UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA E SCIENZE UMANE
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN FILOSOFIA E TEORIA DELLE SCIENZE UMANE CICLO XXIV
SCIENZA, FEDE E VERITÀ PERSONALE IN MICHAEL POLANYI
TUTOR Chiar.mo Prof. MARCO BUZZONI
DOTTORANDA Dott.ssa VALENTINA SAVOJARDO
COORDINATORE Chiar.mo Prof. LUIGI ALICI
ANNO 2011
Indice
pag.
3
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neopositivistica
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1. Polanyi e la tradizione neopositivistica
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2. La proposta della conoscenza tacita
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2. Conoscere e credere
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1. La conoscenza come indwelling
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2. Polanyi e Sant’Agostino
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3. Il ruolo della società libera
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1. Convivere nella libertà
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69
2. La comunità scientifica e la società libera
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Uno sguardo critico sul pensiero polanyiano
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1. Il ruolo della fede nell’epistemologia di Th.S. Kuhn
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93
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Introduzione
Parte I La fede al centro dell’epistemologia polanyiana
1. La conoscenza tacita e il superamento della tradizione
Parte II
1. Paradigma e “scienza normale”: concetti chiave ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche 2. Il concetto d’incommensurabilità e la sua evoluzione a partire da La »
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struttura delle rivoluzioni scientifiche
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2. Kuhn e Polanyi: i possibili problemi che comporta la dimensione della fede in ambito epistemologico
pag.
134
1. Il problema polanyiano delle abilità
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134
2. L’esigenza polanyiana della realtà davanti ai “mondi” kuhniani
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142
3. Un approccio alternativo all’esperienza della fede
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1. La filosofia analitica di fronte all’esperienza della fede religiosa
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2. Una possibile visione alternativa
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Confini o limiti della fede?
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1. Polanyi come pensatore religioso
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1. La relazione fra conoscere ed essere
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2. La fede cristiana: un punto d’arrivo?
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198
3. La filosofia polanyiana nell’ambito della religione cristiana
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218
2. Polanyi come “epistemologo della persona”
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1. La teoria del linguaggio
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230
2. La verità personale come terreno d’incontro
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243
Conclusione
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265
Riferimenti bibliografici
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Parte III
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Introduzione
Il lavoro che segue intende approfondire il rapporto tra scienza e fede religiosa, a partire dalla proposta polanyiana di una verità personale, non ridotta tuttavia a pura soggettività. Nella prima parte, verranno affrontate le questioni centrali dell’epistemologia polanyiana: la componente tacita della conoscenza, il sapere come immedesimazione e la comunità scientifica presa a modello di una società libera. La teoria della conoscenza personale, secondo la quale ogni tentativo di apprendere coincide con un atto di fiducioso abbandono, per mezzo del quale la persona “entra” nella realtà che intende conoscere, ci permetterà di scorgere, al di sotto del sapere razionale, una dimensione di fede capace di tenere insieme esperienze apparentemente molto distanti tra loro, come la scienza e la religione. Il tentativo polanyiano d’introdurre una nuova immagine dell’impresa scientifica, ha portato spesso gli storici dell’epistemologia ad inserire Polanyi tra gli esponenti della cosiddetta “nuova filosofia della scienza”, accanto a Kuhn, Hanson, Toulmin e Feyerabend. Senza dubbio, la critica alla nozione tradizionale di scientificità è l’elemento che maggiormente avvicina Polanyi a questo particolare indirizzo di pensiero, anche se tale critica costituisce, dal punto di vista polanyiano, soltanto il punto di partenza di un’epistemologia nuova, o per meglio dire rinnovata, un’epistemologia che pone al centro, in maniera del tutto originale, la persona umana. Criticando la nozione neopositivistica di obiettività, Polanyi intende mostrare come l’ideale laplaceano di una conoscenza totalmente oggettiva sia ormai un mito lontano, un’illusione, che ha tratto in inganno, per diversi secoli, il “pensiero critico” della modernità, ovvero tutta quella serie di riflessioni filosofiche che, a partire da Cartesio e
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da Newton, passando attraverso Kant, Stuart Mill e Russell, fino alla corrente neopositivista, hanno sviluppato l’idea di una conoscenza separata dalla tradizione e da ogni impegno metafisico. L’intento principale di Polanyi è quello di liberare la mente umana dall’oggettivismo, senza tuttavia cadere in posizioni relativiste. La verità oggettiva non è quella che si raggiunge eliminando i soggetti conoscitivi e i loro obblighi reciproci all’interno di un orizzonte comune, ma è una verità carica di mistero, a cui gli esseri umani sono chiamati a partecipare come persone, senza la pretesa di racchiuderla in un concetto o in una definizione univoca. L’idea di una dimensione tacita, non formalizzabile, costantemente intrecciata al nostro sapere esplicito o articolato mi condurrà, in un primo momento, a riscoprire e a valorizzare, all’interno del pensiero polanyiano, la nozione agostiniana di fede. A tal fine prenderò in esame quelle opere agostiniane dalle quali emerge la centralità dell’atto di fede, in ogni autentico tentativo di ricercare il vero. In nome di un sapere inteso come una sorta di abbandono fiducioso del soggetto nell’oggetto, il percorso che Polanyi compie dalla scienza alla religione, potrebbe essere letto parallelamente al percorso che portò Sant’Agostino alla conversione religiosa. Lo stesso Polanyi, in Personal Knowledge, mette in evidenza il passo delle Confessioni in cui l’Ipponate rivela di essere stato fortemente attratto dalla scienza, prima della conversione, ma, quando il suo cuore cominciò ad avvicinarsi a Dio, egli imparò a vedere con più chiarezza l’inganno che si celava dietro a quel sapere scientifico, schiavo del desiderio di onnipotenza. Per questo Polanyi vede nella figura di Agostino il primo filosofo post-critico, capace di realizzare quell’equilibrio tra ragione e fede che la mente moderna sembra aver dimenticato. La proposta polanyiana di ritrovare la persona e i suoi poteri taciti, al centro del processo conoscitivo, coincide con l’esigenza di “andare indietro fino a sant’Agostino, per ristabilire l’equilibrio dei nostri poteri cognitivi” (Polanyi 1958, p. 428). La testimonianza filosofica di Agostino diventa così uno strumento, utile per aprire la strada a una nuovo modo d’intendere il compito umano del conoscere. Sia l’uomo alla ricerca di Dio, che l’uomo di scienza polanyiano sono attratti dalla verità, tuttavia la loro situazione non è quella dell’assoluta libertà di fronte al vero. Anche il ruolo centrale che assume l’autorità nella teoria della conoscenza personale può essere, quindi, considerato un tema di chiara derivazione agostiniana. L’esigenza di essere guidati da un’autorità è per Agostino, come per Polanyi, propedeutica ad un
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corretto uso della ragione. Nel De utilitate credendi Agostino sostiene che gli uomini debbano essere sollecitati dall’autorità al fine di purificare il proprio stile di vita, prima di accogliere la ragione; ovviamente per ragione s’intende quella facoltà umana che, intrecciata alla fede, rende l’uomo capace di vivere l’esperienza della verità: “Anche coloro che sono capaci di volare – scrive Agostino – sono costretti a camminare per un po’ su una strada sicura pure per gli altri, per evitare che siano un pericoloso allettamento per qualcuno”1. Gli uomini che sono capaci di volare sono quelli che si differenziano dalla massa e che, per grazia di Dio, riescono a scorgere il vero prima degli altri; ciò, tuttavia, non consente loro d’ignorare l’autorità, ma, al contrario, la loro condizione di esseri privilegiati costituisce un motivo in più per sottomettersi ai dettami di un’autorità voluta da Dio. Il loro comportamento, infatti, sarà d’esempio per tutti e permetterà anche agli altri uomini d’intraprendere un percorso di conversione libero, ma al contempo, guidato. Allo stesso modo, nell’ottica polanyiana, libertà e autorità s’intrecciano al fine di far progredire, nella conoscenza, l’intera società umana, descritta come una “società di esploratori” (Polanyi 1969, p. 119). Al di là di un ambito esclusivamente religioso, il genio scientifico potrebbe essere definito, usando la terminologia agostiniana, come un uomo capace di volare: l’intuizione della verità che lo caratterizza, infatti, gli permette di esercitare la propria libertà, guardando ad un futuro lontano, ancora incomprensibile dai contemporanei. Tuttavia, il suo legame con l’autorità scientifica non può essere negato né ignorato, poiché proprio l’umiltà di sottomettersi a una serie di dettami esterni si rivelerà la condizione necessaria all’esercizio della libertà personale. L’ultimo capitolo della prima parte, infatti, sarà dedicato al ruolo della società libera, che dal punto di vista polanyiano, deve fornire i presupposti necessari allo sviluppo del sapere umano, un sapere costantemente aperto a quelli che Polanyi definisce i fini ultimi della società, capaci di aprire la strada verso la dimensione divina. Se Polanyi, attraverso la teoria della conoscenza personale, cerca di chiarire il ruolo del credere nel conoscere, il mio tentativo sarà quello di ricercare alcuni possibili aspetti ragionevoli o razionali, nell’ambito della fede religiosa, pur rimanendo sempre all’interno di un contesto epistemologico. A tal scopo, la seconda parte del lavoro costituirà un tentativo di approfondire la nozione polanyiana di fede, attraverso il 1
Agostino, De utiltate credendi, 10, 23; tr. it., Città Nuova Editrice, Roma, 1995, p. 213.
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confronto con il pensiero di Th. Kuhn, autore, sotto alcuni aspetti, molto vicino a Polanyi. Il concetto d’incommensurabilità, costantemente presente dai primi agli ultimi scritti kuhniani, tuttavia, segnerà una netta scissione tra i due filosofi portando Kuhn verso la strada del relativismo e Polanyi verso una direzione del tutto nuova ed originale, capace di aprire le porte a un incontro tra scienza e fede religiosa, sulla base della persona umana. Se, dunque, da un lato l’idea che lo scienziato, di fronte a una nuova scoperta, sperimenti una sorta “conversione”, mettendo in pratica una serie di abilità, intraducibili sul piano linguistico, crea una serie di problemi dal punto di vista epistemologico e avvicina le prospettive dei due autori, dall’altro vedremo come in Polanyi sia sempre presente l’idea di una realtà oggettiva che orienta la ricerca, vincolando le scelte dello scienziato. A differenza di Kuhn, in Polanyi non viene dimenticato il lato oggettivo di un sapere che rimane comunque costantemente intrecciato ai diversi aspetti della persona. La riflessione polanyiana sulla scienza ci condurrà così ai confini dell’epistemologia, dando origine a una serie di questioni riguardanti l’origine dell’esistenza umana. Tenendo presente l’interrogativo da cui prende le mosse la mia ricerca, ovvero, la domanda sui potenziali strumenti che il pensiero razionale avrebbe a disposizione per farsi strada nell’ambito della credenza religiosa, le due rispettive posizioni di Kuhn e Polanyi verranno riconsiderate in rapporto ad alcune questioni interne alla filosofia analitica della religione. Nell’ultimo capitolo della terza parte, il tentativo, da parte dei filosofi analitici, di ricercare lo status logico della credenza mi permetterà, da un lato, di riconsiderare il rapporto scienza-fede da un punto di vista alternativo, dall’altro fornirà una serie di spunti per un possibile confronto tra le diverse prospettive di Kuhn e Polanyi e la stessa filosofia analitica della religione. Tenendo presente l’ambito in cui lavorano i filosofi analitici, potremo riconoscere un nesso fra il concetto kuhniano d’incommensurabilità e la posizione dei cosiddetti fideisti wittgensteiniani, secondo i quali l’argomento religioso risulta comprensibile soltanto da chi vive in un preciso contesto religioso. La filosofia polanyiana, invece, ci condurrà verso un’altra direzione, attraverso l’idea di una verità personale, in grado di creare legame nella scissione. Se pensiamo, in particolare, al rapporto fra diverse realtà culturali e religiose, la proposta polanyiana di una verità che s’intreccia allo sviluppo della persona umana potrebbe essere riletta come un tentativo utile, non tanto al fine di riconciliare le
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differenze, ma se intendiamo tale proposta come una riscoperta dell’uomo in quanto persona, il rapporto con l’altro, inteso come il diverso, potrebbe essere considerato sotto una nuova prospettiva. Nell’ultima parte del lavoro, dunque, dopo aver preso in esame quegli aspetti del pensiero polnayiano che aprono la teoria della conoscenza personale alle questioni centrali del Cristianesimo, cercherò di svincolare la filosofia di Polanyi dalla religione cristiana. A differenza della maggior parte dei testi appartenenti alla letteratura critica, i quali tendono spesso a ridurre il pensiero polanyiano a una semplice filosofia di supporto della fede cristiana, cercherò di valorizzare la teoria polanyiana del linguaggio e il tentativo epistemologico di scoprire in che modo la scienza possa poggiare su una serie di presupposizioni che sono regole, ma anche credenze. Il più delle volte, quando si parla di Polanyi si dimentica l’epistemologo e si ricorda soltanto il pensatore religioso. Il mio tentativo, invece, è quello di scoprire, attraverso la ricostruzione attenta delle opere dell’autore, un’epistemologia rinnovata, capace di guardare al di là di se stessa, un’epistemologia intesa come punto di partenza per affrontare questioni che toccano da vicino la realtà personale dell’essere umano. Ritornando, allora, al problema del dialogo interculturale e interreligioso e tenendo presente la proposta di una verità personale, intesa come terreno d’incontro fra “elementi incompatibili”, potremmo avanzare una proposta: non cercare di eliminare le diversità attraverso un banale tentativo di unificare ciò che è scisso, ma affidare alla filosofia l’analisi trascendentale delle possibilità della fede, per giungere alla consapevolezza che esiste tra diversi mondi culturali, linguistici e religiosi un residuo ineliminabile; esso è ciò che ostacola il dialogo ma è anche, in senso trascendentale, ciò che lo rende possibile. Riflettendo sulle modalità attraverso le quali la ragione può accedere all’ambito della fede religiosa, ritengo che la filosofia della scienza debba assumersi il compito di indagare i punti in comune tra scienza e fede per delineare quei confini che a differenza dei limiti, nel senso kantiano del termine, non chiudono un particolare ambito in se stesso, ma lo aprono a ciò che sta oltre, costringendo la ricerca scientifica ad imbattersi nel mistero. Senza dubbio, in ambito scientifico esistono dei presupposti comuni, sulla base dei quali gli scienziati possono discutere. Tali presupposti vengono poi modificati o rinnovati, come ci insegna la stessa storia della scienza; tuttavia nessuno mette in questione la loro esistenza, senza la quale non si potrebbe neanche pensare un’attività di
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ricerca scientifica. Gli esperti quindi, nel loro lavoro di routine, si trovano a dialogare sulla base di determinati concetti, grazie ai quali la scienza stessa va avanti. Il problema si pone nell’ambito del dialogo interculturale e interreligioso, nel quale io dovrei avere la possibilità di ricostruire la posizione dell’altro, in base a dei presupposti comuni. Ma in questo caso è possibile parlare di presupposti? E soprattutto, in che modo possiamo delineare i confini della fede, tenendo presenti le difficoltà che incontra la ragione di fronte al mistero di un’esperienza religiosa autentica? Forse la nozione polanyiana di verità personale può indicarci una via alternativa per rileggere il complesso rapporto tra il pensiero logico razionale e la fede religiosa, creando un terreno d’incontro non soltanto tra discipline molto distanti fra loro, ma anche fra persone inserite all’interno di tradizioni culturalmente lontane.
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Parte I La fede al centro dell’epistemologia polanyiana
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1. La conoscenza tacita e il superamento della tradizione neopositivistica
Fin dalle prime righe di Personal Knowledge, l’opera più nota di Michael Polanyi, l’autore chiarisce il suo intento di stabilire un ideale alternativo di conoscenza, entrando, così, in polemica con l’epistemologia tradizionale. Il tentativo polanyiano d’introdurre una nuova immagine dell’impresa scientifica, ha portato spesso gli storici dell’epistemologia ad inserire Polanyi tra gli esponenti della cosiddetta “nuova filosofia della scienza”, accanto a Kuhn, Hanson, Toulmin e Feyerabend. Senza dubbio, la critica alla nozione tradizionale di scientificità è l’elemento che maggiormente avvicina Polanyi a questo particolare indirizzo di pensiero, anche se tale critica costituisce, dal punto di vista polanyiano, soltanto il punto di partenza di un’epistemologia nuova, o per meglio dire rinnovata, un’epistemologia che pone al centro, in maniera del tutto originale, la persona umana. L’esigenza di ripensare l’attività scientifica sotto una nuova luce nacque dalla assidua ricerca di Polanyi come professore di Chimica-Fisica presso l’Università di Manchester (1933-1948). Gli anni di studio all’interno di un ambito prettamente scientifico, infatti, spinsero l’autore ad interrogarsi sul modo di fare scienza e sulla nozione generale di comunità scientifica. Questioni attinenti il campo della fisica e della chimica cominciarono, quindi, ad intrecciarsi con questioni che non possono definirsi prettamente “scientifiche”, nel senso tradizionale del termine. Riflettere sui meccanismi del pensiero scientifico, dal punto di vista polanyiano, significa ampliare gli orizzonti della scienza per intraprendere percorsi alternativi. In certo senso Polanyi tradusse con la vita questa esigenza di guardare oltre la fisica, senza negare il suo intrinseco valore. Il passaggio da scienziato a filosofo della scienza portò l’autore ad assumere un nuovo sguardo sulla realtà; l’immagine di una scienza intesa come attività innanzitutto umana, condusse Polanyi ad indagare l’ambito del sociale: dal 1948 al 1958 egli ricoprì la cattedra di Studi Sociali presso la stessa Università di Manchester, finché fu eletto Senior Research Fellow al Merton College di Oxford.
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È interessante notare come la scienza stessa portò Polanyi al di là del proprio specifico ambito, costringendolo ad interrogarsi su questioni che a prima vista sembrerebbero lontane da ciò che viene comunemente catalogato sotto la definizione di scientifico, ma che ad un livello più profondo costituiscono il cuore della ricerca. Al fine di entrare in dialogo con il percorso di ricerca intrapreso da Polanyi, ritengo quindi necessario, in primo luogo, prendere in considerazione il significato delle affermazioni polemiche, nei confronti dell’epistemologia tradizionale, per presentare in un secondo momento, la teoria della conoscenza tacita.
1. Polanyi e la tradizione neopositivistica
Il nuovo modo di pensare la scienza, elaborato da Polanyi, a partire dalla metà del XX secolo, è comprensibile a cominciare dalla critica all’epistemologia moderna, animata dall’intento di “costruire una conoscenza assai ben distinta e oggettiva” (Polanyi 1969, p. 36) del mondo naturale. Il progetto di un’oggettività completa, totalmente neutrale e capace di racchiudere il mondo in una serie di formule si sviluppò nel corso di quello che Polanyi definisce “il pensiero critico” della modernità: a partire da Cartesio e da Newton, passando attraverso Kant, Stuart Mill e Russell, fino alla corrente neopositivista, si diffuse l’idea di una conoscenza separata dalla tradizione e quindi sciolta da ogni sostegno comunitario e da ogni impegno ontologico e metafisico; l’impresa scientifica divenne, quindi, un’operazione “basata esclusivamente sull’esperienza dei sensi ed aiutata solo dalle proposizioni autoevidenti” (Polanyi 1946, p. 100). L’ideale di una conoscenza assolutamente impersonale attrae da sempre la mente umana, ma resta comunque una lontana illusione: si può tentare di mettere in secondo piano il soggetto dell’atto conoscitivo, ma in nessun caso è possibile eliminare l’intervento della persona e dei suoi poteri taciti. L’esigenza polanyiana di riscoprire il soggetto, nel suo essere persona, si afferma in opposizione alla concezione meccanicistica del mondo, elaborata in maniera del tutto chiara da Laplace:
Il paradigma di un concetto di scienza che segua l’ideale dell’assoluto distacco, rappresentando il mondo nei suoi particolari rigorosamente determinati, ricevette la sua formulazione da Laplace. Egli scrisse che un’intelligenza che in un dato momento del tempo conosca «tutte le
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forze da cui la natura è animata e le rispettive posizioni delle entità che la compongono, […] abbraccerebbe in una stessa formula i movimenti dei corpi più grandi dell’universo e quelli dell’atomo più piccolo: niente sarebbe incerto per essa e il futuro, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi»1 (Polanyi 1958, p. 257).
Il soggetto laplaceano ha il solo compito di ritrovare le leggi che governano i fenomeni, per ricostruire i processi meccanici attraverso i quali si muove il mondo: conoscere la configurazione atomica dell’universo permetterebbe di calcolare esattamente la posizione e la velocità delle particelle in ogni momento, passato e futuro; una mente umana, con tali capacità avrebbe, quindi, la possibilità di conoscere il mondo nella sua interezza. Tuttavia, la grande impresa intellettiva laplaceana, sottolinea Polanyi, nasconde un sottile inganno: Laplace “esige che noi spieghiamo tutte le nostre esperienze in termini di dati atomici” (Polanyi 1958, p. 259), ma in questo modo la consapevolezza della realtà in cui viviamo viene ridotta allo studio della configurazione atomica dell’universo: “Se si rifiuta questa ingannevole sostituzione, immediatamente si vede che la mente di Laplace non capiva niente e che tutto ciò che conosceva non significava proprio niente” (Polanyi 1958, p. 259). I risultati della conoscenza universale sono privi di significato, poiché non parlano di noi, esseri umani, vivi e attivamente impegnati in ogni sforzo conoscitivo: la lista delle posizioni atomiche non ha alcun nesso con il nostro modo di esistere ed è lontana dai nostri principali interessi. La concezione meccanicistica del mondo, elaborata originariamente da Galileo, ha dominato incontrastata sino alla fine del XIX secolo: per Galileo solo le proprietà meccaniche delle cose potevano essere definite “qualità primarie”, le altre erano soltanto proprietà derivate o secondarie. Poi, attraverso la meccanica newtoniana, “la matematica pura, che era stata precedentemente la chiave per i misteri della natura, fu rigidamente separata dalle applicazioni della matematica alla formulazione di leggi empiriche” (Polanyi 1958, p. 82). In questo modo, il concetto pitagorico di conoscenza teorica venne totalmente stravolto: i numeri e le formule geometriche non erano più “intesi come inerenti in quanto tali alla natura” (Polanyi 1958, p. 82). La teoria non contemplava più la perfezione e l’armonia del mondo:
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Qui Polanyi fa riferimento a Laplace 1886, pp. VI-VII.
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La geometria divenne la scienza dello spazio vuoto; l’analisi, legata alla geometria fin dal tempo di Cartesio, si allontanò insieme ad essa nella regione al di là dell’esperienza. La matematica rappresentava tutto il pensiero razionale che appariva necessariamente vero; la realtà, intanto, veniva intesa semplicemente come l’insieme degli eventi del mondo (Polanyi 1958, p. 82).
In seguito, alla fine del XIX secolo, Ernest Mach fondò una nuova filosofia positivistica “che negava alle teorie scientifiche della fisica il diritto di presentarsi come fornite di una loro razionalità, essendo condannata come metafisica e mistica la pretesa di possederla” (Polanyi 1958, pp. 82-83). Il neopositivismo non riconosceva la forza persuasiva intrinseca alla teoria in quanto tale ma affermava l’impossibilità di spingersi oltre i limiti dell’esperienza, negando, al contempo, che qualcosa potesse sfuggire al controllo empirico. Questo punto di vista può essere considerato, quindi, come la conseguenza inevitabile della drastica separazione tra conoscenza matematica e conoscenza empirica, tra ragione ed esperienza. Soltanto la relatività e la meccanica quantistica si sono riavvicinate, secondo Polanyi, ad una concezione matematica della realtà: “Quando Einstein scoprì la razionalità nella natura senza essere aiutato da osservazioni che non erano state a disposizione almeno per i cinquant’anni precedenti, i manuali positivistici subito coprirono lo scandalo presentando la sua scoperta in maniera abbellita” (Polanyi 1958, p. 86). Einstein, infatti, aveva intuito le sue scoperte in base ad una pura speculazione, ma le fonti storiche diffondevano l’idea che la relatività era stata escogitata in risposta ai risultati negativi dell’esperimento di Michelson e Morley. La teoria della relatività implica, invece, la concezione di una natura accessibile all’indagine e alla descrizione razionale solo in termini empirico-teorici. Polanyi, quindi, attraverso il riferimento ad Einstein, arriva a negare la separazione empirista e positivista fra ragione ed esperienza, sostenendo l’idea che una scoperta, pur utilizzando come spunti le attività dei nostri sensi, trascende il mondo empirico, abbracciando la visione di una realtà che sta oltre le nostre capacità sensibili. Invece l’ideale neopositivista dell’oggettività “c’ispira dandoci la speranza di superare le grandissime debolezze della nostra esistenza corporea, fino a farci avere un’idea razionale dell’universo che possa parlare autonomamente” (Polanyi 1958, p. 78). Con la rivoluzione copernicana, infatti, “il rozzo antropocentrismo dei nostri sensi” viene
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abbandonato “a favore di un antropocentrismo più ambizioso della nostra ragione” (Polanyi 1958, p. 77). L’uomo, guidato da una razionalità invincibile, rimane sempre al centro dell’universo, spinto dalla volontà di racchiudere i meccanismi nascosti dietro alle cose del mondo, in leggi predefinite: le formule, appartenenti ad una matematica applicata, riescono così a spiegare ogni aspetto della realtà, soltanto il contrasto con l’osservazione dei fatti può spingere lo scienziato a riconsiderare la teoria. Nella mentalità moderna, quindi, la teoria scientifica viene “ridotta al rango di una costruzione comoda e di un artificio per ricordare gli eventi e calcolare il loro corso futuro” (Polanyi 1958, p. 79). Da questo punto di vista, ogni aspetto del reale può essere esplicitato, attraverso un insieme di regole, applicate sulla base di un determinato metodo scientifico. Secondo Polanyi, invece, lo scienziato non è in possesso di un metodo privilegiato che gli garantisca un accesso diretto alla verità, egli non è “una mera macchina trova-verità” (Polanyi 1946, p. 14). Anticipando così argomentazioni sostenute dai nuovi filosofi della scienza - in particolare da Kuhn e Feyerabend - Polanyi è dell’avviso che non vi siano garanzie metodologiche precostituite, dietro all’attività scientifica; quindi sia il verificazionismo che il falsificazionismo popperiano devono essere abbandonati:
Dobbiamo accettare che non esistono regole esplicite per decidere se sostenere o abbandonare una qualche proposizione scientifica dinanzi ad una nuova osservazione particolare. […] Ciò non equivale a dire che restiamo sempre nel dubbio, ma che la nostra decisione su cosa accettare […] non può essere totalmente derivata da qualche regola esplicita. […] Considerazioni simili si applicano, naturalmente, anche alle regole della confutazione (Polanyi 1946, pp. 53-54).
Il tentativo di Polanyi è essenzialmente quello di presentarci l’intero processo della scoperta scientifica in termini unitari, negando, quindi, la separazione, positivistica e popperiana, tra psicologia della scoperta e logica della giustificazione. Se la conoscenza è considerata un processo unitario, non ha senso tracciare una linea di separazione tra il momento creativo, intuitivo e quello dimostrativo della scoperta; in Scienza fede e società Polanyi, attraverso una splendida metafora presente in un libro di G. Polya (cfr. Polya, 1945), spiega che questi passaggi non possono essere distinti: la scoperta viene paragonata “ad un’arcata dove la stabilità di ciascuna pietra dipende dalla presenza delle
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altre” (Polanyi 1946, p. 55), il vero paradosso sta nel riconoscere che “di fatto la molteplicità delle pietre presenta un’unità” (Polanyi 1946, p. 55). L’aspetto teorico e l’aspetto pratico dell’esperienza conoscitiva collaborano al fine di accedere ad una realtà oggettiva, ma non separata dal soggetto. Cercando di uscire dal tradizionale paradigma neopositivista, quindi, dobbiamo chiederci in che senso si può parlare di oggettività. Solo attraverso una profonda riflessione sul nostro modo di stare al mondo potremo smascherare tutti quei falsi ideali che hanno portato progressivamente, nel corso del pensiero critico moderno, alla scomparsa dell’uomo, o meglio alla scomparsa del polo personale, all’interno di una conoscenza che ha cercato sempre di più il dominio di uno spazio neutrale e obiettivo. La scienza moderna, basata sull’ideale laplaceano, non contiene concetti che renderebbero possibile l’esistenza di un io: solo un autoinganno può equiparare la vita umana alle condizioni fisico-chimiche che le sono comunque necessarie. Il mondo, inteso come un insieme di meccanismi esplicitabili e formalizzabili, può essere dominato e posseduto interamente dal soggetto conoscitivo il quale, tuttavia, accecato dal desiderio di onnipotenza, perde se stesso. L’uomo moderno, che pensa di aver raggiunto l’obiettività, dubitando di tutto, non sa più chi è né da dove viene; continua a vivere nella vuota illusione di essere libero da ogni condizionamento, ma in realtà rimane perennemente schiavo di se stesso e del suo illimitato desiderio di controllo. Polanyi, partendo dalla critica al neopositivismo, individua “una deriva nichilista in quell’orientamento che, da La genealogia della morale di Nietzsche, passa per L’uomo senza qualità di Musil […], per arrivare a L’età della ragione e a La nausea di Sartre” (Vinti 1999, p. 177). Quel processo di distruzione dei valori, iniziato con la ragione illuministica moderna, trova, quindi, nell’esistenzialismo il suo punto d’arrivo; l’uomo, sciolto da ogni obbligo, sperimenta il vuoto che invade la sua vita e si perde nel nonsenso:
Dobbiamo riconoscere che il nichilismo personale è servito per un secolo come ispirazione per la letteratura e per la filosofia, sia direttamente, sia per la reazione contraria che ha provocato. L’odio per la società borghese, l’immoralismo ribelle e la disperazione sono stati i temi dominanti del grande teatro, della poesia e della filosofia sul continente europeo fin dalla metà del secolo diciannovesimo. […] L’odio per la cultura consolidata […] è diventato un attacco contro la stessa condizione umana e contro il pensiero umano. […] Giunto a questo stadio,
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l’intellettuale moderno include se stesso nel disprezzo nauseato per la futilità morale e culturale del suo tempo. Avendo reso l’universo del tutto privo di significato, egli stesso scompare in una devastazione universale (Polanyi 1958, pp. 389-390).
Anche sul versante della teoria e della pratica politica, Polanyi ritrova degli esiti nichilistici: ci sarebbe infatti una sola logica che lega i totalitarismi moderni, un unico “processo di inversione morale” (Polanyi 1969, p. 45) che ha trasformato il pensiero critico moderno in nichilismo e in violenza totalitaria. L’inversione morale consiste essenzialmente nel fare della verità e della giustizia dei meri epifenomeni, dipendenti dall’ideologia di un partito o di una classe sociale; in questo modo “i motivi morali non parlano più con la loro voce e non sono più accessibili ad argomenti morali” (Polanyi 1969, p. 47). Anche la ricerca scientifica perde la sua autonomia e viene sviluppata in funzione alla realizzazione di obiettivi pratico-politici. In un saggio del 1960, intitolato Oltre il nichilismo2, Polanyi fa un riferimento esplicito alla politica di Stalin, sostenuta da una particolare sociologia scientifica che legittimava la violenza e pretendeva di aver dimostrato tre cose:
1) che la distruzione totale della società esistente era il solo metodo per realizzare un progresso sociale essenziale; 2) che nulla era richiesto oltre quest’atto di violenza […] e 3) che non si doveva rispettare alcun freno morale nella conquista rivoluzionaria del potere poiché questo processo era storicamente inevitabile (Polanyi 1969, p. 44).
Dunque, all’interno di un mondo in cui la verità e la giustizia sono soltanto quelle che un’ideologia politica definisce “scientificamente” tali, è necessario interrogarsi, secondo Polanyi, sulla situazione esistenziale e ontologica dell’uomo: dov’è finita l’umanità? La passione che guida un progetto? L’ansia di stabilire un contatto autentico con la realtà? Quali sono le menzogne che ci impediscono di diventare persone? Alain Besançon, commentando la realtà politica descritta da George Orwell in 1984, definisce la menzogna come:
ciò che è insopportabile, infinitamente più dell’oppressione, della miseria, della paura, perché introduce un’angoscia di tipo nuovo. L’uomo costretto a negare l’evidenza dei sensi e della 2
Il saggio è stato ristampato in Polanyi 1969.
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ragione, educato a dire il contrario di ciò che pensa, sente e vede, perde i propri punti di riferimento nella realtà e si perde. Soffre di una scissione dell’intelligenza, di una paralisi della volontà, accompagnate da una vergogna prostrante (Besançon 1985, p. 166).
L’uomo si paralizza, diventa incapace di muoversi nel mondo quando cerca di rompere ogni vincolo con la realtà che lo circonda; la strumentalizzazione della scienza, di cui parla Polanyi, è l’esemplificazione ultima del distacco volontario da un universo comune, all’interno del quale la verità può rivelarsi attraverso forme e percorsi sempre nuovi. Se il criterio di verità coincide con gli interessi politici, allora anche la menzogna può diventare vera, il passato può subire continue modifiche, la memoria, sia nella sfera individuale che in quella pubblica, viene continuamente cancellata e ricostruita. Proprio in una situazione come questa, secondo Polanyi, la persona umana deve ritrovare se stessa, rendendosi conto che la sua capacità di analisi critica nei confronti della realtà è bloccata, paralizzata, dall’eterno desiderio umano di distacco e obiettività. Polanyi, quindi, mette in evidenza come, paradossalmente, la filosofia moderna del pensiero critico abbia portato, nel corso dei secoli, al collasso e alla distruzione della capacità umana di rapportarsi al vero criticamente:
Quando l’autorità soprannaturale della legge, delle Chiese e dei testi sacri venne meno o decadde, l’uomo cercò di evitare il vuoto di semplici autoasserzioni stabilendo al di sopra di se stesso l’autorità dell’esperienza e della ragione. Ma attualmente avviene che lo scientismo moderno incatena il pensiero proprio in quella maniera crudele in cui lo avevano incatenato le Chiese. Esso non lascia spazio alle nostre credenze più vitali e ci costringe a nasconderle (Polanyi 1958, p. 427).
Il pensiero critico è stato, quindi, alimentato “con la combustione dell’eredità cristiana nell’ossigeno del razionalismo greco, ma quando il suo combustibile si è esaurito l’impalcatura critica ha consumato se stessa” (Polanyi 1958, p. 428). Il dubbio, a partire da Cartesio, è stato considerato come il mezzo indispensabile per l’accesso al pensiero critico: “Descartes aveva dichiarato che il dubbio universale doveva purificare la mente da tutte le opinioni accettate […] e doveva aprirla alla conoscenza fondata sulla ragione” (Polanyi 1958, p. 432). Il dubbio, quindi, avrebbe dovuto attaccare ogni tipo d’indottrinamento, proveniente dal dogma religioso, dall’autorità degli antichi o
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dall’educazione infantile. Infatti “il principio del dubbio esige che manteniamo le nostre menti vuote” (Polanyi 1958, p. 432) al fine di evitare gli errori e raggiungere una conoscenza totalmente oggettiva. Secondo Polanyi, il drastico rifiuto dell’autorità e della tradizione è ciò che caratterizza tutto lo sviluppo della mente moderna: la negazione di ogni condizionamento ha guidato il progetto cartesiano del dubbio iperbolico e della soggettività fondante; ma la conseguenza più grave della scissione tra res cogitans e res extensa è stata la diffusione di un’idea illuminista, secondo la quale, il fine ultimo dell’uomo è il trionfo della mente sulle forze della natura. Così, tutta la filosofia occidentale moderna ha finito per rivolgere la sua attenzione principalmente al soggetto umano, diventato il dominatore dell’universo. L’empirismo di John Locke, ad esempio, mirava essenzialmente ad indagare il modo in cui gli oggetti apparivano all’osservatore: le apparenze erano intese come “oggetti della mente” o idee, che si formavano attraverso l’impatto con gli oggetti fisici; le cose non potevano essere conosciute mai per quello che erano, separate dalle percezioni sensoriali, ma solo per come apparivano nella mente del soggetto conoscente. Thomas Torrance, riprendendo Polanyi, mette in evidenza come, nel corso della filosofia moderna, il ruolo del soggetto conoscitivo venga sempre più ridotto a una serie di operazioni mentali; per Locke, infatti, “l’io pensante era una sostanza immateriale in correlazione con le sostanze materiali” (Torrance 1992, p. 111), la mente dell’osservatore era vuota prima che queste sostanze agissero su di essa: nessuna idea osservativa poteva essere elaborata sotto il controllo di strutture formali che non fossero, anch’esse, derivate dall’esperienza. In seguito, Hume “dissolse il punto di riferimento centrale di Locke, mostrando che l’io permanente e persistente, la coscienza della sostanza pensante null’altro era che un’associazione di successive esperienze particolari e contingenti” (Torrance 1992, p. 113); la conoscenza, fondata sui sensi, non era in grado di provare in alcun modo l’esistenza di connessioni necessarie. Torrance sottolinea come Hume avesse individuato delle reali difficoltà, interne al programma empiristico: “Forse, dietro al suo scetticismo, si poteva ritrovare la convinzione che la conoscenza riposasse su un fondamento più ampio e più profondamente radicato rispetto a quello che troviamo nelle sensazioni e nelle percezioni indirette” (Torrance 1992, p. 114). Le analisi epistemologiche di Hume portarono, quindi, seri problemi
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nell’ambito scientifico: se non era possibile percepire alcuna connessione necessaria tra due eventi, allora attraverso l’esperienza sensibile non si potevano cogliere alcune importanti componenti della conoscenza scientifica, come la relazione e la causalità. Kant prese atto di questi problemi e cercò di evitare l’esito scettico dell’empirismo congiungendo “i contributi […] di Locke, Berkeley e Hume con l’approccio più razionalista di Cartesio e Leibniz” (Torrance 1992, p. 116). Torrance individua in Kant un’inversione della relazione conoscitiva:
La necessità da cui dipendono le leggi della natura è situata nella mente e non nelle cose stesse. Con questo sviluppo cominciò a svanire il concetto di intelligibilità intrinseca dell’universo. Tale cambiamento è particolarmente evidente nel pensiero di Kant quando egli afferma che, invece di trarre le sue leggi dalla natura, l’intelletto umano gliele conferisce, giacché nell’interrogarla con la ricerca scientifica noi la obblighiamo a fornire risposte secondo principi a priori apportati da noi (Torrance 1992, p. 118).
La filosofia trascendentale kantiana guarda principalmente alle condizioni di possibilità della conoscenza e arriva alla conclusione che possiamo comprendere solo ciò che siamo in grado di costruire. Bisogna tener presente, tuttavia, che Kant, mentre tenta di definire i limiti della ragion pura, fonda una teoria della conoscenza che esalta l’autonomia della ragione illuministica: l’ambito teoretico deve essere ben definito, ma al suo interno la ragione regna sovrana. Polanyi definisce eccessiva la speranza kantiana di fondare un dominio incontestabile della ragione, ma riconosce che “il fervore nel dubitare è stato trasmesso fino ai nostri giorni” (Polanyi 1958, p. 433): esso sta alla base del programma neopositivistico, profondamente antimetafisico. Dietro al desiderio di ridurre tutti i significati della conoscenza a enunciati espliciti, si nasconde l’idea popolare della scienza secondo la quale, la ricerca scientifica si risolve in una raccolta di fatti osservabili, che ciascuno è in grado di verificare attraverso l’uso di determinate regole. L’uomo moderno, l’uomo della filosofia critica, è spinto dall’esigenza di mettere in dubbio tutto, per ricostruire la realtà in base ai suoi strumenti d’analisi: egli si rifiuta di avere radici e di riconoscere la sua appartenenza ad una tradizione. È un uomo che esalta i poteri della ragione e cerca, quindi, di evitare ogni tentazione metafisica: “È perciò anche il positivista che invita a restare alla superficie delle cose […] e il
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neopositivista che confida nell’esclusivo potere del metodo induttivo […], in cui continua a credere, in fondo, anche il falsificazionista popperiano” (Vinti 1999, p. 45). Polanyi non nega il fascino e la grandezza di un’impresa intellettiva come quella della filosofia critica, ma riconosce che “il movimento critico oggi sembra essere vicino alla fine del suo corso” (Polanyi 1958, p. 428). Indagando il modo in cui il soggetto conoscitivo si rapporta alla realtà circostante, l’immagine di un pensiero che pretende autonomia e distacco rispetto ad ogni pregiudizio, rivela i suoi limiti e le sue debolezze. Se si esamina, ad esempio, il metodo del dubbio ci si rende conto che esso non porta ad una conoscenza totalmente oggettiva, poiché in ogni atto di comprensione ci sono sempre delle credenze implicite che non possono essere eliminate:
L’oggettivismo ha totalmente falsificato la concezione della verità, esaltando ciò che noi possiamo sapere e dimostrare, ricoprendo però di espressioni ambigue tutto ciò che sappiamo ma non possiamo dimostrare, anche se questa seconda conoscenza è alla base di tutto ciò che possiamo dimostrare e deve in ultima analisi porvi il suo sigillo. Cercando di restringere le nostre menti alle cose dimostrabili e quindi esplicitamente dubitabili, ha trascurato le scelte non critiche che determinano tutto l’essere delle nostre menti, e ci ha resi incapaci di riconoscere queste scelte vitali (Polanyi 1958, p. 456).
La liberazione dall’oggettivismo consiste, quindi, nel prendere coscienza del fatto “che possiamo esprimere le nostre convinzioni più profonde solo dall’interno delle nostre convinzioni” (Polanyi 1958, p. 430), senza rinunciare, però, alla ricerca della realtà. La verità oggettiva, quindi, non può essere quella che si raggiunge eliminando i soggetti conoscitivi e i loro obblighi reciproci, all’interno di un orizzonte comune, ma è una verità carica di mistero, a cui gli esseri umani sono chiamati a partecipare, senza la pretesa di racchiuderla in un concetto o in una definizione univoca. Esaltando i poteri critici dell’uomo “abbiamo staccato dall’Albero una seconda mela che ha per sempre compromesso la nostra conoscenza del Bene e del Male” (Polanyi 1958, p. 431): sarebbe impossibile eliminare totalmente l’influsso della filosofia critica dal nostro modo di pensare; lo sforzo di raggiungere una conoscenza impersonale è profondamente radicato nella cultura occidentale. Tuttavia Polanyi è convinto che il pensiero umano, oggi, vada verso una filosofia post-critica:
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L’umanità è stata privata una seconda volta della sua innocenza e cacciata fuori da un altro giardino, che era, in ogni caso, il giardino degli sciocchi. Con la nostra innocenza avevamo avuto fiducia di poter essere liberati da ogni responsabilità personale […] grazie a criteri oggettivi di validità, ma i nostri poteri critici hanno distrutto questa speranza. Colpiti dalla nostra improvvisa nudità, possiamo cercare di ricoprirla con una professione di nichilismo (Polanyi 1958, p. 431).
L’alternativa al nichilismo e al vuoto esistenziale, proposta da Polanyi, consiste nel riconoscere come l’ideale dell’oggettività più distaccata sia rimasto irrealizzato, poiché fondamentalmente irrealizzabile. Da questo punto di vista, la filosofia post-critica, intesa come il superamento del pensiero critico della modernità, non può essere considerata soltanto come la negazione della volontà critica, propria della mente umana, di cogliere gli aspetti oggettivi del reale; ma il percorso che la filosofia è invitata ad intraprendere deve svilupparsi come la riscoperta delle capacità critiche umane, alla luce degli errori che l’uomo stesso ha compiuto, quando ha perso di vista i propri limiti. L’illusione dell’onnipotenza è una caratteristica dell’umano e in quanto tale non può essere cancellata, tuttavia ciascuno può imparare, nel corso dell’esistenza, a riconoscerla e a tenerla lontana, nella consapevolezza del proprio essere persona. Gli errori e i limiti della filosofia critica occidentale, possono allora, gettare una luce sulla realtà umana e spingerci a riflettere sui suoi limiti, che si riveleranno, attraverso la teoria della conoscenza tacita, i suoi stessi punti di forza. Il vuoto esistenziale in cui vive l’uomo contemporaneo costituisce, dal punto di vista polanyiano, la causa principale dell’infelicità. La critica al pensiero moderno non è altro che un tentativo di spiegare, attraverso un percorso storico, la situazione esistenziale in cui l’uomo di oggi si trova a vivere. La teoria del sapere tacito, allora, può essere letta come il frutto dell’intento polanyiano di allontanare l’uomo dal nulla, mostrandogli che il mondo ha un significato, accessibile alla conoscenza attraverso un percorso non del tutto esplicitabile.
2. La proposta della conoscenza tacita
Seguendo la tradizione occidentale che prolunga il pensiero cartesiano e l’empirismo
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anglosassone, il positivismo ha stabilito una profonda frattura tra la scienza impersonale, che enuncia verità obiettive e universali, e l’insieme dei nostri giudizi di valore, che esprimono semplicemente opinioni variabili e soggettive. Partendo da simili presupposti, risulta evidente come nell’ambito scientifico sia sempre possibile raggiungere un accordo universale, mentre, nell’ambito dell’azione, ciascuno venga spinto verso direzioni differenti, da sentimenti, interessi e passioni di natura soggettiva. Da una parte, quindi, la scienza contribuisce a stabilire un accordo unanime fra gli uomini, sul piano conoscitivo, dall’altra, invece, l’azione sfugge al controllo della ragione e tende a dividere un’umanità che si lascia trascinare da desideri e passioni. La separazione della scienza dalle altre attività umane è qualcosa di tipicamente moderno, sconosciuto al mondo greco; la filosofia dei Greci è infatti puro theorein, desidero di vedere, senza uno scopo predefinito, amore della sapienza, ovvero di una conoscenza razionale, capace di condurre l’uomo alla felicità. Il cosmo greco non è l’universo dell’uomo moderno, un universo da dominare e strumentalizzare, ma assume i caratteri della fysis, una natura che dischiudendosi si manifesta, in forme sempre diverse, suscitando lo stupore dell’uomo davanti allo spettacolo cosmico. La scienza moderna, invece, non è in grado di vivere lo stupore teoretico, poiché il suo compito principale consiste nell’individuare le cause di ogni evento, in modo da far rientrare tutti gli avvenimenti, anche quelli imprevisti, all’interno dei suoi schemi concettuali. Stupirsi è possibile soltanto riconoscendo un rapporto aperto e mutevole con una realtà che ci comprende, ma che nello stesso tempo supera la nostra condizione di esseri umani e deboli. La riscoperta della dimensione misteriosa del reale rappresenta, secondo Polanyi, un passo fondamentale verso il riconoscimento della persona umana all’interno di ogni atto conoscitivo: l’uomo moderno deve ritrovare in se stesso quell’antico amore per la sapienza, che ha perso nell’illusione di rendere oggettivi ed esplicitabili tutti gli aspetti dell’universo circostante. L’impresa di Polanyi, quindi, da una parte rompe col passato, poiché rovescia una tendenza di pensiero che ha segnato l’evoluzione dell’umanità occidentale a partire da Cartesio, dall’altra però essa lascia emergere l’esigenza del ritorno ad un’antica tradizione, contro la quale lo stesso Cartesio si era schierato. I positivisti, secondo Polanyi, avevano trascurato il problema della creazione scientifica, relegandola nell’ambito della psicologia: soltanto così l’impresa scientifica poteva
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essere concepita come impersonale, estranea alla tradizione e alle autorità. Proprio dalla difficoltà positivista di dare una spiegazione all’atto creativo dello scienziato, nasce l’esigenza polanyiana di spiegare la tensione interna al processo conoscitivo, attraverso un ritorno a Platone. Il razionalismo greco è molto distante da quello moderno, poiché non si fonda sul riconoscimento di una ragione soggettiva autonoma, ma si dispiega nel rapporto dialettico tra la realtà e i suoi significati nascosti. Il problema principale per i Greci non era tanto la comunicazione intersoggettiva, quanto lo sforzo di comprendere l’oggetto d’indagine, posto al centro dell’attenzione3. Il filosofo, come lo scienziato, viveva in una continua tensione conoscitiva, riscoprendosi in relazione ad una verità carica di mistero. Questa è la situazione che Polanyi ritrova nel Menone platonico e per la quale la verità non può essere un oggetto manipolato da mani umane, ma si disvela all’interno di una realtà che, pur non appartenendoci, spinge sempre il soggetto alla ricerca e all’interrogazione. Nel Menone, infatti, viene descritto il carattere paradossale della ricerca: “Platone affermava che riconoscere la soluzione di un problema è un’assurdità; infatti o si conosce ciò di cui si va in cerca, e allora non c’è alcun problema; oppure non si conosce ciò di cui si va in cerca e allora non è lecito attendersi di trovare alcunché” (Polanyi 1966a, p. 38)4. Come sappiamo, la soluzione platonica è quella dell’anamnesi: l’anima immortale ha visto il mondo delle idee, ma una volta imprigionata nel corpo se ne è dimenticata, per questo ogni tentativo di conoscenza consiste in un ricordo, in “una memorizzazione di vite passate” (Polanyi 1966a, p. 38). Probabilmente questa strana soluzione al problema ha fatto sì che esso non venisse preso sul serio, nel corso dei 3
Hannah Arendt mette in evidenza come il problema dell’intersoggettività sia tipico della modernità ed estraneo al mondo greco: “Nel loro incessante dialogare i Greci scoprirono che il mondo comune a tutti poteva essere visto da un numero infinito di posizioni diverse, alle quali corrispondevano i punti di vista più disparati. […] Il greco imparava a scambiare la propria «opinione» (ossia il modo in cui il mondo gli appariva: δοκει µοι, «mi pare», verbo dal quale deriva δόξα, «opinione») con quella dei suoi concittadini. I Greci imparavano a capire: non a capirsi a vicenda, in quanto individui, bensì a guardare una stessa cosa sotto aspetti molto diversi” (Arendt 1961, p. 82). Questo percorso cognitivo viene definito dalla Arendt “un processo di eccezionale obiettività”, poiché l’oggetto da indagare è uno solo, ma si dà, si manifesta in modi differenti, arricchendo l’ambito del sapere umano. (cfr. Arendt, 1961) 4 Nel dialogo paltonico, Menone si rivolge a Socrate in questi termini: “Ma in quale modo, Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E quali delle cose che ignori farai oggetto di ricerca? E se per un caso l’imbrocchi, come farai ad accorgerti che è proprio quella che cercavi se non la conoscevi?” (Platone, Menone, 80 d-e, in Platone, Opere, tr. it., Laterza, Bari, 1967, I, p. 1267).
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secoli successivi; tuttavia, secondo Polanyi, Platone aveva toccato una questione centrale, ineludibile nell’analisi del processo conoscitivo:
Del resto il Menone dimostra in modo conclusivo che, se tutta la conoscenza è esplicita, vale a dire suscettibile di essere chiaramente espressa, allora non possiamo conoscere un problema o andare alla ricerca di una sua soluzione. Il Menone però mostra anche che se i problemi comunque esistono e se possono essere compiute scoperte mediante la loro soluzione, possiamo conoscere cose, e cose importanti, che non siamo in grado di esprimere (Polanyi 1966a, pp. 3839).
Polanyi, quindi, traduce la questione platonica dell’anamnesi in modo originale: la nostra conoscenza si sviluppa come un tentativo di trovare una soluzione ad un particolare problema, non perché l’anima umana, nelle sue vite passate, ha visto la verità e, mentre conosce, cerca di ricordare ciò che già ha appreso; ma il soggetto umano è capace di risolvere questioni poco chiare e intricate poiché non tutto il percorso conoscitivo si svolge nella dimensione concettuale, simbolica, o meglio, nella sua dimensione esplicita. Il paradosso del Menone viene quindi risolto da Polanyi attraverso il riferimento ad una “conoscenza inespressa che […] consiste nella vaga intuizione di qualcosa di nascosto, che possiamo ancora scoprire” (Polanyi 1966a, p. 39). La nostra mente assume, così, una capacità intuitiva che ci permette di anticipare, in maniera ancora non del tutto chiara, un particolare aspetto del mondo. La certezza di procedere verso la direzione giusta, non potrà mai essere provata da una serie di regole esplicite, poiché si radica nell’inspiegabile sensazione “di aver stabilito un contatto con la realtà, […] la quale, per il fatto appunto di essere reale, può rivelarsi ancora ad una successiva osservazione in uno spettro illimitato di manifestazioni inattese” (Polanyi 1966a, p. 40). Quando una scoperta risolve un problema, il ricercatore può ritenersi soddisfatto del lavoro che ha portato a compimento, anche se ogni nuova soluzione “risulta sempre carica di ulteriori intuizioni rientranti in un ambito sconfinato” (Polanyi 1966a, p. 39), un ambito che non è possibile prevedere o racchiudere in delle leggi prestabilite. Sebbene le conseguenze di una scoperta rimangano per lo più ignote, lo scienziato avrà sempre una profonda fiducia negli sviluppi futuri dell’universo naturale e vedrà la propria scoperta come “la chiave di una realtà di cui essa è una manifestazione” (Polanyi 1966a, p. 40).
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La presenza di una conoscenza inespressa dietro ad ogni conoscenza esplicita o formalizzabile, quindi, spiega la possibilità di individuare un problema, il tentativo, da parte dello scienziato, di risolverlo e, in ultimo, la capacità di anticipare delle implicazioni ancora indeterminate della scoperta. Qualsiasi atto di comprensione si basa su delle intuizioni di fondo: Polanyi, per chiarire la condizione del soggetto conoscitivo, utilizza il termine inglese indwelling, che può essere tradotto come “un immedesimarsi, uno stare-dentro”; la persona, infatti, non è mai separata, scissa dal problema che cerca di risolvere, ma abita in esso, portando con sé la sua esperienza, il suo mondo, le sue capacità cognitive ed intuitive. Ogni ricerca umana, compresa quella scientifica, avviene attraverso un coinvolgimento personale e non può ridursi ad una “mera attività di rassegna” (Polanyi 1969, p. 153), ad un controllo di ipotesi o di affermazioni esplicite. La presenza stessa di un problema, all’inizio di ogni sforzo conoscitivo, ci impedisce di definire la scienza come una semplice esecuzione di regole: nel Menone platonico il problema nasconde una mancanza, nasconde qualcosa che, in certo senso, chiede di venire alla luce. Polanyi riconosce che una problematica, nell’attesa di essere risolta, crea disagio, e nello stesso tempo, fa delle promesse. Il disagio del soggetto umano nasce, probabilmente, dalla sua incapacità di definire, per mezzo di regole esplicite, ciò che la realtà sembra promettere attraverso il problema che lascia emergere da sé. Nel momento in cui lo scienziato sente di essere impegnato nella scoperta di una verità, molto più grande di lui, ma disposta a rivelarsi sotto particolari aspetti, la sua ricerca diventa appassionata e appassionante: “La scienza è e deve essere eccitante, poiché si basa su indizi largamente inspecificabili che possono essere avvertiti, mobilitati ed integrati solo da una risposta appassionata al loro significato nascosto” (Polanyi 1969, p. 153). Secondo Polanyi, il riconoscimento “di un problema autentico è […] un paradigma di tutta la conoscenza” (Polanyi 1969, p. 152), infatti ogni ricerca si sviluppa come una tensione, a partire da alcuni indizi non del tutto chiari e identificabili. A questo punto, possiamo dire che il riferimento al Menone platonico è servito a Polanyi per introdurre la sua idea di conoscenza inespressa e per mostrare come, in ogni attività conoscitiva, compresa quella scientifica, il problema non possa essere ridotto al rango di una semplice ipotesi. Gli indizi problematici, che troviamo nella fase iniziale della ricerca, indicano, in maniera molto vaga, la via lungo la quale può avvenire l’incontro con una verità che continuamente ci impegna e ci spinge all’interrogazione. Il
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lavoro dello scienziato non potrà mai dirsi concluso: la capacità di “vedere un problema dove gli altri non ne vedono alcuno e di sentire la direzione verso una soluzione, dove gli altri non vedono nulla di rilevante” (Polanyi 1969, p. 153), procede sempre insieme al rischio del fallimento; ogni soluzione finale, quindi, rimane costantemente aperta ai possibili cambiamenti futuri: Diamo senso all’esperienza basandoci su indizi di cui siamo spesso consapevoli solo come indicatori del loro significato nascosto; questo significato è un aspetto di una realtà che come tale può ancora rivelarsi in una gamma indeterminata di scoperte future. Questa è in effetti la mia definizione della realtà esterna: […] qualcosa che attira la nostra attenzione con indizi che stimolano e allettano le nostre menti ad andare sempre più dentro di essa e che, poiché deve il suo potere attrattivo alla sua esistenza indipendente, può sempre manifestarsi in modi ancora inattesi (Polanyi 1969, p. 155).
Lo scopo principale di Polanyi è quello di ristabilire, attraverso un ritorno a Platone, un’antica concezione metafisica, riscoprendo l’autonomia e la forza di una verità che non si lascia oggettivare. Tuttavia, la visione classica della realtà deve essere rielaborata in termini nuovi, prendendo soprattutto in considerazione i risultati raggiunti dalla psicologia della Gestalt. Secondo Polanyi, la situazione paradossale descritta dal dialogo platonico può essere riletta alla luce di alcune importanti riflessioni contemporanee, che servono a rendere ancora più chiari i meccanismi della conoscenza inespressa. Nella prefazione della sua opera maggiore, Personal Knowledge, Polanyi dichiara di aver “usato le scoperte della psicologia della forma come spunto di approccio” (Polanyi 1958, p. 69) ad una nuova idea della conoscenza: il meccanismo percettivo, che gli psicologi della Gestalt prendono in esame, verrà, infatti, considerato come l’esempio paradigmatico di ogni atto conoscitivo. La più grande conquista teorica dell’indirizzo gestaltico “può essere senz’altro ritrovata nella definizione […] globale dell’esperienza, a cominciare dall’esperienza percettiva: la forma (Gestalt) è una configurazione in cui la funzione delle parti è determinata dall’organizzazione dell’intero, e l’intero risulta irriducibile alla semplice somma dei suoi elementi costitutivi” (Vinti 1999, p. 60). L’atto del capire è un processo di comprensione, che consiste, essenzialmente nel “radunare parti separate in un insieme unitario” (Polanyi 1959, p. 23). Attraverso il
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riferimento al Menone platonico, Polanyi ci ha mostrato come ogni tipo di conoscenza consista in “una tensione suscitata da indizi largamente non specificabili” (Polanyi 1969, p. 152); i risultati della psicologia della Forma, a questo punto, diventano necessari per spiegare il modo in cui numerosi indizi periferici e secondari possano guidare
ogni
sforzo
intellettuale,
permettendo
la
comprensione,
e
quindi
l’identificazione, di un problema reale. Per cogliere i meccanismi di una logica mediante la quale dei poteri non formalizzabili riescano a conseguire e a confermare conclusioni vere “dobbiamo rivolgerci all’esempio della percezione” (Polanyi 1969, p. 174). Il progresso nella conoscenza, in particolare in quella scientifica, è determinato, in ogni fase, da alcune facoltà di pensiero, che non è possibile definire: nessuna regola può spiegare il modo in cui viene trovata un buona idea per dare inizio ad una ricerca, ma anche la verifica e la confutazione delle soluzioni non possono fondarsi su regole specifiche, inoltre “il contenuto esplicito di una teoria non riesce a rendere conto della guida che essa fornisce a scoperte future” (Polanyi 1969, p. 174). Una simile analisi della ricerca scientifica porta Polanyi ad una conclusione molto importante:
La capacità degli scienziati di percepire in natura la presenza di forme stabili differisce dalla percezione ordinaria solo per il fatto che essa può integrare forme che la percezione ordinaria non può maneggiare facilmente. La conoscenza scientifica consiste nel discernere Gestalten che indicano una coerenza autentica nella natura . […] La logica dell’integrazione percettiva può servire perciò come modello per la logica della scoperta (Polanyi 1969, p. 175).
Individuare delle forme significative fra una serie di impressioni disordinate è un compito molto comune, che svolgiamo continuamente osservando gli oggetti di fronte a noi. La maggior parte delle volte “questo processo di dare senso a ciò che vediamo va da sé automaticamente e correttamente” (Polanyi 1969, p. 142); tuttavia, in alcuni casi, la capacità di scorgere un oggetto deve essere acquisita nell’educazione infantile e continuamente esercitata nella pratica: ad esempio, gli studenti di scienze devono imparare, o meglio abituarsi, a vedere le cose attraverso particolari strumenti come il telescopio o il microscopio, mentre gli studenti di medicina devono diventare abili “a discernere forme autentiche” (Polanyi 1969, p. 175), nella lettura di una radiografia. A volte, anche nella percezione ordinaria è necessario sforzare i propri occhi per scorgere un oggetto vagamente visibile e per evitare di cadere nell’inganno di un’illusione ottica:
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In generale, perciò, percepire un oggetto è risolvere un problema; è rispondere alla domanda se vi sia qualcosa e, se sì, che cosa. […] Noi guardiamo verso qualcosa che non possiamo scorgere completamente. Sforziamo la nostra attenzione tentando di fare un’ipotesi, ma come cominciamo gradualmente a sentirci sicuri della nostra ipotesi, possiamo di fatto essere stati ingannati da una forma che viene a simulare un oggetto reale (Polanyi 1969, p. 142).
Lo scienziato svolge, in effetti, un percorso simile: “Il dono di vedere cose dove gli altri non vedono nulla è il segno del genio scientifico, una facoltà guidata da criteri vaghi, proprio come sono i tratti della visione acuta” (Polanyi 1969, p. 142). Quel vuoto che la presenza di un problema lascia emergere, nell’indagine della realtà, può essere colmato proprio dalla creatività del genio, ovvero da un continuo gioco di intuizione e immaginazione, presente, in gradi diversi, all’interno di ogni atto conoscitivo. Creare una nuova teoria scientifica non significa inventare o costruire, a seconda dei propri criteri concettuali, una realtà parallela, differente da quella del mondo, ma vuol dire imparare a discernere le forme reali dell’universo. La capacità di vedere, di scorgere soluzioni attraverso indizi indefinibili, è alla base di ogni comprensione, a partire dalla percezione ordinaria, fino ad arrivare alla ricerca scientifica. È importante, quindi, indagare, attraverso i risultati della psicologia gestaltica, il nostro modo di guardare. A tale scopo, Polanyi nomina gli esperimenti sulla percezione, svolti dagli psicologi dalla Forma; questi mostrano che alcuni disegni sulla carta possono sembrare due immagini differenti, a seconda del rapporto sfondo-figura percepito:
Ricordate le famose immagini ambigue, come i «caliciofacce» di Rubin. Si può guardare a quest’immagine in un modo e vedere due facce di profilo con uno spazio vuoto fra di esse, e poi guardare ad essa in un altro modo e vedere un calice nel mezzo, con uno sfondo vuoto su ciascuno dei due lati dove prima si vedevano le facce. Quest’esperienza mostra che quando un’area è vista come una figura, essa acquista significato e solidità, che perde immediatamente quando è fatta funzionare come sfondo. […] Possiamo generalizzare ciò dicendo che la figura è qualcosa di caratteristico visto contro uno sfondo che è indeterminato (Polanyi 1969, p. 145).
Un oggetto, quindi, è visto come tale soltanto se percepiamo ciò che lo circonda come uno sfondo; inoltre molti degli indizi usati nella nostra identificazione non possono
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essere riconosciuti o visti in se stessi, infatti, se così fosse, essi perderebbero il loro potere di indizi e, privi di questa funzione, tenderebbero a perdersi tra altri dettagli insignificanti. La relazione tra sfondo e figura mostra un principio generale, su cui Polanyi fonderà tutta la struttura della conoscenza:
Ogni qualvolta focalizziamo la nostra attenzione su di un oggetto particolare, ci basiamo […] sulla nostra consapevolezza di molte cose cui non siamo direttamente attenti al momento, ma che tuttavia funzionano come indizi stringenti del modo in cui l’oggetto della nostra attenzione apparirà ai nostri sensi (Polanyi 1969, pp. 148-149).
L’integrazione o la visone unitaria di un oggetto viene distrutta dallo spostamento dell’attenzione sui particolari singoli e questo processo può essere favorito da un certo modo di guardare all’insieme, per esempio da molto vicino. L’idea della percezione, intesa come “una comprensione di spunti in termini di una totalità” (Polanyi 1958, p. 200), può rivelarsi anche utile in relazione all’antico problema filosofico degli universali: “Platone fu il primo ad essere assillato dal fatto che nell’applicare la nostra concezione di una classe di cose, continuiamo ad identificare oggetti differenti fra loro in ogni particolare” (Polanyi 1969, p. 203). La sua soluzione consisteva nell’idea che esistesse un uomo perfetto, del quale gli uomini singoli sarebbero soltanto copie imperfette. Secondo Polanyi, alla luce di un simile problema, che ha tormentato per secoli e secoli il pensiero filosofico occidentale, bisogna chiedersi da dove derivino certe difficoltà, apparentemente insuperabili; diventa, infatti, un’impresa ardua spiegare in che modo la parola «uomo» possa indicare un insieme di individui particolari e diversi, se non teniamo conto dei poteri taciti, posseduti dalla mente umana: “Tutte le difficoltà nascono solo perché cerchiamo una procedura esplicita per formare collezioni di oggetti che possono essere designati […] dallo stesso termine universale” (Polanyi 1969, p. 203). Dunque, la stessa conoscenza inespressa che permette di trovare una soluzione ai problemi, opera integrando indizi non specificabili, a volte in opposizione fra loro. A questo punto, credo sia chiara la proposta formulata da Polanyi, ovvero il suo tentativo di ritornare ad una concezione classica della verità e della realtà, tenendo presenti i risultati raggiunti dalla psicologia della Forma, risultati necessari per ricostruire e rifondare tutta la struttura conoscitiva. La Gestalt, come abbiamo già
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sottolineato, è stata molto utile a Polanyi, poichè gli studi gestaltici sulla percezione hanno illuminato i meccanismi della cosiddetta conoscenza inespressa. Tuttavia, Polanyi, in diverse opere, si mostra non completamente soddisfatto delle conclusioni a cui sono arrivati gli psicologi della Forma, i quali hanno raccolto soprattutto “esempi in cui la percezione si attua senza alcuno sforzo deliberato da parte di chi percepisce” (Polanyi 1958, p. 200). Secondo il loro punto di vista, il processo d’integrazione tra le parti e il tutto non dipende dallo sforzo autonomo del soggetto, inteso come persona libera e capace di scelte responsabili, ma è qualcosa di già dato, determinato esclusivamente da fattori sociali, culturali e materiali:
Gli psicologi hanno descritto la nostra percezione […] come un’esperienza passiva, senza considerare che essa rappresenta un metodo – ed indubbiamente il metodo più generale – per acquisire la conoscenza. Essi non erano probabilmente disposti a riconoscere che è l’atto personale di colui che conosce a formare la conoscenza (Polanyi 1959, p. 24).
La percezione, come ogni altro tipo di conoscenza, si fonda sullo sforzo intenzionale del soggetto, diretto ad una vera e propria esplorazione della realtà. Se non si trattasse di un processo attivo, che coinvolge pienamente la persona non si spiegherebbero “la gioia che si prova quando si vedono le cose, la curiosità che è destata da oggetti nuovi, la tensione dei nostri sensi nel decifrare che cosa sia ciò che vediamo e la grande superiorità che alcune persone hanno nella mobilità degli occhi e nell’acutezza della vista” (Polanyi 1958, p. 201). Non può essere accettata l’idea che la comprensione sia un processo spontaneo che avviene nel soggetto; ogni tentativo di risolvere un problema, infatti, inizia soltanto a partire dalla decisone responsabile d’intraprendere un percorso conoscitivo. Come vedremo in seguito, la struttura della conoscenza non può reggersi da sola, ma ha bisogno della persona, del suo impegno e delle sue scelte, guidate dalla speranza di entrare in relazione con la realtà autentica. Nella teoria della conoscenza polanyiana, il ruolo centrale della persona emerge attraverso l’analisi accurata dei meccanismi conoscitivi. L’esigenza di risolvere situazioni problematiche, scavando nel profondo di una realtà mutevole, è ciò che caratterizza la vita dell’essere umano, il quale non può scindere la sua esistenza dall’incessante attività del pensiero: “La capacità di pensare è nell’uomo l’attributo più rilevante; pertanto chiunque si accinga a parlare dell’uomo dovrà necessariamente
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parlare della conoscenza umana” (Polanyi 1959, p. 13). Lo sforzo conoscitivo si sviluppa come un compito senza fine, nel quale l’oggetto della ricerca non appare mai in una configurazione stabile e definitiva; i risultati ottenuti nella conoscenza umana costituiscono, infatti, dei punti d’arrivo che rimangono sempre aperti a possibili sviluppi futuri: “Ci troveremmo quindi continuamente a riflettere sulla nostra ultima riflessione, in uno […] sforzo senza fine per capire completamente le opere dell’uomo” (Polanyi 1959, p. 13). La necessità di ricominciare sempre da capo, può apparire come inutile e fittizia, “ma è in realtà profondamente caratteristica sia della natura dell’uomo che della natura della conoscenza umana” (Polanyi 1959, p. 13). L’impegno personale di rinnovare sempre il proprio apparato concettuale nasce dall’incessante tentativo umano di tradurre in parole ciò che viene soltanto intuito nella parte più profonda e nascosta di noi stessi. Uno sforzo simile implica la distinzione di due diversi ambiti conoscitivi: il primo è quello dominato da una conoscenza esplicita, elaborata “in parole scritte, schemi o formule matematiche” (Polanyi 1959, p. 13); il secondo, invece, è un ambito illimitato, quello “di una conoscenza non formulata” (Polanyi 1959, p. 13), attraverso la quale noi comprendiamo tacitamente qualcosa di noi stessi, come soggetti impegnati nella ricerca della verità: “La conoscenza tacita è di fatto il principio dominante di tutta la conoscenza e […] il suo rifiuto coinvolgerebbe automaticamente il rifiuto di qualsiasi altro tipo di conoscenza” (Polanyi 1959, p. 14). Al di là del mezzo linguistico, quindi, Polanyi rintraccia un sapere pre-verbale, per il quale l’uomo vede, ascolta, agisce ed esplora ciò che lo circonda, imparando a conoscere meglio il suo ambiente. Apparentemente i due livelli dell’intelligenza umana sembrano opposti e separati, in realtà tra loro si sviluppa uno stretto rapporto reciproco:
I due aspetti in conflitto […] possono essere riconciliati supponendo che l’articolazione rimanga sempre incompleta, e che le nostre espressioni articolate non possano mai imporsi del tutto ma debbano continuare a poggiare su quegli atti muti d’intelligenza che originariamente abbiamo avuto in comune con gli scimpanzé della nostra età (Polanyi 1958, p. 162).
La conoscenza tacita si distingue da quella esplicita, anche se tra loro non esiste una divisione netta: mentre la prima “può essere posseduta di per sé, la conoscenza esplicita deve basarsi sul fatto di essere tacitamente compresa ed applicata” (Polanyi 1969, p. 181). Per questo tutta la conoscenza può essere definita tacita o radicata in una
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dimensione non formalizzabile; per Polanyi “una conoscenza interamente esplicita è impensabile” (Polanyi 1969, p. 181). Spesso, infatti, le spiegazioni elaborate dal pensiero esplicito risultano inefficaci: “Una persona che indossa occhiali con lenti invertenti andrà in giro disorientata per giorni, sebbene sappia che deve semplicemente trasporre le cose che vede da destra a sinistra e da sinistra a destra. Essa imparerà alla fine a vedere con lenti invertenti senza sapere come si fa” (Polanyi 1969, p. 180). Numerose abilità e conoscenze trovano il loro fondamento ultimo in un sapere che rimane inspiegabile. Da una parte, le espressioni linguistiche poggiano su una conoscenza non formalizzabile, dall’altra, però, “le nostre mute abilità continuano a crescere mentre si esercitano i nostri poteri articolati” (Polanyi 1959, p. 162). La dimensione tacita, infatti, non dev’essere intesa come uno sfondo immutabile e fisso, ma come un insieme complesso di abilità che si trasforma nel corso della crescita individuale. Polanyi definisce tutta la conoscenza “una comprensione attiva delle cose conosciute, un’attività che richiede abilità” (Polanyi 1958, p. 69). Il sapere teoretico e l’operare pratico non possono scindersi, ma si sviluppano in una collaborazione reciproca e necessaria ad ampliare la nostra consapevolezza del mondo. La relazione tra teoretico e pratico caratterizza ogni tipo di conoscenza, a partire dalla percezione di un oggetto, fino ad arrivare alle attività intellettuali più alte, passando attraverso gli atteggiamenti pratici che accompagnano, ogni giorno, la nostra esistenza. Iniziando proprio dalle più banali attività della vita quotidiana, bisogna sempre tenere presente che “lo scopo di un’operazione utile si raggiunge osservando un insieme di regole, non conosciute come tali dalla persona che le osserva” (Polanyi 1958, p. 134). Ad esempio, chi nuota si mantiene a galla attraverso la regola della respirazione, ma in genere nessun nuotatore, mentre svolge la sua attività, pensa al lavoro svolto dai polmoni. Un altro caso paradigmatico è quello del ciclista; non esiste, infatti, alcuna spiegazione sufficiente per andare in bicicletta:
Non potete adattare la curvatura del percorso della vostra bicicletta in proporzione al rapporto del vostro squilibrio sul quadrato della vostra velocità; e se potreste farlo, cadreste dalla bicicletta, perché ci sono vari altri fattori che devono essere presi in considerazione nella pratica e che rimangono fuori dalla formulazione di questa regola. Le regole dell’arte possono essere utili, ma non determinano la pratica di un’arte; sono massime che possono servire come guida
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[…] solo se possono essere integrate nella conoscenza pratica dell’arte, e non possono sostituire quest’ultima (Polanyi 1958, p. 136).
Per questo motivo, la trasmissione del sapere si fonda sempre sull’esempio; imparare dagli esempi significa affidarsi a qualcuno o sottomettersi ad un’autorità: “Si segue un maestro perché si ha fiducia nel suo modo di fare le cose anche quando non si può analizzare e spiegare dettagliatamente la sua efficienza” (Polanyi 1958, p. 140). Osservando il maestro, l’allievo si appropria, senza saperlo, delle regole dell’arte, comprese quelle di cui lo stesso maestro è inconsapevole. Le abilità, quindi, non possono essere semplicemente spiegate nei termini dei loro particolari. Questo aspetto accomuna la padronanza di un’abilità alla percezione di un oggetto o di un’entità comprensiva. Infatti, noi siamo in grado, ad esempio, di riconoscere una fisionomia, senza riuscire a spiegare il processo di identificazione che abbiamo compiuto. Il tentativo di definire una fisionomia si sviluppa nel duplice sforzo d’individuare i particolari e di descrivere la loro relazione. Si tratta di due sforzi complementari, perché mirano entrambi all’identificazione dell’oggetto, anche se, in stadi successivi, l’uno contrasta con l’altro:
Ogni volta che concentriamo la nostra attenzione sui particolari di un’entità comprensiva, il nostro senso della sua esistenza è temporaneamente indebolito; e ogni volta che muoviamo nella direzione opposta verso una più piena consapevolezza dell’insieme, i particolari tendono ad essere sommersi nell’insieme (Polanyi 1969, p. 161).
Uno studente di medicina, ad esempio, non potrà mai arrivare ad una diagnosi corretta, se si concentra esclusivamente sui sintomi isolati di una malattia; in questo caso, soltanto la pratica clinica potrà insegnargli come riunire gli indizi osservati, al fine di elaborare una diagnosi. L’attenzione sui particolari rischia di farci perdere il significato del tutto; questo vale anche per le abilità, che tendono a paralizzarsi, se lo sguardo di chi le compie è rivolto ai singoli movimenti del corpo: un pianista, che mentre suona sposta la sua attenzione sulle dita, rischierà di confondersi e sarà costretto ad interrompere la sua esecuzione. Tuttavia è proprio grazie ai particolari, visti nell’insieme, che siamo in grado d’identificare un oggetto o di svolgere un’attività. Per questo Polanyi arriva alla conclusione seguente:
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I particolari possono essere notati in due modi diversi. Possiamo esserne consapevoli in modo non comprensivo, cioè in se stessi, o in modo comprensivo, nella loro partecipazione ad un’entità. Nel primo caso focalizziamo la nostra attenzione sui particolari isolati; nel secondo, la nostra attenzione è diretta oltre essi all’entità cui essi contribuiscono. Nel primo caso, perciò possiamo dire che siamo consapevoli focalmente dei particolari; nel secondo, che li notiamo in modo sussidiario in termini della loro partecipazione all’insieme (Polanyi 1969, p. 164).
Si tratta di due sguardi differenti rivolti ad una stessa realtà: una consapevolezza sussidiaria dei particolari che ci permette, ad un livello profondo, di cogliere l’oggetto nella sua interezza, si oppone ad una consapevolezza focale dei particolari, nella quale l’unità comprensiva tende a dissolversi, in una miriade di dettagli. Specificando e definendo i due tipi di attenzione differenti, Polanyi supera la precedente distinzione tra conoscenza esplicita e tacita: ogni atto conoscitivo, quindi ogni tentativo teoretico e pratico di “afferrare un oggetto o un’arte” (Polanyi 1969, p. 162) si fonda sulla consapevolezza sussidiaria di alcuni particolari, che svolgono la funzione di strumenti e, in quanto tali, permettono al soggetto di rivolgere tutta la sua attenzione focale all’entità comprensiva. Non si tratta di livelli differenti di coscienza, ma semplicemente di visioni diverse: il focale è ciò che si pone al centro del nostro interesse, la totalità, l’insieme; il sussidiario è l’elemento singolo, il dettaglio che ha valore solo se considerato come parte integrante di un tutto, o come mezzo utilizzato per uno scopo preciso. La dialettica fra sussidiario e focale, infatti, emerge chiaramente se consideriamo tutti quei casi in cui ci serviamo di particolari strumenti. Uno degli esempi, fatti da Polanyi, è quello del martello che batte su un chiodo: mentre utilizziamo un martello per fissare un chiodo al muro, noi facciamo attenzione ad entrambi gli oggetti, ma in maniera del tutto differente; cerchiamo, infatti di usare il martello in un certo modo, badando ai colpi sul chiodo. Ciò che ci interessa è il raggiungimento del nostro scopo, tuttavia “siamo certamente attenti alle sensazioni nel palmo della mano e nelle dita che stringono il martello. Esse ci guidano nel maneggiarlo in maniera efficace” (Polanyi 1958, p. 143). Essere sussidiariamente consapevoli di alcuni elementi, quindi, non significa dimenticarsene, ma significa prestare loro attenzione come mezzi o strumenti finalizzati ad uno scopo ulteriore. Se perdiamo di vista il fine ultimo della nostra attività, rischiamo di non ritrovare più il senso dell’azione e di smarrirci fra numerosi dettagli,
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che non hanno alcun significato in se stessi: l’urtare oggetti con un bastone, ad esempio, diventa un atto insensato, se non viene svolto con lo scopo di trovare la strada giusta nel buio. L’attenzione sui movimenti singoli ci impedisce di vedere il contesto dell’azione e, in tal senso, ci disorienta. Quest’idea può essere ulteriormente chiarita in termini di significato:
I portatori più pregnanti di significato sono, ovviamente, le parole di una lingua, ed è interessante ricordare che quando usiamo le parole nel parlare o nello scrivere, ne siamo consapevoli solo in maniera sussidiaria. Questo fatto è usualmente descritto come trasparenza del linguaggio (Polanyi 1958, p. 145).
