canada
2005
Centro e Sud America
2005
1988
Australia e Oceania Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
La prima informazione saliente che possiamo trarre da questa tabella è, innanzi tutto, che, per quanto riguarda sia le piccole che le medie imprese, l’uso di entrambi gli strumenti di produzione all’estero (IDE e accordi contrattuali) è quella che viene utilizzata nel maggior numero di aree geografiche. Per quanto riguarda le grandi imprese, invece, la modalità usata in più aree era quella dei soli investimenti diretti all’estero. Possiamo notare, che i valori maggiormente anteriori sono quelli delle grandi imprese nell’area dei paesi entrati nell’Ue nel 2004 e in Cina, nonchè quello delle piccole imprese nei paesi dell’Unione europea dei 15. Le medie imprese hanno invece valori successivi. Tali valori sono, inoltre successivi a quelli delle medie imprese che hanno solo IDE o solo accordi contrattuali. Possiamo quindi affermare che la strategia dell’uso congiunto di entrambi gli strumenti è stata usata dalle medie imprese più recentemente. Ricapitolando quanto visto con le tabelle presentate, possiamo affermare che le grandi imprese iniziarono la produzione all’estero per prime, utilizzando sia gli accordi contrattuali che gli investimenti diretti all’estero. Nel contempo le medie imprese svolgevano parti della loro produzione all’estero preferendo lo strumento dell’accordo contrattuale. In una fase successiva le piccole imprese cominciarono a “copiare” le strategie delle grandi, cominciando a ricorrere ad IDE ed accordi contrattuali, mentre le medie imprese cercarono di sbarcare in nuovi mercati come la Cina, attraverso degli investimenti diretti all’estero. Per completare il ciclo, le medie imprese, tra gli anni ’90 e il primo decennio del 2000 cominciarono a fare ricorso ad entrambi gli strumenti, per portarsi ad essere così altamente internazionalizzate.
124
Osservando la distribuzione della statistica dell’anno medio del primo investimento o accordo all’estero, abbiamo notato che circa il 50% delle imprese nel nostro campione hanno effettuato il primo investimento o accordo prima del 2000, mentre l’altra metà l’ha effettuato dopo il 2000 (compreso). Abbiamo perciò deciso di effettuare una analisi della percentuale dell’export sul fatturato totale che prevedesse una discriminazione a seconda che il primo investimento o accordo sia stato effettuato prima o dopo il 2000 (compreso nella seconda ipotesi).
Figura 3.79
Percentuale di esportazioni in ogni area geografica sul fatturato esportato totale delle imprese col primo investimento/accordo prima del 1999, per dimensione di impresa e area geografica
% Esportazioni su fatturato esportato
Imprese con anno primo investimento/accordo prima del 1999 Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Paesi Ue15
56,25*
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
28,50
40,50
51,67
80,00
Russia Altri paesi europei (Turchia inclusa)
45,00
Africa
45,00
Asia (Cina esclusa)
10,00
Cina
30,00 39,00
40,00
Usa, Messico e Canada
50,00
Centro e Sud America
50,00
Australia e Oceania Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
125
Figura 3.80
Percentuale di esportazioni in ogni area su fatturato esportato totale delle imprese col primo investimento/accordo prima del 1999, per dimensione di impresa e area geografica
100,00 90,00 80,00 70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00
Piccole imprese Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.81
Percentuale di esportazioni in ogni area su fatturato esportato totale delle imprese col primo investimento/accordo dopo il 1999 (non compreso), per dimensione di impresa e area geografica
% Esportazioni su fatturato esportato
Imprese con anno primo investimento/accordo dopo del 1999 Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Paesi Ue15 Paesi entrati nell'Ue nel 2004
10,00
51,67
42,50
40,00
70,00
Russia Altri paesi europei (Turchia inclusa)
65,00
Africa Asia (Cina esclusa)
30,00
41,67
Cina
52,50
Usa, Messico e Canada
70,00
Centro e Sud America
80,00
Australia e Oceania Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
126
45,00
Figura 3.82
Percentuale di esportazioni in ogni area su fatturato esportato totale delle imprese col primo investimento/accordo dopo il 1999 (non compreso), per dimensione di impresa e area geografica
90 80 70 60 50 40 30 20 10 0 Australia e Oceania
Centro e Sud America
Usa, Messico e Canada
Cina
Asia (Cina esclusa)
Africa
Altri paesi europei (Turchia inclusa)
Russia
Paesi entrati nell'Ue nel 2004
Paesi Ue15
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Effettuando un confronto, possiamo vedere come le imprese che hanno avuto il primo investimento o accordo dopo il 2000 (compreso) esportino in un numero di aree geografiche maggiore. Le piccole imprese non hanno effettuato per la prima volta nuovi investimenti o accordi nell’Ue15 dopo il 1999. Osservando le aree presenti nelle due tabelle, possiamo vedere che nella seconda non c’è la presenza dell’Africa nelle medie imprese e nemmeno delle Americhe per le grandi imprese, nonchè la già citata Ue15 per le piccole imprese. Vi sono invece, le Americhe nelle medie imprese, che prima del 1999 non c’erano. La Cina, invece, risulta essere “attraente” sia prima che dopo il 1999. Questa differenza nella distribuzione geografica delle esportazioni è sicuramente dovuta alla globalizzazione che si è imposta con forza in quegli anni. Noi non riusciamo, tuttavia, in questa sede ad affermare che sia stato il periodo storico dell’investimento o accordo ad influenzare le esportazioni, in quanto alcune imprese potrebbero già aver avuto parte dell’export in un paese e, successivamente, aver pensato all’investimento diretto. In altri casi, invece, l’investimento diretto potrebbe essere stato propedeutico allo sviluppo di un determinato mercato. Analizziamo ora i motivi che le imprese del nostro campione dichiarano essere stati alla base della loro scelta di collocare parte (o tutta) la loro produzione all’estero. Le possibili opzioni sono quelle specificate all’interno del questionario preparato da Unicredit nell’ambito del “Rapporto Corporate Unicredit 2008”. Vi sono cinque motivazioni previste dal questionario, 127
più un’opzione aperta, ovvero “Altri motivi”. Noi nella nostra analisi discrimineremo ancora una volta i risultati a seconda della classe dimensionale dell’impresa.
Figura 3.83
Motivi che hanno indotto l’impresa a produrre all’estero (valori percentuali sul totale), per dimensione di impresa
Motivi che hanno indotto l'impresa a svolgere una attività all'estero (val. % su tot. imprese)
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Basso costo del lavoro
36,36
57,14
60,00
Disponibilità in loco di mat. 1e a basso costo
27,27
10,71
28,00
Prossimità dei mercati di sbocco
9,09
39,29
36,00
27,27
10,71
20,00
Minori vincoli in materia di tutela ambientale e diritti del lavoro
9,09
0,00
0,00
Altri motivi
9,09
3,57
4,00
Vantaggi fiscali
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.84
Motivi che hanno indotto l’impresa a produrre all’estero (valori percentuali sul totale), per dimensione di impresa
70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00 Altri motivi
Minori vincoli in materia di tutela ambientale e diritti del lavoro
Vantaggi fiscali
Prossimità dei mercati di sbocco
Disponibilità in loco di mat. 1e a basso costo
Basso costo del lavoro
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo osservare, in tutte e tre le categorie dimensionali, il motivo ritenuto principale è la presenza di un basso costo del lavoro nel paese nel quale sono stati realizzati investimenti diretti oppure accordi contrattuali. Questo non ci stupisce del tutto, infatti siamo consci della grande differenza tra il costo del lavoro nei paesi “occidentali” e quello nei paesi in via di 128
sviluppo, per non parlare dei paesi sottosviluppati. Per le piccole e le grandi imprese al secondo posto, con una percentuale ancora importante, c’è la disponibilità di materie prime a basso costo. Le piccole e le grandi imprese sono, perciò, accomunate nella loro internazionalizzazione dalla ricerca di input a basso costo per il processo produttivo. Per le medie imprese, invece, il secondo motivo per valori percentuali è la “prossimità dei mercati di sbocco”. Le medie imprese si rapportano perciò all’internazionalizzazione in un’ottica diversa. Nella ricerca di luoghi dove collocare la produzione non seguono una logica di pura riduzione dei costi, bensì una logica di ampliamento dei ricavi. È infatti pur vero che la prossimità dei mercati di sbocco riduce i costi di trasporto, tuttavia è anche indubbio che questo ci riporta una maggiore attenzione allo sviluppo dei propri mercati stranieri. Anche le grandi imprese hanno una percentuale alta in tale statistica, a voler significare che queste logiche probabilmente dipendono da un “peso” internazionale dovuto alla dimensione. Importante, sia per piccole che per grandi imprese è, poi, la ricerca di vantaggi fiscali in paesi stranieri. In questo caso vale un discorso simile a quello fatto per il basso costo del lavoro. I minori vincoli vengono invece ritenuti un motivo valido solo dalle piccole imprese e questo è probabilmente dovuto alla quantità limitata di risorse di cui esse dispongono. Le medie e le grandi imprese, infatti, hanno meno difficoltà ad adeguarsi a stringenti normative a tutela dell’ambiente e delle condizioni di lavoro. Sotto riportiamo una tabella che contiene i valori percentuali derivanti dal quoziente tra fatturato da esportazioni e fatturato totale annuo. I valori sono divisi per motivazione specificata dalle imprese nella tabella precedente e per classe dimensionale. Da notare è che, siccome la precedente tabella riguardava solo imprese che hanno investimenti diretti esteri o accordi contrattuali, anche questa domanda riguarda tali imprese.
Figura 3.85
Percentuale di esportazioni su fatturato totale, per dimensione di impresa e motivazione della produzione all’estero
% Esportazioni su fatturato
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Basso costo del lavoro
48,75
48,44
46,07
Disponibilità in loco di mat. 1e a basso costo
36,67
52,33
39,67
Prossimità dei mercati di sbocco
87,00
52,73
60,00
Vantaggi fiscali
16,67
60,00
52,00
Minori vincoli in materia di tutela ambientale e diritti del lavoro
10,00
Altri motivi
10,00
20,00
80,00
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
129
Figura 3.86
Percentuale di esportazioni su fatturato totale, per dimensione di impresa e motivazione della produzione all’estero
100,00 90,00 80,00 70,00 60,00 50,00 40,00 30,00 20,00 10,00 0,00 Altri motivi
Minori vincoli in materia di tutela ambientale e diritti del lavoro
Vantaggi fiscali
Prossimità dei mercati di sbocco
Disponibilità in loco di mat. 1e a basso costo
Basso costo del lavoro
Piccole imprese Medie imprese Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo osservare, per quanto riguarda le piccole imprese, le categorie che hanno una incidenza maggiore delle esportazioni sono le imprese che ricercano la prossimità rispetto ai mercati di sbocco. Questo è dovuto probabilmente al fatto che queste piccole imprese sono maggiormente strutturate in funzione delle esportazioni, vista la piccola dimensione dell’impresa. Per quanto concerne le medie imprese, la ricerca dei vantaggi fiscali risulta collegata a un maggiore peso delle esportazioni. Nella categoria delle imprese intermedie, il secondo posto è, però, delle imprese che ricercano la prossimità ai mercati di sbocco. Questo a conferma che la ricerca dello sviluppo di nuovi mercati porta risultati premianti in termini di esportazioni. Le grandi imprese hanno, invece, il valore più elevato nella categoria “Altri motivi”, mentre al secondo posto c’è la prossimità dei mercati di sbocco. Analizziamo ora quali sono i settori delle imprese che hanno risposto alla domanda sul motivo della produzione all’estero nei modi visti in precedenza. L’analisi è svolta discriminando ancora una volta per classi dimensionali. Cominciamo con le imprese che hanno risposto che tra le motivazioni principali c’è il basso costo del lavoro.
130
Figura 3.87
Principali produzioni delle imprese che producono all’estero per il basso costo del lavoro, per dimensione di impresa
Codici ATECO (2002) delle imprese con motivo prod. all'estero basso costo del lavoro Piccole Cod. ATECO
Medie Val. %
Cod. ATECO
Grandi Val. %
Cod. ATECO
Val. %
Mobili e manifat.
36
21,43 Tessile
17
14,71 Macch. elettriche
31
16,00
Tessile
17
21,43 Lavor. minerali
26
11,76 Tessile
17
12,00
Abbigliamento
18
14,29 Prod. in Metallo
28
11,76 Abbigliamento
18
12,00
Cuoio e calzature
19
14,29 Meccanica
29
11,76 Meccanica
29
12,00
Gomma e plastica
25
36
11,76 Ind. alimentare
15
8,00
7,14 Mobili e manifat.