Un nome, di per sé, è un suono senza senso, basta pronunciarlo una decina di volte di seguito per rendersene conto; esso acquista significato soltanto se indica un oggetto, una persona reale o un’entità. La consapevolezza di un testo letto o ascoltato resta sempre strumentale rispetto al suo significato, in questo senso le parole lasciano trasparire qualcosa che sta oltre il segno scritto o il suono; questo vuol dire che prestiamo un’attenzione focale a ciò che viene indicato dai segni verbali e non alle parole in se stesse. Anche sul piano linguistico, risulta evidente come, alla luce della distinzione fra consapevolezza focale e sussidiaria dei particolari, venga riconsiderato tutto il rapporto tra la componente tacita e la componente esplicita del sapere: se la comprensione di qualcosa può essere totalmente annullata, spostando l’attenzione dal suo centro focale ai suoi particolari sussidiari, non ci deve sorprendere il fatto che spesso riusciamo ad identificare un’entità comprensiva, o a trovare la soluzione di un problema senza essere in grado di specificare i particolari dell’entità o i passaggi logici del processo risolutivo: “In questi casi ignoriamo dal punto di vista focale i particolari; li conosciamo soltanto in modo sussidiario nei termini di ciò che significano globalmente, ma non siamo in grado di dire cosa siano in se stessi” (Polanyi 1959, p. 26). Polanyi parla di una specie di preconoscenza che guida, non solo le abilità, le capacità linguistiche e la percezione di entità comprensive, ma anche il processo della scoperta e dell’invenzione. In fondo, lo scopo principale di Polanyi è dimostrare che anche la scienza, ridotta dal pensiero moderno ad un insieme di asserzioni esplicite, possiede una dimensione inespressa, sulla quale si fonda ogni nostra capacità articolata. Un problema scientifico rilevante o una grave anomalia costringe lo scienziato a rimettere in discussione tutti quei
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presupposti, di cui prima era consapevole soltanto in maniera sussidiaria. In un momento simile, che Kuhn definirebbe come un periodo di crisi, tutta l’attenzione del ricercatore è rivolta ai particolari di una realtà in fase di trasformazione; questo, finché la scoperta determina l’ingresso in un nuovo mondo, diverso da quello precedente. Polanyi, a differenza di Kuhn non divide la scienza in fasi successive e non parla di paradigmi che si sostituiscono nel corso del progresso scientifico, ma riconosce che una nuova e giusta concezione del mondo naturale implica sempre un profondo cambiamento di visioni. Mutare il proprio punto di vista significa modificare il sistema di riferimento, attraverso il quale viene interpretata la nostra esperienza della realtà. Una volta compiuto il difficile passo della scoperta, quindi, la consapevolezza focale dei particolari, che aveva accompagnato la ricerca di una soluzione, viene ridotta ad una consapevolezza sussidiaria di elementi, che diventano, così, mezzi o strumenti d’interpretazione del mondo. I meccanismi del processo conoscitivo, vengono chiariti ulteriormente da Polanyi, sottolineando la presenza di due estremi all’interno del sapere; gli indizi o i dettagli conosciuti in modo sussidiario costituiscono, infatti, il termine prossimale della conoscenza tacita, mentre tutto ciò di cui siamo consapevoli focalmente rientra all’interno del termine distale del sapere:
La conoscenza tacita esercita in ambedue i casi le sue facoltà caratteristiche di integrazione, immergendo il sussidiario nel focale, il prossimale nel distale. Possiamo dire allora che nella conoscenza tacita noi prestiamo sempre attenzione dal termine prossimale al termine distale (Polanyi 1969, p. 177).
Il movimento di un sapere da-a ci permette di risalire alla “pretesa ontologica della conoscenza” (Polanyi 1969, p. 177), ovvero alla pretesa di cogliere, attraverso l’atto della comprensione, un aspetto della realtà, capace di rivelarsi in tanti modi diversi. Non c’è, da parte dell’uomo, il desiderio di distaccarsi da se stesso, al fine di ottenere una verità certa ed evidente, poiché ogni soggetto si riconosce profondamente coinvolto ed impegnato nella realtà che indaga. Se non ci fosse questo coinvolgimento, non sarebbe possibile alcuna conoscenza, dato che tutti i tentativi di risolvere un problema o di identificare un oggetto, si radicano su un fondo indeterminato di abilità, che appartengono intimamente alla persona. La dimensione tacita, che si estende al di sotto
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di ogni sapere esplicito, non è altro che la consapevolezza sussidiaria di noi stessi, delle abilità, degli strumenti che assimiliamo alla nostra persona, e che permettono l’ampliamento del sapere articolato: “Sempre conosciamo tacitamente che siamo noi il sostegno della veridicità della nostra conoscenza esplicita” (Polanyi 1959, p. 14). Da questa affermazione, credo emerga in maniera evidente la relazione tra la componente tacita del pensiero e la persona, ineliminabile dall’atto della comprensione. La dialettica tra sussidiario e focale esige sempre l’intervento del soggetto, non inteso come la mente capace di tradurre in concetti l’intero universo, ma come l’essere umano incarnato nel mondo: la consapevolezza sussidiaria dei particolari, in un’entità comprensiva, appartiene costantemente al nostro “essere corporeo e culturale” (Polanyi 1969, 171). Un segno, uno strumento o un simbolo, può essere riconosciuto come tale solo da una “persona che fa affidamento su di esso per realizzare o significare qualcosa” (Polanyi 1958, p. 151); questo atto di fiducia, che si sviluppa come un impegno personale, fa sì che lo strumento, il segno o il simbolo in questione diventi un’estensione di noi stessi: “Fare attenzione da una cosa al suo significato è interiorizzarla, […] invece guardare alla cosa è esteriorizzarla o alienarla” (Polanyi 1969, p. 183). Il nostro corpo viene ad assumere, così, un ruolo centrale, dato che è “il solo insieme di cose conosciuto quasi esclusivamente basandosi sulla nostra consapevolezza di esse, per fare attenzione a qualcos’altro” (Polanyi 1969, p. 184). Il proprio corpo non può essere definito un oggetto fra gli altri, ma costituisce quel gruppo di elementi a partire dai quali noi facciamo esperienza del mondo: gli organi corporei servono come strumenti per analizzare le entità esterne; quando impariamo ad usare un bastone per orientarci nel buio, o quando apprendiamo una nuova lingua, ad esempio, estendiamo il nostro equipaggiamento corporeo, includendo in esso gli strumenti che abbiamo incontrato. Si tratta di un processo d’immedesimazione o d’interiorizzazione, grazie al quale diamo significato alla realtà circostante, rimanendo sempre all’interno di un determinato clima culturale: “Si potrebbe dire che viviamo nei particolari che comprendiamo, nello stesso senso in cui viviamo negli strumenti e nelle sonde che usiamo e nella cultura in cui siamo educati” (Polanyi 1969, p. 185). Già da questa iniziale descrizione dei meccanismi, implicati nel sapere tacito, emerge l’immagine di un soggetto conoscitivo inserito all’interno di un particolare apparato fiduciario. Senza il riconoscimento di un’autorità e senza quella tacita fiducia nel
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mondo che ci ospita da sempre, non potremmo mai intraprendere il percorso che ci porta verso l’oggetto. Il credere diventa, in un certo qual modo, il presupposto del conoscere; o meglio, per evitare di usare il termine presupposto, attraverso il quale rischieremmo di irrigidire la nozione polanyiana di conoscenza tacita, potremmo dire che l’insieme degli elementi fiduciari nei quali la persona si riconosce, identifica il terreno d’incontro tra il soggetto e l’oggetto. Lo spazio nel quale l’essere umano si muove finisce per diventare lo spazio in cui la persona cerca di ritrovare se stessa. Nel prossimo capitolo, quindi, cercherò di rintracciare, all’interno dell’apparato concettuale polanyiano,
l’intreccio tra conoscere e credere, attraverso il quale la
persona può avventurarsi nell’esperienza del sapere.
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2. Conoscere e credere
1. La conoscenza come indwelling
La dialettica fra una dimensione tacita e una dimensione esplicita del sapere permette di riconoscere la persona, intesa come unità di corpo, psiche e intelletto, al centro della comprensione. Ogni tentativo di conoscere qualcosa è sempre un tentativo di comprendere, ovvero di fare proprio l’oggetto che è distante da noi. L’identificazione di un’entità reale avviene attraverso un cammino che parte da alcuni elementi per arrivare ad altri; non si tratta di un’operazione immediata ed evidente in se stessa, ma di un percorso, le cui tappe non sono interamente specificabili. L’aspetto ineffabile della conoscenza emerge nel rapporto d’integrazione fra elementi sussidiari e focali: i primi fanno parte del soggetto, determinando il suo punto di vista sul mondo, mentre tutto ciò che è esposto ad un’attenzione focale costituisce lo scopo ultimo della comprensione. Tutti quegli elementi che ci permettono di guardare oltre noi stessi, fanno parte del nostro essere persona; per questo si può parlare di una conoscenza personale, in cui non è distrutta la separazione fra soggetto e oggetto, ma nella quale il sapere si sviluppa come un processo d’immedesimazione (indwelling): l’uomo può capire, o meglio comprendere, gli aspetti dell’universo in cui vive, solo abitando o dimorando in essi. Il termine inglese, indwelling, usato da Polanyi, rende pienamente l’idea dello stare dentro alle cose, alle entità che s’intende conoscere. Nella lingua italiana, un concetto simile è espresso dalla parola immedesimazione, anche se questo termine credo lasci nell’ombra delle importanti accezioni, proprie della parola originale inglese. L’immedesimazione, infatti, fa pensare ad un processo che inizia nella mente di un individuo e si sviluppa poi nei gesti e nelle azioni; invece l’indwelling è un atto che coinvolge la persona nella sua interezza, senza implicare la distinzione tra un fase mentale e una fase pratico-operativa: l’essere umano, così com’è, abita un mondo che non potrà mai possedere, ma che gli si
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rivela, progressivamente, in tanti aspetti diversi, che lo riguardano, lo interpellano e gli richiedono un impegno totale. Polanyi riconosce che il grado d’immedesimazione nell’oggetto indagato cambia, man mano che ci si avvicina alla realtà umana: la conoscenza dell’universo inanimato è diversa da quella di un uomo o di un fatto storico, tuttavia viene negata “ogni discontinuità tra lo studio della natura e lo studio dell’uomo” (Polanyi 1959, p. 50). Da una parte devono essere necessariamente distinti vari livelli di esistenza, ai quali la persona partecipa con più o meno intensità, al fine di non uniformare il sapere; dall’altra, però, va riconosciuto l’aspetto comune a tutta la conoscenza, quell’aspetto che permette all’essere umano di non rimanere immobile in un campo d’indagine delimitato, ma gli dà la possibilità di spaziare da un ambito all’altro e di vivere nella continua ricerca di ciò che può completarlo e renderlo migliore:
Tutta la conoscenza si basa sulla comprensione e in questo senso la conoscenza è dello stesso tipo a tutti i livelli di esistenza. Ma questa posizione ammette allo stesso tempo, che non appena l’oggetto della nostra comprensione ascende a livelli più alti di esistenza, rivela caratteristiche […] sempre nuove, lo studio delle quali richiede sempre nuovi poteri di comprensione. Di conseguenza sarò pronto a riconoscere che gli storici devono esercitare un tipo speciale di comprensione. Ma allo stesso tempo sosterrò che tutte le caratteristiche distintive del metodo applicato dagli storici emergono per stadi successivi dalle modificazioni […] dei metodi usati nella scienza (Polanyi 1959, p. 50).
Proprio riguardo alla concezione polanyiana della storia, è interessante, a mio avviso, fare un breve riferimento al rapporto tra Polanyi e Max Weber. R. Aron (cfr. Aron 1968, pp. 341-363) sottolinea come il primo sia costantemente impegnato nella riconciliazione tra la conoscenza del verificabile e l’intuizione dell’inesprimibile, mentre il secondo stabilisce una radicale scissione tra i due ambiti. Anche Weber riconduce la conoscenza alla persona umana, ma, a differenza di Polanyi, il riferimento all’essere personale si limita al sapere extrascientifico. Dal punto di vista di Aron, il tentativo weberiano di stabilire l’obiettività delle scienze sociali s’inserisce ancora in quello che Polanyi definisce il pensiero critico della modernità: la storia, la sociologia, la politica economica non possono essere annoverate tra le scienze universalmente valide se non sacrificano il loro carattere distintivo, ovvero l’originalità del soggetto conoscente. Il
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pensiero polanyiano, invece, va verso una direzione differente: l’autore di Personal Knowledge intende gettare luce sulle condizioni che soggiacciono alla conoscenza, attraverso lo studio della psicologia e non definire una serie di criteri universalmente validi all’interno delle scienze sociali. L’errore principale del sistema weberiano consisterebbe, secondo Aron, nell’aver trasformato in dualità oggettiva quella dualità tra soggetto e oggetto che esiste solamente nella prospettiva di chi vive l’esperienza del conoscere. In Polanyi, la storia e la psicologia non sono ossessionate dal desiderio di raggiungere una verità totalmente obiettiva, poiché il fatto non è mai separato dal valore e tutta la conoscenza è comprensione, ovvero partecipazione attiva del soggetto personale. Come vedremo, ciò non significa uniformare tutte le discipline, ma vuol dire prendere coscienza delle differenze che esistono tra esperienze conoscitive diverse, pur rimanendo consapevoli del fatto che la persona è il centro attivo di ogni sapere. Polanyi individua una linea continua che parte dalla scienza, passa attraverso la storia, gli studi psicologici e sociali, fino ad arrivare all’arte pittorica, alla poesia, alla musica e, in ultimo, alla religione. Si tratta di un unico processo di comprensione che investe tutta la persona, impegnandola in modi diversi, ma pur sempre impegnandola. Non esiste una conoscenza della natura priva “di comunione interna dell’osservatore con l’oggetto” (Polanyi 1959, p. 54). Polanyi nega, quindi, il tradizionale contrasto tra “l’unicità degli eventi storici e la ripetitività degli eventi studiati dalle scienze” (Polanyi 1959, p. 56), per ritrovare, dietro ad ogni atto conoscitivo, il compito primario della persona umana, ovvero il desiderio d’incontrare la realtà rivelata, una realtà per la quale l’uomo può anche arrivare a sacrificare se stesso: “Azioni nobili, opere d’arte o scientifiche, non soddisfano desideri materiali ma richiedono al contrario sacrifici materiali: esse sono considerate eccellenti per se stesse” (Polanyi 1959, p. 58). Soltanto l’uomo è capace di compiere questi sacrifici, che lo rendono degno di essere amato e rispettato, in ogni suo autentico tentativo di ricerca. Il movimento verso la comprensione della realtà che ci circonda è ciò che attraversa e muove la vita umana; la ricerca scientifica rientra all’interno di questo movimento appassionato, permettendoci di accrescere la consapevolezza di un universo che ci ospita da sempre e ci invita ad interrogarlo da tante angolature diverse, ma tenute insieme nella ricchezza interiore della persona:
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Una teoria scientifica che richiama l’attenzione sulla propria bellezza e in parte fa affidamento su di essa quando dichiara di rappresentare la realtà empirica, è simile ad un’opera d’arte che richiama l’attenzione sulla propria bellezza come espressione di una realtà artistica. Una teoria scientifica del genere assomiglia anche ad una contemplazione mistica della natura; […] Più generalmente, la scienza, in virtù della sua rilevanza emozionale, trova posto fra i grandi sistemi di espressione che cercano di evocare e di imporre modi corretti di sentire. La scienza, nell’insegnare il proprio tipo di eccellenza formale, funziona come l’arte, la religione, la moralità, il diritto e gli altri costituenti della cultura (Polanyi 1958, p. 249).
L’uomo è fatto per la bellezza: “La mente […] è affascinata da indizi che le lasciano intravedere una bella scoperta ed insegue instancabilmente la prospettiva di una bella invenzione” (Polanyi 1959, p. 29). Facendo della bellezza ciò che spinge il pensiero umano a progredire, Polanyi si pone al di là della separazione netta fra eventi e valori. Anche la fisica, nonostante sia basata sull’osservazione, si lascia guidare dalla bellezza intellettuale, che provoca, nella persona, una gioia e una soddisfazione, non puramente egoistiche, ma nate dalla speranza di aver stabilito un contatto più autentico con la realtà. L’essere umano non è spinto ad indagare la natura delle cose al fine di autocompiacersi, ma “chi fa la scoperta è pervaso da un urgente senso di responsabilità, per impadronirsi di una verità nascosta, la quale esige il suo aiuto per manifestarsi” (Polanyi 1966a, p. 41). Se al di fuori di noi non ci fosse una realtà che pone problemi, l’essere umano non potrebbe realizzare il suo compito primario, quello di muoversi verso una consapevolezza sempre maggiore di se stesso e del mondo, una consapevolezza che non potrà mai essere totale e completamente esprimibile, ma grazie alla quale l’uomo può riscoprire il ruolo che occupa nell’universo e ritrovare il senso ultimo della sua esistenza. Alla nozione di conoscenza personale si lega, quindi, la necessità “di un abbandono quasi fideistico” (Polanyi 1966a, p. 16) del ricercatore alla realtà che è chiamato ad interpretare. La fiducia nei confronti di una verità indipendente da noi, ma continuamente esposta ai nostri interrogativi, costituisce l’elemento centrale di tutto il sapere. Possiamo giustificare la nostra capacità di conoscere più di quello che possiamo esprimere, soltanto se crediamo nella presenza di una realtà esterna con cui è possibile stabilire un contatto autentico. La relazione fra elementi sussidiari, che costituiscono il polo prossimale del pensiero, ed elementi focali, che delineano il polo distale, si realizza
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soltanto nella fiducia silenziosa che il soggetto ripone sugli strumenti che si integrano alla sua persona e a partire dai quali egli può rivolgere lo sguardo oltre se stesso. Il pensiero umano, secondo Polanyi, è capace di scoprire la verità nelle sue innumerevoli forme, rinunciando alla pretesa di oggettivarla e ponendosi in un atteggiamento di abbandono fiducioso, nei confronti di un mondo che esiste al di là del soggetto:
Questo io credo. Mi dichiaro impegnato nella fede in una realtà esterna gradualmente accessibile alla conoscenza, e considero tutta la conoscenza vera come un’intimazione di tale realtà che, essendo reale, può ancora rivelare se stessa alla nostra comprensione approfondita in una gamma indefinita di manifestazioni inattese (Polanyi 1969, p. 170).
Con questa affermazione, Polanyi rivela la presenza della fede, al di sotto di ogni nostro sforzo conoscitivo; la dimensione tacita del sapere coincide con la speranza fiduciosa di aver stabilito un contatto con la realtà e di aver aperto il nostro cammino di ricerca ad “un intento universale” (Polanyi 1966a, p. 86). Tutto ciò è possibile soltanto riscoprendosi “al servizio di una realtà cui siamo sottomessi” (Polanyi 1966a, p. 18); l’esercizio del conoscere implica sempre un rapporto di dipendenza: l’uomo non crea nulla da sé, poiché vive nella continua scoperta di un mondo che non gli appartiene, ma nei confronti del quale egli si sente profondamente responsabile. Gli obblighi e le responsabilità nascono dalla relazione con una verità che chiede di rivelarsi, attraverso il lavoro e le ricerche del soggetto conoscitivo. Da questo punto di vista, la conoscenza personale, in ambito scientifico, non è qualcosa che viene realizzato o costruito a partire da determinate premesse, ma “è qualcosa che viene scoperto e come tale intende stabilire un contatto con la realtà al di là degli spunti su cui fa affidamento” (Polanyi 1958, p. 155). Il tentativo appassionato della scoperta è ciò che impedisce di ridurre la scienza ad una serie di criteri metodologici, è un impulso affine al sentimento amoroso, vissuto sulla propria pelle: “Come l’amore […] arde di passione e […] si consuma nella devozione verso una domanda totale” (Polanyi 1958, p. 155). Ammetto che una simile descrizione della conoscenza scientifica possa apparire un po’ insolita: è sicuramente arduo il tentativo di paragonare il sentimento che accompagna la scoperta, all’amore; tuttavia, nell’ottica polanyiana, un’affermazione come questa rende ancora più chiara la nozione di conoscenza personale. Il soggetto, in quanto persona, è ineliminabile; in ogni atto conoscitivo, ritroviamo la passione umana verso quell’ordine
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naturale, che ad ogni scoperta, l’uomo è convinto di vedere, ma che, tuttavia, trascende sempre la sua comprensione: “Le passioni della mente sono un desiderio di verità o più in generale un desiderio per le cose d’intrinseca perfezione” (Polanyi 1959, p. 43). Tutta la conoscenza, in ogni suo momento, è attraversata da una passione intellettuale, che non rimane chiusa nel soggettivismo dei sentimenti, ma si apre ad un contatto sempre mutevole con la realtà. Per questo, in Personal Knowledge, Polanyi dedica un intero capitolo alle cosiddette passioni intellettive e afferma: “Desidero mostrare che le passioni scientifiche non sono affatto prodotti secondari puramente psicologici, ma hanno una funzione logica che contribuisce con un elemento essenziale alla costituzione della scienza” (Polanyi 1958, p. 250). Le passioni, infatti, caricano gli oggetti di un valore emozionale, dal quale dipende il nostro modo di vederli e considerarli: “L’entusiasmo dello scienziato che fa una scoperta è una passione intellettiva la quale dice che qualcosa è intellettivamente prezioso, e più particolarmente, che è prezioso per la scienza” (Polanyi 1958, p. 250). Non si tratta, quindi, di un sentimento privato, ma di una profonda devozione per la verità e per la conoscenza. La passione è quella spinta emozionale che rende possibile l’inizio della ricerca, distinguendo ciò che suscita interesse, da ciò che non attira, al momento, la nostra attenzione. Una simile valutazione dipende sia da criteri scientifici, come l’accuratezza e la rilevanza sistematica della teoria formulata, sia da un inspiegabile senso di bellezza che guida, fin dai primi passi, il cammino verso la scoperta. Si tratta di un’emozione che non potrà mai essere definita in maniera chiara e distinta, ma che, tuttavia, permette allo sguardo del soggetto conoscitivo di rivolgersi verso un particolare aspetto del mondo, per iniziare un graduale percorso di ricerca. Questa “funzione selettiva delle passioni” (Polanyi 1958, p. 261) si lega ad una funzione euristica, che assume un ruolo centrale nella scienza. La creatività dello scienziato, infatti, non può essere giustificata attraverso un insieme di regole metodologiche: dire che una scoperta è creativa significa negare la possibilità di spiegarla per mezzo di un procedimento logico già noto. Tra il problema e la sua soluzione esiste una discontinuità, che emerge chiaramente se consideriamo il mutamento radicale, introdotto da una nuova scoperta. Kuhn parla di un vero e proprio atto di conversione, che determina l’ingresso in un nuovo mondo, completamente diverso rispetto a quello delineato dalla precedente comunità scientifica: nell’ottica kuhniana il cambiamento non può essere soltanto il risultato di un processo logico,
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distinto in una serie di fasi successive, ma il passaggio da una realtà paradigmatica ad un’altra avviene sempre attraverso un salto non completamente spiegabile. Prima di Kuhn, Polanyi descrive già la scoperta creativa come “un mutamento irrevocabile” (Polanyi 1958, p. 262); pur non parlando di paradigmi incommensurabili fra loro, egli riconosce il profondo cambiamento della persona che, dopo aver individuato una nuova teoria scientifica, “vede e pensa in maniera differente” (Polanyi 1958, p. 262). Solo facendo completo affidamento sulla passione euristica, può essere superata la discontinuità logica fra il problema e la sua soluzione. La passione euristica si rivela, così, “la sorgente principale dell’originalità, la forza che ci spinge ad abbandonare uno schematismo interpretativo accettato e c’impegna, col superamento della discontinuità logica, a usare un nuovo schematismo” (Polanyi 1958, p. 284). Nel vivere un’attrazione così intensa, lo scienziato potrà anche cadere in alcuni errori secondari, che si riveleranno nel corso delle ricerche future. L’esempio portato da Polanyi è quello di Keplero, il quale, pur avendo la convinzione, oggi considerata sbagliata, che le armonie dell’universo si esprimessero in semplici relazioni geometriche, arrivò a scoprire le tre leggi del moto planetario, rispondendo all’appello della verità. Spesso capita, quindi, che vengano “mescolate le componenti portatrici di verità e quelle fallaci nelle passioni intellettive dei più grandi scienziati” (Polanyi 1958, p. 263). Soltanto le scoperte future permetteranno alla comunità di esperti di distinguerle. Ciò che conta, secondo Polanyi, è riuscire ad individuare, nel corso della storia, due tipologie diverse di errori: “le congetture scientifiche risultate errate, e le congetture non scientifiche che sono non solo false ma anche inopportune” (Polanyi 1958, p. 263). L’errore di Keplero, infatti, è diverso da quello compiuto da Laplace, nella visione dell’universo: l’ideale oggettivistico laplaceano non è soltanto sbagliato, ma anche fuorviante, lontano dal vero. Ciò che distingue una passione intellettiva diretta verso la verità, da una passione orientata male, non è tanto la fecondità della scoperta compiuta, quindi la possibilità di utilizzarla nel presente, quanto “l’intravedersi della sua fecondità” (Polanyi 1958, p. 268). Il genio dello scienziato sta proprio nel notare alcuni aspetti del mondo che gli altri non vedono, permettendo alla verità di rivelarsi in futuro, attraverso forme sempre nuove. Con questo, Polanyi non intende ridurre la scienza ad un sapere mistico, separato dall’esperienza. Egli riconosce, infatti, il ruolo centrale dell’esperimento nella
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comprensione della natura, tuttavia è convinto che la relazione profonda tra il soggetto umano e la realtà non dipenda da prove scientifiche incontrovertibili. Come abbiamo già sottolineato, la passione non rimane nell’ambito soggettivo dei sentimenti, ma si apre “all’intento universale” (Polanyi 1958, p. 171) di stabilire un contatto sempre più autentico con il mondo: “Le nostre passioni intellettive, per essere soddisfatte devono trovare una risposta. […] Noi soffriamo quando una visione della realtà in cui ci siamo impegnati viene sprezzantemente ignorata dagli altri” (Polanyi 1958, p. 271). Per questo, la passione euristica tende a diventare passione persuasiva, “la principale fonte di tutte le controversie” (Polanyi 1958, p. 284). Si tratta di quella forza emozionale che spinge lo scienziato a convertire tutti gli altri membri della comunità al suo modo di vedere le cose. Un compito simile prevede una serie di ostacoli, difficilmente superabili; infatti, il ricercatore che ha superato la discontinuità logica tra il problema e la scoperta affidandosi ad una passione euristica non specificabile, non riuscirà mai a convincere gli altri della validità dei suoi risultati, per mezzo di argomentazioni formali: “Insieme alla dimostrazione devono esserci forme di persuasione che possono produrre una conversione” (Polanyi 1958, p. 273). A volte la controversia scientifica è inevitabile, ma è molto difficile, per non dire impossibile, che il cambiamento di visioni avvenga sulla base di spiegazioni dettagliate. Anche dal tentativo di persuadere gli altri membri della comunità scientifica, quindi, emerge la componente tacita del sapere, ovvero la difficoltà di esprimere, o di tradurre in concetti, ogni passaggio conoscitivo. Le passioni che guidano la conoscenza differiscono enormemente dai desideri o dalle emozioni che gli uomini hanno in comune con gli animali: “La soddisfazione di questi desideri fa cessare la situazione che li ha suscitati. […] Mentre le passioni intellettive si perpetuano attraverso il loro appagamento” (Polanyi 1958, p. 303). Gli appetiti vengono saziati una volta per tutte, poiché tendono a raggiungere una soddisfazione privata; invece una passione della mente, essendo impegnata in obbligazioni universali, non trova mai un pieno appagamento, ma spinge il soggetto a guardare sempre oltre i risultati raggiunti. La distinzione fra desideri primari e passioni intellettive è di vitale importanza per l’ambiente culturale in cui viviamo; se si elimina questa distinzione, infatti, “la vita culturale viene subordinata in linea di principio alla domanda dei nostri appetiti e delle autorità pubbliche responsabili dell’incremento del benessere materiale”
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(Polanyi 1958, p. 304). Il rischio che si corre è sempre quello di dimenticare il ruolo della persona e la sua relazione vitale con la verità. Secondo Polanyi, la distinzione fra scienza e tecnologia può aiutarci a non confondere i bisogni materiali, con la passione che ci esorta costantemente a superare noi stessi. La tecnologia è un tipo di conoscenza applicata e, in quanto tale, “la sua impalcatura concettuale è diversa da quella della conoscenza pura” (Polanyi 1958, p. 305). Lo scopo di un sapere tecnico è sempre un bisogno materiale:
La tecnologia […] può essere considerata come un’estensione delle abilità corporali impiegate per soddisfare appetiti corporali. […] Essa insegna solo le azioni che devono essere compiute per ottenere vantaggi materiali mediante l’uso di arnesi, secondo regole più o meno specificabili (Polanyi 1958, pp. 306-307).
La scienza pura, invece, non progredisce sulla base di obiettivi già prefissati, mediante leggi specifiche; ma, come abbiamo già sottolineato, chi è impegnato nella risoluzione di un problema scientifico reale si lascia guidare, in prima istanza, da un inspiegabile senso di bellezza intellettuale, che porta l’individuo a distaccarsi dal mondo materiale e a vedere le cose sotto un’altra prospettiva. L’attività scientifica possiede un valore intrinseco, che la rende degna di essere amata e perseguita, come modalità di espressione della verità, accanto all’arte, alla musica, al diritto e alla religione: “Nessuna scoperta importante può essere fatta nella scienza da qualcuno che non creda che la scienza è importante, anzi importantissima per se stessa” (Polanyi 1958, p. 317). L’elemento che, da una parte, avvicina la ricerca scientifica all’arte è lo stesso che, dall’altra, allontana la scienza pura dalla tecnologia: il distacco dai bisogni materiali permette, infatti, alla scienza di rispondere alla sua intenzione universale e di riconoscersi radicata nell’impegno personale. Il puro piacere di capire e di sapere è quella passione fondamentale che unifica tutti i tipi di conoscenza, impedendo all’arte di contrapporsi nettamente alla ricerca scientifica. Poi le modalità di realizzazione sono diverse, come è diverso il grado di partecipazione personale nei confronti dell’oggetto indagato; Polanyi, infatti, non intende eliminare gli aspetti distintivi di ogni conoscenza: in uno dei suoi ultimi lavori, Meaning, egli si sofferma particolarmente sulle differenze fra la scienza da una parte, e l’arte e la religione dall’altra, mettendo in evidenza come, nel primo caso, i risultati ottenuti dalla scienza abbiano bisogno di un’effettiva verifica
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esterna, mentre le questioni artistiche e religiose non richiedano nulla del genere. La necessità, da parte della scienza, di utilizzare dei test più impersonali, rispetto a quelli richiesti da un’opera d’arte, ad esempio (cfr. Polanyi, Prosch 1975, p. 100) non contraddice l’idea polanyiana di una conoscenza personale e tacita che attraversa e fonda tutto l’ambito del sapere; infatti le distinzioni fra le aree del conoscere, non sono mai assolute e nette: dalle prime opere, fino alle ultime, Polanyi sostiene la centralità della persona umana nell’atto della comprensione; senza la presenza di un soggetto rispettoso e amante della verità non sarebbe possibile alcun progresso del pensiero. Tutta la conoscenza possiede in sé qualcosa dell’arte; la dialettica tra intuizione e immaginazione si pone, quindi, al centro di qualsiasi atto conoscitivo, compreso il processo della scoperta scientifica. L’intuizione è definita come “l’elemento inesplicabile che entra nella scienza alla sua fonte e partecipa in modo vitale ad essa fino al suo risultato finale” (Polanyi 1958, p. 153); si tratta di quella preziosa facoltà mentale, capace di percepire una coerenza insita nella realtà, un pre-sentire che ci guida, per mezzo di alcuni indizi, verso la soluzione del problema. Il sentimento di una coerenza sempre maggiore ci suggerisce da dove cominciare e da quale parte sia opportuno dirigersi, fino al momento della scoperta, in cui “la visione è acquietata dalla contemplazione della realtà” (Polanyi 1966b, pp. 124-125). L’intuizione di cui parla Polanyi non consiste in una visione illuminante dell’universo, simile “alla conoscenza immediata e suprema” (Polanyi 1966b, p. 134) di Leibniz, Spinoza o Husserl, ma in “una capacità di indovinare con una ragionevole probabilità di riuscita; una capacità guidata da un innato senso per la coerenza migliorato con l’addestramento” (Polanyi 1966b, p. 134). Niente, nel tentativo della conoscenza, è scontato ed evidente per se stesso; il soggetto deve rendersi consapevole dei rischi che corre, iniziando un percorso, la cui meta è soltanto intravista e suggerita da una serie d’indizi poco chiari. La consapevolezza tacita di essere sulla strada della verità, tuttavia, non ci dà il potere di trovare quello che stiamo cercando: “Questo potere risiede nell’immaginazione” (Polanyi 1966b, p. 134). Gli atti dell’immaginazione comprendono tutti quei pensieri di cose non presenti o di azioni non ancora compiute; lo scienziato, quindi, che conosce il suo scopo in maniera non specificabile, non solo deve confidare nell’intuizione di una coerenza sempre più profonda, ma è chiamato anche ad esercitare la sua immaginazione sui risultati parziali, raggiunti nella ricerca. Immaginare non significa creare una visione
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del mondo lontana dal vero, ma vuol dire coordinare la propria creatività con la sensazione di aver stabilito un contatto profondo con l’universo: “L’immaginazione deve ancorarsi a degli indizi di realizzabilità forniti dall’intuizione; […] gli slanci che non hanno una guida del genere sono sforzi inutili” (Polanyi 1966b, p. 141). Intuizione e immaginazione si sviluppano sempre in un continuo rapporto reciproco: da un lato la pre-conoscenza tacita di ciò che stiamo cercando permette all’immaginazione di impegnarsi in un compito realizzabile, dall’altro, però, i poteri
dell’intuizione si
sviluppano e si liberano attraverso l’azione degli atti immaginativi. Attraverso la teoria della conoscenza tacita e personale, quindi, Polanyi ritrova, nella scienza, due facoltà che il pensiero moderno aveva relegato in un ambito psicologico ed esterno al sapere razionale. Se tutta la conoscenza può essere definita personale, in quanto il soggetto umano partecipa attivamente alla realtà che indaga, allora è possibile stabilire un legame profondo fra tentativi differenti di relazionarsi alla verità, attraverso discipline che, all’apparenza, sembrano molto distanti fra loro, ma che, ad un livello non articolato, ritrovano la loro relazione nella persona umana. Le nozioni centrali di impegno e responsabilità servono proprio ad identificare il nucleo personale della conoscenza. La responsabilità, come abbiamo già sottolineato, è sentita nei confronti di una realtà nascosta, che chiede di venire alla luce; in questo modo “il perseguimento della verità diverrà un atto di auto-condizionamento” (Polanyi 1959, p. 44). Il soggetto ha bisogno di riconoscersi vincolato ad un’autorità, per scegliere liberamente di impegnarsi in qualcosa, che non riguarda la vita del singolo individuo, ma che concerne l’intero universo, comune a tutti. L’impegno, quindi, è il frutto di una libertà che esige obblighi e responsabilità; non si può agire liberamente, se non a partire da alcune credenze che ci legano ad un determinato ambito scientifico, sociale, culturale o religioso: “Secondo la logica dell’impegno, la verità è qualcosa che può essere pensata solo credendovi” (Polanyi 1958, p. 418). L’impegno autentico, infatti, esige sempre “la presenza di qualcosa di reale ed esterno a colui che parla” (Polanyi 1958, p. 343); la scelta libera di avventurarsi in un mondo che ci riguarda, ma che nello stesso tempo è distante da noi, s’intreccia all’intenzione universale di rivelare nuovi aspetti della realtà: nell’impegno “il personale e l’universale si richiamano reciprocamente” (Polanyi 1958, p. 484). Proprio quest’“amore di verità” (Polanyi 1958, p. 473), che rende viva ogni conoscenza, ci permette di non confondere il personale con il
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soggettivo. Tuttavia, Polanyi riconosce la pericolosa minaccia del soggettivismo: “Limitando se stesso all’espressione delle sue credenze, il filosofo può apparire come uno che parli soltanto di se stesso” (Polanyi 1958, p. 473). Per evitare di ridurre la dimensione del credere ad un ambito puramente privato, è necessario approfondire la struttura dell’impegno ritrovando la fede, dietro ad ogni libera scelta:
I preannunci di una realtà nascosta, che uno scienziato sente quando è impegnato nella ricerca, sono qualcosa di personale. Sono le sue credenze che, data la sua originalità egli possiede da solo. Tuttavia non sono uno stato mentale soggettivo, ma sono convinzioni mantenute con intento universale […]. È stato lui a decidere che cosa credere, tuttavia nella sua decisione non c’è niente di arbitrario. Infatti egli è giunto alle sue conclusioni attraverso uno strenuo esercizio di responsabilità (Polanyi 1958, p. 489).
Lo scienziato, quindi, inizia sempre il suo lavoro di ricerca a partire da alcuni elementi fiduciari, credendo e sottomettendosi ad una realtà in fase di sviluppo; pur essendo personale, la sua decisione d’impegnarsi nei confronti di questa realtà non è mai arbitraria e quindi dettata da sentimenti privati, ma nasce da un forte senso di responsabilità, per il quale “la libertà della persona soggettiva di fare come gli piace viene sopraffatta dalla libertà […] di agire così come si deve” (Polanyi 1958, p. 486). Nel contesto dell’impegno, l’intuizione scientifica riappare come una forza capace di guidare lo scienziato verso un risultato ignoto ma comunque accessibile. A questo punto, credo risulti evidente la distinzione fra ciò che è personale e ci spinge ad un impegno attivo e ciò che rimane nella dimensione puramente soggettiva dei sentimenti; l’individuo, infatti, chiudendosi in uno stato privato o soggettivo, si limita a subire gli eventi, senza distendere lo sguardo oltre se stesso, verso l’universale. Il concetto di personale, quindi, non coincide con il soggettivo, ma neanche con la nozione di oggettivo: “Nei limiti in cui ciò che è personale si sottomette ad esigenze che il soggetto riconosce indipendenti da sé, non è soggettivo; ma nei limiti in cui è un’azione guidata da passioni individuali non è neppure oggettivo” (Polanyi 1958, p. 474). Qualsiasi atto che possiamo definire personale, quindi, trascende la distinzione netta tra la soggettività e la pura oggettività. Il polo oggettivo della conoscenza è strettamente connesso all’impegno, infatti solo “sottomettendosi ai fatti come universalmente validi” (Polanyi 1958, p. 478) l’uomo può scegliere di partecipare attivamente alla realtà che lo
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circonda. Ritornando alla ricerca scientifica, quindi, possiamo ammettere che “il riferimento di una teoria […] alla realtà si mantiene solo se è costantemente diretto dallo scienziato al di là di sé verso la razionalità intrinseca e l’oggettività illimitata del mondo reale che la teoria è destinata a indicare e a seguire” (Torrance 1992, p. 239). Lo scienziato compie degli atti personali sotto la direzione di una realtà nascosta, che è universalmente la stessa per tutti i ricercatori: “Sebbene ogni persona possa credere come vero qualcosa di diverso, la verità è una sola” (Polanyi 1958, p. 495) e si pone come giudice ultimo di ogni affermazione su di essa. L’impossibilità di rendere espliciti tutti i presupposti del sapere non chiude il ricercatore in un soggettivismo sterile, ma porta alla riscoperta del soggetto personale, inteso come l’anima di ogni atto conoscitivo. Tutta la comprensione è diretta dall’osservatore all’oggetto indagato: questo vale per la semplice percezione, come per le più alte attività della mente. Nella ricerca scientifica, il percorso dal soggetto alla cosa viene svolto con grandissimo rigore, al fine di rendere il nostro sapere sempre più conforme al mondo naturale. È proprio questo desiderio di verità che anima le nostre passioni intellettive e guida la nostra ansia di comprensione verso la bellezza della totalità. Una totalità che mai potremmo possedere, ma che ci rende degni di realizzare la nostra vocazione: “Raggiungere l’universale a dispetto del fatto che riconosciamo di essere deboli” (Polanyi 1958, p. 507). La nostra debolezza e la nostra incapacità di spiegare tutto ci riportano alla fede e alla speranza di non essere soli, in un mondo che cerca sempre più di raggiungere una falsa libertà, sciolta da ogni obbligo. In ambito conoscitivo, la fiducia in poteri taciti non specificabili è sempre determinata dall’appartenenza ad un preciso ambiente socio-culturale: “Il nostro credere è condizionato alla sua fonte dal nostro appartenere” (Polanyi 1958, p. 504). Le credenze più profonde, quindi, si sviluppano, esercitando la propria intelligenza in un luogo e in un tempo determinati; l’appartenenza ad un preciso contesto definisce le condizioni all’interno delle quali ciascuno di noi può esercitare la propria responsabilità:
Chiedere come penserei se fossi stato educato fuori di ogni particolare società, è fare una domanda insensata, come se si chiedesse come penserei se fossi nato in nessun corpo in particolare, privo della possibilità di fare affidamento su particolari organi sensoriali e nervosi. Perciò io credo che, essendo chiamato a vivere e a morire in questo corpo, lottando per soddisfare i suoi desideri, […] sono anche chiamato ad acquisire gli strumenti dell’intelligenza
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dal contesto della mia […] esistenza, e a usare questi particolari strumenti per soddisfare gli obblighi universali a cui sono soggetto. […] La vita è un’operazione combinata, in cui ciascun elemento deve fare affidamento sul fatto che gli altri elementi lo sosterranno (Polanyi 1958, p. 505).
La dimensione tacita e di fede, che è a fondamento della nostra esistenza e di ogni atto conoscitivo, viene a coincidere, quindi, con l’orizzonte storico, culturale e sociale dell’uomo. I coefficienti inespressi del sapere sono sempre e inevitabilmente quelli della comunità nella quale viviamo.
2. Polanyi e Sant’Agostino
Prima di trattare il tema della comunità e riflettere sulla nozione polanyiana di società libera, vorrei prendere in considerazione le intuizioni agostiniane che animano la teoria della conoscenza personale; tali intuizioni, infatti, forniranno gli strumenti utili a comprendere la dinamica, interna all’ambito sociale, tra libertà e autorità. Il rapporto tra la dimensione del credere e quella del sapere razionale è stato approfondito da Polanyi, attraverso dei chiari riferimenti al pensiero agostiniano. L’influenza di Agostino emerge, in primo luogo, dall’esigenza polanyiana di descrivere la conoscenza intera, compresa quella scientifica, come un atto d’amore, amore verso se stessi, verso l’altro, ma soprattutto nei confronti di una realtà, inizialmente nascosta, capace di rivelarsi in maniera sempre rinnovata. In nome di un sapere inteso come una sorta di abbandono fiducioso del soggetto nell’oggetto, il percorso che Polanyi compie dalla scienza alla religione, potrebbe essere letto parallelamente al percorso che portò Agostino alla conversione religiosa. Lo stesso Polanyi, in Personal Knowledge, mette in evidenza il passo delle Confessioni in cui l’Ipponate rivela di essere stato fortemente attratto dalla scienza, prima della conversione, ma, quando il suo cuore cominciò ad avvicinarsi a Dio, egli imparò a vedere con più chiarezza l’inganno che si celava dietro a quel sapere scientifico, schiavo del desiderio di onnipotenza. Per questo Polanyi vede nella figura di Agostino il primo filosofo post-critico, capace di realizzare quell’equilibrio tra ragione e fede che la mente moderna sembra aver dimenticato. Il percorso che Polanyi intende compiere, mostrando il legame tra esperienze conoscitive apparentemente molto distanti tra loro, può essere illuminato dall’esempio dell’Ipponate
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che ha intuito per primo il pericolo di una intelligenza umana, incapace di credere. L’intento con il quale Polanyi scrisse la sua più grande opera, Personal Knowledge, infatti, non era tanto quello di elaborare una nuova teoria della conoscenza, fine a se stessa, ma, attraverso la descrizione di un sapere sempre intrecciato ad elementi personali, Polanyi intendeva soprattutto aiutare gli uomini a riscoprire quella dimensione del credere, che era stata dimenticata dalla filosofia moderna, durante tutti quei “secoli di pensiero critico” (Polanyi 1958, p. 584), segnati dall’ideale di una conoscenza pura e impersonale. Come abbiamo già sottolineato Polanyi, quando parla della filosofia critica, intende la lunga corrente di pensiero che va da Cartesio, fino al neopositivismo, passando attraverso il razionalismo, l’empirismo e il sistema kantiano. Non a caso il sottotitolo di Personal Knowledge è «Verso una filosofia post-critica»; il criticismo che Polanyi mira a superare, attraverso la descrizione della conoscenza personale, è quello che nasce dal dubbio cartesiano e che inquadra il sapere razionale in una dimensione di assoluta neutralità:
Comincio col rigettare l’ideale della neutralità scientifica – afferma Polanyi – […] Vedremo che esso esercita un’influenza deleteria in biologia, psicologia e sociologia e falsifica tutto il nostro modo di vedere le cose […]. È mio intento stabilire un ideale alternativo di conoscenza che valga in linea generale. Di qui deriva […] il fatto che ho coniato un nuovo termine come titolo: Conoscenza personale. Le due parole possono apparire in contrasto fra loro, giacché si pensa che la conoscenza vera sia impersonale, universale e oggettiva. Ma l’apparente contraddizione viene eliminata modificando il concetto di conoscenza (Polanyi 1958, p. 69).
La difficoltà più grande per l’uomo moderno coincide proprio col tentativo di modificare l’ideale comunemente diffuso, di un sapere separato dal soggetto; la sfida maggiore che Polanyi propone al pensiero critico tradizionale, quindi, consiste essenzialmente nel mostrare il coinvolgimento della persona anche nella scienza, comunemente considerata l’ambito della certezza più assoluta. Infatti, se l’uomo risulterà impegnato personalmente persino nella ricerca scientifica, allora non si potrà negare la sua partecipazione a qualsiasi altro tentativo di conoscenza. Credo sia importante tenere sempre presente l’intento che anima non solo Personal Knowledge, ma anche tutti gli altri scritti polanyiani, al fine di comprendere il profondo intreccio fra conoscere e credere, che fonda la teoria di un sapere personale, ma mai
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soggettivo. Allora, la proposta polanyiana di ritrovare la persona e i suoi poteri taciti, al centro del processo conoscitivo, coincide con l’esigenza di “andare indietro fino a sant’Agostino, per ristabilire l’equilibrio dei nostri poteri cognitivi” (Polanyi 1958, p. 428). La testimonianza filosofica di Agostino diventa così uno strumento, utile per aprire la strada a una nuovo modo d’intendere il compito umano del conoscere:
Nel quarto secolo dopo Cristo sant’Agostino, concluse la storia della filosofia greca, dando inizio a una filosofia post-critica. Egli insegnò che tutta la conoscenza è dono di grazia, sicché noi dobbiamo effettuare uno sforzo conoscitivo sotto la guida della fede precedente: nisi credideritis, non intelligetis (se non crederete non capirete)1. La sua dottrina dominò le menti dei dotti cristiani per mille anni. Poi la fede declinò e la conoscenza dimostrabile si collocò al di sopra di essa (Polanyi 1958, p. 428).
In un’attenta analisi storica, Polanyi mette in evidenza il contrasto tra la prospettiva medievale e la prospettiva del razionalismo scientifico, sottolineando il profondo cambiamento vissuto dall’uomo, il quale passò “dall’autorità soprannaturale della legge, delle Chiese e dei testi sacri” (Polanyi 1958, p. 427), all’autorità della ragione e dell’esperienza. L’unico modo per non rimanere schiacciati né dal dogmatismo medievale, né dallo scientismo moderno consisterebbe, quindi, nel prender coscienza del momento in cui la fede è stata, in un certo senso, dimenticata, al fine di riscoprire l’intreccio ineliminabile fra credere e conoscere. Polanyi sottolinea come, a partire dal diciassettesimo secolo, in maniera progressiva, la fede non venisse più considerata come “un potere superiore, […] una conoscenza collocata al di là dell’osservazione e della ragione, ma come un’accettazione puramente personale, […] al di qua della dimostrabilità empirica e razionale” (Polanyi 1958, p. 429). Si creò così una frattura tra il credere e il conoscere: la fede fu ridotta a qualcosa di soggettivo, estraneo dal sapere universalmente valido. Allora l’uomo, privato di una parte di sé, cominciò a costruirsi un ideale di conoscenza molto lontano dalla realtà, perdendosi in una falsa immagine di se stesso. Il ritorno ad Agostino, quindi, è necessario, secondo Polanyi, affinché la persona prenda coscienza di tutte le facoltà utili alla realizzazione del proprio compito conoscitivo; e questo, in sostanza, significa “riconoscere di nuovo la fede come fonte di
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Polanyi si riferisce a Agostino, De libero arbitrio, I, 4.
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tutte le conoscenze2” (Polanyi 1958, p. 429). Qui Polanyi interpreta la nozione di fede in senso molto ampio; non parla, infatti, di una fede relegata esclusivamente nell’ambito religioso, ma di una struttura fiduciaria che comprende il vasto orizzonte biologico e culturale in cui l’uomo è situato:
L’assenso tacito e le passioni intellettive, la partecipazione a una lingua e ad una eredità culturale, l’affiliazione a una comunità di persone che hanno affinità mentale, questi sono gli agenti che modellano la nostra visione della natura delle cose su cui facciamo affidamento per padroneggiare le cose stesse (Polanyi 1958, p. 429).
Tuttavia Polanyi non chiude, in senso relativistico, la fede in una dimensione socioculturale fissa, ma, attraverso il riferimento ad Agostino, egli recupera la profondità e la dinamicità dell’esperienza di fede, ponendola come condizione di ogni conoscenza. Le Confessioni, nell’ottica polanyiana, rappresentano “un esempio di esposizione logicamente coerente di credenze fondamentali” (Polanyi 1958, p. 430). Nei primi dieci libri dell’opera, infatti, Agostino parla del periodo che precede la sua conversione e delle difficoltà affrontate per incontrare Dio, ma è evidente come gli episodi della sua infanzia e della sua giovinezza vengano riletti alla luce della profonda esperienza religiosa, che Agostino fece da adulto. Mi viene in mente lo studio psicologico che, nel secondo libro, egli dedica ad un furto di pere, compiuto quand’era bambino:
Nostro unico piacere fu quello di fare ciò che non era lecito, perché ciò ci piaceva. Eccolo, il mio cuore, o Dio, ecco quel mio cuore che ti ha mosso a pietà dal fondo dell’abisso. Ti dica ora questo mio cuore cosa lo muovesse ad essere cattivo senza alcun vantaggio, a non aver una ragione di malizia se non la malizia stessa. Torbida malizia: ed io la amai; amai la mia rovina, amai la mia caduta. […] In tutte codeste e altre simili tendenze il peccato entra quando ci si abbandona sregolatamente, e, per beni di grado infimo, si trascurano i più alti e migliori, Te, nostro Signore e la tua verità e la tua legge. Anche i beni di quaggiù non sono privi di dolcezza, ma non come il mio Dio che li ha creati. […] E allora, me misero, che cosa cercai in te, o mio furto, o crimine notturno dei miei sedici anni? Forse mi compiacqui di andar contro la legge con la frode non potendolo con la violenza e, schiavo, volli simularmi una mutilata libertà, facendo
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Corsivo mio.
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impunemente l’illecito, in una cieca imitazione dell’onnipotenza?3
Simili dubbi, che muovono la mente e il cuore di Agostino, sono comprensibili soltanto alla luce della conversione; le sue riflessioni e il bisogno di ripercorre, passo dopo passo, le esperienze più significative della vita, nascono da una profonda fede in Dio, che fa da premessa e da condizione necessaria ad ogni conoscenza. Secondo Polanyi, Agostino “sembra riconoscere che non è possibile esporre un errore interpretandolo in base alle premesse che hanno portato ad esso, ma solo in base a premesse che vengono ritenute vere” (Polanyi 1958, p. 430). Agostino, infatti, rilegge le esperienze passate, lasciandosi guidare da una forte esperienza di fede, che ha cambiato radicalmente la sua vita: qualsiasi riflessione su un determinato argomento “è un’esplorazione di questo argomento e una esegesi delle nostre credenze fondamentali alla luce delle quali noi affrontiamo l’argomento stesso” (Polanyi 1958, p. 430). Ciò in cui crediamo può essere continuamente riconsiderato, in base a credenze ultime, ancora più profonde rispetto a quelle di cui siamo immediatamente coscienti. Solo in una simile dimensione di fede, la conoscenza può progredire. A tale riguardo, un altro testo agostiniano, che ritengo utile citare, è il De utilitate credendi, scritto presumibilmente tra la fine del 391 e l’inizio del 392. Si tratta di un’opera considerata apologetica, dalla maggior parte degli studiosi4. È probabile che Agostino la scrisse per mostrare l’utilità del credere nella ricerca della verità, al suo amico Onorato, il quale, ancora vicino al manicheismo, sosteneva l’autorità della sola ragione. Tuttavia, in queste pagine l’Ipponate non confuta in maniera diretta le dottrine manichee, ma tenta di incoraggiare il suo amico ad intraprendere il cammino della fede. Forse la stessa esigenza agostiniana di mostrare la centralità della fede, distinta dalla semplice opinione, in ogni autentico tentativo di ricercare il vero, potrebbe essere tradotta, in termini contemporanei, nello sforzo, compiuto da Polanyi, di riscoprire il credere al di sotto della conoscenza personale, mostrando l’inganno di una ragione che si crede sovrana. Leggendo il De utilitate credendi, si ha come l’impressione di risalire alla fonte del pensiero polanyiano. Agostino, infatti, con lo scopo di evitare quegli uomini che cercano di farsi guidare dalla sola ragione, distingue, nell’animo umano, tre 3
Agostino, Le Confessioni, II, 4-5-6; tr. it., BURexploit, Milano, 2007, pp. 88-91. Cfr. Introduzione al De utilitate credendi, in Sant’ Agostino: La fede e le sue opere, VI/1, Città Nuova Editrice, Roma, 1995, pp. 161-164. 4
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attitudini “che sono, per così dire confinanti tra loro, ma che meritano di essere ben distinte: il comprendere, il credere, l’opinare”5. Le prime due si completano e collaborano insieme nell’animo di quegli uomini che ricercano e amano la verità, coloro che invece fondano la propria vita sull’opinione, credono qualcosa, ma non possono comprendere, poiché sono perennemente in errore, lontani dal vero. Poi ci sono quegli uomini che dicono di non credere a nulla, ma anche loro vivono nella menzogna. Infatti, scrive Agostino: “Nella vita pratica, non so proprio come un uomo possa non credere a nulla. […] Chi infatti non crede ciò che sperimenta?”6. La dimensione cognitiva, come la dimensione pratica dell’agire, sembrano permeate dalla capacità umana di credere, senza la quale non solo il pensiero, ma anche la vita stessa risulterebbero impossibili. La fede precede il conoscere, poiché prepara l’animo umano ad accogliere la verità : “Da parte mia, infatti, - scrive Agostino – ritengo che credere prima di ricorrere ai procedimenti razionali, quando ancora manca la capacità di percepirli, ed esercitare l’animo, mediante la fede stessa ad accogliere i semi della verità, sia una cosa non solo assai salutare, ma anche assolutamente indispensabile per restituire la salute agli animi ammalati”7. Quando parla di animi ammalati Agostino pensa senza dubbio ai manichei, che lo avevano allontanato dal vero, ma ritornando a Polanyi, potremmo ritrovare in questi animi sofferenti l’immagine dell’uomo moderno, ingannato dai falsi poteri della ragione critica; anche per l’autore di Personal Knowledge il primo passo per salvare l’essere umano dal non senso consiste nella riscoperta della fede al di sotto di ogni potere cognitivo. L’atto del credere esce da un ambito psicologico meramente privato, per diventare un impegno nei confronti della realtà. Le nostre parole, i nostri gesti, il nostro stesso essere corporeo si trasformano in mezzi attraverso i quali la verità tenta di venire alla luce. Da questo punto di vista, il confronto incessante con l’altro, all’interno di un particolare contesto sociale, si rivela indispensabile al fine di ricercare quella verità che è da sempre dentro di noi:
A che altro aspiriamo – scrive Agostino in De Fide et symbolo – se non a trasferire la nostra stessa anima, se fosse possibile, nell’anima di chi ascolta perché la conosca e la osservi bene, 5
Agostino, De utiltate credendi, 14, 31; tr. it., Città Nuova Editrice, Roma, 1995, p. 227. Ivi, 15, 25; tr. it., p. 219. 7 Ivi, 14, 31; tr. it., p. 227. 6
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cioè a far sì che pur rimanendo in noi stessi e senza distaccarci da noi, tuttavia forniamo un indizio tale per cui l’altro faccia la nostra conoscenza […] ? Facciamo ciò adoperandoci con le parole, con il suono stesso della voce, con l’espressione del volto, con i gesti del corpo; sono tanti, infatti, gli espedienti ai quali ricorriamo quando desideriamo mostrare ciò che è dentro di noi. Ma poiché non siamo in grado di produrre tale effetto, e quindi l’animo di chi parla non riesce a farsi conoscere completamente, per questo in noi resta aperta la porta perfino alle menzogne.8
Fra queste righe vorrei sottolineare, in particolar modo, le parole indizio ed espedienti. I termini appartenenti ad un determinato sistema linguistico, infatti, da un lato sono utili a veicolare la verità, in quanto indizi di ciò che si muove dentro noi stessi in maniera disordinata e confusa; dall’altro, tuttavia, le parole, accompagnate dai gesti corporei, non sono altro che espedienti, piccoli stratagemmi ai quali ricorriamo per portare a termine un compito molto più grande di noi, un compito fondamentalmente irrealizzabile. Tuttavia, l’essere umano, costantemente attratto dalla verità, non può rinunciare al tentativo di ricercare il vero, attraverso il dialogo con l’altro. Anche quella che Polanyi chiama conoscenza esplicita, allora, può essere letta come indizio ed espediente: indizio di un sapere tacito che ci lega inconsapevolmente gli uni agli altri, ed unico espediente attraverso il quale la persona umana può tentare di entrare in relazione con l’altro, attingendo così ad una verità, che assume i caratteri della relazione. Sia l’uomo alla ricerca di Dio che l’uomo di scienza polanyiano sono attratti dalla verità, tuttavia la loro situazione non è quella dell’assoluta libertà di fronte al vero. Dunque anche il ruolo centrale che assume l’autorità nella teoria della conoscenza personale può essere considerato un tema di chiara derivazione agostiniana. L’esigenza di essere guidati da un’autorità è per Agostino, come per Polanyi, propedeutica ad un corretto uso della ragione. Nel De utilitate credendi Agostino sostiene che gli uomini debbano essere sollecitati dall’autorità al fine di purificare il proprio stile di vita, prima di accogliere la ragione; ovviamente per ragione s’intende quella facoltà umana che, intrecciata alla fede, rende l’uomo capace di vivere l’esperienza della verità: “Anche coloro che sono capaci di volare – scrive Agostino – sono costretti a camminare per un po’ su una strada sicura pure per gli altri, per evitare che siano un pericoloso 8
Agostino, De fide et symbolo, 3, 4; tr. it., Città Nuova Editrice, Roma, 1995, p. 259.
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allettamento per qualcuno”9. Gli uomini che sono capaci di volare sono quelli che si differenziano dalla massa e che, per grazia di Dio, riescono a scorgere il vero prima degli altri; ciò, tuttavia, non consente loro d’ignorare l’autorità, ma, al contrario, la loro condizione di esseri privilegiati costituisce un motivo in più per sottomettersi ai dettami di un’autorità voluta da Dio. Il loro comportamento, infatti, sarà d’esempio per tutti e permetterà anche agli altri uomini d’intraprendere un percorso di conversione libero, ma al contempo, guidato:
Pretendere […] di vedere il vero per purificare lo spirito, quando invece bisogna essere puri per vederlo, di certo significa sconvolgere l’ordine e procedere alla rovescia. All’uomo, dunque, che non è capace di attingere alla verità, viene in aiuto l’autorità, perché ne divenga capace e si lasci purificare10.
Come vedremo nel prossimo capitolo, anche nell’ottica polanyiana libertà e autorità s’intrecciano al fine di far progredire, nella conoscenza, l’intera società umana, descritta come una “società di esploratori” (Polanyi 1969, p. 119). Al di là di un ambito esclusivamente religioso, il genio scientifico potrebbe essere definito, usando la terminologia agostiniana, come un uomo capace di volare: l’intuizione della verità che lo caratterizza, infatti, gli permette di esercitare la propria libertà, guardando ad un futuro lontano, ancora incomprensibile dai contemporanei. Tuttavia, il suo legame con l’autorità scientifica non può essere negato né ignorato, poiché proprio l’umiltà di sottomettersi ad una serie di dettami esterni si rivelerà la condizione necessaria all’esercizio della libertà personale. La fede viene sempre esercitata nei confronti di un particolare apparato sociale, culturale e religioso: i coefficienti taciti del sapere finiscono per coincidere con i coefficienti civili poiché conoscere, dal punto di vista polanyiano, vuol dire sempre inserirsi in una comunità e condividere con essa una serie di valori (cfr. Polanyi 1958, pp. 350-355). La fiducia nella realtà diviene così la fiducia nei confronti degli altri: ciascun individuo, proprio attraverso il dialogo e la condivisione, infatti, può riscoprire quelli che Polanyi definisce i fini ultimi della società, capaci di aprire la strada verso la dimensione di Dio. La coincidenza tra coefficienti taciti e coefficienti civili, quindi, non 9
Agostino, De utiltate credendi, 10, 23; tr. it., Città Nuova Editrice, Roma, 1995, p. 213. Ivi, 16, 34; tr. it., p. 235.
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chiude la fede all’interno di un preciso contesto socio-culturale, ma ci permette di valorizzare l’appartenenza culturale di ciascun individuo, per trasformarla nel punto di partenza di ogni ricerca appassionata del vero. Anche per quanto riguarda tali tematiche, quindi, Polanyi sembra profondamente agostiniano: la società non può fare a meno di quella struttura fiduciaria nella quale s’inserisce l’esistenza di ogni essere umano. Dal punto di vista polanyiano potrebbe essere molto significativa la seguente riflessione, elaborata da Agostino nel De fide rerum quae non videntur:
Se […] con il non credere ciò che non possiamo vedere crollerà la stessa umana società, perché verrebbe a mancare la concordia, quanto più è necessario prestare fede alle realtà divine, sebbene siano realtà che non si vedono. Se non si prestasse loro fede […] la stessa suprema religione sarebbe violata11.
Il discorso agostiniano, tutto interno ad un contesto prettamente religioso, viene rielaborato nell’epistemologia polanyiana al fine di mostrare “un’innegabile solidarietà che lega la scienza alle altre provincie della cultura” (Polanyi, 1958, p. 249). Se ogni tentativo appassionato di ricercare il vero costituisce un’esperienza unica ed irripetibile della realtà, la scienza non può essere isolata dall’arte, dalla moralità, dal diritto e dalla religione, ma i confini tra una disciplina e l’altra indicano il punto nel quale la mente umana viene maggiormente sollecitata ad uscire dai propri schemi per incontrare ciò che è altro da sé. L’epistemologia polanyiana, dunque, può essere riletta come una rinascita del pensiero agostiniano (cfr. Vinti 2002, pp. 119-127) il quale non viene semplicemente ripreso dall’autore di Personal Knowledge, ma viene rielaborato in un’ottica epistemologia, del tutto nuova ed originale. Come sottolinea Vinti, la bibliografia sul tema del rapporto tra Polanyi e Agostino non è vastissima. In particolare, bisogna ricordare il saggio di P. Grant, pubblicato nel 1974 nella rivista “The New Scholasticism”, quello di M. Keiser pubblicato prima in “Convivium” e poi, in forma più ampia, in “Zygon” ed infine il saggio del 1994 di J.V. Apczynski, uscito in “Tradition and Discovery”, la rivista ufficiale della Polanyi Society12. Grant individua in Polanyi tre principali tematiche d’ispirazione agostiniana: in primo 11 12
Agostino, De fide rerum quae non videntur, 3, 4; tr. it., Città Nuova Editrice, Roma, 1995, p. 317. Cfr. Grant 1974; Keiser 1978; Apczynski 1993-94.
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luogo, il tema del rapporto tra fede e ragione, in secondo luogo quello del processo di apprendimento considerato come paradigmatico della scoperta scientifica ed infine il tema, prettamente teologico, della situazione itinerante dell’uomo tra patria terrena e patria celeste. In particolare le prime due questioni mostrano, dal punto di vista di Grant, una somiglianza strutturale tra l’idea di conversione agostiniana e quella di scoperta scientifica polanyiana. Anche Apczynski mira prevalentemente a ritrovare alcuni aspetti del pensiero agostiniano in Polanyi, soffermandosi sul tema dell’anteriorità della fede rispetto alla ragione. Mentre Keiser cerca di rileggere, alla luce di problematiche attuali, i temi agostiniani della creazione e della conversione. È evidente, quindi, come il pensiero epistemologico polanyiano sia influenzato dalle riflessioni agostiniane sul ruolo della fede, tuttavia, come sottolinea lo stesso Vinti, Polanyi deve essere collocato al di fuori di un’ottica prettamente dualistica. Infatti la dialettica tra ricerca e verità, in Platone, e quella tra fede e ragione, in Agostino, vengono superate in una relazione triadica, nel quale il terzo elemento è costituito dal soggetto conoscente (cfr. Vinti 2002, p. 119). Soltanto nella complessa realtà personale la fede e la ragione possono collaborare al fine di incontrare l’altro; e in questo caso, il termine altro sta ad indicare l’oggetto della nostra attenzione, l’oggetto nei confronti del quale impegniamo non soltanto la nostra intelligenza, ma anche il nostro cuore. La realtà oggettuale assume così un carattere dinamico che spinge il soggetto a non chiudere la propria ricerca in risposte definitive; l’esperienza del conoscere, all’interno di qualsiasi ambito disciplinare, diventa una relazione del tipo io-Tu (cfr. Polanyi, Prosch 1975, p. 241), nella quale l’oggetto vivo di fronte a me, m’invita a riconsiderare in maniera sempre rinnovata, il mio rapporto personale con il mondo. Proprio nell’articolo in cui Polanyi definisce il conoscere come un rapporto del tipo io-Tu, egli dichiara anche di voler ristabilire un’armonia tra fede e ragione. L’argomento viene sviluppato attraverso l’immagine della conoscenza come indwelling; l’esempio emblematico utilizzato da Polanyi è il rapporto ambivalente che ogni persona ha con il proprio corpo: gli elementi corporei, infatti, da una parte possono essere osservati come oggetti esterni, dall’altra, tuttavia, noi facciamo continuamente affidamento su di essi per percepire le realtà oggettuali e manipolarle: “This kind of knowing is not an I-It relation but rather a way of existing, a manner of being” (Polanyi 1961, p. 241). L’abbandono fiducioso del corpo a strumenti esterni, di cui la persona è consapevole in
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maniera sussidiaria, non è semplicemente un rapporto fra soggetto e oggetto, ma è un modo di essere, perché noi entriamo nelle cose, ci immedesimiamo in esse, al fine di sviluppare la nostra conoscenza del mondo. La tradizionale scissione tra fede e ragione o tra fede e scienza viene, quindi, dissolta, poiché non esiste più un sapere guidato esclusivamente da regole esplicite, ma qualsiasi operazione logica si trova radicata in una vastissima struttura fiduciaria, che lega le persone le une alle altre. In quest’articolo del 1961, dunque, Polanyi, non solo approfondisce l’inestricabile nesso fra conoscere e credere, ma sottolinea come le dinamiche che guidano la conoscenza personale, siano espressione del rapporto umano fra l’io e l’altro; per questo, un sapere che riconosce la centralità della persona, permette il passaggio dalla scienza all’umanità; poi, soltanto a partire dall’essere umano, il nostro sguardo potrà rivolgersi alla persona di Dio:
The kind of knowledge which I am vindicating here – conclude Polanyi – and which I call Personal Knowledge, […] reconciles the process of knowing with the act of addressing another person. […] Such I believe is the true transition from science to the humanities and also from the natural laws to our knowing the person of God (Polanyi 1961, p. 245).
La società umana, quindi, da una parte ha bisogno di ritrovare la fede in quei fini ultimi, come la verità, la giustizia e la carità, che permettono all’uomo di avvicinarsi a Dio, dall’altra le persone sono chiamate a riscoprire il valore del dialogo e della condivisione. La fede negli obiettivi spirituali della società dipende, in gran parte, dalla fiducia che ciascuno di noi ripone nelle persone che vivono all’interno del nostro stesso contesto sociale e culturale: cercando di stabilire un rapporto autentico con l’altro, è possibile, dal punto di vista polanyiano, ritrovare la fede in un Dio non lontano da noi, ma pur sempre inaccessibile alla sola ragione umana. In un certo senso, potremmo riconoscere nel percorso, tracciato da Polanyi, dalla scienza all’umanità fino ad arrivare a Dio, l’espressione dello stesso desiderio che spinse Agostino a difendere e a ribadire con forza il ruolo centrale della fede nelle cose che non si vedono. Scriveva Agostino:
A coloro che la stoltezza ha reso così schiavi degli occhi carnali, che giudicano di non dover credere ciò che con quelli non scorgono, va ricordato quante cose non solo credano ma anche conoscano che pure non possono vedere con tali occhi. Già nel nostro animo, che è di natura
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invisibile ce ne sono innumerevoli. […] eppure che c’è di più manifesto, di più evidente, di più certo dell’interiore visione dell’animo?13
Continuamente, sottolinea l’Ipponate, siamo portati a sperimentare una conoscenza fondata su indizi non direttamente tangibili; l’esempio più chiaro è quello dell’amicizia: come si può, infatti, avere la certezza che un amico sia veramente tale? Nessuna disposizione d’animo “si può vedere con gli occhi del corpo”14. Gli stati d’animo altrui non hanno forma né colore, non costituiscono degli oggetti visibili o comunque percepibili da uno dei cinque sensi:
Non ti resta, pertanto – scrive sempre Agostino – che credere ciò che non è né visto, né udito, né percepito dentro di te, affinché la tua vita non rimanga vuota senza alcuna amicizia o l’amore che hai ricevuto non sia, a tua volta, da te ricambiato. […] Ecco, a partire dal tuo cuore tu credi ad un cuore non tuo, e là dove non drizzi lo sguardo della carne e della mente, ci destini la fede.15
La capacità di credere, allora, costituisce un dono prezioso nelle mani dell’uomo; attraverso la fede, infatti l’essere umano può vivere appieno quelle esperienze, come l’amicizia e l’amore, che rendono unica e meravigliosa la vita umana. La fede permette all’essere carnale di uscire dalla sua condizione per attingere all’altro da sé ed è proprio, paradossalmente, questa attrazione verso ciò che è altro a caratterizzare il cuore della dignità umana. Ora, il ruolo che, in ambito conoscitivo, spetta alla fede nelle cose che non si vedono, potrebbe essere tradotto, nel contesto epistemologico contemporaneo, attraverso l’alternanza, di cui parla Polanyi, tra conoscenza sussidiaria e conoscenza focale. Spesso, infatti, come già sottolineato nei capitoli precedenti, ciò che noi apprendiamo in maniera diretta o esplicita è supportato da una serie di elementi che rimangono taciti ma senza i quali l’oggetto della nostra attenzione sarebbe inaccessibile al pensiero razionale. Queste “innumerevoli cose di natura invisibile”16 che, come scriveva Agostino, riempiono l’animo umano vengono indagate attraverso l’epistemologia 13
Agostino, De fide rerum quae non videntur, 1, 1; tr. it., Città Nuova Editrice, Roma, 1995, p. 309. Ivi, p. 311. 15 Ivi, pp. 311-313. 16 Ivi, p. 309. 14
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contemporanea polanyiana e ritrovano un posto centrale nella teoria della conoscenza personale. In questo senso, allora, possiamo dire che attraverso l’insegnamento del Menone platonico, come per mezzo delle nuove scoperte della psicologia gestaltica, Polanyi fa rinascere il pensiero agostiniano articolando, in maniera dettagliata, il rapporto tra gli indizi non specificabili del conoscere e l’oggetto del conoscere stesso. La fede in ciò che non riusciamo a vedere o a toccare accompagna ogni nostra esperienza di vita, non soltanto in un ambito gnoseologico prettamente teorico. Non a caso, infatti, i primi esempi di cui Polanyi si serve per spiegare la dinamica tra elementi sussidiari e focali sono tratti da esperienze di vita pratica: azioni come andare in bicicletta o suonare il piano costituiscono la prova chiara che non tutto ciò che sappiamo fare è traducibile in linguaggio verbale. Esiste una conoscenza tacita che guida l’essere umano nel lungo percorso del conoscere, esistono elementi sussidiari o taciti che ciascun soggetto ingloba al proprio essere corporeo al fine di guardare oltre se stesso. Ma ciò che avvicina ancor più Polanyi ad Agostino è il fatto che, la conoscenza personale, intesa come un processo d’integrazione, cha avviene grazie al soggetto stesso, tra sapere implicito ed esplicito, caratterizza ogni autentica esperienza del vero. C’è una verità che spinge l’uomo a non accontentarsi del visibile e a ricercare, anche nell’attività scientifica, la fonte ultima della nostra stessa vita. L’intreccio tra fede e conoscenza si realizza, o meglio ancora, prende forma nell’essere persona; il percorso conoscitivo assume i caratteri di un processo d’immedesimazione nel quale il soggetto, sperimentando l’incontro tra detto e non detto, tenta di entrare nell’oggetto senza perdere la propria identità. Il rapporto tra conoscere e credere è un aspetto del pensiero polanyiano su cui si è sviluppata una letteratura critica molto vasta. Ciò che maggiormente desta interesse è la possibilità, emersa dalla teoria della conoscenza di Polanyi, di trovare una continuità tra affermazioni di fede e asserti di fatto. Ad esempio, in un articolo del 1975, intitolato “The tacit dimention of faith”, tratto dal periodico Philosophy Today, Jeffrey Sobosan riprende la teoria della conoscenza personale polanyiana, descrivendola come una reale possibilità d’incontro tra fede e ragione. Egli insiste molto sulla nozione centrale di “indwelling”, mettendo in evidenza come l’uomo sia capace di comprendere fino in fondo qualcosa, soltanto “abitando” in essa, immedesimandosi, attraverso un atto di abbandono fiducioso, nei suoi particolari inespressi: “Indwelling requires a dialectical
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movement of surrendering ourselves to the object to be known and then appropriating it” (Sobosan 1975, p. 274); ma soprattutto Sobosan sottolinea il legame stretto fra un sapere, ottenuto attraverso un sorta di abbandono, e la fede religiosa: “That knowing by indwelling has great significance for an understanding of religious faith” (Sobosan 1975, p. 274). Come abbiamo già sottolineato, infatti, è proprio attraverso la teoria della conoscenza che Polanyi arriva a tracciare una linea continua tra il sapere scientificorazionale e la fede. Dall’articolo in questione, emerge una parola chiave, utile a chiarire questa continuità: si tratta dell’impegno (commitment), attraverso il quale una persona partecipa all’oggetto conosciuto, abbandonandosi ad esso. Così, descrivendo la struttura dell’impegno, Polanyi rimane in linea col pensiero agostiniano e mostra come il sapere possa dipendere, in ultima istanza, dal credere: “The analysis of knowledge as a “fiduciary programme” declares that belief is at the limits of human knowledge, for to embark on the journey of knowledge we must first assent to the belief that we can make contact with reality” (Sobosan 1975, p. 275). L’impegno responsabile nei confronti della verità, radicato nella fede in qualcosa di esterno e immensamente più grande rispetto alla nostra debole natura umana, è ciò che apre la strada al sapere autentico, in cui nulla è scontato e immediatamente evidente: “Knowing is a real adventure – anchored in belief and trust – leading us to truthful discovery and contact with reality” (Sobosan 1975, p. 278). Se, nell’ottica polanyiana, il senso d’incertezza e gli atti di fiducioso abbandono caratterizzano ogni avventura conoscitiva, allora Sobosan può giustamente affermare che “Polanyi’s theory carries a latent metaphysics” (Sobosan 1975, p. 278). Anche la scienza, quindi, nel suo tentativo di descrivere con esattezza alcuni aspetti del mondo, sarebbe attraversata da una metafisica nascosta, ma anche riscontrabile nel forte senso di responsabilità che pervade lo scienziato in ogni momento della ricerca. La persona impegnata nella scienza non può non sentirsi vincolata alla realtà che indaga e proprio in questo vincolo credo si possa rintracciare quell’orizzonte metafisico che accoglie gli atti euristici dei singoli scienziati. In tal modo, la fede in un’unica verità, mai definibile attraverso concetti fissi ed univoci, s’intreccia al tentativo razionale di spiegare la realtà, nei suoi diversi aspetti. Anche Thomas Torrance, in Senso del divino e scienza moderna, interpreta il pensiero di Polanyi, nel senso di mostrare un equilibrio tra fede e ragione. Egli rilegge la conoscenza tacita polanyiana come un insieme di certezze o credenze ultime che
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guidano ogni tipo di sapere, compreso quello scientifico: “Nell’attività scientifica […] queste certezze sono adottate con la condizione di sottomettersi a un obbligo ultimo impostoci dalla natura stessa, esse valgono con una pretesa di validità universale” (Torrance 1992, p. 296). La certezza, non dimostrabile in maniera immediata e totale, di operare sotto il controllo di un’unica realtà, è ciò che accomuna tutti gli scienziati, spingendo sempre più avanti il sapere scientifico. Per questo sarebbe insensato, secondo Torrance, opporre la fede alla ragione:
È irrazionale mettere in opposizione certezza intuita (fede) e ragione. La prima è una modalità propria della razionalità su cui la seconda si appoggia per mantenersi fedele a ciò che cerca di comprendere; pertanto, la certezza intuitiva costituisce la forma più fondamentale di conoscenza dalla cui base procede tutta l’indagine razionale susseguente. […] Non ci potrebbe essere un pensiero riflessivo senza una conoscenza preventiva […] costituita tramite l’adattamento fedele delle nostre menti alla natura delle cose, adattamento durante il quale si formano le nostre certezze fondamentali. Queste certezze naturalmente, devono avere a che fare con ciò che è reale, e pertanto devono essere sottoposte a un controllo per distinguerle da ciò che è puramente soggettivo e illusorio (Torrance 1992, p. 288).
Torrance, quindi, sottolinea l’ambiguità dell’atto di fede, di cui parla lo stesso Polanyi: la certezza intuitiva è infatti “un atto al tempo stesso libero e obbligato, a cui non possiamo resistere razionalmente, ma che ci viene imposto da ciò che è dato” (Torrance 1992, p. 293). La fede cresce e si alimenta attraverso una serie di scelte responsabili, ma è anche “un atto in cui la verità delle cose s’impadronisce di noi” (Torrance 1992, p. 293): se mancasse questo secondo aspetto della fede, essa verrebbe ridotta ad una semplice spinta soggettiva, scissa da quell’intento universale che, nell’ottica polanyiana, guida ogni sforzo conoscitivo. La certezza intuitiva che esista una realtà, accessibile al sapere scientifico, dipende, quindi, dalla volontà del ricercatore che sceglie d’intraprendere una strada piuttosto che un’altra, ma anche dal potere che la realtà stessa esercita sulle sue decisioni. Quando, invece, si applica la nozione di fede a Dio, sottolinea Torrance, bisogna tener presente come, in questo caso, la certezza intuitiva implichi, oltre alla volontà umana di conoscere Dio, “anche un moto della volontà da parte di Dio di rivelarsi a noi” (Torrance 1992, p. 294). Dunque, nell’ambito della religione cristiana, a cui Torrance fa riferimento, Dio possiede una volontà di rivelarsi
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che non possiamo riscontrare nell’universo naturale; tuttavia, anche nella conoscenza delle realtà naturali sono presenti degli obblighi personali, e non soggettivi, che vincolano lo scienziato ad una fede fondamentale e ineliminabile. Gli impegni e le responsabilità che vincolano gli scienziati nel corso delle loro ricerche sono sempre da collocare all’interno di un orizzonte storico, culturale e sociale. La dimensione tacita della fede si sviluppa all’interno di una comunità, nella quale ciascun individuo può sperimentare l’esigenza di guardare oltre un piano puramente materiale, per ritrovare negli obiettivi spirituali della società la fede in un Dio non così lontano dalla nostra realtà.
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3. Il ruolo della società libera
Lo studio della struttura conoscitiva, in particolare l’analisi dei meccanismi che si nascondono dietro alla ricerca scientifica, viene sviluppato, in diverse opere polanyiane, in relazione ad alcune problematiche socio-politiche. Non esiste, infatti, un sistema scientifico astratto, che possa essere preso come punto di riferimento assoluto, ma ogni scoperta avviene sempre all’interno di un determinato contesto culturale, al di fuori del quale non sarebbe neanche possibile parlare di conoscenza. Vari interessi sociologici hanno portato Polanyi ad analizzare il ruolo della scienza nella società, approfondendo la questione del rapporto tra ricerca scientifica e condizionamenti politico-economici. Il riferimento di Polanyi è soprattutto alla situazione della scienza nello statalismo sovietico, che tendeva a negare ogni autonomia alla ricerca. La realizzazione di una libertà autentica, ancorata ad obblighi universali, deve essere, invece lo scopo ultimo di ogni società. Il giusto rapporto tra autorità e libertà, emerge in particolare dall’analisi della comunità scientifica, considerata da Polanyi “il modello altamente semplificato di una società libera” (Polanyi 1969, p. 81). Trascurare la riflessione di Polanyi sulla società, significherebbe perdere di vista lo scopo principale di Personal Knowledge: “dotare nuovamente gli uomini di facoltà di cui secoli di pensiero critico hanno insegnato loro a diffidare” (Polanyi 1958, p. 485). Come abbiamo già accennato, la prima fra queste facoltà è la fede, relegata dalla filosofia moderna in un ambito puramente psicologico, esterno al sapere razionale. Ogni tipo di credenza si sviluppa sempre all’interno di una determinata società, grazie alla quale il pensiero ha la possibilità di progredire. È necessario, quindi, analizzare i meccanismi della società, per riscoprire la dimensione tacita della nostra conoscenza e ritrovare nuovamente il coraggio di credere.
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1. Convivere nella libertà
Non è un caso che, dopo il capitolo sulle passioni intellettive, Polanyi, in Personal Knowledge, parli dell’organizzazione sociale. Come abbiamo già sottolineato, infatti, gli impulsi emozionali che guidano ogni tentativo di conoscenza, non rimangono chiusi in un ambito puramente privato, ma spingono il soggetto verso l’esigenza universale d’incontrare l’unica e autentica verità, quella che accomuna e che accoglie ogni tipo di ricerca responsabile. La funzione selettiva e la funzione euristica delle passioni intellettuali si sviluppano sempre nel singolo individuo, educato e cresciuto in un preciso contesto culturale; per questo, dopo la scoperta, nel momento della più alta realizzazione personale, il ricercatore tenta sempre di ottenere il consenso della comunità a cui appartiene. La consapevolezza tacita di aver portato alla luce un nuovo aspetto della realtà ci spinge, quindi, alla comunicazione, all’incontro con l’altro. La terza funzione delle passioni intellettive, infatti, è quella persuasiva: l’uomo non riesce a tenersi dentro l’esperienza profonda di una verità, che ha cambiato la sua vita, e vuole condividerla con il resto del mondo, cercando di esprimere l’inesprimibile. L’incontro autentico con l’altro non è soltanto uno dei più grandi bisogni umani, ma anche un compito sempre più arduo, soprattutto in una società come quella di oggi, dominata dalla tecnologia e schiava di una realtà virtuale parallela, attraverso la quale ogni distanza viene abolita e la comunicazione resa istantanea. Sembra paradossale come oggi dei mezzi altamente tecnologici, che ci permettono di comunicare in tempo reale con chi vive dall’altra parte del pianeta, creino delle distanze ancora più incolmabili di quelle geografiche, allontanando, in maniera irreversibile, le persone le une dalle altre. Polanyi ci fornisce alcuni strumenti concettuali, per comprendere meglio questa situazione; egli infatti riconosce che “la comunicazione è un rivolgersi a qualcuno richiamando la sua attenzione al proprio messaggio e a chi lo pronuncia” (Polanyi 1958, p. 346). Ora, nel mondo di internet e delle chat on-line, bisognerebbe chiedersi chi è questo qualcuno, a cui ci si rivolge, a cui si dedica del tempo, nella speranza di comunicare. È molto difficile, per non dire impossibile, ritrovare la persona dietro allo schermo vuoto di un computer, che diventa per molti una protezione, uno scudo contro la realtà. In questi casi, il bisogno di comunicare le proprie emozioni, il proprio essere interiore, si
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trasforma nel terrore di esporsi e di mettere in comune con l’altro la propria esperienza di vita; allora la comunicazione diventa, inevitabilmente, uno scambio di banalità, un dialogo superficiale che non avviene più fra due persone, intese come unità di corpo e psiche, ma fra gli occhi di due volti, ipnotizzati da un mondo molto attraente, in cui tutto sembra facile e risolvibile, il mondo della comunicazione totale e immediata, quello che tutti sognano, ma che purtroppo non esiste. Le relazioni o i rapporti on-line, non solo distruggono la persona, impedendo di percepirne da vicino le espressioni del volto e i toni della voce, ma imprigionano anche l’essere umano nell’illusione che comunicare sia un atto facile e scontato. L’uomo perde, così, ogni legame con il mondo reale, insieme alla sua autentica capacità di dialogare; infatti, quando egli uscirà dal mondo ovattato di internet e si troverà di fronte l’altro, con un corpo, un’espressione, un movimento che suggerisce la presenza di emozioni, rischierà di rimanere paralizzato, immobile, incapace di affrontare quello che la vita gli propone e bisognoso di scappare, in una realtà virtuale che non fa paura, ma che a lungo andare consuma e annulla la persona umana. La comunicazione è un’impresa difficilissima da realizzare, ma è anche una necessità a cui l’uomo non può rinunciare, poiché vive in una società che lo impegna e lo vincola. Per evitare di perdersi in attraenti illusioni, è importante, allora, prendere coscienza degli ostacoli reali che impediscono una comunicazione totale: Polanyi, attraverso la teoria del sapere tacito, può aiutarci a comprendere meglio le reali difficoltà dialogiche, infatti egli ammette che “noi possiamo conoscere più di quello che possiamo esprimere” (Polanyi 1966a, p. 20); quindi la comunicazione autentica con l’altro sarà ostacolata dalla nostra incapacità di tradurre in concetti ogni passaggio dell’esperienza conoscitiva, vissuta in prima persona. Tuttavia, poiché la passione per la verità non è mai fine a se stessa, ma sempre impegnata in un intento universale, chi l’ha sperimentata ad un livello profondo non si arrenderà mai agli ostacoli comunicativi, ma cercherà, con ogni mezzo, di trasmettere agli altri membri della società la propria visione del mondo, sperando che un giorno quella verità si riveli anche ai loro occhi. Se non è possibile tradurre in espressioni articolate tutta la conoscenza, allora non sarà neanche possibile comunicare in maniera completa, attraverso l’uso delle parole; tuttavia, nel dialogo con l’altro, la nostra passione per la verità, emergerà in una serie di indizi non specificabili, ma essenziali affinché il nostro interlocutore possa sperimentare sulla sua pelle il mistero della conversione:
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Parlare e scrivere è una fatica sempre rinnovata con cui cerchiamo di essere appropriati e intellegibili, e ogni parola che viene alla fine pronunciata è una confessione della nostra incapacità di fare meglio; ma ogni volta che abbiamo finito di dire qualcosa, senza aggiungere altro, tacitamente implichiamo anche che questo esprime ciò che intendiamo e deve avere lo stesso significato per chi ascolta o legge (Polanyi 1958, p. 349).
La comunicazione autentica, quindi, implica sempre il rispetto per la persona, nella sua unicità e nel suo tentativo di tradurre, per quanto possibile, l’incontro con la verità, in concetti. Ovviamente non si tratterà di concetti fissi e stabiliti una volta per tutte, ma di nozioni aperte e mutevoli, in relazione a nuove ed entusiasmanti esperienze di verità. L’appagamento e la gioia di una scoperta, non solo nella ricerca scientifica ma anche in altri ambiti del sapere, nascono dalla relazione con una verità, che non può definirsi astratta, ma che è sempre radicata nel mondo: fare esperienza della verità significa lasciarsi attraversare da una luce, che cambia profondamente il nostro modo di vedere e di affrontare la vita. Il mutamento è reale, concreto, riscontrabile agli occhi degli altri e sempre interno ad un preciso contesto sociale:
La nostra adesione alla verità può essere vista implicare l’adesione ad una società che rispetta la verità […]. L’amore della verità e dei valori intellettivi in generale riapparirà allora come amore di quella società che favorisce questi valori, e la sottomissione ai criteri intellettuali apparirà implicare la partecipazione ad una società che accetta l’obbligo culturale di servire questi criteri (Polanyi 1958, p. 344).
I coefficienti taciti della nostra conoscenza appaiono, quindi, come “dei coefficienti civili” (Polanyi 1958, p. 344), che guidano le passioni intellettive verso la direzione della scoperta. Il riconoscimento di uno sfondo sociale che permette l’inizio e lo sviluppo delle ricerche, può, tuttavia, far credere che l’intento universale del sapere coincida semplicemente con “un insieme di convinzioni acquisite mediante […] l’educazione” (Polanyi
1958,
p.
344);
si
tratterebbe,
in
questo
caso,
di
un’interpretazione relativistica della verità e quindi, molto lontana dal pensiero di Polanyi. La verità, infatti, nell’ottica polanyiana, non varia a seconda dell’ambiente culturale; ciò che spinge la persona a seguire un percorso, fatto di tanti indizi non
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specificabili, è un senso di bellezza intellettiva, che accomuna tutti gli esseri umani impegnati nella relazione con un’unica realtà infinita, mutevole e in parte accessibile, attraverso esperienze sempre nuove. Ridurre l’intento universale della conoscenza ad una serie di convinzioni assimilabili mediante l’educazione, significherebbe considerare l’uomo come un essere puramente passivo, incapace di prendere posizione o di assumersi delle responsabilità. Iniziare, invece, un autentico cammino di ricerca, in qualsiasi ambito del sapere, vuol dire sempre riconoscere, in un impegno libero e responsabile, degli obblighi universali nei confronti della realtà che ci circonda; questo riconoscimento, tuttavia, avviene necessariamente a partire da un preciso ambiente sociale e culturale, senza il quale nessuna conoscenza avrebbe motivo di esistere. Le convinzioni sociali, acquisite per mezzo della tradizione, non costituiscono un limite negativo, oltre il quale non è possibile spingersi, ma rappresentano il punto di partenza per cominciare a guardare al di là di noi stessi e al di là di quel mondo, nel quale siamo stati educati. Ovviamente questa tensione universale deve crescere sempre nella consapevolezza dei limiti umani, una consapevolezza che l’uomo può avere soltanto se riconosce la sua dipendenza da un particolare ambiente socio-culturale. La società nella quale viviamo, da una parte, ci pone davanti ai nostri limiti, dall’altra, tuttavia, ci ricorda che siamo esseri destinati ad una verità molto più grande rispetto alla nostra realtà umana. Le convinzioni che ci sono state tramandate, quindi, sono anche dei valori che, consapevolmente, abbiamo deciso di difendere e sulla base dei quali può nascere il nostro dissenso nei confronti di un’autorità. La sottomissione ad un apparato sociale, quindi, non è mai puramente passiva; la persona che accetta un particolare sistema di riferimento, infatti, porta sempre con sé delle novità, contribuendo progressivamente a modificare il sistema iniziale:
Ogni volta che noi usiamo una parola parlando e scrivendo, ci adattiamo ad un uso e nello stesso tempo modifichiamo in qualche modo l’uso esistente; ogni volta che scelgo un programma alla radio, modifico un po’ l’equilibrio delle valutazioni culturali correnti; anche quando faccio una spesa ai prezzi correnti, modifico leggermente tutto il sistema dei prezzi. In realtà ogni volta che mi sottometto ad un sistema […], inevitabilmente modifico il suo insegnamento; infatti mi sottometto a ciò che io stesso ritengo che esso insegni, e unendomi al consenso in questi termini esercito influenza sul suo contenuto. D’altra parte anche il dissenso più drastico opera ancora attraverso una sottomissione parziale e un consenso esistente: infatti il
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rivoluzionario deve parlare in termini che la gente possa capire. […] Tutti i rivoluzionari moderni, a partire dai Giacobini, dimostrano che il dissenso non cerca di abolire la pubblica autorità, ma la reclama per sé (Polanyi 1958, pp. 351-352).
La descrizione del giusto equilibrio fra passività e attività, fra consenso e dissenso lascia emergere, con ulteriore evidenza, l’immagine di un sapere che non può evolversi, se non all’interno di una comunità. La conoscenza nasce dalla convivenza, ovvero dalla condivisione di alcuni valori e attività. Sentire la presenza dell’altro, percepire il suo sincero interesse nei confronti della nostra esistenza, non ci aiuta soltanto a vivere meglio, ma soddisfa il nostro profondo “desiderio di compagnia” (Polanyi 1958, p. 354): l’essere umano è tormentato dalla paura di rimanere solo; la solitudine, infatti, non permette all’uomo di diventare se stesso e lo priva di uno strumento vitale, come il dialogo, impedendogli di condividere con l’altro le proprie esperienze. Soltanto attraverso lo scambio e il confronto reciproco l’individuo può crescere e sperare di arricchire il proprio orizzonte conoscitivo, uscendo da un isolamento, che può rivelarsi soltanto distruttivo. I rituali comuni sono l’espressione di un forte senso di convivenza, senza il quale tanti individui isolati non potrebbero formare un gruppo omogeneo: gli uomini che decidono di prendere parte ad un rituale implicitamente “affermano che la loro esistenza è comunitaria e nello stesso tempo identificano la vita del loro gruppo con quella dei gruppi precedenti dai quali hanno derivato il rituale” (Polanyi 1958, p. 355). È come se, attraverso il rito, il gruppo ritrovasse, ad un livello non articolato, quelle profonde motivazioni che in passato hanno creato unità fra gli antenati e che, nella vita attuale, permettono a tanti individui diversi di stare insieme. Ogni convivenza, quindi, è facilitata dall’impegno responsabile in attività e interessi comuni; non si tratta, in questo caso, di interessi esclusivamente materiali, ma di valori spirituali, che trascendono la vita dei singoli. La coerenza di questi valori viene rinnovata, di volta in volta, nello svolgimento dei riti, durante i quali l’individuo ritrova il suo ruolo nella comunità e sente che esiste una legame con gli altri, che va oltre qualsiasi vincolo economico. Il rituale, quindi, serve a creare una profonda coesione fra gli individui, ma da solo non basta a formare una società organizzata. Il rito, infatti, deve mirare al riconoscimento di “un bene comune in vista del quale è possibile sopprimere le deviazioni e si può esigere dagl’individui che facciano dei sacrifici per difendere il gruppo” (Polanyi 1958, p. 356). L’organizzazione della società, quindi, dipende da una condivisione di idee e
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d’interessi, dal bisogno di stabilire un legame con l’altro, dalla partecipazione a rituali comuni e, in ultimo, dall’esigenza di riconoscere un’autorità, un bene che ci accomuna e guida la vita del singolo nel gruppo. Polanyi spiega l’esistenza di questi fattori, individuando quattro coefficienti, alla base dello sviluppo sociale: “Il primo consiste in una partecipazione di convinzioni, il secondo […] in una partecipazione di fratellanza. Il terzo […] è la cooperazione, il quarto è l’esercizio dell’autorità o la coercizione” (Polanyi 1958, p. 356). Come abbiamo già sottolineato, la presenza di un’autorità, all’interno di un gruppo, non limita la libertà dei suoi componenti, ma permette agli individui di scegliere con responsabilità i propri impegni. Polanyi intende riscoprire il valore autentico della libertà, smascherando l’illusione diffusa tra gli esistenzialisti, secondo i quali l’uomo sarebbe svincolato da ogni obbligo. L’uomo esistenzialista è colui che crea i propri valori, poiché non riesce a trovare quella motivazione che porta con sé il senso ultimo della vita e spinge l’essere umano ad andare sempre oltre se stesso. Se non c’è qualcosa che ci lega alla realtà, la nostra esistenza si riduce a una serie di vuote possibilità, fra le quali la persona rischia di perdersi, scivolando in un profondo senso di angoscia. La consapevolezza di poter fare tutto, avendo davanti a sé un numero infinito di alternative, la cui scelta dipende solo ed esclusivamente da noi, è un’illusione, che si lega all’immagine altrettanto illusoria dell’uomo moderno, un uomo padrone di sé, deciso a rifiutare ogni credenza e quindi incapace di vedere ciò che è. La vera libertà, invece, quella che nasce dalla consapevolezza dei propri vincoli e delle proprie responsabilità, deve essere perseguita, secondo Polanyi, da ogni società. Solo nel rispetto del libero pensiero e della libera azione, infatti, una realtà sociale potrà proseguire nel suo progetto di umanizzazione1. Alla riscoperta dell’individuo come persona capace di credere, corrisponde, quindi, un cammino di umanizzazione che coinvolge tutta la società, la quale è tenuta a difendere sempre il valore della libertà:
La libertà pubblica può essere sostenuta come fine in sé, nella misura in cui essa è il metodo per la gestione sociale di fini a cui si ambisce in quanto tali. La libertà della scienza, di culto o di pensiero in generale sono istituzioni pubbliche con le quali la società apre ai suoi membri l’opportunità di servire aspirazioni che sono fini in sé. Istituendo queste libertà, la società si
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Cfr. prefazione di C. Vinti a Polanyi 1951, p. 51.
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costituisce come una comunità di persone che credono nella validità e nel potere delle cose della mente e nel nostro obbligo verso di esse. Logicamente, l’accettazione di queste credenze è anteriore alla libertà (Polanyi 1951, p. 358).
Una realtà sociale che rispetta la libertà pubblica, quindi, suggerisce la presenza di uomini che credono nei poteri personali e nel profondo legame con una verità, che tiene unite tutte le differenze, senza distruggerle. Pensando ad una verità che può rivelarsi in modi sempre nuovi e inaspettati, possiamo riscontrare, da una parte il movimento libero della persona, che decide d’intraprendere un nuovo percorso conoscitivo, dall’altra il movimento libero della verità, capace di suscitare nell’essere umano quell’antico stupore, dimenticato ormai da secoli, dietro all’onnipotenza illusoria dell’uomo moderno. Analizzando la struttura e l’organizzazione della società, Polanyi fa una distinzione tra società statiche e dinamiche: all’interno di una realtà sociale statica non si può parlare di libertà di pensiero, ma soltanto di “un riconoscimento del pensiero come forza reale” (Polanyi 1958, p. 358). Questa è una delle caratteristiche delle civiltà arcaiche, nelle quali la religione, la morale, le arti erano considerate come fini a se stesse e rispettate nel loro valore intrinseco; sebbene queste attività venissero limitate da un insieme di credenze indubitabili, lo sviluppo culturale progrediva, all’interno dei limiti stabiliti: “Il rispetto obbligatorio per l’autorità degli insegnamenti implicava un profondo rispetto per la verità” (Polanyi 1958, p. 358). Nonostante ciò, in una realtà sociale statica non veniva rispettata la libertà di pensiero, caratteristica riscontrabile soltanto in una tipologia particolare di società dinamica. Esistono, infatti, secondo Polanyi, due modi in cui una società dinamica moderna può evolversi, nella relazione col pensiero: la distinzione, in questo caso, è fra “un totalitarismo che cerca di realizzare un programma laplaceano attraverso la subordinazione di tutto il pensiero al benessere, e una società libera che accetta in linea di principio l’obbligo di coltivare il pensiero secondo i suoi criteri propri” (Polanyi 1958, p. 358). Il termine totalitarismo include tutti i governi rivoluzionari che propongono di riplasmare l’intera realtà sociale, puntando al controllo assoluto delle menti e alla crescita del benessere economico: “Essi negano, perciò, ogni status indipendente e ogni libera attività al pensiero” (Polanyi 1958, p. 358). In simili situazioni, la ricerca scientifica, come ogni altra attività culturale, viene subordinata agli interessi materiali di chi è al potere: è questo il caso del governo sovietico marxista,
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citato da Polanyi come esempio emblematico di una società che nega la libertà di pensiero: “Il fascino propagandistico del marxismo è il caso più interessante di quella che può essere detta la forza morale dell’immoralità” (Polanyi 1958, p. 377). Le passioni morali, infatti, vengono trasformate in fatti positivi, per mezzo di affermazioni scientifiche indubitabili; la libertà, la giustizia e la fratellanza sono soltanto quelle stabilite dal governo, attraverso una certezza scientifica. In questo modo la persona subisce “un processo di inversione morale” (Polanyi 1951, p. 237), nel quale le aspirazioni più alte dell’uomo vengono sostituite con degli scopi materiali, inculcati nella mente umana da chi detiene il potere. L’universalità della verità, insieme all’universalità della scienza, viene negata, in nome di un benessere materiale, considerato il valore supremo della società:
Per Marx e Engels la scienza naturale […] doveva identificarsi con la vittoria del socialismo. […] Pretendere che esistesse una scienza pura fornita di una condizione d’indipendenza era qualcosa che veniva messo in ridicolo. Poi la scienza veniva smascherata come qualcosa che era in realtà una tecnologia e infine avveniva la glorificazione della tecnologia come vera scienza (Polanyi 1958, p. 392).
La riscoperta della libertà di pensiero è avvenuta, secondo Polanyi, nella rivoluzione ungherese del 1956, considerata la “rivoluzione della Verità” (Polanyi 1958, p. 400); dopo un periodo di schiavitù mentale, molti intellettuali riscoprirono il valore intrinseco della giustizia, della morale e della verità, ma soprattutto ritrovarono il coraggio di credere nella persona. Polanyi parla di due modi molto diversi di vedere gli affari politici, prima e dopo la morte di Stalin: “Un paio di occhiali sino ad allora indubitabili si sono infranti ed ogni cosa è apparsa differente da allora in poi” (Polanyi 1969, p. 61). La rivoluzione ungherese, che equivale “all’atto di rompere gli occhiali” (Polanyi 1969, p. 61), rappresenta un cambiamento radicale di prospettive, simile a quello che avviene dopo una scoperta scientifica. Si tratta di una conversione, di un nuovo modo di stare al mondo, ritrovando nella libera ricerca del vero ciò che appassiona e guida l’intera esistenza umana. Riscoprire e difendere il valore intrinseco della verità e della ricerca significa vivere in una società libera, definita come una buona società formata da “un gruppo di uomini che rispettano la verità, desiderano la giustizia e amano i loro simili” (Polanyi 1951, p.129). Polanyi, con questa affermazione, non intende definire i caratteri
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di una società perfetta, ma vuole sottolineare quelle condizioni che distinguono un totalitarismo, nel quale, attraverso la distruzione di una verità universale, viene negata l’aspirazione ultima della persona, da una società degna di essere chiamata libera, poiché permette agli esseri umani di crescere e di migliorare attraverso scelte responsabili, aperte sempre all’ignoto e al mistero. Polanyi condivide con Popper la critica ai regimi totalitari e la difesa della libertà. Ne La società aperta e i suoi nemici, opera pubblicata nel 1945, Popper dichiara la sua avversione contro ogni tipo di società chiusa, totalitaria e guidata da regole imposte dall’alto. Tuttavia, Polanyi ci tiene a sottolineare che “una società libera non è una Società Aperta, ma è una società interamente votata a un insieme di credenze” (Polanyi 1951, p. 86). La “Open Society” descritta da Popper viene giudicata da Polanyi come un sistema politico troppo formale, idealizzato, e per questo inesistente; si tratterebbe di un campo neutrale, libero da ogni presupposto fiduciario e valoriale. In Meaning, Polanyi sottolinea come una società totalmente aperta potrebbe diventare un sistema vuoto, privo di riferimenti; per questo, in qualsiasi tipo di realtà sociale c’è sempre bisogno di un’autorità o di un controllo, che permettano, comunque, lo sviluppo del libero pensiero e della libera azione. Secondo Polanyi, “la libertà dell’individuo di fare come gli pare, purché rispetti il diritto degli altri di fare altrettanto, gioca un ruolo minore nella teoria della libertà. L’individualismo privato non è una colonna portante della libertà pubblica” (Polanyi 1951, p. 86). A differenza di Popper, Polanyi crede che la difesa della libertà non consista tanto nel riconoscimento dei diritti inalienabili del singolo, quanto nella realizzazione personale dell’individuo, possibile sempre attraverso un accordo sociale. In quest’ottica, la società aperta descritta da Popper rischia di diventare un campo in cui tutto è lecito, un punto di vista neutrale e quindi impossibile da realizzare, poiché ogni attività umana è sempre e inevitabilmente collocata entro un orizzonte di valori, che non nega la libertà, ma che permette agli individui di porre sempre in discussione la realtà nella quale sono cresciuti.
2. La comunità scientifica e la società libera
Difendendo la libertà di pensiero, come condizione che permette alla persona di realizzare il compito della conoscenza e quindi di diventare se stessa, accettando la sua
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vocazione, Polanyi ci invita a riscoprire il fascino della scienza pura. Il bisogno di una vita spirituale, ricca di passioni e ancorata a dei saldi valori, è molto più forte di qualsiasi esigenza materiale; o meglio, se consideriamo la persona come un’unità di corpo e spirito, possiamo riconoscere come il benessere della nostra realtà corporea sia indissolubilmente legato ad una pienezza spirituale, che dà senso ad ogni aspetto della nostra esistenza, senza chiuderla in significati univoci, ma aprendola costantemente al mistero:
Dobbiamo riaffermare che l’essenza della scienza è l’amore per la conoscenza e che l’utilità della conoscenza non ci riguarda in maniera primaria. Dovremmo pretendere ancora una volta, per la scienza, quel rispetto pubblico e quel sostegno che le sono dovuti in quanto persegue la conoscenza, ed essa soltanto. Questo perché noi scienziati siamo impegnati verso valori più preziosi del benessere materiale e in un servizio più urgente di quello di tale benessere (Polanyi 1951, p. 95).
L’urgenza di portare a termine il compito del conoscere, nasce dal legame indissolubile fra la persona e la verità; nessun essere umano è destinato al nulla esistenziale, ma ciascuno all’interno del proprio ambiente socio-culturale, può vivere l’incontro con la verità e lasciarsi cambiare da essa. A nessun individuo è preclusa la possibilità di crescere e di ampliare il proprio orizzonte conoscitivo, poiché la vocazione di ogni uomo è quella di ricercare la motivazione autentica dell’esistenza, il sostegno ultimo delle cose, ciò che ci spinge a mettere sempre in discussione noi stessi e il mondo nel quale viviamo. La fede in un fondo comune che ci avvicina agli altri e ci permette di riscoprire la grandezza ma anche la profonda fragilità dell’essere umano, coincide con quella dimensione tacita, che, secondo Polanyi, bisogna ritrovare dietro ad ogni esperienza conoscitiva, compresa la ricerca scientifica. Ciò che manca alla concezione moderna della scienza è una profondità spirituale, che non è stata inventata dall’uomo, ma che è stata donata alla persona, affinché potesse mettersi alla ricerca di ciò che realmente può appagarla e renderla felice. Non si tratta di tracciare un percorso fatto di passaggi logici, ma si tratta di vivere appieno le esperienze che la vita ci propone, ricercando nella scienza, nell’arte, nel diritto, nella religione, quella verità che ci rende esseri degni di rispetto e di amore. È come se i sostenitori della scienza moderna, costruita sull’immagine ideale di un soggetto capace di guardare con chiarezza dentro e
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fuori se stesso, avessero paura di «contaminare» la perfetta e lineare attività di ricerca scientifica, con dei sentimenti soggettivi e dannosi per un sapere puramente razionale. Tuttavia, secondo Polanyi, anche alcuni fra i più grandi sostenitori della ragione, tra i quali spicca il nome di Kant, non hanno potuto fare a meno di percepire, nella scienza, la presenza di un fondo spirituale, non specificabile, il quale è rimasto sempre nell’ombra, celato dietro all’esigenza primaria di giustificare il potere assoluto della mente: “Forse sia Kant sia i suoi successori preferivano istintivamente far dormire questi mostri dormienti, per timore che una volta svegliati, potessero distruggere la loro concezione fondamentale della conoscenza” (Polanyi 1969, p. 141). L’invito di Polanyi è quello di guardare a noi stessi, senza paura di rimanere delusi dai nostri limiti, abbandonando l’ideale di una falsa perfezione, senza rinunciare, tuttavia, alla ricerca di ciò che può dare un’autentica pienezza all’esistenza umana. La persona ritrova se stessa, nel momento in cui diventa consapevole della sua incapacità di spiegare tutto ciò che sa o che sente nel profondo di sé e accetta la sua condizione, disponendosi ad accogliere la verità nelle sue diverse forme. La scienza è una di queste forme, anche se, nell’opinione comune, si tende a dimenticare la tacita ricerca spirituale del vero, che si cela dietro al tentativo di conoscere il mondo naturale, mettendo in primo piano le funzioni materiali del sapere. Il progressivo cambiamento del modo d’intendere la ricerca scientifica emerge anche dalla lettura dei manuali specializzati, i quali tendono sempre di più a confondere la scienza con la tecnologia:
I libri di divulgazione scientifica che ero solito leggere da bambino – afferma Polanyi – si preoccupavano principalmente di mostrare le meraviglie della natura e le gloriose conquiste della scienza. […] Oggi, ai ragazzi e alle ragazze che s’interessano di scienza viene fornita un’interpretazione molto diversa di essa. Leggono libri che professano che la funzione primaria della scienza è il benessere dell’uomo (Polanyi 1951, p. 184).
In un mondo che cerca sempre più di tradurre ogni scoperta scientifica in un’innovazione tecnologica, diventa molto difficile riconoscere, come scopo principale della scienza, l’acquisizione del sapere per se stesso. Polanyi, invitandoci a riscoprire la scienza pura, non intende negare l’utilità pratica delle scoperte, ma vuole soltanto mostrarci le trasformazioni avvenute all’interno di una realtà umana, che, col passare del tempo, si è progressivamente dimenticata della persona e del suo ruolo nella società.
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Il benessere materiale è importante perché ci permette di migliorare il nostro tenore di vita, tuttavia, l’esistenza umana non può certamente ridursi al possesso di beni materiali; se così fosse, l’uomo troverebbe la completa felicità nella ricchezza o nel denaro e sarebbe appagato da ciò che possiede. Invece, se guardiamo oltre la dimensione dell’avere, ci troviamo davanti una persona che vive nel constante tentativo di diventare se stessa, una persona che, pur essendo consapevole dei suoi limiti, non si accontenta dei risultati ottenuti, ma sente sempre l’esigenza di continuare ad indagare il suo mondo, come se tutto ciò che la circonda fosse immagine o segno di una verità familiare, vicina a sé, ma anche ineffabile e mai totalmente esprimibile. Purtroppo non sono molti gli individui che riescono a sperimentare, in maniera autentica, questa dimensione spirituale dell’esistenza, soprattutto in una società sempre più schiava dell’esteriorità e del culto del benessere: “Gli uomini nella loro stragrande maggioranza, sembrano votati a restare intrappolati nelle inestricabili reti dell’avere” (Marcel 1944, p. 73); se fin dall’infanzia, infatti, la nostra mente viene bombardata da messaggi più o meno indiretti, che esaltano, come scopi ultimi della vita, il successo e la ricchezza, poi sarà sempre più difficile modificare il proprio modo di vedere le cose. Tuttavia esiste sempre, secondo Polanyi, una possibilità di cambiamento, che può arrivare all’improvviso, in maniera inaspettata, e può spingerci ad uscire dal torpore di un’esistenza priva di spiritualità. Vedere nella scienza una pura ricerca della verità significa riscoprire la vocazione ultima della persona che cerca d’indagare la realtà, attraverso gli strumenti che ha a disposizione. Poi, in virtù “di un imperativo personale” (Polanyi 1966a, p. 94), lo scienziato pretenderà di far valere universalmente i suoi risultati. Ciò che motiva, infatti, la ricerca è la fede in un’unica realtà nascosta, che aspetta di essere portata alla luce. Polanyi parla sempre di un intento universale che dà ragione alla scienza di esistere, ma mai di “un’universalità stabilita” (Polanyi 1966a, p. 94), poiché l’uomo non può vivere nella certezza di aver raggiunto, per mezzo di determinati concetti, una configurazione dell’universo perfetta e immutabile. Per questo, “gli uomini non possono pianificare la scienza come se progettassero una casa” (Polanyi 1951, p. 213); la realtà che viene indagata dagli scienziati può essere “descritta usando la similitudine di Milton, che paragona la verità ad una statua andata in pezzi, i cui frammenti giacciono sparsi ovunque, nascosti in vari posti” (Polanyi 1951, p. 213). Ogni scienziato,
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indipendentemente dagli altri, cerca un frammento della statua, lasciandosi guidare dalle metodologie riconosciute valide dalla comunità di esperti, ma anche da indizi non specificabili, che soltanto lui riesce a percepire. Oltre alla collaborazione degli scienziati nella ricerca di un’unica realtà, esiste anche un’altra caratteristica della scienza, che può essere chiarita, modificando in parte il riferimento alla statua di Milton:
Le tappe progressive della conoscenza scientifica hanno una completezza illusoria che le fa assomigliare più alle forme di sviluppo di un organismo in crescita che alle sfaccettate forme di una statua completa. Se mettessimo insieme i pezzi di una statua e non ci fosse la testa, ci riterremmo sicuri che essa sarebbe ancora incompleta. Ma la scienza, nel suo progresso, non apparirebbe mai incompleta in maniera ovvia, anche se ne mancassero ancora molte parti. […] Per illustrare la crescita della scienza, dobbiamo immaginare una statua che, mentre la si sta componendo, appaia completa ad ogni passaggio successivo (Polanyi 1951, p. 213).
La percezione di questa completezza non è nulla di scontato, ma suscita sempre stupore e sorpresa, poiché ogni volta che aggiungiamo un frammento, la statua che stiamo ricostruendo potrebbe rappresentare qualcosa di diverso, mai visto prima. Nessuno riesce a prevedere o a pianificare lo sviluppo scientifico, poiché, attraverso la ricerca, la realtà nascosta può rivelarsi in modi inaspettati e impensabili. Lo scienziato, quindi, non è più colui che ha in mano una verità certa, basata su prove oggettive, ma è un uomo che, con passione, ha deciso di impegnarsi nel cammino della conoscenza, cercando sempre di migliorare, attraverso l’inevitabile confronto con l’altro. In diverse opere Polanyi, parla dell’umiltà come prerogativa necessaria agli scienziati che accettano di sottomettersi alla forza della verità; il suo intento non è quello di sminuire il ruolo del soggetto conoscitivo, ma quello di ritrovare le condizioni che permettono allo scienziato di compiere una grande opera di originalità: l’essere umano, quindi, deve farsi sempre più piccolo per sperimentare quella pienezza che viene soltanto dall’incontro col vero. La scienza, infatti, “non è una mania da professori né una sfacchinata da studenti, ma un modo di comprendere la natura, egualmente necessario per tutti gli uomini” (Polanyi 1951, p. 215). Paragonando la verità ad una statua distrutta che dev’essere ricostruita, possiamo capire meglio il ruolo dello scienziato e scoprire il significato profondo del termine umiltà. Polanyi, quando parla di scienza, intende sempre un ambito molto vasto del quale “nessuno ha mai conosciuto se non un piccolissimo frammento” (Polanyi
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1966a, p. 90). La statua della verità, quindi, può essere rimessa in sesto soltanto se gli scienziati continuano le loro ricerche individualmente, ma tenendo sempre presenti i risultati raggiunti dagli altri esperti; non si tratta di una gara per arrivare alla notorietà, ma di un impegno nei confronti della realtà di cui noi non siamo i creatori, ma solamente gli artefici indiretti. Ciò che permette di definire l’uomo come un artefice del suo mondo è l’elemento centrale della libertà: siamo noi, infatti, che decidiamo dove rivolgere la nostra attenzione focale, quali strumenti utilizzare, che tipo di consigli mettere in atto. La ragione guida la nostra intelligenza verso una meta logica e coerente, dandoci la sensazione di essere sulla strada giusta. Ma è proprio a questo punto, nel momento della massima coerenza, che l’uomo deve ricordarsi di non essere il creatore dell’universo, ripensando con umiltà ai suoi limiti. Se si dimentica tutto questo, la persona, animata dal desiderio di conoscere, rischia di cadere nella trappola del pensiero moderno, perdendosi nell’illusione di poter controllare ogni aspetto del mondo, attraverso la razionalità. Così, credendo di muoversi nell’ambito dell’assoluta certezza, l’essere umano diventa cieco di fronte a se stesso e quindi, incapace di rapportarsi agli altri. L’unico modo di uscire da una simile schiavitù, è quello di riconoscersi umili e piccoli, di fronte alle infinite sfaccettature della realtà. Ciò non significa che il sapere, arrivato ad un certo punto debba fermarsi: lo sforzo della conoscenza, infatti, è continuo e incessante; tuttavia, c’è una parte dell’esperienza vissuta che non possiamo tradurre in parole e questa è la parte della nostra realtà a cui ci affidiamo, per iniziare a esercitare liberamente i poteri della ragione: “Il pensiero può vivere su un terreno che accettiamo al servizio di una realtà cui siamo sottomessi” (Polanyi 1966a, p. 18). Diventare umili significa, quindi, riconoscere la dipendenza da un mondo, nel quale siamo sempre e comunque liberi di esprimere la nostra personalità. Secondo Polanyi, ci si può sentire liberi in tanti modi: c’è chi sperimenta la libertà negando la presenza di costrizioni o chi, al contrario, pensa che la libertà da fini personali passi attraverso la sottomissione ad obblighi impersonali. Queste diverse concezioni rappresentano i due pericoli estremi del nichilismo e del totalitarismo; per evitarli, Polanyi ritiene necessario lo studio della libertà accademica, poiché al suo interno “dovremmo trovare i due aspetti rivali della libertà così saldamente intrecciati, che la loro relazione essenziale e il loro reale equilibrio diventeranno facilmente evidenti” (Polanyi 1951, p. 135). La libertà accademica consiste nel diritto di scegliere
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il problema da affrontare, portando avanti la propria ricerca, liberi da particolari controlli esterni. A prima vista, una simile definizione potrebbe sembrare problematica in rapporto alle due grandi teorie della libertà, descritte in precedenza, infatti, in quest’ultimo caso, “la libertà non è data, in origine, allo studioso per promuovere la sua felicità; ma nemmeno per soddisfare semplicemente un’obbligazione” (Polanyi 1951, p. 135). Approfondendo, quindi, i meccanismi che guidano il lavoro accademico avremo la possibilità di ampliare la nostra idea di libertà, al fine di trovare una via intermedia fra il bisogno nichilistico di negare ogni obbligo esterno e l’esigenza, tipica dei governi totalitari, di sottomettere lo sviluppo del pensiero a scopi materiali, considerati come fini universali. In ambito scientifico, la possibilità data agli esperti di scegliere il proprio oggetto d’indagine determina un miglioramento generale delle condizioni, in cui gli scienziati portano avanti le loro ricerche: “Se gli scienziati del mondo sono considerati come una squadra intesa ad esplorare le opportunità esistenti per nuove scoperte, si presume che il loro sforzo sarà coordinato in maniera più efficiente soltanto se ognuno è lasciato libero di seguire le proprie inclinazioni” (Polanyi 1951, p. 136). Il controllo di un’autorità superiore chiuderebbe la ricerca entro dei limiti definiti, riducendo la cooperazione in un sistema centralizzato, posto al servizio del benessere materiale. Solitamente si pensa al lavoro coordinato come ad un’attività che limita le scelte dei singoli, invece, in questo caso “il coordinamento ottimale è ottenuto liberando gli impulsi individuali” (Polanyi 1951, p. 136); questo perché il controllo non viene da un organo superiore, ma si sviluppa nel rapporto reciproco fra gli scienziati. Allora, l’esperto non deve far altro che continuare la sua ricerca in maniera indipendente, cercando di adattarsi ai risultati degli altri, ritenuti validi dall’intera comunità scientifica. In questo modo le attività individuali assumono un andamento regolare e sono coordinate, senza l’intervento di alcuna autorità stabilita. La situazione in cui si vengono a trovare gli esperti è paragonata al tentativo di mettere insieme i pezzi di un puzzle: Ogni aiutante guarderebbe la situazione come se fosse influenzata dai progressi fatti da tutti gli altri, e porrebbe a se stesso nuovi problemi in accordo con l’ultimo contorno completato del puzzle. I compiti che ciascuno si è assunto sarebbero adeguatamente incastrati su quelli realizzati dagli altri. E, di conseguenza gli sforzi comuni condurrebbero ad un tutto
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adeguatamente organizzato, anche se ogni aiutante avesse seguito completamente il proprio giudizio indipendente (Polanyi 1951, p. 138).
In questo caso, un’amministrazione centrale potrebbe soltanto dividere gerarchicamente gli individui impegnati nella ricostruzione del puzzle, ma non potrebbe mai stabilire in anticipo i passaggi, necessari a concludere l’intero lavoro. I progressi fatti dall’individuo vengono, così, inseriti all’interno di un gruppo che è in grado di giudicare rapidamente la loro validità e di porre all’attenzione di tutti ogni singolo passo della ricerca individuale. Il sistema logico in cui sono organizzati gli scienziati, nello svolgimento delle loro attività, è identico al coordinamento di una squadra impegnata nel ricomporre un puzzle; tuttavia, esiste una differenza profonda, da non sottovalutare:
I pezzi del puzzle sono stati comperati in un negozio con la certezza che daranno una soluzione che il fabbricante conosce – ma non c’è una simile sicurezza dataci dal Creatore del nostro Universo, che, continuando a mettere insieme gli elementi della nostra esperienza, troveremo, per esso, una struttura di base intellegibile (Polanyi 1951, p. 140).
Il sapere scientifico non è mai un insieme di nozioni fisse, ma è soggetto a continui cambiamenti, che lo rendono un’impresa appassionata, sempre aperta verso l’ignoto: “La ricerca della struttura di base dell’Universo può essere intesa solo in un senso vago e fluido” (Polanyi 1951, p. 141); non possiamo individuare una meta precisa della scienza, ma, in quanto amanti della verità, possiamo accettare con impegno il compito del conoscere. Quel senso d’incertezza che spesso si lega al progresso scientifico, è assolutamente estraneo alla ricostruzione di un puzzle, nel quale ogni pezzo ha il suo posto preciso e sicuro. Anche nella scienza alcune scoperte possono sembrare incontestabili fin dal principio, ma, il più delle volte, le affermazioni davvero rilevanti, quelle che determinano un profondo cambiamento di visioni, possono rimanere incerte per moltissimo tempo. È importante, quindi, considerare ciò che accomuna l’attività scientifica alla ricostruzione di un puzzle o di una statua andata in pezzi, tenendo sempre presenti le differenze. Se dimentichiamo l’incertezza che accompagna la scienza ad ogni singolo passo, rischiamo di ridurre la ricerca scientifica ad un’operazione logica, priva di passione e di spiritualità.
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Non si potrebbe mai parlare di un coordinamento spontaneo e reale fra gli scienziati, se non considerando la profonda coesione che la scienza mostra sia sul piano temporale, che su quello spaziale: le scoperte di Galileo e di Newton, ad esempio, “costituiscono le fondamenta dell’immagine che abbiamo oggi della natura, ed i loro metodi di ricerca sono ancora tra gli archetipi del metodo scientifico moderno” (Polanyi 1951, p. 141), in ogni parte del mondo. La coesione che fonda radicalmente l’attività scientifica, non è un semplice risultato di accidenti, ma nasce dall’intenzione universale che anima ogni autentica ricerca di verità. Non basta riconoscere la coerenza degli scopi che vengono perseguiti dagli scienziati, perché anche gli astrologi, ad esempio, ritengono coerenti i risultati delle loro ricerche; eppure c’è qualcosa che separa nettamente l’astrologia dalla scienza: solo in quest’ultima “la coesione deve essere considerata come espressione del comune radicamento degli scienziati nella medesima realtà spirituale” (Polanyi 1951, p. 143). Se le scienze naturali venissero sostituite interamente da scienze occulte, non mancherebbe il consenso tra i vari specialisti, i quali riconoscerebbero comunque la validità dei loro risultati. Tuttavia, il loro consenso non potrebbe essere definito espressione di verità, ma soltanto “un consenso di briganti e di sciocchi, che s’ingannano scambievolmente e ingannano il pubblico, il punto d’arrivo di un incidente o di un complotto, in ambedue i casi privo di ogni vero significato” (Polanyi 1958, p. 365). Ciò che tiene uniti gli scienziati, nelle loro ricerche, non è un accordo nato da un insieme di opinioni arbitrarie, ma la dedizione nei confronti della scienza, considerata “come qualcosa di reale, come una realtà spirituale parzialmente dischiusa, in ogni singolo momento, dalle conquiste passate e da quelle che devono ancora venire” (Polanyi 1951, p. 143). Ogni volta che un esperto cerca di risolvere un problema, sorto da una riflessione personale, entra in contatto con l’intera tradizione scientifica, quindi, non solo con i membri del gruppo specializzato di cui fa parte, ma anche con tutte le grandi personalità del passato, delle quali sta continuando il lavoro e con gli scienziati del futuro, che impareranno anche da lui. Solo pensando al legame fra le persone coinvolte nella ricerca e un’unica realtà trascendente, è possibile comprendere come ciascun individuo riesca a perseguire uno scopo comune a tutti, pur mantenendo la sua indipendenza. La crescita spontanea del sapere inizia nel momento in cui gli studiosi si riconoscono al servizio di una verità che supera l’orizzonte del loro sguardo, rendendoli
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consapevoli degli obblighi trascendenti che animano le coscienze dei singoli e creano unione fra gli individui che vivono in società:
Tutti i contatti con una realtà spirituale hanno un certo grado di coesione. Persone libere […] potranno sentire che essa deriva completamente dall’essere radicati nella stessa tradizione nazionale; ma questa tradizione può benissimo essere una mera variante di una tradizione umana universale. Infatti si può trovare una coesione simile tra diverse nazioni qualora ciascuna segua una tradizione nazionale di questo tipo. Esse formeranno una comunità di popoli liberi. Potranno discutere e dibattere, eppure alla fine risolveranno ogni nuova difficoltà, saldamente radicate nello stesso fondamento trascendente (Polanyi 1951, p. 153).
I problemi che sorgono nella convivenza fra uomini liberi assumono un’altra dimensione, se considerati alla luce di una verità che accoglie le differenze e permette a uomini tanto diversi di crescere insieme, nel confronto reciproco. La libertà accademica di scegliere il problema da investigare, sottomettendosi sempre e comunque ad un insieme di obblighi universali, ci permette di vedere come l’aspetto personale della libertà coincida, nel campo del sapere, con un altro aspetto della libertà che può essere definito sociale, poiché consiste nella sottomissione a doveri impersonali. La libertà accademica, esercitata all’interno di una comunità scientifica diventa, quindi, esemplare per tutti quegli uomini che intendono costruire una società che rispetti le differenze e permetta agli individui di diventare persone, amanti e rispettose della verità:
La comunità degli scienziati è organizzata in modo da assomigliare per certi aspetti ad un corpo politico, e lavora secondo principi economici simili a quelli da cui è regolata la produzione dei beni. […] Infatti nella cooperazione libera di scienziati indipendenti troveremo un modello altamente semplificato di una società libera (Polanyi 1969, p. 81).
È importante, quindi, approfondire i meccanismi interni ad una comunità scientifica, per individuare i punti centrali della teoria politico-economica, sviluppata da Polanyi. Come abbiamo già sottolineato, nella scienza domina il “principio dell’autorità reciproca” (Polanyi 1969, p. 118), grazie al quale le iniziative indipendenti si organizzano per un risultato comune: l’autocoordinamento delle scelte personali “è come guidato da una «mano invisibile» verso la scoperta di un sistema […] nascosto di
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cose” (Polanyi 1969, p. 83). Polanyi, quando parla
della «mano invisibile», fa
riferimento alla teoria economica di Adam Smith, secondo la quale esiste un coordinamento di iniziative indipendenti tra produttori e consumatori, operanti nel mercato. Ma i meccanismi che guidano il mercato non sono altro che “un caso particolare di coordinamento per mutuo aggiustamento” (Polanyi 1969, p. 84): in ambito economico il controllo reciproco avviene all’interno del sistema dei prezzi, che varia a seconda della corrispondenza fra la domanda e l’offerta; nella scienza, invece, gli esperti creano un sistema di collaborazione, senza il bisogno di un’autorità superiore, cercando di adattare le loro ricerche ai risultati pubblicati dagli altri scienziati. Gli standard accettati dalla comunità costituiscono quel fondamento comune che permette ai singoli individui di iniziare il percorso verso la scoperta: l’opinione scientifica esercita un controllo, che non viene da un’autorità esterna, ma che si sviluppa all’interno del gruppo, nel rapporto reciproco fra persone che vivono profondamente la passione per la scienza. Le premesse che stanno alla base dell’attività scientifica appartengono, secondo Polanyi, a due classi: “Vi sono assunzioni generali riguardanti la natura dell’esperienza quotidiana […] e assunzioni più particolari che sono alla base del processo della ricerca scientifica” (Polanyi 1946, p.65); in nessun caso, tuttavia, si tratta di principi innati, ma di nozioni apprese all’interno del proprio ambiente socio-culturale. Ovviamente, in base alla teoria del sapere tacito, bisogna riconoscere che le premesse sottostanti alle attività e ai grandi processi intellettuali, come l’uso di una lingua, non sono mai totalmente esplicitabili, quindi vengono apprese tramite “una pratica, guidata da imitazione intelligente” (Polanyi 1946, p. 66). Le premesse della scienza vengono diffuse generalmente attraverso tre fasi: all’inizio la scuola insegna ad usare con facilità le teorie scientifiche, poi l’università cerca di “rianimare questa conoscenza, facendo comprendere allo studente le sue incertezze e la sua continua natura provvisoria” (Polanyi 1946, p. 66); infine soltanto quei pochi che possiedono il talento per diventare scienziati, passano alla fase successiva, iniziando un percorso di ricerca indipendente. Un simile obiettivo, tuttavia, è raggiungibile soltanto “tramite un legame stretto e personale con l’intima visione e la pratica di un maestro insigne” (Polanyi 1946, p. 47). La guida e l’esempio di un maestro permetteranno all’allievo di entrare nella realtà descritta dalla scienza, al fine di stabilire un contatto sempre più diretto con la natura. L’autorità alla quale si sottomettono gli studenti mira, quindi, alla formazione di una
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persona libera e capace di giudicare da sé le implicazioni della realtà nascosta che è chiamata ad indagare. Anche durante il periodo di studio, l’insegnante dovrà incoraggiare ogni tentativo critico dello studente, restando, però, entro certo limiti, infatti “il processo di apprendimento deve dipendere principalmente dall’accettazione di un’autorità” (Polanyi 1946, p. 69). Il rapporto fra il maestro e il discepolo è inserito all’interno di un insieme di istituzioni, che permettono la fiducia reciproca e l’autodisciplina tra gli scienziati. Da un punto di vista materiale, infatti, la scienza è costituita “da periodici e libri, da assegni di ricerca e stipendi, dagli edifici utilizzati per l’insegnamento e la ricerca” (Polanyi 1946, p. 70). Il primo mezzo per rendere nota una scoperta è il periodico, attraverso il quale un articolo viene esposto al giudizio e alla critica degli esperti; ma solo il manuale “accorda il sigillo finale dell’autorità scientifica” (Polanyi 1946, p. 71) e fa sì che la scoperta possa essere insegnata nelle scuole e divulgata ad un pubblico più vasto. La selezione del personale scientifico dipende in gran parte dal valore che l’opinione collettiva assegna alle pubblicazioni dei vari candidati; questo tipo di analisi risulterà poi determinante anche per il conferimento di titoli o per la distribuzione di fondi speciali. Esiste sempre nella scienza una gerarchia d’influenze, tuttavia l’autorità non è assegnata tanto alle cariche, quanto alle persone che si dimostrano al servizio di un’unica e infinita realtà. Tutte le istituzioni che costituiscono il fondo comune della scienza, quindi, fanno sì che un ricercatore, prima di diffondere una scoperta, ascolti la propria “coscienza scientifica” (Polanyi 1946, p. 79), nata dal rapporto con gli altri esperti e dalla consapevolezza di perseguire ideali comuni. La realtà spirituale che tiene uniti gli sforzi degli scienziati, pur essendo accessibile attraverso una tradizione, tende sempre a trascendere qualsiasi ambito socio-culturale, permettendo il controllo reciproco e la diffusione di un potere diverso da quello tradizionale; secondo Polanyi, infatti, bisogna distinguere tra due tipi di autorità: “una che stabilisce presupposizioni generali, l’altra che impone conclusioni” (Polanyi 1946, p. 81). Nel primo caso si tratta di un’Autorità Generale, che permette ai membri di un gruppo di indirizzare liberamente le loro ricerche verso mete sconosciute, nel secondo invece bisogna pensare ad un’Autorità Specifica, che dirige dall’alto ogni movimento. La scienza ovviamente deve fondarsi sul primo tipo di autorità, perché la ricerca non può essere guidata da leggi precise che danno la certezza di un risultato, ma semplicemente da regole vaghe, capaci di aprire la
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strada verso una meta soltanto intuita. È chiaro, quindi, come in ambito scientifico la dipendenza da una tradizione non precluda l’esercizio della libertà, ma, al contrario permetta alla scienza di essere “costantemente rivoluzionata e perfezionata dai suoi pionieri” (Polanyi 1946, p. 80). A prima vista, potrebbe sembrare che Polanyi ponga l’accento sul lato conformistico della ricerca, relegando in un secondo piano l’impresa creativa del singolo. In realtà tutto il discorso sul consenso e sull’opinione scientifica mira a definire l’immagine di uno scienziato libero da ogni scopo materiale e interamente votato al servizio di una verità, capace di rivelarsi attraverso scoperte originali e sempre nuove: “L’iniziativa della ricerca scientifica e il suo svolgimento devono essere lasciati alla decisione libera del singolo scienziato. […] L’indipendenza salvaguarderà l’originalità che è l’essenza del progresso scientifico” (Polanyi 1969, p. 116). La forza dell’immaginazione, guidata dall’intuizione, permette allo scienziato di uscire dal suo lavoro di routine, ritrovando quella vocazione alla conoscenza che lo spinge a guardare sempre oltre se stesso; gli standard e le premesse della scienza definiscono l’ambito nel quale ciascun individuo può trovare il suo compito, cercando di far emergere un talento ancora non visibile, durante una prima fase di ricerca:
A questo stadio il suo talento è ancora celato, ed il suo problema ancora oscuro. C’è in lui una chiave nascosta, capace di aprire una serratura nascosta. C’è solo una forza che può rivelare tanto la chiave quanto la serratura ed unirle: la spinta creativa che è implicata nelle facoltà degli uomini e che le guida istintivamente verso le occasioni per una loro manifestazione. Il mondo esterno può aiutare attraverso l’insegnamento, l’incoraggiamento e le critiche, ma tutte le decisioni essenziali che portano alla scoperta rimangono personali ed intuitive (Polanyi 1951, p. 162).
L’originalità, unita al coraggio di lasciarsi guidare dagli indizi che la realtà lascia intravedere, si rivela come la più grande virtù di uno scienziato; ma ciò che la rende possibile è soltanto il consenso ad una tradizione comunemente ritenuta valida. La spinta creativa dello scienziato, quindi, pone accanto al consenso il dissenso, come costitutivo della comunità scientifica e di ogni comunità. Polanyi, infatti, ritiene che le realtà socio-politiche debbano svilupparsi seguendo il modello proposto dalla scienza, nella quale ciascuna persona può far emergere il suo talento, in una ricerca individuale e creativa, ma sempre rivolta ad un intento universale, che viene esemplificato da una
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tradizione, ma che continuamente trascende ogni ambito umano. La teoria politica elaborata da Polanyi, quindi, tende a difendere un liberalismo moderato (cfr. Vinti 1999, p. 194), nel quale la libera iniziativa è sempre alimentata dal rispetto verso un fondo tradizionale, che è impossibile negare, in quanto ci permette di diventare esseri intelligenti e responsabili. Nonostante gli scontri che avvengono all’interno della comunità scientifica, “non può esservi alcun conflitto tra i principi di spontaneità e di limitazione” (Polanyi 1951, p. 144); lo scienziato, infatti, non lotta per affermare una visione soggettiva della realtà, ma si batte affinché la sua intuizione abbia un riscontro universale e venga accettata da quella stessa tradizione che, secondo il pensiero di chi ha compiuto la scoperta, va rinnovata e resa maggiormente conforme al vero: “L’unità tra passione creativa personale e propensione a sottomettersi alla […] disciplina è una conseguenza necessaria della realtà spirituale della scienza” (Polanyi 1951, p. 144). Solo gli scienziati che riescono a sentire con umiltà la grandezza del loro compito, riconoscendosi al servizio di un’unica verità, possono realmente contribuire allo sviluppo della scienza e portare dei cambiamenti significativi all’interno della tradizione: “Quella scientifica è perciò una comunità con riferimento ad un consenso, […] una rete fiduciaria nella quale ciascun membro inserisce i propri contributi personali e nella quale la scienza progredisce e si organizza a tutti i livelli” (Vinti 1999, p. 97). Ogni esperto, quindi, deve fare sempre affidamento su un’opinione collettiva, su uno sfondo di credenze comuni, al fine di portare alla luce dei mutamenti rivoluzionari. Individuare una dimensione tacita del sapere significa dare un fondamento alla conoscenza, porre in una situazione ben precisa ogni esperienza vissuta, osservando come tentativi diversi di comprensione abbiano delle premesse comuni, che in qualche modo condizionano le scelte del soggetto. Polanyi difende il tradizionalismo che “ci impone di credere prima di conoscere” (Polanyi 1966a, p. 78), non allo scopo di diffondere una mentalità dogmatica, ma al fine di mostrare l’intenzione universale che si cela dietro ad ogni autentico tentativo di conoscenza. Il criticismo dell’uomo moderno, capace di credere soltanto ad enunciati espliciti e verificabili, va riconciliato col desiderio morale della persona umana di credere nella verità, nella giustizia, nella tolleranza e quindi nei fondamenti spirituali della società. Uno stato libero mette gli individui nelle condizioni di riscoprire la profonda spiritualità che sostiene l’agire umano e che permette lo sviluppo del sapere.
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Partendo dalla consapevolezza di vivere in un preciso ambiente culturale, con le sue istituzioni, le autorità politiche e religiose, le riviste, i programmi televisivi, l’uomo sviluppa una capacità di giudizio libera e indipendente; tuttavia ciò che lo spinge ad esercitare la sua creatività è un senso di bellezza intellettuale che può nascere soltanto dalla fede nella realtà in cui egli vive da sempre. Sentire di condividere con gli altri una verità non esplicitabile, ma profondamente vicina al nostro mondo, ci dà il coraggio necessario per uscire dalla pura dimensione dell’avere e riconoscere l’immenso patrimonio che la persona custodisce nel profondo di sé. La fede in un’unica realtà nascosta, vissuta sempre all’interno di una particolare società, è ciò che rende l’uomo degno del sapere, ed è ciò che distingue una pura fantasia soggettiva, da uno sforzo conoscitivo autentico e personale. “Forse – afferma Polanyi – stiamo diventando una società di esploratori dediti al conseguimento di fini ignoti” (Polanyi 1969, p. 119); allora la consapevolezza tacita di ciò che siamo dovrà spingerci a guardare verso una dimensione ulteriore, verso quella meta non del tutto definibile, che può dare un senso alla nostra esistenza.
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Parte II Uno sguardo critico sul pensiero polanyiano
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1. Il ruolo della fede nell’epistemologia di Th.S. Kuhn
Lo scopo di questa seconda parte del lavoro è quello di scavare più a fondo nella nozione polanyiana di verità personale, attraverso un confronto con l’epistemologia di Th.S. Kuhn, autore che viene spesso accostato a Polanyi per la comune critica alla nozione tradizionale di scientificità. Come Polanyi, anche Kuhn viene annoverato tra i principali esponenti della cosiddetta “nuova filosofia della scienza”: l’immagine statica di una scienza fondata su un insieme di regole ben definito viene sostituita da una visione dinamica dell’attività scientifica, sulla base di un nesso ineliminabile tra storia e filosofia della scienza. Credo sia importante capire in che modo queste due discipline possano incontrarsi, al fine di comprendere la direzione verso la quale si sviluppano gli studi kuhniani. Toccare le tematiche centrali del pensiero kuhniano, infatti, mi permetterà di accostare la nozione di fede che emerge da La struttura delle rivoluzioni scientifiche, a quell’atto di fiducioso abbandono attraverso il quale Polanyi fonda il sapere razionale. Tuttavia, come vedremo, il tema dell’incommensurabilità e la sua evoluzione, a partire proprio da La struttura, mi condurranno a scindere i due autori e a individuare due possibili percorsi. Ritornando a Kuhn, potremmo dire che il suo modo d’intendere la ricerca scientifica nasce dall’esigenza di mostrare come la storia e la filosofia debbano interagire quando il loro oggetto d’indagine è la scienza: “Sono profondamente convinto - sostiene Kuhn che molti scritti di filosofia della scienza sarebbero migliori se la storia avesse giocato un più ampio ruolo di base nella loro preparazione” (Kuhn 1977, p. 15). È importante riconoscere la distanza che solitamente separa la filosofia della scienza dal suo oggetto, per capire in che modo la storia possa rivelarsi uno strumento prezioso:
In altre parti della filosofia, principalmente nell’etica e nell’estetica, i praticanti si dedicano ad esperienze che essi condividono con grandi parti di umanità, e che sono in ogni caso riserve
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speciali di gruppi di esperti nettamente delimitati. Nonostante che il filosofo possa essere un esperto di estetica, l’esperienza estetica è di ogni uomo. Le filosofie della scienza e del diritto sono le sole che si indirizzano ad aree delle quali il filosofo in quanto filosofo, sa poco. [...] La mia prima affermazione quindi, è che la storia della scienza può aiutare a colmare il solco del tutto particolare tra filosofi della scienza e scienza stessa, che può divenire quindi per essi una fonte di problemi e di dati (Kuhn 1977, p. 16).
È attraverso la storia che il filosofo ha la possibilità di familiarizzare con la scienza, il cui sviluppo dipende in parte da un processo non incrementale, ovvero rivoluzionario, di mutamento. Il filosofo, che segue una prospettiva storica, si pone di fronte allo stesso problema dello storico: comprendere i cambiamenti delle convinzioni. Le domande sulla razionalità, sul senso, non riguardano le convinzioni in se stesse, ma semplicemente il loro mutamento. Ma perché i membri di un gruppo scientifico decidono di alterare un insieme di teorie, accettandone delle nuove? È questo il problema centrale attorno al quale si articola il pensiero kuhniano. Ciò emerge chiaramente da La struttura, testo che fornisce una descrizione schematica dello sviluppo delle scienze di base, le quali non compiono un progresso uniforme, ma attraversano stadi differenti. La prima fase è quella della “scienza preparadigmatica”, caratterizzata da una competizione tra scuole e dalla disputa sui fondamenti; in questo momento non esiste nulla di simile a un consenso tra scienziati.1 La situazione muta completamente quando una delle scuole ottiene una conquista scientifica, risolvendo uno dei problemi fondamentali del suo campo, in modo che la ricerca possa poi prendere tale soluzione come modello. A questo punto si può dire che la scienza ha raggiunto uno stato di maturità; gli studenti affrontano determinate questioni sulla base dell’insegnamento che ricevono: “Tale istruzione è al tempo stesso rigorosa e rigida” (Kuhn 1962, p. 23), per cui finisce per esercitare un’influenza rilevante sulla mentalità scientifica. La fase a cui si giunge è detta “scienza normale” ed è caratterizzata da un tipo di ricerca
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Scrive Kuhn: “La ricerca effettiva non comincia quasi mai prima che una comunità scientifica pensi di essere entrata in possesso di precise risposte a domande come: Quali sono le entità fondamentali da cui l’universo risulta composto? Come interagiscono tra di loro e coi sensi? Quali domande si possono legittimamente porre riguardo a tali entità e quali tecniche si possono impiegare per ottenere le risposte adeguate?” ( Kuhn 1962, p. 23).
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che Kuhn definisce “uno strenuo e devoto tentativo di forzare la natura entro le caselle concettuali fornite dall’educazione professionale” (Kuhn 1962, p. 23); i “paradigmi” non sono altro che le soluzioni esemplari dei problemi, soluzioni senza le quali lo scienziato non potrebbe svolgere la sua ricerca “normale”:
La scienza normale, l’attività nella quale la maggior parte degli scienziati spendono inevitabilmente quasi tutto il loro tempo, è affermata sulla base della assunzione che la comunità scientifica sa che cosa è il mondo. Gran parte del successo dell’impresa deriva dalla volontà della comunità di difendere quella assunzione, se necessario ad un prezzo considerevole. La scienza normale, ad esempio, sopprime spesso novità fondamentali, perché esse sovvertono necessariamente i suoi impegni basilari. Tuttavia [...] la natura stessa della scienza normale ci assicura che la novità non rimarrà soppressa per molto tempo (Kuhn 1962, p. 24).
La scienza normale finisce così per assomigliare alla pratica consistente nella soluzione di rompicapo: le risposte ai problemi sono già date, l’abilità dello scienziato sta nell’applicarle ai singoli casi che vengono sottoposti alla sua attenzione. Questo tipo di attività si esaurisce quando l’emergere di diverse anomalie significative rende, gradualmente, sempre più difficile la sua continuazione. In questi casi spesso accade che “uno strumento dell’apparato di ricerca, progettato e costruito per gli scopi della ricerca normale” (Kuhn 1962, p. 24) non riesca a funzionare come gli scienziati si aspetterebbero, facendo emergere, così, un’anomalia che, nonostante i numerosi sforzi, non riuscirà a conformarsi alle aspettative degli esperti: “In questi e in altri modi la scienza normale va a finire ripetutamente fuori strada” (Kuhn 1962, p. 24). Inizia, a questo punto, un periodo di profonda crisi, o più precisamente, una fase di “scienza straordinaria”, durante la quale si va alla ricerca di nuove risposte e di nuovi strumenti. Se viene elaborata una teoria che riesce a far fronte alle anomalie significative e quindi a mostrarsi superiore rispetto alla vecchia, allora avrà luogo una “rivoluzione scientifica”. Tali momenti rivoluzionari portano a un cambiamento radicale dei concetti, dei metodi, dei problemi e delle loro rispettive soluzioni:
Ogni rivoluzione [...] ha trasformato l’immaginazione scientifica in un modo che dovremmo descrivere in ultima istanza come trasformazione del mondo entro il quale veniva fatto il lavoro
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scientifico. Simili cambiamenti, assieme alle controversie che quasi sempre li accompagnano, sono le caratteristiche che definiscono le rivoluzioni (Kuhn 1962, p. 25).
Alcune rivoluzioni sono di grande portata, come quelle associate ai nomi di Copernico, Newton o Darwin, ma per la maggior parte sono più piccole e rintracciabili all’interno di ricerche altamente specialistiche. Questi mutamenti rendono lo sviluppo scientifico in qualche modo discontinuo, perché una nuova teoria non è mai soltanto un’aggiunta a ciò che è noto: “La sua assimilazione richiede la ricostruzione della teoria precedente e una nuova valutazione dei fatti precedentemente osservati, processo intrinsecamente rivoluzionario che raramente è condotto a termine da un unico uomo e che non può realizzarsi da un giorno all’altro” (Kuhn 1962, p. 25). Le rivoluzioni permettono a una comunità scientifica di compiere il passaggio verso un nuovo paradigma e questo, come vedremo meglio in seguito, significa imparare a vedere il mondo in maniera diversa rispetto al passato. Questa breve descrizione delle fasi principali che segnano, dal punto di vista di Kuhn, lo sviluppo della scienza ha il fine di mostrare gli aspetti di un pensiero che, come quello polanyiano, va a scontrarsi con molte convinzioni filosofiche relative alla scienza, tipiche del periodo in cui i due autori scrivevano. Il primo aspetto è l’abolizione dell’idea che la scienza sia guidata dal metodo scientifico, inteso come insieme di regole fisse, da seguire scrupolosamente. Lo scienziato, infatti, non arriva a risolvere determinate questioni applicando semplicemente delle regole esplicite, ma nel corso della “ricerca normale” assumono un’importanza centrale gli esemplari, ampliamente descritti nei manuali:
Eccetto che nelle loro rare introduzioni, i manuali di scienze non descrivono i tipi di problemi che l’esperto potrà essere chiamato a risolvere e la varietà di tecniche disponibili per la loro soluzione. Piuttosto questi libri mostrano soluzioni a problemi concreti che la professione è giunta ad accettare come paradigmi, ed essi chiedono quindi agli studenti di risolvere da soli, sia con carta e matita che in laboratorio, problemi molto strettamente collegati sia nel metodo che nella sostanza a quelli attraverso i quali i libri e le relative lezioni li hanno condotti. Nulla è meglio congegnato per produrre “insiemi mentali”o Einstellungen (Kuhn 1977, p. 249).
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Per tali ragioni, Kuhn, come Polanyi, attribuisce un’importanza rilevante ai fattori sociali della scienza e all’educazione degli studenti. In base a quest’ultima, infatti, ognuno impara a vedere il mondo in un determinato modo, viene a conoscenza degli strumenti e dei metodi necessari per affrontare problemi specifici e, una volta terminato il periodo di formazione, il neoscienziato sarà pronto ad iniziare la sua ricerca, guidata da tutti quei modelli sperimentali, gradualmente assimilati e appresi nel corso degli anni. L’educazione nelle scienze naturali “resta una iniziazione dogmatica ad una tradizione predeterminata che lo studente non è in grado di valutare” (Kuhn 1977, p. 249). Egli si trova da sempre all’interno di un mondo che non può scegliere; il suo cammino verso la scienza inizia e si svolge totalmente all’interno di questo mondo. Lo sviluppo scientifico è considerato come un “processo guidato da dietro” piuttosto che “tirato da davanti”. Come vedremo in seguito, a differenza di Polanyi, i profondi mutamenti concettuali determinati dalle rivoluzioni scientifiche, impediscono a Kuhn di concepire il progresso scientifico come un’approssimazione verso la verità. A tale proposito è particolarmente calzante il paragone kuhniano tra il progresso della scienza e la teoria dell’evoluzione di Darwin. Questa, infatti, afferma che non esiste alcuno scopo verso il quale l’evoluzione è diretta:
L’Origine delle Specie non riconosceva nessuno scopo stabilito da Dio o dalla natura. La selezione naturale invece, operando nell’ambiente dato e sugli organismi effettivamente presenti e a portata di mano, era responsabile della comparsa, graduale ma costante, di organismi più elaborati,
maggiormente
articolati
e
molto
più
specializzati.
Anche
organi
così
meravigliosamente adatti come l’occhio e la mano dell’uomo [...] erano i prodotti di un processo che si era sviluppato costantemente a partire da stadi primitivi, ma che non tendeva verso nessuno scopo (Kuhn 1962, p. 207).
Se non esiste un progresso inteso come avvicinamento al vero, tuttavia, esiste uno sviluppo scientifico che coincide con “l’incremento dell’articolazione e della specializzazione della conoscenza scientifica” (Kuhn 1962, p. 207). Da queste riflessioni sul pensiero kuhniano, emerge anche un altro aspetto importante, che ha segnato larga parte del dibattito epistemologico degli ultimi decenni: l’idea che la scienza sia fatta dalle comunità e non dagli individui. Secondo Kuhn, “l’unità
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primaria attraverso cui si sviluppano le scienze è il gruppo” (Kuhn 1990, p. 154). L’evoluzione stessa della conoscenza dipende dallo scambio delle idee all’interno di una comunità, gli scienziati sono come “atomi costitutivi di un insieme più ampio” (Kuhn 1990, p. 154). All’interno della tradizione epistemologica, prima degli anni Sessanta, non era stata mai stata messa in discussione l’identità di chi svolgeva l’impresa scientifica: il singolo scienziato aveva il primato sulla comunità; era grazie alle sue scoperte innovative che il progresso scientifico andava avanti. Inoltre, non poteva essere ammessa la possibilità che due scienziati fossero in disaccordo tra loro, su questioni razionalmente dimostrabili. La via della ragione, e quindi la via della scienza, era una sola. Kuhn, invece, pensando la scienza come un’impresa fondamentalmente sociale, individua nel gruppo i meccanismi primari dello sviluppo scientifico (cfr. Hoyningen-Huene 2000, p. XVI). La comunità costituisce il mondo nel quale lo scienziato viene educato e istruito; grazie al continuo confronto con gli altri membri l’individuo impara a guardare la realtà circostante in base ad un determinato paradigma, ma, cosa ancora più importante, apprende il lessico che tutti condividono. Il lessico è definito da Kuhn come “un modulo presente nella testa di un singolo membro di un gruppo” (Kuhn 1990, p. 155), per cui sarebbe inesatto parlare di lessici identici in ogni individuo, piuttosto dovremmo pensare a “lessici reciprocamente congruenti, aventi la stessa struttura” (Kuhn 1990, p. 155). È proprio questa struttura, non le sue diverse elaborazioni individuali, che i componenti di una comunità condividono. Grazie a tale condivisione, gli esperti in un determinato campo scientifico possono capirsi e comunicare facilmente tra loro, permettendo così lo sviluppo cumulativo della “scienza normale”. Prima di affrontare il tema dell’incommesurabilità e ritornare, in maniera indiretta, alla teoria della conoscenza personale polanyiana, vorrei soffermarmi sulla nozione di paradigma, strettamente connessa a quella di “scienza normale”; entrando nelle complesse dinamiche del paradigma scientifico, infatti, emergeranno i presupposti di quel radicale mutamento di prospettiva che determina l’ingresso in una nuova realtà paradigmatica.
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1. Paradigma e “scienza normale”: concetti chiave ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche
Abbiamo già sottolineato come, nell’ottica kuhniana, lo sviluppo scientifico si articoli in una serie di momenti differenti, caratterizzati da attività diverse: periodi di “scienza normale” si alternano a periodi “rivoluzionari”. Lo sviluppo scientifico non consiste, quindi, in un’evoluzione lineare ma risulta segnato da alcune fasi di rottura. La struttura delle rivoluzioni scientifiche nasce proprio dal tentativo di definire le diverse fasi della scienza, nelle quali il paradigma assume caratteristiche sempre nuove. I “paradigmi”, è questa la prima definizione che incontriamo ne La struttura, “sono conquiste scientifiche, universalmente riconosciute come tali, che, per un certo periodo di tempo, forniscono problemi e soluzioni esemplari per una comunità di esperti” (Kuhn 1962, p. 10). Da ciò, risulta chiaro che il termine “paradigma” sia in stretta connessione con i diversi gruppi di scienziati che operano all’interno dei numerosi settori della scienza: “Un paradigma è ciò che i membri di una comunità scientifica, ed essi solo condividono. Inversamente è il possesso di un paradigma comune che fa di un gruppo di uomini, per altri versi disparati, una comunità scientifica” (Kuhn 1977, p. 322). Quest’ultima consiste, quindi, in un insieme di specialisti che hanno ricevuto educazione e addestramento simili: durante il loro percorso formativo hanno studiato sugli stessi manuali e hanno assistito, in gran parte, alle stesse lezioni. Si possono poi distinguere vari livelli di comunità: “Quella più globale è la comunità di tutti gli studiosi di scienze naturali. Ad un livello leggermente inferiore i principali gruppi professionali sono quelli dei fisici, dei chimici, degli astronomi, degli zoologi, e così via” (Kuhn 1969, p. 215). Sia la “scienza normale” che le rivoluzioni scientifiche sono attività basate su una comunità; per studiarle ed analizzarle è necessario “svelare la mutevole struttura comunitaria delle scienze lungo un certo periodo di tempo” (Kuhn 1969, p. 217)2. Un paradigma, più che un campo di ricerca, governa un gruppo di ricercatori; di conseguenza, “una rivoluzione è una specie molto particolare di cambiamento che comporta una sorta di ricostruzione dei dogmi condivisi dalla comunità” (Kuhn 1969, p. 2
Nel “Poscritto 1969”, sette anni dopo la prima edizione de La struttura delle rivoluzioni scientifiche Kuhn fa delle precisazioni sul termine paradigma e sul concetto di comunità scientifica, al fine di chiarire alcuni fraintendimenti della sua posizione. Ma di questo diremo più avanti.
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218). Ma prima di parlare delle rivoluzioni, è necessario comprendere a fondo i meccanismi propri della “scienza normale”; all’interno di questa fase, infatti, si trovano le premesse dei mutamenti rivoluzionari. Non possiamo capire con chiarezza un periodo particolare dello sviluppo scientifico, se non cogliamo le caratteristiche dei momenti precedenti e successivi: ogni fase della scienza si lega alle altre ed è comprensibile soltanto in relazione al concetto di “paradigma”. Prima di entrare nella fase matura della ricerca scientifica, in cui un paradigma condiviso dalla comunità diventa “un’unità di misura fondamentale”( Kuhn 1962, p. 30) per l’attività dello scienziato, numerose scuole di pensiero si trovano in competizione tra loro: ciascuna difende la propria dottrina servendosi di valide dimostrazioni. In questo periodo, definito da Kuhn “preparadigmatico”, manca il consenso unanime su una determinata questione scientifica; lo scienziato viene “inevitabilmente esposto ad una varietà di opinioni in conflitto” (Kuhn 1977, p. 251). L’esempio fatto da Kuhn ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche è quello dello sviluppo dell’ottica fisica:
Nessun periodo situato tra la remota antichità e la fine del XVII secolo ha presentato un’unica concezione accettata da tutti circa la natura della luce. C’erano invece molte scuole e sottoscuole in competizione tra loro: la maggior parte di esse difendeva questa o quella variante della dottrina epicurea, aristotelica o platonica. Alcune affermavano che la luce consisteva di particelle emesse da corpi materiali; per altre si trattava di una modificazione del mezzo frapposto tra il corpo e l’occhio [...]. Ciascuna delle rispettive scuole traeva forza dalla sua relazione con qualche metafisica particolare e ciascuna metteva in rilievo, come osservazioni paradigmatiche, il particolare gruppo di fenomeni ottici che la sua teoria era maggiormente in grado di spiegare (Kuhn 1962, p. 32).
Tutte queste scuole di pensiero, secondo Kuhn, hanno dato un forte contributo all’elaborazione dei concetti da cui Newton trasse quello che diventò poi il primo paradigma accettato, quasi ad unanimità, nel campo dell’ottica fisica. Newton insegnava che la luce consisteva di corpuscoli materiali; da quel momento, quindi, i fisici si impegnarono a cercare “una prova delle particelle luminose che venivano ad urtare contro i corpi solidi” (Kuhn 1962, p. 31) e in tal modo ebbe inizio la fase di “scienza normale”. Prima di allora, tutti quelli che svolgevano ricerche nel campo dell’ottica
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fisica erano certamente degli scienziati, sebbene “il risultato puro e semplice della loro attività fosse qualcosa meno che scienza” (Kuhn 1962, p. 32): nessun insieme comune di opinioni veniva accettato come ovvio e, ogni volta, ciascuno studioso “si sentiva spinto a ricostruire il suo campo dalle fondamenta” (Kuhn 1962, p. 32). Non essendoci un gruppo di metodi prestabiliti nella ricerca scientifica, la scelta delle osservazioni e delle teorie risulta, in questo caso, più libera
rispetto a quella compiuta da uno
scienziato che opera all’interno di un preciso paradigma. Ma soltanto l’attività svolta da quest’ultimo è effettivamente scienza, in quanto solo essa può progredire, partendo da una serie di termini e di teorie condivise da tutti gli esperti del settore:“La raccolta iniziale dei fatti - spiega Kuhn - è un’attività molto più casuale di quella resa familiare dal successivo sviluppo scientifico” (Kuhn 1962, p. 35). La scienza, quindi, può progredire soltanto dopo aver superato un primo periodo in cui “uomini diversi, trovandosi di fronte la stessa gamma di fenomeni, [...] li descrivono e li interpretano in maniere diverse” (Kuhn 1962, p. 37). Simili divergenze iniziali, però, sono destinate a scomparire una volta per tutte, se si afferma una delle scuole in competizione: questa, mettendo in evidenza soltanto alcuni aspetti delle numerose osservazioni raccolte, verrà così ritenuta la migliore. A questo punto, una volta accettato un paradigma, lo scienziato non dovrà più preoccuparsi di ricostruire sempre il suo campo di ricerca, partendo dai principi primi, per giustificare l’uso di un concetto o di un metodo. Tale compito, infatti, spetterà ai manuali, che esporranno in maniera definitiva le teorie e le leggi valide all’interno del paradigma. Scrive Kuhn:
I paradigmi raggiungono la loro posizione perché riescono meglio dei loro competitori a risolvere alcuni problemi che il gruppo degli specialisti ha riconosciuto come urgenti. Riuscire meglio, però, non significa riuscire completamente per quanto riguarda un unico problema o riuscire abbastanza bene per moltissimi problemi. Il successo di un paradigma [...] è all’inizio, in gran parte, una promessa di successo che si può intravedere in alcuni esempi scelti ed ancora incompleti. La scienza normale consiste nella realizzazione di quella promessa (Kuhn 1962, pp. 43-44).