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Le piccole, medie e grandi imprese che dichiarano con maggior frequenza che tra i motivi principali del realizzare parte della loro catena del valore all’estero c’è il basso costo del lavoro non sono in tutti e tre i casi dello stesso settore. Per le piccole imprese, infatti, il settore con la percentuale maggiore sul totale dei casi è “Fabbricazione di mobili; altre industrie manifatturiere” (codice 36), alla pari con le “Industrie tessili” (17). Seguono le “Confezione di articoli di abbigliamento; preparazione, tintura e confezione di pellicce” (18) e “Preparazione e concia del cuoio; fabbricazione di articoli da viaggio, borse, marocchineria, selleria e calzature” (19). Infine nella top 5 c’è la “Fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche” (25). Per quanto riguarda le piccole imprese, quindi, il basso costo del lavoro rappresenta un fattore importante per le imprese del settore dell’abbigliamento e calzature e mobili. Per quanto concerne le medie imprese, invece, la produzione col valore maggiore corrisponde al codice 17, cioè “Industrie tessili”. I settori che seguono sono, invece: “Fabbricazione di prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi” (26), “Fabbricazione e lavorazione dei prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti” (28), “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” (29) e “Fabbricazione di mobili; altre industrie manifatturiere” (36). Anche nel caso delle medie imprese, quindi, c’è la presenza del tessile, insieme alla meccanica e alla lavorazione di metalli. Infine, le grandi imprese che dichiarano il basso costo del lavoro tra i motivi principali della produzione all’estero sono dei settori della “Fabbricazione di macchine ed apparecchi elettrici Nca” (31, Nca significa non classificabili altrimenti), “Industrie tessili” (17), “Confezione di articoli di abbigliamento; preparazione, tintura e confezione di pellicce” (18), “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” (29), “Industrie alimentari e delle bevande” (15). Vi sono, perciò, delle produzioni nelle quali il basso costo del lavoro in altri paesi ha portato le imprese italiane a produrre all’estero. Queste similitudini riguardano l’abbigliamento, il tessile e la meccanica. 131
Riportiamo ora la tabella coi settori delle imprese che hanno risposto che tra i principali motivi della produzione all’estero c’è la presenza di materie prima a basso costo.
Figura 3.88
Principali produzioni delle imprese che producono all’estero per il basso costo delle materie prime, per dimensione di impresa
Codici ATECO (2002) delle imprese con motivo prod. all'estero mat. 1e a basso costo Piccole imprese
Medie imprese
Cod. ATECO Abbigliamento
18
Val. % Cod. ATECO 37,50 Chimica
Mobili e man.
36
37,50 Gomma e plastic
25
Metallurgia
27
12,50 Prod. in Metallo
Meccanica
29
12,50 Meccanica Tessile
Grandi imprese 28
Val. % 15,38
15,38 Macch. elettriche
31
15,38
28
15,38 Mobili e man.
36
15,38
29
15,38 Ind. Alimentari
15
7,69
17
7,69
24
17
Val. % Cod. ATECO 15,38 Prod. in Metallo
7,69 Tessile
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Anche in questo caso, per quanto riguarda le piccole imprese, i settore con la maggior frequenza di imprese che rispondono nel modo sopra indicato sono “Confezione di articoli di abbigliamento; preparazione, tintura e confezione di pellicce” (codice ATECO 18) e “Fabbricazione di mobili; altre industrie manifatturiere” (36). I seguenti sono, in questo caso, “Metallurgia” (27) e “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” (29). Come per il basso costo del lavoro, c’è la presenza dei settori dell’abbigliamento e delle calzature. Le medie imprese che dichiarano, invece, che la presenza di materie prime a basso costo è una delle motivazioni principali della produzione all’estero sono dei settori della “Fabbricazione di prodotti chimici e di fibre sintetiche e artificiali” (24), “Fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche” (25), “Fabbricazione e lavorazione dei prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti” (28), “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” (29) e “Industrie tessili” (17). Quest’ultimo settore è presente con meno forza rispetto agli altri. Per le grandi imprese, invece, i settori rappresentati sono “Fabbricazione e lavorazione dei prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti” (28), “Fabbricazione di macchine ed apparecchi elettrici Nca” (31), “Fabbricazione di mobili; altre industrie manifatturiere” (36). Vi sono poi “Industrie alimentari e delle bevande” (15) e “Industrie tessili” (17). Anche nel caso rappresentato in questa tabella, quindi, le industrie del tessile hanno parte importante per le piccole imprese, mentre le imprese medie e grandi si distinguono nei settori meccanici e chimici. Proseguiamo con i settori delle imprese che hanno risposto che tra i principali motivi della produzione all’estero c’è la prossimità dei mercati di sbocco. 132
Figura 3.89
Principali produzioni delle imprese che producono all’estero per la prossimità rispetto ai mercati di sbocco, per dimensione di impresa
Codici ATECO (2002) delle imprese con motivo prod. all'estero prossimità a mercati Piccole imprese Cod. ATECO
Medie imprese
Val. %
Cod. ATECO
Grandi imprese
Val. %
Cod. ATECO
Val. %
Meccanica
29
28,57 Meccanica
29
23,53 Meccanica
29
30,00
Autoveicoli
34
28,57 Prod. in metallo
28
17,65 Chimica
24
20,00
Abbigliamento
18
14,29 Ind. alimentari
15
5,88 Gomma e plastica 25
20,00
Altri mezz. trasp.
35
14,29 Abbigliamento
18
5,88 Ind. alimentari
15
10,00
Mobili e manifat.
36
14,29 Cuoio e calzature
19
5,88 Pasta-carta e carta 21
10,00
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Tra le piccole imprese si può notare la netta prevalenza di una produzione: la “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici”, contrassegnata dal codice ATECO 29 e della “Fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi” (34). Seguono “Confezione di articoli di abbigliamento; preparazione, tintura e confezione di pellicce” (18), “Fabbricazione di altri mezzi di trasporto” (35 e “Fabbricazione di mobili; altre industrie manifatturiere” (36). Per quanto riguarda le medie imprese, abbiamo un codice maggiormente frequente: “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” (29). Segue la “Fabbricazione e lavorazione dei prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti” (28), davanti ai codici 18 (“Confezione di articoli di abbigliamento; preparazione, tintura e confezione di pellicce”) e 19 (“Preparazione e concia del cuoio; fabbricazione di articoli da viaggio, borse, marocchineria, selleria e calzature”). Tra le grandi imprese il settore maggiormente frequente è “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” (29). Vi sono poi due codici tra loro alla pari: “Fabbricazione di prodotti chimici e di fibre sintetiche e artificiali” (24) e “Fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche” (25). Seguono i codici 15 e 21 (“Fabbricazione della pasta-carta, della carta e del cartone, dei prodotti di carta; stampa ed editoria”). Nel caso delle imprese che dichiarano la prossimità ai mercati di sbocco essere una motivazione importante c’è, quindi, la presenza di settori che risentono maggiormente di queste problematiche. Questi riguardano prevalentemente settori attinenti alla meccanica. Presentiamo, ora, le principali produzioni delle imprese che hanno risposto che la ricerca di vantaggi fiscali in paesi stranieri è una delle principali motivazioni del ricorso a investimenti diretti esteri o accordi contrattuali.
133
Figura 3.90
Principali produzioni delle imprese che producono all’estero per vantaggi fiscali, per dimensione di impresa Codici ATECO (2002) delle imprese con motivo prod. all'estero vantaggi fiscali
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Cod. ATECO Abbigliamento
Val. % Cod. ATECO 18 40,00 Tessile
Val. % Cod. ATECO 17 16,67 Tessile
Val. % 17 25,00
Mobili e manifat.
36
40,00 Cuoio e calzature
19
16,67 Cuoio e calzature
19
25,00
Prod. in metallo
28
20,00 Prod. in metallo
28
16,67 Gomma e plastica
25
25,00
Pasta-carta e carta 21
8,33 Ind. alimentari
15
12,50
Gomma e plastica 25
8,33 Abbigliamento
18
12,50
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
I codici delle piccole imprese sono tutti già stati visti nelle tabelle precedenti. Essi si riferiscono ai settori dell’abbigliamento (18) e della manifattura e della meccanica (36 e 28). Nelle medie imprese le “Industrie tessili” (17) e delle borse e calzatura (19) e la “Fabbricazione e lavorazione dei prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti” (28) sono numericamente più forti. Seguono: “Fabbricazione della pasta-carta, della carta e del cartone, dei prodotti di carta; stampa ed editoria” (21), “Fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche” (25). Nelle grandi imprese vi sono tre codici in sostanziale parità: 17, 19 e 25, tutti già visti anche nelle medie imprese. Vi sono poi i codici 15 e 18, i quali si riferiscono a produzioni dell’alimentare e delle pellicce. Per finire presentiamo le principali produzione delle imprese che dichiarano di produrre all’estero perché nei paesi stranieri ci sono minori vincoli in materia di tutela ambientale e dei diritti del lavoro.
Figura 3.91
Principali produzioni delle imprese che producono all’estero per minori vincoli in tema di tutele dell’ambiente e del lavoro, per dimensione di impresa Codici ATECO (2002) delle imprese con motivo prod. all'estero minori vincoli
Piccole imprese Cod. ATECO Tessile
Medie imprese
Val. % 17
Cod. ATECO
Grandi imprese
Val. %
100,00 Meccanica
Cod. ATECO
Val. %
29
33,33 Tessile
17
25,00
Gomma e plastica
25
22,22 Cuoio e calzature 19
25,00
Cuoio e calzature
19
11,11 Gomma e plastica 25
25,00
Pasta-carta e carta
21
11,11 Ind. alimentari
15
12,50
Metallurgia
27
11,11 Abbigliamento
18
12,50
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
134
Come possiamo vedere, questa categoria è meno numerosa, come dimostra il fatto che tra le piccole e le grandi imprese non c’è la presenza di nemmeno cinque codici ATECO. I codici sono per la maggior parte già stati visti. Le piccole imprese sono attive nel solo settore tessile (17). Le medie imprese operano nei settori meccanici, chimici, metallurgici, calzaturieri e cartieri. Le grandi sono attive nei settori tessili (17 e 18), calzaturieri (19), chimici (25) e alimentari (15).
3.7
Un confronto tra diverse classificazioni
Nei precedenti capitoli abbiamo visto come le definizioni di media impresa siano varie, in letteratura. Le principali definizioni sono, infatti, quella data dall’Unione Europea nell’allegato alla raccomandazione 2003/361/CE, quella fornita da Mediobanca R&S e quella di GE Capital. La prima prevede che siano medie le imprese tra i 50 e i 249 (compresi) addetti, che rispettano almeno un limite tra il fatturato inferiore ai 50 milioni di euro e il totale attivo di bilancio inferiore ai 43 milioni di euro. Secondo Mediobanca, invece, sono medie le imprese tra i 50 e i 499 addetti, con un fatturato tra i 15 e i 330 milioni di euro. La definizione di GE Capital comprende, invece, limiti che si riferiscono al solo fatturato, il quale deve essere tra i 5 e i 250 milioni di euro di fatturato. Come si può notare, queste definizioni variano, in modo anche sostanziale, tra di loro. Nelle analisi svolte in questo capitolo, noi abbiamo fatto riferimento a quanto specificato dall’Unione Europea. Ora svolgeremo dei confronti, per le principali statistiche, anche con le risultanti dalle definizioni di Mediobanca e di GE Capital. L’obiettivo è capire se vi sono delle differenze significative tra le statistiche sulle medie imprese, a seconda di come viene specificata la media impresa. Cominciamo col presentare una tabella, la quale ci fa vedere i cambiamenti nel numero di piccole, medie e grandi imprese, che intervengono al cambiamento dei requisiti di media impresa.