Dopo aver accettato un paradigma, gli scienziati saranno particolarmente impegnati ad ampliare la conoscenza di quei fatti che lo stesso paradigma indica come rivelatori:
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queste “operazioni di ripulitura” (Kuhn 1962, p. 44) costituiscono, secondo Kuhn, le attività principali dei professionisti all’interno di una specifica comunità. Lo “scienziato normale”, quindi, non mira ad inventare nuove teorie, ma la sua ricerca è rivolta all’articolazione di quei fenomeni e di quelle leggi già presenti nei manuali. Gli studiosi, esperti in uno specifico settore della scienza, cercano in tutti i modi possibili un accordo sempre più stretto tra il paradigma attuale e la natura: gran parte del loro lavoro, specialmente in un primo momento, si esaurisce nel tentativo di rendere maggiormente chiari alcuni aspetti del paradigma. È come se l’insieme dei termini e delle teorie, ormai esplicitamente accettato, ponesse una sfida alla comunità: ci possono essere, infatti, molte aree in cui un paradigma è presupposto, ma, di fatto, non è applicato. Allora l’abilità dello scienziato starà nel trovare un legame tra la realtà e le leggi teoriche che guidano le sue osservazioni. Sono tre, quindi, le classi di problemi che “lo scienziato normale” si trova ad affrontare: “la determinazione dei fatti rilevanti, il confronto dei fatti con la teoria e l’articolazione della teoria” (Kuhn 1962, p. 54). Colui che svolge una ricerca nell’ambito di un paradigma predefinito, non assomiglia affatto ad un esploratore o a un inventore di nuove leggi, capaci di mostrare previsioni inaspettate: “La sua sfida non è svelare ciò che non è noto, ma ottenere ciò che è noto” (Kuhn 1963, p. 23), accrescendo la precisione con cui un paradigma può essere utilizzato. In questo modo, però, non si spiega l’entusiasmo che gli scienziati mettono nella loro ricerca “normale”. Che cosa mantiene vivo l’interesse necessario per portare fino in fondo uno studio? Secondo Kuhn, il fascino dei problemi, affrontati nella “scienza normale”, non sta tanto in ciò che ci si aspetta il successo possa svelare, quanto nella difficoltà stessa di ottenere il successo: “Piuttosto che assomigliare a un’esplorazione, la ricerca normale sembra essere simile allo sforzo di mettere insieme un cubo cinese la cui sagoma iniziale è conosciuta già dall’inizio” (Kuhn 1963, p. 23). Sebbene il risultato finale del lavoro sia già noto, la via giusta per arrivare ad esso resta sconosciuta:
Portare un problema della ricerca normale alla sua conclusione equivale ad ottenere ciò che si è anticipato in un modo nuovo, e ciò richiede la soluzione di tutta una serie di complessi rompicapi strumentali, concettuali e matematici. Colui che riesce nell’impresa si dimostra un
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esperto solutore di rompicapi, e la sfida del rompicapo è una parte importante delle ragioni che di solito lo spingono avanti (Kuhn 1962, p. 57).
Lo scienziato è come un giocatore di scacchi: il paradigma acquisito gli fornisce le regole del gioco, mostra i pezzi necessari al suo svolgimento e indica le caratteristiche del risultato richiesto. Lo scopo di chi decide di giocare sarà quello di manipolare i pezzi a disposizione, senza violare le regole; un possibile fallimento dimostrerebbe una mancanza di abilità. “I rompicapo - scrive Kuhn - sono [...] quella speciale categoria di problemi che possono servire a mettere alla prova l’ingegnosità e l’abilità nel risolverli” (Kuhn 1962, p. 58). Il primo criterio che definisce un rompicapo è la certezza che esista una soluzione; proprio questa caratteristica permette a Kuhn di individuare una profonda analogia tra i rompicapo e i problemi della scienza normale. Infatti, le uniche questioni che una comunità riconosce come scientifiche sono quelle ritenute, in linea di principio, risolvibili: “Altri problemi, compresi alcuni che erano stati usuali in periodi anteriori, vengono respinti come metafisici, come appartenenti ad un’altra disciplina, o talvolta semplicemente come troppo problematici per meritare che si sciupi del tempo attorno ad essi” (Kuhn 1962, p. 58). Il secondo carattere, invece, che identifica un rompicapo è la presenza costante di regole: non solo le questioni proposte devono avere una soluzione esplicita, ma sono anche necessarie delle regole che delimitino le soluzioni accettabili. Senza regole non si può giocare. Lo scienziato, quindi, impegnato nella “ricerca normale”, non potrà mettere in questione le leggi fornite dal paradigma, perché senza quelle, non ci sarebbe stato nessun rompicapo da risolvere, la sua stessa attività non sarebbe mai cominciata:
Coloro che praticano una disciplina scientifica matura sono profondamente vincolati a un modo di guardare e di investigare la natura basato su un paradigma. Il paradigma dice loro i generi di entità di cui l’universo è popolato e il modo in cui i membri di quella popolazione si comportano; li informa poi sulle domande che potrebbero legittimamente venir poste riguardo la natura e sulle tecniche cui è costretto a ricorrere nel tentativo di fornirvi delle risposte (Kuhn 1963, p. 19).
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Lo scienziato può rivolgere la sua attenzione verso determinati problemi, soltanto perché vive nel contesto di uno specifico paradigma. Egli non potrebbe mai porre certe domande, né potrebbe elaborare certe soluzioni se non fosse profondamente vincolato ad un particolare modo di vedere il mondo. I rompicapo, quindi i problemi che l’esperto si trova ad affrontare, hanno un’unica soluzione, legata all’uso di determinate regole; non ha senso immaginare delle alternative o delle sorprese finali. Secondo Kuhn, sono molti i motivi per cui un uomo possa essere attratto dalla scienza: tra questi c’è il desiderio di essere utile, la speranza di trovare sempre nuove soluzioni, mettendo alla prova conoscenze stabilite; tutto questo, però, non riguarda “l’individuo impegnato in un problema della ricerca normale” (Kuhn 1962, p. 59). Egli, infatti, è guidato soprattutto dalla volontà di risolvere un problema prima che lo faccia qualcun altro, convinto che la sua particolare ingegnosità lo renderà famoso e stimato all’interno della comunità. Lo scienziato sembra conoscere, prima ancora che il suo progetto di ricerca abbia inizio, tutti i dettagli che il suo studio metterà in evidenza. Se il risultato arriva subito, non ci saranno particolari problemi; in caso contrario, egli sarà costretto a lottare con l’apparato strumentale e con tutti i mezzi messi a disposizione dal paradigma, finché il modello, da lui inizialmente previsto, non arriverà a conformarsi con la realtà naturale osservata. In questo consiste il dogmatismo della “scienza normale” di cui parla Kuhn: “In uno sviluppo scientifico maturo il preconcetto e la resistenza sembrano essere la regola, piuttosto che l’eccezione. Non solo: in circostanze normali essi caratterizzano la ricerca migliore e più creativa, come anche la semplice routine” (Kuhn 1963, p. 5). Le teorie, le convinzioni sostenute prima della ricerca sono spesso una condizione necessaria allo sviluppo scientifico. Il dogmatismo ha quindi i suoi vantaggi:
La natura è immensamente troppo complessa per essere esplorata a caso, anche in maniera approssimativa. Qualcosa deve dire allo scienziato dove guardare e che cosa cercare, e quel qualcosa, sebbene possa non durare oltre la sua generazione, è il paradigma che la sua educazione da scienziato gli ha fornito (Kuhn 1963, p. 24).
Senza un paradigma che lo guida, lo scienziato sarebbe perso e non saprebbe neanche verso quali rompicapo impegnare la sua ricerca.
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Ovviamente, specifica Kuhn, quest’immagine della scienza come risolutrice di rompicapo non può essere completa; anche se, nella ricerca normale, l’esperto cessa di essere un esploratore, egli scopre sempre nuovi e inaspettati generi di fenomeni: “Sebbene lo scienziato non lotti per inventare nuovi generi di teorie fondamentali, tali teorie sono emerse ripetutamente dalla continua pratica della ricerca” (Kuhn 1963, p. 25). Gli insuccessi, nell’attività di risoluzione di rompicapo, sono essenziali; infatti, se ogni problema venisse sempre risolto, lo sviluppo scientifico non sarebbe mai segnato da innovazioni significative. La pratica della scienza normale, invece, non sempre infallibile, può condurre al riconoscimento di un’anomalia: lo scienziato, infatti, conosce con assoluta precisione il risultato della sua ricerca e se qualcosa non va secondo le sue previsioni, immediatamente si rende conto di trovarsi di fronte ad un caso anomalo. Un simile riconoscimento costituisce un prerequisito fondamentale per quasi tutte le innovazioni: “Nelle discipline scientifiche mature le novità inaspettate vengono scoperte principalmente dopo che qualcosa è andato storto” (Kuhn 1963, p. 28). Spesso la scoperta per mezzo di un’anomalia mette in dubbio tecniche e credenze consolidate da tempo e a volte, nonostante i numerosi tentativi fatti dagli scienziati per salvare il paradigma in vigore, la comunità scientifica si trova coinvolta in un difficile periodo di “crisi”. Se la “scienza normale” non riesce a risolvere l’anomalia, progressivamente le teorie e gli strumenti scientifici si riveleranno sempre più inutili, quel mondo, in cui i professionisti della scienza sono cresciuti, comincerà a crollare, insieme ad ogni scontata certezza. Dopo aver chiarito alcuni passaggi fondamentali, riguardanti la fase matura dello sviluppo scientifico, emergono alcune difficoltà interpretative attorno al concetto di paradigma. Ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche il termine sembra assumere significati sempre diversi, generando una certa ambiguità3. Per questo Kuhn, nel “Poscritto del 1969”, fa delle precisazioni, distinguendo i diversi sensi in cui il concetto di paradigma deve essere inteso. Innanzitutto, con l’espressione “matrice disciplinare” (disciplinary matrix) Kuhn intende tutti gli elementi condivisi dalla comunità di ricercatori (credenze, strumenti, tecniche): “matrice” perché si tratta di elementi ordinati di vario genere; “disciplinare” 3
Scrive Kuhn: “Volgiamoci ora ai paradigmi e chiediamoci che cosa possono essere. Il mio testo originale non presenta nessuna questione più oscura o importante di questa” (Kuhn 1969, p. 219).
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poiché si riferisce a tutto ciò che possiedono in comune gli specialisti di una determinata disciplina. Tutti quegli oggetti che, ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, costituivano l’insieme delle credenze condivise da una comunità, gli argomenti d’interesse di un gruppo entrano ora a far parte della “matrice disciplinare”. Più precisamente Kuhn parla di quattro componenti principali: le “generalizzazioni simboliche” (symbolic generalizations), i “modelli” (models), i “valori” (values) e gli “esemplari” (exemplars). Le prime “sono quelle espressioni utilizzate senza problemi dal gruppo, che possono essere facilmente poste in una certa forma logica” (Kuhn 1977, p. 326): si tratta delle componenti formali della matrice disciplinare. Come l’espressione f = ma, tutte le generalizzazioni simboliche “funzionano in parte come leggi ma in parte anche come definizioni di alcuni dei simboli che vi compaiono” (Kuhn 1969, p. 221); tali formule hanno un’importanza fondamentale, poiché determinano, nel gruppo, una possibile via d’accesso alla logica e alla matematica. I modelli, invece, forniscono alla comunità dei professionisti determinate analogie e aiutano lo scienziato a delineare le caratteristiche del mondo circostante; infatti, in base a questi, il gruppo avrà ben chiaro tutto ciò che può essere accettato come spiegazione e soluzione di rompicapo. Nella “matrice disciplinare” sono compresi anche i valori, come ad esempio la semplicità, l’accuratezza delle previsioni, la coerenza delle teorie scientifiche, la precisione quantitativa: “Di solito questi vengono condivisi da comunità differenti molto più largamente di quanto non lo siano le generalizzazioni simboliche o i modelli” (Kuhn 1969, p. 223). La condivisione dei valori costituisce un essenziale elemento di coesione tra i membri di un gruppo, ma anche un forte motivo di divisioni; soprattutto nei momenti di “crisi” l’importanza data a un valore piuttosto che a un altro diventa fondamentale. Criteri di valutazione diversi, infatti, impongono scelte differenti e soluzioni spesso diametralmente opposte. Infine, gli esemplari costituiscono allo stesso tempo un quarto elemento della “matrice disciplinare” e il secondo significato del termine paradigma. Si tratta delle concrete soluzioni di problemi che gli studenti incontrano fin dall’inizio della loro educazione scientifica, sia nei manuali che nei laboratori. Secondo Kuhn, le differenze tra insiemi di esemplari determinano, più di qualsiasi altra
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componente della “matrice disciplinare”, la struttura comunitaria della scienza; per questo il concetto di “paradigma come esempio condiviso dal gruppo” (Kuhn 1969, p. 226) diventa centrale nell’epistemologia kuhniana ed esige una maggiore attenzione. Il ruolo degli esemplari si manifesta chiaramente se si considera il lungo percorso di formazione dello scienziato:
Gli studenti regolarmente riferiscono di aver letto un capitolo del loro manuale, di averlo capito perfettamente, ma non di meno di aver incontrato difficoltà nel risolvere parecchi dei problemi elencati alla fine del capitolo. Solitamente queste difficoltà svaniscono nello stesso modo. Lo studente scopre, con o senza l’aiuto dell’insegnante, un modo di vedere il suo problema come simile a un problema che ha già incontrato. Avendo vista la rassomiglianza e affermata l’analogia tra due o più problemi distinti, è in grado di correlare tra loro i simboli e di applicarli alla natura nei modi che si sono dimostrati efficaci precedentemente (Kuhn 1969, p. 228).
In questo modo, lo studioso assimila progressivamente un modo di vedere il mondo confermato dal tempo e riconosciuto dall’intera comunità. Nel corso della “scienza normale” gli scienziati risolvono molti rompicapo prendendo a modello precedenti soluzioni e facendo sempre meno riferimento alle generalizzazioni simboliche. Nel quinto capitolo de La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Kuhn sottolinea la priorità dei paradigmi sulle regole di corrispondenza: il paradigma non guida la ricerca scientifica attraverso delle regole esplicite, né tanto meno “la determinazione dei paradigmi in comune equivale alla determinazione di regole comuni” (Kuhn 1962, p. 65). Secondo Kuhn, quindi, è necessario distinguere il paradigma dall’insieme di leggi che guidano l’attività degli scienziati; infatti, condividere un particolare modo di vedere il mondo con altri individui è molto più che agire, applicando meccanicamente le stesse teorie alla realtà.4 Questa tesi viene ampliamente dimostrata, facendo innanzitutto riferimento alle difficoltà che incontrano gli storici della scienza, quando cercano di definire, in maniera esplicita, le regole che guidano gli esperti nelle loro ricerche:
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“I paradigmi – scrive Kuhn – possono esser anteriori, più vincolanti e più completi di ogni insieme di regole di ricerca che si possa inequivocabilmente astrarre da essi (Kuhn 1962, p. 68).
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Lo storico deve confrontare i paradigmi della comunità, tra di loro e con il modo in cui vengono presentati i risultati della ricerca. Il suo scopo è di scoprire quali elementi isolabili, espliciti o impliciti, i membri di quella comunità possono avere astratto dai loro paradigmi più globali per usarli come regole della loro ricerca. Chiunque abbia tentato di descrivere o analizzare lo sviluppo di una particolare tradizione scientifica sarà necessariamente andato alla ricerca di questo tipo di principi [...]. Ma se la sua esperienza sarà stata del tutto uguale alla mia, egli avrà trovato che la ricerca di regole è più difficile e dà minori soddisfazioni della ricerca dei paradigmi (Kuhn 1962, pp. 64-65).
Da ciò si può concludere che gli scienziati possono accordarsi sull’identificazione di un paradigma, senza doverne necessariamente condividere la stessa interpretazione. Un’altra ragione, a sostegno della tesi kuhniana, sta nella natura dell’educazione scientifica. Gli studenti, infatti, non imparano mai termini, concetti o teorie in astratto, “al contrario, questi strumenti intellettuali vengono incontrati fin dal principio in un’unità storicamente e psicologicamente anteriore, che li fa apparire insieme con e attraverso le loro applicazioni” (Kuhn 1962, p. 69). Una nuova legge teorica è sempre resa nota insieme alle sue applicazioni pratiche: queste non possono esser considerate semplicemente delle superflue decorazioni o delle documentazioni esplicative; ma il processo di apprendimento di una teoria dipende dalle sue applicazioni esemplari e comprende tutti gli esercizi, sia teorici che pratici, nei quali lo studente è impegnato fin dai primi anni della sua formazione professionale:
Ad esempio, lo studente di dinamica newtoniana scopre il significato dei termini come ‘forza’, ‘massa’, ‘spazio’ e ‘tempo’ non tanto sulla base di definizioni incomplete, sebbene talvolta utili, contenute nel suo manuale, ma osservando e partecipando all’applicazione di questi concetti nella soluzione dei problemi (Kuhn 1962, p. 69).
Infine, un’ulteriore dimostrazione della priorità dei paradigmi sulle regole di corrispondenza emerge, ancora una volta, dalla storia della scienza. Secondo Kuhn, infatti, la scienza normale può andare avanti senza un particolare insieme di regole esplicite, finché la comunità dei ricercatori accetta, senza discutere, le soluzioni dei problemi proposte da un determinato paradigma. Ma ogni volta che tali soluzioni vengono sentite come incerte, il sistema di regole, da tempo assodato, entra in crisi:
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Il periodo preparadigmatico in particolare è regolarmente contrassegnato da frequenti e profonde discussioni circa la legittimità di certi metodi, problemi e modelli di soluzione, sebbene tali discussioni servano piuttosto a definire scuole che a produrre un accordo [...]. Dibattiti come questo non si esauriscono una volta per sempre con la comparsa di un paradigma. Sebbene siano quasi inesistenti durante un periodo di scienza normale, essi hanno regolarmente luogo poco prima e durante le rivoluzioni scientifiche, ossia in quei periodi in cui, dapprima, i paradigmi sono sottoposti ad attacchi e in seguito soggetti a modificazioni (Kuhn 1962, pp. 7071).
Solo nei periodi di “crisi”, quando ad esempio un’anomalia finisce per sconvolgere le aspettative di un ricercatore, le regole alla base dell’impresa scientifica vengono riconsiderate e rivalutate. Abbiamo già detto che, attraverso queste argomentazioni, Kuhn intende dimostrare come l’impresa scientifica non consista semplicemente nella meccanica applicazione di leggi teoriche; se così fosse, infatti, non ci sarebbe alcun bisogno degli esemplari, o meglio, questi non avrebbero un ruolo talmente importante all’interno di un particolare contesto paradigmatico. Il punto fondamentale è capire come lo scienziato rimanga vincolato ad una tradizione di ricerca, in mancanza di un corpo completo di regole. In che senso possiamo parlare di esemplari, di similarità e di analogie tra casi diversi? Per trattare tale questione è necessario comprendere l’implicita prospettiva filosofica su cui poggiano i principali concetti, presenti ne La struttura. Lo stesso Kuhn ha sottolineato che le difficoltà legate ai significati del termine “paradigma”, trovano nel Wittgenstein dell’ultimo periodo, delle “risposte parziali” (Kuhn 1962, p. 67), anche se in un contesto differente. La teoria wittgensteiniana del linguaggio, sviluppata nelle Ricerche filosofiche, può, sotto alcuni aspetti, essere considerata a fondamento della nozione stessa di paradigma. Nelle Ricerche filosofiche, infatti, viene abbandonata l’idea che esista una struttura logica sottostante al mondo, a cui la nostra mente debba aderire, o viceversa. Le proposizioni ci appaiono valide semplicemente a causa dei processi della nostra educazione e della nostra istruzione. È attraverso l’uso del linguaggio che noi riusciamo a riconoscere, tacitamente, quali frasi siano ben formate e significanti, quali abbiano una struttura logica appropriata e quali siano invece
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incoerenti o sintatticamente scorrette. Da ciò, ricaviamo la tesi centrale delle Philosophische Untersuchungen, secondo cui il significato di un termine o di una proposizione consiste nell’uso entro un particolare gioco linguistico e non è possibile stabilire a priori regole invariabili per quest’uso. Il concetto di gioco linguistico, nella filosofia dell’ultimo Wittgenstein, si avvicina molto a quello kuhniano di paradigma: una frase ha senso, è logicamente comprensibile solo all’interno di un preciso contesto linguistico; allo stesso modo, possiamo dire che determinati termini teorici o leggi scientifiche assumono un significato solo per una specifica comunità di ricercatori, i quali seguono, nei loro studi, le indicazioni di particolari manuali e svolgono le loro attività, basandosi sul paradigma all’interno del quale sono cresciti professionalmente. Per Wittgenstein, ed è questo l’aspetto che Kuhn sottolinea, imparare un termine o un’espressione significa entrare in un gioco linguistico: solo utilizzando quella particolare parola in quello specifico contesto, riusciremo davvero a comprenderne il significato, senza bisogno di definizioni esplicite. “Che cosa dobbiamo sapere - si chiede Wittgenstein - per potere applicare termini come ‘sedia’, ‘foglia’, o ‘gioco’ in maniera inequivocabile e senza provocare discussioni?”5 (Kuhn 1962, p. 67). Per rispondere a tale domanda dobbiamo ricorrere al concetto di “somiglianza di famiglia” (Kuhn 1962, p. 67):
Giochi, sedie, foglie sono famiglie naturali, ciascuna delle quali è costituita da una rete di rassomiglianze che si incrociano e coincidono tra loro in molti punti. L’esistenza di una tale rete di rassomiglianze è sufficiente a spiegare il nostro successo nell’identificare l’oggetto o l’attività corrispondente (Kuhn 1962, p. 68).
L’uso di un termine richiede semplicemente che fra gli oggetti osservati vi siano delle caratteristiche in comune, facilmente riconoscibili. Allo stesso modo i diversi problemi e tecniche di ricerca, all’interno di una tradizione di “scienza normale”, non possiedono in comune “qualche insieme di regole e di assunzioni, esplicite o comunque completamente scopribili” (Kuhn 1962, p. 68), ma tra loro sussistono dei rapporti di somiglianza. In base a tali relazioni si svolge il lavoro degli scienziati; questi infatti:
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La citazione di Kuhn è tratta da Wittgenstein 1953, pp. 31-36.
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Lavorano sulla base di modelli acquisiti attraverso l’educazione e attraverso la conseguente assimilazione della letteratura scientifica, spesso senza minimamente conoscere e senza trovarsi nella necessità di conoscere, quali caratteristiche hanno conferito a questi modelli lo status di paradigmi della comunità. E poiché questo è il loro abituale comportamento, essi non hanno bisogno di un insieme completo di regole (Kuhn 1962, p. 68).
Il fatto che i ricercatori non si chiedano, durante il loro lavoro di routine, che cosa renda legittimo un problema o una soluzione, farebbe pensare che essi conoscano già la risposta, o semplicemente “né la domanda, né la risposta, sono considerate rilevanti per la loro ricerca” (Kuhn 1962, p. 68). Gli esemplari costituiscono il fondamento filosofico decisivo dell’epistemologia kuhniana; a partire da questo argomento, infatti, vengono sviluppate ulteriori problematiche. Innanzitutto bisogna sottolineare il fatto che, davanti a un giudizio di somiglianza, diventa necessario precisare il punto di vista o il criterio rispetto al quale il giudizio è stato compiuto. Tale osservazione solleva una domanda che, secondo Kuhn, è sbagliato porre: non esiste, infatti, un punto di vista neutrale, fissato una volta per tutte, capace di individuare, in modo non problematico, gli aspetti simili in oggetti diversi:
Simile rispetto a che? Questa è proprio la domanda cui non si deve rispondere, poiché una risposta ci fornirebbe immediatamente le regole di corrispondenza. L’acquisizione di casi esemplari non insegnerebbe allo studente nulla che tali regole, nella forma di criteri di somiglianza, non potrebbero fornire egualmente bene. Risolvere problemi sarebbe quindi una semplice applicazione di regole (Kuhn 1977, p. 337).
Abbiamo già osservato, però, che non è questo il modo in cui Kuhn intende il lavoro degli scienziati: il loro criterio di base rimane, infatti, la percezione di una somiglianza “logicamente e psicologicamente precedente a tutti i numerosi criteri con i quali l’identificazione [...] è stata fatta” (Kuhn 1977, p. 377). Per rendere ulteriormente chiaro il suo punto di vista, Kuhn fa un esempio, attraverso il quale risulta ancor più evidente il legame con Wittgenstein: viene preso in esame il caso di un bambino che impara per la prima volta a distinguere cigni, oche ed anatre,
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passeggiando con il padre in un giardino zoologico (cfr. Kuhn 1977, cap. XII). Il primo metodo d’insegnamento è quello dell’ostensione: l’adulto, ad esempio, mostra al figlio un cigno. Subito, il bambino è portato ad estendere il termine appreso anche agli altri tipi di volatili, ma il padre, attraverso correzioni e rinforzi, lo induce a compiere le giuste distinzioni. A questo punto, Kuhn scrive:
Il bambino sa cosa significano le parole «oca», «anatra» e «cigno»? Dal punto di vista dell’utilità sì, poiché può applicare queste etichette in modo non univoco, senza fatica, assumendo decisioni di comportamento dalla loro applicazione sia direttamente, sia per mezzo di enunciati generali. [...] Egli ha imparato ad applicare etichette alla natura senza nulla come definizioni o regole di corrispondenza (Kuhn 1977, p. 342).
L’identificazione e la conoscenza degli oggetti avvengono attraverso una percezione primitiva delle somiglianze e delle differenze; tale percezione permette a chi osserva di imparare qualcosa sul mondo naturale. Le regole esplicite, le definizioni vengono dopo i giudizi di similarità, infatti nascono dalla primitiva capacità umana di cogliere aspetti comuni fra oggetti diversi, mediante un opportuno addestramento linguistico. Questo discorso diventa centrale nell’epistemologia kuhniana, secondo la quale è impossibile definire un insieme di criteri, valido sempre, anche per le applicazioni future. Sia il filosofo che lo storico della scienza possono individuare le regole che guidano l’attività degli esperti, all’interno di una comunità, ma devono farlo soltanto in relazione a quella particolare comunità, situata in un preciso contesto storico e sociale. Le leggi teoriche, legate ad un particolare modo di vedere il mondo, possono essere dedotte soltanto dall’effettiva prassi conoscitiva, senza escludere mai la possibilità che in futuro esse assumano un nuovo significato. A buon diritto, quindi, è stato sostenuto che Kuhn ha fatto della filosofia wittgensteiniana del linguaggio il fondamento filosofico della sua epistemologia e, più in particolare, del suo strumentalismo (cfr. a questo proposito soprattutto Buzzoni, 1986, per es. pp. 28-30; cfr. anche più recentemente, Buzzoni 2005 e 2010). Secondo Wittgenstein, infatti, nel processo conoscitivo di un termine, gli esempi non rivestono affatto un ruolo secondario, didattico o illustrativo, ma hanno una funzione essenziale e costitutiva. Ogni volta, di fronte a un esempio diverso, è indispensabile prendere una nuova decisione: ogni nuovo uso di parole si sottrae al tentativo di subordinarlo a regole
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fisse; di conseguenza il significato delle stesse espressioni, utilizzate in contesti differenti, può cambiare. Allo stesso modo, per Kuhn, non solo teorie e concetti scientifici desumono il loro significato dall’uso e dalle applicazioni pratiche che se ne fanno all’interno di un gruppo specializzato, ma è anche impossibile stabilire, in maniera definitiva, le regole in base alle quali le leggi teoriche vengono applicate al mondo. Da qui discende la tesi kuhniana della natura strumentale di teorie e termini scientifici: questi sono come degli strumenti che, essendo definiti dalla funzione che svolgono in un determinato contesto, vengono appresi in base al loro utilizzo pratico. Conoscere una legge significa saper padroneggiare una tecnica, e quindi sapere in che modo una teoria possa essere applicata alla realtà. Gli esemplari servono proprio a questo: orientare gli scienziati nel corso delle loro ricerche, in modo che gruppi diversi di esperti possano riconoscere la loro appartenenza a “mondi” differenti. I paradigmi, che segnano i confini di questi “mondi”, sono qualcosa di più globale delle teorie scientifiche, qualcosa in cui queste possono essere incluse e da cui possono venir astratte. Inoltre, il concetto di teoria non comprende l’aspetto sociologico del paradigma, secondo il quale uomini diversi si accordano attorno a un insieme d’impegni condivisi, diventando così membri di una stessa comunità. Abbiamo già osservato come, a causa delle accuse di ambiguità nell’uso del termine paradigma, Kuhn ne abbia precisato accezioni e componenti. Tali osservazioni, però, se intese alla lettera, non solo non chiariscono la nozione originaria di paradigma, ma rendono addirittura ancora più difficile la sua comprensione. Secondo Kuhn, infatti, il significato dei paradigmi come esemplari è quello filosoficamente più profondo, mentre l’altro significato fondamentale (il paradigma come matrice disciplinare) è definito sociologico. Poi, però, ritroviamo gli esemplari tra gli elementi della matrice disciplinare, e quindi sembra che anch’essi debbano essere intesi in senso sociologico. Invece di chiarire la nozione di paradigma, Kuhn vi aggiunge un altro elemento di ambiguità; non si capisce, infatti, se i concetti introdotti debbano essere intesi in senso sociologico o epistemologico. L’interpretazione degli esemplari kuhniani, dal punto di vista della dottrina wittgensteiniana del significato, offre una possibile risposta a questi problemi (cfr. Buzzoni 1986, pp. 51-53). I paradigmi, infatti, possiedono nello stesso tempo, una
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dimensione conoscitiva, poiché rendono possibile la ricerca scientifica, e una dimensione empirico-sociologica, in quanto il loro significato dipende dagli usi dei termini e delle teorie, intrinsecamente connessi a comportamenti osservabili. Le generalizzazioni simboliche, i modelli e i valori, ovvero le componenti della matrice disciplinare, non avrebbero alcun senso determinato se fossero intese separatamente dagli esemplari. Qui sta dunque la possibile spiegazione del procedimento kuhniano, che prima distingue un significato del termine paradigma, quello di matrice disciplinare, e poi assume una componente di questo come significato a sé stante, filosoficamente «più profondo». Kuhn cerca, infatti, di connettere strettamente fra loro la dimensione filosofica e quella sociologica del paradigma, spiegando quest’ultima con la prima: gli elementi della matrice disciplinare sarebbero pure astrazioni, irrilevanti nella ricerca scientifica, se non presupponessero il ruolo degli esemplari, il significato dei quali è strettamente connesso alla filosofia del linguaggio dell’ultimo Wittgenstein. Ora, la presenza delle teorie di Wittgenstein nel pensiero kuhniano ci riporta inevitabilmente alla conoscenza tacita di Polanyi: l’esortazione wittgensteiniana di tacere su tutto ciò di cui non possiamo parlare è stata tradotta dall’autore di Personal Knowledge nella teoria secondo la quale parte del processo di denominazione è non formalizzabile. Ma indubbiamente l’aspetto che più avvicina Polanyi all’ultimo Wittgenstein è l’idea che un termine acquisti un significato soltanto all’interno di una precisa tradizione culturale; come abbiamo già sottolineato nella parte precedente del lavoro, la tradizione gioca un ruolo centrale nel processo d’apprendimento del singolo individuo. Venire a conoscenza di un nuovo lessico o di una nuova teoria scientifica, per Polanyi come per Kuhn, significa, in termini wittgensteiniani, entrare in un particolare gioco linguistico. Tuttavia, mentre nell’ottica kuhniana la teoria dei giochi linguistici viene utilizzata al fine di esemplificare il concetto di paradigma come esemplare, ovvero come insieme di strumenti, teorie e valori modificabili nel tempo attraverso le rivoluzioni scientifiche, in Polanyi l’idea di un linguaggio strettamente connesso alla pratica linguistica determina, in un certo senso, l’allargamento della sfera razionale. I confini della ragione si aprono ad una dimensione tacita del linguaggio, una dimensione strettamente connessa a quello che è il mistero della persona umana. Attraverso il riferimento alla persona, quindi, Polanyi va oltre Wittgenstein, prendendo
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così una direzione diversa da quella kuhniana, che, come vedremo, si sviluppa attorno al concetto di incommensurabilità.
2. Il concetto d’incommensurabilità e la sua evoluzione a partire da La struttura delle rivoluzioni scientifiche
Il concetto di paradigma e la nozione di “scienza normale” ci conducono ora ad affrontare, più da vicino, i problemi legati alle rivoluzioni scientifiche. Attraverso l’esperienza di “conversione scientifica” descritta da Kuhn ne La struttura e negli ultimi suoi articoli, vorrei sottolineare come il problema dell’incommensurabilità rimanga sempre al centro di tutto il pensiero kuhniano. Da una simile conclusione deriveranno poi una serie di riflessioni, che ci permetteranno di riconsiderare la filosofia polanyiana sotto una nuova luce. Come abbiamo già dimostrato, le principali attività, che caratterizzano lo sviluppo cumulativo della “scienza normale”, non mirano a far emergere le novità, ma al contrario tendono a sopprimerle. La volontà di racchiudere la natura entro i limiti di un particolare paradigma costituisce, però, solo un aspetto dello sviluppo scientifico: la stessa “scienza normale”, intesa come risolutrice di rompicapo, ha in sé dei meccanismi, capaci di portare alla luce scoperte innovative. Scrive Kuhn: “Non tutte le teorie sono paradigmatiche. Sia nel periodo che precede la formulazione dei paradigmi, che durante le crisi [...] gli scienziati sono soliti sviluppare molte teorie congetturali e inarticolate, che possono esse stesse indicare la via della scoperta” (Kuhn 1962, p. 85). Le novità sono, il più delle volte, precedute dalla presa di coscienza di un’anomalia; ma il riconoscimento che qualcosa, sul piano delle osservazioni, è andato storto, non è immediato e automatico. Per rendere ancora più chiaro il modo in cui emerge un’anomalia, durante il lavoro di routine degli scienziati, Kuhn propone come esempio l’interessante esperimento psicologico, fatto da Bruner e Postman: i soggetti coinvolti dovevano identificare una serie di carte da gioco, mostrate per breve tempo e in maniera controllata. Molte carte erano normali, ma alcune presentavano delle imperfezioni. C’erano, ad esempio, un sei di picche rosso e un quattro di cuori nero:
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Il quattro di cuori nero poteva venire identificato come quattro di picche o come quattro di cuori. Senza avvertire minimamente una difficoltà, esso veniva fatto rientrare subito entro una delle categorie concettuali preparate dall’esperienza precedente. Non si potrebbe neppure dire che i soggetti avevano visto qualcosa di diverso da quello che identificavano (Kuhn 1962, p. 87).
Aumentando gradualmente il tempo d’esposizione delle carte anomali, però, gli individui cominciavano ad esitare e a mostrare coscienza dell’anomalia: la confusione continuava a crescere, finché “la maggior parte dei soggetti, talvolta abbastanza all’improvviso, dava l’identificazione corretta senza esitazioni” (Kuhn 1962, p. 86). Alcuni, però, non furono mai in grado di compiere il necessario riadattamento delle categorie. Nell’ambito della scienza, questi ultimi sono tutti gli uomini che non intendono abbandonare il vecchio paradigma, accettandone uno nuovo. All’inizio, di fronte a un’anomalia, come emerge anche dall’esperimento psicologico, gli scienziati sono soliti escogitare “numerose articolazioni e modificazioni ad hoc della loro teoria allo scopo di eliminare ogni conflitto manifesto” (Kuhn 1962, p. 104). Tali rimedi risultano efficaci finché le anomalie non provocano “qualcosa di più che un’irritazione generale” (Kuhn 1962, p. 104); esse contribuiscono, infatti, a far emergere una nuova immagine della scienza, legata a un modo diverso di guardare il mondo. Il periodo di “crisi” e di confusione generale precede sempre l’affermazione di una teoria innovativa, che raggiunge il suo status di paradigma, quando il vecchio insieme di leggi e metodi scientifici viene dichiarato invalido: “La decisione di abbandonare un paradigma è sempre al tempo stesso la decisione di accettarne un altro, ed il giudizio che porta a quella decisione implica un confronto sia dei paradigmi con la natura, sia di un paradigma con l’altro” (Kuhn 1962, p. 104). Non basta considerare il rapporto tra teoria e mondo; una nuova legge scientifica, infatti, viene accettata soprattutto perché considerata migliore rispetto alle precedenti. Il punto, qui, è capire come fanno gli scienziati ad accettare le novità, se hanno difficoltà ad abbandonare i paradigmi quando si trovano di fronte a delle anomalie. In un primo momento, la decisione di negare la validità di un paradigma, senza conoscere con esattezza il suo possibile sostituto, equivale ad abbandonare la scienza: “Come gli artisti, gli scienziati creativi debbono di tanto in tanto essere capaci di vivere in modo
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squinternato – scrive Kuhn6 – altrove ho descritto questa necessità come «la tensione indispensabile» implicita nella ricerca scientifica” (Kuhn 1962, p. 105). La tensione di cui parla Kuhn è quella tra il «pensiero convergente» della scienza normale e quello «divergente» dello scienziato, che “deve permettere alla sua immaginazione di giocare con le più improbabili possibilità” (Kuhn 1977, p. 245). La flessibilità e l’apertura mentale sono importanti, ma non devono essere enfatizzate, quando si considera la ricerca scientifica nella sua globalità. Non bisogna dimenticare, infatti, che le rivoluzioni costituiscono solo uno dei due aspetti fondamentali del progresso scientifico, ciò che le precede, permettendole, è l’attività cumulativa della ricerca normale:
Le nuove teorie [...] non nascono de novo. Al contrario esse emergono dentro una matrice di vecchie credenze [...]. Il praticante di una scienza matura continua a lavorare nei settori per i quali i paradigmi derivati dalla sua educazione sembrano adeguati [...] e spera - se è sufficientemente addestrato a riconoscere la natura del suo settore - di poter affrontare un giorno un problema nel quale le anticipazioni non funzionano. [...] Nelle scienze mature il preludio a molte scoperte ed a tutte le nuove teorie non è l’ignoranza, ma il riconoscimento con le conoscenze e le idee nuove che qualcosa non va bene (Kuhn 1977, p. 255).
Se l’esperto non ha alcuna “fede” nel paradigma all’interno del quale è stato educato, il suo lavoro perde ogni senso e la stessa attività scientifica non progredisce. Lo scienziato, quindi, per essere un innovatore deve essere necessariamente “un tradizionalista cui piace giocare complicati giochi con regole prestabilite” (Kuhn 1977, p. 258). L’anomalia che finisce per suscitare una crisi, nell’ambito della ricerca normale, deve presentarsi, secondo Kuhn, come “qualcosa di più che un’anomalia pura e semplice” (Kuhn 1962, p. 108); il problema che arriva a sconvolgere le aspettative degli esperti non può configurarsi come un nuovo rompicapo della scienza normale, ma deve, per le ragioni più svariate, attirare l’attenzione degli scienziati con maggiore autorità, all’interno di un gruppo di professionisti.7 Da quel momento, il loro campo di ricerca 6
Qui Kuhn si riferisce ad una conferenza tenuta nel 1959: The Essential Tention: Tradition and Innovation in Scientific Research, contenuta in Kuhn 1977. 7 Credo che una frase di Einstein, citata da Kuhn, rispecchi pienamente le sensazioni di uno scienziato che vive un profondo periodo di crisi: “Fu come se ci fosse stato strappato via il terreno da sotto i piedi, senza
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non avrà più lo stesso significato che aveva prima, cambierà infatti “il punto focale dell’indagine scientifica” (Kuhn 1962, p. 109). Stando a una simile descrizione delle anomalie e delle crisi, sembrerebbe che lo scienziato, razionalmente, sia capace di riconoscere il momento in cui un paradigma debba essere abbandonato; si potrebbe pensare, in modo molto schematico, che dalle anomalie nascono i periodi di crisi e da questi emerge un nuovo paradigma, con la conseguente battaglia per la sua accettazione. In realtà, specifica Kuhn, la transizione verso un modo differente di vedere il mondo non si attua attraverso “un’articolazione o un’estensione del vecchio paradigma” (Kuhn 1962, p. 111). Si tratta piuttosto di “una ricostruzione del campo su nuove basi, una ricostruzione che modifica alcune delle generalizzazioni teoriche del campo” (Kuhn 1962, p. 111). Tale passaggio assomiglia a un cambiamento nella Gestalt visiva: “I segni sulla carta che dapprima erano visti come un uccello, sono ora visti come un’antilope, o viceversa” (Kuhn 1962, p. 112). Una volta accettato un nuovo paradigma, la percezione che lo scienziato ha del suo ambiente deve essere rieducata: in questo senso, si può dire che, in alcune situazioni considerate familiari, l’esperto “deve imparare a vedere una nuova Gestalt” (Kuhn 1962, p. 140). Molti esperimenti psicologici mirano ad illustrare la natura delle trasformazioni della percezione, dimostrando che il modo di vedere il colore o le dimensioni di un oggetto varia a seconda dell’educazione e dell’esperienza, possedute da un individuo. Per questo, secondo Kuhn, “la percezione stessa richiede qualcosa di simile ad un paradigma” (Kuhn 1962, p. 141): quello che uno vede dipende sia dall’oggetto che gli si trova di fronte, sia dalla precedente esperienza “visivoconcettuale” che egli ha assimilato, nel corso degli anni. Quando uno scienziato compie un cambiamento di paradigma è come se possedesse un paio di occhiali, montati con lenti invertenti: queste gli faranno vedere il mondo capovolto, provocando in lui una profonda crisi personale; all’inizio, infatti, il suo apparato percettivo funzionerà come era stato abituato a funzionare senza occhiali. Progressivamente l’individuo comincerà a trattare col suo nuovo mondo, finché tutti gli oggetti non verranno visti nella loro normalità: “Sia letteralmente che metaforicamente, l’uomo
che nessun altro stabile punto d’appoggio su cui poter costruire fosse in vista da qualche parte” (cfr. Einstein 1949, p. 45).
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che si è abituato alle lenti invertenti ha subito una trasformazione rivoluzionaria nella sua visione” (Kuhn 1962, p. 141). Il paragone con la Gestalt, però, riconosce Kuhn, può essere fuorviante: “Gli scienziati non vedono qualcosa come qualcos’altro; al contrario semplicemente lo vedono.[...] Inoltre, lo scienziato è privo della libertà, che il soggetto della Gestalt possiede, di muoversi avanti e indietro tra diversi modi di vedere” (Kuhn 1962, p. 112). L’individuo, sottoposto a un esperimento gestaltico, infatti, “sa che la sua percezione ha subito un’oscillazione” (Kuhn 1962, p. 142) ed è in grado di passare indifferentemente da una figura osservata all’altra. La sua attenzione non si rivolge tanto alle immagini, quanto alle linee tracciate sul foglio: egli può anche imparare a vedere queste linee, senza individuare alcuna figura particolare; in tal modo, potrà affermare che l’oggetto della sua percezione sono le linee, ma queste vengono viste alternativamente come un uccello e come un’antilope. Nell’impresa scientifica, invece, colui che esamina determinate situazioni sperimentali non può ricorrere “a nulla che sia al di sopra o al di là di ciò che vede coi propri occhi e coi propri strumenti” (Kuhn 1962, p. 143). Non c’è, in questo caso, un punto di riferimento neutrale, come le linee nell’esperimento gestaltico, che lo scienziato può riconoscere, quando prende in esame un particolare fenomeno naturale: “Il periodo durante il quale la luce era «talvolta un’onda, talvolta una particella», fu un periodo di crisi, un periodo in cui qualcosa non funzionava” (Kuhn 1962, p. 143). Le crisi, nel corso dello sviluppo scientifico, terminano con la presa di coscienza del fallimento di alcune teorie precedentemente sostenute e con l’emergere di un nuovo paradigma. Tra questi due momenti può trascorrere un considerevole periodo di tempo: in tal caso “gli storici possono afferrare almeno una pallida immagine di ciò che è la scienza straordinaria” (Kuhn 1962, p. 113). Quello che a noi interessa è capire a fondo la fase di transizione tra il periodo di confusione, legato alla presenza di continue anomalie nel corso delle ricerche scientifiche, e l’emergere di una nuova prospettiva, attraverso la quale il mondo è visto secondo categorie differenti rispetto al passato: “Quello che accade - scrive Kuhn - tra la prima sensazione di turbamento ed il riconoscimento di un’alternativa possibile deve essere stato in gran parte inconscio” (Kuhn 1962, p. 113). Per questo il
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trasferimento della fiducia da un paradigma all’altro può essere definito come “un’esperienza di conversione”:
Le anomalie e le crisi vengono risolte [...] in virtù di un evento relativamente improvviso e imprevisto, analogamente a ciò che avviene nel riorientamento gestaltico. Gli scienziati perciò parlano spesso di «un velo che casca dagli occhi» o di «un lampo» che «illumina» un rompicapo precedentemente oscuro, mostrando così i suoi elementi sotto una luce nuova che per la prima volta permette di giungere alla soluzione (Kuhn 1962, p. 152).
Questi “lampi d’intuizione” non possono essere semplicemente intesi come passaggi di un processo interpretativo; sebbene essi dipendano dalle esperienze fatte all’interno del vecchio paradigma, non è possibile stabilire alcun nesso logico tra tali “attimi d’illuminazione” geniale e la tradizione paradigmatica precedente. Si tratta di un salto, di un’interruzione che rompe la regolare attività cumulativa della “scienza normale”, mostrando un mondo nuovo e, sotto vari aspetti, incommensurabile rispetto a quello in cui lo scienziato è stato educato:
Proprio perché c’é un passaggio tra incommensurabili, il passaggio da un paradigma a uno opposto non può essere realizzato un passo alla volta, né imposto dalla logica o da un’esperienza neutrale. Come il riorientamento gestaltico, esso deve compiersi tutto in una volta (sebbene non necessariamente in un istante) oppure non si compirà affatto (Kuhn 1962, p. 182).
Non possiamo, quindi, spiegare la “conversione” ad un nuovo paradigma soltanto come un razionale cambiamento d’interpretazioni: l’affermazione secondo cui “Aristotele e Galileo, guardando pietre oscillanti, videro, il primo una caduta vincolata e il secondo un pendolo” (Kuhn 1962, p. 150) diventa problematica. Comunemente si è portati a dire che i due differirono nell’interpretazione di ciò che osservarono; una simile concezione, secondo Kuhn, “non può essere né completamente sbagliata, né un errore puro e semplice” (Kuhn 1962, p. 150). Bisogna riconoscere, infatti, che, sebbene il mondo non cambi per un mutamento di paradigma, lo scienziato si trova poi a lavorare in una realtà differente, caratterizzata da nuovi fenomeni. Ciò che cambia, però, non è l’interpretazione di dati particolari e stabiliti una volta per tutte,
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ma gli stessi oggetti, con i quali operano i professionisti, sono diversi: un pendolo non è una pietra che cade. Osservazioni e dati differenti presuppongono sempre paradigmi tra loro incommensurabili, in base a questi hanno poi inizio le attività interpretative della “scienza normale”. Soltanto in relazione ad un paradigma specifico, lo scienziato sa cos’è un dato, quali sono gli strumenti necessari per analizzarlo e i concetti utili alla sua interpretazione. Non si può pensare a un linguaggio descrittivo neutrale, che colga la realtà effettiva:
Le operazioni e le misurazioni che uno scienziato esegue in laboratorio non sono «il dato» dell’esperienza, ma piuttosto «ciò che viene rilevato con difficoltà». [...] Esse sono indicazioni concrete del contenuto di percezioni più elementari, e come tali vengono scelte dalla scienza normale per poterle esaminare in profondità soltanto perché si spera di poterle utilizzare per sviluppare ulteriormente un paradigma tradizionale. Le operazioni e le misurazioni sono determinate dal paradigma in maniera ancor più evidente di quanto lo sia l’esperienza immediata dalla quale in parte derivano (Kuhn 1962, pp. 155-156).
Mutare la visione del mondo e cambiare il proprio paradigma di riferimento significa iniziare a descrivere la realtà con un linguaggio nuovo, rispetto alla tradizione passata: Galileo e Aristotele parlavano linguaggi troppo diversi e di conseguenza si trovarono ad operare in “mondi” tra loro incommensurabili. Il passaggio ad un nuovo paradigma costituisce quella che Kuhn chiama una “rivoluzione scientifica”. Il termine “rivoluzione” ci porta a considerare il confronto diretto tra lo sviluppo scientifico e quello sociale, segnato da frequenti rivolgimenti politici. Questi, infatti, sono sempre introdotti da una sensazione crescente, avvertita solitamente da un particolare settore della società, “che le istituzioni esistenti hanno cessato di costituire una risposta adeguata ai problemi posti da una situazione, che esse stesse hanno contribuito a creare” (Kuhn 1962, p. 119). In modo analogo, le rivoluzioni scientifiche sono precedute da uno stato di “crisi”, in cui spesso soltanto un settore della comunità di professionisti sente che “il paradigma esistente ha cessato di funzionare adeguatamente nell’esplorazione di quell’aspetto o ambito della natura che esso ha contribuito a illuminare e a conoscere” (Kuhn 1962, p. 119). Tale analogia tra sviluppo scientifico e sviluppo sociale si fonda su un ulteriore aspetto comune alle rivoluzioni scientifiche e politiche: queste ultime, infatti, mirano a mutare le istituzioni
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in forme che sono proibite dalle stesse leggi in vigore; il loro successo richiede l’abbandono parziale di un determinato insieme di istituzioni a favore di altre. Progressivamente gli individui si allontanano dalla vita politica ufficiale, comportandosi in modo sempre più indipendente: molti finiscono con l’aderire a qualche proposta concreta per la ricostruzione dell’assetto sociale, dividendosi in partiti opposti, “l’uno impegnato nel tentativo di difendere la vecchia struttura istituzionale, gli altri impegnati nel tentativo di affermarne una nuova” (Kuhn 1962, p. 121). Le parti avverse di una rivoluzione politica, non riconoscendo alcuna autorità superiore che possa legittimamente giudicare i modelli istituzionali contrapposti, “devono alla fine far ricorso alle tecniche della persuasione di massa, che spesso includono la forza” (Kuhn 1962, p. 121). La scelta tra paradigmi incommensurabili, come quella fatta tra istituzioni politiche contrastanti, avviene tra forme incompatibili di vita sociale e non può essere semplicemente compiuta in base ai “procedimenti di valutazione caratteristici della scienza normale, poiché questi dipendono in parte da un determinato paradigma e questo paradigma è ciò che viene messo in discussione” (Kuhn 1962, p. 120). In ambito scientifico, ciascun gruppo di esperti sostiene, attraverso dimostrazioni razionali, determinate teorie, argomentando in difesa del proprio paradigma; per questo l’utilizzo di efficaci tecniche persuasive, all’interno della comunità, gioca un ruolo fondamentale.8 Sebbene alcuni scienziati, specialmente quelli più anziani e con maggiore esperienza, possano opporre resistenza ai nuovi paradigmi, in maniera definitiva, gli altri solitamente vengono convinti, in un modo o nell’altro, ad abbracciare teorie e metodi innovativi. La principale ragione di resistenza 8
In una prospettiva più strettamente storiografica, possiamo riconoscere che Kuhn, nell’istituire l’analogia tra rivoluzioni politiche e scientifiche, abbia voluto sottolineare la componente sociologica del passaggio da un paradigma all’altro: lo storico della scienza deve tenere ben presente che il cambiamento di paradigma non appare mai come la pura sostituzione di una teoria con un’altra, ma anche come scontro tra comunità opposte. Questa conclusione, però, conduce a conseguenze inaccettabili nella misura in cui si considera tale scontro come opposizione tra diversi sistemi di valori morali, nella misura in cui cioè venga introdotta l’identificazione tra momento teoretico e momento pratico. Si può mostrare come Kuhn, istituendo l’analogia tra scienza e politica, abbia presupposto l’indistinzione di questi due livelli. Infatti, nelle rivoluzioni politiche, intese come rivoluzioni morali, si cerca di tradurre in realtà obiettiva un mondo di rappresentazioni, che non possiede ancora una realtà per conto proprio, il soggetto pratico è l’unico sostenitore di quei principi che dovranno essere applicati alla società; le rivoluzioni scientifiche, invece, nascono dalla volontà umana di comprendere meglio l’effettiva costituzione della natura: a tal fine lo scienziato si serve sia di teorie che di criteri metodologici. Dobbiamo riconoscere che c’è un mondo, una realtà comune che soggiace ai diversi paradigmi e con la quale noi siamo in relazione sia attraverso le leggi teoriche, che attraverso operazioni pratiche. Kuhn, ponendo sullo stesso piano rivoluzioni politiche e scientifiche, finisce per considerare il momento teoretico dello scienziato come momento creativo, senza tener presente la distinzione fondamentale tra io teoretico e io pratico. (cfr. Buzzoni 1983, pp. 227230)
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è costituita dalla certezza che il vecchio paradigma riuscirà a risolvere tutti i suoi problemi; inevitabilmente, però “in tempi di rivoluzione, una simile sicurezza sembra ostinata e cocciuta, e talvolta lo diventa davvero” (Kuhn 1962, p. 183). La resistenza, nell’ambito della “scienza normale” è inevitabile e legittima, ma questo non significa che gli scienziati non possano essere persuasi a cambiare le loro idee: “Le conversioni avranno luogo poche alla volta finché, dopo la morte degli ultimi oppositori, l’intera comunità dei professionisti si troverà ancora a svolgere la propria attività sotto la guida di un unico paradigma, ma si tratterà ora di un paradigma differente” (Kuhn 1962, p. 184). Spesso le ragioni che spingono uno scienziato ad abbracciare un nuovo insieme di teorie e metodi “si trovano completamente al di fuori della sfera della scienza” (Kuhn 1962, p. 184) e variano a seconda dei casi: possono essere motivazioni personali, legate alla storia di ciascun individuo, a volte anche la nazionalità o la precedente reputazione dell’innovatore può svolgere una funzione importante. Per questo, secondo Kuhn, non bisogna rivolgere tanto l’attenzione alle argomentazioni che di fatto spingono alla “conversione”, quanto al genere di comunità che, prima o poi, finisce per mutare la sua struttura di base. Tuttavia, ciò non significa che si possa parlare di una “conversione di gruppo”, poiché ciascun membro della comunità vive personalmente l’esperienza del mutamento di paradigma: si tratta di scegliere tra forme alternative di attività scientifica e una decisione simile deve basarsi più sulle promesse future, che sulle conquiste passate. Chi decide di lasciare le vecchie certezze per avventurarsi in qualcosa che ancora non conosce bene, deve nutrire una profonda fiducia nei confronti delle teorie e dei metodi, appartenenti al nuovo paradigma: “Una decisione di tal genere deve essere presa soltanto sulla base della fede” (Kuhn 1962, p. 190). La crisi, che segna spesso la fine del vecchio paradigma e la nascita del nuovo, è importante, ma non è tutto; le motivazioni logiche che giustificano i periodi di crisi non coincidono con tutte le ragioni che portano lo scienziato alla “conversione”:
Vi deve anche essere un qualche fondamento, sebbene non necessariamente razionale e neppure in ultima analisi necessariamente corretto, che giustifichi la fiducia nel particolare candidato scelto. Vi deve essere qualcosa che dia, almeno a pochi scienziati, la sensazione che la nuova proposta è sulla strada giusta, e talvolta sono semplicemente considerazioni personali o considerazioni estetiche inarticolate che possono avere questo effetto (Kuhn 1962, pp. 190191).
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Con quest’affermazione, Kuhn non intende suggerire l’idea che un nuovo insieme di teorie e metodi possa affermarsi attraverso una sorta di “estetica mistica”, ma vuole sottolineare il fatto che ogni paradigma trionfa sempre conquistando, all’inizio, alcuni individui, che decidono di seguirlo per le ragioni più disparate. Progressivamente questi primi sostenitori elaborano delle argomentazioni, che finiscono poi per persuadere molti a compiere il passaggio dal vecchio al nuovo paradigma. Non c’è, però, alcuna singola dimostrazione che possa persuaderli tutti allo stesso modo: “Ciò che si verifica non è tanto una conversione di gruppo, quanto un progressivo spostamento della fiducia degli specialisti” (Kuhn 1962, p. 191). I temi fondamentali, presenti ne La struttura, sono stati ampliamente approfonditi e sviluppati da Kuhn, a partire dagli anni Settanta. Come è noto, già nel “Poscritto 1969” viene chiarito il concetto di paradigma e, insieme ad esso, anche il problema dell’incommensurabilità viene approfondito e in parte ridimensionato. In questa occasione, l’intento di Kuhn è quello di rispondere ad alcune critiche, in particolare all’accusa secondo la quale egli avrebbe ridotto la scienza ad un’impresa soggettiva e irrazionale. Leggiamo, infatti, che i termini ‘soggettivo’ ed ‘intuitivo’ non possono, in senso proprio, essere applicati ai componenti della conoscenza descritti ne La struttura: sebbene le informazioni sul mondo naturale vengano apprese tacitamente, attraverso il riferimento ad esempi condivisi e sebbene una simile conoscenza non possa essere tradotta in un insieme esplicito di regole, essa risulta nondimeno sistematica, controllabile nel tempo e anche suscettibile di correzione (cfr. Kuhn 1969, p. 212). Non possiamo negare che Kuhn, nel corso degli anni, abbia meditato più volte sulle tematiche fondamentali della sua epistemologia, presenti ne La struttura; a tale proposito alcuni critici, tra i quali il più importante è certamente Paul HoyningenHuene, ritengono che gli ultimi scritti kuhniani abbiano introdotto delle novità decisive, rispetto alla posizione sostenuta dal filosofo nell’opera del 1962. Secondo il loro punto di vista, Kuhn avrebbe ridimensionato il tema dell’incommensurabilità fra paradigmi, per poter venire incontro soprattutto alle necessità dello storico. Colui che decide, infatti, di studiare la scienza nella sua evoluzione temporale, non potrebbe neanche iniziare la sua ricerca se due paradigmi scientifici, utilizzati da comunità
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differenti e lontane nel tempo, fossero totalmente incommensurabili. In questo caso, infatti, egli non avrebbe alcuna possibilità di rapportarsi a un mondo estraneo, distante dalla sua realtà. Per tali ragioni, secondo Hoyningen-Huene, il principale cambiamento compiuto da Kuhn riguarderebbe la descrizione delle rivoluzioni scientifiche: ne La struttura, infatti, queste vengono spiegate in termini di metafore visive, in un secondo momento, invece, la loro descrizione risulta in termini di quadri linguistici e concettuali. Hoyningen-Huene intende riferirsi soprattutto alla metafora del riorientamento gestaltico:
In una rivoluzione scientifica il mondo, o la visione del mondo, cambia allo stesso modo in cui cambia la figura in un riorientamento gestaltico visivo. [...] Ciò che una persona vede muta in modo sostanziale sebbene gli elementi costitutivi della figura, presi separatamente rimangano stabili. Una rivoluzione scientifica, stando al primo Kuhn, è qualcosa di simile [...], nel senso che mentre l’intera immagine del mondo muta drasticamente, la maggior parte degli elementi vengono incorporati nella nuova visione, sebbene con significati diversi (Hoyningen-Huene 2000, p. XIX).
Da queste conclusioni emerge, però, un problema: i riorientamenti gestaltici, infatti, sono eventi di cui fanno esperienza soltanto i singoli individui, mentre una rivoluzione è qualcosa a carattere soprattutto sociale. Secondo questa interpretazione, quindi, Kuhn avrebbe abbandonato la metafora della Gestalt, poiché essa presuppone un solipsismo metodologico, palesemente in contrasto con la tesi della natura sociale della conoscenza scientifica. Com’è stato notato, l’osservazione di Hoyningen-Huene diviene particolarmente significativa, se teniamo conto dei presupposti semantici wittgensteiniani, ritenuti a fondamento dell’epistemologia kuhniana (cfr. Buzzoni 2000, pp. 305-322). Sostenere, infatti, che il cambiamento di paradigma assomigli ad un riorientamento gestaltico visivo, significa riconoscere l’esistenza di un istante in cui gli scienziati possono sottrarsi all’insieme delle argomentazioni logico-razionali, uscendo, in un certo senso, dalla storia e introducendosi nella sfera dell’intuizione. Uno dei presupposti fondamentali di questa tesi consiste proprio nell’assunzione di un io isolato, un solus ipse, che esperisce un atto conoscitivo non razionalmente appropriabile da parte di altri; ovviamente, una simile concezione risulta in contrasto con la critica
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wittgensteiniana di ogni linguaggio privato, che Kuhn aveva implicitamente fatto propria nell’impostazione fondamentale della sua epistemologia. Il contrasto con i presupposti semantici wittgensteiniani costituisce una valida ragione, per la quale Kuhn decise di abbandonare la metafora della Gestalt, ma non l’unica. Se riconsideriamo, infatti, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, ci accorgiamo che il passaggio da un paradigma all’altro viene descritto come un momento razionalmente inspiegabile: le motivazioni che spingono uno scienziato a cambiare la sua visione del mondo non dipendono semplicemente dalle difficoltà incontrate all’interno del vecchio paradigma; le anomalie, le crisi non bastano a spiegare il cambiamento radicale delle strutture conoscitive, attraverso le quali gli individui si rapportano alla realtà naturale:
Il nuovo paradigma, o un abbozzo di paradigma sufficiente a consentire una successiva articolazione, emerge tutto in una volta, talora nel bel mezzo della notte, nella mente di un uomo profondamente immerso nella crisi. Quale sia la natura di questo stadio finale - in qual modo un individuo inventi (o scopra di aver inventato) un nuovo modo di ordinare dati ora tutti uniti tra loro - deve qui rimanere impenetrabile e può darsi che lo resti per sempre (Kuhn 1962, p. 117).
Com’è
stato
notato,
attraverso
simili
affermazioni,
Kuhn
ha
ripreso,
inconsapevolmente, quella distinzione fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione, che egli stesso aveva apertamente rifiutato, dichiarando un autentico distacco dal neopositivismo e dalla filosofia popperiana (cfr. Buzzoni 1986, cap. 2 § 1). In contrasto con la tradizione, infatti, Kuhn ha negato la possibilità di criteri o regole metodologiche determinabili a priori, prescindendo dall’attività scientifica concreta. Secondo lui, proprio la tesi dell’incommensurabilità spiega le numerose difficoltà, che incontrano gli esperti, nel determinare regole fisse, utili nella scelta dei paradigmi: “Non v’è alcun algoritmo neutrale per la scelta fra teorie, nessun procedimento sistematico di decisione che, se applicato correttamente, debba necessariamente condurre ciascun individuo del gruppo alla stessa decisione” (Kuhn 1969, p. 240). Nonostante l’esplicito rifiuto della divisione tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione, come abbiamo già notato, Kuhn, ne La struttura, descrive la
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genesi di un paradigma come un atto irrazionale, proprio come richiedeva, per esempio, la distinzione popperiana tra logica e psicologia della ricerca. Secondo Popper è necessario distinguere, in ambito scientifico, un contesto della scoperta e un altro contesto nel quale le teorie vengono giustificate, poiché, soltanto tenendo presente questa separazione, possiamo riconoscere l’impossibilità di studiare razionalmente il contesto della scoperta, nel quale sarebbe racchiuso un elemento irrazionale, che sfugge inevitabilmente ad ogni logica9. Di fatto tale elemento è proprio quello che caratterizza, nell’epistemologia kuhniana, il passaggio da un paradigma all’altro. Bisogna anche riconoscere che talvolta Kuhn si spinge sino al punto di riprendere la stessa terminologia popperiana: la tesi secondo cui le crisi non vengono risolte con la riflessione o con la discussione, ma mediante un avvenimento improvviso, un “riorientamento gestaltico” o una “conversione”, è sostenuta, infatti, dalla testimonianza di scienziati che, a proposito delle loro scoperte, parlano di un velo che cade all’improvviso dagli occhi, di un’illuminazione avvenuta durante il sonno o nel subconscio; e soprattutto, non esiste un significato usuale del termine “interpretazione” che sia , secondo Kuhn, adatto a spiegare queste intuizioni geniali (cfr. Buzzoni 2000, p. 307). In un certo senso, quindi, possiamo ammettere che la stessa impostazione dell’epistemologia kuhniana determinò l’abbandono della metafora della Gestalt; questa, infatti, si trovava in contrasto con due aspetti irrinunciabili: in primo luogo, con la dimensione sociale della conoscenza scientifica, desunta dai presupposti semantici di Wittgenstein; e poi con il rifiuto categorico della separazione neopositivista e popperiana fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione. Queste due valide motivazioni portarono Kuhn a riflettere ulteriormente sul momento di passaggio da un paradigma scientifico all’altro e di conseguenza, il problema dell’incommensurabilità rimase sempre al centro di ogni discussione. A questo punto, credo sia importante capire quanto l’abbandono della metafora della Gestalt risulti compatibile col permanere di altre tesi kuhniane, in particolar modo proprio con la tesi dell’incommensurabilità, che non a caso si trova a fondamento della 9
Popper per esempio scrive: “Lo stadio iniziale, l’atto di concepire o inventare una teoria, non mi sembra richiedere un’analisi logica né esserne suscettibile. Come accada che una nuova idea venga in mente a qualcuno - sia essa un tema musicale, un conflitto drammatico o una teoria scientifica - può essere di grande interesse per la psicologia empirica, ma non pertiene all’analisi logica della conoscenza scientifica.” (Popper 1959, pp. 9-10).
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stessa metafora sopra citata. Anche a tal proposito, seguendo Hoyningen-Huene, si può notare un profondo cambiamento. Al’inizio degli anni Settanta Kuhn interpreta il concetto d’incommensurabilità alla luce di quello d’intraducibilità: non v’è traduzione tra teorie o paradigmi senza una perdita dei significati. In questo caso l’intento kuhniano è quello di garantire la possibilità del confronto razionale fra paradigmi, nonostante la loro incommensurabilità, intesa ora come particolare forma d’intraducibilità. Kuhn, in uno dei suoi ultimi scritti, ribadisce per esempio che “la mancanza di un’unità di misura comune non rende impossibile il confronto. Al contrario: grandezze incommensurabili
possono
essere
confrontate
con
qualunque
grado
di
approssimazione necessario” (Kuhn 1983, p. 36). L’intraducibilità non dipende dall’incapacità di trovare i referenti di un termine appartenente a una lingua straniera, ma è la conseguenza del fatto che le parole, all’interno di contesti linguistici diversi, hanno dei referenti che non coincidono mai pienamente. Ora, durante l’evoluzione dell’epistemologia kuhniana, sono sicuramente avvenuti dei cambiamenti, riguardanti in particolar modo il tema dell’incommensurabilità. Ma, sebbene l’ultimo Kuhn abbia modificato in parte la nozione d’incommensurabilità, utilizzando esempi o spiegazioni diverse rispetto a quelle presenti ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, il mutamento della sua posizione non può essere considerato tanto radicale, quanto ha sostenuto Hoyningen-Huene. Effettivamente la modifica più importante, avvenuta a proposito del modo d’intendere l’incommensurabilità, consiste nel fatto che, negli ultimi suoi scritti, Kuhn, pur riconoscendo un’intraducibilità di fondo fra termini appartenenti a comunità linguistiche diverse, ha ammesso la possibilità di apprendere una nuova lingua, senza perdere la capacità di parlare la propria; ne La struttura, invece, data l’incommensurabilità fra paradigmi differenti, era evidente che abbracciare un nuovo paradigma, diverso dal proprio, presupponesse l’abbandono definitivo di quello utilizzato in precedenza. È vero che, a partire dagli anni Ottanta, il concetto di traduzione assume un’importanza centrale, nell’epistemologia kuhniana. Tradurre, innanzitutto, non vuol dire interpretare: “La confusione è facile perché la traduzione di fatto
implica
spesso,
o
forse
sempre,
almeno
una
piccola
componente
d’interpretazione” (Kuhn 1983, p. 38). È bene, però, distinguere i due processi, a
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seconda delle loro differenti funzioni: tradurre significa essenzialmente sostituire parole o sequenze di parole, passando da un sistema linguistico all’altro. Ovviamente, questo può farlo soltanto chi conosce due lingue; in tal modo otterremo un testo tradotto che “racconta più o meno la stessa storia, presenta più o meno le stesse idee, o descrive più o meno la stessa situazione” (Kuhn 1983, p. 39) del testo originale. L’interprete, invece, può avere in un primo momento la padronanza di una sola lingua: “All’inizio il testo su cui lavora consiste del tutto o in parte in rumori incomprensibili” (Kuhn 1983, p. 40); lo stesso vale per tutti gli storici che hanno il compito di decifrare particolari iscrizioni: “Osservando [...] le circostanze della produzione di un testo e presupponendo sempre che si possa dare un senso a quello che appare un comportamento linguistico, l’interprete cerca quel senso e si sforza di inventare ipotesi” (Kuhn 1983, p. 40); se ci riesce egli avrà imparato una nuova lingua. Piuttosto che tradurre, quindi, chi interpreta prova a cogliere direttamente i referenti di una parola; l’esempio riportato da Kuhn è quello del termine “gavagai”, usato dai nativi per indicare animali simili a conigli:
Nell’imparare a riconoscere dei gavagai, l’interprete può avere imparato a riconoscere caratteristiche distintive sconosciute a coloro che parlano inglese, e per le quali l’inglese non fornisce una terminologia descrittiva. Forse, cioè, i nativi strutturano il mondo animale in maniera differente, dal modo in cui lo fanno coloro che parlano inglese [...]. In tali circostanze ‘gavagai’ rimane un termine primitivo irriducibile, non traducibile in inglese (Kuhn 1983, p. 41).
In questo senso, secondo Kuhn, bisogna intendere l’incommensurabilità tra sistemi lessicali differenti. Essa non impedisce tanto l’attività dei traduttori professionisti, quanto l’operazione quasi meccanica, governata dai manuali, di sostituire alcune sequenze di parole appartenenti a una lingua, con sequenze riconducibili ad altri apparati linguistici: “Possedere un lessico, un vocabolario strutturato, significa avere accesso ai diversi insiemi di mondi che tale lessico può [...] descrivere” (Kuhn 1989, p. 101). Linguaggi differenti mostrano vari “mondi possibili, che si sovrappongono in gran parte, ma mai interamente” (Kuhn 1989, p. 101); è sempre possibile, quindi, stabilire un confronto con una lingua straniera, nella consapevolezza, però, che non ci sarà mai una coincidenza perfetta tra due sistemi linguistici, relativi a culture o periodi
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storici differenti: “Qualsiasi cosa possa essere detta in una lingua può venire compresa, con un po’ d’immaginazione e di sforzo, da qualcuno che ne parla un’altra. Il prerequisito di tale comprensione, comunque, non è la traduzione, ma l’apprendimento di una lingua” (Kuhn 1989, p. 101). Chi riesce a far questo diventa bilingue, ma ciò non assicura il fatto che egli sarà in grado di compiere una traduzione dal lessico che ha appena appreso a quello nel quale è stato educato: “I bilingui riferiscono continuamente che ci sono cose che essi riescono a esprimere in una lingua ma non nell’altra” (Kuhn 1993, p. 200). Ma se le parole tratte dagli ultimi scritti di Kuhn, da una parte, mettono in evidenza il cambiamento di prospettiva della sua epistemologia, dall’altra, però, lasciano emergere importanti elementi di continuità con i temi presenti ne La struttura delle rivoluzioni
scientifiche.
Il
rifiuto
dell’idea
di
progresso
scientifico
come
approssimazione a una realtà esterna immutabile, insieme alla negazione della teoria della
verità
come
corrispondenza,
costituiscono,
in
relazione
al
tema
dell’incommensurabilità, due aspetti sempre presenti nell’epistemologia kuhniana. In un articolo del 1990 leggiamo:
Le discussioni a cui mi riferisco solitamente procedono all’insegna della razionalità o della relatività delle pretese di verità, ma queste etichette fanno rivolgere l’attenzione nella direzione sbagliata. Sebbene la razionalità e il relativismo siano in qualche modo implicati, a essere in gioco, fondamentalmente, è invece la teoria della verità come corrispondenza: la nozione che l’obiettivo, quando si valutano leggi e teorie, è quello di stabilire se queste ultime corrispondano o meno a un mondo esterno, indipendente dalla mente. È questa nozione [...] che sono convinto debba necessariamente scomparire (Kuhn 1990, p. 144).
Se non possiamo parlare di una realtà a cui la scienza si avvicina sempre di più, l’obiettivo delle ricerche portate avanti dai professionisti rimane identico a quello descritto ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche: “Che gli specialisti ne siano consapevoli o meno, essi ricevono una formazione e sono premiati per risolvere intricati rompicapo [...] sulla superficie di contatto fra il loro mondo fenomenico e le convinzioni della loro comunità” (Kuhn 1993, pp. 218-219). Non possiamo negare, comunque, che questo relativismo contrasti con altre affermazioni che sembrano accogliere proprio la teoria della verità come corrispondenza: Kuhn parla di una
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“struttura del mondo” che è “limitata da quella del lessico della comunità” (Kuhn 1990, p. 151) ed ammette che alcuni aspetti di tale struttura linguistica siano determinati biologicamente; il mondo non può essere un’invenzione umana. La tensione tra elementi realistici e relativistici non è, tuttavia, una novità che possa dimostrare il cambio di rotta dell’epistemologia kuhniana, al contrario, essa è stata più volte sottolineata dalla letteratura critica su Kuhn, anche relativamente all’opera del 196210. Inoltre Kuhn ribadisce, negli ultimi anni della sua attività, alcuni concetti che stanno proprio alla base della tesi dell’incommensurabilità: la metafora ontologica dei mondi diversi sottolinea la completa frattura della comunicazione fra gruppi di uomini che parlano della realtà, utilizzando strutture mentali e linguistiche che non hanno nulla in comune: “Se due comunità differiscono nei loro vocabolari concettuali, i loro membri descriveranno il mondo in maniera diversa e produrranno generalizzazioni differenti in merito ad esso” (Kuhn 1993, p. 193). Non può esistere un linguaggio neutrale, un’unità di misura che ci permetta di stabilire un confronto obiettivo tra realtà incommensurabili: “Ogni lessico consente una corrispondente forma di vita al cui interno la verità o la falsità delle asserzioni può essere sia affermata che giustificata razionalmente, ma la giustificazione dei lessici e del mutamento lessicale può essere soltanto paradigmatica” (Kuhn 1993, pp. 208-209). L’ultimo Kuhn, quindi, non rinuncia affatto al tema dell’incommensurabilità, ma lo riprende servendosi della metafora del bilinguismo e, in particolare, di quello che egli designa come “principio di non sovrapposizione”. Tale principio impedisce la traduzione dalla lingua di una comunità scientifica a quella di un’altra e trasforma la precedente divisione tra scienza normale e scienza straordinaria “in una distinzione tra sviluppi che richiedono e [...] che non richiedono un mutamento tassonomico locale” (Kuhn 1990, p. 146). Ovviamente i membri di una comunità possono assumere la tassonomia utilizzata dai componenti di un’altra, come fa lo storico davanti a dei testi 10
A volte Kuhn sostiene la tesi dell’incommensurabilità, ma riconosce l’importanza della capacità di previsione per la valutazione di teorie; si oppone al concetto di falsificazione, ma introduce poi i concetti di anomalia e di crisi, che svolgono una funzione analoga; critica la visione cumulativa del progresso scientifico, ma riconosce che i nuovi paradigmi conservano una grande quantità dei successi concreti ottenuti dai paradigmi passati. Sulla compresenza di affermazioni contrastanti nell’epistemologia kuhniana, ha riflettuto in particolare I. Scheffler (cfr. Scheffler 1967); ciò è stato ribadito anche a proposito dell’ultima fase dell’epistemologia kuhniana da Buzzoni 2000 (p. 320) e 2010, su cui soprattutto si basa il presente paragrafo.
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o a delle iscrizioni, a prima vista indecifrabili. Sia chiaro, però, che tale processo conoscitivo non produce traduttori ma bilingui; questi devono “sempre tener presente in quale comunità avviene la conversazione” (Kuhn 1990, p. 140). L’uso di tassonomie diverse rende comunque molto difficile la comunicazione, perché non è mai possibile per un bilingue compiere una traduzione perfetta e completa. Come è stato notato, in questo modo Kuhn attribuisce alle strutture delle lingue un dominio di fronte al quale l’esperto bilingue è impotente, così come il singolo scienziato era impotente nei confronti del dominio esercitato su di lui dal paradigma. Non c’è, quindi, una differenza così sostanziale tra i contenuti espressi ne La struttura e i concetti elaborati negli ultimi articoli. Come la metafora del riorientamento gestaltico, anche quella del bilinguismo risulta in contraddizione con i presupposti semantici fondamentali dell’epistemologia kuhniana: un bilingue può conoscere due tassonomie lessicali differenti, acquisendo un sapere che non sarebbe, in linea di principio, comunicabile in alcuna lingua. Ora, una simile affermazione si trova in evidente contrasto con la natura sociale e intersoggettiva della conoscenza scientifica, fatta propria da Kuhn accogliendo la critica wittgensteiniana di ogni linguaggio privato (cfr. Buzzoni 2000, p. 315). È chiaro, a questo punto, che il problema dell’incommensurabilità costituisce il tema centrale dell’epistemologia kuhniana. Tuttavia, Kuhn lascia aperte le questioni relative alle difficoltà di comunicazione tra gruppi culturali e linguistici differenti: la lacuna, il salto fra mondi distanti gli uni dagli altri segnano sempre il passaggio tra realtà incommensurabili. Per questo, l’adesione a una teoria scientifica innovativa, capace di sconvolgere gli schemi del paradigma tradizionale, non è una semplice scelta, ma una vera e propria conversione. Ovviamente, la preferenza di un insieme di leggi rispetto a un altro può essere giustificata razionalmente, elencando i criteri della valutazione compiuta. Uno scienziato può optare per una specifica teoria, poiché la considera più coerente, più semplice, più accurata di un’altra; tuttavia, due professionisti “impegnati verso il medesimo elenco di criteri possono giungere [...] a conclusioni differenti. Forse essi intendono la semplicità in modo diverso” (Kuhn 1977, p. 356), oppure non hanno le stesse idee sull’importanza da accordare ai vari criteri utilizzati. Problemi di questo genere non possono essere risolti da nessun insieme di regole fisse, per cui i motivi personali, che guidano ogni decisione, assumono un’importanza centrale: i
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canoni condivisi non bastano a determinare le scelte dei singoli individui, è quindi necessario considerarli come dei valori che influenzano le decisioni, piuttosto che come regole invariabili, poste alla base del progresso scientifico. Se da una parte è possibile elencare le ragioni che stanno dietro la scelta di un particolare paradigma, dall’altra non esiste alcun procedimento logico per passare ad un sistema di leggi e metodi scientifici diverso da quello tradizionale, non c’è un criterio superiore all’assenso della comunità competente. Questo duplice aspetto segna tutta l’evoluzione dell’epistemologia kuhniana: le stesse difficoltà o contraddizioni presenti ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche si ritrovano negli scritti più recenti. Nonostante
alcuni
cambiamenti,
riguardanti
soprattutto
le
metafore
dell’incommensurabilità, Kuhn non ha mai abbandonato la tesi di una “conversione” finale, momento inspiegabile razionalmente, ma necessario per compiere il passaggio verso un nuovo modo di vedere gli oggetti del mondo. Dopo la “conversione” è come se lo scienziato guardasse la realtà con occhi diversi, cogliendo aspetti nuovi e impensabili nell’ottica del vecchio paradigma; allo stesso modo l’individuo intento a tradurre un testo apparentemente indecifrabile “si accorge che ha avuto luogo la transizione, che egli è scivolato nel nuovo linguaggio senza aver preso nessuna decisione. [...] Intellettualmente una simile persona ha fatto la sua scelta, ma la conversione [...] gli sfugge”. (Kuhn 1969, pp. 244- 245). A questo punto lo scienziato e il traduttore potranno rispettivamente usare le nuove teorie, e comprendere il lessico prima d’ora sconosciuto, come fa “uno straniero in un ambiente straniero” (Kuhn 1969, p. 245); solo col tempo e attraverso un particolare percorso formativo le novità iniziali, viste soltanto da pochi, entreranno a far parte della comune “normalità”.
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2. Kuhn e Polanyi: i possibili problemi che comporta la dimensione della fede in ambito epistemologico
1. Il problema polanyiano delle abilità
Arrivati a questo punto, il mio intento non è semplicemente quello di accostare la filosofia polanyiana alle tematiche emerse dall’analisi de La struttura delle rivoluzioni scientifiche; sono evidenti, infatti, i punti di vicinanza tra le prospettive dei due autori presi in esame, soprattutto per quanto riguarda la dimensione sociale dell’impresa scientifica. Piuttosto vorrei provare ad interrogarmi sui potenziali strumenti che il pensiero razionale avrebbe a disposizione per farsi strada nell’ambito del credere, riconsiderando il tentativo polanyiano di far incontrare scienza e fede religiosa, ma tenendo comunque presenti i problemi che sono emersi in relazione all’esperienza della “conversione scientifica”. Se da una parte, infatti, le stesse questioni critiche che abbiamo rintracciato all’interno dell’epistemologia kuhniana sono valide anche in relazione ad alcune affermazioni fatte da Polanyi, dall’altra i due autori ci conducono verso direzioni opposte. Per quanto riguarda Polanyi, a mio avviso, l’aspetto più critico del suo pensiero riguarda il ruolo che giocano le abilità, all’interno del processo conoscitivo. In Personal Knowledge, l’autore dedica un intero capitolo alle abilità, che risultano strettamente connesse allo sviluppo del sapere razionale; la stessa conoscenza scientifica progredisce grazie alle abilità dello scienziato, che rivelano la partecipazione tacita della persona, impegnata nella ricerca. Esaminare la struttura delle abilità significa, quindi, far emergere quel coefficiente personale che Polanyi intende riscoprire dietro alla pretesa neopositivistica di una vuota oggettività. Gli esempi, già citati, del ciclista, del nuotatore o del medico mostrano chiaramente come lo scopo di un’operazione si raggiunga “osservando un insieme di regole, non conosciute come tali dalla persona che le osserva” (Polanyi 1958, p. 135). Ogni conoscenza assume, così, i caratteri di un’arte
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che non può essere specificata nei dettagli, né trasmessa attraverso prescrizioni: “Mentre i contenuti articolati della scienza vengono insegnati con successo in tutto il mondo in centinaia di nuove Università, l’arte non specificabile della ricerca scientifica non è ancora penetrata in molte di esse” (Polanyi 1958, p. 140). Il sapere esplicito emerge, quindi, da un fondo di abilità che non è possibile definire nei particolari. La grande quantità di tempo che gli studiosi di chimica, biologia e medicina dedicano ai corsi pratici dimostra come queste discipline facciano affidamento su abilità, che vengono trasmesse tacitamente dal maestro all’allievo. In questo modo, attraverso l’esempio, l’apprendista ha la possibilità di inserirsi all’interno di una tradizione, assumendo tutti quei presupposti necessari allo sviluppo del sapere e alla scoperta di una realtà sempre mutevole. Come abbiamo già sottolineato, Polanyi considera le facoltà linguistiche, che distinguono l’uomo adulto dall’animale, radicate in un fondo comune di abilità, in un sapere “che sta al di là della barriera del linguaggio” (Polanyi 1959, p. 14). Le due dimensioni della conoscenza, quella tacita e quella articolata, presentano una differenza logica che non bisogna sottovalutare: da un lato, infatti, è sempre possibile riflettere su delle nozioni esplicite, mentre dall’altro, la consapevolezza tacita di un’esperienza o di un’abilità non può mai diventare oggetto immediato di studio o di ricerca. In questo senso, la conoscenza, legata alla capacità di esporre ciò che viene appreso, trova il suo fondamento ultimo in un sapere pre-verbale, che rimane per lo più inspiegabile. Riscoprire il fondo indeterminato del conoscere significa, nell’ottica polanyiana, ammettere il coinvolgimento della persona umana in ogni atto di comprensione: il soggetto, infatti, non potrà mai afferrare l’oggetto problematico della sua attenzione, rimanendo in un prospettiva neutrale e distaccata; tutto il sapere può essere definito come “una comprensione attiva delle cose conosciute, un’attività che richiede abilità” (Polanyi 1958, p. 69). La persona è insomma in grado di riconoscere l’impegno e la responsabilità nei confronti della realtà circostante, ammettendo il proprio coinvolgimento in attività pre-verbali, mai totalmente esplicitabili, che inglobano il soggetto come unità di mente e corpo e condizionano, in gran parte, lo sviluppo del sapere razionale. Com’è stato notato, tuttavia, la presenza di abilità inesprimibili, ritenute a fondamento della conoscenza, può diventare problematica: il fatto che tali abilità siano, in linea di
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principio, inesprimibili o non esplicitabili attraverso il linguaggio verbale appare in contraddizione con il rifiuto di Polanyi della dicotomia neopositivistica e popperiana fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione (cfr. Buzzoni 2004, pp. 73-77). A ben vedere si ripresenta, così, lo stesso problema già accennato in relazione al tema kuhniano dell’incommensurabilità. Per comprendere più a fondo questo punto essenziale è necessario chiarire, in prima istanza, quali siano le conseguenze della nota distinzione, elaborata per la prima volta in ambito neopositivistico, tra il contesto della scoperta e il contesto della giustificazione di una teoria scientifica. Anche Popper, pur essendo fortemente critico nei confronti del neopositivismo, ha accettato questa separazione, distinguendo la psicologia dalla logica della ricerca scientifica. Ora, come è stato giustamente sottolineato, la distinzione fra scoperta e giustificazione contribuisce a diffondere l’idea di una conoscenza scientifica capace di raggiungere un’oggettività completa, relegando la filosofia, la storiografia e le altre discipline umanistiche su un piano secondario. Al fine di garantire la purezza e l’oggettività della ricerca scientifica, i neopositivisti arrivarono ad eliminare dalla scienza ogni aspetto psicologico, etico o politico, costruendo “un concetto di scienza che non conteneva più l’uomo concreto, ma soltanto una rete logica di nessi sintattici” (Buzzoni 2005, p. 490). Lo strumento per il raggiungimento di una completa oggettività era il modello nomologico-deduttivo che rivendicava l’assoluta autosufficienza, e quindi il valore assoluto, delle scienze naturali a cui era ricondotta ogni forma d’indagine intorno all’uomo. Seguendo la logica di questo schema, applicando cioè universalmente il modello nomologico-deduttivo di spiegazione, l’uomo era in linea di principio considerato come cosa fra le cose, essendogli negata ogni specificità in quanto soggetto responsabile delle proprie deliberazioni e azioni (cfr. Buzzoni 2005, pp. 489-490). Dietro alla netta separazione fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione si nascondeva, dunque, la cancellazione in linea di principio della persona umana, ad opera di quel tipo di conoscenza scientifica che Polanyi ha sempre combattuto, sottolineando la presenza di un coefficiente personale, in ogni atto di comprensione. La critica profonda alla concezione neopositivistica della scienza e quindi, alla separazione fra logica e psicologia della ricerca, rappresenta il carattere distintivo della cosiddetta «svolta relativistica» legata, in ambito epistemologico, a nomi come quelli di Kuhn, Hanson e Feyerabend. Il loro tentativo, ampliato e approfondito dagli esponenti
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della successiva «svolta sociologica», è stato essenzialmente quello di mostrare la scienza come fenomeno storico e come attività umana sempre inserita entro un certo contesto storico-sociale, assiologico e, in generale, pratico. Polanyi, tuttavia, non è collocabile semplicemente tra gli esponenti della svolta relativistica poiché, se da una parte, condivide con essi la critica al neopositivismo e il tentativo di reinserire l’attività scientifica in un contesto socio-culturale, dall’altra assume una posizione assai diversa, aprendo la strada ad una serie di interrogativi che toccano da vicino il mistero dell’esistenza umana. Per comprendere appieno questa differenza, però, è necessario approfondire le modalità, attraverso le quali gli esponenti della svolta relativistica elaborano il rifiuto della distinzione fra logica e psicologia della ricerca. Feyerabend, ad esempio, sottolinea come il progresso scientifico sia stato favorito da ragioni legate ad entrambi i contesti; dal suo punto di vista, la scoperta e la giustificazione costituiscono un’alternativa e “entrambi gli aspetti dell’alternativa sono altrettanto importanti per la scienza, ad essi dev’essere riconosciuto un ugual peso” (Feyerabend 1970, p. 137). Il tentativo di porre sullo stesso piano gli elementi psicologici, sociologici e quelli relativi alla rappresentazione, nasconde, tuttavia, un pericolo, nel quale sono caduti gli stessi esponenti della svolta relativistica. Com’è stato notato:
Affermare che elementi […] empirici hanno in linea di principio lo stesso valore epistemico e argomentativo degli elementi propri del piano della rappresentazione perché, da un punto di vista meramente storico, essi hanno svolto un ruolo causale nel favorire il progresso scientifico, significa presupporre che i concetti umani siano il mero prodotto di circostanze reali, storiche, che li determinano e li spiegano […]. Quest’affermazione presuppone che non esista alcun piano posto al di sopra di quello positivo (psichico, storico, sociale, ecc.) e qualitativamente distinto da esso, muovendo dal quale sia possibile valutare diverse concezioni rispetto alla loro verità o falsità. […] La conclusione fu, e non poteva non essere, uno storicismo relativistico: concetti come quelli di oggettività, progresso scientifico, ricerca della verità, ecc., venivano dichiarati privi di senso (Buzzoni 2005, p. 492).
Nell’ambito del neopositivismo, il contesto della scoperta era posto in secondo piano rispetto a quello della giustificazione, fondato su elementi certi e incontrovertibili; ora, invece, la psicologia della ricerca arriva ad avere il primato sulla logica e di
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conseguenza, le teorie scientifiche vengono considerate semplici prodotti sociali, privi di qualsiasi pretesa di verità. Rifiutando la distinzione fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione, quindi, la svolta relativistica, da una parte, ha riscoperto quegli aspetti sociali e personali della ricerca scientifica, che il neopositivismo aveva relegato in un ambito puramente privato e secondario, dall’altra, però, ha rinunciato alla “pretesa, propria del discorso conoscitivo in genere e di quello scientifico in particolare, di rappresentare le cose come esse propriamente sono” (Buzzoni 2005, p. 494). Questa pretesa è però, in un certo senso, importante in ogni tipo di discorso che si ritenga sensato, e non a caso essa si ripresenta di fatto negli autori della svolta relativistica e sociologica “sotto mentite spoglie, nella forma di un’altra opposta assolutizzazione, altra e opposta rispetto a quella neopositivistica; al valore assoluto della scienza naturale, infatti, si sostituisce l’indagine della storiografia e delle scienze umane” (Buzzoni 2004, p. 69). Se la distinzione fra scoperta e giustificazione, da un lato, va recuperata come espressione
dell’ineludibile
autonomia
del
piano
logico-discorsivo
della
rappresentazione dall’altro, dev’essere rifiutata, come tentativo neopositivistico e popperiano di divinizzare la scienza, attribuendole certezza e verità assolute. Ora, secondo Buzzoni questo è possibile se la pretesa di verità, che è sempre presupposta in ogni discorso umano, di fatto può essere di volta in volta fatta valere ricorrendo a metodi o tecniche particolari, che assicurano la possibilità in linea di principio di ricostruire e controllare in prima persona la pretesa di verità di quel discorso. Certo, qualsiasi formula scientifica può venir utilizzata praticamente senza chiamare in causa il resoconto dei passi procedurali che hanno condotto ad essa nel momento della scoperta e, da un certo stadio in poi è effettivamente è possibile prescindere dalla storia della scoperta e usare formule più semplici, apprese a memoria e utili alla risoluzione di determinati problemi. Una simile possibilità, però, dipende dal riconoscimento del fatto che le vie piuttosto complesse, attraverso le quali si è giunti ad un risultato, possono essere sempre e “comunque in linea di principio ricostruibili e intersoggettivamente controllabili” (Buzzoni 2004, p. 73). L’unico modo per negare l’assolutizzazione del sapere scientifico, senza rinunciare alla pretesa di indagare la realtà, consisterebbe, quindi, nel riconoscere lo stretto legame fra operazioni teoriche e pratiche:
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Non deve stupire il fatto che chiunque abbia unilateralmente privilegiato uno dei due momenti del rapporto fra teoria e tecnica non abbia saputo né potuto rifiutare coerentemente la dicotomia neopositivistica e popperiana fra scoperta e giustificazione. In particolare, ciò è accaduto presso coloro che hanno sostenuto l’esistenza di abilità prelinguistiche indipendenti da ogni mediazione teorica […] Questa tesi […] equivale infatti ad accogliere inconsapevolmente la separazione fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione e, al tempo stesso, compromette seriamente il concetto di oggettività scientifica (Buzzoni 2004, p. 75).
Ora da questo punto di vista, ammettere la presenza di abilità pre-verbali al di sotto del sapere razionale, come fa Polanyi, o negare in linea di principio la possibilità di esplicitare le regole che hanno guidato lo scienziato verso una particolare scoperta, come ha fatto Kuhn in tutte le sue opere, “significa presupporre implicitamente un qualche atto irrazionale del tutto simile a quello presupposto dalla dicotomia neopositivistica e popperiana fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione” (Buzzoni 2004, p. 77). Pare quindi necessario ammettere, in linea di principio, la possibilità di tradurre il sapere tacito in proposizioni o asserti razionalmente controllabili: “Se le “abilità” non avessero nulla a che fare col momento dell’universalità del concetto, non potrebbero essere esplicitate discorsivamente dalla scienza di laboratorio successiva” (Buzzoni 2004, p. 77). Tutto ciò ha importanti ripercussioni sul modo di concepire la funzione dell’esperimento nella ricerca scientifica empirica: “Se il frutto d’un esperimento fosse soltanto l’effetto d’una particolare abilità del singolo scienziato, esso non potrebbe venir trasferito ad altri scienziati e ad altri contesti […] e rimarrebbe del tutto sterile per il progresso scientifico” (Buzzoni 2004, p. 77). Sarebbe assurdo, quindi, pensare ad una razionalità che emerge da un fondo inaccessibile e irrazionale; la mediazione linguistica dovrebbe essere presente fin dall’inizio, altrimenti l’uomo non sarebbe neanche in grado di ricostruire e di giustificare il risultato di una ricerca: “Ammettere un momento non linguistico-teorico alla base della ragione e di ogni atto conoscitivo significa ammettere l’esistenza di qualcosa che sfugge alla capacità di penetrazione della ragione umana” (Buzzoni 2004, p. 81); dal punto di vista di Buzzoni, questo “qualcosa che sfugge” alla ragione, non fa parte della scienza, o di qualsiasi altro sapere razionale; ci possiamo chiedere se possa costituire il nucleo di verità oscuro e indecifrabile, che guida la fede religiosa. Questa ipotesi consentirebbe di far ricomparire quell’opposizione fra sapere
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scientifico ed esperienza di Dio, che Polanyi, attraverso la sua teoria della conoscenza personale, cerca di eliminare senza, tuttavia, cancellare del tutto la loro distinzione. La separazione fra scienza e fede sembra implicitamente contenuta nelle parole di Buzzoni; il mio intento, ora, è quello di ritornare al punto di vista di Polanyi, tenendo comunque presenti i possibili problemi che comporta il sapere tacito, in un ambito prettamente scientifico. Dovremo tornare in seguito su questo problema. Sin d’ora è opportuno notare che il problema messo in evidenza da Buzzoni, in relazione al ruolo delle abilità nell’epistemologia polanyiana, può essere riscontrabile soltanto in alcuni passi di Personal Knowledge, e precisamente in quelle parti in cui Polanyi sembra molto vicino al punto di vista kuhniano, ma non vale in senso generale. Per un verso, infatti, vi sono certamente alcuni passi in cui l’autore descrive la scoperta scientifica come un “mutamento irrevocabile” (Polanyi 1958, p. 262): la persona, dopo aver compiuto una scoperta importante “vede e pensa in maniera differente” (Polanyi 1958, p. 262) rispetto al passato. Anche Polanyi, come Kuhn, utilizza il termine “conversione” e parla di una discontinuità logica fra una teoria scientifica e un’altra, una discontinuità che può essere superata attraverso un salto, compiuto dalla passione euristica, “sorgente principale dell’originalità” (Polanyi 1958, p. 284). Grazie a questa forza emozionale, lo scienziato è in grado di cambiare il proprio schematismo concettuale, senza riuscire, tuttavia, a spiegare i passaggi logici che lo hanno portato verso la soluzione del problema. Nelle parti di testo in cui Polanyi descrive la passione euristica dello scienziato, quindi, si può riscontrare quel fondo indefinito e oscuro di abilità, che non è concepibile nell’ambito del sapere scientifico. Per un altro verso, tuttavia, bisogna anche tener presente che, nell’ottica polanyiana, la passione euristica dello scienziato tende sempre a diventare persuasiva, ovvero tende ad uscire da un piano puramente soggettivo, per cercare una validità universale. Esiste nel pensiero di Polanyi, un’esigenza di verità e di oggettività, che non possiamo riscontrare nell’epistemologia kuhniana. Si tratta di un’oggettività che è essenzialmente diversa rispetto a quella neopositivistica; la verità che lo scienziato instancabilmente ricerca, infatti, si rivela sempre intrecciata ai diversi aspetti della persona: la capacità di coglierla dipende anche da quelle abilità umane, difficilmente traducibili in un pensiero
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articolato. In molti passi1, Polanyi non parla tanto dell’impossibilità, quanto piuttosto di una difficoltà di tradurre il sapere tacito in espressioni linguistiche, e la natura di questa difficoltà può essere compresa soltanto tenendo presente la dialettica fra gli elementi sussidiari e focali del conoscere. In questo modo, le abilità non appaiono come qualcosa d’inspiegabile e inaccessibile, ma come aspetti personali di cui il soggetto è consapevole solamente in maniera sussidiaria. Ciò significa che la persona può concentrare la sua attenzione focale su un oggetto problematico, immedesimandosi in alcuni aspetti della realtà in cui vive, aspetti che diventano parte integrante del soggetto conoscitivo, determinando un punto di vista personale sul mondo, senza il quale non sarebbe possibile lo sviluppo stesso del sapere razionale. La conoscenza è un percorso che parte da alcuni elementi per arrivare ad altri. Tutto ciò che appartiene al soggetto e contribuisce a modellare il suo sguardo sul mondo, non può certamente essere subito visibile o esplicitabile, ma l’uomo resta sussidiariamente consapevole delle tacite abilità, che guidano il sapere. Se consideriamo il rapporto tra elementi sussidiari e focali, riusciamo anche a scorgere la possibilità, in linea di principio, di accedere alle abilità pratiche, pur riconoscendo l’immensa difficoltà dell’impresa. Il sapere tacito delle abilità costituisce il fondo comune di tutta la conoscenza, definita da Polanyi come un processo unitario e personale: l’uomo, situato in un determinato ambiente socio-culturale, e impegnato nel tentativo di conoscere, cerca sempre di stabilire un contatto autentico con la realtà, e lo fa proprio grazie ad abilità che sono state apprese attraverso l’educazione, e che, quindi, non possono essere considerate principi innati e inspiegabili. Per questo noi possiamo essere consapevoli di tali abilità, e anche se facciamo un’immensa fatica ad esprimerle, comunque le conosciamo; e nulla c’impedisce di approfondire questa conoscenza, al fine di renderla linguisticamente accessibile. Il compito umano del conoscere, infatti, consiste nell’incessante tentativo di spiegare ciò che inizialmente appartiene a una dimensione tacita. Il sapere viene definito come un percorso aperto, che richiede impegno e responsabilità nei confronti del mondo che indaghiamo. In quest’ottica, fede religiosa e scienza non sono più in contrapposizione, ma risultano profondamente legate dal credere in un’unica realtà, che si rivela in modalità sempre nuove. La scienza e la religione, ovviamente, impegnano l’essere umano su piani diversi e attraverso strumenti 1
Mi riferisco, in particolare, al v capitolo di Personal Knowledge, dedicato alle abilità e alla spiegazione della dialettica fra sussidiario e focale.
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molto differenti; tuttavia, nel pensiero di Polanyi, è possibile rintracciare una continuità fra i due ambiti, entrambi legati alla fede in una realtà che non dipende da noi; si tratta di un credere che sostiene ogni nostro pensiero, anche se viene vissuto in maniera e in gradi diversi, nella scienza e nell’esperienza di Dio. Tenendo ben presente questo legame tra scienza e fede, Polanyi sembrerebbe far valere la possibilità, in linea di principio, di riguadagnare a livello consapevole gli aspetti taciti della sapere, non soltanto per la conoscenza empirica, ma per ogni tipo di esperienza conoscitiva. Ciò determinerebbe a sua volta la possibilità, da parte della ragione, di accedere all’ambito della fede religiosa, attraverso l’utilizzo di particolari strumenti. A mio avviso, questa continuità fra scienza e fede va accettata, come vedremo in seguito soltanto entro certi limiti, al fine di scoprire i possibili mezzi che il pensiero razionale avrebbe a disposizione per guardare al di là dei propri confini, verso il mistero di Dio. Il problema immediato che vorrei ora affrontare è quello del rapporto fra Kuhn e Polanyi; esso, infatti, comporterà una serie di conseguenze importanti per la questione del rapporto scienza-fede, che verrà ripresa più avanti.
2. L’esigenza polanyiana della realtà di fronte ai “mondi” kuhniani
Nell’ottica polanyiana esiste la consapevolezza di una scienza che ha i suoi limiti, in quanto attività umana, ma non esiste il concetto di paradigma scientifico, strettamente connesso alla nozione di incommensurabilità. Il filo conduttore di tutto il pensiero polanyiano resta l’idea di una realtà che chiama costantemente l’essere umano all’impegno e alla ricerca. Sia per Kuhn che per Polanyi, le leggi scientifiche descrivono il mondo attraverso concetti storicamente contingenti e quindi soggetti a cambiamento; tuttavia, mentre per il primo un simile argomento determina la negazione della teoria della verità come corrispondenza, dal punto di vista polanyiano la contingenza e la necessità dei concetti elaboranti dalla persona umana, intesa come unità inscindibile di mente-corpo, costituiscono i lati opposti di una stessa medaglia. I paradigmi kuhniani, non sono né veri né falsi, “sono semplicemente lì, parte della situazione storica” (Kuhn 1991, p. 145); chi vuole, quindi, compiere una valutazione delle teorie scientifiche non deve chiedersi quanto queste si avvicinino alla verità, perché non esiste alcuna verità assoluta e soprattutto non esiste alcun punto di vista
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neutrale, dal quale sia possibile sviluppare dei giudizi: “Le asserzioni della conoscenza scientifica vengono necessariamente valutate in base a un «punto archimedeo» mobile e situato nella storia” (Kuhn 1991, p. 144). Anche la giustificazione di una convinzione non può mirare a qualcosa che è al di fuori della realtà storica, ma, ogni volta, lo scienziato che giustifica le teorie da lui considerate valide, punta a migliorare il suo lavoro e ad avere una visione più chiara del suo mondo. Dal punto di vista kuhniano, chi studia con attenzione la storia della scienza dovrà cercare, nei testi del passato, “quei passi che sembrano assurdi e chiedersi come un pensatore acuto possa averli scritti” (Kuhn 1977, p. X). A questo punto, lo storico si accorgerà che molti passaggi importanti, prima incomprensibili, hanno assunto un nuovo significato, cambiando così la prospettiva degli studi rivolti al passato. A tale proposito, Kuhn descrive, facendo riferimento alla sua diretta esperienza personale, le difficoltà incontrate leggendo, per la prima volta, la Physica di Aristotele:
Mi avvicinai a quei testi conoscendo la fisica e la meccanica newtoniana. [...] Anche al livello che sembrava puramente descrittivo gli aristotelici avevano conosciuto poco della meccanica: molto di ciò che essi avevano avuto da dire era chiaramente sbagliato. [...] Nello studio di discipline che non fossero la fisica, Aristotele era stato un osservatore acuto e realistico. Nello studio della biologia e della politica inoltre la sua interpretazione dei fenomeni era stata sovente sia accurata che profonda. Come era possibile che queste sue peculiari doti gli fossero mancate quando aveva studiato il moto? Come mai aveva detto su questo argomento tante cose evidentemente assurde? E soprattutto perché le sue idee erano state prese così sul serio, per un tempo tanto lungo, da un così gran numero di coloro che vennero dopo? Più lo leggevo e più le mie idee divenivano confuse. Aristotele poteva naturalmente avere torto - ed io non avevo dubbi che lo avesse - ma non si poteva pensare che i suoi errori fossero così clamorosi (Kuhn 1977, pp. IX-X).
Questo periodo di studio e di confusione portò Kuhn a capire quale fosse il giusto modo di rapportarsi alla storia della scienza e determinò una nuova concezione dell’impresa scientifica:
Un memorabile (e caldissimo) giorno d’estate queste perplessità svanirono di colpo. Improvvisamente intuii la traccia di uno schema logico per una lettura alternativa dei testi sui
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quali ero stato impegnato. Per la prima volta detti la dovuta importanza al fatto che l’argomento di Aristotele era il mutare delle qualità in generale [...]. Più importante, da parte mia, fu il riconoscimento che gli elementi costanti del mondo di Aristotele, i suoi componenti ontologicamente primari ed eliminabili, non erano i corpi materiali, ma piuttosto le qualità che quando erano applicate ad una qualche porzione della materia neutra onnipresente, individuavano un corpo materiale o sostanziale. [...] Dopo aver compreso ciò, le metafore forzate divennero spesso descrizioni naturalistiche e molte apparenti assurdità sparirono. Non sono diventato per questo un fisico aristotelico, ma ho imparato in un certo qual modo a pensare come se lo fossi.2 Individuavo ancora delle difficoltà nella sua fisica, ma esse non erano clamorose e poche potevano realmente essere definite come errori puri e semplici (Kuhn 1977, p. X).
Quel decisivo episodio del 1947 mise in evidenza che gli uomini del mondo aristotelico guardavano alla natura e parlavano di essa in maniera totalmente diversa rispetto a coloro che sono stati cresciuti ed educati secondo il paradigma della fisica newtoniana. Ciò che avvenne, nel passaggio fra queste due differenti tradizioni, fu “un mutamento globale che non può essere semplicemente descritto come costituito da un’aggiunta alla conoscenza o dalla semplice correzione di singoli errori” (Kuhn 1977, p. XII). Come abbiamo già sottolineato in precedenza, le rivoluzioni scientifiche costituiscono dei momenti di rottura nel corso dello sviluppo scientifico e proprio ad esse si lega quel “mutamento globale” che affascina tanto Kuhn:
Durante una rivoluzione gli scienziati vedono cose nuove e diverse quando guardano con gli strumenti nei luoghi in cui avevano già guardato prima. È quasi come se la comunità professionale fosse stata improvvisamente trasportata su un altro pianeta dove gli oggetti usuali fossero visti sotto una luce differente e venissero collegati ad oggetti inusuali. Naturalmente non succede nulla di simile: non c’è alcun trapianto geografico; al di fuori del laboratorio le faccende quotidiane continuano abitualmente come prima. I cambiamenti di paradigma fanno tuttavia si che gli scienziati vedano in maniera diversa il mondo delle ricerche in cui sono impegnati. Nella misura in cui possono ricorrere a quel mondo solo attraverso ciò che essi vedono e fanno, possiamo dire che, dopo una rivoluzione, gli scienziati reagiscono ad un mondo differente (Kuhn 1962, p. 131).
2
Corsivo mio.
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Credo che per comprendere meglio questo passo, sia necessario interrogarsi sul significato, attribuito da Kuhn, alla parola “mondo”. Non sarebbe esatto, infatti, definire il mondo kuhniano soltanto come un’invenzione o una costruzione degli esseri che lo abitano. I sostenitori di paradigmi incommensurabili svolgono certamente la loro attività in modi diversi, ma questo non significa che “possano vedere qualunque cosa piaccia loro. Entrambi guardano il mondo, e ciò che guardano non cambia. Ma in alcune aree essi vedono cose differenti, e le vedono in differenti relazioni tra loro” (Kuhn 1962, p. 182). Il mondo non è inventato né costruito, gli uomini lo trovano già fatto e attraverso l’educazione scolastica scoprono, in un modo sempre più dettagliato, la sua realtà, le sue leggi. Gli esseri nati in esso devono accettarlo, così come lo trovano; ovviamente, interagendo con le sue parti, possono determinare i mutamenti di alcuni suoi aspetti, ma ciò non vuol dire che abbiano la possibilità di costruirlo a loro piacimento. In questi termini, la spiegazione del passo sopra citato potrebbe risultare un po’ ambigua, per cui è bene considerare l’interpretazione che meglio rispecchia lo spirito dell’epistemologia kuhniana: quella secondo cui la parola “mondo” viene usata in due significati differenti. Il termine plurale “mondi” sta ad indicare i diversi paradigmi in cui gli uomini svolgono la loro attività scientifica. Visti dall’esterno, secondo Kuhn, questi mondi sono come delle “nicchie”, dei luoghi dove gli esseri umani interagiscono con la realtà circostante, attraverso strumenti, leggi e teorie differenti. Dall’interno, invece, “una nicchia è il mondo del gruppo che la abita. [...] Concettualmente, il mondo è la nostra rappresentazione della nostra nicchia: la residenza della particolare comunità umana con i cui membri stiamo attualmente interagendo” (Kuhn 1990, p. 154). Da un lato, quindi, i “mondi” dipendono dalle nostre menti, dall’altro, tuttavia, l’uomo non può vedere qualunque cosa voglia. In un passo, tratto da uno degli ultimi articoli di Kuhn, sembrerebbe emergere l’esigenza di riconoscere un’unica realtà, al di là dei singoli paradigmi, una realtà che rimane, tuttavia, inconoscibile dalla mente umana:
Alla base di tutti questi processi di differenziazione e di mutamento – scrive Kuhn – ci deve essere, naturalmente, qualcosa di permanente, di fisso e di stabile. Come per la kantiana Ding an sich, però, questo qualcosa è ineffabile, indescrivibile, indiscutibile. Posta al di fuori del tempo e dello spazio, questa fonte di stabilità kantiana costituisce il tutto da cui sono stati prodotti sia
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gli esseri viventi che le loro nicchie [...]. L’esperienza e la descrizione sono possibili solo se il descritto e il descrittore sono separati, e la struttura lessicale che segna questa separazione può farlo in modi diversi, ognuno dei quali dà luogo a una forma di vita differente [...]. Alcuni modi sono più adatti a certi scopi, altri sono più adatti ad altri. Nessuno deve però essere accettato come vero o rifiutato come falso; nessuno fornisce un accesso privilegiato a un mondo reale, opposto a uno inventato (Kuhn 1990, p. 156).
Se esiste un mondo reale, questo è qualcosa che non interessa, in maniera diretta, lo scienziato o il ricercatore poiché la natura e le caratteristiche di tale mondo non possono essere oggetto di conoscenza. Ciò che davvero interessa lo scienziato è il mondo nel quale egli vive, la realtà che i suoi occhi vedono e le sue mani toccano; e all’interno di questo mondo il ricercatore fa l’esperienza di una verità, che dal suo punto di vista assume i caratteri dell’assolutezza, ma che dall’esterno diventa relativa a quel particolare contesto sociale e culturale. Il progresso scientifico non mira al raggiungimento di una verità che si pone al di sopra delle singole strutture paradigmatiche, il nesso tra le leggi e un mondo esterno alla mente umana non interessa, perché tutta l’attività scientifica si svolge all’interno del paradigma. Se poi ha luogo una rivoluzione scientifica, lo scienziato non è in grado di compiere paragoni o valutazioni oggettive, poiché egli si trova già ad operare in un mondo totalmente diverso da quello precedente. In questo modo, Kuhn elimina ogni divisione tra reale e fittizio. I mondi in cui l’aristotelico e il newtoniano vivono, sono entrambi “reali”, in quanto rappresentano l’ambiente in cui si svolge la vita dei singoli e delle comunità. Solo all’interno dei rispettivi paradigmi hanno senso certi termini e teorie. Non possiamo, quindi, accusare il paradigma aristotelico di falsità, poiché lo scienziato che operava in esso leggeva la sua realtà, attraverso un lessico molto diverso, rispetto a quello del newtoniano; e in base a quel lessico, le sue leggi erano vere, capaci di rappresentare adeguatamente il mondo. Ritornando, invece, alla filosofia polanyiana, il discorso si sposta su un piano differente. Il concetto di realtà rimane, a mio avviso, il filo conduttore di tutto il pensiero dell’autore; se non teniamo presente il polo oggettivo della conoscenza personale, infatti, non riusciamo neanche a scorgere la possibilità di tenere insieme due esperienze di verità apparentemente molto distanti tra loro, come la scienza e la religione. La verità che spinge l’essere umano a uscire da se stesso, a mettersi in movimento verso mete
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sconosciute, è una sola, ma chiede alla persona di manifestarsi attraverso strumenti e modalità diverse; ciò che conta è non perdere mai di vista quell’orizzonte comune che spinge ciascun individuo alla ricerca e all’interrogazione. Polanyi, nelle ultime righe di Conoscenza inespressa, parla di ragioni metafisiche, nascoste nell’attività esplorativa degli scienziati; la ricerca scientifica appare, così, aperta verso la trascendenza: tutti gli uomini, compresi coloro che decidono di dedicare la loro vita alla scienza, “hanno bisogno di un fine che faccia perno sull’eternità” (Polanyi 1966a, p. 108). È questo fine che dà senso ad ogni nostra esigenza conoscitiva, spingendoci all’incontro con tutto ciò che è altro da noi. “Forse – scrive Polanyi – questo problema non può essere risolto unicamente su basi laiche” (Polanyi 1966a, p. 108). Allora vediamo come, da una simile affermazione, si dischiuda la possibilità di un incontro autentico tra la religione e la scienza. Il futuro ignoto a cui guardano gli scienziati e l’esigenza di credere in una realtà ancora nascosta sono quegli aspetti della ricerca che lasciano presagire una certa continuità con l’esperienza religiosa. L’idea polanyiana di ricerca scientifica viene ulteriormente chiarita, in Scienza fede e società, attraverso tre suggestive metafore. La prima è quella del golfista, utilizzata per illustrare la funzione delle regole metodologiche nella scienza:
Le regole dell’indagine scientifica lasciano completamente aperta la questione della propria applicazione, per farla decidere al giudizio dello scienziato. Questo è il suo compito più importante. Tale compito include il ritrovamento di un problema corretto, delle ipotesi per continuare a investigare su di esso ed il riconoscimento di una scoperta che lo risolve. In ciascuna di tali decisioni lo scienziato può fare affidamento sull’aiuto di una regola: ma in tal modo egli seleziona una regola che si applica al caso, più o meno come un golfista sceglie un bastone adatto alla sua prossima battuta (Polanyi 1946, p. 37).
Il golfista, infatti, non dispone di uno strumento predeterminato, non ha una sola mazza a disposizione, ma con pazienza studia la situazione in cui si trova e cerca di scegliere il mezzo giusto che gli permetterà di collocare, con il minor numero possibile di battute, la pallina in buca. In modo analogo, lo scienziato non possiede un metodo d’indagine predefinito e la scelta di una regola dipende dal tipo di problema che è chiamato a risolvere, ma anche dalle sue abilità, che lo spingono a seguire una strada piuttosto che un’altra. Si tratta tanto per il golfista, che per lo scienziato, di “un gioco di pazienza
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dove il giocatore, in ciascun turno, ha discrezionalità nell’applicare le regole come meglio crede” (Polanyi 1946, p. 62). Nella sua attività di ricerca, inoltre, lo scienziato “sembra comportarsi da investigatore, poliziotto, giudice e giuria tutto in uno” (Polanyi 1946, p. 62). Con questa seconda metafora, Polanyi intende ribadire l’impossibilità di separare le singole fasi o i livelli in cui si dispiega il processo della scoperta scientifica. È la stessa, infatti, la persona che “coglie certi indizi come sospetti, formula l’accusa ed esamina le prove sia a favore sia contro […] e infine pronuncia il verdetto” (Polanyi 1946, p. 62). In questa serie di attività lo scienziato non è mai neutrale, ma è costantemente interessato all’esito della sua indagine: “Deve esserlo, altrimenti non riuscirà a scoprire un problema e certamente non avanzerà verso una soluzione” (Polanyi 1946, p. 62). La capacità di individuare una situazione problematica, infatti, dipende da quella passione che guida il nostro sguardo verso determinati aspetti del reale, rendendo la persona impegnata nella propria attività di ricerca. Come abbiamo già sottolineato in precedenza, tuttavia, al polo personale della conoscenza corrisponde un polo oggettivo e reale. Lo scienziato non si limita all’uso congetturale di regole, né rimane chiuso in una serie d’interpretazioni, ma intende capire quale incidenza abbiano tali regole sulla realtà e quale verità permetta lo sviluppo di tante interpretazioni diverse. Lo scienziato è attratto dalla realtà. Da questo punto di vista, secondo Polanyi, egli assomiglia a un uomo che, nel bel mezzo della notte, mentre riposa in casa, sente degli strani rumori e comincia a fare una serie di ipotesi:
Supponiamo di svegliarci nella notte al suono di un rumore simile al rovistare proveniente dalla vicina stanza libera. È il vento? Uno scassinatore? Un topo? Proviamo a ipotizzare. Era un rumore di passi? Questo indica uno scassinatore! Convinti, ci facciamo coraggio, ci alziamo e procediamo a verificare la nostra assunzione (Polanyi 1946, p. 45).
Lo scienziato opera in modo analogo: inizia la ricerca facendo una serie di congetture, ma poi, in base a indizi sempre più precisi, vuole andare a vedere se ha ragione e se effettivamente la sua teoria corrisponde alla realtà. La sola differenza tra la scoperta dello scassinatore e quella offerta da una proposizione scientifica consiste nel fatto che la prima “seleziona un elemento della realtà già conosciuto – lo scassinatore – la seconda spesso postula elementi interamente nuovi”
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(Polanyi 1946, p. 46), i quali lasciano comunque presagire la presenza di una realtà: “Ogni sforzo per comprendere qualcosa – scrive Polanyi – deve essere sostenuto dalla credenza che vi sia qualcosa che può essere compreso” (Polanyi 1946, p. 67). Queste parole ci mettono nella condizione di cogliere l’insolita definizione polanyiana dello scienziato, il quale, in Scienza fede e società, viene chiamato “credente metafisico” (Polanyi 1946, p. 106); l’uomo di scienza, infatti, “è il giudice ultimo di ciò che accetta come vero” (Polanyi 1946, p. 62) e il suo sforzo di comprendere la realtà procede di pari passo con la fede nella stessa verità che egli tenta di conoscere. Le metafore attraverso le quali Polanyi chiarisce il ruolo dello scienziato confluiscono, quindi, nella sola immagine del credente metafisico: non può esserci definizione migliore per mostrare quella tensione umana verso credenze indimostrabili che, nell’ottica polanyiana, anima tutta la conoscenza, compresa la ricerca scientifica. Thomas Torrance, in Senso del divino e scienza moderna, rimanendo in linea con Polanyi, tenta di rintracciare nell’ambito del sapere razionale e scientifico uno spirito religioso, capace di arricchire la nostra stessa conoscenza del mondo. Il primo scienziato cui Torrance fa riferimento è Einstein, il quale parla di religiosità cosmica, intesa come un profondo spirito religioso che rende lo scienziato capace di stupore e lo spinge a lottare, con lo scopo d’intuire la perfetta armonia dell’universo, immagine di un’intelligenza superiore:
La più bella sensazione è il lato misterioso della vita. – scrive Einstein – È il sentimento profondo che si trova sempre nella culla dell’arte e della scienza pura. Chi non è più in grado di provare né stupore né sorpresa è per così dire morto; i suoi occhi sono spenti. L’impressione del misterioso ha suscitato, tra l’altro, la religione. Sapere che esiste qualcosa d’impenetrabile, conoscere le manifestazioni dell’intelletto più profondo e della bellezza più luminosa, che sono accessibili alla nostra ragione solo nelle forme più primitive, questa conoscenza e questo sentimento, ecco la vera devozione: in questo senso, e soltanto in questo senso io sono fra gli uomini più profondamente religiosi. […] Mi basta sentire il mistero dell’eternità della vita, avere la coscienza e l’intuizione di ciò che è, lottare attivamente per afferrare una particella, anche piccolissima, dell’intelligenza che si manifesta nella natura (Einstein 1931, pp. 21-22).
La religione cosmica, che non può essere compresa da chi non la vive poiché ad essa non corrisponde l’immagine di un Dio antropomorfo, diventa, nell’ottica einsteiniana,
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“l’impulso più potente e più nobile della ricerca scientifica” (Einstein 1931, p. 27): gli scienziati vengono considerati come uomini profondamente religiosi, dediti alla ricerca di una perfetta armonia tra la mente umana e la razionalità immanente all’universo. Esprimendo l’esigenza di ritrovare il fondamento religioso della ricerca scientifica, Einstein incarna l’immagine di una scienza che non si accontenta di descrivere ciò che incontra, ma che rimane sempre aperta alle ragioni ultime del reale. La relazione fra senso del divino e sapere scientifico, permette, dal punto di vista di Torrance, di definire l’uomo come quella “creatura che, tramite la sua interazione con Dio, nel quadro della struttura spazio-temporale dell’universo, costituisce il punto limite tra l’inconcepibile e il concepibile, tra cielo e terra” (Torrance 1992, p. 189). Andando sempre più a fondo, nella ricerca scientifica, la persona può intuire in che modo l’universo sia aperto a un fondamento trascendente:
L’esperienza religiosa e la comprensione teologica possono e devono avere una parte fondamentale nello sviluppo della scienza, aiutandola a superare l’ossessione materialista per le grandezze percettibili e tangibili […]; e anche, più positivamente, coltivando nella società umana la capacità di recepire le grandezze impercettibili e intangibili su cui la scienza si fonda sempre di più man mano che penetra nelle strutture non osservabili che regolano nell’universo la nostra comprensione di esso (Torrance 1992, p. 189).
Torrance sottolinea come la fiducia nell’intelligibilità dell’universo sia sostenuta da una fede più profonda in una verità su cui non abbiamo alcun controllo, ma dalla quale dipende lo sviluppo del pensiero razionale; l’attività scientifica, quindi, è sempre accompagnata da alcuni atti di fede “che non possiamo evitare di avere se vogliamo restare razionalmente fedeli alla natura delle cose dell’universo a cui apparteniamo” (Torrance 1992, p. 301). Il riferimento al pensiero di Torrance può esserci utile per comprendere più a fondo la continuità, sostenuta da Polanyi, tra scienza e fede religiosa. Abbiamo visto come, fin dalle prime opere, il pensiero polanyiano sia attraversato dall’esigenza di guardare a Dio come fonte ultima di ogni conoscenza. Ora prenderemo in esame alcune tematiche presenti in Meaning, uno dei testi più criticati, nel quale Polanyi, un anno prima di morire, riprende la teoria della conoscenza tacita, approfondendo la questione del rapporto fra scienza e religione. Qui Polanyi tenta di armonizzare i significati stabiliti
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dalle scienze naturali e dalle discipline umanistiche, pur sottolineando evidenti differenze. Possiamo considerare Meaning come un libro che sviluppa alcune questioni da sempre presenti nel pensiero dell’autore, ma soltanto accennate nelle opere precedenti: è come se, in questo testo, Polanyi volesse offrire una nuova visione della sua filosofia, ampliando le problematiche epistemologiche nella direzione dell’arte, del mito e, infine, della religione. Nei primi capitoli vengono distinti tre modi diversi di dare significato a qualcosa: l’indicazione, propria delle scienze naturali, si differenzia dalla simbolizzazione e dall’espressione metaforica. La prima, infatti, viene definita come una “self-centered integration” (Polanyi, Prosch 1975, p. 71), poiché consiste in un’integrazione di elementi sussidiari, che avviene a partire dal soggetto: l’entità comprensiva a cui è rivolta tutta l’attenzione focale è il risultato di un’operazione tacita, attraverso la quale l’individuo assembla a sé una serie di indizi, che gli permettono di rivolgere lo sguardo verso una meta a lui esterna; i particolari sussidiari, quindi, non interessano per se stessi, ma soltanto in relazione all’entità comprensiva che indicano. La simbolizzazione, invece, consiste in una “self-giving integration” (Polanyi, Prosch 1975, p. 74), poiché l’individuo concentra tutta la sua attenzione sul simbolo, che diventa il centro focale, cui il soggetto si dona, trasferendo in esso la propria esperienza di vita. Polanyi porta l’esempio di una bandiera che simboleggia la grandezza di un paese. In questo caso, l’oggetto attrae il nostro interesse, perché osservandolo noi riviviamo la storia della nazione a cui apparteniamo: “The meaning of the flag (the object of our focal attention) is what is it because we have put our whole existence into it” (Polanyi, Prosch 1975, p. 72). Gli elementi sussidiari, che in tal caso, coincidono con le esperienze di vita della persona, caricano l’oggetto d’interesse, conferendogli significato; per cui, la bandiera, come semplice oggetto, osservato dall’esterno, è privo di senso, se non consideriamo la sua relazione con la vita di un popolo. Ciò che davvero interessa non è, quindi, l’elemento focale in quanto tale, ma tutti quegli aspetti sussidiari che lo rendono significante. Anche nel caso della metafora, secondo Polanyi, gli indizi sussidiari risiedono nell’esistenza individuale, la quale viene integrata all’oggetto focale della nostra attenzione, che è la metafora stessa. Tuttavia, in questo caso sia gli elementi focali che quelli sussidiari assumono un’importanza rilevante, poiché da entrambi dipende l’effetto che una costruzione metaforica ha su di noi.
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Il discorso sulla metafora è molto utile, per comprendere quell’integrazione di aspetti incompatibili che caratterizza l’opera d’arte. Il significato di un’opera artistica, infatti, è sempre metaforico: questo significa che non possiamo considerare un quadro o un poema soltanto come la rappresentazione di un’esperienza, definizione che sarebbe più adeguata al simbolo; ma, per vedere l’arte bisogna entrarci dentro, credere in essa: “If we believed a work of art to be simply affirming certain facts of experience, we would not see it as a work of art. […] Appreciation of a work of art requires belief in what it means” (Polanyi, Prosch 1975, p. 92). L’immaginazione, nel campo dell’arte, svolge un ruolo centrale, poiché grazie ad essa, la persona riesce a fondere il particolare con l’universale: in questo modo la struttura di un’opera si unisce all’esperienza personale del singolo individuo, che non rimane in un puro ambito soggettivo, ma si apre ad un significato universale. L’opera d’arte è autonoma, e una volta realizzata, si distacca dall’autore, dalle sue esperienze quotidiane, per diventare un mezzo di espressione della realtà. A questo punto, Polanyi sottolinea come, da una parte, il potere dell’immaginazione di fondere gli incompatibili, avvicini molto l’arte all’esperienza religiosa, dall’altra tuttavia, egli riconosce una profonda differenza tra il campo artistico-religioso e quello scientifico, una differenza dovuta proprio al ruolo dell’immaginazione. Come abbiamo sottolineato in precedenza, anche nella ricerca scientifica, il gioco d’intuizione e immaginazione è importantissimo affinché lo scienziato possa cogliere un particolare aspetto di quella realtà nascosta, che gli si rivela attraverso indizi spesso non specificabili. Tuttavia, scrive Polanyi:
Perhaps the most important difference between the arts, on the one hand, and science and technology, on the other, is found at the end of the pursuit, in the way the two are tested. Technical inventions and scientific discoveries are subjected to much more impersonal tests than works of art are (Polanyi, Prosch 1975, p. 100).
A primo impatto, da queste parole, si ha l’impressione che Polanyi abbia modificato il suo punto di vista, ritornando alla tradizionale separazione fra scienza da una parte, e arte e religione dall’altra. Per questo Meaning è stato oggetto di molte critiche, da parte di autori che hanno visto in Polanyi un cambiamento di tendenza, rintracciando nel suo pensiero un’incoerenza di fondo. Ronald Hall, ad esempio, mette in evidenza come, in Personal Knowledge, scienza ed arte si fondessero in un’unica struttura di ricerca, al
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fine di trovare una via d’accesso alla realtà. Invece, riferendosi all’opera del 1975, egli scrive: “There is a certain drift that seems to head in the direction of the old positivistic assumptions concerning the relation of the sciences and the arts” (Hall 1982a, p. 14-15). Polanyi, quindi, nel suo ultimo lavoro, avrebbe distinto una realtà che esiste indipendentemente dai nostri sistemi articolati, come nelle scienze naturali, e una realtà che esiste solo attraverso le particolari strutture dell’arte e della religione, ritornando, dunque, alla vecchia distinzione positivistica tra elementi personali, appartenenti al campo artistico e religioso, ed elementi certi e obiettivi, legati soltanto all’ambito del sapere razionale. Harry Prosch, con il quale lo stesso Polanyi aveva collaborato per la stesura di Meaning, tenta di rispondere a simili accuse, notando che la distinzione fra scienza e religione non sia in grado di distruggere l’idea di una realtà unica, capace di rivelarsi in forme sempre nuove e sulla cui assunzione si fonda tutto il pensiero polanyiano: “Meanings created in the sciences stand in no more favored relation to reality than to meanings created in the arts, in moral judgments, and in religion” (Polanyi, Prosch 1975, p. 65). Polanyi, infatti, attraverso queste parole mostra chiaramente di non aver abbandonato l’idea di realtà, che in Personal Knowledge costituiva il polo oggettivo della conoscenza personale:
Although there are two different notion of reality in science and in art and religion, - sottolinea Harry Prosch - both nonetheless fit Polanyi’s often expressed definition of reality as that from which we expect indeterminant properties to arise in the future. […] These properties have a life and development of their own which we can neither control nor anticipate (Prosch 1982, p. 41).
In linea con l’interpretazione di H. Prosch, possiamo chiaramente scorgere quella linea sottile che attraversa tutto il pensiero polanyiano e che coincide proprio con la nozione di realtà, alla quale non è possibile rinunciare, se non rischiando di cadere in qualche forma di relativismo. Il reale costituisce sempre quel polo esterno verso il quale il soggetto conoscitivo è chiamato a muoversi, e questo vale sia per la scienza che per la religione. Riconoscendo ciò, tuttavia, Polanyi non si dimentica la distinzione fra ambiti che sicuramente s’intrecciano, ma senza sovrapporsi. Allora vediamo che la differenza fondamentale fra scienza da una parte, e arte e religione dall’altra, sta nel rapporto con l’esperienza; nel primo caso, infatti, non abbiamo bisogno di prove per affermare l’esistenza del mondo esterno, nel secondo, invece, l’esperienza di quella realtà artistica
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o religiosa con la quale ci sentiamo in relazione dipende dal nostro modo di vivere rispettivamente l’arte o la religione; anche nell’ambito religioso possiamo dire che Dio esiste, ma solo perché è adorato e ascoltato, non come un dato di fatto. Prosch, infatti, sottolinea come, nell’ottica polanyiana, la verità, la bellezza, la giustizia, e quindi anche Dio, non siano realtà tangibili o verificabili, poiché lo loro esistenza dipende dal modo in cui noi ci dedichiamo ad esse; allora capiamo in che senso questi sistemi articolati, non scientifici, siano soltanto soggetti a convalida e non a verificazione. Ciò non rappresenta affatto una svolta verso il relativismo, ma semplicemente una presa di coscienza di livelli ontologici e gnoseologici differenti, a cui l’uomo si rapporta in maniera diversa. La verità rimane sempre unica, anche se può mutare il nostro modo di relazionarci ad essa, in base all’ambiente socio-culturale in cui viviamo. Dire che la verità, come Dio, non è soggetta a verificazione, non significa ridurla a qualcosa di soggettivo, ma vuol dire conferirle una grandezza e una validità universale, negando la possibilità di racchiuderla in un concetto o in una definizione. Secondo Harry Prosch, Polanyi, in Meaning, non pensa a Dio come a una realtà indipendente dai nostri sistemi articolati, simile, quindi, alla realtà naturale; per affermare l’esistenza di Dio, infatti, non possiamo far altro che credere in Lui. Tuttavia, come abbiamo già sottolineato, la fede non rimane relegata nell’ambito puramente religioso, ma si estende fino alla scienza. E questa è un’idea che Polanyi non ha mai abbandonato. Ovviamente i gradi del credere sono diversi: la fede che guida la ricerca scientifica è meno profonda, di quella che muove l’animo di un artista o di un religioso, poiché la realtà naturale è visibile e tangibile, mentre l’esperienza estetica o religiosa non possiede un riscontro immediato. Dall’intervento di Prosch, capiamo, quindi, quanto sia importante, per l’ultimo Polanyi, tenere ben presenti le differenze tra il campo scientifico e quello artistico-religioso, senza perdere di vista, tuttavia, l’idea di un’unica realtà, capace di rivelarsi in modalità future sempre nuove. Sicuramente, rimanendo al di fuori dell’ottica polanyiana, è molto difficile scorgere quel filo sottile, ma ineliminabile, che lega la ricerca scientifica alle esperienze artistiche e religiose. Su questo punto, infatti, Polanyi è stato oggetto di alcune critiche, tra le quali vorrei ricordare quella di Perelman, che, pur condividendo il rifiuto polanyiano del positivismo e dell’oggettivismo scientifico, è convinto che l’autore di
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Personal Knowledge abbia assimilato troppo l’impegno personale dello scienziato con quello dell’artista e dell’uomo religioso:
Io credo che vi siano differenze essenziali in queste materie. – sottolinea Perelman – Se io sono, proprio come Polanyi, fautore di un sapere personale, inserito in una cultura e in una tradizione, vorrei però sottolineare, più di quanto egli abbia fatto, il posto particolare delle scienze nella nostra cultura, perché le tecniche di prova e di verifica consentono di raggiungere in esse un accordo inaccessibile in altri ambiti (Perelman 1979, p. 252)
Perelman presta attenzione soprattutto alla “differenza fra verità e razionalità” (Perelman 1979, p. 252): dal suo punto di vista, infatti, nell’ambito del sapere scientifico-razionale il pluralismo è inconcepibile; quando, invece, non si tratta di “descrivere il reale, ma di metterlo in prospettiva, di valorizzarlo, di elaborare un’ontologia e non una scienza della natura” (Perelman 1979, p. 152), allora differenti visioni, anche opposte, possono stare le une accanto alle altre: “In arte, in filosofia, in diritto e in religione, diversi punti di vista incompatibili possono venir proposti senza che esistano dei criteri riconosciuti che ci consentano di eliminare tutti questi punti di vista a vantaggio di uno solo” (Perelman 1979, pp. 251-252); solo in ambito scientifico, invece, la possibilità di verificare i risultati, permetterebbe di raggiungere un accordo universale. Prendendo in considerazione la critica sviluppata da Perelman, si può innanzitutto notare che egli si riferisca, in particolar modo, al Polanyi di Personal Knowledge, un testo nel quale i confini tra discipline scientifiche e umanistiche, rispetto ai lavori successivi, tendono ad essere più sfumati. Dalle pagine di Meaning, infatti, emerge chiaramente la preoccupazione polanyiana di scindere ambiti diversi, pur non negando i loro nessi. In secondo luogo, Perelman, attraverso la distinzione tra il campo della razionalità e quello delle verità estetiche, giuridiche e religiose, riprende quell’antica distinzione tra fatti e valori che Polanyi aveva rifiutato, fin dalle prime opere, sottolineando l’impegno personale dell’individuo in ogni autentico tentativo di conoscenza. In questo modo, Perelman rischia di dimenticare il ruolo del credente metafisico, ovvero dello scienziato aperto a certezze ultime e trascendenti. Imparare a ragionare nell’ottica polanyiana vuol dire, a mio avviso, mutare progressivamente il proprio modo di vedere non soltanto la figura dello scienziato,
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inteso come credente metafisico, ma anche l’immagine dell’essere umano. Il profondo legame tra scienza e religione ci aiuta, infatti, a riscoprire l’uomo come esploratore, il quale, spinto da indizi problematici o da supposizioni, va sempre alla ricerca di una realtà in cui crede. La figura dell’esploratore illustra chiaramente la condizione della natura umana, chiamata ad esercitare la creatività, a partire da indizi, che lasciano soltanto intendere la direzione da seguire. Tutto ciò riguarda in particolare gli scienziati, che, attraverso la loro attività di ricerca, formano una vera e propria “società di esploratori” (Polanyi 1969, p. 103), aperta sempre verso un futuro ignoto ma, in linea di principio, accessibile: “In una società di esploratori l’uomo è nel pensiero” (Polanyi 1966a, p. 99) e quindi si trova costantemente impegnato in “scoperte potenziali, che gli dischiudono la possibilità di innumerevoli problemi” (Polanyi 1996a, p. 99). Polanyi è convinto che l’immagine di un’umanità immersa in una sorta di pensiero potenziale e decisa a lottare per una realtà nascosta, possa chiarire l’autentica situazione dell’uomo nel mondo, smascherando alcuni equivoci:
Quest’immagine ci libera dall’assurdità dell’assoluta autodeterminazione, pur offrendo a ciascuno di noi l’opportunità di un’originalità creativa entro il singolo spazio che circoscrive la nostra vocazione. Essa ci mette a disposizione le ragioni metafisiche e i principi organizzativi di una società di esploratori (Polanyi 1966a, p. 107).
Arrivati a questo punto, credo sia chiaro in che senso il discorso polanyiano sulla scienza si sviluppi su un piano differente rispetto a quello kuhniano. Se il contesto e i presupposti dai quali hanno inizio le ricerche di entrambi gli autori sono gli stessi, le conclusioni verso cui tendendo le due rispettive posizioni ci conducono verso strade differenti. Lo studio polanyiano dei meccanismi conoscitivi e l’idea di una fede, intesa come risposta personale al richiamo di una realtà oggettiva, alla quale non è possibile rinunciare, ci spingono, infatti, ai confini dell’epistemologia, dando vita ad una serie d’interrogativi riguardanti l’origine ultima dell’esistenza umana e di tutto il creato. Il concetto kuhniano di una fede, relegata all’interno di un particolare paradigma, e la nozione d’incommensurabilità tra sistemi scientifici, sociali e linguistici diversi ci portano, invece, nella direzione di un’epistemologia sterile, che rimane costantemente chiusa su se stessa.
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Ritornando ora all’interrogativo da cui ha preso le mosse la mia ricerca e che scaturisce dalle riflessioni polanyiane sulla scienza – vale a dire la domanda sui possibili aspetti ragionevoli o razionali, nell’ambito della fede religiosa – nel prossimo capitolo vorrei tentare di porre in dialogo rispettivamente la filosofia kuhniana e quella polanyiana con la filosofia analitica della religione, che negli ultimi decenni ha fornito contributi importanti per la riflessione sul rapporto fra scienza e fede.
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3. Un approccio alternativo all’esperienza della fede
Abbiamo in precedenza osservato come, a differenza di Kuhn, Polanyi riesca a collocare le sue riflessioni ai confini di un ambito prettamente epistemologico, rimanendo fedele all’idea di una realtà, intesa come polo oggettivo e irrinunciabile della conoscenza personale. Le questioni relative alla nozione di realtà hanno reso ancor più evidente il nesso tra scienza ed esperienza religiosa, sollevando una serie d’interrogativi esistenziali che, fin dal piccolo volume del 1946, Scienza, fede e società, animano tutto il pensiero polanyiano. Incontreremo così questioni teologiche che Polanyi non ha mai trattato in maniera diretta, ma che si celano dietro alla teoria della conoscenza personale, costituendone, in modo inespresso, o per meglio dire tacito, sia un punto di partenza, sia un punto di arrivo. Se Polanyi si limita a mostrare il ruolo del credere nel conoscere, aprendo la relazione uomo-mondo ad un terzo polo, coincidente con un Dio lontano ma allo stesso tempo vicino al cuore dell’uomo, credo sia utile provare a fare un passo avanti, ricercando alcuni possibili aspetti ragionevoli o razionali, nell’ambito della fede religiosa. A mio avviso, la filosofia analitica della religione può fornire una serie di strumenti più o meno utili ai fini della nostra ricerca, permettendoci di rileggere il rapporto tra il pensiero razionale e l’ambito della credenza religiosa, da un punto di vista alternativo. La mia intenzione, quindi, è quella di entrare, in un primo momento nelle questioni relative alla filosofia analitica dell’esperienza religiosa, per poi uscirne, provando a ripensare un possibile dialogo tra le due differenti posizioni di Kuhn e Polanyi e la stessa filosofia analitica della religione.
1. La filosofia analitica di fronte all’esperienza della fede religiosa
Il mio breve excursus sulle più note questioni, interne alla filosofia analitica della religione, prende le mosse dall’interpretazione di Mario Micheletti, il quale ha svolto
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numerosi studi su a questo proposito (cfr. Micheletti, 1972 e 1982), interrogandosi, in particolar modo, sullo status logico della credenza religiosa, nell’ambito del pensiero analitico. Come nota questo autore, possiamo distinguere, in maniera molto schematica, due modi attraverso i quali il pensiero critico può rapportarsi alla credenza religiosa:
Da un lato, una comprensione e descrizione logicamente adeguate della credenza religiosa sembrano portare all’affermazione della sua a priori invulnerabilità logica rispetto alla critica, esponendola quindi al rischio di essere interpretata come irrilevante dal punto di vista conoscitivo e pratico; dall’altro, una critica non meno ineludibile, condotta secondo criteri epistemologici generali, in particolare in conformità con le esigenze del moderno empirismo, sembra implicare un necessario fraintendimento della credenza religiosa, e risultare quindi vana (Micheletti 1982, p. 152).
In altre parole, quando si sostiene che l’analisi di un determinato argomento religioso è inadeguata, si pone indirettamente l’accento sulla peculiarità del linguaggio religioso e si finisce per ammettere che la natura della credenza non è esprimibile o spiegabile, se non in termini prettamente religiosi. Quei filosofi che vengono comunemente identificati con l’espressione di “fideisti wittgensteiniani” sembrano, in linea generale, sostenere l’idea che “qualsiasi critica razionale della credenza religiosa implichi un’interpretazione inadeguata della stessa e che quindi una critica fondata su un’interpretazione adeguata sia impossibile” (Micheletti 1982, p. 159). La domanda che si pone al centro del dibattito, dunque, riguarda la possibilità o meno di elaborare una critica di argomenti interni alla fede religiosa, utilizzando tuttavia un linguaggio di ordine diverso da quello religioso. Le obiezioni sviluppate dai wittgensteiniani non sono rivolte tanto alle interpretazioni scettiche della credenza religiosa, quanto a quelle argomentazioni che pretendono validità a partire dalle teorie empiristiche. Tuttavia, anche tra gli empiristi (come T. Ramsey e John Hick) a volte sembra svilupparsi la tendenza ad attribuire al discorso religioso una peculiarità, che lo rende in qualche modo inattaccabile. “È dubbio, per esempio – scrive Micheletti – che Ramsey resti completamente sul terreno dell’interpretazione empirista, quando affianca all’esigenza di un empirical anchorage
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quella del rispetto della struttura logica peculiarmente «strana» del discorso teologico” (Micheletti 1982, p. 159). Sicuramente, tra le interpretazioni empiristiche della credenza religiosa, degna di nota è la posizione di Antony Flew, espressa in un breve saggio del 1950, intitolato Theology and Falsification. Qui l’autore presenta subito le sue conclusioni come “derivanti da un minimo impegno teorico e conseguenti invece dalla semplice applicazione di elementari regole logiche” (Micheletti 1982, p. 162). Il suo argomento, infatti, prende le mosse dall’ovvia verità logica, in base alla quale un’asserzione equivale sempre alla negazione della sua negazione. Di conseguenza, un metodo per comprendere se un’espressione ha valore assertivo o meno è andare alla ricerca di ciò che la renderebbe falsa. Qualsiasi argomento che risultasse incompatibile con la verità di un’asserzione farebbe necessariamente parte del significato della sua negazione, ma conoscere il significato della negazione di un’asserzione equivale a conoscere il significato stesso dell’asserzione. Se poi non ci sono particolari questioni che una proposizione neghi, allora non c’è neppure nulla che asserisca. L’applicazione di tale argomento al tentativo di ricercare lo status logico della credenza religiosa, ha portato allo sviluppo della tesi secondo la quale le asserzioni religiose e teologiche “sono in realtà prive di significato fattuale, perché infalsificabili, dove tale infalsificabilità è correlata necessariamente al processo di qualificazione cui il teologo è indotto e all’uso analogico delle sue espressioni” (Micheletti 1972, p. 68). Il principio di falsificabilità, come sappiamo, è stato elaborato per la prima volta da Karl Popper come criterio di demarcazione tra proposizioni scientifiche e non scientifiche. Per chiarire in che modo Flew, nella sua critica alla religione, riprenda tale principio, credo sia utile fare delle precisazioni riguardanti proprio il criterio di falsificabilità elaborato originariamente da Popper. “Da un sistema scientifico – scrive Popper – non esigerò che sia capace di essere scelto, in senso positivo, una volta per tutte; ma esigerò che la sua forma logica sia tale che possa essere messo in evidenza, per mezzo di controlli empirici, in senso negativo: un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza” (Popper 1959, p. 22). In tal senso, la falsificabilità non viene intesa come criterio di significanza, ma soltanto come criterio di demarcazione: “La falsificabilità separa due tipi di asserzioni perfettamente significanti: le falsificabili e le non falsificabili. Essa traccia una linea all’interno del
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linguaggio significante, non intorno ad esso” (Popper 1959, p. 22). Ciò che interessa Popper è stabilire un criterio alternativo a quello di verificabilità, elaborato dagli empiristi logici, al fine di distinguere due gruppi di asserzioni assolutamente significanti, quelle scientifiche e quelle metafisiche. Da qui ha inizio il dibattito tra Popper e Carnap circa i numerosi tentativi di Carnap di mostrare che la demarcazione tra scienza e metafisica coincide con quella tra senso e non senso. Dal punto di vista popperiano, infatti, le proposizioni che non appartengono ad un ambito scientifico non sono insensate, ma semplicemente non sono valutabili da un punto di vista scientifico, perché non esiste nulla che possa, in linea di principio, falsificarle. Una proposizione del tipo “Esiste uno spirito personale onnipotente, onnipresente e onnisciente” viene definita da Popper con l’espressione “arch-metaphysical assertion”. Si tratta di “una formula arcimetafisica puramente esistenziale” (Popper 1963, p. 209) che ha un significato specifico, all’interno di un particolare contesto, ma che viene definita come metafisica, poiché non esiste alcuna possibilità di falsificarla. Metafisico, quindi, non significa privo di significato, “a meno che non si scambi l’incredibilità empirica per l’insensatezza” (Micheletti 1972, p. 72), come avrebbe fatto Carnap, la cui replica alle accuse popperiane risulta importante per comprendere il pensiero stesso di Flew. Dal punto di vista di Carnap, infatti, la differenza fondamentale tra la sua posizione e quella di Popper consiste nel diverso significato che entrambi attribuiscono alle parole “metafisica” e “teologia”. Mentre Popper definisce le asserzioni pseudo-scientifche (appartenenti all’astrologia o ai racconti mitologici) come metafisiche, Carnap per metafisiche intende le cosiddette pseudo-asserzioni, ovvero tutti quegli enunciati dichiarativi privi di significato cognitivo, considerando, in linea con Popper, le proposizioni pseudo-scientifiche comprensibili e dotate di contenuto empirico (cfr. Micheletti 1972, p. 72). La demarcazione tra scienza e metafisica, quindi, non coinciderebbe, dal punto di vista di Carnap, con quella tra senso e non senso, ma con quella tra proposizioni che hanno significato cognitivo, e pseudo-asserzioni. Anche Flew non utilizza la falsificabilità come criterio per stabilire il significato delle proposizioni, ma riconosce come privo di significato cognitivo, e quindi come pseudoasserzione nel senso di Carnap, qualsiasi enunciato che sia inconfutabile. Se, infatti, un’asserzione non può essere falsificata, non può essere neanche stabilita la sua verità
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o falsità e dunque tale asserzione va considerata, non tanto priva di significato, quanto priva di significato cognitivo. Il problema, a questo punto, sarebbe quello di definire il termine “cognitivo”, cercando di comprendere in che modo una proposizione possa essere sensata, senza essere significante cognitivamente. Sicuramente l’esempio proposto da Flew può esserci d’aiuto:
Supponi che noi siamo in dubbio – scrive Flew – su ciò che asserisce uno che dia libero sfogo a un’espressione, o supponi che, più radicalmente, siamo scettici se egli realmente asserisca qualcosa; un modo di tentare di comprendere (o forse di mettere a nudo) la sua espressione è cercare di trovare che cosa considererebbe come capace di contare contro la sua verità e di essere incompatibile con essa (Flew 1950, p. 58).
A mio avviso, una possibile risposta al nostro problema potrebbe nascondersi tra quelle parole che Flew mette tra parentesi: comprendere un’espressione o attribuire un significato cognitivo ad un’asserzione significa “mettere a nudo” tale asserzione, ovvero muoversi esclusivamente in quella dimensione del pensiero che Polanyi definiva come esplicita. Le pseudo-asserzioni di Carnap o tutte quelle espressioni che, dal punto di vista di Flew, non hanno un significato cognitivo poiché non falsificabili, troverebbero, invece, la loro convalida, e non la loro giustificazione, in quell’ambito sconfinato del conoscere che, usando sempre la terminologia polanyiana, possiamo definire come tacito o inesprimibile. Secondo Flew poi, la capacità di “mettere a nudo” un’espressione consiste nel tentativo di trovare qualcosa che possa negare la sua verità; solo in questo caso è possibile identificare un’asserzione come vera o come falsa. Per quanto riguarda, invece, le proposizioni appartenenti a un contesto teologico o religioso, non si può neanche andare alla ricerca della loro verità o falsità, poiché non esiste nulla che possa, in linea di principio, falsificarle. Al fine di rendere più chiare le linee generali del dibattito, interno alla filosofia analitica della religione, concernente la possibilità o meno di attribuire alla credenza religiosa uno status logico, vorrei prendere in considerazione alcune critiche che sono state mosse all’argomento di Flew (cfr. Micheletti 1982, pp. 163-172). In primo luogo, viene sottolineato il fatto che Flew non spieghi cosa vuol dire “essere parte del significato di un’asserzione”, utilizzando in maniera impropria il principio di falsificabilità empirica. La considerazione piuttosto ovvia che, se una proposizione è
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falsa, la sua negazione è vera e viceversa, non avrebbe nulla a che fare col rilievo, molto meno ovvio, che un’asserzione ha valore di verità solo se esiste uno stato di cose che può infirmare la sua verità. Di conseguenza ritenere che un’asserzione sia cognitivamente sensata solo se una serie di fatti osservabili contano contro di essa non è così scontato come dire che se una proposizione è falsa la sua contraddittoria risulta vera (cfr. Micheletti 1982, p. 164) 1. Secondo questa prospettiva critica, Flew assumerebbe come criterio di significanza, e non di demarcazione, una particolare versione della falsificabilità empirica, sostenendo che per ogni asserzione significante, dal punto di vista cognitivo, deve esserci una serie finita di osservazioni capaci di falsificare quella stessa asserzione. Un’altra critica, che si ricollega per molti aspetti alla prima, è quella secondo la quale Flew avrebbe confuso evidenza e criteri di significanza: le condizioni che devono essere soddisfatte, in linea di principio, perché si possa credere alla verità di una proposizione, non coincidono con le condizioni che devono essere soddisfatte perché un’asserzione sia vera. Il significato di un’asserzione, inoltre, non equivale alle previsioni empiriche che essa contiene (cfr. Heimbeck 1969, pp. 37, 48, 64). In sintesi, potremmo dire che i problemi più evidenti, derivanti dall’argomentazione di Flew, risultano legati al concetto stesso di falsificabilità, che viene, a mio avviso, forzato all’interno di un ragionamento finalizzato esclusivamente a sottrarre le asserzioni religiose al pensiero logico-razionale. Dimostrare che la credenza religiosa sia priva di significato cognitivo e fattuale, poiché non falsificabile, non ci aiuta a motivare la legittima esigenza umana di entrare nelle questioni relative alla fede, utilizzando gli strumenti che la mente mette a disposizione di ciascun individuo dotato d’intelligenza. Per questo, probabilmente, nei suoi ultimi scritti Flew sposta l’attenzione dal concetto di falsificabilità, cercando di approfondire quell’esigenza umana che impone al teista il compito spiegare, attraverso una serie di ragionamenti logici, il concetto stesso di Dio. All’interno dell’ambito empiristico, ritroviamo sempre il tentativo di chiarire le condizioni sulle quali poggia il discorso teologico. Hepburn, ad esempio, sulla scia di Flew, va alla ricerca di criteri adeguati all’oggetto dell’esperienza religiosa, ma anche
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Micheletti riprende questa obiezione in particolare da: Plantinga 1967, pp. 158 ss; Yandell 1971, pp.9 ss; Thakur 1979, pp. 71-78.
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lui, alla fine, arriva a constatare l’inadeguatezza di tali criteri, che, in un modo o nell’altro, risultano rovinosi per la fede stessa:
Quanto più religiosamente adeguato – scrive Hepburn – è il Dio in difesa del quale si argomenta e che si cerca di individuare, tanto meno razionalmente e universalmente convincente ha la probabilità di diventare la nostra apologetica. E quanto più razionalmente trasparente diventa l’apologetica, tanto meno religiosamente adeguato è il Dio (Hepburn 1963, p. 46).
Attraverso queste parole, sembra sempre più incolmabile il solco tra la credenza religiosa, avvolta da una misteriosa e impenetrabile invulnerabilità, e la trasparenza del ragionamento logico. Si ha come l’impressione che gli empiristi cerchino di accedere a un ambito che, fin dall’inizio, si presuppone come inaccessibile. Un ulteriore tentativo di rielaborare la tesi di Flew è quello di Kai Nielsen, secondo il quale “affermazioni religiose che intendono fare asserzioni fattuali devono essere confermabili o infirmabili, in linea di principio da asserzioni non-religiose direttamente fattuali e empiriche” (Kai Nielsen 1966, p. 16). Una proposizione, infatti, assume un significato fattuale solo se qualche osservazione possibile o effettiva può determinare la sua verità o falsità. Si tratta, anche in questo caso, di un criterio di significanza che rende esplicito il nucleo caratterizzante di ogni discorso che asserisce dei fatti. Lo scetticismo sul significato fattuale delle asserzioni religiose e teologiche, in Kai Nielsen, si sviluppa anche in relazione alla problematicità del concetto di Dio e all’impossibilità di definire tale concetto attraverso un linguaggio descrittivo: “A meno che noi in qualche misura comprendiamo ciò di cui parliamo quando usiamo “Dio”, niente può valere come evidenza dell’esistenza di Dio” (Kai Nielsen 1979, p. 4). Anche Nielsen, quindi, arriva a constatare l’inadeguata caratterizzazione logica della fede religiosa. Quando l’intento critico prevale su quello descrittivo, sono inevitabili le conclusioni alle quali arrivano gli empiristi: in questo caso, non si può far altro che constatare l’impossibilità di penetrare nel mistero della fede, attraverso gli strumenti logici che il pensiero ha a disposizione. Ma cosa accade, potremmo chiederci, quando l’intento descrittivo prevale su quello critico? In tal caso, come vedremo, la religione assume una sorta d’immunità, che rischia tuttavia di tradursi in vuoto di significato.
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Il problema è, a mio avviso, esposto in maniera molto chiara in un articolo di A.N. Prior, dal titolo “Can Religion be Discussed?”, nel quale un “protestante barthiano”, un “cattolico”, un “protestante modernista”, un “logico” e uno “psicanalista” si trovano a discutere sulla possibilità di criticare razionalmente la religione cristiana. Particolarmente interessante, ai fini del nostro discorso, è il confronto tra il barthiano e il logico: il primo sostiene che non ci sia alcun punto di contatto tra cristiani e non cristiani, sul piano dell’argomentazione. Il Cristianesimo non è oggetto di dimostrazione, poiché la fede è dono della misericordia divina. Non si tratta, quindi, di argomentare contro il miscredente, ma di confessare e di dimostrare la propria fede con la vita. L’esperienza di fede non è il frutto di un discernimento intellettuale, ma viene definita come “un miracolo interiore della misericordia di Dio” (Prior 1942, pp. 7-8), del quale non ha neanche senso discutere:
Naturalmente le leggi del pensiero e della grammatica ci proibiscono di confessare la nostra fede – noi tentiamo di parlare di Dio, ed impossibile anche incominciare. Ma Dio, cui tutto è possibile, viene in nostro soccorso, prende le nostre parole e i nostri pensieri e fa che esse comunichino il suo intendimento (meaning) e il suo messaggio agli uomini (Prior 1942, pp. 910).
Come poter quindi parlare di ciò che è fuori della natura delle cose? Non sapremmo neppure da dove cominciare un discorso logico su Dio, perché il rapporto con Lui è qualcosa di profondamente intimo e inaccessibile alla sfera della razionalità. Se poi l’unico rapporto con il Creatore nasce e sviluppa su un piano totalmente emozionale, non c’è alcuna ragione d’indagare, da un punto di vista logico, il concetto di Dio. Se il barthiano, dunque, scinde il pensiero logico-razionale dall’intima esperienza della fede religiosa, identificando quest’ultima con un dono divino inspiegabile, il logico pone la questione molto diversamente; dalla sua prospettiva, infatti, “la vera difficoltà per il credente non è il problema di provare la verità del Cristianesimo, ma il problema del significato delle proposizioni della religione” (Micheletti 1972, p. 76). L’interesse si sposta dall’oggetto dell’esperienza religiosa alle proposizioni interne al discorso della fede. Viene portata, come esempio, la frase “Dio è la sua stessa bontà”; in primo luogo, ci si deve chiedere che tipo di sostantivo sia la parola Dio: l’alternativa, in questo caso, non è fra nome comune e nome proprio, ma fra comune o
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proprio da un lato e astratto dall’altro, perché se Dio è bontà, non può che essere qualcosa di astratto. Il problema sta nel fatto che la parola Dio venga usata, al tempo stesso, come nome astratto e nome comune e per questo essa non nomina e non può nominare nulla. Mentre il barthiano ci parla della fede come di un salto nel vuoto, compiuto di fronte a due alternative fra le quali la scelta razionale sembra impossibile, dal punto di vista del logico, la scelta tra il credere e il non credere sembra del tutto ovvia:
C’è tutto da scegliere fra queste due ipotesi, poiché una di esse ha senso e l’altra no – l’ipotesi della fede è priva di senso, e così non è affatto un’ipotesi. Le probabilità non sono del cinquanta per cento, ma di cento contro niente a sfavore della credenza. La scelta che si immagina di avere è illusoria – la miscredenza è inevitabile. A meno che non si sviluppi […] una forma di fede […] che si possa esprimere in una buona grammatica (Prior 1942, p. 8).