135
Figura 3.92
Numero di imprese, per dimensione di impresa e classificazione Numero di imprese
Grandi imprese
Piccole imprese Medie imprese
Unione Europea (allegato alla raccomandazione 2003/361/CE) GE Capital Mediobanca R&S
1224
1208
372
607
2128
69
1284
1379
141
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.93
Numero di imprese, per dimensione di impresa e classificazione
2500 2128 2000 1500
1224
1284 1208
1379 Piccole imprese
1000 607 500
Medie imprese
372 69
141
Grandi imprese
0 Unione Europea (allegato alla raccomandazione 2003/361/CE)
GE Capital
Mediobanca R&S
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo osservare, l’applicazione della definizione dell’Ue fa si che il numero delle medie imprese risulti essere leggermente inferiore a quello delle piccole imprese, mentre il numero di grandi imprese supera le 300 unità. L’applicazione delle specifiche di Ge Capital, invece, aumenta fortemente il numero di medie imprese, dimezzando quello delle piccole imprese. Le grandi imprese, inoltre, si riducono a meno di 100. Secondo quanto stabilito da Mediobanca R&S, invece, il numero di piccole imprese è lievemente maggiore rispetto a quelle secondo l’Ue. Il numero di medie imprese risulta essere maggiore di quello delle piccole imprese e quello delle grandi imprese si riduce a meno di 150 unità. La definizione data da GE Capital porta ad avere, quindi, un numero molto elevato di imprese considerate “medie”. Dopo aver visto la consistenza numerica degli aggregati dimensionali secondo le varie classificazioni, presentiamo ora una tabella contenente le principali produzioni in ogni classe 136
dimensionale, secondo tutte e tre le definizioni. Le produzioni sono presentate in forma di codici ATECO, secondo la classificazione del 2002.
Figura 3.94
Principali produzioni (Codici ATECO, classificazione del 2002) , per dimensione di impresa e classificazione Piccole imprese Codice settore
Unione Europea (allegato alla raccomandazione 2003/361/CE)
GE Capital
Mediobanca R&S
Medie imprese %
Codice settore
Grandi imprese %
Codice settore
%
Pr. metallo
28 14,87 Meccanica
29 15,89 Meccanica
29 14,78
Meccanica
29 14,54 Pr. metallo
28 12,58 Ind. alimen. 15
9,95
Ind. aliment. 15
9,72 Tessile
17
8,36 Metallurgia 27
9,95
Tessile
17
6,45 Ind. aliment. 15
7,95 Pr. metallo 28
8,87
Mobili
36
6,37 Mobili
7,20 Lav. miner. 26
8,60
Pr. metallo
28 17,96 Meccanica
29 15,70 Metallurgia 27 20,29
Meccanica
29 13,84 Pr. metallo
28 11,94 Lav. miner. 26
8,70
Tessile
17
6,59 Ind. aliment. 15 10,24 Ind. alimen. 15
5,80
Mobili
36
6,43 Tessile
17
7,66 Mat. plast.
25
5,80
Lav. miner.
26
5,77 Lav. miner.
26
6,63 Pr. metallo 28
5,80
Pr. metallo
28 14,88 Meccanica
29 15,95 Metallurgia 27 12,77
Meccanica
29 14,56 Pr. metallo
28 12,11 Meccanica
36
29 12,77
Ind. aliment. 15
9,81 Ind. aliment. 15
8,77 Chimica
24
9,93
Tessile
17
6,62 Tessile
17
7,90 M. elettric.
31
9,22
Lav. miner.
26
6,46 Mobili
36
7,03 Lav. miner. 26
8,51
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Se osserviamo le medie imprese, possiamo vedere come, secondo tutte e tre le definizioni, le produzioni principali corrispondono ai codici 29, cioè “Fabbricazione di macchine ed apparecchi meccanici” e 28 (“Fabbricazione e lavorazione dei prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti”). Le principali produzioni sono, quindi, attinenti alla meccanica. Vi sono poi i codici 17, cioè “Industrie tessili” e 15, cioè “Industrie alimentari e delle bevande”. Le piccole imprese sono anch’esse caratterizzate da una prevalenza di codici 28 e 29. Secondo la definizione dell’Unione Europea e di Mediobanca R&S c’è poi il codice 15, mentre secondo GE Capital il 17. L’applicazione di quest’ultima classificazione comporta, quindi, un passaggio delle imprese delle industrie alimentari da piccole a medie. Per le grandi imprese si può, invece, notare una diversità tra le varie definizioni. In questo caso, infatti, secondo l’Ue le grandi imprese sono prevalentemente del settore meccanico (29), alimentare (15) e metallurgico (27). Secondo GE Capital, invece, più di una grande impresa su cinque appartiene al settore metallurgico. Seguono il codice 26 che si riferisce alla “Fabbricazione di 137
prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi”, il codice 15 (alimentare) e il codice 25 (petrol-chimico). Secondo Mediobanca R&S le produzioni prevalenti all’interno della categoria delle grandi imprese sono la metallurgia (27) e la meccanica (29) alla pari. C’è, però, una frammentazione molto forte e i codici che seguono sono il 24 (“Fabbricazione di prodotti chimici e di fibre sintetiche e artificiali”) e il 31 (“Fabbricazione di macchine ed apparecchi elettrici Nca”). Visti gli effetti che le varie definizioni hanno sulla consistenza degli aggregati dimensionali delle imprese, confrontiamo ora gli effetti che questi cambiamenti portano nelle statistiche sulle esportazioni dell’impresa. Sotto riportiamo due tabelle: la prima contiene i dati relativi alla percentuale di imprese che esportano sul totale delle imprese, per categorie dimensionali, mentre la seconda riporta il quoziente tra esportazioni e fatturato.
Figura 3.95
Percentuale di imprese esportatrici, per dimensione di impresa e classificazione
% Imprese esportatrici su totale
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Unione Europea (allegato alla raccomandazione 2003/361/CE)
58,25
74,67*
81,99*
GE Capital
53,54
72,56*
73,91
Mediobanca R&S
58,33
76,65*
80,85
* Un asterisco sul valore delle medie imprese indica significatività a livello 95% del test unidirezionale effettuato tra i valori delle piccole e quelli delle medie imprese; un asterisco sul valore delle grandi imprese indica significatività a livello 95% del test unidirezionale tra i valori delle medie e i valori delle grandi imprese.
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.96
Percentuale di export su fatturato totale, per dimensione di impresa e classificazione
% Esportazioni su fatturato
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Unione Europea (allegato alla raccomandazione 2003/361/CE)
23,77
33,79*
38,55*
GE Capital
19,89
32,74*
37,20
Mediobanca R&S
23,79
34,89*
39,73*
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
138
Figura 3.97
Percentuale di imprese esportatrici e percentuale di export su fatturato totale, per dimensione di impresa e classificazione
90,00 Unione Europea (% imprese esportatrici)
80,00 70,00
Unione Europea (% export su fatturato)
60,00
GE Capital (% imprese esportatrici)
50,00 40,00
GE Capital ( % export su fatturato)
30,00 20,00
Mediobanca R&S (% imprese esportatrici)
10,00 0,00 Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Mediobanca R&S (% export su fatturato)
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
L’applicazione della definizione di GE Capital porta ad una riduzione della percentuale di imprese esportatrici in tutte e tre le categorie dimensionali. La definizione di Mediobanca R&S, invece, porta ad un aumento di tale statistica per quanto riguarda i valori di piccole e medie imprese e una riduzione, seppur lieve, per le grandi imprese. Secondo queste due definizioni, inoltre, non vi sarebbero differenze significative tra medie e grandi imprese nella percentuale di imprese esportatrici. Diverso è il discorso per quanto riguarda la percentuale derivante dalle esportazioni sul fatturato. La definizione di GE Capital provoca una riduzione nei valori di tutte e tra le categorie dimensionali, mentre la definizione di Mediobanca R&S provoca un aumento negli stessi. Per quanto riguarda tale statistica, inoltre, abbiamo che solamente secondo GE Capital non vi sono differenze significative tra i valori di medie e grandi imprese, mentre secondo le definizioni dell’Ue e di Mediobanca sì. Proseguiamo con l’analisi delle imprese che hanno strategie di penetrazione commerciale. Lo facciamo riportando quattro tabelle. Ognuna contiene rispettivamente le percentuali delle imprese che hanno strutture fisse a gestione diretta, che ricorrono a traders locali, che hanno strutture fisse a partecipazione mista e, infine, altre strategie di promozione dei loro prodotti. Tutte queste tabelle sono distinte per categorie dimensionali e per definizioni dimensionali adottate.
139
Figura 3.98
Percentuale di imprese con strutture fisse a gestione diretta, per dimensione di impresa e classificazione
% imprese con strutture fisse a gestione diretta
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Unione Europea (allegato alla raccomandazione 2003/361/CE)
4,98
9,18*
13,75*
GE Capital
3,49
8,84*
20,29*
Mediobanca R&S
4,97
9,81*
17,02*
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.99
Percentuale di imprese con strutture gestite da traders locali, per dimensione di impresa e classificazione
% imprese con strutture gestite da traders locali
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Unione Europea (allegato alla raccomandazione 2003/361/CE)
4,15
10,03*
9,43
GE Capital
2,99
8,60*
8,70
Mediobanca R&S
4,26
10,03*
9,93
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.100 Percentuale di imprese con strutture gestite da imprese miste partecipate, per dimensione di impresa e classificazione % imprese con strutture gestite da imprese miste partecipate
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Unione Europea (allegato alla raccomandazione 2003/361/CE)
1,58
3,12*
4,04
GE Capital
0,83
2,96*
5,80
Mediobanca R&S
1,50
3,17*
6,38*
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.101 Percentuale di imprese con altre azioni promozionali, per dimensione di impresa e classificazione % imprese con altre strategie di penetrazione commerciale
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Unione Europea (allegato alla raccomandazione 2003/361/CE)
4,31
8,93*
9,16
GE Capital
2,16
8,41*
4,35
Mediobanca R&S
4,42
9,37*
6,38
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
140
Figura 3.102 Percentuale di imprese con strutture fisse a gestione diretta, gestite traders locali, da imprese miste partecipate e altre azioni promozionali, per dimensione di impresa e classificazione 30,00 20,00 10,00 0,00 Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Unione Europea (% imprese con SFGD) GE Capital (% imprese con SFGD) Mediobanca R&S (% imprese con SFGD) Unione Europea (% imprese con traders) GE Capital (% imprese con traders) Mediobanca R&S (% imprese con traders) Unione europea (% imprese con SGIMP) GE Capital (% imprese con SGIMP) Mediobanca R&S (% imprese con SGIMP) Unione Europea (% imprese con altre startegie prom.) GE Capital (%imprese con altre strategie prom.) Mediobanca R&S (% imprese con altre strategie prom.) Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo osservare, per quanto riguarda la significatività delle differenze tra i valori degli aggregati dimensionali, l’applicazione di diverse definizioni non provoca, in questo caso, alcun cambiamento, salvo per quanto riguarda la significatività delle differenze tra medie e grandi imprese nella percentuale di imprese con strutture fisse a partecipazione mista, secondo Mediobanca R&S. Per quanto concerne, invece, la consistenza numerica vediamo delle differenze. Queste sono maggiormente elevate nella percentuale di imprese che hanno strutture fisse a gestione diretta. In questo caso, l’applicazione della definizione di GE Capital provoca una riduzione nei valori delle piccole e medie imprese. Sia la definizione di GE Capital che quella di Mediobanca R&S producono, invece, un aumento abbastanza forte nei valori delle grandi imprese. L’applicazione di quanto stabilito da GE Capital provoca una riduzione nei valori delle medie imprese in tutte e quattro le tabelle, mentre quella di Mediobanca R&S un aumento nei valori delle stesse in tre delle quattro tabelle. Degna di nota è, inoltre, la forte riduzione nella percentuale di grandi imprese che hanno altre strategie di penetrazione commerciale, a seguito dell’applicazione della definizione di GE Capital. Presentiamo ora i dati che si riferiscono alla percentuale di imprese che hanno investimenti diretti all’estero e di accordi contrattuali produttivi, per classi dimensionali di impresa.
141
Figura 3.103 Percentuale di imprese con investimenti diretti all’estero, per dimensione di impresa e classificazione % imprese con IDE
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Unione europea (allegato alla raccomandazione 2003/361/CE)
0,83
2,58*
7,28*
GE Capital
0,33
2,80*
10,14*
Mediobanca R&S
0,87
3,07*
10,64*
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.104 Percentuale di imprese con accordi contrattuali all’estero, per dimensione di impresa e classificazione % imprese con accordi contrattuali produttivi
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Unione europea (allegato alla raccomandazione 2003/361/CE)
0,75
2,17*
4,85*
GE Capital
0,50
2,09*
8,70*
Mediobanca R&S
0,79
2,34*
7,80*
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.105 Percentuale di imprese con IDE e con accordi contrattuali all’estero, per dimensione di impresa e classificazione 12,00 10,00
Unione Europea (% imprese con IDE)
8,00
Unione Europea (% imprese con accordi contrattuali) GE Capital (% imprese con IDE)
6,00 4,00
GE Capital (% imprese con accordi contrattuali)
2,00
Mediobanca R&S (% imprese con IDE)
0,00
Mediobanca R&S (% imprese con accordi contrattuali)
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Cominciamo analizzando la prima tabella. Come possiamo vedere, c’è significatività sia nelle differenze tra piccole e medie imprese che tra medie e grandi imprese, a prescindere da quale definizione di media impresa venga applicata. Le specifiche date da GE Capital e Mediobanca R&S fanno sì che i valori di medie e, soprattutto, grandi imprese siano più elevate. Questo probabilmente è dovuto al fatto che le medie imprese secondo queste 142
classificazioni sono di dimensioni maggiori rispetto a quelle secondo l’Ue. Analizzando, invece, la percentuale di imprese con accordi contrattuali produttivi all’estero osserviamo un andamento simile. Anche in questo caso c’è, infatti, significatività in tutti i test effettuati. Anche in questo caso i valori delle grandi imprese secondo GE Capital e Mediobanca R&S sono più grandi, mentre i valori delle medie imprese secondo GE Capital sono lievemente minori. In tutti i casi i valori delle medie la percentuale delle medie imprese è maggiore di quella delle piccole, mentre i valori delle grandi imprese sono maggiori di quelle delle grandi. Dopo aver presentato i dati relativi alle percentuali di imprese che hanno investimenti diretti all’estero e accordi contrattuali, riportiamo ora l’incidenza della produzione tramite IDE sul fatturato e tramite accordi contrattuali sul fatturato.
Figura 3.106 Incidenza della produzione da IDE su fatturato, per dimensione di impresa e classificazione Incidenza della produzione tramite IDE su fatturato
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Unione europea (allegato alla raccomandazione 2003/361/CE)
54,27
23,06*
35,79*
GE Capital
11,00
32,22
41,43
Mediobanca R&S
51,83
23,98*
43,80*
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Figura 3.107 Incidenza della produzione da accordi contrattuali su fatturato, per dimensione di impresa e classificazione Incidenza della produzione tramite accordi e contratti su fatturato
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Unione europea (allegato alla raccomandazione 2003/361/CE)
51,20
20,31*
29,23
GE Capital
32,33
27,07
36,43
Mediobanca R&S
48,82
20,93*
34,64*
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
143
Figura 3.108 Incidenza della produzione da IDE e accordi contrattuali su fatturato, per dimensione di impresa e classificazione 60,00 50,00
Unione Europea (incidenza IDE su fatturato)
40,00
Unione Europea (incidenza accordi contrattuali su fatturato)
30,00
GE Capital (incidenza IDE su fatturato)
20,00
GE Capital (incidenza accordi contrattuali su fatturato)
10,00
Mediobanca R&S (incidenza IDE su fatturato)
0,00
Mediobanca R&S (incidenza accordi contrattuali su fatturato)
Piccole imprese
Medie imprese
Grandi imprese
Fonte: elaborazione propria su dati Unicredit
Come possiamo osservare, per quanto riguarda l’incidenza della produzione tramite IDE su fatturato, abbiamo, secondo tutte le classificazioni dell’Ue e di Mediobanca R&S, significatività nelle differenze tra tra piccole e medie imprese e tra medie e grandi imprese. I valori delle medie imprese sono i più bassi, mentre quelli delle piccole i più alti. Secondo la definizione di GE Capital, invece, non c’è alcuna significatività. I valori delle medie imprese non sono più, inoltre, i più bassi, bensì c’è una sorta di proporzionalità rispetto alla dimensione dell’impresa. Per quanto riguarda l’incidenza della produzione tramite accordi contrattuali sul fatturato, abbiamo, invece, significatività nella sola differenza tra piccole e medie imprese, secondo la definizione dell’Ue. Secondo quella di Mediobanca R&S c’è, invece, significatività anche nelle differenze tra medie e grandi imprese, mentre secondo GE Capital ancora una volta non vi sono differenze. I valori delle medie imprese sono, come consistenza numerica, sempre i più bassi.
3.8
Conclusioni
In questo capitolo abbiamo visto le specificità delle strategie di internazionalizzazione delle medie imprese. Tali diversità si sostanziano in un diverso peso delle esportazioni, rispetto alle imprese
di dimensione
piccola
e
grande.
Per
quanto
concerne
strategie
di
internazionalizzazione maggiormente avanzate, come la penetrazione commerciale, abbiamo 144
osservato, invece, anche delle comunanze rispetto alle grandi imprese. Particolare discorso merita, inoltre, la produzione all’estero. In questo caso, abbiamo, infatti, notato un ricorso a tali modalità, da parte delle medie imprese, in misura intermedia rispetto alle piccole e alle grandi. La particolarità sta, invece, nel diverso fine che sembrano avere le imprese di medie dimensioni nel produrre all’estero. Al fine di rendere maggiormente solida l’analisi è stato, infine, effettuato un confronto tra i risultati che si ottengono applicando diverse definizioni dei limiti degli aggregati dimensionali. Nel seguente capitolo discuteremo i risultati finora presentati, alla luce di quanto è stato affermato nell’ambito della letteratura su questo tema.
145
4
MEDIE IMPRESE: DISCUSSIONE DEI MODELLI DI INTERNAZIONALIZZAZIONE
4.1
Premessa
Nei precedenti capitoli abbiamo visto come le medie imprese italiane abbiano delle strategie di internazionalizzazione che si distinguono, in certi casi, rispetto a quelle delle piccole imprese e di quelle grandi. In questo capitolo discuteremo i risultati che abbiamo ottenuto con la nostra analisi, alla luce delle letteratura presente in tema di internazionalizzazione. Verrà effettuato un confronto delle evidenze principali, con quanto affermato in una serie di studi, sia italiani che internazionali.
4.2
Le esportazioni
Nel precedente capitolo abbiamo visto che le esportazioni sono la modalità di internazionalizzazione più adottata dalle imprese di tutti e tre gli aggregati dimensionali. Oltre tutto, in tutti e tre i casi, più di metà delle imprese del campione analizzato esporta (58,25% delle piccole imprese, 74,67% delle medie imprese e 81,99% delle grandi imprese). La quota di medie imprese che esportano è significativamente maggiore rispetto a quella delle imprese di piccole dimensioni. Questo è dovuto alla forte proiezione internazionale delle medie imprese italiane (Coltorti, 2008). Secondo alcuni autori, inoltre, non sono da sottovalutare i cambiamenti nella geografia mondiale della ricchezza che avvengono negli anni da noi analizzati e in quelli precedenti e successivi (Corò, 2008). Secondo gli autori, infatti, in questi anni le medie imprese riescono, meglio delle altre, ad adattarsi ai cambiamenti nelle reti commerciali e distributive. Le piccole imprese manifatturiere si sono, invece, affidate, per l’accesso ai mercati esteri, all’iniziativa di buyers internazionali (Corò, 2008). Per questo le imprese di dimensione intermedia si sono rivelate maggiormente adatte alla competizione internazionale, in un contesto come quello sopra descritto. Nella nostra analisi abbiamo visto, inoltre, che anche la percentuale di grandi imprese che esportano è significativamente maggiore rispetto a quella delle medie imprese. In tal senso otteniamo uno scenario nel quale la crescente dimensione dell’impresa sembra esprimersi in una crescente propensione all’export. Tale tendenza è stata osservata anche da Bugamelli, Cipollone e Infante (2000), i 146
quali hanno analizzato un campione costruito sulla base di dati forniti dall’Istat e dal CNEL, aggiornati fino al 1997. Noi osserviamo dati abbastanza simili a quelli forniti dagli autori, anche come consistenza numerica, sebbene non risulti possibile effettuare un confronto. Come sottolineato anche in precedenza, infatti, la classificazione dimensionale dell’Istat è basata sul solo numero di addetti. Le definizioni dei limiti dimensionali usate da noi, invece, prevedono anche l’uso di parametri economico-finanziari, come il fatturato o il totale dell’attivo di bilancio. Interessante è, inoltre, il fatto che, cambiando i limiti dimensionali che definiscono le medie imprese, otteniamo risultati parzialmente diversi. Adottando, infatti, le classificazioni dimensionale di GE Capital e di Mediobanca R&S, risultano dei scenari nei quali vi sono ancora differenze significative tra le percentuali di imprese esportatrici all’interno delle categorie di piccole e medie imprese. Con la definizione di GE Capital le piccole imprese esportatrici diventano il 53,54%, contro il 72,56% di medie imprese, mentre con la definizione di Mediobanca R&S il valore delle piccole si attesta sul 58,33%, mentre quello delle medie sul 76,65%. Il cambiamento sussiste, invece, nel confronto tra i valori di medie e grandi imprese (secondo la definizione di GE Capital 72,56% di medie imprese che esportano, contro il 73,91% di grandi, secondo quella di Mediobanca R&S 76,65% di medie e 80,85% di grandi). Adottando delle definizioni di media impresa che comprendano imprese di dimensione maggiore, in termini di fatturato e addetti, infatti, non risulta più alcuna significatività nel test di invarianza tra le percentuali di medie e grandi imprese esportatrici. Questo risultato conferma parzialmente i risultati presentati nell’ambito di una ricerca di GE Capital (2012). Dall’analisi delle risposte a un questionario somministrato a 1600 executives di imprese italiane, tedesche, francesi e del Regno Unito, infatti, è emerso che le medie imprese riconoscono che il loro mercato è quello estero nel 45% dei casi, contro il 26% delle grandi imprese (Malshe et al, 2011). Dalla nostra analisi emerge che, effettivamente, le medie imprese si rapportano all’export in misura non significativamente inferiore a quanto fanno le grandi imprese. Andamento simile a quello registrato per la percentuale di imprese esportatrici sul totale, l’abbiamo osservato anche nel caso della percentuale del fatturato da esportazioni, sul fatturato annuo totale. Il valore medio delle piccole imprese è del 23,77%, quello delle medie il 33,79% e quello delle grandi il 38,55%. Anche in questo caso, infatti, i valori delle medie imprese risultano essere significativamente maggiori rispetto a quelli delle piccole imprese, mentre i valori delle grandi imprese risultano essere significativamente superiori rispetto a quelli delle medie imprese. Risultati simili hanno ottenuto Iacobucci e Spigarelli (2007). La differenza sostanziale tra il nostro lavoro e quello dei due autori in precedenza citati riguarda, però, la dimensione delle medie imprese. I due autori, nell’ambito di una ricerca su solo 147
quest’ultime, infatti, le scindono in due classi di addetti. Una da 250 a 499 addetti, mentre l’altra da 500 a 2500 addetti. Secondo la definizione fornita dall’Unione Europea, invece, le imprese di dimensioni intermedie arrivano fino a 250 addetti, quindi le unità considerato da Iacobucci e Spigarelli (2007), nell’ambito del nostro studio risulterebbero essere grandi imprese. In questo caso ci viene parzialmente in aiuto la definizione di media impresa di Mediobanca R&S, secondo la quale queste unità arrivano fino a 499 addetti. Applicando tale definizione (ma anche la definizione dell’UE) abbiamo ottenuto dei risultati secondo i quali sembra esservi una relazione positiva tra la dimensione dell’impresa e il peso dell’export sui ricavi (con la definizione di Mediobanca R&S abbiamo un 23,79% per le piccole imprese, un 34,89% per le medie e un 39,73% per le grandi). Nel 2005 tale relazione è stata trovata anche da Iacobucci e Spigarelli (2007), pur con tutte le distorsioni nel confronto tra i nostri risultati e quelli di questi autori. Nell’ambito di una ricerca internazionale sulle imprese inglesi questi sono stati messi in evidenza anche da altri autori (Storey, 1994; Curran, Blackburn e Woods, 1991). Westhead et al. (2001) hanno, inoltre, asserito che le imprese piccole (insieme a quelle giovani) non hanno le caratteristiche e le abilità necessarie per divenire forti esportatrici. Secondo l’autore, inoltre, i policy-makers, volendo favorire le esportazioni si concentreranno su imprese che già sono esportatrici. Le piccole e medie imprese verrebbero, in tal senso, penalizzate e solo una piccola parte, ritenuta affidabile per l’export, che già attua, verrebbe aiutata. Questo ragionamento si scontra con la realtà italiana, infatti, come messo in luce da Coltorti (2008) nel caso italiano non ha senso parlare di happy few. Bisogna, altresì, parlare di happy many, in quanto le imprese non grandi hanno un forte orientamento internazionale e anche un basso tasso di esportazioni su fatturato non significa una bassa qualità del prodotto (Coltorti, 2008).