L’ipotesi della fede perde tutto il suo significato, se la si considera attraverso una serie di parametri esterni dal contesto religioso. Il barthiano, tuttavia, interpretando la fede come un atto della grazia divina, inspiegabile razionalmente, riesce ad evitare le obiezioni del logico; il problema, come osserva Micheletti, è se “l’immunità così conquistata sia vantaggiosa” (Micheletti 1972, p. 77). Il rischio che si corre in questo caso è duplice: in primo luogo, come osserva Bowman L. Clarke, se il linguaggio religioso obbedisse esclusivamente alle regole di Dio e non dell’uomo, non sarebbe in difficoltà soltanto il discorso in difesa della fede, ma la stessa comunicazione tra credenti diventerebbe ardua: “Ritirarsi nell’onniscienza di Dio che è nascosta all’uomo o far ricorso a un miracolo per giustificare la significanza del linguaggio religioso non solo rende impossibile un’analisi filosofica del linguaggio religioso, ma corre il rischio di rendere impossibile lo stesso linguaggio religioso” (Clarke 1966, p. 25). In secondo luogo, il pericolo che si corre è quello di svuotare la religione di qualsiasi contenuto razionale, riducendola a pura superstizione. Coloro che si rifugiano in un cieco fideismo, quindi, si rivelano, in un certo senso, vicini a coloro che considerano le proposizioni religiose prive di senso logico (cfr. Micheletti 1972, pp. 78-79). Il barthiano e il logico arrivano alla stessa conclusione, passando per due vie molto diverse: il primo riconosce al discorso teologico un’immunità derivante dal fatto che ogni verità su Dio è sempre frutto della Sua
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rivelazione, il secondo, in nome della scienza, nega la possibilità di accedere, per mezzo della logica, a un ambito puramente religioso; entrambi, dunque, sostengono che il contenuto della religione cristiana non è spiegabile o verificabile, dal punto di vista razionale. Sembrerebbe che l’unica possibilità di difendere la religione avvenga al prezzo di svuotarla o di renderla priva di significato: questa è anche la critica che K. Nielsen rivolge ai cosiddetti “fideisti wittgensteiniani”. La prospettiva assunta dai fideisti risulta molto interessante ai fini del nostro discorso, perché ci permette di rimettere in gioco le due rispettive posizioni, assolutamente distanti dalla filosofia analitica della religione, di Kuhn e Polanyi. Ma prima di compiere
questo
tentativo,
vorrei
chiarire
cosa
s’intende
per
“fideismo
wittgensteiniano”, cercando di cogliere i tratti essenziali di un pensiero che si riconosce fideista e al contempo d’inspirazione wittgensteiniana. Anche in questo caso, il Wittgenstein cui si fa riferimento è quello delle Ricerche filosofiche, opera nella quale l’autore parla della “teologia come grammatica”; se, infatti, in senso generale, la grammatica ci permette di classificare gli oggetti per tipologie, il pensiero teologico ha il ruolo di fornire le regole che governano le asserzioni religiose. La grammatica deve mostrare cosa ha senso o non ha senso dire, all’interno di un particolare gioco linguistico. La credenza religiosa è considerata un gioco linguistico, in cui è incorporata una determinata forma di vita: il significato delle espressioni religiose non si può spiegare soltanto per mezzo del linguaggio, inteso come insieme di segni, né appellandosi a processi psichici interni, ma il senso delle asserzioni teologiche emerge con riferimento alla forma di vita in cui esse vengono rese esplicite (cfr. Micheletti 1982, 178). La credenza religiosa si fonda, quindi, su un tipo di esperienza diversa da quella empirica. Essa non può essere capace di maggiore o minore probabilità, né può essere semplicemente interpretata come una congettura, ma la fede religiosa determina le regole pratiche della vita umana.2 La questione dell’esistenza di Dio, ad esempio, svolge un ruolo del tutto diverso da quella dell’esistenza di una persona o di una cosa; anche la differenza tra credenti e scettici, in ambito religioso, non può essere paragonata a una qualche differenza in questioni empiriche. L’espressione di fede e la sua negazione non si trovano sullo stesso piano logico, perciò non è possibile dimostrare la falsità di una credenza religiosa; gli 2
In particolare Wittgenstein approfondisce tali tematiche in Wittgensetin 1966 e 1977.
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uomini di fede ragionano all’interno di un contesto, o forma di vita, del tutto peculiare, che non ha senso giudicare dall’esterno: “Che una cosa sia un errore o meno – dipende dal sistema particolare cui appartiene, così come una cosa è un errore in un certo gioco linguistico e non in un altro” (Wittgenstein 1966, p. 152). Si tratta soltanto di comprendere cosa ha valore e significato all’interno di quella particolare forma di vita o gioco linguistico, in cui ciascun individuo si riconosce; da questo punto di vista, quindi, i credenti e i non credenti non hanno un terreno comune sul quale porre la basi di un dialogo, poiché essi si riconoscono come appartenenti a due diversi giochi linguistici. Credere in Dio significa scegliere di vivere in un certo modo piuttosto che in un altro; il Cristianesimo, infatti, per Wittgenstein non è una dottrina, né una teoria sull’anima umana, ma costituisce un evento reale nella vita dell’uomo, invitando il singolo individuo a fare di una notizia storica il centro della propria esistenza. Riguardo al ruolo della credenza religiosa nell’esistenza umana, sono certamente da considerare le due nozioni wittgensteiniane di “sistema di riferimento” e “infondatezza del nostro credere”3 (cfr. Micheletti 1982, p. 175). Dal punto di vista dell’ultimo Wittgenstein, infatti, ogni proposizione acquista un significato soltanto all’interno di un sistema: non si crede mai alla singola affermazione, ma all’intero sistema di proposizioni in cui l’affermazione è inserita. L’infondatezza del nostro credere deriva dal fatto che, all’interno di un sistema, conseguenze e premesse si sostengono in modo reciproco: nel dimostrare qualcosa si presuppone sempre qualcos’altro che non è dimostrato, inoltre la proposizione espressa viene ogni volta sorretta da una serie di esperienze, la cui interpretazione può cambiare da un sistema all’altro. Andando indietro, nel processo di spiegazione, si nota come, a un certo punto, le ragioni o le prove giungano ad un termine, che coincide da una parte con il nostro stesso agire, e dall’altra con la persuasione. Ciò che, alla fine, si deve accettare sono soltanto forme di vita o giochi linguistici, la cui esistenza non viene messa in discussione. Se dunque, anche la credenza religiosa è considerata un gioco linguistico, nel quale è incorporata una particolare forma di vita, l’argomento religioso può essere compreso soltanto da chi partecipa attivamente alla vita religiosa, o meglio, da chi pensa, ragiona e vive all’interno di un contesto religioso. La critica, a partire da una serie di parametri
3
Ritroviamo tali concetti soprattutto in Wittgenstein 1969.
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esterni, perde il suo significato e la sua utilità: la filosofia assume così soltanto il compito descrittivo di mostrare il tipo di linguaggio implicato nella fede. Tra i fideisti wittgensteiniani, in particolare, D.Z. Phillips sottolinea l’impossibilità, da parte della filosofia, di giustificare la religione. Il ruolo del filosofo è semplicemente quello di offrire la comprensione di ciò che dicono i credenti, senza pronunciarsi a favore o contro la fede religiosa. Il ragionamento filosofico deve chiarire la diversità dei criteri di razionalità, in relazione ai diversi giochi linguistici:
La distinzione fra il reale e l’irreale – scrive Phillips – non è la stessa cosa in ogni contesto. Se si rispettasse questa regola, non si desidererebbe più costruire la realtà di Dio come la realtà di un esistente tra esistenti, di un oggetto tra oggetti. Giungere a vedere che c’è un Dio non è come giungere a vedere che esiste un essere in più […] ma implica il vedere un nuovo senso nella propria vita, e l’acquisire una nuova intelligenza (Phillips 1970, pp. 17-18).
Se s’ignorano i criteri che danno significato alle espressioni religiose, lo scetticismo epistemologico sulla religione risulta inevitabile, anche se del tutto irrilevante. Non esiste più alcun contrasto tra scettici e credenti, poiché essi non condividono la stessa comprensione dei concetti, non giocano lo stesso gioco linguistico. Ciò tuttavia, non preclude la possibilità di individuare dei punti d’incontro tra discorso religioso e nonreligioso, anche se la questione di senso relativa al discorso religioso si sviluppa soltanto all’interno di un contesto prettamente teologico. Tale questione viene approfondita anche da Norman Malcolm, nella sua interpretazione del Proslogion di Anselmo. Dal punto di vista dell’autore, esiste un livello in cui si può considerare l’argomento di Anselmo come un esempio di ragionamento logico e si possono seguirne gli sviluppi senza sentirsi religiosamente toccati; a questo livello, l’argomento ha comunque un certo valore religioso, perché può aiutare a rimuovere alcuni dubbi che sono di ostacolo alla fede. Tuttavia, a un livello più profondo, l’argomento può essere compreso appieno soltanto da chi ha una percezione di quell’umana forma di vita in cui si radica l’idea di un essere infinitamente grande, e quindi da chi partecipa alla vita religiosa dal di dentro. La fede non può essere un effetto dell’argomento di Anselmo, al contrario essa diventa il presupposto per una sua più piena comprensione. Malcolm arriva addirittura a dubitare che si possa credere che Dio esiste senza credere in Dio: la relazione fra il credere che
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Dio esiste e i nostri modi di rapportarci a Lui è una relazione di tipo logico. Il concetto di “credenza nell’esistenza di Dio” pensato come distinto dal concetto di “credenza in Dio” sembra a Malcolm una costruzione filosofica, un altro esempio dell’inutile tendenza a dare una giustificazione assoluta e non-contestuale alla fede religiosa (cfr. Micheletti 1982, pp. 179-180). La credenza religiosa, dunque, diviene priva di fondamenti; essa non è una congettura, né un’ipotesi, ma un particolare gioco linguistico, nel quale è incorporata una forma di vita. Le proposizioni interne a un sistema, inoltre, non si possono provare con l’evidenza, a causa di necessari limiti logici. L’esigenza di giustificare i giochi linguisti viene quindi definita come “una delle principali patologie della filosofia”; la giustificazione è sempre interna al sistema e non ha alcun senso pretendere una sorta di giustificazione razionale della struttura stessa del sistema, poiché ogni discussione, ogni dubbio o domanda vengono sempre elaborati in relazione alla forma di vita nella quale gli individui si riconoscono. E la religione rimane un sistema di riferimento o una forma di vita, con le sue regole e i suoi criteri di significanza. Rimanendo nella prospettiva dei “fideisti wittgensteiniani”, i concetti stessi di intelligibilità e di realtà diventano ambigui. Peter Winch, ad esempio, sostiene che i criteri logici siano intellegibili solo nel contesto dei modi di vita; all’interno della scienza e della religione le azioni possono essere logiche o illogiche, ma non ha senso definire la pratica stessa della scienza o della religione con i termini logico o illogico. Interpretare la religione con criteri estranei vuol dire fraintenderla. Il presupposto è che le idee non si possano separare dal loro contesto, perché la relazione tra idee e contesto è una relazione interna. La realtà, quindi, non dà senso al linguaggio, ma, al contrario: “Ciò che è reale e ciò che è irreale si mostra nel senso che il linguaggio ha. Inoltre sia la distinzione tra il reale e l’irreale, sia il concetto di accordo con la realtà appartengono essi stessi al nostro linguaggio” (Winch 1958, pp. 15-16). I concetti di realtà e razionalità mutano, quindi, in relazione ai giochi linguistici e alle corrispondenti forme di vita. In particolare Winch si preoccupa di contestare che l’uso scientifico di tali concetti costituisca un paradigma cui debba commisurarsi la rispettabilità intellettuale di ogni discorso. L’analisi del discorso religioso rimane un’analisi di tipo grammaticale; una giustificazione della fede religiosa, che venga da un ambito estraneo alla fede, non ha
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motivo di essere sviluppata, perché il gioco linguistico, come il paradigma kuhniano, non è qualcosa che ha senso mettere in discussione, ma è una realtà linguistica, legata ad una determinato modo di vita, nella quale l’individuo è da sempre. Scrive Wittgenstein: “Non devi dimenticare che il gioco linguistico è, per così dire, qualcosa di imprevedibile. Voglio dire: non è fondato, non è ragionevole (o irragionevole). Sta lì – come la nostra vita” (Wittgenstein 1969, p. 559). Queste parole ricordano le parole con le quali Kuhn descrive il paradigma scientifico; l’accesso a nuova prospettiva paradigmatica, infatti, non dipende mai da un lineare procedimento logico, ma come abbiamo già sottolineato, nella scelta di un nuovo paradigma entrano in gioco una serie di componenti, per così dire, irragionevoli o emotive, che permettono, in ultimo, l’accesso ad un mondo fino a quel momento sconosciuto. Una volta abbracciata una nuova prospettiva scientifica, inoltre, lo scienziato non può più tornare indietro poiché il paradigma è scisso, separato, dal nuovo: esiste tra le due realtà paradigmatiche un solco che rimane incolmabile, un’incommensurabilità, alla quale Kuhn non rinuncerà mai. Per questo, ritornando alle questioni poste dalla filosofia analitica della religione, credo che proprio il concetto kuhniano d’incommensurabilità possa condurci nella direzione del cosiddetto fideismo wittgensteinano, secondo il quale ogni discorso teologico o religioso risulta comprensibile soltanto da chi vive all’interno di un ambito religioso. Ma, a mio avviso, se le idee o i concetti non possono separarsi dal contesto nel quale prendono vita, la domanda stessa che i filosofi analitici della religione si pongono, ovvero la domanda sullo status logico della credenza religiosa, non ha più alcun senso, perché, come abbiamo visto, le nozioni di realtà e razionalità possono variare da un gioco linguistico all’altro. È questo lo stesso problema con il quale si scontra il tema kuhniano dell’incommensurabilità. Kuhn non ha mai abbandonato l’idea di uno scacco tra comunità scientifiche e linguistiche differenti: la prospettiva scientifica di Galileo risulta incomprensibile e insensata, se considerata in relazione al mondo delineato dalla fisica aristotelica; e allo stesso modo, non è pensabile una traduzione completa di un linguaggio in un altro. Se rimanessimo, quindi, nell’ottica dei fideisti wittgensteiniani, ci dovremmo accontentare di una critica soltanto interna alla religione, rinunciando non solo al tentativo di porre in relazione il pensiero logico razionale con l’esperienza della fede
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religiosa, ma anche all’idea di un dialogo tra credenti e non-credenti. O meglio, il dialogo potrebbe anche esserci, ma risulterebbe privo di significato, poiché, da un simile punto di vista, non esistono fondamenti comuni su quali costruire un confronto. Allo stesso modo, se rimaniamo nella prospettiva kuhniana, ogni tentativo di comprendere a fondo l’altro è destinato inevitabilmente a fallire. L’altro resta inserito in un mondo che non è il mio e il riconoscimento di tale diversità, in questo caso, non apre una possibile via al dialogo, ma tende ancora di più a chiudere ciascuno nelle proprie convinzioni, nella propria piccola realtà. Se esiste uno scacco tra culture, questo non può essere colmato e per quanto ci si possa impegnare l’incontro con il diverso non sarà mai autentico, ma piuttosto superficiale e privo di contenuti. Mi chiedo, allora, se sia possibile un’alternativa, e se, rimanendo all’interno della filosofia analitica della religione, ci sia la possibilità di accedere razionalmente alla credenza religiosa,
senza tuttavia cancellare
ciò
che rende la fede un’esperienza
straordinariamente emozionale.
2. Una possibile visione alternativa
Il confronto tra la posizione dei “fideisti wittgensteiniani” e quella dei filosofi empirici solleva numerosi interrogativi sulla possibilità di attribuire alla credenza religiosa uno status epistemologico. Il problema che rimane aperto riguarda la rilevanza cognitiva della consapevolezza di Dio entro i confini dell’esperienza umana. Come abbiamo già sottolineato, tuttavia, entrambe le prospettive riconoscono un’incompatibilità di fondo tra il tentativo di comprendere la religione e l’atto del credere. I fideisti tentano di difendere l’esperienza religiosa dalle critiche esterne, relegando le fede all’interno di giochi linguistici e forme di vita ma, così facendo, come sottolinea K. Nielsen, il loro approccio ha l’effetto di rendere impossibile una critica filosofica della religione. Da una parte, infatti, il ruolo della filosofia è soltanto descrittivo, dall’altra l’idea che certe asserzioni possano avere un significato, esclusivamente in un contesto ben definito, apre la strada ad un radicale relativismo concettuale:
L’invulnerabilità della struttura linguistica della credenza religiosa da un’adeguata critica filosofica e soprattutto dalla critica empirista è conseguita, secondo Nielsen, a un prezzo elevatissimo, perché il relativismo concettuale produce o scetticismo sulle pretese cognitive
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della religione, o una reinterpretazione radicale del gioco linguistico cristiano che consiste nell’esprimere in termini cristiani un sostanziale ateismo (Micheletti 1982, p. 196)4.
Per scongiurare il pericolo del relativismo e continuare ad indagare la credenza religiosa, attraverso i mezzi del pensiero logico, vorrei presentare, in breve, il pensiero di un filosofo, John Wisdom, che si pone ai confini della tradizione empiristica, pur facendone parte5. La sua filosofia e il suo modo d’intendere la razionalità, infatti, ci condurranno verso una direzione nuova, permettendoci di riconsiderare la teoria della conoscenza personale polanyiana, attraverso nuovi strumenti di riflessione. Ritengo, in primo luogo, interessante la distinzione che propone J. Wisdom fra due modi d’intendere la razionalità: da una parte, una credenza può essere razionale se si esprime in enunciati intellegibili ed empiricamente verificabili, dall’altra la razionalità della credenza può non dipendere semplicemente dalla sua capacità di previsione empirica, ma può coincidere con la riflessione sull’esperienza comune. La questione, ora, è comprendere cosa Wisdom intenda per riflessione. Dal suo punto di vista, la filosofia stessa si sviluppa come pensiero riflessivo e tale convinzione c’impedisce di collocare Wisdom all’interno della tradizione empiristica classica; o meglio, l’idea che la filosofia possa rivelare alcuni aspetti della realtà con processi che non sono né empirici né deduttivi, ma riflessivi, pone l’autore in un rapporto complesso con la tradizione empiristica. Wisdom, infatti, respinge la presupposizione empiristica secondo la quale l’esperienza è l’unica fonte di conoscenza, tuttavia la sua opposizione non si rivolge tanto all’effettiva pratica filosofica di Locke, Berkeley e Hume, quanto al significato che il loro concetto di filosofia è venuto ad assumere, nell’ambito del positivismo logico (cfr. Micheletti, 1972, p. 16). Wisdom, infatti, sottolinea il carattere metafisico della tradizionale filosofia empirista e parlando di Locke, Berkeley e Hume riconosce che essi “furono interessati allo «studio sistematico della natura ultima della realtà» (la definizione di metafisica di Mc Taggart,) a ciò che realmente le cose sono e se e come noi realmente le conosciamo” (Wisdom 1948a, p. 231). Soprattutto negli scritti più recenti, Wisdom si oppone al paradigma che sta alla base della concezione positivistica, negando le dicotomie fattuale-logico, induttivo-deduttivo: la filosofia, in 4
Qui Micheletti fa riferimento a Nielsen 1972, pp. 4-12. Micheletti approfondisce il pensiero filosofico di J. Wisdom, soprattutto nel paragrafo intitolato “«La logica di Dio» in John Wisdom”, in Micheletti 1972, pp.13-67. Le traduzioni dei passi di J. Wisdom sono tratte dallo stesso testo. 5
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quanto “riscoperta di un fatto familiare attraverso il richiamo alla mente di una logica vestita di abiti […] non-familiari” (Wisdom 1948a, p. 246) da una parte è vicina alla scoperta di un fatto logico, dall’altra è simile alla letteratura, poiché ci porta a riflettere su noi stessi e sulla nostra esistenza. Tuttavia, in diversi scritti, ristampati in Philosophy and Psycho-Analysis, Wisdom si preoccupa di distinguere il compito del filosofo da quello dello scienziato, dello psicologo e del logico, poiché ciò che muove il filosofo non è un’esigenza d’informazione, ma il desiderio di penetrare nella struttura della realtà (cfr. Wisdom 1934, p. 35). Tale esigenza non può essere soddisfatta da una scoperta fattuale, o da una definizione logico-formale, ma è frutto di un’intuizione. Il filosofo si serve di definizioni, tuttavia il suo compito non è la traduzione ma l’analisi:
La distinzione fra traduzione e analisi – scrive Wisdom – non è una distinzione fra ciò che si dice, ma fra le ragioni per cui lo si dice. Nella traduzione la sua intenzione è verbale – insegnare l’inglese a un francese […], nell’analisi la sua intenzione è filosofica – accrescere la chiarezza della penetrazione di qualcuno nella struttura del fatto individuato da “F”. Ecco perché la filosofia può essere fatta in una lingua come in un'altra. E questo è il motivo per cui il progresso filosofico non consiste nell’acquisire conoscenze di fatti nuovi, ma nell’acquisire una nuova conoscenza dei fatti (Wisdom 1933, pp. 6-7).
Il compito del filosofo analitico è quello di penetrare le realtà dei fatti, abbandonando, in parte, quelle costruzioni logiche che caratterizzano, in linea generale, tutto il pensiero analitico. In particolare, nel saggio del 1936, Philosophical Perplexity, ristampato successivamente in Philosophy and Psycho-analysis, Wisdom ammette che “le asserzioni filosofiche non hanno di solito un’aria verbale” (Wisdom 1936, p. 37) e la loro aria non-verbale diviene ciò che in primo luogo le caratterizza. Per quanto esse siano espressioni verbali, il loro scopo non è quello di comunicare qualcosa di nuovo, ma d’illuminare alcuni aspetti della realtà di cui già siamo in qualche modo consapevoli. In tal senso la filosofia, con i suoi paradossi, è pensiero riflessivo, scoperta nel familiare. Come un quadro o una poesia possono mostrarci qualcosa che abbiamo sempre avuto davanti agli occhi, ma non abbiamo mai visto, così la filosofia ha la capacità di scavare nel mistero della realtà, costringendoci a dirigere lo sguardo verso ciò che giace “no al di qua o al di là, ma nell’ovvio” (Wisdom 1948b, p. 228). I
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paradossi metafisici non sono più delle semplici assurdità, ma hanno il compito di rivelare, attraverso una logica tutta particolare, ciò che la realtà nasconde dietro ad un linguaggio enigmatico. Anche le teorie filosofiche vengono descritte come paradossi e in quanto tali, esse non possono essere stabilite per mezzo di esperimenti, né provate con ragionamenti conclusivo-deduttivi, sebbene siano sostenute da ragionamenti inclusivo-deduttivi. Ciò che è oggetto del pensiero riflessivo, infatti, non può essere dimostrato attraverso gli strumenti della logica tradizionale; in questo senso, la riflessione sull’esperienza comune è un tipo di conoscenza razionale sui generis, poiché pur non essendo dimostrabile, esiste una logica che offre una serie di strumenti capaci di sostenerla. Il pregiudizio che è assolutamente necessario superare consiste nel pensare che esistano soltanto due tipi di scoperta: la scoperta scientifica che avviene per osservazione ed esperimento e la scoperta deduttiva, basata su regole logiche. Tutto ciò che non può essere determinato attraverso simili procedimenti entrerebbe così a far parte di una sfera puramente sentimentale, lontana dalla verità. Di conseguenza la metafisica e la filosofia verrebbero poste in secondo piano, rispetto a un tipo di conoscenza scientifica, capace di fornire ragioni pro e contro le proprie asserzioni. Superare tale pregiudizio costituisce, invece, un tentativo di ampliare i confini della ragione e del pensiero logico, riconoscendo la possibilità d’indagare il reale, attraverso una serie di asserzioni che non ci dicono nulla sul reale, ma c’invitano a riflettere su quegli aspetti familiari del nostro piccolo mondo, che nascondono verità su noi stessi, fino a quel momento sconosciute:
La ragione per cui questioni ontologiche non si possono risolvere con procedure empiriche e fisiche – scrive Micheletti, riferendosi agli ultimi scritti di Wisdom – sono le stesse per cui questioni epistemologiche non si possono risolvere con procedure fisiologiche o psicologiche, e tuttavia sono questioni reali, perché, sebbene concernano l’uso di una certa terminologia o di un certo schema concettuale, è vero che senza concetti noi non connettiamo una cosa con l’altra (Micheletti 1972, p. 27).
La conoscenza del reale è sempre mediata da strutture logico-concettuali, per questo anche il pensiero riflessivo non può fare a meno del concetto; tuttavia il suo modo di procedere si distingue da quello della logica tradizionale, poiché essa mira a costruire
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una serie di strutture che mediano il rapporto soggetto-oggetto, mentre la riflessione sull’esperienza comune è caratterizzata dal tentativo di decostruire o rimuovere tutti quegli schemi concettuali che c’impediscono di penetrare nel mistero della realtà. Arrivati a questo punto, vorrei pendere in considerazione due testi nei quali Wisdom affronta, in maniera esplicita, il problema di Dio, The Logic of God e Gods. Come il problema del male o la domanda sul significato della vita, la questione di Dio non può essere decisa né da un’ulteriore esperienza, né da un ulteriore pensiero, tuttavia essa ci pone di fronte ad una serie di problemi reali, che toccano la nostra quotidianità e che non hanno un senso soltanto nell’ambito circoscritto della credenza religiosa. Questioni che sembrano non avere una risposta possono presentare dei problemi che hanno soluzioni, mettendo comunque in evidenza una certa inadeguatezza nell’umana comprensione delle cose. In tal modo, simili questioni possono aprire la strada a una nuova visione di noi stessi e del mondo nel quale viviamo, costringendoci a mettere in discussione quelle strutture concettuali a noi tanto familiari. In The Logic of God, due interlocutori (A e B) discutono sulla possibilità di provare razionalmente l’esistenza di Dio. A rappresenta la posizione positivistica e presuppone l’idea che un’asserzione non possa avere alcun significato, se non viene stabilita dall’osservazione o da procedimenti logico-matematici. Da un simile punto di vista, le questioni che non rispondono a tali requisiti non vengono neanche considerate reali, ma soltanto questioni verbali, legate al sentimento e all’emozione. B, invece, il secondo interlocutore, rappresenta la posizione filosofica sostenuta da Wisdom, il quale evita di relegare le questioni che non si possono risolvere con l’esperimento o attraverso ragionamenti logici in un ambito puramente emozionale. Al contrario, le asserzioni che non sono dimostrabili finiscono per avere un’importanza maggiore di quelle che possono essere sottoposte a verifica, poiché ci costringono a riflettere e a rivolgere lo sguardo al di là dell’apparenza. Sia A che B concordano sul fatto che la domanda sull’esistenza di Dio non possa avere una risposta predefinita, tuttavia le loro argomentazioni partono da presupposti molto diversi e si sviluppano verso direzioni opposte. Dalla prospettiva positivistica, non ha senso affermare che Dio è invisibile e che tuttavia ci sono in natura delle evidenze della Sua esistenza, come in un orologio ci sono le tracce del suo costruttore, in una cattedrale quelle di un architetto o in giardino quelle di un giardiniere. Infatti, quando
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pensiamo a un architetto, a un orologiaio o a un giardiniere sappiamo bene qual è l’oggetto della nostra immaginazione e possiamo ritrovare nella realtà la conferma che questi sono i responsabili di ciò che osserviamo; per quanto riguarda Dio, invece, non abbiamo idea di cosa significhi vederlo o trovarsi dinanzi a Lui, poiché la stessa logica di Dio esclude che il divino sia visibile o scopribile come un fenomeno qualsiasi. Le questioni “Esiste Dio” o “Dio è nel suo cielo” non sono questioni reali poiché ad esse non si può rispondere con l’esperienza o con la deduzione. L’affermazione secondo la quale Dio può essere dedotto dall’ordine insito nell’universo è una falsa spiegazione, in quanto, chi la sostiene, si limita a tradurre in un lessico teologico l’idea che in natura nulla è inesplicabile. Le asserzioni religiose, dunque, non esprimono altro che un sentimento assolutamente personale; non esiste un accordo unanime sulla questione di Dio, poiché non esistono prove che ci permettono di negare o affermare la Sua esistenza. Anche il paragone tra la logica di Dio e la logica dell’Energia risulta inadeguato, poiché anche se non riusciamo a vedere l’energia, siamo in grado di misurarla, di sapere dove essa scorre e quali sono le leggi della sua trasmissione; i modi in cui possiamo conoscere l’energia, quindi, non hanno nulla a che fare con i potenziali strumenti che l’uomo avrebbe a disposizione per conoscere Dio (cfr. Wisdom 1950, pp. 13-15). Il secondo interlocutore, invece, pone la questione da un altro punto di vista, cercando di dare ai termini razionale e reale una valenza più ampia. La pienezza stessa dell’essere di Dio c’impedisce di trovare una prova conclusiva della Sua esistenza; ciò, tuttavia, non significa negare la possibilità di riscontare nella realtà alcune evidenze di Dio. Tali evidenze non sono prove, nel senso tradizionale del termine, ma si possono trovare nell’esperienza, attraverso il pensiero riflessivo. L’ordine nella natura, ad esempio, non prova necessariamente l’esistenza di Dio; tuttavia chi crede in Dio può imparare a vedere l’ordine degli eventi naturali sotto una nuova luce. È possibile, quindi, stabilire un accordo sul carattere che l’ordine degli eventi naturali deve assumere per contare in favore della risposta affermativa o in favore della risposta negativa alla domanda sull’esistenza di Dio; se non ci fossero motivazioni valide sulle quali accordarsi la questione sarebbe priva di senso. Sicuramente di fronte a domande come “Esiste Dio” o “Verrà il regno dei cieli?” le nostre parole non bastano e la descrizione di ciò che non vogliamo dire può far emergere, a volte, il contenuto stesso
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del nostro discorso. Come scrive Wisdom: “Ogni descrizione di ciò che sembra essere il regno dei cieli e si rivela inferno rende più chiari i confini del regno celeste” (Wisdom 1950, p. 16). Quando ci poniamo la domanda sull’esistenza di Dio, come quando c’interroghiamo sul mistero della libertà umana, i confini tra il detto e il nondetto diventano ambigui: da una parte, infatti, è vero che non è possibile risolvere tali questioni ricorrendo a calcoli o a statistiche, dall’altra tuttavia, il problema dell’esistenza di Dio non è privo di senso, né fuori dalla portata del pensiero o della ragione. Al contrario, esso richiede “una nuova consapevolezza di ciò che tanto a lungo è stato intorno a noi” (Wisdom 1950, p. 22), ma che non siamo mai riusciti a scorgere. In The Logic of God, dunque, il principio positivistico in base al quale un’asserzione è significante solo se può essere stabilita per via empirica o per via deduttiva viene prima assunto come pregiudizio insito in ciascuno di noi, attraverso il punto di vista del primo interlocutore, e poi superato per mezzo dell’alternativa, descritta dal secondo interlocutore, fra due modi diversi d’intendere la prova dell’esistenza di Dio. Da un lato, infatti, essa coincide col tentativo di trovare nell’armonia della natura alcune evidenze dell’esistenza di Dio, dall’altro, tale prova, non potendo essere dimostrativa nel senso sperimentale o deduttivo, deve valere come prova riflessiva, attraverso la quale le persone iniziano a contemplare possibilità diverse, entrando in un nuovo modo di pensare. Una prova razionale e riflessiva dell’esistenza di Dio richiede necessariamente una decisione personale, grazie alla quale il soggetto può scoprire nuovi aspetti del reale. Le asserzioni religiose o teologiche, quindi, non possono ridursi a puri atteggiamenti emozionali, poiché ci aiutano a riflettere sul senso della vita, proponendo al pensiero delle questioni che concernano in qualche modo la realtà, anche se non sono analizzabili attraverso gli strumenti della scienza. È interessante, a tale proposito, l’analogia descritta da Wisdom in The Meaning of the Question of Life. La domanda sul significato della vita, più volte accostata all’interrogativo sull’esistenza di Dio, viene paragonata alla domanda “Che cosa significa?”, formulata a proposito di una rappresentazione teatrale, non quando non riusciamo a comprenderne il significato poiché abbiamo perso l’inizio o la fine dello spettacolo, ma quando, pur avendo assistito all’intera rappresentazione, non siamo in grado di capire quale senso abbia. In questo caso poniamo una questione reale,
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significante e non assurda; allo stesso modo, quando c’interroghiamo sul significato ultimo di tutte le cose non ci poniamo una questione senza senso, anche se, in tal caso, non possiamo assistere all’intera rappresentazione, ovvero non possiamo avere un’idea precisa di tutte le cose che popolano l’universo. Dire, tuttavia, che la domanda sul significato della vita sia sensata, non vuol dire che ci si possa aspettare una risposta completa e precisa: le parole possono aiutarci, ma non bisogna pretendere da loro più di quello che possono offrire. La possibilità di una conoscenza riflessiva ci permette di scorgere una certa ragionevolezza nella fede: Wisdom, infatti, non pone il pensiero riflessivo da una parte, e la razionalità dall’altra, ma considera la riflessione sull’esperienza comune e il discorso logico-deduttivo come due corrispettivi aspetti del pensiero razionale. La nozione di razionalità viene ampliata attraverso una conoscenza del reale che esce dagli schemi positivistici, lasciando spazio ad una nuova visione di noi stessi e del mondo. Se la religione, accanto alla filosofia e alla metafisica, viene considerata un tipo di conoscenza riflessiva, anch’essa può determinare non soltanto un mutamento di sguardo sulla realtà, ma anche un profondo cambiamento nei costumi e nei sistemi di vita. La valenza e il significato delle asserzioni teologico-religiose emergono soprattutto da Gods, il secondo testo di Wisdom che vorrei prendere in considerazione. L’assunzione dalla quale ha inizio il ragionamento dell’autore ha un’accezione vagamente storica, poiché sottolinea che “l’esistenza di Dio non è una questione sperimentale nel modo in cui lo era” (Wisdom 1944, p. 149) e che “il disaccordo riguardo alla questione se vi siano dèi ha ora un carattere meno sperimentale […] di quel che era solito avere” (Wisdom 1944, p. 149). La ragione di questo mutamento sembra essere legata al progresso del sapere scientifico: Wisdom, infatti, sottolinea come tale cambiamento sia “dovuto in parte, se non del tutto, alla nostra migliore conoscenza del perché le cose accadono come accadono” (Wisdom 1944, p. 149). Dopo aver escluso la possibilità di considerare la questione dell’esistenza di Dio come una questione puramente sperimentale, Wisdom si preoccupa di stabilire le differenze principali tra il teista e l’ateo. L’attesa di un mondo futuro, ad esempio, costituisce una differenza fondamentale, ma poiché la credenza in Dio non può ridursi soltanto all’attesa di un regno futuro, Wisdom preferisce stabilire un confronto tra credenti e
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atei prescindendo da tali considerazioni. Ciò che davvero differenzia la prospettiva di un credente da quella di un ateo è, infatti, il rapporto con il mondo reale del qui e ora. La domanda dalla quale, tuttavia, non si può prescindere riguarda la possibilità o meno di rintracciare una certa ragionevolezza nella credenza religiosa. Wisdom prova a dare una risposta cercando d’indagare la natura del discorso religioso. La questione della ragionevolezza della credenza in una mente divina finisce per coincidere con la questione se vi siano fatti in natura che confermino tale credenza, nel modo in cui alcuni fatti della natura si rivelano a sostegno di certe affermazioni circa la presenza delle menti umane. Entrambe le questioni non hanno né soltanto una fonte scientifica, né soltanto una fonte metafisica, ma le domande riguardanti la presenza di una mente divina o la presenza di altre menti traggono la loro origine da una terza fonte, che ci permette di chiamare alcuni modelli o forme mentali (mind-pattern) “manifestazioni di un essere divino” (Wisdom 1944, p. 152). Il problema della credenza religiosa, dunque, è strettamente connesso al problema di applicare un nome a un determinato oggetto; spesso, infatti, soprattutto in ambito teologico, pur essendoci accordo sui fatti, rimane l’esigenza di argomentare e discutere. Ciò, tuttavia, non significa che la questione della fede si possa risolvere soltanto su un piano linguistico, ma l’analisi dei termini utilizzati in un discorso religioso assume una valenza diversa, poichè viene applicata ad una questione che inizia su un piano sperimentale, per diventare qualcosa di diverso (Wisdom 1944, p. 154). Il passaggio di un’ipotesi esplicativa, come l’esistenza di Dio, da un livello sperimentale a un livello differente viene chiarita da Wisdom attraverso la “parabola del giardiniere”: due persone si ritrovano, dopo un lungo periodo di assenza, nel loro giardino e scoprono in mezzo alle erbe alcune piante vigorose e curate. La prima è convinta che un giardiniere sia venuto per prendersi cura delle piante, durante la loro assenza, la seconda nega tale ipotesi. Entrambe, tuttavia, non riescono a scorgere nessuna evidenza che confermi l’ipotetica presenza di un giardiniere, a parte la bellezza e il vigore delle piante. Non ci si spiega come abbia fatto un giardiniere a lavorare così velocemente, senza farsi vedere da nessuno, nemmeno dai vicinati; tuttavia la prima persona è convinta che dietro a quell’ordine e a quella bellezza ci sia la mano di un giardiniere esperto, la seconda no. Le loro parole diverse, ovviamente, “non riflettono alcuna differenza riguardo a ciò che hanno trovato nel giardino, nessuna differenza riguardo a ciò che troverebbero […] se
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continuassero a guardare e nessuna differenza riguardo alla rapidità in cui i giardini non custoditi cadono in disordine” (Wisdom 1944, p. 38). La disputa non verte più sull’evidenza, poiché nessuno dei due non vede ciò che l’altro vede, ma verte piuttosto sul significato o sul modello di ciò che è oggetto della visione. Le due diverse conclusioni: “Viene un giardiniere non visto e non udito” e “Non c’è nessun giardiniere” sono indubbiamente espressione di due diversi sentimenti, sebbene la differenza sul piano sentimentale o emotivo, tra le due posizioni, non sia l’unica; se così fosse, infatti, non avrebbe senso chiedersi chi abbia ragione, mentre di fronte a una simile questione si pone immediatamente il problema della ragionevolezza dell’ipotesi costruita. Ciò deriva dal fatto che tale ipotesi sia iniziata su un piano esperienziale, per passare poi a un livello che potremmo definire, meta-linguistico. L’applicazione della parabola del giardiniere al problema di Dio è chiara: l’ipotesi dell’esistenza divina pur non potendo trovare nei fatti alcuna prova valida, come avviene per le questioni empiriche, non può essere soltanto l’espressione di un atteggiamento emozionale o un’esclamazione, poiché la sua analisi comprende anche un tipo di argomentazione razionale. Ora il problema che Wisdom si pone è il seguente: “Può la manifestazione di un atteggiamento nell’enunciazione di una parola, nell’applicazione di un nome, avere una logica? Quando tutti i fatti sono noti come può esserci ancora una questione di fatto? Come può esserci ancora una questione?” (Wisdom 1944, p. 156). Sostenere la propria fede nell’esistenza di Dio significa, dunque, manifestare un atteggiamento nell’utilizzo di una parola; poiché tale manifestazione, come abbiamo già sottolineato, non può rimanere soltanto su un piano puramente emotivo, ma richiede un lavoro da parte della ragione, è legittimo chiedersi in che modo il pensiero logico può farsi strada. Wisdom, a tale proposito, presenta tre esempi che si possono accostare alla logica del problema di Dio (cfr. Wisdom 1944, pp. 156-159). Il primo esempio è tratto dal campo della matematica pura e applicata, nella quale ci sono dispute, non risolvibili sperimentalmente, in cui una parte può avere ragione e l’altra torto. In questo caso siamo lontani dalla logica di Dio, poiché la questione sull’esistenza divina non può risolversi con calcoli o processi deduttivi. Il secondo esempio riguarda le situazioni che si vengono a creare nei tribunali, nei quali la soluzione delle dispute è essenzialmente frutto di una decisione personale del giudice. Non si tratta di una decisione arbitraria, anche se il ragionamento seguito dal
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giudice non coincide né con la deduzione, né con l’induzione. L’analogia con la logica di Dio è, quindi, puramente metodologica, poiché anche nel caso del procedimento legale, non si tratta solo di una questione di decisione, ma anche di una questione di conoscenza o ignoranza dei fatti. Il terzo esempio, infine, è quello più vicino alla logica di Dio e concerne l’esperienza estetica. Di fronte a un quadro o a uno spettacolo naturale, ad esempio, alcuni fanno esperienza del bello, vedono la bellezza, altri no. L’oggetto della visione non cambia, la differenza non riguarda i fatti: non si può neanche dire che qualcuno riesca a vedere l’oggetto in una luce differente; tuttavia, è possibile individuare una sorta di logica, attraverso la quale anche chi si mostra cieco può essere guidato verso la visione estetica. Dispute estetiche si possono risolvere riguardando più e più volte un’opera d’arte o ri-ascoltando un brano musicale. Esiste, quindi, una procedura per individuare le differenze tra chi vede il bello e chi non lo vede; tale procedura non consiste soltanto nel ragionare e nel discutere, come nel caso del procedimento legale, ma consiste soprattutto nel ri-proporre l’opera d’arte. Anche per quanto riguarda l’ipotesi dell’esistenza di Dio, non si ha ragione di assumere che in essa non vi sia nulla di giusto o sbagliato, nessuna razionalità o irrazionalità: al contrario, come nell’esperienza estetica, è possibile individuare una procedura “che tenda a determinarla” (Wisdom 1944, p. 159). Poi è indubbio il fatto che la discussione sull’esistenza di Dio coinvolga maggiormente i nostri sentimenti, rispetto a una disputa scientifica: in questo, l’ipotesi dell’esistenza divina è molto simile all’esperienza estetica, in cui l’atteggiamento emotivo gioca un ruolo centrale. Lasciando ora da parte le questioni specifiche che vengono trattate in Gods e riconsiderando, in maniera complessiva e sintetica, il pensiero filosofico di Wisdom, dovremmo sottolineare l’esigenza costante, da parte dell’autore, non tanto di dimostrare la verità o falsità dell’ipotesi sull’esistenza di Dio, quanto quella di rintracciare una possibile razionalità nella credenza religiosa. L’affermazione dell’esistenza di Dio viene ben distinta dalle ipotesi sperimentali, poiché non c’è nulla che possa provarla, nel senso tradizionale del termine provare; tuttavia, sul piano logico, essa può apparire significante e razionale. Ciò avviene attraverso un tipo di conoscenza riflessiva, che può determinare una scoperta o un disvelamento di un aspetto della realtà. C’è un senso diverso, da quello prettamente scientifico, in cui anche i poeti, gli artisti, i filosofi fanno delle scoperte reali, che vanno a muovere le
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corde del sentimento e ci guidano verso sentieri sconosciuti. Non sempre, infatti, una questione ontologica verte sui fatti, al contrario, spesso si verificano situazioni in cui c’è accordo sui fatti, eppure si continua a discutere sul piano dell’argomentazione razionale: come in estetica quando due persone, pur osservando lo stesso oggetto o lo stesso spettacolo naturale, possono l’una vedere la bellezza e l’altra no. Simile è la situazione del credente che accusa l’ateo di cecità e dell’ateo che accusa il credente di vedere ciò che effettivamente non c’è. Sicuramente l’esperienza del bello ha molti aspetti in comune con l’esperienza del divino: Wisdom si serve dell’estetica per spiegare la peculiarità della logica di Dio e attraverso l’esempio dell’estetica ci mostra come la questione dell’esistenza di Dio coinvolga direttamente il soggetto umano, i suoi sentimenti e i suoi affetti; ciò, tuttavia, non deve diventare un alibi dietro il quale la credenza religiosa può nascondersi, per evitare gli attacchi di un pensiero critico e razionale. Così facendo, infatti, si rischia di ricadere nell’errore che in qualche modo accomuna i filosofi empiristi con i cosiddetti fideisti wittgensteiniani; ovvero, si rischia di riconoscere alla credenza religiosa una pericolosa immunità, che la protegge dalle critiche svuotandola di qualsiasi contenuto logico-razionale. Per evitare tale pericolo, credo sia utile prendere in considerazione il tentativo di Wisdom di rifiutare l’identificazione della razionalità con l’ambito delle questioni sperimentali o con le ipotesi intorno a questioni di fatto. Wisdom, in entrambi i testi che abbiamo preso in esame, sottolinea come il problema teologico non possa in alcun modo considerarsi un problema scientifico, sia perché l’esistenza di Dio non è soggetta ad alcuna verifica empirica, sia perché le tematiche prettamente religiose coinvolgono in maniera personale il soggetto e, pur essendo significanti e sensate dal punto di vista logicorazionale, non esigono l’oggettività impersonale verso la quale tende la ricerca scientifica. Senza dubbio i saggi di Wisdom sollevano diversi problemi: in particolare vorrei fare un breve accenno all’interpretazione di Gods elaborata da J. Hospers, poiché il suo punto di vista rispecchia la critica che più frequentemente viene rivolta al pensiero filosofico di Wisdom. Hospers sostiene che, in Gods, la differenza fra un ateo e un credente consista soltanto nel modo di guardare il mondo. Non esiterebbe, quindi, alcuna differenza empiricamente riscontrabile fra l’universo concepito da un ateo e l’universo concepito da un credente, poiché non c’è nessun fatto che l’uno potrebbe
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affermare e l’altro negare. Anche la discordanza tra i due protagonisti della parabola del giardiniere sarebbe, dunque, irrazionale, poiché i due non avranno mai la possibilità di confrontarsi su differenze oggettive e reali. La differenza tra i due punti di vista rimane all’interno di un ambito puramente soggettivo e dipende dal modo in cui la realtà viene osservata. Come ha giustamente notato Micheletti, le difficoltà che Hospers risconta nella “parabola” sono ovvie, qualora essa venga interpretata in senso letterale e quindi negata come parabola (cfr. Micheletti 1972, p. 45); tale interpretazione, tuttavia, trascura l’aspetto oggettivo, che nella filosofia di Wisdom, gioca un ruolo importantissimo e soprattutto non tiene conto della nozione di riflessione, attraverso la quale Wisdom amplia il concetto di razionalità, scoprendo un nuovo modo di attingere alla realtà dei fatti. Il pensiero filosofico di Wisdom ci offre una serie di strumenti utili ad indagare la possibile ragionevolezza della fede religiosa, permettendoci di ampliare la visione polanyiana del rapporto scienza-fede; se Polanyi intende riscoprire il ruolo del credere nel conoscere, il pensiero riflessivo di cui parla Wisdom pone le condizioni per le quali la conoscenza razionale possa farsi strada nell’ambito della fede. La conoscenza riflessiva che muta il nostro sguardo sul mondo, permettendoci di contemplare razionalmente possibilità diverse, potrebbe essere, sotto alcuni aspetti, paragonata alla conoscenza personale polanyiana, attraverso la quale noi tentiamo di “entrare” nell’oggetto, pur rimanendo consapevoli di non poter mai diventare l’oggetto. Dal punto di vista di Wisdom, la religione, intesa come conoscenza riflessiva, pone questioni concrete, che toccano la nostra piccola realtà quotidiana e ci costringono a reinterpretarla da una prospettiva diversa, ma pur sempre ragionevole. Anche Polanyi parla della religione come di un’esperienza chiaramente distinta, ma non separata, dall’attività scientifico-razionale del pensiero. In particolar modo, le questioni relative al confronto fra esperienza estetica ed esperienza religiosa, affrontate da Polanyi in Meaning, potrebbero essere rilette tenendo presente la già citata parabola del giardiniere, di cui Wisdom si serve per spiegare come, a volte, alcune questioni che iniziano su un piano sperimentale possano, in un secondo momento, accedere ad un livello meta-fisico, diventando quindi qualcosa di diverso. L’arte e la religione sono ambiti nei quali fisico e meta-fisico, linguistico e meta-linguistico, empirico e meta-
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empirico s’intrecciano, rendendo sfocati i confini di ciò che comunemente il pensiero umano tende a scindere; sicuramente l’esigenza di far incontrare aspetti che la tradizione moderna ci ha insegnato a dividere caratterizza, anche se da punti vista diversi, sia l’opera filosofica di Polanyi sia quella di J. Wisdom. Senza dubbio, l’intento di Polanyi e tutto il suo percorso di ricerca sono molto distanti dal contesto in cui si trovano a lavorare i filosofi analitici come Wisdom, i quali cercano di giustificare lo status logico della credenza religiosa, rintracciando nella fede una serie di criteri universalmente validi. Tuttavia la conclusione alla quale si giunge è, a mio avviso, molto simile: esiste, al centro dell’esperienza religiosa un nucleo oscuro, un mistero profondo che è essenziale alla fede e che distingue il rapporto Dio-uomo da qualsiasi altra relazione che l’essere umano può vivere, all’interno del proprio ambiente socio-culturale. Ciò, tuttavia, non impedisce al pensiero logico di farsi strada in un ambito che rimane comunque distante da esso. La ragione, a un certo punto, deve avere l’umiltà di mettersi da parte per lasciare spazio ad un’esperienza nuova, che non coincide con la mera negazione della razionalità, ma, in un certo senso si riappropria del razionale, per viverlo in maniera rinnovata. E la fonte della novità è proprio quel mistero insito nella realtà che ci porta a ricominciare sempre da capo e ci permette di essere persone, nel senso polanyiano del termine. In particolare, credo che la filosofia della scienza debba assumersi il compito d’indagare i punti in comune tra scienza e fede per delineare quei confini che a differenza dei limiti, nel senso kantiano del termine, non chiudono un particolare ambito in se stesso, ma lo aprono a ciò che sta oltre, costringendo la ricerca scientifica ad imbattersi nel mistero. Senza dubbio, in ambito scientifico esistono dei presupposti comuni, sulla base dei quali gli scienziati possono discutere. Tali presupposti vengono poi modificati o rinnovati, come ci insegna la stessa storia della scienza; tuttavia nessuno mette in questione la loro esistenza, senza la quale non si potrebbe neanche pensare un’attività di ricerca scientifica. Gli esperti quindi, nel loro lavoro di routine, si trovano a dialogare sulla base di determinati concetti, grazie ai quali la scienza stessa va avanti. Il problema si pone nell’ambito del dialogo interculturale e interreligioso, nel quale io dovrei avere la possibilità di ricostruire la posizione dell’altro, in base a dei presupposti comuni. Ma in questo caso è possibile parlare di presupposti? E soprattutto, in che modo possiamo delineare i confini della fede, tenendo presenti le difficoltà che incontra la ragione di
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fronte al mistero di un’esperienza religiosa autentica? A mio avviso, la nozione di verità personale polanyiana costituisce una proposta utile, non tanto al fine di riconciliare punti di vista differenti, ma, se la intendiamo come una presa di coscienza dell’uomo in quanto essere persona, tale proposta può far luce su una serie di problemi che si presentano nel momento in cui ci troviamo di fronte al diverso.
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Parte III Confini o limiti della fede?
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1. Polanyi come pensatore religioso
In quest’ultima parte del lavoro, vorrei approfondire quegli aspetti del pensiero polanyiano che ci permettono di uscire da un ambito prettamente epistemologico, dando origine ad una serie di questioni riguardanti quello che potremmo chiamare lo strato ultimo del creato. Come abbiamo già sottolineato, la teoria della conoscenza personale, ponendo in una relazione stretta e inscindibile l’attività scientifica e la persona umana, ci offre la possibilità di tracciare una sottile linea di congiunzione tra la scienza e l’esperienza religiosa. In particolare, come vedremo, la visione aperta dell’universo e il concetto di emergenza pongono l’epistemologia polanyiana in rapporto ai temi centrali del Cristianesimo. Partendo dal piccolo volume Scienza fede e società e arrivando a Meaning, attraverso Personal Knowledge, l’intento principale dell’autore rimane sempre quello di aiutare l’uomo a riscoprirsi come persona, come unità di corpo e mente aperta al mistero, al di là di ogni tradizione religiosa. Poi la religione cristiana può offrire i mezzi adeguati per intraprendere un simile cammino di riscoperta, ponendo, al cospetto dell’intelligenza umana, l’immagine di un Dio crocifisso, un Dio che è costantemente vicino a noi, ma sempre al di là della nostra piccola realtà. In primo luogo, quindi, vorrei approfondire la questione polanyiana del rapporto fra conoscere ed essere, al fine di mostrare l’apertura di questa epistemologia a tematiche interne al pensiero cristiano; tali riflessioni offriranno, infatti, gli strumenti per prendere in esame alcuni testi della letteratura secondaria che usa il pensiero polanyiano al fine di chiarire alcune questioni teologiche, a volte anche troppo lontane dall’autore stesso. Lo scopo che mi prefiggo in quest’ultima parte del lavoro, tuttavia, non è semplicemente quello di contestualizzare la teoria della conoscenza personale all’interno di un ambito teologico, ciò a cui si è limitata la maggior parte della letteratura critica. Dopo aver chiarito in che modo ci si possa servire del pensiero polanyiano per affrontare il problema della relazione tra Dio e il mondo o la complessa questione della Trinità, infatti, cercherò di illuminare la posizione di Polanyi secondo
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una diversa prospettiva che non si limiti alla religione cristiana, ma riguardi il rapporto tra realtà religiose e culturali differenti. A tal fine sarà decisiva una rilettura della teoria polanyiana del linguaggio.
1. La relazione fra conoscere ed essere
Abbiamo già sottolineato come, in Polanyi, la nozione di conoscenza personale sia strettamente legata a quella di realtà: il coefficiente tacito e personale del sapere, infatti, coincide con la fede silenziosa in un’unica verità, capace di rivelarsi parzialmente, nei diversi aspetti del mondo. Riconoscere la partecipazione ad una realtà unica non solo consente ad individui diversi di comunicare, ma rende autentico ogni processo conoscitivo, proiettandolo verso una dimensione universale. Qualsiasi sapere deve presupporre, platonicamente, una verità che, se pur nascosta, costituisce il punto di partenza, ma anche il fine ultimo della ricerca. In questo senso, possiamo considerare l’epistemologia polanyiana profondamente radicata nel realismo. Tuttavia, il nesso fra teoria della conoscenza ed ontologia emerge in maniera molto più evidente nelle parti in cui Polanyi descrive la realtà come un universo stratificato. Credo sia importante approfondire il tema del rapporto fra conoscere ed essere, al fine di cogliere la situazione dell’uomo nel mondo. Solo a quel punto, infatti, emergerà l’inestricabile nesso fra scienza e fede religiosa. Vediamo, quindi, in un primo momento, in che modo Polanyi sia riuscito a trasferire i risultati della teoria della conoscenza sul piano dell’essere. La logica del rapporto tra elementi sussidiari e focali del sapere e, di conseguenza, l’idea di una conoscenza che parte da un polo prossimale per arrivare ad un polo distale, permettono a Polanyi di pensare un mondo suddiviso in livelli gerarchici, ma strettamente connessi gli uni agli altri; emerge, così, “un’immagine dell’universo, fitto di strati di realtà unite insieme, significativamente, in coppie costituite da uno strato più elevato e da uno strato inferiore” (Polanyi 1966a, p. 51). Gli esseri che popolano la terra, quindi, sarebbero costituiti da un livello inferiore fatto di tanti particolari, che per diventare significanti hanno bisogno di un principio superiore capace di ricomprenderli. Già da questo primo accenno alla struttura stratificata dell’universo capiamo il nesso fra conoscere ed essere: il rapporto tra aspetti sussidiari e focali del sapere viene tradotto nella complessa
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relazione tra livelli inferiori e superiori dell’essere. Polanyi, da un lato, sottolinea l’importanza dei livelli inferiori che costituiscono le parti o i dettagli di un oggetto; dall’altro, tuttavia, riconosce come, dai particolari di un’entità, non sia mai possibile dedurre l’oggetto nella sua completezza: i livelli o i principi inferiori dell’essere hanno bisogno di principi superiori, in grado di organizzare i primi in una struttura significante. I livelli superiori, in un certo senso, danno forma all’insieme disordinato dei particolari, ponendosi ai confini dei principi sottostanti; Polanyi parla di “condizioni al contorno” (Polanyi 1969, p. 257), dalle quali dipenderebbe, quindi, il significato ultimo delle entità comprensive. Le parti che costituiscono i livelli inferiori hanno sempre influenza sui livelli superiori, tuttavia quest’ultimi non sono mai deducibili dalle leggi che governano i primi:
Nessuna descrizione di un’entità comprensiva alla luce dei suoi principi inferiori può mai rivelare l’attività dei suoi principi superiori. I principi superiori che caratterizzano un’entità comprensiva non possono essere definiti in termini di leggi che si applicano alle sue parti in se stesse. (Polanyi 1969, p. 258).
Questo meccanismo è facilmente comprensibile se pensiamo al modo in cui il sapere tacito integra i particolari di un oggetto, il quale viene sempre percepito come unità significante. Come abbiamo già visto, pur essendo un insieme di parti, l’oggetto della nostra attenzione è molto diverso da un aggregato di dettagli; allo stesso modo le leggi che governano i livelli inferiori dell’essere sono sempre comprese da un determinato principio superiore, il quale, tuttavia, non può essere semplicemente definito come l’insieme di tutti i livelli inferiori che esso contiene. Per non rimanere su un piano puramente teorico, credo sia necessario sviluppare il problema del rapporto fra i diversi strati dell’essere, considerando i riferimenti polanyiani al mondo dei viventi: all’interno di un organismo, ogni principio superiore controlla la zona di frontiera lasciata indeterminata dal principio sottostante. Questa indeterminatezza dipende dall’impossibilità di dedurre lo strato successivo dal precedente; un simile concetto è espresso attraverso la nozione di emergenza: “La struttura logica della gerarchia implica che un livello superiore possa porsi in essere solo attraverso un processo che non si manifesta al livello inferiore, un processo che si qualifica così come emergenza” (Polanyi 1966a, p. 61). Per chiarire in che modo un
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strato possa emergere da un altro, all’interno di una struttura ontologica gerarchizzata, Polanyi parte dall’analisi dell’universo inanimato, per giungere fino all’uomo e alla sua produzione culturale, intesa come il livello più alto e completo del mondo vivente. La comprensione di un organismo comporta una consapevolezza sussidiaria di tutte le parti che lo compongono, a livelli diversi; per questo motivo, Polanyi inizia dalla descrizione di alcune macchine e, passando attraverso l’analisi del mondo animale, arriva fino alla realtà umana. La struttura di una macchina dipende dalle sue parti, ovvero dai caratteri fisico-chimici che essa presenta, ma anche dai principi operativi che inglobano le parti e permettono il loro funzionamento. “La prima cosa che bisogna intendere – scrive Polanyi – è che una conoscenza fisico-chimica per se stessa non ci metterebbe in condizione di riconoscere […] una macchina” (Polanyi 1958, p. 515); l’identificazione di una macchina dipende, infatti, dalla comprensione del suo funzionamento, il quale non potrà mai essere spiegato neanche dalla più completa descrizione fisico-chimica dell’oggetto:
Solo se conoscerete come sono costruiti e come funzionano orologi, macchine da scrivere, barche, telefoni, eccetera, potrete chiedervi se ciò che avete davanti è un orologio, una macchina da scrivere, una barca o un telefono. Si può dare risposta alle domande del tipo «Questa cosa serve a qualcosa e, se sì, a che serve e come svolge la sua funzione?», solo controllando praticamente l’oggetto come un possibile esemplare di macchine conosciute o concepibili. La topografia fisico-chimica dell’oggetto può in alcuni casi servire come spunto per la sua interpretazione tecnica, ma per sé ci lascerebbe all’oscuro sotto questo aspetto (Polanyi 1958, p. 515).1
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Con queste parole, Polanyi mette anche in evidenza l’inestricabile nesso tra teoria e prassi, su cui deve fondarsi tutto il sapere, in particolare quello scientifico. Chiaramente, l’invito a riscoprire il fascino della scienza pura, sviluppato in alcuni passi de La logica della libertà, non dev’essere interpretato come un tentativo di scindere il momento teorico della ricerca da quello pratico. Infatti, il discorso sulla scienza pura è inserito nelle pagine in cui Polanyi denuncia la tendenza degli scienziati a perseguire scopi materiali, estranei all’autentico interesse per la conoscenza. Ciò che Polanyi non tollera è la sottomissione della scienza a finalità materiali, definite da chi detiene il potere; riscoprire l’amore per la scienza, non significa quindi scindere la teoria dalla pratica, ma vuol dire ridare nuovamente alla ricerca scientifica la libertà di perseguire i suoi scopi. Il discorso sulla scienza pura si colloca su un piano completamente diverso rispetto a quello che concerne il tema del rapporto fra teoria e prassi. La scienza, nell’ottica polanyiana, deve riconoscere la sua indipendenza da qualsiasi scopo materiale, proseguendo nella sua attività, basata su un intreccio ineliminabile fra operazioni teoriche e tecniche.
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Conoscere a memoria le caratteristiche fisiche di un oggetto non basta, quindi, a identificare ciò che abbiamo davanti; quello che manca è la conoscenza pratica della macchina in funzione. Polanyi mette in evidenza come i processi fisico-chimici, che soggiacciono ai principi operazionali, possano spiegare gli insuccessi di una macchina, senza, tuttavia, chiarire le condizioni del suo effettivo funzionamento. Analizzando le varie parti di un orologio, ad esempio, possiamo capire per quale motivo questo si sia fermato, ma, basandoci solamente sulle sue caratteristiche fisiche, non siamo in grado di spiegare il successo del marchingegno in funzione: “Sarebbe un errore – afferma Polanyi – parlare di […] «cause» fisiche e chimiche del successo, giacché il successo di una macchina è definito dai suoi principi operazionali, che non sono specificabili in termini fisico-chimici” (Polanyi 1958, p. 518). Da ciò capiamo in che senso i livelli superiori di un oggetto, ovvero i principi che guidano le sue operazioni, non possano essere immediatamente dedotti dai livelli sottostanti, che coincidono con i suoi particolari fisici. In ambito fisiologico ci troviamo in una situazione molto simile: qualsiasi organismo vivente, a partire dalle forme più elementari, non è assolutamente riducibile alla sua struttura molecolare. Anche gli esseri viventi “hanno organi interni che svolgono funzioni come fanno le parti di una macchina” (Polanyi 1969, p. 267); gli stessi organi vengono definiti dalle loro attività di preservazione della vita: “In questa luce l’organismo sembra essere, come una macchina, un sistema che funziona secondo due principi differenti: la sua struttura serve come condizione al contorno che imbriglia i processi fisico-chimici mediante cui i suoi organi svolgono le loro funzioni” (Polanyi 1969, p. 267). L’analogia tra il mondo vivente e le macchine riguarda esclusivamente la relazione fra strati diversi dell’essere, disposti in maniera ordinata: “Gli esseri viventi consistono in una gerarchia di livelli, ciascuno avendo i propri principi strutturali e organismici” (Polanyi 1969, p. 259). Come l’ingegneria è in grado di mostrare il funzionamento delle parti di una macchina, così la fisiologia, descrivendo l’attività degli organismi, riesce a dare significato alle loro parti. Tuttavia la fisiologia si trova in relazione con nuovi livelli, da cui dipende l’attività deliberante degli animali. Salendo nella scala dell’essere, possiamo dire allora che esistono due principi operanti nel regno animale: da una parte, infatti, l’animale si muove grazie a delle strutture che Polanyi definisce “macchiniformi”, dall’altra però, il suo comportamento dipende anche da
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alcuni poteri inventivi, irriducibili al funzionamento degli organi corporei. L’impulso inventivo raggiunge il massimo grado nella persona umana, le cui attività dipendono dal funzionamento del corpo, senza tuttavia ridursi ad esso; per chiarire ulteriormente la relazione fra i livelli dell’essere Polanyi porta l’esempio di Renoir:
Andando avanti negli anni Renoir divenne paralizzato dall’artrite. Perdette l’uso di ambedue i piedi e di ambedue le mani; le dita si immobilizzarono in una rigidità perennemente contratta. Tuttavia Renoir continuò a dipingere per altri vent’anni fino alla morte, con un pennello legato all’avambraccio. […] L’abilità e la maniera di vedere le cose che egli aveva elaborato e padroneggiato mediante l’uso delle dita, non risiedeva più nelle dita (Polanyi 1958, p. 527).
Tutto ciò mostra chiaramente non solo le infinite capacità di adattamento dell’uomo, ma anche l’impossibilità di ridurre la forza creativa della persona alle caratteristiche fisiche dell’organismo. In questo modo, Polanyi cerca di risolvere il grande problema filosofico del rapporto tra mente e corpo. Anche in tal caso, egli intende fare chiarezza sulla questione, facendo riferimento alla relazione tra sussidiario e focale e quindi, di conseguenza, considerando anche il nesso fra i diversi livelli dell’essere: Polanyi è convinto di poter arrivare ad una struttura stratificata dell’universo capace d’includere la coscienza, presente negli animali superiori. Corpo e mente, pur essendo strettamente connessi fra loro, poiché le attività mentali fanno continuo affidamento sulla struttura corporea, costituiscono due aspetti ben distinti della persona, i quali operano secondo principi differenti: la mente umana, essendo l’ultimo gradino dell’evoluzione, viene infatti definita come “il significato dei meccanismi corporei” (Polanyi 1969, p. 278). La mente è considerata l’elemento comprensivo dell’uomo; da una parte, quindi, senza una continua attività cognitiva le parti del corpo rimarrebbero prive di significato, dall’altra, però, anche il pensiero, senza una struttura corporea, non sarebbe concepibile. Polanyi tende sempre a sottolineare il profondo legame, ma anche la radicale irriducibilità tra il livello mentale e quello organico; il pensiero, infatti, pur essendo radicato nel corpo resta sempre libero di agire: “La mente imbriglia meccanismi neuro-fisiologici” (Polanyi 1969, p. 279) e sebbene dipenda da essi, la sua attività è irriducibile alle caratteristiche fisico-chimiche dell’organismo. Polanyi, quindi, negando la possibilità di ridurre la mente a semplici operazioni corporee, si schiera anche contro i sostenitori dell’intelligenza artificiale
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forte, ovvero contro tutti coloro che sono convinti di poter costruire, in linea di principio, un calcolatore digitale identico a una mente umana. Tale possibilità è concepibile soltanto per coloro che credono alla perfetta coincidenza tra attività mentali e determinate configurazioni neurologiche. Se il pensiero fosse totalmente spiegabile attraverso alcune caratteristiche fisiche, allora, in linea di principio, sarebbe possibile costruire una macchina in grado di comportarsi esattamente come l’uomo e quindi dotata di mente. Ma, come abbiamo già sottolineato, non è questo il punto di vista di Polanyi, il quale rifiuta qualsiasi forma di comportamentismo, senza, tuttavia, ritornare al dualismo cartesiano; “La mente e il corpo – egli scrive – non interagiscono esplicitamente, […] ma secondo la logica della conoscenza tacita. Ed è questa una logica che elimina il dilemma cartesiano, riconoscendo due maniere mutuamente esclusive di essere coscienti del nostro corpo” (Polanyi 1969, p. 263). La mente non è scissa dal corpo, proprio perché può essere consapevole delle parti corporee in maniera sussidiaria o focale; se le attività cognitive fossero del tutto estranee all’organismo, non potremmo definire la struttura corporea come l’insieme degli elementi sussidiari su cui la mente si appoggia, per intraprendere un qualsiasi percorso conoscitivo. Poi ovviamente, quando tali elementi sussidiari vengono percepiti in modo focale, come meccanismi corporei, il ragionamento mentale, ovvero ciò che conferisce loro significato, viene perso di vista. Dunque, la relazione fra mente e corpo è comprensibile sempre all’interno di una visione gerarchizzata dell’universo: il pensiero, infatti, costituisce quell’attività mediante la quale l’uomo, che è l’apice del processo evolutivo, può realizzarsi come persona. Esiste fra i vari livelli dell’essere un rapporto gerarchico strettissimo, che nel corso dell’evoluzione, ha portato all’emergere della coscienza; nell’uomo l’attività cosciente include “una continua intensificazione dell’individualità” (Polanyi 1958, p. 604), ovvero permette la crescita di un soggetto personale e responsabile. La comparsa dell’uomo, tuttavia, è avvenuta sulla base di elementi che costituiscono livelli più bassi dell’essere; per questo possiamo dire che la persona è “il culmine della creazione” (Polanyi 1959, p. 42) e, nel contempo, essa riassume in sé tutto l’universo. Ciò è maggiormente comprensibile considerando il modo in cui ogni strato ontologico poggia sull’altro:
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I principi che governano i particolari isolati di un livello inferiore lasciano indeterminate condizioni che devono essere controllate da un principio superiore. […] Le funzioni inferiori della vita sono quelle vegetative […] che lasciano aperte le funzioni superiori della crescita e negli animali anche le operazioni delle azioni muscolari; a loro volta, i principi che governano le azioni muscolari lasciano aperta l’integrazione di tali azioni in modelli innati di comportamento; di nuovo, tali modelli sono aperti all’intelligenza e […] nell’uomo la stessa intelligenza può essere messa in condizione di servire i principi ancora più elevati della scelta responsabile (Polanyi 1969, p. 274).
Se ciascun livello si basa su elementi appartenenti allo strato soggiacente, senza tuttavia ridursi ad essi, è possibile rintracciare una complessità crescente, nell’evoluzione della vita: “Possiamo riconoscere allora una progressione strettamente definita, che parte dal livello inanimato verso sempre più alti principi addizionali” (Polanyi 1969, p. 275). È evidente, quindi, come la struttura gerarchica, descritta da Polanyi, si allontani dalla visione meccanicistica dell’universo, per accogliere una forte tendenza finalistica. Dire che i livelli inferiori dell’essere lasciano aperte delle condizioni su cui si basano poi i livelli superiori, significa riconoscere, da una parte, la continuità fra il mondo inanimato e quello vivente, tra la dimensione biologica e quella mentale degli animali e dell’uomo, dall’altra, tuttavia, significa affermare sempre una radicale irriducibilità tra gli elementi mentali superiori e quelli appartenenti alla dimensione fisico-chimica soggiacente. Per questo Polanyi, nonostante difenda l’idea di un’evoluzione che coinvolge i livelli inanimati per arrivare alle forme più alte della conoscenza umana, rifiuta il neodarwinismo che “considera l’evoluzione come la somma totale di successivi mutamenti ereditari e accidentali” (Polanyi 1958, p. 587). Una simile visione della vita, infatti, riduce lo sviluppo della realtà ad un processo passivo, eliminando lo stupore umano di fronte alle attività del creato. L’uomo potrà ancora emozionarsi davanti allo spettacolo della natura, solo ponendosi in maniera diversa nei confronti dell’evoluzione, la quale va interpretata attraverso la nozione di emergenza. Solo così, infatti, potremmo notare come “i livelli più alti siano di fatto venuti all’esistenza spontaneamente dagli elementi dei […] livelli più bassi” (Polanyi 1958, p. 602). È proprio attraverso un simile processo spontaneo e creativo che l’uomo riesce a passare attraverso “stadi successivi di personalità attiva, percettiva e infine responsabile” (Polanyi 1958, p. 603).
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Lo sviluppo del mondo vivente, nei suoi diversi livelli, è oggetto di alcune conoscenze che si differenziano per il grado di partecipazione del soggetto. Dagli studi della biologia si passa infatti a quello che Polanyi definisce il “campo dell’ultra-biologia” (Polanyi 1958, p. 580), nel quale l’oggetto di studio diventa l’uomo:
Si ricordi come la biologia sale dalla valutazione degl’impegni primordiali e vegetativi, alla valutazione degl’impegni primitivi attivo-percettivi, per giungere, attraverso lo studio dell’apprendimento
animale,
alla
valutazione
degl’impegni
che
vengono
assunti
intelligentemente e con intento universale. […] E mano a mano che ci solleviamo dalla morfologia animale alla psicologia animale, la nostra partecipazione, fatta di convivenza simpatetica, all’organismo vivente diventa sempre più ricca, più intima e meno disuguale. Così, quando giungiamo infine allo studio del pensiero umano, la convivenza simpatetica diventa scambievole (Polanyi 1958, p. 580).
Come abbiamo già sottolineato, la capacità di entrare in relazione con l’altro e di comprendere a fondo la sua esperienza di vita, gioca un ruolo importantissimo nello sviluppo dell’esistenza spirituale umana. Solo all’interno di una società, infatti, la persona può attingere a quegli obiettivi ideali, che la innalzano al di là di un piano puramente materiale. La descrizione della struttura gerarchica dell’universo, cui corrisponde una conoscenza sempre più profonda ed intima della realtà, mostra infatti come l’uomo sia necessariamente radicato in un orizzonte materiale, fatto di elementi biologici, fisico-chimici e infine sociali, e come, tuttavia, egli non sia la semplice somma di tali elementi; per questo può guardare oltre il suo mondo, può rivolgere gli occhi al cielo, per cercare la sorgente ultima di ogni sapere. Nulla comunque è scontato: l’uomo, pur essendo all’apice del processo evolutivo come persona responsabile e impegnata, non può conoscere mai totalmente l’universo in cui vive, né può attingere in maniera immediata al suo complesso mondo interiore; la persona è sulla terra con “il rischio di credere e di vivere” (Polanyi 1958, p. 618). Il processo evolutivo, descritto da Polanyi, non offre, quindi, un’immagine chiusa della realtà, ma apre il nostro orizzonte finito verso una verità trascendente, che attrae da sempre il pensiero umano. Proprio dopo aver descritto nei particolari il rapporto fra i vari livelli dell’essere, nelle ultime pagine di Personal Knowledge, Polanyi ritorna al tema della fede, riconoscendo quanto l’uomo sia “forte, nobile e meraviglioso, sempre che abbia timore delle voci del
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suo firmamento” (Polanyi 1958, p. 584). Sta qui l’idea di fondo che anima tutto il pensiero polanyiano, ovvero l’idea di un essere umano capace di ampliare la propria conoscenza della realtà, riconoscendo la fede in certezze ultime, che non possono essere frutto di dimostrazioni, ma che tuttavia guidano la nostra esistenza in modo tacito e vincolano il nostro comportamento nella società. Il timore che l’uomo prova sotto “un firmamento di verità e di grandezze” (Polanyi 1958, p. 584) è la condizione necessaria affinché la persona non perda se stessa, in un vuoto di ideali; se l’individuo pretende di esaminare in maniera distaccata ciò di cui ha rispetto, pensando di scindere la ragione dalla fede, tutto diventa relativo e quell’orizzonte comune di verità, che permette a persone tanto diverse di comunicare, viene distrutto da una libertà, perennemente schiava di se stessa:
Allora la legge non è più di ciò che i tribunali decideranno, l’arte non è che un calmante per i nervi, la moralità non è che una convenzione, la tradizione non è che inerzia, Dio non è che una necessità psicologica. L’uomo domina un mondo in cui egli stesso non esiste. Infatti insieme agli obblighi egli ha perduto la voce e la speranza, ed è stato abbandonato a se stesso nell’insensatezza (Polanyi 1958, p. 584).
La perdita di senso si fa strada quando l’uomo, riconoscendosi all’apice del processo evolutivo, crede di poter dominare il mondo intero, racchiudendolo in una serie di categorie concettuali. In questo modo, l’individuo non è più in grado di vedere la complessità di un universo che è in lui, ma che, nello stesso tempo, lo trascende, permettendogli di realizzare la propria vocazione conoscitiva. L’essere umano che non intende seguire alcuna strada, ma che decide di crearsela, mettendo insieme una serie di valori puramente inventati, non è in grado di relazionarsi alla verità, perché non riesce a cogliere quel senso del mistero che guida ogni autentica ricerca. Il rapporto gerarchico tra i diversi strati dell’essere, dunque, ci permette, da un lato, di definire la persona e la sua produzione culturale come le espressioni più alte del mondo vivente; dall’altro, tuttavia, ci aiuta a riscoprire l’uomo come esploratore: la vocazione primaria dell’essere umano, infatti, rimane quella della ricerca; l’uomo non può fare a meno di rispondere all’appello di una verità in cui crede e nella quale il proprio essere corporeo-spirituale è profondamente radicato.
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“Noi possiamo conoscere più di quello che possiamo esprimere” (Polanyi 1966a, p. 20): questa è l’affermazione sulla quale si basa non soltanto la teoria della conoscenza personale ma anche la visione di un universo suddiviso in livelli gerarchici che sporgono gli uni rispetto agli altri. Arrivati a questo punto, credo sia necessario prendere nuovamente in considerazione queste parole, per capire la tendenza polanyiana a fare della religione cristiana il punto d’arrivo del suo pensiero filosofico. Come abbiamo già osservato, le nostre capacità espressive sono radicate su un fondo di conoscenze tacite, che determinano e guidano il nostro modo di rapportarci al mondo. La dimensione tacita del sapere, tuttavia, non costituisce un universo lontano e inaccessibile per l’uomo, ma abbraccia l’intera umanità, permettendole sempre di avanzare nel lungo cammino della conoscenza. Il fatto che la persona non riesca ad esprimere tutto ciò che sa a livello tacito, non costituisce un ostacolo alla vocazione conoscitiva dell’uomo, ma al contrario, la fiducia in un fondo non esprimibile in maniera diretta e immediata si rivela come la condizione necessaria allo sviluppo di ogni sapere esplicito e razionale. Al di là del conoscere e dell’essere esiste, quindi, una dimensione fiduciaria sulla base della quale la scienza, l’arte e la religione possono entrare in dialogo. Poi, nell’esperienza religiosa, la fede arriva al massimo grado: in particolare nel Cristianesimo, il credente sperimenta una forma totale di abbandono, che lo costringe a rimettere in gioco la sua stessa esistenza. Nel rapporto fra la teologia e la fede cristiana, fra la storia e la fusione di elementi incompatibili che confluiscono nella figura del Cristo, Polanyi vede l’espressione più alta di quella conoscenza personale, capace di dissolvere la dicotomia fra oggettività e soggettività, ritrovando così l’equilibrio fra credere e conoscere. Il cristiano, più di chiunque altro, sarà colui che attinge, attraverso la propria esperienza religiosa, ad un fondo tacito di verità, mai completamente esprimibile o formalizzabile.