4.2.1
Le esportazioni: scelte localizzative
Dall’analisi della rilevanza delle aree geografiche per percentuale di imprese esportatrici e export sul fatturato delle imprese italiane è emerso che le aree nelle quali esportano il maggior numero di imprese sono quelle dei paesi europei. Questo risultato si ottiene per tutte le classi dimensionali di impresa (nella sola area dell’Unione europea dei 15 esportano il 53,27% delle piccole imprese, il 68,54% delle medie e il 73,92% delle grandi). L’altra area molto importante, in questi termini, è quella degli Stati Uniti, del Messico e del Canada (9,97% di piccole imprese, 18,54% di medie e 29,84% di grandi). Se andiamo, invece, ad osservare il “peso” che le esportazioni in queste aree hanno per le imprese che le realizzano, vediamo, 148
invece, che le aree maggiormente rilevanti sono ancora quelle dei paesi europei, per tutte le classi dimensionali (l’export/fatturato medio delle piccole imprese in Ue15 è del 75,50%, quello delle medie del 68,82% e quello delle grandi del 59,58%). All’interno della categoria delle piccole imprese notiamo che molto importanti sono i mercati asiatici (export/fatturato in Asia, esclusa la Cina, del 21,20% e in Cina dell’8,42%). Questi, in termini di percentuale sul fatturato, risultano maggiormente importanti di quelli dell’America settentrionale (13,88%). Per le imprese medie e grandi, invece, i mercati asiatici e quelli americani sono sostanzialmente pari (12,34% di Asia, Cina esclusa, delle medie contro il 12,10% di USA, Messico e Canada; i valori delle grandi vedono un 10,11% di Asia, senza Cina, contro il 13,10% del Nord America). Dalle nostre analisi emerge che più di una impresa su due, per tutte le categorie dimensionali, esporta nei paesi dell’Unione Europea dei 15 (i valori sono quelli presentati a inizio capoverso). Questa rilevazione ci porta uno scenario nel quale c’è stato un significativo aumento rispetto a quanto rilevato da Ferrara e Thomas (2011) su dati del 2002. Gli autori, inoltre, avevano affermato, che nei mercati occidentali riescono ad operare solo le aziende più grandi, le quali riescono a reggere in modo più efficace la concorrenza dei grandi gruppi stranieri (Ferrara e Thomas, 2011). Dai nostri dati emerge che effettivamente vi sia una sorta di relazione tra la dimensione dell’impresa e la percentuale di imprese esportatrici, nell’area dei paesi europei. Tale relazione sussiste, però, anche per molte altre aree geografiche. Le piccole imprese, inoltre, esportano comunque con una quota maggiore al 50% di loro nei paesi dell’Ue dei 15 e, se osserviamo la percentuale delle esportazioni in tale area sul fatturato, possiamo vedere che il contributo è comunque importante. I due autori hanno, inoltre, notato che nelle sole aree dell’Unione europea dei 15, dell’Europa centrale e dell’Oceania la percentuale di export su fatturato supera quella delle imprese operanti nelle varie aree (Ferrara e Thomas, 2011). Secondo i nostri dati questo avviene per le piccole imprese (nell’Ue15 il 53,27% delle imprese e il 75,50% di esportazioni su fatturato), mentre per le medie c’è una quasi parità tra i due valori (nell’Ue15 il 68,54% di imprese e 68,82% dell’indice). Per le piccole imprese, inoltre, questo avviene in tutte le aree geografiche. Nel caso delle grandi imprese, invece, questo non avviene mai, neanche per l’area dell’Unione Europea dei 15 (in quest’area il 73,92% delle grandi imprese contro il 59,58% di export/fatturato). Questo significherebbe, seguendo la logica di Ferrara e Thomas (2011) che le piccole e le medie imprese si starebbero indirizzando con maggior forza verso i mercati internazionali. Con la nostra analisi riusciamo a quantificare il contributo del commercio estero in paesi in via di sviluppo o, comunque, a forte crescita sulle performance delle imprese italiane. Secondo alcuni autori, la crescente globalizzazione della produzione delle imprese italiane 149
porterebbe ad un aumento delle importazioni di beni intermedi (Coltorti, 2011). La produzione di questi è stata, infatti, collocata, soprattutto dalle imprese grandi, in paesi che consentono il conseguimento di costi più contenuti. Questo processo porterebbe a un peggioramento della bilancia commerciale, conseguente anche alla riduzione delle esportazioni dovuta all’aumento dei dazi da parte dei paesi in via di sviluppo (Coltorti, 2011). Un confronto tra esportazioni e importazioni, a livello macro-economico viene effettuato da Corò (2008). Questi, prendendo i dati Istat del 2007, nota una quota di esportazioni in Cina sul totale del 2%, a fronte di una quota di importazioni del 6%. Nella nostra analisi abbiamo, invece, potuto osservare che la quota di imprese che esportano in Cina rimane contenuta: il 2,12% delle piccole imprese, il 6,37% delle medie imprese e il 10,22% delle grandi imprese. La quota media di esportazioni sul fatturato è, invece, maggiormente alta tra le piccole imprese. Essa si attesta, infatti, a un 8,42% contro il 4,95% delle medie imprese e il 5,79% delle grandi. Da questi dati sembrerebbe confermata l’ipotesi che le esportazioni in Cina non abbiano un ruolo importante per le imprese italiane. Se osserviamo, però, i dati relativi al resto dell’Asia, otteniamo dei dati diversi. Essa rappresenta, infatti, il terzo mercato, per numerosità di piccole imprese, mentre risulta il quarto sia per medie che per grandi imprese. Se andiamo ad analizzare il peso sul fatturato, vediamo che l’Asia (Cina esclusa) è il terzo mercato maggiormente importante sia per le piccole che per le medie imprese. I mercati asiatici dimostrano, perciò, una rilevanza comunque importante per le nostre imprese.
4.2.2
Le esportazioni: un’analisi settoriale
Analizzando i settori di appartenenza delle imprese italiane possiamo notare come i settori con il maggior peso in termini di percentuale dell’export sul fatturato non siano gli stessi per tutte le classi dimensionali. Per quanto riguarda le piccole imprese i settori maggiormente dipendenti dall’estero sono la fabbricazione di autoveicoli e rimorchi (codice 34, con un valore dell’indice del 49,58%), seguita dalla fabbricazione di calzature e prodotti di cuoio (codice 19, con 39,66%) e dai settori meccanici (codice 29, con 36,28%). Le medie imprese che, invece, risultano prime in tale classifica sono proprio quelle dei settori meccanici (29, con 48,77%), seguite dai prodotti in cuoio e calzature (19, con 45,26%) e dalla fabbricazione degli altri mezzi di trasporto (35, con 42%). Per concludere i codici con i valori maggiori nella statistica analizzata, per le grandi imprese, sono il 32, cioè “apparecchi radio-televisivi e per le comunicazioni” (62%), seguito dal 30, il quale si riferisce all’informatica (60%) e il 25, cioè i settori della gomma e materie plastiche (59,86%). Sembra confermata l’ipotesi che le 150
medie imprese che vanno meglio nei mercati internazionali sono quelle dei settori del made in Italy e delle tecnologie (Corò, 2011). Possiamo, infatti, sicuramente mettere in parallelo quest’ultime con la meccanica, mentre è abbastanza forte anche il parallelo tra il made in Italy e le calzature e i prodotti in cuoio, tra i quali, in particolare, le borse. Altro parallelo che può essere fatto, è quello con quanto affermato da Ferrara e Thomas (2011). Gli autori sostengono, infatti, che il peso degli esportatori di piccole dimensioni è maggiore in settori maturi che non in quelli high-tech. La competizione in settori maturi, tuttavia, non inficia la redditività (Ferrara e Thomas, 2011). Dalla nostra analisi viene una parziale conferma. Se usiamo, infatti, la definizione delle classi di tecnologia dell’OCSE, presentata nel primo capitolo, abbiamo che i settori meccanici e dei trasporti sono definiti a tecnologia medio-alta, mentre i prodotti di pelle, cuoio e tessuti sono a bassa tecnologia. Queste sono, come abbiamo visto, le tecnologie per le quali le piccole e medie imprese che vi operano hanno il maggior grado di apertura internazionale. Allo stesso tempo le grandi imprese con la più alta quota di esportazioni sul fatturato sono nei settori dell’informatica e degli apparecchi delle telecomunicazioni, i quali sono settori high-tech. Vi sono poi le materie plastiche, le quali sono, per la classificazione OCSE, produzioni a medio-bassa tecnologia. Le piccole e, soprattutto, le medie imprese italiane, quindi, sfuggono parzialmente a questa logica, in quanto risultano attive in modo pesante sui mercati internazionali in settori a medioalta tecnologia. Sembra, invece, confermato il rapporto tra maggiori dimensioni e maggiore tecnologia delle produzioni. Faini e Sapir (2005) rilevano che le imprese italiane hanno acquisito, in passato, un vantaggio comparato nei settori ad alta intensità di manodopera poco qualificata. Conferma viene data da Coltorti (2011) su dati Mediobanca. Secondo Faini e Sapir (2005), inoltre, è in corso una erosione dei vantaggi comparati delle imprese italiane. Nella nostra analisi non facciamo riferimento a specifici indicatori relativi ai vantaggi comparati, tuttavia possiamo osservare che le imprese nelle quali l’Italia ha un vantaggio risultano anche essere quelle con il maggior grado di apertura internazionale. Per le piccole e le medie imprese, infatti, i settori maggiormente dipendenti dall’estero sono il meccanico e il calzaturiero e della lavorazione del cuoio. La meccanica risulta, inoltre, essere una delle principali produzioni per tutte le classi dimensionali di impresa. Una importante annotazione riguarda una particolarità che si riferisce ai settori nei quali le medie imprese sono particolarmente attive attraverso l’export. Secondo Nanut e Tracogna (2011) gli investimenti diretti risultano essere la scelta migliore laddove sono forti i fattori firm-specific, cioè tecnologie e marchi. Le piccole e medie imprese avrebbero dei vantaggi definiti “locali” dal modello del diamante di Porter (1990), i quali consiglierebbero l’export in 151
luogo degli investimenti diretti (Nanut e Tracogna, 2011). La particolarità del modello di internazionalizzazione delle medie imprese è che quest’ultime proprio in questi settori risultano essere anche forti esportatori (Corò, 2008) e noi abbiamo dati consistenti con quest’ultima ipotesi.
4.3
Le strategie di penetrazione commerciale
Dalla nostra analisi a riguardo delle strategie di penetrazione commerciale all’estero è emerso che le modalità a cui le imprese italiane fanno maggior ricorso sono le strutture fisse (commerciali e distributive) a gestione diretta all’estero e le strutture fisse gestite da traders locali. Le prime sono adottate dal 4,98% delle piccole imprese, dal 9,18% delle medie e dal 13,71% delle grandi. Le seconde sono, invece, adottate dal 4,15% di piccole imprese, dal 10,03% di medie e dal 9,43% di grandi. A dire il vero c’è un’altra modalità molto frequente. Questa è costituita dalle altre forme promozionali (4,31% di piccole imprese, 8,93% di medie e 9,16% di grandi). Essa consiste in una categoria residuale, inoltre in questo caso non è previsto l’uso di strutture fisse all’estero. L’ultima modalità, meno frequente, prevista nella nostra analisi concerne il ricorso a strutture fisse gestite da imprese miste partecipate (1,58% di piccole imprese, 3,12% di medie e 4,04% di grandi). La prima strategia, cioè, l’uso di strutture fisse a gestione diretta si può configurare come una sorta di investimento diretto all’estero, con finalità puramente commerciali e distributive, ma non produttive. Il ricorso a traders locali, invece, consiste nella così detta esportazione indiretta. Le strutture fisse gestite da imprese miste partecipate si sostanziano, invece, in una categoria che comprende delle joint ventures, oppure situazioni simili. Per quanto riguarda il ricorso a strutture fisse a gestione diretta abbiamo trovato una relazione positiva tra la dimensione dell’impresa e la percentuale di imprese con questa modalità. Questa tendenza sembra confermata dal fatto che la stessa analisi, effettuata sulla base delle classificazioni di Mediobanca R&S e di GE Capital, vede aumentare la differenza tra i valori percentuali delle tre categorie dimensionali. Come abbiamo, infatti, già visto, queste due classificazioni prevedono una dimensione maggiore delle medie e, soprattutto, delle grandi imprese. Con la definizione di GE Capital, infatti, abbiamo che le strutture fisse a gestione diretta sono adottate dal 2,99% di piccole imprese, contro l’8,84% di medie e il 20,29% di grandi imprese. Con la definizione di Mediobanca R&S, invece, abbiamo un 4,97% di piccole imprese, contro un 9,81% di medie e 17,02% di grandi. Questi risultati sembrano consistenti con quanto affermato da Bugamelli, Cipollone e Infante (2000), sebbene la loro analisi 152
riguardi gli investimenti diretti all’estero, più in generale. Resciniti e Matarazzo (2012) affermano che le strategie di integrazione commerciale, attraverso investimenti diretti all’estero, richiedano un’intensità di capitale al di fuori del perimetro di controllo delle medie imprese. Questa ipotesi sembrerebbe essere confermata dal fatto che vi siano differenze significative tra i valori delle imprese medie e di quelle grandi, però non spiegherebbe del tutto le differenze tra le imprese medie e quelle piccole. Diversamente rispetto al caso delle strutture fisse a gestione diretta, nel caso del ricorso a strutture gestite da traders locali abbiamo trovato una significatività statistica, a livello 95%, solo nel test di ineguaglianza tra i valori delle piccole imprese e quelli delle medie imprese. Nessuna significatività c’è, invece, nella differenza tra i valori delle medie imprese e quelli delle grandi. Questo risultato contrasta parzialmente con quanto affermato da Bugamelli, Cipollone e Infante (2000). Gli autori avevano, infatti, trovato una correlazione tra la dimensione dell’impresa e il ricorso alle collaborazioni commerciali. Dalla nostra analisi emerge, invece, la necessità di una massa critica che consenta il ricorso a questa modalità, che viene, però, già soddisfatta dalle medie imprese. Secondo Hessels e Terjesen (2007), le quali hanno effettuato un’analisi nell’ambito della resource dependency theory e della institutional theory, il ricorso alle esportazioni indirette da parte delle piccole e medie imprese è legato da una relazione inversa a condizioni favorevoli di produzione nel mercato domestico e di accesso alla tecnologia. Inoltre il ricorso alle esportazioni indirette è maggiormente probabile quando l’impresa non è first mover, bensì segue i suoi competitors (Hessels e Terjesen, 2007). Questa forma consente, inoltre, di espandere le proprie attività all’estero senza sostenere significativi investimenti (Caroli, 2008). Hessels e Terjesen (2007) sostengono che l’interazione con grandi imprese straniere consente di limitare la liability of newness (Stinchcombe, 1965) e la liability of foreignness (Hymer, 1976). Dalla nostra analisi, tuttavia risulta che le grandi imprese facciano ricorso a questa forma in modo analogo alle medie imprese. Il ricorso a strutture fisse gestite da imprese miste partecipate risulta essere molto più limitato di quello alle due strategie di penetrazione appena presentato. A livello di significatività statistica abbiamo una situazione analoga a quanto visto per le strutture gestite da traders locali. C’è, cioè, una differenza significativa tra la percentuale di piccole e medie imprese che usano questa modalità, ma nessuna significatività nelle differenze tra i valori di medie e grandi imprese. Anche in questo caso, quindi, la massa critica necessaria è quella della media impresa. Caroli (2008) rileva che vi sono delle similarità tra le joint ventures e gli accordi, nonché il fatto che questa forma sia la più avanzata forma di alleanza strategica. L’autore afferma, inoltre, che l’esperienza suggerisce che le joint ventures internazionali non riescono 153
con una certa frequenza a realizzare gli obiettivi per le quali sono state create (Caroli, 2008). Questo può essere un buon motivo che giustifica il ricorso, così limitato, a questa forma di internazionalizzazione da parte delle imprese del nostro campione. Secondo Dunning (1981) vi sono dei fattori, come la necessità di protezione del marchio, che portano al ricorso a franchising o joint ventures. Coltorti (2011) afferma che le medie imprese italiane risultano riluttanti a brevettare le loro scoperte, al fine di non rivelare importanti particolari ai concorrenti. Questa può essere, quindi, considerato un motivo dello scarso ricorso alla joint venture da parte delle imprese italiane, soprattutto visto che dai nostri dati medie e grandi imprese si comportano in modo analogo. L’ultimo tipo di strategia di penetrazione commerciale che abbiamo analizzato è costituito dagli altri tipi di azioni promozionali all’estero. Anche in questo caso abbiamo una situazione simile a quanto osservato per i due precedenti. Sembra anche qui esservi una massa critica necessaria e quest’ultima sembra essere quella delle medie imprese. Il ricorso a questa forma è, tuttavia, molto più ampio che non rispetto alle strutture fisse gestite da imprese miste partecipate, sebbene inferiore rispetto a quello alle strutture fisse a gestione diretta e ai traders locali.
4.3.1
Le strategie di penetrazione commerciale e l’export
Dalla nostra analisi è emerso che le imprese che adottano strategie di penetrazione commerciale tendono ad essere esportatrici in misura maggiore rispetto alle imprese che non ricorrono a queste forme di internazionalizzazione. Questo avviene osservando sia la percentuale di imprese esportatrici, sia la percentuale delle esportazioni sul fatturato totale. Questo risultato riguarda, inoltre, tutte le classi dimensionali di impresa. Le imprese che hanno strutture fisse a gestione diretta ed esportano sono l’83,33% delle piccole imprese, l’88,99% delle medie imprese e il 96,08% delle grandi, mentre l’indice medio export su fatturato è del 39,45% per le piccole imprese, del 42,11% per le medie e del 48,61% per le grandi. Le imprese che ricorrono a traders ed esportano, invece, sono l’86% delle piccole imprese, con un indice export/fatturato del 35,84%. Le medie imprese che ricorrono a traders ed esportano sono il 91,60% (l’indice del fatturato esportato è del 42,97%), mentre le grandi sono il 100%, con un indice di esportazioni su fatturato del 58,66%. Le piccole imprese con strutture fisse gestite da imprese miste partecipate, che esportano sono il 73,68% (l’indice export/fatturato è del 33,82%), le medie sono l’89,19%, con un indice del 44,25%, le grandi sono il 100%, con un indice del 53,13%. Le imprese con altre strategie promozionali 154
all’estero e che esportano sono, infine, l’86,54% nel caso delle piccole imprese (con un export su fatturato del 52,38%), l’88,68% delle medie (con un 44,25% di fatturato esportato) e il 100% delle grandi imprese, con un valore dell’indice del 55,62%. Nel caso delle strutture fisse a gestione diretta, oltre ad osservare il maggior grado di apertura internazionale sopra espresso, notiamo che non vi sono differenze significative né tra le percentuali di piccole, medie e grandi imprese che esportano, né tra le percentuali di export su fatturato. Questo ci suggerisce che tra le imprese che ricorrono agli IDE commerciali non vi siano differenze nelle strategie di internazionalizzazione dovute alla dimensione dell’impresa. Il fatto che le imprese che adottano questo tipo di investimenti diretti abbiano una maggiore apertura anche in termini di esportazioni ci suggerisce che è confermata l’ipotesi secondo la quale gli investimenti diretti esteri tendano a sviluppare i mercati del paese nel quale vengono effettuati, aumentando così anche l’export. Viene confermato anche quanto affermato da Mori e Rolli (1998) con riferimento a tale questione. Gli autori, riprendendo quanto affermato da Dunning (1993), postulano che gli investimenti diretti esteri di tipo commerciale tenderebbero a ridurre, in origine, le esportazioni verso il paese nel quale viene effettuato l’investimento, però aumentando l’export, nel lungo termine. Se osserviamo la distribuzione territoriale del fatturato esportato, possiamo notare come l’indice export/fatturato esportato totale nell’area dell’Unione Europea dei 15 sia più basso rispetto a tale indice calcolato per tutte le imprese, per tutte le classi dimensionali di impresa (67,02% per le piccole imprese, 63,51% per le medie e 51,43% per le grandi). Il contrario avviene per l’Asia (23,57% le piccole, 16,25% le medie e 16,40% le grandi) e il Centro e Sud America (rispettivamente: 14,44%, 12,77% e 12,10%). Questo conferma quanto affermato da Kojima (1978). Secondo l’autore gli investimenti diretti effettuati in paesi che detengono fattori scarsi nel paese di origine dell’impresa multinazionale (come, ad esempio, manodopera a basso costo) tendono ad aumentare il commercio internazionale con i paesi nei quale è effettuato l’IDE. Analizzando la propensione all’esportazione delle imprese con strutture fisse gestite da traders locali, possiamo vedere come la percentuale di imprese esportatrici risulti molto alta. Essa è ancora più elevata rispetto a quella delle imprese con strutture fisse a gestione diretta. Questo conferma che i fattori che aiutano l’aumento dell’export (come, ad esempio, un orientamento globale delle organizzazioni o un management con esperienza internazionale), non favoriscano solo le esportazioni dirette o solo quelle indirette, ma tendano a favorirle entrambe (Hessels e Terjesen, 2007). La percentuale di esportazioni sul fatturato tende, invece, a subire maggiormente l’effetto della dimensione dell’impresa. Questo risultato è simile a quanto già visto nel precedente paragrafo per le esportazioni dirette e probabilmente anche le motivazioni sono simili a quelle già descritte. Nella distribuzione territoriale del peso 155
delle esportazioni vediamo un aumento del peso dell’Africa e una diminuzione di quello della Cina. Questo riflette il ricorso a traders per i paesi dove il commercio può essere inficiato da fattori sfavorevoli (Hessels e Terjesen, 2007), come l’Africa, mentre in paesi maggiormente organizzati come la Cina questo non avviene. La percentuale di imprese con delle strutture fisse gestite da imprese miste partecipate, che esportano è molto alta per le imprese medie e grandi. La percentuale dell’export sul fatturato totale di queste imprese è, inoltre, molto più elevato rispetto a quelle delle imprese che non adottano questa forma di internazionalizzazione. Questo sembra configurare un ruolo delle joint ventures simile a quello teorizzato da Kojima (1978). Questi affermò che la costituzione di joint ventures, talvolta anche con un ruolo minoritario da parte delle trading companies giapponese, abbia una funzione di sviluppo del mercato. Il risultato è quello di fare aumentare le esportazioni da parte delle trading companies, i cui profitti derivano principalmente proprio da queste. Per quanto concerne le imprese che adottano altri tipi di azioni promozionali, vediamo una percentuale molto alta di imprese esportatrici e anche un peso molto elevato delle esportazioni sul fatturato totale. Questo tipo di penetrazione commerciale è volto prevalentemente ad appoggiare le esportazioni, perciò non stupisce che queste abbiano un rilevo nei ricavi delle imprese. Una particolarità è il peso dell’export delle medie imprese, il quale risulta essere significativamente minore rispetto a quello delle piccole imprese. Questo è probabilmente dovuto al particolare modello di business delle medie imprese, per le quali il paese d’origine mantiene comunque una importanza fondamentale (Coltorti, 2011).