2. La fede cristiana: un punto d’arrivo?
In Personal Knowledge, Polanyi parla della religione all’interno del capitolo dedicato alle passioni intellettive; il riferimento all’esperienza cristiana s’inserisce nel discorso sulla passione euristica, descritta come quella spinta emozionale che porta lo scienziato ad uscire dalla sua attività di routine, per approfondire un particolare aspetto della
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realtà. Come abbiamo già sottolineato, in queste pagine Polanyi sembra ribadire la distinzione fra conoscenza tacita ed esplicita, parlando di un fondo inarticolato, inaccessibile al pensiero umano. Il riconoscimento di un orizzonte pre-linguistico diventa qui necessario al fine d’introdurre il discorso sulla religione. Credo, quindi, che Polanyi, in queste parti di Personal Knowledge, abbia sottolineato in modo specifico il salto logico fra sapere implicito ed esplicito, proprio con l’intenzione di ampliare il suo pensiero, nella direzione dell’esperienza religiosa. Il potere umano di attingere alla verità, in una visione euristica separata dalle nostre capacità razionali, infatti, è ben più visibile nell’ambito religioso che in quello propriamente scientifico. Tuttavia l’intenzione di Polanyi non è mai quella di scindere la fede religiosa dalla scienza. Potremmo dire, allora, che in queste pagine egli ponga l’accento sulla passione euristica, sottolineando la presenza di un fondo inarticolato e inaccessibile alla ragione, per fare spazio alla fede religiosa; dietro a tutto ciò, però, c’è sempre il discorso sulla consapevolezza focale e sussidiaria: non bisogna dimenticare che, per Polanyi, ogni tentativo di conoscenza è un percorso che parte da alcuni elementi, nei quali il soggetto s’identifica, per arrivare ad altri. Come abbiamo già evidenziato, la descrizione di una conoscenza personale da-a ci impedisce di considerare la dimensione tacita del sapere come un fondo oscuro e inaccessibile: la consapevolezza sussidiaria di certi elementi, infatti, può sempre diventare focale, anche se a volte questo passaggio può risultare molto difficile e complesso. L’esigenza di “abitare” certi aspetti della realtà, al fine di coglierne degli altri, è ciò che caratterizza ogni tentativo di comprensione, dalla scienza alla religione; e questo è un aspetto che Polanyi ribadisce continuamente, tenendolo presente anche nelle parti di testo in cui parla di un orizzonte pre-linguistico, posto al di là della dimensione razionale. Le precisazioni fatte da Polanyi sul ruolo di questo orizzonte inarticolato possono aiutarci a capire meglio la radicalità della fede religiosa, senza negare, tuttavia, l’idea che possa esserci una continuità fra scienza e religione: il processo d’immedesimazione (indwelling) in certi aspetti del reale, infatti, è ciò che rende viva e appassionata ogni forma di conoscenza, permettendo al soggetto, impegnato nella scienza, nell’arte o nella vita religiosa, di uscire dal suo mondo per guardare oltre. Ogni persona coinvolta nella ricerca di qualcosa si trova sempre a condividere con gli altri un certo schematismo concettuale, che le permette di individuare i problemi e le
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possibili vie di risoluzione; tuttavia la ricerca appassionata che guida il sapere non consiste in un semplice “trattenersi all’interno” (Polanyi 1958, p. 333) degli schematismi condivisi, ma si sviluppa in una continua tensione che porta il soggetto conoscitivo a guardare sempre al di là di se stesso, senza tuttavia abbandonare la realtà in cui ha posto le sue radici:
La scoperta scientifica che porta da uno schematismo a quello che assume il suo posto – scrive Polanyi – rompe i vincoli del pensiero disciplinato in un istante intenso […] di visione euristica. E mentre in questo modo effettua un’evasione, la mente ha l’esperienza […] del suo contenuto piuttosto che il controllo di essa mediante l’uso di modi prestabiliti d’interpretazione: essa è schiacciata dalla sua attività appassionata (Polanyi 1958, p. 334).
La visione euristica consiste in un’esperienza contemplativa, in cui il pensiero umano coglie, in un istante di evasione, i propri contenuti. Il distacco o l’evasione avviene rispetto a quell’insieme di procedimenti logici in cui il pensiero stesso è abituato a ragionare. Allora, una mente che rinuncia ai propri mezzi immediati, per rispondere al bisogno umano di conoscere, non potrà che rimanere “schiacciata dalla sua attività appassionata” (Polanyi 1958, p. 334). La visione euristica, che supera ogni passaggio logico-razionale, appaga per un momento l’irrequietezza del pensiero umano, il quale, tuttavia, è sempre pronto a mettere in questione ogni traguardo raggiunto; e questa messa in questione non può che avvenire partendo dagli strumenti razionali che l’uomo ha a disposizione. Allora la sua attività di ricerca consisterà sempre in un “trattenersi all’interno” (Polanyi 1958, p. 333) delle possibilità umane, pur cercando costantemente di superarle. Una delle più radicali manifestazioni di questa tensione, guidata dall’impulso di erompere attraverso gli schematismi fissati, costituisce, secondo Polanyi, l’atto della visione estetica: il bello è qualcosa che ci cattura, trasportandoci al di là di noi stessi; abbandonarsi alle opere d’arte, allora, “non significa né osservarle né maneggiarle, ma significa vivere in esse” (Polanyi 1958, p. 334). Nella contemplazione estetica gli oggetti e le forme assumono un significato nuovo, uscendo da una dimensione puramente strumentale:
Come osservatori e manipolatori di esperienza veniamo guidati dall’esperienza e passiamo attraverso l’esperienza senza sperimentarla in se stessa. Lo schematismo concettuale mediante
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il quale noi osserviamo e manipoliamo le cose si colloca come uno schermo fra noi e queste cose, sicché gli aspetti visivi e musicali di esse, i loro aspetti odoriferi e tattili, passano attraverso questo schermo ma solo debolmente, perciò lo schermo stesso ci mantiene in qualche modo distanti da esse. La contemplazione lo dissolve; […] noi cessiamo di trattare le cose e c’immergiamo in esse […]. E come ci perdiamo nella contemplazione, assumiamo una vita impersonale negli oggetti; mentre questi sono circondati da un alone di visione che dà loro una realtà nuova, vivida, sognante (Polanyi 1958, pp. 335-336).
Allora, facendo un riferimento alla Critica della facoltà di giudizio kantiana, possiamo notare come, nella visione estetica, la soggettività dell’io riesca a perdersi nell’oggettività del bello. Kant, infatti, definisce il bello come “ciò che viene rappresentato senza concetti, come oggetto di un compiacimento universale” (Kant 1790, p. 46). Il giudizio di gusto, rivolto al bello, da una parte, non è determinabile attraverso argomenti logici, e in questo senso assume un carattere soggettivo, ma dall’altra “esso si appella a tutti i soggetti, come potrebbe avvenire solo se fosse un giudizio oggettivo che riposa su principi conoscitivi” (Kant 1790, p. 122). Nel giudizio estetico non interessa l’esistenza dell’oggetto e in questo modo, potremmo dire in termini polanyiani, viene abbattuto quello schermo di concetti che ci separa dal resto del mondo; ciò che a noi interessa, infatti, è il senso di compiacimento che l’oggetto lascia trasparire da sé. Si tratta di un compiacimento che pretende validità universale, pur non essendo il risultato di un giudizio logico. Kant, nell’Analitica del giudizio, intende giustificare l’esigenza di universalità propria del giudizio estetico e lo fa dicendo che nel giudicare il bello “noi siamo autorizzati a presupporre universalmente in ogni uomo le stesse condizioni soggettive della facoltà di giudizio che abbiamo in noi” (Kant 1790, p. 127). Nell’esperienza del bello c’è qualcosa che ci fa sentire uniti al resto del mondo e credo che Polanyi pensi ad un’unità simile quando parla “dell’impersonalità della contemplazione” (Polanyi 1958, p. 336), definendola come una forma di abbandono. Ciò che davvero sorprende, rimanendo all’interno dell’ottica polanyiana, è il modo in cui tale abbandono possa attraversare, in gradi diversi, ogni forma di conoscenza, legando il sapere scientifico-razionale all’esperienza artistica e in ultimo religiosa. La tensione fra interno ed esterno, tra la soggettività del proprio sguardo e l’oggettività costantemente richiesta dal pensiero, vive in ogni tentativo di comprensione e cresce man mano che si passa dalla realtà naturale visibile ad una realtà estetica inconsistente,
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ma profondamente radicata in noi. Poi, dalla visione del bello nell’arte, il passo verso l’esperienza mistica di Dio è molto breve: il misticismo, come l’arte, “erompe attraverso lo schermo dell’oggettività e attinge alla […] visione contemplativa” (Polanyi 1958, p. 339). La ricerca di Dio, da parte del mistico religioso, è un continuo tentativo di uscire “dallo schematismo della comprensione intelligente, mediante il quale egli normalmente valuta le sue impressioni” (Polanyi 1958, p. 336); l’unico scopo dell’uomo di fede è quello “di cercare in assoluta ignoranza l’unione con Lui che è al di là di tutti gli esseri e di tutte le conoscenze” (Polanyi 1958, p. 337). Nella mistica cristiana, la riconciliazione con Dio consiste nell’arrendersi al Suo amore, imparando a perdonare e ad amare gli altri come Egli ha fatto e alimentando la fede personale attraverso tutti quei piccoli gesti quotidiani, che trovano al di là di se stessi il loro autentico significato: “La fede cristiana nell’azione quotidiana costituisce uno sforzo di erompere verso l’esterno, sostenuto dall’amore e dal desiderio di Dio, un Dio che può essere amato ma non osservato. La vicinanza a Dio non è un’osservazione, perché travolge e pervade colui che adora” (Polanyi 1958, p. 337). In questo caso, l’oggetto della nostra contemplazione richiede un abbandono totale, sperimentabile soltanto da quell’uomo capace di vivere con sincerità ogni aspetto del rituale religioso. Le parole da dirsi e i gesti da farsi acquistano un senso solo per la persona “che partecipa devotamente alla vita religiosa” (Polanyi 1958, p. 337); così rimanendo all’interno del rituale e vivendo pienamente ogni suo momento, il credente ha la possibilità di guardare a Dio, che sta ben oltre le preghiere e i gesti umani. In questo senso trattenendoci all’interno del rituale, siamo capaci di eromperne fuori, per attingere a quella forma assoluta d’amore che dà senso alla vita cristiana. L’esperienza religiosa è allora un «dimorare dentro» le forme rituali, senza tuttavia acquietare in esse la nostra ricerca di Dio; la ritualità non è mai qualcosa di statico, ma è costantemente tenuta aperta da una spinta euristica che ci fa guardare oltre il nostro orizzonte mondano. “Il soggiornare dell’adorante cristiano all’interno del suo mondo mistico – scrive Polanyi – è un continuo sforzo di erompere fuori di esso, di buttar via la condizione umana, anche se contemporaneamente egli riconosce umilmente di non poterne uscire” (Polanyi 1958, p. 338). Questo «abitare all’interno» viene vissuto in pieno quando lo sforzo di erompere fuori arriva al massimo grado: nel momento in cui una persona credesse di aver raggiunto la perfezione, “verrebbe rigettata indietro nel vuoto spirituale” (Polanyi 1958, p. 338). La vita del cristiano è una tensione continua e
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il suo trattenersi all’interno del rituale differisce, secondo Polanyi, da ogni altro trattenersi all’interno di uno schematismo; infatti, per il cristiano, l’immedesimazione in un certo apparato religioso appare come un rischio e una sfida costante:
La confessione della colpa, la resa alla misericordia di Dio, la preghiera con cui si chiede la grazia, […] producono una tensione crescente. Mediante questi atti rituali l’adorante accetta l’obbligo di realizzare ciò che egli sa che esiste al di là dei suoi poteri […] e si sforza di andare verso questo al di là nella speranza di ricevere una visitazione misericordiosa dall’alto (Polanyi 1958, p. 338).
La vita cristiana non assomiglia al soggiornare dentro una grande teoria di
cui
conosciamo ogni aspetto, ma può essere interpretata come uno sforzo euristico, che cerca di farsi strada tra gli schematismi noti, lasciandosi guidare da una verità, che sta al di là dell’orizzonte umano, ma alla quale la persona non può rinunciare: “Il cristianesimo si preoccupa di favorire e in un certo senso appaga costantemente il desiderio che l’uomo ha di essere mentalmente insoddisfatto, offrendogli il confronto di un Dio crocifisso” (Polanyi 1958, p. 338). Il comando euristico a cui l’essere umano risponde con la vita è quello di “guardare verso l’ignoto” (Polanyi 1958, p. 338); tutta l’esistenza si muove in un’alternanza di domande e risposte, che spesso rimangono aperte, dando alla persona la possibilità di crescere; ma a volte, quando ogni strada sembra sbarrata e ogni risposta appare definitiva la disperazione può prendere il posto della speranza e allora quella spinta euristica che fin da bambini ci rende curiosi nei confronti della realtà e da adulti motiva il nostro lavoro, le aspettative per il futuro, i progetti, può scomparire dietro all’ingannevole certezza di non avere più risposte. Polanyi, riscoprendo la fede al di sotto di ogni conoscenza, vuole combattere il rischio dell’insensatezza per trovare, al di là dell’arte surrealista e dell’esistenzialismo, una speranza radicale. La fiducia in una realtà che non dipende da noi, ma che attrae costantemente il nostro sguardo, è ciò che può salvare l’uomo dal non senso; questa fiducia può essere sperimentata, in gradi e in modalità diverse, nella scienza, nell’arte, ma soprattutto nella religione; in particolare, nel Cristianesimo, la razionalità umana si trova costretta a riconoscere una dimensione di fede, che diventa determinante per la vita stessa di chi si definisce cristiano, o almeno prova a diventare tale.
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A questo punto, credo sia importante soffermarci sul ruolo dell’arte, con lo scopo di cogliere la sua affinità con l’esperienza religiosa e di approfondire, in ultimo, il senso della vita cristiana. L’arte, nell’ottica polanyiana, viene considerata ad uno stadio intermedio tra la scienza e la religione:
I poteri visionari che portano lo scienziato a nuove scoperte s’indeboliscono quando la scoperta è stata realizzata, e diventano una pacifica contemplazione del risultato, mentre le pratiche religiose culminano in uno sforzo che esse cercano sempre di nuovo di portare a compimento. Le arti si trovano in una posizione intermedia. Come nella scienza la passione euristica di colui da cui parte la ricerca eccede di gran lunga in intensità i sentimenti indotti dal suo prodotto finito, così avviene nell’arte. Ma l’opera d’arte è più affine a un atto di religiosa devozione in quanto rimane, anche nella sua forma finita, uno strumento di contemplazione più attiva e comprensiva (Polanyi 1958, p. 340).
La passione euristica attraversa l’arte e la religione, come la scienza; in quest’ultima, tuttavia, la scoperta tende ad acquietare la tensione propria della ricerca, anche se nell’uomo è sempre insito il bisogno di approfondire ogni risultato raggiunto e quindi, nessuna scoperta è mai definitiva, ma rimane costantemente aperta, come oggetto di contemplazione. Nell’ambito artistico-religioso, però, tale contemplazione raggiunge un livello ancora più profondo; i risultati ottenuti, infatti, non possiedono la completezza di una scoperta scientifica ma aumentano sempre più il livello della tensione euristica. Così il bello, mostrato dall’arte, può diventare il mezzo per riscoprire il senso dell’esistenza e per riavvicinarsi a Dio. Credo che Polanyi possa fornirci alcuni importanti strumenti per cogliere il significato profondo di quella lettera che Giovanni Paolo II indirizzò agli artisti, nel 1999. Qui, infatti, l’arte viene interpretata come “uno straordinario canale d’espressione per la crescita spirituale dell’uomo”2. Nell’opera artistica, il singolo individuo esprime se stesso e i diversi aspetti della sua anima, inserendosi nella storia dell’intera umanità; la sua esperienza di vita non rimane chiusa in un ambito puramente privato, ma si offre al mondo, entrando in una dimensione universale. Potremmo dire, in termini polanyiani, che l’aspetto soggettivo e quello oggettivo dell’opera si fondono nella persona 2
Giovanni Paolo II: Lettera del Papa Giovanni Paolo II agli artisti, Lib. Ed. Vaticana, Città del Vaticano, 1999, p. 8.
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dell’artista. In Meaning, Polanyi scrive: “All art is intensely personal and strictly detached; and it must […] claim universal validity for the personal self-set standards which it obeys” (Polanyi, Prosch 1975, p. 102). L’artista non è semplicemente un soggetto, ma è una persona, nella quale il desiderio individuale di realizzarsi si fonde col bisogno universale d’indagare la verità. “La società – sottolinea Giovanni Paolo II – ha bisogno di artisti, come ha bisogno di scienziati, di tecnici, di lavoratori, […] di testimoni della fede, di maestri, di padri e di madri che garantiscano la crescita della persona”3. Ciò che conta è che l’uomo non creda mai di aver raggiunto la perfezione, ma viva nella consapevolezza di essere in continua crescita, verso una bellezza piena e totale. C’è una forte spiritualità che guida ogni autentica ricerca del bello e che motiva molte persone, poste al servizio della verità, a perseguire il loro compito, nella scienza, nell’arte, in campo religioso, ma anche nella famiglia e nella società:
Su questa base – scrive Giovanni Paolo II – a conclusione del Concilio Vaticano II i Padri hanno rivolto agli artisti un saluto e un appello: «Questo mondo – hanno detto – nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza, per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione»4.
Il bello, oggetto della visione estetica, getta una luce sul lavoro creativo dell’artista, ma ciò che egli riesce ad esprimere, a dipingere o a scolpire “non è che un barlume di quello splendore che è balenato per qualche istante davanti agli occhi del suo spirito”5. L’intuizione artistica riesce a superare per un attimo ciò che percepiscono i sensi, penetrando nel mistero della realtà: “Essa scaturisce dal profondo dell’animo umano, là dove l’aspirazione a dare un senso alla propria vita si accompagna alla percezione fugace della bellezza e della misteriosa unità delle cose”6. L’opera d’arte allora, usando la terminologia di Polanyi, prende forma sulla base di un sapere tacito, mai completamente esprimibile; e proprio la fiducia in quest’orizzonte tacito di verità fa sì che l’uomo non cristallizzi la sua vita, ma continui sempre a ricercare la bellezza, come espressione di verità. Nel mistero del bello si radica il mistero di Dio, per questo il 3
Giovanni Paolo II: Lettera del Papa Giovanni Paolo II agli artisti, p. 10. Ivi, p. 29. 5 Ivi, p. 15. 6 Ivi, p. 15. 4
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credente non si meraviglia delle difficoltà che hanno gli artisti a rappresentare la visione estetica che li ha illuminati, solo per un istante:
Il credente – scrive Giovanni Paolo II – […] sa di essersi affacciato per un attimo su quell’abisso di luce che ha in Dio la sua sorgente originaria. C’è forse da stupirsi se lo spirito ne resta sopraffatto al punto di non sapersi esprimere che con balbettamenti? Nessuno più del vero artista è pronto a […] far proprie le parole dell’apostolo Paolo, secondo il quale Dio «non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo» così che «non dobbiamo pensare che la Divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana» (At 17, 24.29). Se già l’intima realtà delle cose sta sempre «al di là» delle capacità di penetrazione umana, quanto più Dio nelle profondità del suo insondabile mistero!7
Quando è autentica, l’arte ci avvicina all’esperienza religiosa e come ricerca del bello, che va oltre i sensi, “essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero”8. Credo che queste parole possano spiegare ulteriormente la tensione, descritta da Polanyi, fra “il trattenersi all’interno e l’erompere fuori” (Polanyi 1958, p. 333) dal rituale religioso: la bellezza e l’immensità di Dio non possono essere racchiuse in un’opera artistica o in un rito, tuttavia l’opera e il rituale ci richiamano continuamente alla trascendenza, invitandoci a gustare quello che la vita ha da offrirci. L’uomo non è chiamato a diventare Dio e a liberarsi della sua umanità, ma è spinto a guardare ciò che è altro da sé, rimanendo sempre se stesso. È importante che la persona riscopra, nella debolezza umana, il senso dell’eterno, capace d’innalzare l’arte a una dimensione universale, ma soprattutto capace di trasformare la disperazione in speranza autentica. Nell’ottica cristiana, solo la fede in una bellezza e in una Verità che è Amore, può salvarci dal vuoto dell’insensatezza e spingerci a vivere appieno il rituale religioso, con la certezza ultima che esso ci avvicini a Dio. In Meaning, Polanyi mette in relazione l’opera d’arte al mito e ai rituali, al fine di attingere, in ultimo, alla profondità dell’esperienza cristiana. L’opera artistica viene descritta come un lavoro dell’immaginazione, unica facoltà capace d’integrare gli elementi sussidiari, che, uniti in una struttura significante, determinano il distacco 7 8
Giovanni Paolo II: Lettera del Papa Giovanni Paolo II agli artisti, pp. 15-16. Ivi. p. 27.
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dell’opera dall’artista, permettendo il passaggio dalla sfera individuale a quella universale. In un poema, ad esempio, le rime, i suoni e la grammatica costituiscono gli aspetti sussidiari dell’opera e grazie alla loro integrazione l’esperienza che il singolo lettore porta con sé entra nella dimensione universale dell’opera artistica: “It is the poem that speaks us, not the poet” (Polanyi, Prosch 1975, p. 86). Il poema diventa autonomo rispetto all’esperienza singola dello scrittore che l’ha creato e in questo modo, grazie al lavoro dell’immaginazione, i diversi punti di vista che attingono all’opera si fondono nell’universalità del bello. L’oggetto focale a cui è rivolta l’integrazione degli elementi sussidiari non è mai fisso: lo scopo dell’opera muta e si aggiusta man mano che il lavoro dell’artista continua; il fine da raggiungere, infatti, è sempre un’anticipazione di qualcosa che è stato colto dall’immaginazione e mai un’anticipazione di fatti ancora sconosciuti che esistono in natura. Per questo, il prodotto artistico finito non può essere considerato un oggetto fra gli altri, ma rimane costantemente aperto a possibili interpretazioni future, che si muovono nel vasto ambito dell’immaginazione: “The arts aim at trasmitting their immagination to a public – to a successive generation of publics – and depend on the immaginative power of these people to accept the works of their immagination as meaningful” (Polanyi, Prosch 1975, p. 101). Come nella scienza, anche nell’arte si tratta di accettare una verità universale, che può essere attinta attraverso esperienze particolari; tuttavia, nella scienza, la realtà che ci attrae a sé è in gran parte visibile e tangibile, quindi il lavoro dell’immaginazione ha dei limiti evidenti; nell’arte, invece, l’immaginazione assume un ruolo centrale, poiché attraverso i suoi poteri, l’uomo può entrare nella visione estetica: questo, tuttavia, non significa che la mente umana possa spaziare nel campo artistico, in maniera disordinata. Ciò che la attrae e la guida, infatti, è una bellezza universale, alla quale nessuno è in grado di rinunciare. Per alcuni aspetti, l’arte è molto vicina al mito: “The recital of a myth – scrive Polanyi – is an experience that is detached from the day-to day concerns of the reciting person in the same way as the frame aspect of a work of art detaches us from the concerns of the day” (Polanyi, Prosch 1975, p. 124). Il mito, come l’opera d’arte, riesce a distaccarci dalle nostre vicende quotidiane, grazie alla fusione del particolare con l’universale, realizzata sotto la spinta dell’immaginazione. Il distacco, però, avviene in modalità differenti: il mito, infatti, parla di eventi ricordati e si fonda sulla distinzione tra il sacro
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e il profano, l’arte, invece, consiste sempre nella rappresentazione di qualcosa: “First – sottolinea Polanyi – the myth speaks of event recollected instead of events represented – because the events of creation are believed to be true; second, the rapture of myth’s being sacred is deemed to surpass the rapture of art” (Polanyi, Prosch 1975, p. 126). L’estasi che si raggiunge immedesimandosi in un racconto mitologico è più profonda dell’estasi data dall’arte, poiché nel primo caso il contrasto fra vita quotidiana e mito coincide con il contrasto fra una dimensione sacra e una profana. Il passaggio dall’arte al mito assume, così, i caratteri di un’evoluzione dal transnaturale al soprannaturale: “Religious conceptions like the myth of creation are […] different in significant ways from the transnatural achievements of poetry and art” (Polanyi, Prosch 1975, p. 126). La sacralità del mito che racconta la creazione ci permette di volgere il nostro sguardo dall’arte alla dimensione divina: “The myth of creation makes us aware of a deeper reality that we inevitably lose sight of in our […] pursuits” (Polanyi, Prosch 1975, p. 146). I miti arcaici sono pieni di assurdità e ci danno la possibilità di accedere a una verità che rimane intrinsecamente legata all’errore, ma che non può essere sperimentata in altro modo. Il racconto mitologico della creazione ci avvicina al sacro, ma soprattutto fa luce su una verità che è stata dimenticata dall’uomo moderno, dedito al sapere scientifico: “Man’s origin is a mistery” (Polanyi, Prosch 1975, p. 147). Il mistero della vita umana è qualcosa che non possiamo dimenticare, è una verità costante che il mito ci ricorda in ogni sua espressione. Qualsiasi tentativo di sciogliere questo mistero in una risposta predefinita non è che un tentativo di negare la finitezza e i limiti umani. Se la persona non attinge alla verità della sua condizione, ma si ostina a rifiutarla, non può che perdere se stessa dietro a falsi ideali. Come abbiamo già sottolineato, è questo il processo che ha portato l’uomo moderno al nichilismo e al vuoto spirituale. Secondo Polanyi, quindi, da una parte,
il pensiero arcaico fa un uso esagerato
dell’immaginazione, spingendosi a volte fino all’assurdo, dall’altra, però, la mente moderna sbaglia, perché riduce l’intelligenza umana ad una serie di risposte prevedibili, eliminando ogni mistero. Da questo punto di vista, gli uomini arcaici che s’immedesimano negli animali e riconoscono il lato misterioso dell’esistenza, sono molto più vicini alla verità, rispetto ai moderni, che pretendono di eliminare, dalla sfera del sapere razionale, tutti gli aspetti misteriosi che appartengono al soggetto conoscitivo, credendo così di cogliere la verità oggettiva delle cose: “The archaic mind
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recognizes indwelling as the proper means of understanding living things. Modern biology and psychology abhor this approach to life and mind” (Polanyi, Prosch 1975, p. 145). La mente moderna non riconosce la presenza di una struttura fiduciaria, al di sotto del sapere razionale e, nella pretesa di esplicitare ogni aspetto del mondo, perde il senso stesso della realtà. La forza del pensiero arcaico, quindi, sta nella sua capacità abbandonarsi al mistero, una capacità che la mente moderna deve riscoprire, al di là dei suoi poteri razionali. L’arte, ma soprattutto i miti della creazione, possono aiutarci in quest’impresa che appare, agli occhi di Polanyi, sempre più ardua con il passare del tempo. L’immedesimazione in certi racconti mitologici, infatti, dipende soprattutto dalla partecipazione ad una serie di rituali, che ci fanno rivivere i passaggi cruciali del mito; nella mentalità moderna, però, diventa sempre più difficile seguire dei rituali e ancor più immedesimarsi in essi, per cogliere ciò che sta al di là dei singoli gesti umani. Le cerimonie ufficiali vengono svuotate del loro significato autentico; il singolo individuo perde la sua dimensione comunitaria e in nome di una verità, che egli pretende di possedere, si trasforma nel paladino di una legge, che soltanto lui conosce. In questo modo, va in frantumi il terreno comune che permette lo sviluppo della comunicazione: ciascuno segue la sua verità, con l’intenzione d’imporla a chi la pensa diversamente; e alla fine, in un mondo dove ogni individuo, ogni gruppo sociale o paese, ha la sua verità, non si può che arrivare a un’unica conclusione: non esiste alcuna verità. Ma allora perché l’uomo vive? Che cosa spinge ogni persona a voler trovare la propria strada, la propria via per la felicità? Domande come queste non potrebbero sorgere se non ci fosse un orizzonte di verità comune, che ci attrae verso di sé, in una sorta di abbandono fiducioso. Secondo Polanyi, questa capacità di credere si sviluppa soprattutto partecipando a rituali o a cerimonie che coinvolgono un’intera comunità d’individui: in queste occasioni, infatti, la singola persona può percepire l’esistenza d’ideali comuni, senza, tuttavia perdere i suoi poteri critici. Come abbiamo già sottolineato, la forza del pensiero razionale non può prescindere dalla fede profonda in un’unica verità. La mentalità moderna, però, si è dimenticata della fede e ha sottoposto a un’analisi accurata i rituali, i miti, le dottrine, affinché il loro senso ultimo venisse dissolto in una serie di elementi sussidiari insignificanti. In questo modo, per l’uomo è diventato sempre più difficile credere in una religione, che vive di miti, cerimonie,
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rituali e dottrine; ma, cosa ancora più grave, l’uomo ha perso la speranza di ritrovare Dio, dietro all’apparato strutturale di una religione. Come l’arte e il mito, la religione, in quanto forma molto complessa di abbandono, si fonda sul lavoro dell’immaginazione. Polanyi dalla fusione di elementi incompatibili nell’arte, arriva così a considerare i caratteri di una fede religiosa, capace di tenere insieme ciò che la ragione, logicamente, tende a dividere. Come abbiamo già accennato, Polanyi fa riferimento al Cristianesimo, poiché esso offre a ciascun individuo la possibilità di confrontarsi con un Dio che è entrato nella dimensione umana, affinché l’uomo potesse attingere a una verità divina. La personificazione di Dio costituisce il tema centrale della cristianità: la figura di Gesù rappresenta l’esempio di uomo cui ciascun cristiano deve guardare. Nell’ottica polanyiana, Gesù è l’immagine ideale della persona, poiché in Lui s’incontrano una dimensione puramente umana e una sfera divina. “Is the person […] not floating vaguely above his own bodily substance, outside of which he actually cannot exist at all?” (Polanyi 1961, p. 245) – si chiede Polanyi nelle ultime righe di “Faith and Reason”. Al centro del processo conoscitivo troviamo, infatti, la persona come un punto d’incontro tra cielo e terra, come un’unità di mente e corpo sempre aperta all’esperienza del divino. Ricordiamo come, nell’ottica polanyiana, l’uomo, pur essendo un insieme di elementi corporei, non possa ridursi ad essi, poiché la sua esistenza rimane costantemente aperta a una dimensione ulteriore che non gli appartiene, ma dalla quale egli è profondamente attratto. Per questo Polanyi vede una corrispondenza fra il suo modo d’intendere la persona e la dottrina centrale della cristianità, fondata sulla fede in un Dio, che è anche uomo. Se Dio è entrato nella dimensione umana, ogni persona può ritrovare in sé una luce divina, capace di guidare l’esistenza terrena verso una liberazione radicale e autentica. La forza del Dio cristiano, infatti, risiede nella resurrezione, un evento che manda in frantumi il razionalismo, offrendo alla persona umana la possibilità di sperimentare una libertà celeste. La fede cristiana nella resurrezione si fonda sull’unione di elementi incompatibili, che, a loro volta, acquistano un senso solo se considerati all’interno di una struttura fiduciaria. Nel rito, un’azione mondana è sempre fusa con un tempo e uno spazio diversi da quelli reali, e soltanto credendo all’integrazione fra due dimensioni apparentemente inconciliabili, i gesti compiuti e la parole pronunciate durante le cerimonie, acquistano un senso unitario profondo: “It is the fusion of the incompatibles, – scrive Polanyi, in
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Meaning – accomplished by our immagination, that gives meaning to the whole and moves our religious feeling – if we are Christian” (Polanyi, Prosch 1975, p. 154). Nel Cristianesimo, quindi, Polanyi rintraccia, dietro allo scandalo di un Dio che si è fatto uomo, una serie di aspetti logicamente incompatibili, ai quali è possibile accedere solo attraverso la fede. All’apparenza, una delle più evidenti contraddizioni si trova nell’atto della preghiera: dall’esterno, infatti, può sembrare che una persona raccolta in preghiera non faccia niente, non compia alcuna azione utile; in realtà, dal punto di vista del credente, l’atto del pregare racchiude in sé tante modalità diverse in cui un essere umano può rapportarsi a Dio: “One is revering and honoring God, one is being thankful of him, and one is trusting him” (Polanyi, Prosch 1975, p. 156). Chi prega può fare tante cose rimanendo immobile e rivolgendo il suo sguardo verso il cielo. La preghiera è una delle più importanti forme di fede, poiché grazie ad essa l’uomo può riscoprire in sé una parte di Dio, riconciliando ciò che spesso la logica tende a dividere. Il primo autentico contatto con Dio avviene pregando; nei momenti di silenziosa contemplazione, il credente accresce la sua fede, imparando anche a uscire dalla sfera della cosiddetta religione naturale. In maniera del tutto spontanea e naturale, infatti, l’uomo tende a rivolgersi al divino, nei momenti di difficoltà, al fine di ottenere una grazia; il cristiano, invece, è chiamato a superare questo tipo di relazione con Dio, per arrivare a una forma di preghiera in cui l’uomo si mette totalmente nelle mani di Colui che può salvarlo, implorando che venga fatta la volontà del Creatore. È illogico che l’uomo preghi senza una richiesta precisa, o che ringrazi senza un motivo determinato, ma Polanyi ci ricorda come la religione cristiana sia fondata sulla fusione di aspetti incompatibili, che vengono accettati in una profonda dimensione di fede; quel Dio che viene adorato e pregato non può essere compreso soltanto attraverso un sapere scientifico-razionale, ma si può attingere a Lui, immedesimandosi nei rituali e nei miti, che costituiscono l’apparato strutturale della religione cristiana: “God is thus not a being whose existence can be established in some logical, scientific, or rational way before we engage in our worship of him. God is a commitment involved in our rites and myths” (Polanyi, Prosch 1975, p. 156). Dietro qualsiasi discorso su Dio, c’è sempre un’assunzione di fede, che guida, spesso in maniera inconsapevole, le nostre scelte e i nostri stessi procedimenti mentali.
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L’incoerenza più grande che, secondo Polanyi, si radica nel Cristianesimo, emerge considerando la posizione dell’uomo nel mondo: come esseri umani, infatti, noi speriamo di riuscire a realizzare il compito a cui siamo chiamati, anche se sappiamo bene che non potremmo mai portarlo a termine da soli. Questa tensione, spesso non viene accettata dalla mente umana, convinta di avere i mezzi giusti per portare a compimento, da sola, l’intera esistenza dell’individuo. Allora la tensione fra elementi incompatibili viene spesso risolta eliminando uno dei due aspetti contrastanti e negando una parte fondamentale della persona, la quale rischia, così, di allontanarsi da se stessa. Il credente, consapevole della propria condizione, invece, riconosce la tensione fra le proprie capacità e la grandezza del compito che gli è stato affidato; egli crede che Dio gli donerà la forza necessaria, per realizzare appieno la propria vocazione; vivere nella fede significa, allora, sperare di riuscire a compiere quello che siamo tenuti a fare, riconoscendo, come fonte principale della nostra forza, una sorgente di luce e d’amore, che ci supera, ma che è anche profondamente vicina a noi. Da questo punto vista, quindi, la storia di un Dio che si incarnato, è vissuto ed è morto come un uomo, fino a vincere la morte, promettendo all’umanità una salvezza eterna, non ci sembrerà semplicemente una storia poco plausibile, ma diventerà la rappresentazione di una verità più alta, a cui l’uomo può attingere soltanto credendo. Le contraddizioni e gli aspetti inspiegabili non verranno eliminati, ma il credente ne sarà consapevole soltanto in maniera sussidiaria e li considererà come indizi di una verità ulteriore, capace di conferire significato all’esistenza e all’intero universo. Ciò che si nasconde dietro alla storia è il senso ultimo delle cose: il mito parla di un mondo significante e la religione offre all’uomo degli indizi, finalizzati all’incontro con un Dio che sta oltre la narrazione scritta, il rito e le dottrine, ma che, soltanto attraverso questi strumenti propriamente umani, può donarsi a noi, interagire con la nostra vita e renderla carica di significato. La difficoltà più grande per l’uomo moderno, tuttavia, resta sempre quella del credere; accettare la fusione di ciò che è incompatibile, dal punto di vista logico, diventa quasi impossibile per una mente, schiava di una falsa oggettività e ossessionata dal dubbio:
It is beyond much doubt – scrive Polanyi – that the representational content of the religious myth is at least one of the serious stumbling blocks to the acceptance of religion in our day. So much is this so that a whole of school of theologians has become busily engaged in demythologizing our religion. But, if it is true that myths are an essential part of any religion,
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the success of such a movement can mean only the total demise of religion (Polanyi, Prosch 1975, p. 158).
L’esigenza di razionalizzare e di sciogliere il mistero di Dio porta inevitabilmente alla fine della religione, allontanando la teologia dal suo compito effettivo. Il sapere teologico, infatti, non deve dimostrare l’esistenza di Dio, ma dev’essere finalizzato a rivelare le implicazioni di una fede religiosa che già esiste; solo un cristiano può capire appieno la teologia relativa al proprio credo e cogliere i significati religiosi del testo sacro: “Mentre i tentativi teologici di provare l’esistenza di Dio sono assurdi al pari dei tentativi filosofici di dimostrare le premesse della matematica […] – sottolinea Polanyi in Personal Knowledge – la teologia sviluppata come un’assiomatizzazione della fede cristiana ha un compito analitico importante” (Polanyi 1958, p. 449). Questo compito consiste nel mostrare, in maniera più o meno dettagliata, le asserzioni di fede, a cui un credente è profondamente legato, senza esplicitare ciò che, in ambito religioso, deve necessariamente rimanere in una dimensione tacita. L’illustrazione teologica di Dio, e non la sua spiegazione razionale, appare carica di significati soltanto agli occhi di chi crede. La teologia, quindi, offre “un’impalcatura di spunti, […] adatti a provocare un’appassionata ricerca di Dio” (Polanyi 1958, p. 450), ma tale impalcatura è visibile solo all’interno della fede. L’accettazione della religione cristiana, allora, non dipende da fatti osservabili, ma da un atto di conversione, che non può essere inteso come il risultato immediato di un procedimento logico. Di conseguenza non è possibile provare o confutare il Cristianesimo, attraverso esperimenti o dati osservabili; un miracolo sostenuto da un’evidenza fattuale ci porterebbe a negare la sua stessa natura miracolosa:
È illogico tentare di fornire una prova del soprannaturale mediante controlli naturali, infatti questi possono soltanto determinare gli aspetti naturali di un evento e non possono mai rappresentarlo come soprannaturale. L’osservazione ci può fornire abbondanti spunti per la nostra fede in Dio; ma un’osservazione scientificamente convincente di Dio trasformerebbe l’adorazione religiosa in un’adorazione idolatra di un semplice oggetto (o persona) naturale (Polanyi 1958, p. 453).
Ovviamente le prove fattuali servono a stabilire se un evento sia accaduto o meno, quindi la critica biblica diventa uno strumento importante per consolidare o scuotere i
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temi principali del Cristianesimo; tuttavia, la fede non nasce da prove evidenti, ma si radica su un fondo tacito di verità, per cui la prova che un fatto non sia accaduto a volte lascia immutata quella verità religiosa, che traspare dal racconto dell’avvenimento9. “Il libro della Genesi e le sue grandi illustrazioni pittoriche, come gli affreschi di Michelangelo, – sottolinea Polanyi – restano una spiegazione molto più intelligente della natura e dell’origine dell’universo che non la rappresentazione del mondo come aggregato casuale di atomi” (Polanyi 1958, p. 453). Il racconto biblico, infatti, a differenza dell’immagine laplaceana dell’universo, lascia trasparire una verità profonda, conferendo un significato ultimo al mondo e all’esistenza umana: “L’assunto che il mondo abbia qualche significato, legato alla nostra vocazione di unici esseri moralmente responsabili, è un esempio importante dell’aspetto soprannaturale dell’esperienza, che le interpretazioni cristiane dell’universo esplorano” (Polanyi 1958, p. 453). La fede cristiana, accompagnata dal sapere teologico, quindi, ci permette di delineare l’immagine di un mondo, nel quale la nostra condizione di persone responsabili può essere compresa (cfr. Manno 1974, p. 54). Per chiarire ulteriormente il legame che lo stesso Polanyi istituisce tra la sua epistemologia e i caratteri dell’esperienza cristiana, mi sembra utile richiamare il confronto tra la visione polanyiana della religione e alcune tesi sostenute da P. Tillich10. Già in Personal Knowledge, Polanyi individua un nesso tra il ruolo della fede nell’ambito della sua epistemologia e il modo in cui Tillich descrive l’esperienza della fede in Teologia Sistematica (cfr. Gelwick 1995-1996, pp. 11-19). Per entrambi il dubbio è parte essenziale di una fede autentica, costantemente aperta al mistero di Dio e 9
Riguardo al tema del rapporto scienza-teologia, sarebbe interessante considerare anche il punto di vista di filosofi come W. Pannenberg o J. Polkinghorne, che individuano un’essenziale analogia tra scienza e teologia. Mi soffermerei, in particolare, sulla riflessione di Pannenberg in Epistemologia e teologia, riflessione che nasce dalla domanda sulla scientificità della stessa teologia. Da un parte, infatti, l’autore nega la riduzione della scienza teologica a scienza positiva del Cristianesimo come fatto storico, dall’altra, tuttavia, individua negli studi teologici un intento ermeneutico d’interpretazione della parola di Dio. La teologia “deve interrogare la tesi della fede come ipotesi circa la sua conferma” (Pannenberg 1975, p. 281), ovvero deve portare nella realtà quotidiana la parola di Dio, renderla presente, affinché la persona possa sperimentare, sempre all’interno di un preciso contesto socio-culturale, le verità stesse della fede. Pannenberg sottolinea anche il fatto che la teologia “come scienza di Dio non ha un campo di oggetti delimitato rispetto ad altri campi […]. Il problema di Dio, infatti, come realtà che determina ogni cosa, riguarda tutto ciò che è reale” (Pannenberg 1975, p. 281). Il tema principale che la teologia si trova ad affrontare, quindi, è il modo in cui la fede cristiana e la parola di Dio vengono vissute nella realtà attuale del Cristianesimo; in questo senso il teologo deve interrogare la tesi della fede, non perdendo mai di vista l’esperienza stessa Dio, un’esperienza totalizzante, nella vita del cristiano. 10 Si tratta di un confronto diretto fra Polanyi e Tillich avvenuto in occasione di un seminario di studio tenuto a Berkeley, in California, nel febbraio del 1963 e i cui risultati sono riportati nel saggio dal titolo “Science and religion: separate dimensions or common ground?” (Polanyi 1963).
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pronta a mettersi sempre in gioco. Polanyi condivide con Tillich l’idea che i rituali, la preghiera e la stessa chiesa debbano essere degli “spunti da cui il fedele parte per andare verso” (Polanyi 1958, p. 448). La fede cristiana rimane uno sforzo che non giunge mai a compimento: il fedele è chiamato a “lottare per l’impossibile, nella speranza di ottenerlo per intercessione della grazia divina” (Polanyi 1963, p. 40). Questa affermazione mostra chiaramente il legame fra la descrizione polanyiana dell’esperienza religiosa e il Cristianesimo riformato, nel quale si colloca il pensiero teologico di Tillich. Si tratta di una descrizione dinamica dell’esperienza cristiana, lontana da ogni forma di gerarchia e costantemente orientata verso il mistero della grazia. Come abbiamo già sottolineato, infatti, ciò che, dal punto di vista polanyiano, caratterizza l’esperienza religiosa è la capacità del credente di trattenersi all’interno del rituale, senza poter acquietare in esso la propria ricerca di Dio, ma coltivando la speranza di “una visitazione misericordiosa dall’alto” (Polanyi 1958, p. 338). Il rituale è poi strettamente connesso al mito, che acquista un senso profondo solo nel momento in cui accettiamo i suoi contenuti, assimilandoli al nostro essere personale. In pieno accordo con Tillich, quindi, Polanyi recupera la dimensione simbolica e mitica dell’esperienza cristiana (cfr. Vinti 2011, p. 11), mostrando come i contenuti dei miti religiosi possano sembrarci assurdi, se valutati da un punto di vista esterno, ma se letti nell’ottica della fede, acquistano un significato, capace di fare luce sul senso ultimo della vita umana. Sia per Tillich, che per Polanyi occorre rivalutare la dimensione fiduciaria del pensiero, tuttavia, lo stesso Polanyi sottolinea come Tillich rimanga ancora legato ai vecchi dualismi, non riuscendo a scorgere il nesso profondo tra scienza e religione. La scienza rimarrebbe così orientata verso una conoscenza di tipo oggettivo, mentre la dimensione religiosa coinciderebbe con la dimensione dell’impegno personale e incondizionato. Dal punto di vista polanyiano, Tillich sembra condividere quella posizione epistemologica che la filosofia post-critica mira a superare, negando l’assoluta oggettività della conoscenza scientifica e mostrando come la dimensione simbolica della fede e la sfera della ragione, pur essendo distinte, possano intrecciarsi nella complessità dell’atto conoscitivo:
Riconosco – scrive Polanyi – la differenza tra osservare un fatto e parlare di un simbolo e concordo che di conseguenza il significato di affermazioni costituite similmente può trovarsi in dimensioni che si sovrappongono vicendevolmente. Tuttavia credo che la nostra conoscenza
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della natura abbia pur sempre un rapporto con le nostre credenze religiose: che, di fatto, alcuni aspetti della natura ci offrano una base comune con la religione (Polanyi 1963, p. 34).
Se, dunque, in Polanyi la descrizione del rapporto fra il trattenersi all’interno degli schematismi condivisi e l’esigenza umana di eromperne fuori ci permette di scorgere il nesso fra scienza e religione, in Tillich il riconoscimento di una fede dinamica, costantemente in tensione verso il mistero di Dio, ha il solo scopo di definire i caratteri dell’esperienza religiosa. Per questo Polanyi, riferendosi a Tillich, scrive: “Egli ha lottato per la purificazione della fede dal fondamentalismo religioso; ed io aggiungerei a ciò un supplemento purificando la verità dal dogmatismo scientifico” (Polanyi 1963, p. 38). La polemica con Tillich ci permette, quindi, di scorgere, da una parte il legame fra il pensiero polanyiano e il Cristianesimo riformato, dall’altra fa emergere, ancora una volta, l’intento primario cha anima la filosofia polanyiana, ovvero l’intento di riscoprire, attraverso il nesso fra esperienze di verità differenti, la complessa realtà dell’essere personale.11 Ripercorrendo in breve le tappe che hanno portato Polanyi a considerare la religione cristiana, come punto d’arrivo della teoria del sapere personale, possiamo notare come progressivamente un primo interesse, nato nell’ambito epistemologico, si sia trasformato nel desiderio profondo di attingere alle verità ultime dell’esistenza umana. Il rapporto fra la dimensione tacita e quella esplicita del sapere, viene approfondito attraverso la distinzione fra aspetti sussidiari e focali del conoscere; così ogni forma di comprensione può essere descritta come un percorso che inizia da certi elementi, nei quali il soggetto conoscitivo s’immedesima, per arrivare a coglierne altri, posti sempre a una certa distanza dall’osservatore. A volte, Polanyi alterna il discorso sugli elementi sussidiari e focali del sapere con la descrizione di un fondo inarticolato di abilità che, pur essendo inaccessibili al pensiero razionale, guiderebbero la nostra conoscenza del mondo. Ma, come abbiamo già sottolineato, l’idea di una dimensione tacita, non formalizzabile, al di sotto del sapere articolato, crea alcuni problemi dal punto di vista epistemologico, poiché avvicina Polanyi alla visione kuhniana della scoperta scientifica. 11
Occorre aggiungere una precisazione rispetto al rapporto fra Polanyi e Tillich. Alcuni autori cha hanno affrontato la questione, ritengono infondata la polemica polanyiana sul Tillich dualista, poiché considerano il teologo, sotto alcuni aspetti, vicino al pensiero polanyiano, più di quanto lo stesso Polanyi sostenga. Da un’attenta lettura delle opere di Tillich sembrerebbe, infatti, emergere un’affinità fra scienza e religione (cfr. Gelwick 2008-2009).
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Infatti, descrivendo il passaggio da una teoria all’altra come un atto di conversione, Polanyi, al pari di Kuhn, può esser accusato di riprendere, inconsapevolmente, la tradizionale distinzione neopositivistica fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione, rifiutata, in modo esplicito, da entrambi. Da questo punto di vista, allora, Polanyi finirebbe per scindere gli aspetti psicologici della scoperta dagli aspetti oggettivi ed empiricamente verificabili, senza considerare la stretta relazione fra il momento teorico e quello pratico-operativo della ricerca scientifica; ma soprattutto, in questo modo, egli distruggerebbe i presupposti necessari allo sviluppo di una conoscenza personale, in cui il soggetto, sempre considerato all’interno di una struttura fiduciaria, entra, per mezzo delle sue abilità, all’interno dell’oggetto conosciuto. Ritengo, a questo punto, che il problema riguardi le diverse modalità in cui Polanyi descrive i meccanismi del sapere, all’interno di Personal Knowledge: in alcune parti, infatti, egli sembra negare la possibilità di accedere al fondo inarticolato del conoscere; in questo senso, si potrebbe affermare, in opposizione al suo pensiero, che un simile orizzonte tacito possa essere soltanto oggetto di una fede religiosa e non di un sapere scientifico. In altri passi, però, Polanyi non fa altro che ribadire il rapporto fra elementi sussidiari e focali del conoscere, sottolineando come ogni persona possa comprendere un oggetto soltanto “abitando” in esso; ma, cosa ancora più importante, in quest’ultimo caso, egli tiene sempre presente la possibilità di passare da una consapevolezza sussidiaria a una consapevolezza focale degli elementi che costituiscono l’oggetto. Un simile tentativo appare spesso arduo e complicato, soprattutto se ci spostiamo dal piano delle scienze naturali a quello delle scienze umane, ma non impossibile, almeno in linea di principio. Tutta la conoscenza, dal punto di vista polanyiano, è un percorso aperto daa, in cui la persona “abita” certi aspetti del reale, al fine di scoprirne degli altri; e questo, come abbiamo più volte sottolineato, vale per la scienza, per il diritto, per l’arte e in ultimo per la religione: non si può pensare ad un cammino conoscitivo che parta da zero. Esiste una dimensione fiduciaria in cui il soggetto deve necessariamente entrare, al fine di eromperne fuori; ma, se mettiamo a confronto l’ambito scientifico, con quello artistico-religioso, ci rendiamo conto che i gradi della fede sono diversi, poiché solo nel primo caso, il soggetto può confrontarsi con una realtà, in gran parte, tangibile. Anche lo scienziato, come l’artista ad esempio, si lascia guidare dalla passione euristica, credendo di stabilire un contatto autentico con il mondo naturale, ma il suo intento
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universale può trovare un riscontro nell’esperimento e nella scoperta scientifica; l’artista o il mistico invece non hanno questa possibilità e, soprattutto in ambito religioso, la fede diventa la dimensione principale, dalla quale dipende la maggior parte delle scelte umane. Se Polanyi non avesse tenuto conto di questa differenza, il suo discorso sarebbe arrivato all’assurdo; invece, dal suo punto di vista, diventa essenziale distinguere tra scienza e religione, senza tuttavia dimenticare quel filo sottile, che le tiene unite. A mio avviso, dunque, la continuità fra scienza e fede va accettata, in senso trascendentale, come presupposto di un sapere che riconosce i propri limiti, ma anche le proprie potenzialità, in rapporto ad una verità personale, che intreccia in maniera inscindibile fede e ragione; l’uomo, in quanto persona, riesce a ritrovare nei propri limiti, quella spinta verso l’eterno, nella quale si radicano la speranza e il senso ultimo dell’esistenza.
3. La filosofia polanyiana nell’ambito della religione cristiana
Quasi tutte le opere polanyiane si chiudono rimanendo aperte: l’esigenza vitale di guardare verso l’ignoto, verso Dio, sembra essere una costante. Nella ultime pagine della Conoscenza inespressa, ad esempio, Polanyi scrive: “Gli uomini hanno bisogno di un fine che faccia perno sull’eternità” (Polanyi 1966a, p. 108); anche Studio dell’uomo si chiude con un riferimento alla dimensione divina verso la quale la persona è portata a rivolgere il suo sguardo: “Se possiamo ancora distinguere due livelli – sottolinea Polanyi, dopo aver precisato la posizione ontologica dell’uomo – è verso l’alto che noi stiamo guardando e non verso il basso” (Polanyi 1959, p. 65). Anche Scienza fede e società, e Meaning, pur essendo scritte a distanza di molti anni, presentano una conclusione simile, dalla quale emerge l’esigenza umana di attingere a una realtà spirituale, vicina a Dio. Ma forse le parole con le quali Polanyi chiude la sua più grande opera, Personal Knowledge, lasciano trasparire con maggiore chiarezza quella speranza radicale che anima il pensiero polanyiano, giunto fino alla profondità della fede cristiana; qui Polanyi parla di un’umanità impegnata “nello sforzo verso la liberazione finale” (Polanyi 1958, p. 618), descrivendo l’essere umano, come una persona responsabile, capace di affrontare “i rischi del vivere e del credere” (Polanyi 1958, p. 616), gli stessi rischi che un cristiano si trova davanti quando adora Dio.
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Soprattutto per tali ragioni numerosi testi, appartenenti alla letteratura critica, si servono del pensiero polanyiano per affrontare questioni teologiche che, a volte, ci fanno perdere di vista l’autore stesso. Il rischio che si corre in questo caso è duplice: da una parte, si tende ad attribuire a Polanyi pensieri o affermazioni molto distanti da lui, dall’altra le teorie polanyiane sulla conoscenza e sulla stratificazione dell’universo vengono inserite, a volte in maniera forzata, all’interno di una particolare cornice teorica. Tuttavia, alcune interpretazioni del pensiero polanyiano, nell’ambito della teologia cristiana, sono affascinanti e degne di nota. Senza dubbio l’aspetto della filosofia polanyiana che più è stato approfondito, nei testi critici, riguarda proprio quel riferimento alla religione cristiana e all’immagine di Gesù Cristo a cui Polanyi non sembra voler rinunciare. L’interesse verso tali tematiche, tuttavia, ha posto in secondo piano il valore e l’originalità dell’epistemologia elaborata dall’autore; il più delle volte, quando si parla di Polanyi, si dimentica l’epistemologo e si ricorda soltanto il pensatore religioso. A mio avviso, invece, il punto di forza della filosofia polanyiana coincide proprio con l’immagine di un’epistemologia rinnovata, capace di guardare al di là di se stessa, un’epistemologia confinante con il mistero incarnato nella persona umana. Dopo aver preso in esame alcune interpretazioni del pensiero polanyiano, in un contesto prettamente teologico, proverò dunque a distaccarmi dall’ambito religioso, evitando di ridurre la visione polanyiana del conoscere e dell’essere ad una semplice filosofia di supporto alla fede cristiana; come vedremo più in là, la teoria del linguaggio e il tentativo epistemologico di scoprire in che modo la scienza poggia su una serie di presupposizioni che sono regole, ma anche credenze, forniranno degli strumenti utili a trattare il tema del rapporto fra culture o “mondi” differenti. In un primo momento, vorrei prendere in considerazione la lettura della filosofia polanyiana, da parte di R.T. Allen. In questo caso, infatti, è evidente il tentativo d’inserire, nella dottrina cristiana, le teorie polanyiane sulla conoscenza e sulla stratificazione dell’universo. Dal punto di vista dell’autore, ciò che caratterizza lo stile e il metodo di un filosofo tutt’altro che sistematico, come Polanyi, è la volontà di difendere quella sfera del sapere umano che non può essere tradotta in parola. La spiegazione della nostra doppia consapevolezza, tacita ed esplicita, costituisce il nucleo centrale di una filosofia costantemente aperta a un universo di credenze ultime, che non vengono mai definite o descritte come strutture a priori, ma costituiscono,
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implicitamente, quello che potremmo chiamare il carattere primario dell’essere umano, inteso come soggetto della metafisica. La filosofia polanyiana è posta in relazione con la possibilità di elaborare una nuova metafisica, definita da Allen come metafisica empirica: la teoria della tacita integrazione, nel conoscere e nell’essere, è considerata una scoperta empirica di qualcosa che normalmente viene trascurato o posto in secondo piano. Polanyi dunque non deduce la struttura dell’essere dal conoscere, ma arriva a definire la conoscenza con il termine “indwelling”, guardando al modo in cui l’essere umano si rapporta al proprio corpo o agli strumenti di cui comunemente fa uso: “The ontology and incipient cosmology of tacit integration – scrive Allen – is an empirical metaphysics formulated by attention to the actual structures of the comprehensive entities which we know and are” (Allen 1992, p. 28). In particolar modo, l’idea che la responsabilità personale, intesa come il livello più alto dell’essere, emerga dagli strati ontologici inferiori, senza tuttavia risolversi in essi, permette all’autore di porre in relazione la filosofia polanyiana con il teismo cristiano: negando l’immagine di un universo chiuso e in linea di principio descrivibile in ogni suo aspetto, dal punto di vista dell’autore, la teoria polanyiana della tacita integrazione assumerebbe i caratteri di “un’impresa metafisica”, la stessa impresa che anima la vita del cristiano. Il legame tra il sapere tacito e il sapere esplicito, in ambito gnoseologico, corrisponde a una precisa teoria cosmologica, intesa, dal punto di vista di Allen, come il nucleo centrale di una teologia naturale che non pretende di dimostrare l’esistenza di Dio, ma soltanto di risvegliare l’intuizione di un essere necessario. L’ontologia delle entità comprensive e l’idea di un cosmo suddiviso in livelli vengono rimesse in gioco nell’ambito di una teologia naturale che, in linea con il pensiero polanyiano, non si preoccupa di dimostrare le verità del Cristianesimo, ma ha il ruolo di rivelare le implicazioni della fede religiosa, purificandola e costringendo l’essere umano all’incessante ricerca della propria ragion d’essere. Se la religione, al pari di ogni altra esperienza conoscitiva, viene definita come un atto d’immedesimazione (indwelling), come uno stare dentro gli schematismi condivisi, al fine di poterne uscire, allora la frase “Dio esiste” non è un’affermazione ma un atto di fede. Le preghiere e i rituali religiosi non sono altro che indizi sussidiari attraverso i quali il credente è spinto a ricercare Dio; l’esperienza della fede religiosa, dunque, non rimane chiusa in se stessa ma ha bisogno
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di entrare nella storia, per riscoprire la propria autenticità: “The faith is not, after all, a close circle but needs to commend itself historically, morally, metaphysically, scientifically and aesthetically” (Allen 1992, p. 41). Allen, quindi, riprende tutto il discorso polanyiano sulla religione e sul ruolo della teologia, spostando l’attenzione sulle possibili conseguenze di una teoria della conoscenza che pone al centro del sapere stesso la fede in una realtà che, in qualche modo, sembra richiedere l’esistenza di un essere necessario. La conoscenza del mondo naturale ci conduce verso lo strato ultimo del reale, uno strato che potrebbe coincidere con Dio. Partendo da tale presupposto, Allen dichiara di voler applicare la filosofia polanyiana alla fede cristiana, al fine di chiarire i concetti di trascendenza o immanenza di Dio. Inevitabilmente la teoria del sapere tacito porta la mente umana ad interrogarsi sulla possibilità di dare una forma alla trascendenza: è questa l’operazione che compie Allen, in maniera del tutto legittima, nella parte centrale del testo preso in esame. Cosa significa parlare dell’ineffabile? Se dal punto di vista polanyiano, denotare è un’arte e la frase è un esercizio di abilità tacite, il linguaggio teologico non può differire da altri linguaggi: “The language used about God is a metaphorical extention of language for finite, and usually human, beings” (Allen 1992, p. 92). È l’analogia, dunque, la modalità attraverso la quale l’essere umano può comprendere tacitamente ciò che è sconosciuto e lontano dalla propria realtà; tale possibilità, d’altronde, non si verificherebbe, se tutto il linguaggio si risolvesse in una dimensione esplicita. La struttura della tacita integrazione viene così applicata alla conoscenza di Dio: come la teoria della conoscenza personale presuppone la presenza di un universo gerarchico, così anche la teologia richiede un mondo suddiviso in livelli e costantemente aperto alla libera volontà di Dio. Dal punto di vista dell’autore, “every theology needs a Polanyian ontology and epistemology” (Allen 1992, p. 100); ma se tutto ciò che fa parte del mondo, inteso come universo naturale, culturale e storico, costituisce un’entità comprensiva, formata da diversi livelli ontologici che la mente umana, vivendo l’esperienza del conoscere, tiene insieme per mezzo dei suoi poteri taciti, il problema, inevitabilmente, sorge se consideriamo la relazione tra Dio e il mondo. A prima vista l’ontologia polanyiana potrebbe essere accostata ad una visione panteistica della realtà; l’universo naturale, in tal caso, diventerebbe un indizio di Dio, inteso come Anima del mondo:
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The universe, or particular features of it or events within it, is read as a clue pointing to God beyond and behind it. Yet the same structure could be applied within a Pantheist metaphysics, in which God is held to be wholly immanent within the world, pervasive through it, yet not simply identical with it. As I shall soon argue, the immediate application of Polanyi’s ontology to God does suggest such an idea of God as World-Soul whose body is the universe (Allen 1992, p. 101).
Il problema è capire se e in che modo Dio, nell’ottica polanyiana, possa essere considerato un’entità comprensiva, al pari degli altri oggetti finiti che popolano l’universo. Allen, a tale proposito, individua tre possibili soluzioni: l’ontologia di un universo stratificato, inteso come entità comprensiva, ci può spingere a considerare Dio identico al mondo o coincidente con il livello più alto dell’essere. In entrambi i casi, Dio sarebbe immanente rispetto all’universo e si rapporterebbe alle entità comprensive che lo costituiscono come l’uomo si rapporta al proprio corpo. Ciò, tuttavia, comporterebbe un problema tutt’altro che irrilevante: il Dio immanente, infatti, non sarebbe cosciente dell’universo ma nell’universo, finendo così per diventare inferiore all’uomo, dal punto di vista cognitivo. Un’ulteriore alternativa è quella di riconoscere l’indipendenza di Dio dalla realtà naturale, pur ammettendo una sorta di “legame indissolubile” tra Dio e il mondo. Il punto è chiarire le modalità in cui un simile legame possa porsi in essere; in tal caso, infatti, il Divino sarebbe parzialmente trascendente rispetto al mondo: “He, like us – scrive Allen – would be a comprehensive entity, though without any bodily level below his mental one. In these ways, such a God would be only partially transcendent” (Allen 1992, p. 128). Tuttavia, la conoscenza umana, utilizzata come modello del sapere di Dio, necessiterebbe di un ultimo livello oscuro, il quale, in tal caso, rimarrebbe celato anche a Dio; dunque Dio, per un verso, sarebbe trascendente rispetto al mondo, perché privo di organi corporei, per un altro verso, in quanto entità comprensiva più alta, assumerebbe i caratteri di un Essere immanente all’universo e finito, sia nel modo di conoscere gli altri esseri, sia come entità comprensiva di livelli gerarchicamente strutturati. Attraverso un’operazione che viene definita “riduzione eidetica della tacita integrazione”, Allen dimostra, in conclusione, che non è possibile determinare la trascendenza o l’immanenza di Dio, rispetto al mondo, servendosi soltanto della
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filosofia polanyiana: in alcuni tratti, infatti, Polanyi sembra eliminare la possibilità di un Dio trascendente e sembra richiedere un Dio immanente alla natura, un Dio che è facile identificare con il livello più alto dell’essere. Seguendo la logica della tacita integrazione, anche Dio dovrebbe essere pensato come la somma di diversi livelli ma ciò, come abbiamo già osservato, finirebbe per limitare la libertà stessa di Dio. Di conseguenza diviene necessario porre Dio al di là delle strutture che caratterizzano l’integrazione tacita; Dio crea gli elementi sussidiari, li integra in entità comprensive e fa sì che gli uomini le conoscano, ma Egli trascende una simile struttura: “He does not come to indwell comprehensive entities that exist apart from his creative activity. He therefore knows them focally, or, rather, as argued above, in a way that transcends all modes of attending and attending itself” (Allen 1992, p. 139). È come se Dio, in quanto Essere necessario e Creatore del mondo, conoscesse le entità finite attraverso un tipo di conoscenza sussidiaria e focale allo stesso tempo. Non è possibile, dunque, scindere in Dio livelli ontologici differenti, come facciamo per qualsiasi altra realtà naturale, ma, in quanto esseri umani aperti al mistero, possiamo rivolgere il nostro sguardo verso il Suo essere trascendente. Anche la nozione polanyiana di indwelling viene riletta da Allen come una nozione prettamente cristiana: una filosofia che fa del concetto d’immedesimazione il proprio nucleo centrale non può che essere d’aiuto alla teologia cristiana, fondata sul mistero della Trinità e sulla dottrina dell’Incarnazione. La teoria dell’integrazione tacita, infatti, c’insegna che qualcosa, in quanto elemento sussidiario, può essere anche qualcos’altro: come l’uomo è nella storia ma è aperto alla volontà divina, così il Dio trascendente parla attraverso la storia e si fa carne, per la salvezza umana. La fusione di elementi incompatibili è ciò che caratterizza la gnoseologia e l’ontologia polanyiane: in campo religioso, l’esempio più chiaro è quello dei sacramenti, nei quali le azioni compiute non sono soltanto azioni umane, ma acquistano il loro autentico significato in relazione a quel Dio che opera in esse: “A sacrament – sottolinea Allen in proposito – is obviously two things at once: a human utterance and gesture along with a material element, and a communication of God’s grace, and, in the Eucharist, of God himself” (Allen 1992, p. 171). La presenza di aspetti incompatibili nella stessa realtà, ci riporta inevitabilmente alla figura di Cristo, della quale tuttavia Polanyi non parla mai in maniera diretta e
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approfondita; è come se tale figura rimanesse sullo sfondo della filosofia polanyiana, come esempio emblematico della persona umana, intesa come punto d’incontro tra cielo e terra: “The achievement of mental and moral acts and effects through physical details on lower levels is the essence of our existence as embodied intelligences” (Allen 1992, p. 1992). A mio avviso, dunque, è vero che nella filosofia polanyiana la figura di Cristo, in quanto Dio e uomo, rappresenta l’immagine verso la quale ogni persona deve tendere, ciò, tuttavia, non ci permette di ridurre il pensiero di Polanyi ad una sorta di strumento a servizio della dottrina cristiana. Nella conclusione del testo preso in esame, invece, sembra proprio questo l’intento di Allen, che dichiara: “Christian belief can approrpiately use Polanyi’s philosophy for its self-articulation and self-understanding” (Allen 1992, p. 184). Senza dubbio, la teoria della conoscenza personale ci può indicare una strada per accedere a questioni teologiche molto complesse, mostrandoci come ragione e fede, scienza e religione possano convivere nell’infinito universo della persona umana; ciò, tuttavia, non deve farci dimenticare che il rapporto tra la filosofia polanyiana e il Cristianesimo è soltanto uno degli aspetti che possono emergere da un’attenta ricostruzione delle teorie polanyiane sul conoscere e sull’essere. Il costante tentativo di legare insieme ambiti tanto diversi tra loro rappresenta, infatti, una risorsa molto importante per cominciare a pensare al di là dei dualismi e delle scissioni. J. Crewdson, nel testo Christian Doctrine in the Light of Polanyi’s Theory of Personal Knowledge, si pone proprio, come primo obiettivo, quello di mostrare come l’elemento che unifica la realtà non coincida né con la materia, né con lo spirito, ma sia il risultato di elementi incompatibili capaci di stare insieme soltanto all’interno di un universo personale. Dal punto di vista dell’autore, la filosofia personalista polanyiana si fonda sul riconoscimento di una serie di polarità che segnano la complessità della natura umana. La prima è quella tra l’individualità e la socialità:
Neither the social nor the individual pole – scrive Crewdoson – can be absorbed into the other without damage to the person, who is both a unique centre of freedom and creativity and part of social group. Individuality and sociality, like all polar opposite, complement each other and both have to be fully affirmed. (Crewdson 1994, p. 85).
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L’individuo stesso, dal punto di vista polanyiano, è parte di un tutto inscindibile che non può essere ridotto alla somma dei suoi elementi. Un’altra coppia di opposti in costante tensione è quella mente-corpo; in questo caso, la mente è ciò che dà significato unitario al corpo, facendo della persona il punto d’incontro di opposti apparentemente inconciliabili. La terza polarità vissuta dalla persona si gioca nel rapporto tra esperienza e tradizione, un rapporto che si sviluppa a sua volta all’interno di un’ulteriore polarità, quella tra soggetto e oggetto. La verità stessa assume un carattere bipolare, poiché, nel tentativo di riconoscerla, la persona entra costantemente in dialogo con l’universale. Gli opposti, dunque, non sono visti come elementi contraddittori da porre sullo stesso piano logico, ma come aspetti di una stessa realtà legati da una tensione relazionale: “Polar opposites never clash, because the part pole is always within the pole that represents the whole as well as being in polar tension with it (Crewdson 1994, p. 229). L’autore, quindi, rilegge giustamente la proposta polanyiana di una verità personale, e non soggettiva, come un tentativo di superare le scissioni, invitandoci non soltanto a pensare, ma anche a vivere, la realtà da un punto di vista unitario, senza tuttavia, dimenticare le differenze. Tali osservazioni finiscono per avere, in un secondo momento, delle conseguenze in ambito teologico. Anche nel Cristianesimo la riconciliazione degli opposti non è qualcosa di puramente teoretico, ma coincide con un atto d’amore, che si fa visibile nella figura di Gesù Cristo. Dio si fa persona e il termine stesso persona acquista un significato religioso, poiché trascende la separazione tra finito e infinito. La persona diviene, quindi, la chiave per pensare il mondo; questo c’insegna la filosofia polanyiana che può essere facilmente tradotta, dal punto di vista di Crewdson, in una metafisica personalistica, capace di fare chiarezza sulle questioni fondanti la religione cristiana:
Nature was the necessary precursor of the emergence of human person, who, the Bible teaches, are destined to become like God in everything except his uncreated Being. But however far advance in our journey into God and however fully we share in his life, we will always be created beings. As God made space for creation and gave himself to be its life, so persons are called to take part in his creative and redemptive work by making space for, and being for, the other, to the glory of God (Crewdson 1994, p. 357).
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L’intero mondo naturale rimane costantemente aperto ad un significato meta-fisico: il soprannaturale è ciò che dà senso e unità al naturale, pur rimanendo avvolto nel mistero; ogni livello successivo, nella visione polanyiana dell’universo, infatti, emerge in maniera discontinua, assumendo i caratteri del miracolo. Il creato, dunque, va pensato in una relazione personale con il creatore; da una parte Dio crea la natura, dall’altra la natura, attraverso l’essere umano, vive in costante tensione verso la perfezione divina. A tale proposito, è molto interessante la riflessione dell’autore sul concetto di redenzione; la struttura stessa della teoria della conoscenza polanyiana preannuncerebbe una sorta di redenzione finale: “Redemption – sottolinea Crewdson – is a process by which things that are fragmented come to wholeness. On this view, knowing, understood in the sense of grasping true coherences, or integrating clues to meaningful wholes, has a redemptive quality” (Crewdson 1994, p. 320). La vita stessa è un cammino evolutivo che avviene attraverso un processo d’integrazione; la storia dell’evoluzione può essere descritta pensando a una serie di elementi isolati capaci di formare sempre nuove unità comprensive. Da questo punto di vista, diventa impossibile distinguere tra creazione e redenzione: ogni realtà creata costituisce una piccola parte dell’universo e si sviluppa nel rapporto con la totalità del creato; nella persona questo bisogno della totalità, emerge nella necessità di ciascun individuo d’essere parte di una comunità. Soltanto Dio, in quanto essere eterno e non creato, non si relaziona a nessun’altra realtà maggiormente inclusiva, ma contiene in sé la totalità. La redenzione, dunque, coincide con quella sorta di processo attraverso il quale la parte viene messa in relazione con il tutto; prima della redenzione ultima, tuttavia, Crewdson parla di altre forme di redenzione, come quella che emerge nel rapporto io-tu: “Between the I-Thou poles flows a uniting field force, a spiritual energy, whose strength depends on the depth of mutual participation and understanding” (Crewdson 1994, p. 321). Nessun essere umano, infatti, è pura individualità: il bambino è all’inizio parte della madre, poi parte della famiglia e infine parte dell’intera società. L’io è originariamente un essere relazionale, per questo l’esperienza della redenzione è da sempre inscritta nella sua natura. In tal senso, potremmo dire, che già nella relazione autentica con l’altro, l’individuo ha la possibilità di assaporare quel senso di liberazione finale, che soltanto Dio gli potrà donare, alla fine dei suoi giorni.
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La teoria della conoscenza personale polanyiana, quindi, nel testo di Crewdson, viene riletta come una metafisica personalistica, secondo la quale Dio e uomo sono realtà complementari, ma non esistenti allo stesso livello ontologico; la loro è una relazione personale attraverso la quale, in linea con la dottrina cristiana dell’incarnazione, elementi incompatibili vengono tenuti insieme. Ciò che, tuttavia, risulta davvero difficile per l’uomo è imparare a pensare l’intera struttura del cosmo come personale, al fine di colmare quel solco che divide l’essere umano da tutto ciò che è altro da sé:
The problem – scrive Crewdson nelle ultime pagine del suo lavoro – is to persuade ourselves that the structures of cosmos are personal – neither reducible to physics and chemistry not to be regarded as a mere idea in the mind of God. Only when our mind is at home in the paradigm of personal being, can we being to experience the irreducibly I-Thou relation in which we stand to God, and to see the world and God, the many and the One, as part of a single universe of discourse, whose interpretative key is the cosmic Christ, who provides the blueprint for a personal order of creation (Crewdson 1994, p. 391).
La conclusione cui arriva l’autore e, insieme la proposta di utilizzare la teoria polanyiana della relazione personale come paradigma per rileggere non soltanto la struttura dell’intero universo, ma anche il rapporto fra individui appartenenti ad un’unica grande comunità, verranno riprese in seguito, spostando, tuttavia, il discorso al di fuori di un contesto prettamente teologico. L’aspetto sul quale ora vorrei tornare e che, in qualche modo, ci permette d’introdurre le questioni che verranno trattate nell’ultimo capitolo riguarda, in modo particolare, il rapporto tra il pensiero logico-razionale e la fede, un rapporto che si gioca, anch’esso, nella complessità della persona umana e che si pone al centro della teoria polanyiana del linguaggio. Nell’ultima parte del testo intitolato Doers of words, l’autore J.V. Apczynsky, dopo aver toccato alcuni aspetti della teoria della conoscenza personale polanyiana, riprende lo storico problema del rapporto tra fede e ragione, elencando tre possibili soluzioni. La fede e la ragione possono essere considerate come complementari (1), oppure possiamo immaginare che l’una escluda l’altra (2), cadendo nel fideismo o nel razionalismo, o, in ultimo, possiamo considerarle come due facoltà separate che riguardano sfere differenti (3). L’autore si mostra vicino alla prima ipotesi, che viene rielaborata attraverso la
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nozione polanyiana di conoscenza tacita: “The continuity between faith and reason will not be dependent simply on some explicit conceptualization of faith and reason, nor will it result primarily from some overlapping of a commonly shared object of concern. Rather, their relationship can be seen to lie at the fundamental level of the structure of human intellectual inquiry” (Apczynsky 1977, pp. 158-159). La domanda sul rapporto fede-ragione, dunque, deve partire dal presupposto polanyiano che tutta la conoscenza, intesa come immedesimazione fiduciosa del soggetto nell’oggetto, possieda una struttura simile. In questo modo, la persona umana, impegnata nell’atto conoscitivo riscopre, ad ogni livello dell’attività intellettuale, l’esigenza di toccare la “dimensione ultima” del reale, e proprio facendo l’esperienza del mistero, l’essere umano si trasforma in ciò che l’autore definisce, riprendendo la Lettera di Giacomo (1,22), un “doer of the Word” (Apczynsky 1977, p. VII). Quest’espressione, a mio avviso, esprime bene l’immagine polanyiana della persona, che tenta costantemente di realizzare se stessa, attraverso l’impegno assiduo della ricerca: “Insofar as man discovers his meaning in the universe, he is both doer and recipient” (Apczynsky 1977, p. 187). In ogni autentica esperienza di verità, come di fronte a un nuovo risultato ottenuto, l’uomo si scopre, da un lato, artefice della propria storia, dall’altro tuttavia, sente di essere da sempre in attesa di ricevere un dono. In particolare nella religione cristiana, sottolinea l’autore riprendendo Polanyi, l’uomo può vivere appieno questo duplice aspetto del suo essere. Il credente, infatti, sente la necessità di rispondere a una serie di richieste cognitive, ricercando, nel proprio contesto religioso, le condizioni per riconoscere ciò che comunemente viene detto sacro. Come abbiamo già visto, in questo compito, la teologia svolge un ruolo fondamentale, poiché grazie ad essa la persona di fede può abbracciare la guida di una tradizione e aprirsi all’esperienza personale del sacro. Al pari di ogni altro linguaggio, anche quello teologico prende forma in una dimensione simbolica e di conseguenza rimane esposto a una serie d’interpretazioni, attraverso le quali l’uomo può vivere o realizzare la Parola di Dio. La parola, infatti, è atto; utilizzando la terminologia di Austin, potremmo facilmente ammettere che in ogni frase esiste una forza illocutoria, ovvero, ogni proposizione risulta composta da due parti: un’affermazione e un atto tacito, attraverso il quale il soggetto partecipa personalmente all’azione linguistica. Chi parla compie, nello stesso momento, una serie di azioni, che rendono unico e irripetibile quel preciso atto linguistico, il quale non rimane tuttavia
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isolato in un contesto esclusivamente soggettivo, ma si apre verso una realtà oggettiva, che dona significato alle parole stesse. Tenendo proprio presente il nesso tra la parola e la realtà, Polanyi arriva addirittura a paragonare le teorie scientifiche alle espressioni linguistiche con le quali denotiamo gli oggetti del mondo. Al fine, dunque, di non legare il pensiero polanyiano a questioni soltanto teologiche è necessario approfondire la teoria del linguaggio polanyiana, attraverso la quale potremo entrare in dialogo con la nozione di verità personale.
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2. Polanyi come “epistemologo della persona”
In quest’ultimo capitolo, mostrerò in che senso è opportuno prendere le distanze dalle interpretazioni più comuni della filosofia polanyiana che, come abbiamo già visto, semplicemente ne ripropongono alcune tesi, anche fondamentali, muovendo dall’interno del discorso teologico. Questo conduce solitamente a dimenticare che le riflessioni polanyiane sulla religione sono il risultato di una precisa teoria epistemologica, fondata sulla riscoperta della persona umana. Per questo è necessario affrontare il problema del rapporto scienza-fede, puntando l’attenzione sul primo termine della relazione, ovvero sulla scienza e sui meccanismi che rendono possibile il suo sviluppo. In particolare, vorrei partire dalla proposta polanyiana di paragonare le teorie scientifiche al linguaggio verbale: più volte Polanyi, in Personal Knowledge, sottolinea quest’affinità tra le teorie scientifiche e le parole, un’affinità che emerge osservando il rapporto con la realtà alla quale entrambe si riferiscono. Come le teorie anche il linguaggio spesso ha bisogno di essere modificato, a seconda dei cambiamenti che avvengono nella realtà in cui le parole stesse acquistano un preciso significato. Nella rilettura dell’epistemologia polanyiana, come vedremo, prendere le mosse da un’analisi della teoria linguistica consente di far emergere con più chiarezza i caratteri della persona umana. Tale analisi ci permetterà, in un secondo momento, di riprendere la questione del rapporto scienza-fede: in maniera più specifica, interrogandoci sulle modalità attraverso cui la filosofia possa realizzare un’analisi trascendentale delle possibilità della fede, giungeremo al problema del rapporto tra realtà culturali differenti.
1. La teoria del linguaggio
In Personal Knowledge, Polanyi cerca di chiarire la funzione del sapere pre-verbale mettendo a confronto l’intelligenza inarticolata, che accomuna uomini e animali, con il pensiero articolato, caratteristica propria ed esclusiva dell’essere umano. Polanyi
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riconosce che c’è un abisso tra le operazioni intelligenti dell’animale o del bambino molto piccolo, e le complicate formulazioni del pensiero scientifico; tuttavia la grande superiorità dell’uomo sull’animale dipende, paradossalmente, da un modo particolare, che ha l’essere umano, di utilizzare i poteri taciti:
La situazione può essere riassunta in tre punti. (1) La superiorità intellettiva dell’uomo è dovuta quasi interamente all’uso del linguaggio. Ma (2) il dono umano del linguaggio non può essere dovuto all’uso di esso, dunque deve essere dovuto a vantaggi prelinguistici. Tuttavia (3) se si esclude la base linguistica gli uomini risultano solo di poco migliori nel risolvere i problemi che poniamo agli animali. Da ciò segue che le facoltà inarticolate […] con le quali l’uomo supera gli animali e che, producendo il linguaggio, spiegano tutta la superiorità intellettiva dell’uomo, sono in se stesse quasi impercettibili (Polanyi 1958, p. 162).