4.4
La produzione all’estero
Dalla nostra analisi sulle strategie di internazionalizzazione delle imprese italiane, con riferimento alla produzione all’estero, è emerso che le imprese italiane che svolgono parte della loro catena del valore in paesi stranieri sono una minoranza abbastanza ridotta. C’è, inoltre, una evidente relazione tra la dimensione dell’impresa e la percentuale di imprese che producono all’estero. Questo avviene sia per quanto riguarda gli investimenti diretti all’estero che gli accordi contrattuali di produzione. Analizzando le imprese nel nostro campione, abbiamo, infatti, una percentuale di piccole imprese che hanno investimenti diretti all’estero inferiore all’1%. Stessa cosa avviene per gli accordi contrattuali. I valori delle medie imprese si attestano, in entrambi i casi, poco al di sopra del 2%. Per quanto riguarda le grandi imprese, invece, la percentuale di imprese con investimenti diretti cresce fino a più del 7%. Le imprese 156
di grande dimensione sono, inoltre, le uniche per le quali vi sia una differenza evidente tra la percentuale di imprese con IDE e quella di imprese con accordi contrattuali produttivi. Quest’ultime sono, infatti meno del 5%. Come affermato da Bugamelli, Cipollone e Infante (2000), le esportazioni sono una modalità molto più frequente tra le imprese italiane, rispetto alle modalità di produzione all’estero. Al contrario di quanto emerso dall’analisi svolta dagli autori, dai nostri dati otteniamo che gli accordi contrattuali di produzioni non sono una modalità maggiormente utilizzata rispetto agli investimenti diretti all’estero. Invece, consistente con la ricerca degli autori, sembra la relazione, che anche noi troviamo, tra dimensione e percentuale di imprese che producono all’estero. A questi risultati Iacobucci e Spigarelli (2007) danno una spiegazione attraverso il diverso modello di business delle piccole imprese. Queste, infatti, si inserirebbero in un sistema caratterizzato dal dinamismo (Audretsch, 1995), il quale beneficia di un alto turnover. Al contrario le imprese medie e grandi sono caratterizzate dalla continuità nel tempo delle strutture organizzative, necessaria per valorizzare gli investimenti nei fattori immateriali (Iacobucci e Spigarelli, 2007). Tali diversità nel modello di business fanno sì che per le piccole imprese risulti maggiormente difficoltoso e, talvolta, meno conveniente effettuare investimenti diretti all’estero. Analizzando l’incidenza percentuale della produzione tramite investimenti diretti all’estero e tramite accordi contrattuali produttivi sul fatturato totale delle imprese, abbiamo potuto osservare come la prima risulti maggiore della seconda, sia pur con una differenza non molto elevata. Molto importante, in questa analisi, si è, però, rivelata la distinzione tra classi dimensionali di impresa. Le medie imprese dimostrano, infatti, una incidenza della produzione all’estero, tramite investimenti diretti, sul fatturato significativamente inferiore sia a quella delle grandi imprese che a quella delle piccole (23,06% contro un 54,27% delle piccole imprese e un 35,79% delle grandi). Per quanto riguarda l’incidenza della produzione tramite accordi contrattuali sul fatturato, invece, i valori delle medie imprese risultano significativamente minori solo rispetto a quelli delle piccole imprese (20,31% contro il 51,20% delle piccole imprese e il 29,23% delle grandi). Questi dati sono coerenti col modello di internazionalizzazione delle medie imprese e del quarto capitalismo, espresso da alcuni autori. Secondo costoro, le grandi imprese hanno affrontato il processo di globalizzazione insistendo sulla riduzione dei costi e delocalizzando quote importanti di attività produttive (Coltorti, 2011). Contemporaneamente sono emerse delle imprese, evoluzioni delle aree distrettuali, le quali non hanno reagito alla competizione dei paesi emergenti con l’offshoring, bensì con l’outsourcing, lasciando cioè quote importanti di produzione nei paesi di origine (Coltorti, 2011). Il modello di business adottato da queste pocket multinationals consiste, infatti, nel localizzare all’estero alcune fasi della catena del valore, nella re-importazione di 157
semilavorati per la trasformazione in prodotti finiti, che prenderanno la strada dell’esportazione (Nanut e Tracogna, 2011). Queste imprese sviluppano, cioè, nella base domestica le funzioni critiche e a maggior valore aggiunto della filiera produttiva (Corò, 2008). Da qui si può comprendere perché il rapporto tra valore della produzione all’estero e fatturato totale delle medie imprese risulti essere minore rispetto a quello delle grandi. Questa tesi è confermata dal fatto che le medie imprese che producono all’estero costituiscano la classe dimensionale con il valore percentuale, sul totale, più basso di imprese che realizzano all’estero il prodotto finito (69,70% delle medie imprese contro 83,33% delle piccole e 73,08% delle grandi). Questa classe dimensionale costituisce anche quella con la quota più alta di imprese che motivano la produzione all’estero del paese estero con la prossimità rispetto ai mercati di sbocco (39,29% delle medie imprese contro 9,09% delle piccole e 36% delle grandi). Questa possibilità di risposta, infatti, è l’unica (insieme alla categoria residuale “altri motivi”) che non attiene puramente ad una logica di riduzione di costi. Da un’analisi sulla distribuzione settoriale e geografica delle imprese che hanno degli investimenti diretti all’estero e sull’incidenza della produzione tramite investimenti diretti all’estero nelle aree geografiche, emerge che le medie imprese che hanno IDE sono in gran maggioranza attive nel settore dei prodotti in metallo (22,58%) e della meccanica (12,90%), seguiti dai settori tessili (16,13%) e dell’abbigliamento (9,68%) e da quelli chimici (9,68%). Esse sono, inoltre, attive, prevalentemente nei paesi europei (0,57% delle piccole imprese, 0,99% delle medie e 4,57% delle grandi) e in Cina (0,58% delle medie imprese e 1,08% delle grandi imprese, però export su fatturato rispettivamente del 28,29% e 38,75%). Questo vale sia per la percentuale di imprese presenti con IDE che per l’incidenza sul fatturato. Questo risulta coerente con quanto affermato nella teoria eclettica dell’impresa internazionale da Dunning (1980). Dal punto di vista delle medie imprese tessili, infatti, paesi come quelli asiatici e, soprattutto, la Cina, offrono un basso costo del lavoro e, spesso, anche altri fattori incentivanti, come scarse tutele richieste e buone infrastrutture. Dal punto di vista delle medie imprese del settore meccanico, invece, i paesi europei offrono la possibilità di accesso alla tecnologia e alle risorse. Anche la Cina, però, sta migliorando a grandi passi la sua competitività in termini tecnologici e, inoltre, risulta ricca di risorse. Discorso simile meritano le grandi imprese, le quali risultano attive, con IDE, nei settori meccanici e chimici, nonché in quelli tessili e delle industrie alimentari. Come aree geografiche le grandi imprese risultano avere investimenti diretti nei paesi europei e in Cina. La differenza sta nel fatto che queste risultano attive anche in Centro e Sud America, proprio con l’alimentare. Secondo il framework di Dunning (1980), tali investimenti si inserirebbero in una logica resource-based. 158
Nel caso delle piccole imprese fare questi paragoni risulta maggiormente difficile, in quanto quelle attive con IDE sono poche e poche sono anche le aree di investimento.
4.4.1
La produzione all’estero e le esportazioni
Dalla nostra analisi emerge che le grandi imprese che producono all’estero tramite investimenti diretti hanno una quota di export sul fatturato significativamente maggiore rispetto a quella delle grandi imprese che non producono all’estero (60,22% contro 37,44%). Tale significatività non sussiste, invece, per piccole e medie imprese. Per le imprese di media dimensione, tuttavia, c’è una significatività statistica nell’ipotesi che il rapporto tra esportazioni e fatturato delle imprese che hanno sia IDE che accordi contrattuali sia maggiore rispetto a quello delle medie imprese che non producono all’estero (51,33% contro 33,42%). Non vi sono differenze statisticamente rilevanti per l’ipotesi che la quota di export su fatturato delle imprese con solo IDE sia maggiore rispetto a quella delle imprese con solo accordi contrattuali, per nessuna classe dimensionale. Questo risulta parzialmente coerente con quanto affermato da parte della letteratura in tema (Barba Navaretti et al., 2010; Iacobucci e Spigarelli, 2007). Secondo gli autori, infatti, gli investimenti diretti all’estero avrebbero la funzione di sviluppare il mercato del paese nel quale sono effettuati, portando, quindi, ad un aumento delle esportazioni in esso. Secondo un’altra parte della letteratura, invece, in alcuni casi investimenti diretti e esportazioni possono costituire fattori sostitutivi. Questo può avvenire nei casi nei quali vi siano delocalizzazioni produttive, volte a sfruttare il minor costo degli input. In questo caso la diminuzione potrebbe anche essere compensata da un aumento nell’esportazione di prodotti intermedi (Mori e Rolli, 1998), tuttavia secondo altri autori, queste stanno diminuendo progressivamente (Coltorti, 2011). Dalle nostre analisi abbiamo significatività alle ipotesi che gli investimenti diretti all’estero aumentino l’export, solo in certi casi, tuttavia non abbiamo alcuna significatività nell’ipotesi contraria. Risulta quindi da preferire la prima ipotesi per le grandi imprese. Per le medie imprese, invece, rileviamo che esse stanno attivando con sempre maggior forza dei modelli di business nei quali è prevista più di una forma di internazionalizzazione (Nanut e Tracogna, 2011). Un approccio simile a quelli presentati è seguito nel modello giapponese dell’investimento diretto estero “pro-trade” (Kojima, 1978). Secondo l’autore, l’IDE giapponese tende a distinguersi da quello americano, in quanto il primo si concentra in paesi ricchi di risorse e di manodopera a basso costo e tende a produrre per il mercato giapponese. Il secondo, invece, tende a produrre beni tecnologici destinati al mercato locale. L’IDE pro-trade viene, inoltre, effettuato prevalentemente dalle 159
imprese dei settori maturi, nei quali sta diminuendo il vantaggio comparato (Kojima, 1978). Questo modello, inoltre, teorizza una complementarietà tra gli investimenti diretti all’estero e il commercio internazionale. È pur vero che i settori nei quali sono attivi le medie imprese stanno, complessivamente, vedendo il loro vantaggio comparato disgregarsi (Faini e Sapir, 2005), tuttavia, osserviamo, dalla nostra analisi, che le imprese italiane hanno effettuato prevalentemente IDE nei paesi europei. La forte propensione al ricorso alle joint ventures avuta negli anni scorsi dalle imprese italiane, inoltre, è calata fortemente. Possiamo, perciò, affermare che mentre una volta il modello giapponese si poteva adattare al contesto italiano, ora le ragioni che legano l’export gli investimenti diretti all’estero sembrano essere diverse.
4.4.2
La produzione all’estero: motivi e attività svolte
Analizzando le ragioni dell’investimento diretto all’estero o dell’accordo contrattuale, emerge che le grandi imprese sono quelle per la quali il basso costo del lavoro e il basso costo delle materie prime risultano essere indicati in percentuale maggiore (per il basso costo del lavoro 36,36% di piccole imprese, 57,14% di medie e 60% di grandi e per le materie prime a basso costo 27,27% di piccole, 10,71% di medie e 28% di grandi). Questo è coerente con quanto affermato da Coltorti (2011), a proposito dei fenomeni di delocalizzazione delle grandi imprese italiane. La percentuale di piccole imprese che indicano il basso costo del lavoro come motivazione è più bassa, questo probabilmente anche perchè esse tendono a non disporre della quantità di risorse necessaria per effettuare un investimento a questo fine (Resciniti e Matarazzo, 2012). La percentuale di piccole imprese che ricercano la disponibilità di materie prime a basso costo è, tuttavia, molto alta, come quella di quelle che ricercano vantaggi fiscali (27,27%). Come abbiamo già detto, le medie imprese tendono a cercare la prossimità ai mercati di sbocco. Questo risulta coerente con una strategia volta alla globalizzazione della value chain (Corò, 2008). Il basso costo del lavoro o delle materie prime è perseguito, tra l’altro, per lo più, da imprese attive nei settori nei quali il vantaggio competitivo si sta sgretolando, secondo quanto definito da Faini e Sapir (2005). Questo risulterebbe consistente con quanto affermato da Kojima (1978). Per quanto concerne i settori meccanici, inoltre, importante è anche la vicinanza ai mercati di sbocco, al fine di ridurre i costi di trasporto, coerentemente con quanto affermato da Dunning (1980). L’analisi delle attività svolte all’estero da imprese che hanno investimenti diretti o accordi contrattuali, ci mostra come le grandi e le medie imprese siano quelle che realizzano all’estero semilavorati e componenti, in maggior percentuale (semilavorati: 25% di piccole imprese, 160
30,30% di medie imprese e 46,15% di grandi imprese; componenti: 15,15% di medie imprese e 26,92% di grandi imprese). Le medie imprese, invece, sono le uniche ad effettuare all’estero attività di progettazione e ricerca e sviluppo, coerentemente con la politica di globalizzazione della catena del valore (Resciniti e Matarazzo, 2012). Le imprese che realizzano all’estero attività di produzione core, inoltre, sono attive nei settori della meccanica e del tessile e abbigliamento. Questi sono i settori dove le imprese italiane detengono fattori firm-specific, come marchi e tecnologie (Nanut e Tracogna, 2011). Le imprese dei settori meccanici sono, invece, quelle che realizzano, in percentuale maggiore, semilavorati e componenti. Questo è anche dovuto alla maggiore potenziale di delocalizzazione (Corò, 2008).
4.5
Limiti e prospettive per una ricerca futura
Nell’ambito della nostra ricerca abbiamo effettuato un’analisi delle strategie di internazionalizzazione delle imprese italiane. In questa abbiamo, inoltre, distinto le imprese per dimensione, anche secondo diverse classificazioni. Non abbiamo ricondotto, però, delle analisi sulla performance economico-finanziaria di piccole, medie e grandi imprese a quella da noi effettuata sulle varie strategie. La diversità, che abbiamo dimostrato, tra i modelli di internazionalizzazione delle imprese italiane, infatti, deriva da un diverso modello di business. Questo non sempre è dovuto alla dimensione dell’impresa tout court, bensì ad altri fattori come l’appartenenza di fatto a dei sistemi produttivi locali, oppure a dei fattori dovuti più propriamente alla tradizione produttiva italiana. Inoltre non abbiamo analizzato il nesso tra gli investimenti in beni immateriali e l’internazionalizzazione, da alcuni autori considerato causale (Iacobucci e Spigarelli, 2007). Altro limite viene dal fatto che il set di dati in nostro possesso sono relativi al triennio 2004 – 2006. Essi sono antecedenti alla crisi economicofinanziaria del 2008. Da qui viene anche, però, un’opportunità per una futura ricerca, in quanto affiancando analisi simili alle nostre con dati maggiormente recenti ai nostri risultati si può comprendere come la lunga crisi economica che stiamo attraversando abbia modificato le strategie di internazionalizzazione delle piccole, medie e grandi imprese italiane. Attraverso dei dati provenienti da altri campioni, inoltre, risulterebbe interessante effettuare delle analisi sulle evoluzioni dei modelli di internazionalizzazione, con particolare riferimento alla stage theory (Johanson e Vahlne, 1977). Un’analisi di questo tipo permetterebbe, inoltre, un confronto tra i diversi modelli presenti nella letteratura (Cavusgil, 1980; Caroli, 2008). Infine un’ulteriore proseguimento della nostra ricerca potrebbe concentrarsi su fenomeni 161
maggiormente recenti come le imprese born global (Caroli, 2008), oppure sui modelli di adattamento delle altre imprese.
4.6
Conclusioni
Nell’ambito della nostra ricerca abbiamo potuto vedere come le imprese italiane di varie dimensioni tendano ad avere diverse strategie di internazionalizzazione. Per effettuare queste analisi abbiamo applicato la definizione di media impresa dell’Unione Europea. Questa afferma che siano medie le imprese tra i 50 e i 249 addetti (compresi), che rispettano almeno un limite tra il fatturato inferiore ai 50 milioni di euro e il totale attivo di bilancio inferiore ai 43 milioni di euro. Le imprese italiane tendono a ricorrere maggiormente alle esportazioni, rispetto alle altre modalità di internazionalizzazione. La percentuale di imprese che esportano e il grado di dipendenza del fatturato totale dall’export crescono al crescere della dimensione dell’impresa. Le esportazioni si dirigono, inoltre, maggiormente verso i paesi europei, il Nord America e l’Asia. Tra le strategie di penetrazione commerciale all’estero, invece, le grandi imprese hanno una percentuale di ricorso significativamente superiore a quella delle medie imprese solo nel caso delle strutture fisse a gestione diretta. Per tutte le altre strategie di penetrazione commerciale sembrano esservi similarità tra le strategie di medie e grandi imprese. Anche per queste modalità di internazionalizzazione i paesi maggiormente scelti come target sono quelli europei. Le imprese che ricorrono a strategie di penetrazione commerciale ed esportano sono, inoltre, una percentuale maggiore rispetto a quella delle imprese esportatrici che non hanno strategie di penetrazione commerciale. Ridotto è il ricorso alla produzione all’estero, rispetto alle altre modalità di internazionalizzazione. Le percentuali di imprese che producono all’estero sono crescenti al crescere della dimensione dell’impresa, sia per gli investimenti diretti esteri che per gli accordi contrattuali. Per quanto riguarda l’incidenza della produzione all’estero sul fatturato, le medie imprese dimostrano valori ridotti, rispetto a quelli delle piccole e grandi imprese. Questo sembra dovuto a una diversa strategia di produzione da parte delle medie imprese, le quali realizzano all’estero le attività a basso valore aggiunto, per poi completare le lavorazioni in Italia ed esportare i propri prodotti finiti. Abbiamo avuto una parziale conferma al fatto che gli investimenti diretti all’estero e il commercio internazionale non siano sostituti, bensì complementi. Questa conferma l’abbiamo, però, avuta solo per medie e grandi imprese. Per 162
quanto riguarda le scelte localizzative, anche nei casi di produzione all’estero i paesi europei risultano essere quelli con la percentuale maggiore di imprese con insediamenti. Abbiamo effettuato un’analisi delle strategie di internazionalizzazione di piccole, medie e grandi imprese, applicando delle definizioni di media impresa differenti rispetto a quella dell’Unione Europea. Oltre a quest’ultima, già sopra descritta, abbiamo, infatti, applicato anche le definizioni di media impresa date da Mediobanca R&S e da GE Capital. Il fine è stato il capire se, applicando ogni definizione, sussistono le stesse differenze tra i modelli di internazionalizzazione degli aggregati dimensionali, oppure se cambiamenti nel “corpo” delle medie imprese comportano delle variazioni. La definizione di Mediobanca R&S afferma che sono medie le imprese tra i 50 e i 499 addetti, con un fatturato tra i 15 e i 330 milioni di euro. GE Capital definisce, invece, il Mid Market, il quale è formato da imprese tra i 5 e i 250 milioni di euro di fatturato. La prima differenza che salta all’occhio, applicando le tre definizione, è nel numero di medie imprese. Mentre applicando le classificazioni dell’Ue e di Mediobanca R&S abbiamo un numero di medie imprese simili (1208 con la prima definizione, 1379 con la seconda), applicando quella di GE Capital otteniamo 2128 medie imprese. Queste differenze sono dovute al fatto che quest’ultima definizione prevede un limite inferiore del fatturato delle medie imprese che è minore, inoltre non vengono applicati altri limiti, relativi a misure extra-economiche. In tutti e tre i casi le medie imprese sono attive prevalentemente nei settori meccanici, tessili e delle industrie alimentari. Applicando le definizioni di Mediobanca R&S e GE Capital non c’è significatività nelle differenze tra le percentuali di medie e grandi imprese esportatrici, mentre continuano ad essere significative le differenze tra la percentuale di piccole e medie imprese che esportano. Dai risultati che abbiamo ottenuto, sembra configurarsi la presenza di una massa critica che consente di fare il “salto di qualità” nella competizione nei mercati internazionali. Questa massa critica è superiore ai limiti massimi previsti dalla definizione di media impresa dell’Ue, bensì sembra essere assorbita dalle medie imprese, secondo le classificazioni di Mediobanca R&S e GE Capital. Se andiamo ad osservare il grado di dipendenza del fatturato dall’export (dato dall’indice esportazioni su fatturato totale), abbiamo una concordanza tra i risultati ottenuti applicando le definizioni dell’Unione Europea e quella di Mediobanca R&S. Il grado di apertura internazionale sembra legato alla dimensione dell’impresa, in questi casi. Applicando la definizione di GE Capital, invece, c’è significatività nelle differenze tra i valori delle piccole e quelli delle medie imprese, ma non tra quelli delle medie e quelli delle grandi imprese. In questo caso sembra, quindi, esserci una massa critica, per la quale vale il discorso fatto in precedenza. 163
Applicando le diverse definizioni, abbiamo incontrato anche delle altre differenze. Una di queste riguarda il ricorso a strutture fisse gestite da imprese miste partecipate, da parte delle imprese dei diversi aggregati dimensionali. Applicando la definizione di Mediobanca R&S abbiamo incontrato una significatività nelle differenze tra le percentuali di medie e grandi imprese che ricorrono a questa forma di internazionalizzazione. Nei casi delle definizioni dell’Unione Europea e di GE Capital questo non avviene. Le grandi imprese, secondo la definizione di Mediobanca R&S, hanno dimensioni maggiori che negli altri due casi e questo, quindi, sembra far raggiungere una massa critica che renda maggiormente possibile il ricorso alle strutture gestite da imprese partecipate. Le ultime differenze incontrate riguardano l’incidenza della produzione all’estero sul fatturato di piccole, medie e grandi imprese. Mentre applicando le definizioni di Mediobanca R&S e quella dell’Unione Europea troviamo quanto sopra descritto in merito al diverso modello di internazionalizzazione delle medie imprese, applicando la definizione di GE Capital non troviamo alcuna significatività nelle differenze tra l’incidenza della produzione all’estero di piccole, medie e grandi imprese. Questo non avviene né per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri, né gli accordi contrattuali di produzione. Dall’analisi dei contributi della letteratura in tema abbiamo visto che le opinioni in tema di efficacia dei vari modelli siano molteplici e talora anche discordanti. Tale discordanza è evidente anche quando si discute delle ragioni che sottostanno alla diversità di strategie tra piccole, medie e grandi imprese, nonché a quanto si debba fare per favorire il buon andamento economico di queste. Altri autori vedono nella competizione internazionale attuale una minaccia, non solo al benessere di alcuni paesi, ma anche alla sostenibilità nel tempo, da parte delle imprese, di tali strategie. In un momento come questo, nel quale l’export consente alle imprese di sopravvivere, in quanto i consumi interni languono, l’individuazione del giusto modello da perseguire è particolarmente importante. Le medie imprese hanno dimostrato, in questo contesto, di poter essere competitive, in settori ad alto valore aggiunto senza lasciare il paese e di contribuire al mantenimento di una quota di occupazione molto importante. Il loro modello di business si è, inoltre, affermato in un periodo di crisi, dimostrandosi particolarmente solido. La nostra analisi si è indirizzata verso l’evidenziazione delle diversità che contraddistinguono questo modello, nel campo che più si rivela difficile, quello della competizione internazionale, il quale è stato importante in passato e, probabilmente, lo sarà ancora di più nel futuro.
164
APPENDICE: I SETTORI INDUSTRIALI SECONDO LA CLASSIFICAZIONE ATECO 2002
CODICI ATECO 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37
DESCRIZIONE DEL SETTORE ESTRAZIONE DI CARBON FOSSILE, LIGNITE, TORBA ESTRAZIONE DI PETROLIO GREGGIO E DI GAS NATURALE E SERVIZI CONNESSI, ESCLUSA LA PROSPEZIONE ESTRAZIONE DI MINERALI DI URANIO E DI TORIO ESTRAZIONE DI MINERALI METALLIFERI ALTRE INDUSTRIE ESTRATTIVE INDUSTRIE ALIMENTARI E DELLE BEVANDE INDUSTRIA DEL TABACCO INDUSTRIE TESSILI CONFEZIONE DI ARTICOLI DI ABBIGLIAMENTO; PREPARAZIONE, TINTURA E CONFEZIONE DI PELLICCE PREPARAZIONE E CONCIA DEL CUOIO; FABBRICAZIONE DI ARTICOLI DA VIAGGIO, BORSE, MAROCCHINERIA, SELLERIA E CALZATURE INDUSTRIA DEL LEGNO E DEI PRODOTTI IN LEGNO E SUGHERO, ESCLUSI I MOBILI; FABBRICAZIONE DI ARTICOLI IN MATERIALI DA INTRECCIO FABBRICAZIONE DELLA PASTA-CARTA, DELLA CARTA E DEL CARTONE E DEI PRODOTTI DI CARTA EDITORIA, STAMPA E RIPRODUZIONE DI SUPPORTI REGISTRATI FABBRICAZIONE DI COKE, RAFFINERIE DI PETROLIO, TRATTAMENTO DEI COMBUSTIBILI NUCLEARI FABBRICAZIONE DI PRODOTTI CHIMICI E DI FIBRE SINTETICHE E ARTIFICIALI FABBRICAZIONE DI ARTICOLI IN GOMMA E MATERIE PLASTICHE FABBRICAZIONE DI PRODOTTI DELLA LAVORAZIONE DI MINERALI NON METALLIFERI METALLURGIA FABBRICAZIONE E LAVORAZIONE DEI PRODOTTI IN METALLO, ESCLUSI MACCHINE E IMPIANTI FABBRICAZIONE DI MACCHINE ED APPARECCHI MECCANICI FABBRICAZIONE DI MACCHINE PER UFFICIO, DI ELABORATORI E SISTEMI INFORMATICI FABBRICAZIONE DI MACCHINE ED APPARECCHI ELETTRICI NCA FABBRICAZIONE DI APPARECCHI RADIOTELEVISIVI E DI APPARECCHIATURE PER LE COMUNICAZIONI FABBRICAZIONE DI APPARECCHI MEDICALI, DI APPARECCHI DI PRECISIONE, DI STRUMENTI OTTICI E DI OROLOGI FABBRICAZIONE DI AUTOVEICOLI, RIMORCHI E SEMIRIMORCHI FABBRICAZIONE DI ALTRI MEZZI DI TRASPORTO FABBRICAZIONE DI MOBILI; ALTRE INDUSTRIE MANIFATTURIERE RECUPERO E PREPARAZIONE PER IL RICICLAGGIO
Fonte: elaborazione propria della classificazione ATECO fornita dall’Istat nel 2002 (http://www.istat.it/it/files/2011/03/ateco2002.pdf?title=Classificazione+Ateco+2007+-+01%2Fott%2F2009++Ateco+2002+-+Volume+integrale.pdf)
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