Solo a partire da un fondo comune di abilità, è possibile lo sviluppo delle facoltà linguistiche, che distinguono l’uomo adulto dall’animale: “Parlare è escogitare segni, osservare se sono adatti e interpretare le loro relazioni; sebbene gli animali posseggano ciascuna di queste tre facoltà, non sono in grado di combinarle” (Polanyi 1958, p. 178) e di formulare un sistema linguistico. L’uomo, invece, cresciuto ed educato in un determinato ambiente culturale, impara progressivamente a usare dei simboli verbali, al fine di comunicare e di comprendere meglio l’ambiente in cui vive. Attraverso l’uso di una lingua noi affidiamo la nostra esistenza “e la guida dei […] pensieri ai nostri concetti” (Polanyi 1958, p. 209), perché sentiamo che le parole distinguono e classificano gli oggetti del mondo, formando così “una teoria dell’universo, che noi continuamente controlliamo quando parliamo” (Polanyi 1958, p. 176). Ogni lingua è costretta ad adattarsi a una realtà che muta e tale “reinterpretazione del linguaggio” (Polanyi 1958, p. 210) avviene grazie a quegli stessi poteri taciti della mente umana, che ci permettono, nell’età infantile, di apprendere il significato delle parole:
In tutte le applicazioni di un formalismo all’esperienza è coinvolta una indeterminatezza che dev’essere superata dall’osservatore sulla base di criteri non specificabili. […] Il processo con cui si applica il linguaggio alle cose è necessariamente non formalizzato; esso è inarticolato. Quindi denotare è un’arte, e qualunque cosa noi diciamo intorno alle cose riceve l’impronta dell’abilità che noi possediamo di praticare quell’arte (Polanyi 1958, p. 177).
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Apprendere una lingua o reinterpretare i significati delle parole “è un fatto euristico tacito e irreversibile” (Polanyi 1958, p. 212), poiché da esso dipende la trasformazione del nostro modo di pensare e vedere il mondo; modificare il nostro schematismo concettuale significa modificare il sistema di riferimento all’interno del quale interpretiamo le esperienze vissute, e questo vuol dire cambiare noi stessi. Polanyi definisce tale processo “una decisione che nasce nel nostro personale giudicare” (Polanyi 1958, p. 211); non si tratta, quindi, di un procedimento formale definibile per mezzo di regole precise, ma di un atto deliberato e responsabile, attraverso il quale noi decidiamo di “modificare la nostra esistenza intellettiva, in modo che diventi più soddisfacente per noi stessi” (Polanyi 1958, p. 211). La revisione o la reinterpretazione del sistema concettuale che accompagna la nostra esperienza del mondo avviene al fine di realizzare il primo grande compito dell’uomo, il compito di conoscere sempre più a fondo la realtà che lo circonda:
Il bisogno di soddisfare noi stessi non è puramente egocentrico. Il nostro desiderio di maggiore chiarezza e coerenza, sia nel nostro parlare che nell’esperienza di cui parliamo, cerca una soluzione su cui possiamo poi fare affidamento. Esso cerca di scoprire qualcosa e di stabilirlo solidamente. Noi cerchiamo qui un autoappagamento solo come mezzo di ciò che dev’essere universalmente soddisfacente. Si effettua la modificazione della propria identità intellettiva con la speranza di realizzare così un contatto più immediato con la realtà (Polanyi 1958, p. 211).
Un linguaggio non può essere definito semplicemente come un insieme di simboli convenzionali, ma il bisogno di comprendere l’esperienza, attraverso l’uso di parole e concetti, si lega all’esigenza primordiale dell’uomo di raggiungere il controllo intellettivo della realtà: “La nostra scelta linguistica è questione di verità o di errore, di correttezza o di scorrettezza, di vita o di morte” (Polanyi 1958, p. 221). L’impegno umano nei confronti della realtà esterna si sviluppa sempre nell’intreccio tra la dimensione tacita ed esplicita del sapere. Analizzando la relazione fra il pensiero e la parola, si possono individuare tre aree in cui il tacito e l’esplicito, o il personale e il formale, cooperano in modi diversi: l’ambito in cui domina la componente non articolata della conoscenza viene definito “dominio dell’ineffabile” (Polanyi 1958, p. 185); con questa espressione Polanyi non intende alludere ad un’esperienza mistica, ma
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vuole nuovamente sottolineare i limiti del pensiero articolato: “Niente di ciò che sappiamo può essere detto in modo preciso; ciò che diciamo ineffabile può essere semplicemente qualcosa che conosciamo e possiamo descrivere, anche se meno precisamente del solito o solo in maniera molto vaga” (Polanyi 1958, p. 186). Il soggetto umano, coinvolto nell’atto conoscitivo, deve prendere coscienza del fatto che “noi possiamo conoscere più di quello che possiamo esprimere” (Polanyi 1966a, p. 20); il linguaggio, le formule o le leggi matematiche non bastano a spiegare il modo in cui la singola persona s’impegna nel tentativo d’incontrare la verità nel mondo. Oltre all’area del dominio dell’ineffabile, Polanyi rintraccia un ambito in cui “il tacito è coestensivo col testo di cui porta il significato” (Polanyi 1958, p. 185): in questo caso il soggetto è in grado di distinguere ciò che sa da ciò che può esprimere e quindi riesce a mettere in relazione un testo, ascoltato o letto, con il senso che esso intende comunicare. Al di là di quest’ambito intermedio, in cui personale e formale cooperano, viene individuata un’ultima area nella quale il tacito e l’articolato “sono separati, perché colui che parla non sa, o conosce appena, di cosa sta parlando” (Polanyi 1958, p. 186). In questo caso, il soggetto vive una sorta di disagio mentale, dovuto all’incapacità di concordare il pensiero tacito con le espressioni formali; una situazione simile si verifica, ad esempio, quando i bambini imparano a parlare: “Essi sono impacciati e non aiutati dal loro nuovo corredo di articolazioni, di cui non hanno ancora padroneggiato pienamente le operazioni”1 (Polanyi 1958, p. 194). Sebbene si ottengano diversi vantaggi traducendo i pensieri in parole, il tentativo di esprimere la conoscenza tacita del reale, lascia sempre aperto un margine di errore, anche nell’adulto. Il rischio di sbagliare è dovuto al fatto che utilizziamo un particolare schema articolato come mezzo d’interpretazione della realtà e se questo schema viene assolutizzato, quindi considerato come l’unico capace di comprendere il mondo, il soggetto conoscitivo rischia di perdere il contatto autentico con la realtà circostante. È questo, d’altra parte, ciò che è accaduto all’uomo moderno, il quale ha identificato la scienza con una serie di operazioni formali, imprigionando la verità all’interno di una specifica struttura articolata e dimenticando l’aspetto tacito e fondativo del sapere. Le leggi scientifiche sono diventate, così, lo strumento illimitato
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Parlando del processo di acquisizione di una lingua nell’età infantile, Polanyi fa riferimento a Piaget 1928, pp. 92, 93, 213, 215. Piaget ha sottolineto, infatti, la difficoltà che hanno i bambini nel tradurre in espressioni verbali alcuni problemi pratici, già risolti da tempo: “Egli conclude che tutte le operazioni della logica devono essere riapprese daccapo sul piano verbale del pensiero” (Polanyi 1958, p. 194).
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dell’intelligenza umana, un’intelligenza illusa ed accecata dall’idea di poter controllare o esplicitare ogni aspetto del mondo. Come abbiamo già osservato, Polanyi, spinto proprio dall’esigenza d’interrompere la tradizione del pensiero critico moderno, propone la riscoperta di un fondo indeterminato, sul quale si radicano tutte le nostre espressioni articolate:
Parlare una lingua significa affidarsi alla duplice indeterminatezza dovuta al fatto che facciamo affidamento sul suo formalismo e sulla nostra continua riconsiderazione di questo formalismo nella sua influenza sull’esperienza. Infatti come noi restiamo incapaci di dire tutto quello che sappiamo, dato il carattere in ultima analisi tacito di tutta la nostra conoscenza, così non possiamo mai sapere che cosa è implicato da ciò che diciamo, dato il carattere tacito del significato (Polanyi 1958, p. 196).
Ma riscoprire il fondo indeterminato del sapere esplicito significa ammettere il coinvolgimento del soggetto in ogni tipo di conoscenza; non esiste, infatti, una prospettiva neutrale, dalla quale sia possibile cogliere gli oggetti:
La partecipazione […], che era stata fino ad ora tollerata come dissonanza – una deficienza da eliminare da una forma perfetta di conoscenza – è ora riconosciuta come vera guida delle nostre facoltà conoscitive. Ora riconosciamo che tali facoltà operano ampliamente senza portarci ad emettere alcuna affermazione esplicita, e anche quando sfociano in un’espressione, questa è usata solo come uno strumento per ampliare il campo dei poteri taciti che l’hanno originata (Polanyi 1959, pp. 22-23).
Il coefficiente tacito che si cela dietro ogni espressione linguistica è sostanzialmente un atto di fiducia: i termini descrittivi che non sono inclusi tra virgolette sono termini nei quali il parlante ripone la propria fiducia; invece una parola descrittiva posta tra virgolette viene utilizzata “in maniera scettica o obliqua” (Polanyi 1958, p. 406). Quest’ultimo uso dipende o dalla realtà del concetto evocato dalla parola stessa o dalla sua applicabilità al contesto in cui il termine linguistico viene utilizzato. Ma “giacché una parola resta la stessa tanto se è usata direttamente quanto se è usata obliquamente, la differenza fra il pronunciarla in maniera fiduciosa oppure in maniera scettica deve risiedere pienamente nel tacito coefficiente della sua articolazione” (Polanyi 1958, p.
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406). Ogni asserto di fatto può essere anche utilizzato in buona fede o come menzogna; apparentemente la proposizione rimane la stessa, ma le sue componenti tacite sono diverse:
Un asserto veritiero impegna colui che parla a credere in ciò che dice: nel fare questa asserzione, egli s’imbarca su un mare aperto di illimitate implicazioni. Un asserto non veritiero blocca la fiducia che qui è in gioco, lanciando una barca che fa acqua affinché altri vi salgano e affondino con essa (Polanyi 1958, p. 411).
Dire la verità significa impegnarsi nei confronti di ciò che viene detto. L’enunciato «p è vero» dichiara l’identificazione del soggetto parlante con l’enunciato fattuale p; tale processo d’identificazione, tuttavia, non è un atto osservabile ma rientra tra quelle azioni tacite che la persona compie nel momento in cui parla. Come abbiamo già osservato, quindi, pronunciare un enunciato significa porre l’accento sul carattere personale della nostra conoscenza, mentre nel dire che un enunciato è vero l’accento viene posto sull’intento universale dell’enunciato stesso. L’uno e l’altro aspetto sono tuttavia connessi; Polanyi, infatti, a proposito di quelle asserzioni che pretendono di essere “impersonali”, poiché appartenenti ad un ambito scientifico, scrive:
Niente di ciò che dirò deve pretendere di possedere quella specie di oggettività a cui secondo me nessun ragionamento deve mai aspirare, cioè all’oggettività che dovrebbe raggiungere perché procede in maniera estremamente rigorosa, al punto che questo procedere venga accettato senza alcun impulso emozionale da colui che lo espone e dagli altri che ne raccomandano l’accettazione (Polanyi 1958, p. 415).
Poi nulla vieta di continuare a cercare prove a favore delle asserzioni che vengono sostenute, senza tuttavia dimenticare che quelle asserzioni affermano una serie di credenze personali, strettamente connesse all’ambiente socio-linguistico in cui è inserito il soggetto parlante. Il linguaggio, infatti, non è una questione privata, ma rientra nella sfera pubblica: esso ci è donato al momento della nascita e si sviluppa attraverso la nostra esperienza del mondo. Il processo della comunicazione viene infatti descritto come una triade: “Una persona A può fare sì che la parola B significhi l’oggetto C.
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Oppure: la persona A può integrare la parola B in un rapporto con C” (Polanyi 1959, p. 220). Il termine, indicato con la lettera B, assume così un significato specifico che può essere comunicato a chi ascolta. Un’altra triade, quindi, sarà costituita dalle due figure in dialogo e dal linguaggio che crea, tra queste, una sorta di legame. Quando un messaggio raggiunge la persona cui è indirizzato, questa tenterà di dare senso alla parole ascoltate e all’esperienza personale di chi le pronuncia. Solitamente, per comprendere una comunicazione verbale, ci basiamo sulla nostra precedente comprensione di esperienze familiari; ma a volte possiamo trovarci di fronte a un linguaggio lontano dalla nostra realtà, un linguaggio che va conosciuto e integrato nella proprio apparato culturale. Le due operazioni del dare e del ricevere senso s’inseriscono, quindi, nella struttura dell’integrazione tacita: il meccanismo attraverso il quale si va alla ricerca del significato di un testo è simile a quello che scatta nella mente di chi, notando un’ombra insolita in giardino di notte, cerca di capire cosa sia. Simili sforzi sono aperti all’argomentazione, ma in sostanza rimangono dipendenti da un giudizio informale e personale. Come abbiamo già visto, tuttavia, ciò non permette al soggetto di vedere ciò che vuole, poiché il legame con la realtà gioca un ruolo centrale. A mio avviso, l’elemento da sottolineare, all’interno della teoria polanyiana del linguaggio è proprio la capacità che hanno le parole, appartenenti a un preciso sistema linguistico, di essere modificate nel loro significato; ciò, tuttavia, non avviene poiché esse sono dei meri segni convenzionali, ma dipende dal modo sempre rinnovato con il quale la persona si rapporta alla realtà. Il linguaggio è della persona e per la persona, in quanto tale è soggetto a cambiamento. Il cuore dell’atto verbale è sempre l’essere personale che vive immerso nel proprio universo linguistico e che fa della comunicazione un’attività coinvolgente non soltanto la parola, ma anche l’intero essere corporeo e spirituale di chi parla. Il dire è un fare personale, costantemente rivolto ad un polo impersonale. In questo senso potremmo affermare che nell’atto conoscitivo, ovvero nel tentativo di tradurre in parola il nostro sapere ancora inarticolato, il soggetto sperimenta una verità personale che non lo chiude nel proprio mondo di certezze illusorie, ma pone le condizioni per un incontro autentico con l’altro. Ritornando ora al tema del rapporto scienza-fede, potremmo chiederci su quali basi due realtà culturali e religiose differenti siano in grado di costruire un dialogo; o meglio, il
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pensiero logico-razionale è in grado d’indagare, attraverso i suoi strumenti, le possibilità della fede religiosa, al fine di arrivare ad un accordo comune? Oppure esiste un residuo ineliminabile tra diversi mondi culturali, linguistici e religiosi, un residuo che ostacola la comunicazione, ma che, al contempo, in senso trascendentale, la rende possibile? A mio avviso, la verità personale polanyiana può indicarci una strada per tentare di chiarire tale residuo ineliminabile, sulla base del quale si sviluppa la relazione con l’altro. A tale proposito, ritengo particolarmente interessante la ricostruzione della teoria linguistica polanyiana, realizzata da W.H. Poteat, nel testo Polanyian Meditations. La domanda dalla quale hanno inizio le riflessioni dell’autore riguarda il carattere innovativo della filosofia polanyiana: in quale misura è possibile collocare la teoria della conoscenza personale al di là del pensiero critico? Inevitabilmente, sottolinea l’autore, Polanyi ragiona nei termini del linguaggio e della cultura occidentali, anche il rapporto tra gnoseologia e ontologia non è lontano dalla tradizione, tuttavia il modo in cui Polanyi utilizza determinate espressioni ci permette di ragionare nei termini di una nuova logica:
Polanyi – sottolinea Poteat – has been using concepts with […] a familiar, standard use in the philosophical tradition, concepts such as “rule of procedure, “belief”, “assumption”, “presupposition”, “logic” (“logical”), “valuation”, “method”, “fact” (factuality), […] but that he has been using them in such a way as to give them a different, perhaps very different, range of logical efficacy (Poteat 1985, p. 27).
L’affermazione polanyiana circa le premesse della ricerca scientifica dimostra questa appartenenza ad un nuovo apparato logico; l’autore di Personal Knowledge, infatti, sottolinea più volte il carattere peculiare delle premesse scientifiche, le quali non vengono conosciute prima di stabilire i fatti, ma, al contrario, possono essere conosciute successivamente. Ciò dipende dall’immagine polanyiana della persona, sempre inserita in un preciso contesto linguistico: la grammatica, la sintassi, il modo in cui diamo significato a certe espressioni si radicano nel nostro corpo-mente prelinguistico. Tale intuizione è così ovvia, sottolinea Poteat, che richiede un grande sforzo per capirla appieno. Le vere rivoluzioni, infatti, partono sempre dall’ovvio, o meglio da un nuovo modo di vedere il familiare. Ciò, tuttavia, non implica il rifiuto della tradizione né degli
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strumenti che il pensiero tradizionale mette a servizio della ricerca: i termini usati da Polanyi sono usuali e facilmente comprensibili, ma il suo modo di utilizzarli rientra in quella che si può definire una logica dell’udire, piuttosto che una logica del vedere. L’argomentazione di Poteat si basa su un confronto piuttosto approfondito tra l’immagine visiva e quella uditiva. La logica della visione si lega maggiormente alla tradizione greca, mentre quella dell’ascolto alla tradizione ebraica. Sia i Greci che gli Ebrei, tuttavia, utilizzano come metafora primordiale della realtà un termine che può essere tradotto con “parola” (i greci fanno riferimento al logos, gli ebrei al dabhar). Ciò nonostante, le due tradizioni differiscono profondamente: l’atteggiamento dei Greci è caratterizzato dalla volontà di spiegare parole come Anima, Bene, Giustizia; le parole diventano così le parti di un discorso impersonale e immutabile. Nell’ottica ebraica, invece, la parola è sempre parlata e il soggetto parlante è Jahvè; il dire è un fare, connesso all’essere personale di chi parla:
That the logos could mean “speech”, “speaking”, “story” and could be associated with the very physical activity of breathing, – scrive l’autore – no less the Hebrew dabhar, is beyond doubting. What is absent in Greek thought is the picture of a paradigmatic speaker, whose speech makes a world appear where hitherto there was nothing, including his words themselves (Poteat 1985, p. 122).
Dal punto di vista ebraico la parola causa degli effetti, determina delle scelte; mentre per i Greci la parola descrive uno stato di cose, pone di fronte al lettore un concetto ben definito. Nel primo caso, quindi, prevalgono l’oralità, il discorso pronunciato e ascoltato, nel secondo prevalgono il testo e la parola scritta. Il confronto fra la tradizione ebraica e quella greca permette, dunque, all’autore di delineare i caratteri di una logica del vedere e di una logica dell’udire: in primo luogo, nel vedere c’è un distacco tra soggetto e oggetto, nell’ascoltare sia attua, invece, una sorta d’immedesimazione tra chi ascolta e le parole pronunciate dal soggetto parlante. L’entità ascoltata, quindi, è qualcosa in cui entriamo in maniera empatica, mentre l’entità visiva è semplicemente un oggetto fisico. La differenza da sottolineare, tuttavia, non è tra il toccare e il vedere, ma tra la parola ascoltata e la parola scritta o visibile. In secondo luogo, in ciò che è oggetto della visione i particolari sono insieme, in maniera
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necessaria, prima dell’atto visivo; nel campo uditivo, al contrario, la relazione tra i particolari che costituiscono l’oggetto avviene nel tempo e in modo contingente:
The visual particulars were simultaneously “before” my eyes in a sense in which it could not be said that the notes in a heard melody are “before” my ears – or to be quite precise, the particulars of the heard melody are not “before” my ears in the way in which those of the visual scene before me are “before” my eyes (Poteat 1985, p. 75).
L’indagine sulla temporalità diviene così la chiave di lettura dei due sistemi logici posti a confronto, quello della visione e quello dell’ascolto. Emergono così i concetti di contingenza e necessità, attraverso i quali l’autore svilupperà una teoria degli atti verbali. I due termini, contingente e necessario, vengono, in un primo momento, sottoposti ad un’ampia analisi etimologica: la parola “necessario” deriva dal latino necedere, che si può tradurre in italiano con le espressioni “non andare” o “non procedere”; se pensiamo, infatti, ai particolari di un oggetto visivo, notiamo la loro staticità o immobilità: come abbiamo già sottolineato, nella visione tutti i particolari sono insieme di fronte al soggetto, nello stesso istante. Per il termine contingente, la questione è più complessa; per questo credo sia utile riportarne alcuni diversi significati, che l’autore trae dall’Oxford English Dictionary: “1. In contact; tangential […]. 2. Liable to happen or not […]. 3. Happening or coming by chance; fortuitous […]. 4. Not determined by necessity; free […]. 5. Subject to accidents […]. 6. Metaphysics. True only under existing conditions […]; that exist in dependence on something else; nonessential” (Poteat 1985, p. 82). Ciò che, in certo senso, accomuna queste diverse accezioni del termine contingente sembra essere la nozione di dinamicità: il rapporto tra i particolari che costituiscono un oggetto uditivo, infatti, è sempre dinamico e realizzabile nel tempo. L’esempio utilizzato dall’autore, è quello delle note musicali: una nota può essere suonata o meno, può far parte di una determinata composizione o può esserne esclusa; tuttavia, il tipo di contingenza che caratterizza la relazione fra le note musicali, all’interno di un’aria ben precisa, non è una contingenza assoluta, ma relativa. Il nucleo del discorso si sposta, quindi, dal problema del rapporto tra contingente e necessario, all’analisi di ciò che intendiamo quando parliamo di una contingenza assoluta o di una contingenza relativa. Come già accennavo prima, il tentativo di Poteat
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consiste nel voler fare chiarezza circa alcune affermazioni polanyiane riguardanti le premesse del conoscere. La premessa, infatti, è una categoria logica che si riferisce ad un’affermazione logicamente anteriore rispetto alla teoria che s’intende sostenere; ma, dal punto di vista polanyiano, la nostra adesione a ciò che è logicamente anteriore si basa sull’accettazione di ciò che è derivato, poiché ciò che è anteriore è tacitamente contenuto nelle nostre espressioni derivate. In tal senso bisogna considerare credenze e giudizi personali come premesse della ricerca scientifica. Le credenze e i giudizi, infatti, vengono prima delle teorie scientifiche, ma le teorie non sono necessariamente dipendenti da esse. Esiste, quindi, una contraddizione che, dal punto di vista della logica tradizionale, non può essere risolta. Per tali ragioni, Poteat inserisce il pensiero polanyiano all’interno di una nuova logica, nella quale la distinzione tra necessario e contingente viene superata attraverso un’ulteriore distinzione tra ciò che è soggetto ad un’assoluta contingenza e ciò che, invece, è caratterizzato da una contingenza soltanto relativa. Attraverso un’analisi degli atti verbali, inoltre, le due rispettive accezioni dell’essere contingente si riveleranno in stretta connessione tra loro; come vedremo, infatti, se, da una parte, esiste un’assoluta contingenza di chi parla, dall’altra l’atto verbale è sempre soggetto a una certa necessità. L’atto verbale è contingente poiché chi parla esiste in quel preciso momento come parlante, altrimenti non esisterebbe; tuttavia esso è quell’atto attraverso il quale il parlante s’identifica come persona, situata in un preciso contesto socio-culturale. Su queste basi, allora, possiamo attribuire all’atto verbale un tipo di contingenza soggetta a una sorta di necessità. Inoltre, l’autore individua due diversi sensi dell’assoluta contingenza: esiste, infatti, una contingenza che è semplice casualità e un'altra contingenza, come quella che appartiene agli atti verbali, connessa ad una serie di ragioni. Il cuore dell’atto verbale rimane l’assoluta novità, ciò nonostante esistono numerosi fattori causali ai quali ricondurre l’atto verbale stesso:
I want to claim – scrive Poteat – that the heart of my speech-act, namely, my act of owing my words before you, is absolutely contingent, no less radically underivable from the physical, social, psychological causalities or from suasions of melodic speech or syntax […]. Yet I claim that this absolute contingency is not mere randomness. […] My speech-act as owing my words is not caused; but neither is it uncaused (Poteat 1985, p. 127).
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Quella che l’autore ha chiamato, in precedenza, contingenza relativa, si rivela, quindi, affine a quel tipo di contingenza che caratterizza gli atti verbali, considerati come la libera espressione dell’essere personale, ma, al contempo, riconducibili a una serie di fattori fisici, sociali e psicologici. La figura paradigmatica alla quale fare riferimento è, ancora una volta, quella di Jahvè: la fede nella parola di Dio, infatti, è assolutamente contingente, ma non priva di motivazioni. Il rapporto fra contingenza e necessità, nel contesto degli atti verbali, viene, dunque, riletto dall’autore attraverso la teoria polanyiana del duplice controllo, secondo la quale esiste una gerarchia di livelli ontologici, ma nessun livello inferiore può determinare, in maniera diretta, quello superiore. Seguendo la stessa logica, anche l’atto verbale si appoggia su precise regole sintattiche e grammaticali, assumendo un certo significato soltanto in un contesto socio-culturale predefinito; tuttavia le frasi che pronunciamo mantengono un carattere di assoluta novità, poiché la loro origine è nell’essere personale, inteso come unità di corpo-mente. A ragione, dunque, possiamo inserire l’immagine polanyiana della persona, intesa come un tutto inscindibile di elementi fisici e spirituali, all’interno di una logica dell’udire, piuttosto che in una logica della visione. Conoscere personalmente, infatti, non significa avere di fronte a sé, in maniera simultanea, tutti i particolari dell’oggetto, ma vuol dire entrare, poco a poco, in quella realtà misteriosa che ha catturato la nostra attenzione, permettendo al nostro stesso essere corporeo-mentale di plasmarsi a contatto con la verità. L’essere umano, dimorando nell’oggetto del conoscere, dimora anche nelle parole che veicolano il conoscere stesso; l’autorità e il senso delle parole pronunciate derivano proprio da questo dimorare della persona nel linguaggio: “In […] saying, I bring forth – for myself, for you – a mode of my own being in the world” (Poteat 1985, p. 269). La lingua e i gesti corporei hanno la stessa radice, che corrisponde al nostro essere personale; spesso il linguaggio verbale diventa linguaggio del corpo, basti pensare agli avverbi di luogo (lì, qua, laggiù,) o ai pronomi dimostrativi (questo, quello). Si tratta di parole che non vengono soltanto accompagnate dai gesti, ma il movimento corporeo finisce anche per caratterizzare il loro significato cognitivo. La persona riesce così a trovare un equilibrio tra espressione verbale e espressione corporea:
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I have a relation of detachment – scrive l’autore – to my gestural language, on the one hand, and to my words, on the other, and that, standing between them, I exercise a kind of lucid choice. Whereas, in fact, when “I find myself saying what I mean” spontaneously and artlessly, whether with word, with gestures, or more likely with both, thinking, saying and meaning are mutually implicated (Poteat 1985, p. 287).
Spesso, quindi, pensiero, parola e significato entrano in relazione reciproca, attraverso il nesso tra parole e movimenti corporei. La relazione tra parole e gesti si pone al centro di quella che è stata definita logica dell’ascolto, una logica dalla quale la tradizione occidentale sembra ancora molto distante; anche Polanyi, secondo l’autore, rimane vincolato alle categorie cognitive, tipiche del pensiero critico occidentale e, pur dichiarandosi deciso a superare la prospettiva critica, egli si serve del linguaggio tradizionale, cercando, tuttavia, di adattarlo a una nuova logica. In quale misura la filosofia polanyiana possa collocarsi al di là della filosofia critica rimane, a mio avviso, una questione secondaria; ciò che m’interessa ora sono gli aspetti innovativi di un’epistemologia che s’intreccia con una teoria linguistica, al fine di rivalutare il ruolo della persona umana, nel processo conoscitivo. Ritengo che il tentativo di Poteat di collocare il pensiero polanyiano all’interno di una logica diversa da quella tradizionale, ma, al contempo inserita nella tradizione, vada nella direzione giusta. Accanto alla logica del corpo-mente e alla logica dell’udire, potremmo ripensare le teorie polanyiane del conoscere e dell’essere all’interno di un’ulteriore logica, che io definirei con l’espressione meta-logica. Se, dal punto di vista ontologico, i livelli superiori dell’essere poggiano su livelli inferiori senza risolversi in essi, se le condizioni logiche della nostra conoscenza sono apprese tacitamente, se la scienza e la matematica poggiano su una struttura fiduciaria, coincidente con il nostro corpo-mente e se, infine, contingenza e necessità s’intrecciano inevitabilmente nella realtà dell’essere personale, possiamo, in maniera legittima, definire la logica polanyiana come una meta-logica, ovvero come una logica che individua al di là delle categorie logico-razionali, il proprio campo di applicazione. Allo stesso modo, l’epistemologia è costretta ad interrogarsi sui propri limiti, o meglio su quelle linee di confine che definiscono il proprio ambito, ma che, al contempo, la pongono
in
relazione
con
numerosi
aspetti
della vita umana, considerati
tradizionalmente estranei alla scienza. La volontà degli epistemologi di far interagire i
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meccanismi che guidano la ricerca scientifica con tematiche apparentemente lontane dalla scienza, come la fede, la speranza e l’amore fa sì che la ricerca stessa diventi l’espressione tangibile della vocazione umana. Quando parlo di vocazione umana, intendo la ragione per la quale l’uomo sente di dover vivere: in termini polanyiani, potremmo pensare a quel senso di bellezza intellettuale che guida l’esistenza umana in ogni suo aspetto, orientando l’attività scientifica come la vita morale e religiosa. A mio avviso, nell’idea di un’epistemologia che ha bisogno di guardare al di là di sé, per ritrovare la propria ragion d’essere, è già presente l’esigenza di un’apertura o di un dialogo tra esperienze e realtà differenti. Per questo, nell’ultimo paragrafo, vorrei provare a ripensare l’alternanza tra aspetti incompatibili, come la contingenza e la necessità, in riferimento alla persona umana, per tornare a quel residuo ineliminabile che esiste inevitabilmente tra culture differenti. Mi chiedo: è possibile attribuire a tale residuo una certa necessità, che in un senso ci spinge a dialogare con l’altro, ma al contempo ci chiede di tradursi in situazioni contingenti, grazie alle quali una cultura rimane diversa dall’altra? Forse l’esigenza polanyiana di mostrare che il mondo ha un significato, in quanto terreno di incontro tra persone, può essere letta come un tentativo, non tanto di rispondere a una simile domanda, quanto di portare avanti, instancabilmente, il proprio cammino di ricerca, nella consapevolezza che esiste una possibilità d’incontro, non soltanto tra discipline apparentemente molto lontane fra loro, ma anche fra realtà personali che sembrano scisse da un solco invalicabile.
2. La verità personale come terreno d’incontro
Il problema che mi sono posta all’inizio di questo lavoro rimane tuttora aperto e riguarda le innumerevoli difficoltà che incontra il pensiero logico-razionale, di fronte a questioni interne alla fede religiosa. Un’epistemologia fondata sul mistero della persona umana e, quindi, un’epistemologia capace di guardare al di là dei propri confini possono costituire, a mio avviso, un valido tentativo di ripensare, sotto una nuova luce o in una forma alternativa, il rapporto con l’altro. Considerando, in particolare, gli scontri ideologici tra diverse realtà culturali e religiose, l’idea di una verità personale, alla quale ciascun individuo è chiamato a partecipare, può rappresentare un piccolo passo verso il dialogo e l’ascolto reciproci. Il modello polanyiano di una logica dell’udire, secondo la
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quale conoscere significa sostanzialmente ascoltare l’altro, entrare in empatia con esso, va, a mio avviso, recuperato per reinserire, entro certo limiti, la fede nella ragione e la ragione nella fede. Partiamo dal presupposto che, per dialogare tra loro, diverse realtà culturali e religiose, debbano sviluppare una serie di argomenti, ammissibili, in linea di principio, da tutti. Ma cosa significa, in termini generali, riconoscere la validità di un argomento? È questo il problema che si pone W. Löffler, in un articolo intitolato “Che cosa ci si dovrebbe aspettare da un argomento filosofico a favore dell’esistenza di Dio?”. Se è possibile parlare filosoficamente di Dio, credo sia utile, ai fini del nostro discorso, andare a ricercare le implicazioni logiche di un simile discorso filosofico. Il ragionamento sviluppato da Löffler ci permetterà, infatti, di riconoscere, in ultimo, il valore di quella che viene definita, nel lessico polanyiano, verità personale. In primo luogo, ricercare argomenti filosoficamente validi a favore dell’esistenza di Dio non significa semplicemente fare affidamento su dimostrazioni stringenti, capaci di persuadere qualsiasi interlocutore ragionevole; scrive Löffler: “Non solo vi è un gran numero di agnostici e atei ai quali non è possibile imputare in blocco una irragionevolezza, ma anche molti teologi delle confessioni più diverse rifiutano recisamente tali argomenti” (Löffler 2009, p. 25). Il problema va affrontato da un altro punto di vista, indagando innanzitutto lo status della dottrina filosofica su Dio, che viene definita come “la branca metafisica della filosofia della religione” (Löffler 2009, p. 26), poiché indaga le possibilità, i contenuti, ma anche i limiti degli asserti su Dio. In senso generale, si può attribuire alla dottrina filosofica su Dio un doppio legame: da un lato, infatti, essa si appoggia alla fenomenologia delle religioni, dalla quale ricava un concetto primordiale di Dio, dall’altro tale dottrina s’intreccia ad un discorso prettamente metafisico. Se si vuole parlare filosoficamente di Dio, dunque, è necessario averne un vago concetto iniziale, “un indicatore euristico di ciò che filosoficamente si cerca, […] una sorta di stella polare” (Löffler 2009, p. 28). Tale concetto, acquisito attraverso la fenomenologia delle religioni, non dev’essere, tuttavia, un’idea fissa, non suscettibile di future modificazioni, ma deve assumere un ruolo guida, per coloro che intendono accedere filosoficamente alle verità della fede. Senza dubbio, il punto di partenza filosofico più adeguato è quello descritto da Flew e consiste in un a-teismo radicale,
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secondo il quale sarebbe necessario “considerare come totalmente ignoto e quindi bisognoso di esplicazione quel che un tale Essere extramondano sia” (Löffler 2009, p. 28). L’ateismo proposto da Flew come atteggiamento di partenza si rivela, così, più radicale di quello classico, che negava l’esistenza di Dio, ma presupponeva un concetto generale del divino. In linea di principio, dunque, sarebbe opportuno iniziare l’analisi filosofica della religione, senza avere un’idea preliminare di ciò intendiamo quando parliamo di Dio; tuttavia, all’atto pratico, sembra che non si possa prescindere del tutto da quel vago concetto di Dio, che l’uomo assume all’interno di un preciso contesto culturale. Dopo aver chiarito quale debba essere l’atteggiamento iniziale di chi intende costruire un discorso filosofico su Dio, l’autore, attingendo alla storia della filosofia, individua un serie presupposti, sui quali poter costruire un argomento a favore dell’esistenza di Dio; tali presupposti, o linee-guida, si riveleranno utili, nel nostro tentativo di porre in dialogo realtà religiosamente e culturalmente lontane. In primo luogo, un argomento a favore dell’esistenza di Dio dovrebbe svilupparsi a partire da un punto di vista empirico, tenendo, dunque, presenti alcuni aspetti dell’esperienza. Come sottolinea l’autore, il termine “esperienza” è inteso, in questo caso, in senso ampio:
Non s’intende, quindi, solo l’esperienza metodicamente cercata e sperimentalmente riproducibile, nell’accezione delle scienze naturali e sociali, ma vengono prese in considerazione altre forme di esperienza, nei limiti in cui esse siano in qualche modo pubblicamente dimostrabili. Per contro, riferimenti a episodi esperienziali prettamente privati, in linea di principio forse neppure accessibili ad altri (come viene detto talvolta di certe forme di esperienza religiosa) non sono adatti come punto di partenza – quantomeno non come base argomentativa per altri (Löffler 2009, p. 30).
Se intendiamo utilizzare alcuni argomenti a favore dell’esistenza di Dio come ausilio per un accordo interculturale su questioni religiose, è necessario che essi siano, quanto meno, accessibili a tutti; l’esperienza diventa, così, l’elemento capace di creare coesione tra punti di vista differenti, rendendo il più possibile manifesto il legame tra un discorso su Dio e alcuni ambiti della razionalità. In secondo luogo, gli argomenti a favore dell’esistenza di Dio devono essere sempre inseriti all’interno di una particolare visione del mondo. Con l’espressione “visione del
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mondo” s’intende non tanto un sistema soggettivo di valori, quanto un insieme, per lo più inespresso, di convincimenti esistenziali piuttosto ovvi, concernenti la realtà. Le visioni del mondo assumono, quindi, uno spettro molto più ampio rispetto alle singole teorie scientifiche: “Tra le funzioni essenziali di una visione del mondo – sottolinea Löffler – vi è anzi proprio quella di dirci qual è la singola teoria adatta a una determinata problematica e qual è il tipo di risposta adeguato a una determinata domanda” (Löffler 2009, p. 31). Usando un lessico polanyiano, potremmo identificare la visione del mondo con quel fondo tacito di conoscenze, apprese all’interno di un preciso contesto culturale, attraverso il quale ciascun individuo sviluppa un rapporto personale, e non soggettivo, con la realtà e con il divino. Come terzo elemento utile a sviluppare un argomento, filosoficamente plausibile, a favore dell’esistenza di Dio si richiede l’interruzione del regresso infinito di spiegazioni. Un concetto adeguato di Dio, dev’essere sempre un concetto-limite, al di là del quale ulteriori richieste esplicative risultano prive di significato. In senso generale, infatti, i credenti di ogni religione, nelle loro visioni del mondo, tendono a considerare Dio non come un oggetto tra gli altri, ma come una realtà, in qualche modo, distinta dall’universo naturale. Tenendo, quindi, presenti le comuni visioni del mondo, nelle quali i credenti vivono le loro esperienze religiose, bisogna necessariamente porre Dio su un livello diverso rispetto a quello degli esseri intramondani. Per questo, come sottolinea l’autore, gli argomenti a sostegno dell’esistenza di Dio non servono semplicemente “a dimostrare l’esistenza di un oggetto le cui caratteristiche siano fin dal principio chiare” (Löffler 2009, p. 33). Da ciò derivano la difficoltà, ma anche la necessità, di chiarire gli attributi che, in maniera filosoficamente accettabile, possano essere riferiti a Dio. Ovviamente, un esempio storico di questo tentativo di chiarificazione è offerto dalle “cinque vie” di Tommaso d’Aquino, considerate uno dei più profondi tentativi di accedere filosoficamente a questioni di tipo religioso. Lo sforzo di definire gli attributi di Dio, si lega, in ultimo, all’esigenza di dimostrare l’univocità del concetto di Dio. I presupposti elencati finora devono, a loro volta, rispondere a un’istanza fondamentale che consiste nell’appartenenza a un sistema logico ammissibile e accettabile da tutti gli interlocutori. Si tratta di esigere una certa correttezza logica, anziché una dimostrabilità indiscutibile. L’autore evita di utilizzare l’espressione tradizionale “prove dell’esistenza
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di Dio” e preferisce parlare di argomenti: la prova, infatti, mostrando uno stato di cose indubitabile, vincola in maniera stringente gli interlocutori e “per un tema tanto carico di valenze biografiche […] come la questione di Dio” (Löffler 2009, p. 37) non si può fare affidamento su prove, nel senso letterale del termine. Tuttavia, bisogna esigere che gli argomenti utilizzati seguano una logica ammissibile, che permetta a chiunque di ripercorrere le tappe del ragionamento. Talvolta, sottolinea Löffler, la stessa situazione si presenta all’interno delle singole scienze, quando si comincia a discutere dei principi che sono a fondamento delle diverse discipline:
Le dispute tra i sostenitori delle diverse interpretazioni della fisica quantistica, tra platonici e non-platonici in matematica o tra sostenitori di cosmologie fisiche diverse hanno una struttura similare a quella dei dibattiti intorno alle visioni del mondo: si comprendono certamente gli argomenti della controparte, in molti casi li si ritiene anche del tutto ragionevoli, ma per qualche motivo si nega comunque alle loro conclusioni la libera certezza (Löffler 2009, p. 38).
A mio avviso, in ambito scientifico, il discorso si pone ad un livello differente, poiché, come ho già detto, gli scienziati possono arrivare a discutere sulla base di presupposti, validi in maniera inequivocabile per tutti gli interlocutori; tuttavia, come sottolinea l’autore, quando la disputa si sposta sui principi fondanti delle singole scienze, è possibile trovarsi in una situazione molto simile a quella di coloro che cercano un accordo su questioni religiose controverse. “Che gli argomenti a favore dell’esistenza di Dio – scrive Löffler – non conducano ad un’immediata persuasione di coloro che la pensano diversamente non dovrebbe avere a che fare con strutture logiche poco chiare o con paralogismi” (Löffler 2009, p. 38). Possiamo, dunque, pensare ad un incontro tra diversi credi religiosi, a condizione che esistano una serie di argomenti logicamente corretti che non mirano alla persuasione reciproca, ma che, proprio sulla base della loro coerenza, permettono il confronto. L’esempio di un argomento filosoficamente plausibile a favore dell’esistenza di Dio, riportato dall’autore, è quello che trae origine dal modello cosmologico standard. In particolare, Löffler si riferisce all’argomentazione sostenuta da William L. Craig, il quale, muovendo dalla teoria del big bang, sviluppa una serie passaggi logicamente coerenti: 1) Ciò che ha inizio nel tempo, ha una causa della sua esistenza. 2) L’universo ha un inizio nel tempo. 3) L’universo ha una causa della sua esistenza. 4) Se l’universo
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ha una causa della sua esistenza, questa deve essere personale e possedere ulteriori attributi: priva d’inizio, potente ecc. ( la causa dell’universo non può condividere con esso attributi e limiti). 5) Dunque, c’è una causa personale con questi attributi. Lasciando da parte una serie di possibili questioni critiche, una simile argomentazione sembra rispondere a tutti i requisiti descritti dall’autore: non si tratta, ovviamente, di colmare, attraverso l’intervento di Dio, alcune lacune esplicative concernenti il classico modello cosmologico, quanto piuttosto si tratta di provare ad accedere a un ambito in cui le spiegazioni che la fisica è in grado di dare non bastano più: “Una tale collocazione in una visione del mondo può essere del tutto possibile e legittima fin tanto che non si affermi che è un risultato dell’astrofisica moderna il fatto che all’inizio dell’universo stia l’agire di un attore personale” (Löffler 2009, p. 42). È bene, dunque, tenere distinti il campo della scienza, da quello della fede personale in una determinata visione del mondo e del divino; ciò, tuttavia, non significa rinunciare ad elaborare una serie di argomenti logicamente corretti, a sostegno del proprio credo religioso. Il fatto di aderire, ad esempio, al modello cosmologico, piuttosto che a un altro, è “questione di certezza libera, che può comunque fare affidamento su certi motivi” (Löffler 2009, p. 42, corsivo mio). Ora, di fronte a questa conclusione occorre chiederci se per caso i problemi con i quali inevitabilmente il pensiero filosofico è costretto a fare i conti, nascano proprio da quel “può”. È possibile, infatti, elaborare un argomento logicamente valido a favore di una certa fede religiosa, ma, mi chiedo, il dialogo tra realtà culturalmente lontane, avviene sulla base di tali argomentazioni logiche o si sviluppa a partire da un rapporto tra persone che non soltanto desiderano l’incontro con l’altro, ma vivono tale incontro come una profonda esperienza di verità? La persona può andare alla ricerca di quelle argomentazioni logiche che, sotto alcuni aspetti, sostengono la propria fede, ma forse il tentativo di entrare in relazione con chi la pensa diversamente non risiede affatto in simili spiegazioni logiche; o meglio, esse possono definire i confini di un terreno comune su cui dialogare, ma il rapporto empatico con l’altro affonda le proprie radici in quell’ambito del conoscere che Polanyi definisce più volte con l’espressione “dominio dell’ineffabile”. Si tratta di quella dimensione in cui prevale la componente tacita del sapere e attraverso la quale il soggetto sente di appartenere a una comunità, divenendo
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così consapevole, non soltanto della propria identità culturale, ma anche di quella vocazione alla conoscenza che segna la complessa realtà dell’essere personale. L’epistemologia polanyiana ci pone, allora, di fronte a un’esigenza che si fa sempre più forte nel mondo contemporaneo, in cui l’integrazione fra culture è divenuta un realtà con la quale ciascuno di noi si trova inevitabilmente a fare i conti. Come possiamo trovare un’identità culturale e al contempo andare alla ricerca di quella parte di noi stessi capace di adattarsi all’altro, di conoscere l’altro, nel senso polanyiano del termine? È forse necessario che la ragione lasci spazio alla persona umana, affinché il credo religioso o la cultura dello straniero non ci scandalizzi, ma ci costringa a crescere? L’uomo del pensiero post-critico sa bene che la scienza non può risponde alla domanda metafisica: perché l’essere piuttosto che il nulla? Tuttavia, in lui, la consapevolezza del limite umano non si traduce in un naufragio nel non-senso, ma in un’ulteriore consapevolezza che quel senso tanto desiderato non è una costruzione umana, ma può essere soltanto ricevuto e accolto nel grembo della stessa umanità. La ragione, di fronte ai propri limiti, è chiamata a mettersi in ascolto di ciò che è altro da sé. Il problema che, anche in questo caso, si ripresenta consiste nell’identificare le linee di orizzonte di ciò che chiamiamo pensiero razionale, per concepire successivamente un loro ipotetico ampliamento. Il rischio che si corre è ben espresso da Armando Rigobello, il quale, riflettendo sugli orizzonti della razionalità, teme che l’ampliamento della ragione possa assumere i caratteri di “un’evasione emotiva consolatoria” (Rigobello 2008, p. 101). Se continuiamo, infatti, a relegare il sapere non scientifico al di fuori del pensiero speculativo, attribuendogli esclusivamente una valenza pratica, il tentativo stesso di ampliare i confini della razionalità diviene un’illusione: tutto ciò che fa parte della sfera emozionale rimane, di fatto, al di là di un sapere sperimentale, assolutamente certo dei propri mezzi. A mio avviso, dunque, il primo passo verso un ampliamento dell’orizzonte razionale consiste nello svincolare la scienza dalla sua funzione strumentale, riconoscendole un profondo legame con la verità personale. La conoscenza scientifica è in grado di fornire una spiegazione razionale dei fenomeni, ma al contempo è coinvolta nel mistero, poiché il mistero costituisce il suo limite ultimo, liberandola dai preconcetti e rendendola compatibile con la persona umana. Ciò, tuttavia, non significa che la ragione scientifica debba accettare un’autorità estranea al suo modo di procedere. Come abbiamo già visto,
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il pensiero razionale è costretto a servirsi dei propri strumenti per accedere a un ambito, come quello della fede religiosa, che gli rimane comunque estraneo. Ogni tentativo d’inserire l’argomento religioso in categorie logiche ci riporta alla consapevolezza dei limiti umani, ma forse il riconoscimento del limite non basta. Occorre, in questo caso, procedere secondo la teoria polanyiana del doppio livello e collocare la ragione umana in una posizione intermedia tra l’uomo e Dio; da un lato, infatti, la ragione è sempre incarnata, connessa alla caducità del corpo, dall’altro, il pensiero razionale è l’unico mezzo attraverso il quale l’uomo può iniziare a interrogarsi su se stesso e sul senso del proprio essere al mondo. Attraverso la ragione Dio si rivela all’uomo e lo porta ad uscire da stesso, per abbracciare il mistero della fede. Per ragione, s’intende quella capacità del pensiero di creare rapporti e connessioni logiche tra idee; una ragione chiusa nelle proprie certezze e incapace di creare legami non è più ragione, ma delirio di potere. Di fronte a un simile rischio è necessario che la ragione si ponga in ascolto, lasciando il posto alla persona; il dialogo tra fede e ragione, tra scienza e religione può essere, allora, pensato sulla base di una verità personale che favorisce il dialogo stesso, perché si sviluppa, fin dall’inizio, come un tentativo di legare ciò che normalmente è scisso. Condividere con l’altro una verità personale, e non soggettiva, vuol dire aprirsi all’altro senza perdere di vista la propria identità; sulla base di un simile modello, potremmo pensare a una ragione che non cerchi di entrare in maniera troppo forzata negli ambiti della fede religiosa, ma che venga spinta a rinnovarsi e a rimettersi in gioco, di fronte a un mistero che non può essere sciolto, poiché, se lo fosse, la vita stessa della persona umana scivolerebbe nella noia e nel non-senso. Il tentativo, da parte del pensiero razionale, di guardare al di là dei propri confini riscoprendo il ruolo della persona umana, coinciderebbe, così, con una tacita fiducia nella relazione, non soltanto tra idee o concetti, ma anche tra abitudini di vita o visioni del mondo diverse. Arrivati a questo punto, vorrei riprendere le questioni, già affrontate in precedenza2, relative alla distinzione, in ambito epistemologico, fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione. Abbiamo visto, infatti, come dietro la netta separazione fra questi due ambiti si nasconda il rifiuto, in linea di principio, della persona umana, ad opera di 2
Mi riferisco, in particolar modo, al paragrafo appartenente alla seconda parte di questo lavoro, intitolato “Il problema polanyiano delle abilità”. Qui, infatti, viene ripresa la teoria di Buzzoni sui problemi che comporta la separazione, in ambito scientifico, fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione (cfr. Buzzoni 2004 e 2005).
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una conoscenza scientifica che si assolutizza, pretendendo di avere in mano l’unica verità. In primo luogo, dunque, se intendiamo riscoprire la persona al di là della ragione scientifica, occorre rifiutare la separazione fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione, nella sua accezione neopositivistica e popperiana. Ritenendo valida la separazione fra i due contesti, infatti, i neopositivisti prima e Popper poi hanno cercato di difendere l’autonomia della ricerca scientifica, scindendola da qualsiasi elemento storico, politico o personale. In secondo luogo, tuttavia, come abbiamo già osservato, occorre anche rifiutare, sotto alcuni aspetti, le teorie degli autori appartenenti prima alla “svolta relativista” e poi alla “svolta sociologica”. Questi, infatti, riscoprendo il valore sociale della ricerca scientifica, pur rigettando la separazione fra i due contesti, l’hanno inconsapevolmente ripresa, attribuendo alla psicologia della ricerca il primato sulla logica (cfr. Buzzoni 2004, pp. 73-81). In questo modo, intorno agli anni Sessanta, autori come Kuhn, Hanson e Feyerabend, valorizzando gli aspetti storici, sociali e psicologici delle teorie scientifiche, hanno rinunciato alla pretesa di ricercare la verità delle cose. Se non vogliamo, dunque, cadere nel relativismo e scindere la scienza dalla verità, dobbiamo, da un lato riprendere la distinzione fra scoperta e giustificazione, come espressione
dell’ineludibile
autonomia
del
piano
logico-discorsivo
della
rappresentazione; dall’altro, tuttavia, dobbiamo rifiutare la netta separazione fra i due ambiti, intesa come tentativo di assolutizzare la scienza. Rivalutiamo la distinzione e rigettiamo la separazione, rimanendo così, anche in questo caso, all’interno di un’ottica relazionale. Distinguere, infatti, non è sinonimo di separare: la distinzione ci permette d’identificare i due termini posti a confronto, per pensare poi a un possibile legame; la separazione, invece, presuppone sempre una chiusura al dialogo e alla relazione. Come abbiamo già osservato, dal punto di vista di Buzzoni, si può negare l’assolutizzazione del sapere scientifico, senza rinunciare alla pretesa di ricercare la verità,
ammettendo
la
possibilità,
in
linea
di
principio,
di
ricostruire
intersoggettivamente i procedimenti, piuttosto complessi, che hanno condotto alla scoperta scientifica e riconoscendo così uno stretto legame tra operazioni teoriche e pratiche. In maniera più specifica, scrive Buzzoni:
V’è quindi un senso, trascendentale, in cui occorre accettare la distinzione fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione, ma questo senso non può essere disgiunto da un altro senso, che traduce il piano trascendentale in concreti procedimenti metodici. Il punto decisivo è
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che questi due sensi non sono fra loro separati, ma dialetticamente connessi. I singoli procedimenti metodici rimangono rivedibili alla luce dell’istanza di dire come stanno le cose, ma questa istanza non può essere soddisfatta senza ricostruire i singoli passi metodici (Buzzoni 2008, p. 137).
Dunque, la distinzione tra i due ambiti va accettata in senso trascendentale, come presupposto per orientare la ricerca verso la verità; tuttavia, il singolo scienziato deve essere in grado, in ogni momento, di controllare e rimettere in discussione i passi che lo hanno portato alla scoperta, cercando quindi di tenere insieme la logica e la psicologia della ricerca. Come osserva lo stesso autore, da qui il discorso può essere esteso al dialogo tra culture e religioni differenti. Si può pensare, infatti, a un criterio ultimo, valido in senso trascendentale, non coincidente con le singole tradizioni, sulla base del quale religioni e culture differenti possano dialogare. Tale criterio, pur non coincidendo con nessuna specifica fede o cultura, può essere difeso e argomentato solo a partire dalle singole tradizioni. Il dialogo, a sua volta,
avviene “nella misura in cui si rimanga ben
consapevoli della reciproca incompatibilità, poiché è soltanto quest’incompatibilità che esorta sia a difendere il nostro punto di vista sia a cercare di comprendere le ragioni dell’altro” (Buzzoni 2008, p. 137). Ciascuno, infatti, da un lato, può difendere la propria prospettiva, argomentando a favore di certi valori come la giustizia, la verità, il rispetto della dignità umana, soltanto a partire dal proprio contesto sociale e culturale, a partire, quindi, da quel fondo tacito di verità, nel quale, seguendo il discorso polanyiano, ciascun individuo si radica, in quanto parte di una tradizione. Dall’altro, l’individuo è spinto ad aprirsi verso le ragioni del proprio interlocutore, appartenente a una cultura o a una religione differente, poiché nonostante l’evidente incompatibilità tra il nostro mondo e quello dell’altro, non possiamo fare a meno di riconoscere che esiste un piano comune sul quale argomentare, un piano comune che coincide con un senso di giustizia, verità e rispetto, sul quale si fonda, in senso trascendentale, la relazione dialogica. Ciò, tuttavia, non ci permette di eliminare le differenze o d’ipotizzare un’utopica riconciliazione degli opposti, ma la consapevolezza che esiste un criterio di verità sul quale porre le condizioni di un confronto costruttivo costituisce il primo passo per incominciare a vedere l’altro come un prolungamento di noi stessi, del nostro essere corporeo-mentale. In questo senso, credo che il modello polanyiano della conoscenza
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personale ci aiuti ad approfondire questo ordine di considerazioni: se, infatti, il mio corpo-mente viene inteso come un’unità incompleta, costantemente aperta agli oggetti del conoscere, fin dalla nascita, l’essere individuale è per sua natura spinto a trovare un compimento nell’altro, inteso come diverso da me. E nella ricerca di questo compimento, fondamentalmente irrealizzabile nel corso dell’esistenza terrena, l’individuo sente di condividere con l’altro una verità personale, ovvero una verità che prende forma nella parte più intima, nascosta o tacita della persona umana. Potremmo, allora, dare un nome a quel criterio ultimo che favorisce il dialogo tra realtà culturali differenti, senza coincidere con nessuna di esse, identificandolo con una verità personale attraverso la quale ciascun individuo sente di essere legato all’altro, pur rimanendo nella diversità. Ora, le due dimensioni polanyiane del conoscere, quella tacita e quella esplicita, potrebbero essere ripensate come le due possibili vie d’accesso alla verità personale. Potremmo immaginare una sfera silenziosa o tacita del nostro essere personale, in cui il corpo-mente si pone in ascolto di ciò che è altro da sé, e una sfera, strettamente connessa alla prima, in cui l’ottica della visione prevale su quella dell’ascolto, affinché la ragione possa trasformare in linguaggio ciò che viene intuito o sentito ad un altro livello del nostro essere. Rimanendo sul piano della conoscenza esplicita, al fine di comprendere davvero la diversità, è assolutamente legittima l’esigenza di attribuire all’altro “un punto di vista dotato di un intrinseco valore” (Buzzoni 2008, p. 138); ciò, tuttavia, è possibile soltanto ponendo in relazione il punto di vista dell’altro con un criterio superiore che da un lato permette il dialogo, ma dall’altro fa emergere la diversità, poiché pone le condizioni per ricostruire le motivazioni che hanno condotto entrambi gli interlocutori alle proprie conclusioni: Ogni forma storica di affermazione di verità, ogni azione morale, ogni professione di fede rimane sempre, in linea di principio, sottoposta a un’istanza suprema e inesauribile, che è ragione di un conflitto sia scientifico sia fra culture o religioni diverse e, al tempo stesso, istanza cui appellarsi per risolvere questo conflitto. Un’istanza obiettiva e inesauribile, che per un verso ci costituisce, ma che per l’altro, al tempo stesso, ci proietta oltre noi stessi, in un «luogo» o in una dimensione di trascendenza in cui alienazione completa e la completa realizzazione di sé coincidono (Buzzoni 2008, p. 138).
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Ma in quale altro luogo l’alienazione completa e la completa realizzazione di sé coincidono, se non nella persona umana? Anche le nozioni di contingenza e necessità, emerse dall’analisi delle teorie linguistiche polanyiane, finiscono per intrecciarsi nella complessità dell’essere personale; se, infatti, l’intero universo acquista un significato come terreno d’incontro tra persone che vivono esperienze diverse, ma che condividono la stessa verità personale, nel momento del confronto reciproco, gli individui sperimenteranno inevitabilmente la presenza di un residuo tra culture e religioni differenti. Tale residuo, tuttavia, non sarà d’ostacolo al dialogo, ma, al contrario, vincolerà, in maniera necessaria l’essere personale, trasformando l’incontro con l’altro in un compito, un dovere al quale la persona umana non può sottrarsi. Un simile compito si tradurrà poi in una serie di situazioni contingenti, grazie alle quali ciascuna cultura rimane diversa dall’altra. Nella riscoperta della persona umana come unità relazionale originaria potremmo, allora, intravedere la possibilità di un incontro tra scienza e fede, al fine di gettare le basi per un dialogo interculturale e interreligioso. Come abbiamo già sottolineato, prendere a modello la verità personale polanyiana non significa tentare di eliminare le differenze, mirando a una riconciliazione degli opposti, ma vuol dire impegnarsi, citando un’espressione ricoeuriana, a tradurre l’intraducibile, cercando di dare forma a qual senso di verità e giustizia che ci spinge a trovare un punto d’incontro con l’altro, nonostante la diversità3.
3
Da una riflessione sulla persona hanno del resto preso le mosse le questioni sollevate da M. Buzzoni, più precisamente, da quella riflessione sulla persona umana elaborata da A. Rigobello (cfr. Rigobello 1989, 2001, 2004, 2007 e 2009). Secondo Rigobello, infatti, l’identità personale è sempre strutturata su due livelli: “quello della consistenza autonoma del soggetto e quello, interno e tuttavia estraneo, che costituisce il paradosso della condizione umana, l’avvertire in se stessi una presenza interior intimo meo, presenza di un trascendimento” (Rigobello 2009, p. 65). Di conseguenza, scrive ancora Rigobello: “L’ulteriorità s’interiorizza e la sua trascrizione in termini spaziali non è più qualificante. Un particolare rilievo assume in questo contesto il ruolo della differenza. La differenza si presenta come luogo dell’autenticità, ma il suo stesso strutturale collegarsi con l’autenticità non accoglie una differenza intesa come un differire orizzontale, un differire che scompone la realtà in singolari presenze irrelate: la differenza di cui stiamo parlando […] si qualifica come strumento dialettico per individuare il più proprio della condizione umana” (Rigobello 2009, pp. 70-71). Tenendo, dunque, presente l’immagine della persona umana che sperimenta in sé l’ulteriorità, Buzzoni affronta, con le dovute differenze rispetto alla posizione di Ricoeur, i problemi relativi alla traduzione, sottolineando come l’illimitata apertura simbolica della persona esiga sempre una concreta esplicazione in una particolare lingua o comunità; se così non fosse la stessa apertura dell’essere personale si risolverebbe in un nulla di conoscenza e azione. Da questo punto di vista viene affrontato il problema della fedeltà e della libertà del tradurre: la libertà del traduttore, infatti, di per sé presa è incondizionata ma anche vuota e indeterminata; la possibilità della sua realizzazione dipende dal rispetto che il traduttore nutre nei confronti di valori storicamente determinati e quindi dal profondo legame del traduttore con la comunità di appartenenza. (cfr. Buzzoni, 1997). Il
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Per approfondire ancora un poco il punto a cui siamo pervenuti, è forse opportuno soffermasi sul saggio di Ricoeur, intitolato “Un passaggio”: tradurre l’intraducibile, nel quale l’autore sviluppa una serie di riflessioni sulla nozione di traduzione. Nonostante il contesto profondamente diverso da quello in cui s’inserisce la filosofia di Polanyi, l’analisi ricoueriana del tradurre può aiutarci a chiarire i caratteri di una verità personale, intesa come luogo d’incontro delle diversità. Ora, scrive Ricoeur:
Sì, bisogna riconoscerlo: da una lingua all’altra, la situazione è quella della dispersione e della confusione. Eppure la traduzione s’iscrive nella lunga litania dei “nonostante tutto”. Nonostante i fratricidi, noi militiamo per la fraternità universale. Nonostante l’eterogeneità degli idiomi, ci sono dei bilingui, dei poliglotti, degli interpreti e dei traduttori (Ricoeur 2004, p. 35).
Fin da subito, l’atto del tradurre sembra attraversato da aspetti contraddittori: all’origine della traduzione si trova ciò che la traduzione stessa mira a superare, la diversità delle lingue e delle culture; o meglio, la traduzione esiste proprio perché gli uomini sono diversi e parlano lingue differenti. Nonostante le differenze, tuttavia, non possiamo negare il fatto che tutti gli uomini parlano: si tratta di “un criterio di appartenenza all’umanità, insieme agli strumenti, alle istituzioni, alla sepoltura” (Ricoeur 2004, p. 28). Esiste, allora, una capacità universale, propria dell’essere umano, che si realizza e prende forma nella dispersione e nella diversità. Il problema sorge poiché ci troviamo di fronte a una situazione logicamente inspiegabile: com’è possibile, infatti, che gli uomini parlino lingue diverse, ma che riescano, al contempo, ad imparare altre lingue oltre alla lingua d’origine? Questa semplice costatazione di fatto ci pone di fronte a una pericolosa alternativa:
O la diversità delle lingue esprime un’eterogeneità radicale – a allora la traduzione è teoricamente impossibile; le lingue sono a priori intraducibili l’una nell’altra. Oppure, la traduzione considerata come un fatto si spiega tramite un fondo comune che rende possibile il fatto della traduzione; ma allora si deve poter o ritrovare questo fondo comune, ed è la strada
rispetto reciproco diviene, dunque, il luogo dell’incontro con l’alterità, un’alterità che da sempre costituisce la realtà personale.
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della lingua originaria, o ricostruirlo logicamente, ed è la strada della lingua universale (Ricoeur 2004, p. 30).
Nel primo caso si tenderà a rinunciare al compito della traduzione, poiché teoricamente irrealizzabile; nel secondo, si cercherà una via per spiegare l’origine della traduzione, rischiando, così, di eliminare quel senso di mistero che accompagna l’atto stesso del tradurre. Per evitare di cadere in simili errori, Ricoeur suggerisce di uscire da questa alternativa, definita teorica, che oppone il traducibile all’intraducibile, al fine di sostituirla con l’alternativa pratica “fedeltà versus tradimento”. Non si tratta, dunque, di definire, sul piano teorico, il processo della traduzione tentando di trovare ciò che accomuna una lingua all’altra, né si tratta di stabilire un limite tra il traducibile e l’intraducibile, ma ciò che davvero ci costringe a interrogarci è quel mistero che avvolge l’attività pratica del traduttore, il quale si trova costantemente di fronte a una realtà che emerge, al di là del sistema linguistico di riferimento, ma che chiede di essere tradotta attraverso parole e sistemi lessicali precisi. Nel passaggio da una lingua all’altra, allora, il traduttore si trova di fronte all’alternativa “fedeltà contro tradimento”. Entro quali limiti è possibile rimanere fedeli al senso originario delle parole da tradurre? E su quali basi possiamo definire buona una traduzione? Da qui emerge un altro importante paradosso: “Una buona traduzione – scrive Ricoeur – non può mirare che ad una equivalenza presunta, non fondata su una identità di senso dimostrabile. Una equivalenza senza identità” (Ricoeur 2004, p. 40). Si tratta di costruire un’equivalenza in cui, in maniera del tutto paradossale, è sempre inserito uno scarto tra la mia lingua e quella dell’altro, tra la mia cultura e quella dello straniero. Ciò implica l’abbandono, da parte del traduttore, del sogno di una traduzione perfetta; l’ideale di una traduzione assoluta e perfetta, quindi, da un lato, alimenta il desiderio di tradurre, dall’altro, costringe il traduttore a fare i conti con la realtà, rinunciando a un sogno fondamentalmente irrealizzabile. Tale rinuncia consiste nell’ammissione della diversità e della differenza insormontabile tra me e l’altro. Ciò che resta, in ogni caso, è la “sfida dello straniero” (Ricoeur 2004, p. 42), che si realizza in quella che Ricoeur definisce ospitalità linguistica, ovvero il tentativo di dire la stessa cosa in altro modo, cercando di rendersi ospitali nei confronti dell’altro. Nel tentativo di tradurre, dunque, ciascuno di noi è mosso dal desiderio di andare incontro all’altro, ma, al contempo, è consapevole della distanza incolmabile tra lingue
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e universi culturali differenti; tale consapevolezza provoca disincanto e paura nel traduttore, ma lo spinge anche ad andare avanti, senza rinunciare al proprio compito. Potremmo dire, allora, che esiste un intraducibile che s’intreccia al traducibile, orientandolo verso l’espressione linguistica. Dalle parole, dalle frasi e, infine, dai testi emerge questo lato intraducibile del linguaggio:
Le nostre parole – scrive Ricoeur – hanno ciascuna più di un senso, come si vede nei dizionari. Questo si chiama polisemia. Il senso è allora ogni volta delimitato dall’uso, il quale consiste essenzialmente nel focalizzare quella parte del senso della parola che si adatta al resto della frase e contribuisce insieme ad esso all’unità del senso espresso e offerto allo scambio. Ogni volta il contesto decide il senso che una parola assume in una certa circostanza del discorso; a partire da qui le dispute sulle parole possono essere senza fine: che cosa ha voluto dire? etc. Nel gioco della domanda e della risposta le cose […] si confondono ancor di più. Perché non ci sono solo i contesti evidenti, ma anche i contesti nascosti. […] Vi è in questo modo il margine dissimulato dalla censura, dalla proibizione, il margine del non-detto, solcato da tutte le figure del nascosto (Ricoeur 2004, p. 45).
Dalla parola si passa, così, alla frase intesa come nuova fonte d’ambiguità: il rapporto tra il significato di ciò che viene detto e il referente, vale a dire la realtà, verso la quale il linguaggio si orienta, appare complesso e ricco di doppi sensi. Non esiste, infatti, una descrizione completa di ciò che viene osservato, ma ogni proposizione esprime soltanto un punto di vista, una visione parziale del mondo. Entrano così in gioco, i testi, “concatenazioni di frasi che, come indica la parola, sono delle tessiture che tessono il discorso in sequenze più o meno lunghe” (Ricoeur 2004, p. 46). Nel testo trovano spazio le figure retoriche, le metafore e i diversi giochi linguisti funzionali al tipo di testo che s’intende realizzare. Le ambiguità che caratterizzano parole, frasi e testi, diventano così il segno di quella “propensione del linguaggio all’enigma, all’artificio, all’ermetismo, al segreto, in breve alla non-comunicazione” (Ricoeur 2004, p. 47). La non-comunicazione del linguaggio, è proprio quell’aspetto del nostro comunicare dal quale, a mio avviso, sembra necessario partire per ripensare e ricostruire il dialogo interculturale e interreligioso: “Se non avessimo sfiorato le inquietanti contrade dell’indicibile – si chiede Ricoeur – avremmo ancora il senso del segreto, dell’intraducibile segreto? E i nostri migliori
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scambi, nell’amore e nell’amicizia, avrebbero ancora questa qualità di discrezione […] che preserva la distanza nella prossimità?” (Ricoeur 2004, p. 48). Preservare la distanza nella prossimità, ecco con quali parole potremmo descrivere l’arduo compito della comunicazione interpersonale, la cui realizzazione avviene sempre attraverso una serie di pulsioni contrastanti che rendono possibile il lavoro del tradurre. La pulsione di tradurre, sottolinea più volte Ricoeur, è sempre accompagnata da un lavoro di ricordo o di lutto; l’atto della traduzione, infatti, pone in relazione due partner, l’estraneo e il lettore destinatario dell’opera tradotta e se, da una parte, il traduttore sente il desiderio di aprirsi alla diversità, dall’altra si attua in lui un particolare processo di “sacralizzazione della lingua definita materna” (Ricoeur 2004, p. 51), il quale provoca una sorta di “resistenza […] alla prova dello straniero” (Ricoeur 2004, p. 51). Il traduttore incontra questa resistenza a più stadi della sua impresa:
L’incontra già prima di cominciare sotto la forma della supposizione della non traducibilità, che inibisce ancor prima di affrontare l’opera. Tutto accade come se nell’emozione iniziale, nell’angoscia talvolta di cominciare, il testo straniero si ergesse come una massa inerte resistente alla traduzione. Da un lato, questa presunzione iniziale non è che un fantasma nutrito dalla banale confessione che l’originale non sarà doppiato da un altro originale. […] Esso culmina nella paura che la traduzione, in quanto traduzione, sia per definizione in qualche modo una cattiva traduzione. La resistenza alla traduzione assume però una forma meno fantasmatica una volta iniziato il lavoro di traduzione. Nel testo sono disseminate delle zone di intraducibilità, che fanno della traduzione un dramma, e del desiderio di una buona traduzione una scommessa (Ricoeur 2004, p. 52).
Il problema del traduttore è convivere con queste pulsioni contrastanti e portare avanti il suo compito, nonostante tutto. Il lavoro del tradurre, infatti, consiste essenzialmente nel far propria l’estraneità, conservando l’identità linguistica e culturale. Ma andando al di là del discorso riguardante la traduzione di un testo, in senso generale, potremmo interpretare lo sforzo di comprendere l’altro e di entrare in relazione con esso come un tentativo di tradurre la sua esperienza del mondo, attraverso gli strumenti che ciascuna cultura è in grado di offrire. Di fronte alla diversità, infatti, il desiderio di scoprire ciò che è ancora lontano da noi, facendone un’esperienza concreta, s’intreccia, da un lato, a un senso di inadeguatezza, legato alle difficoltà che inevitabilmente accompagnano
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l’impresa della comunicazione, dall’altro, a un’esigenza di ritrovare se stessi, le proprie origini, per rimanere fedeli alla propria identità personale e culturale. Il linguaggio della psicanalisi, utilizzato da Ricoeur, rende appieno l’idea delle scissioni, delle contraddizioni che attraversano non soltanto il lavoro del traduttore, ma anche ogni autentico tentativo di entrare in rapporto dialogico con l’altro. Ma l’aspetto che ora vorrei sottolineare, per riprendere poi le fila del nostro discorso, é quello stato d’insoddisfazione, di cui parla Ricoeur, con il quale il traduttore lascia l’opera terminata. È come se, alla fine della traduzione, mancasse sempre qualcosa da aggiungere, da specificare, per rendere la traduzione stessa conforme all’ideale della perfezione linguistica. Il traduttore che ha portato a termine il proprio lavoro, quindi, deve aver necessariamente rinunciato al sogno della traduzione perfetta; da tale rinuncia ha origine quel senso d’insoddisfazione che accompagna, fino alla fine, l’impresa della traduzione. Tuttavia, scrive Ricouer:
Questo lutto per la rinuncia alla traduzione assoluta rende possibile la felicità del tradurre. La felicità del tradurre diviene un guadagno allorché, legata alla perdita dell’assoluto linguistico, accetta lo scarto tra l’adeguazione e l’equivalenza, l’equivalenza senza adeguazione. Qui sta la felicità. Riconoscendo e assumendo l’irriducibilità della coppia del proprio e dello straniero, il traduttore trova la sua ricompensa nel riconoscimento dell’intrascendibile statuto di dialogicità dell’atto di tradurre come orizzonte ragionevole del desiderio di tradurre. Nonostante il conflitto che drammatizza il compito del traduttore, questi può trovare la sua felicità in ciò che chiamerei l’ospitalità linguistica (Ricoeur 2004, p. 57).
L’insoddisfazione
convive
con
la
felicità
della
traduzione,
generata
dalla
consapevolezza della diversità. L’aspetto intraducibile del linguaggio non viene, quindi, sospeso o messo tra parentesi per permettere il lavoro del traduttore, ma il traduttore è chiamato a soggiornare nel mistero linguistico per ricavare da esso i presupposti di una buona traduzione. Come ho già detto, lo stesso discorso può valere nel caso della relazione dialogica tra realtà personali culturalmente distanti. Se pensiamo al nostro modo di relazionarci con la diversità, possiamo facilmente rintracciare, nella parte più intima di noi stessi, quella serie di pulsioni contrastanti di cui parla Ricoeur a proposito della traduzione. La paura dello straniero è accompagnata dal desiderio di conoscere l’altro, il timore di perdere la
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propria identità convive con l’esigenza di ospitare, nel grembo del proprio essere, la diversità; ma soprattutto l’insoddisfazione di non aver potuto realizzare una completa fusione con l’altro pone le condizioni per la felicità, generata dall’incontro e dal dialogo con l’altra persona. Quel residuo intraducibile e ineliminabile tra la mia cultura, la mia realtà linguistica e personale e quella dell’altro diviene, in senso trascendentale, il punto di partenza, la base, sulla quale poter costruire la relazione. Potremmo pensare, allora, usando il lessico ricoeuriano, a un intraducibile di partenza che deriva dalle diversità culturali, geografiche, linguistiche e religiose fra popoli e a un intraducibile finale, inteso come il prodotto della relazione. I membri di una cultura, infatti, sono consapevoli dell’esistenza dello straniero, il quale costringe ciascun individuo a lavorare sulla propria identità. Nessuno può sottrarsi alla “sfida dello straniero” (Ricoeur 2004, p. 42), o meglio, ogni persona, in quanto parte di una comunità, deve essere messa nelle condizioni di poter rispondere a una simile sfida. Il riconoscimento di una verità personale, che in senso polanyiano, crea legami mantenendo in vita la diversità, può allora costituire una possibile risposta. Porsi sul piano della persona umana significa donare valore a ogni aspetto che costituisce l’essere personale nella sua complessità. Da un simile punto di vista, la scienza diviene un “fare” propriamente umano, attraverso il quale l’uomo può intraprendere un cammino di conoscenza della realtà e di se stesso. I due percorsi conoscitivi s’intrecciano rendendo la ricerca scientifica un’impresa assolutamente personale. È chiaro ormai che il termine personale non possa essere sostituito da soggettivo: non si tratta più di definire i confini tra la sfera del soggetto e quella dell’oggetto, ma si tratta di scoprire cosa ci lega a quella verità che tanto ricerchiamo, utilizzando le innumerevoli risorse della ragione umana. Sul piano della ricerca scientifica, il fare e il ragionare attraverso procedimenti logici, trovano una radice comune nella persona dello scienziato, il quale, è spinto, dalla sua stessa vocazione conoscitiva, a cercare un dialogo con l’altro. Anche in questo caso, possiamo pensare a una relazione tra due o più persone che arrivano a confrontarsi sulla base di una verità personale, capace di porre le condizioni del dialogo stesso; tuttavia, sul piano scientifico, sono infinitamente grandi le risorse che la ragione mette a disposizione degli interlocutori e, nonostante le controversie, si possono definire, a livello esplicito, alcuni presupposti o punti di partenza sui quali potrà poi svilupparsi il dialogo, che resta comunque un dialogo tra persone, intese come unità di corpo-mente.
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Il modello proposto dall’epistemologia polanyiana permette alla scienza di riscoprire la sua origine antropologica, il suo profondo legame con la persona, senza, tuttavia, scindere la ricerca scientifica dalla verità; l’esigenza di descrivere la realtà naturale, attraverso gli strumenti del sapere scientifico, viene alimentata da una seconda esigenza, altrettanto essenziale alla ricerca: l’esigenza di credere in quella verità che orienta l’esistenza umana e che, al di là di ogni ideologia, può assumere i caratteri di una verità personale, capace di far uscire l’uomo dall’isolamento, cui la ragione può portare se arriva ad assolutizzarsi. Se, dunque, l’interrogativo iniziale che mi ha spinto a ripercorrere la strada della conoscenza personale polanyiana riguarda i possibili strumenti che la ragione scientifica avrebbe a disposizione, per affrontare i temi della fede, arrivati a questo punto, potremmo riconoscere, come presupposto di un dialogo tra scienza e fede, innanzitutto l’esigenza, da parte della ricerca scientifica, di non perdere mai di vista la propria radice antropologica. La scienza non può progredire se non aprendosi a un senso d’ulteriorità, che le permette di uscire da un piano puramente funzionale e al contempo le ricorda i suoi limiti. Lo stesso discorso può valere per la tecnologia, che deve essere a servizio dell’uomo, senza sostituirsi ad esso. Sempre di più, infatti, si presenta il rischio che l’innovazione tecnologica arrivi, al di là di una liberazione dell’uomo da compiti ripetitivi e faticosi, a causare una nuova robotizzazione del soggetto, accentuando la sua passività di fronte alle attrezzature informatiche e causando un indebolimento dei processi conoscitivi. Certamente i mezzi informatici, se utilizzati in maniera corretta, permettono di valorizzare l’intelligenza umana; tuttavia, esiste il rischio che la stessa intelligenza possa diventare schiava del sistema e incapace di esprimersi in altre modalità comunicative. Sulla scia del pensiero polanyiano, allora, l’unico modo per evitare simili rischi sembra quello di riscoprire la persona al di sotto dell’innovazione scientifica e tecnologica, imparando, tuttavia, a distinguere tra lo sviluppo umano e quello tecno-scientifico. La crescita dei mezzi tecnologici non coincide con la crescita dell’uomo in quanto tale; la scienza e la tecnologia ci permettono di migliorare la vita, ma non ne rivelano il senso. Da qui emerge la possibilità di un incontro tra scienza e fede religiosa. In particolare oggi, in cui le sfere della scienza e della fede tendono sempre più a non mescolarsi, occupando livelli diversi, è necessario che la religione e la morale accompagnino la ricerca scientifica, pur mantenendo ben definiti i loro confini. Si rischia, altrimenti, di adagiarsi
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in un’ottica della separazione, che pone Dio fuori dalla scienza e colloca le scoperte scientifiche, insieme a tutto ciò che comunemente non riguarda il senso ultimo dell’esistenza, nella cosiddetta sfera del qui e ora. Se la ragione tende a rimuovere tutto ciò che non è qui e ora, l’orizzonte del pensiero razionale finisce per autolimitarsi, eliminando il senso di responsabilità che vincola l’uomo di fronte al creato. Nell’epoca del tutto e subito, la razionalità è chiamata a riflettere su stessa, ponendosi in un atteggiamento d’ascolto; ciò implica una dilatazione del tempo e una maggiore disponibilità, da parte del pensiero razionale, al dialogo e alla relazionalità. La proposta polanyiana di porre al centro della scienza la persona umana, ci permette d’iniziare a ragionare nell’ottica della relazione, al di là dei dualismi, riscoprendo il legame tra la scienza e quel senso d’ulteriorità, sulla base del quale è possibile stabilire un legame tra scienza e fede religiosa, partendo proprio dalla complessità della persona umana. È in questo senso che, come abbiamo anticipato a suo tempo, la filosofia polanyiana non può essere ridotta a un mero strumento di chiarificazione di tematiche prettamente teologiche. La vera ricchezza delle teorie polanyiane sulla conoscenza sta nel modo in cui l’autore concepisce e descrive i meccanismi del sapere scientifico, costruendo un parallelismo con la teoria del linguaggio. Sia le teorie scientifiche che le parole, appartenenti a un determinato sistema linguistico, sono orientate verso la realtà; ciò ci permette di scindere il pensiero polanyiano da quello kuhniano, ricavando da Polanyi un nuovo concetto di fede, che non coincide con una fiducia soggettiva verso un sistema di valori precostituito, ma ci conduce verso un’immagine rinnovata della persona umana. In base alla teoria del doppio livello e alla visone polanyiana del mondo suddiviso in strati ontologici gerarchicamente ordinati, la persona si riconosce in costante relazione con una verità personale che la porta a uscire da se stessa, senza dimenticare le proprie origini. Nell’incontro con la verità il sapere articolato s’intreccia al sapere tacito e anche se a volte il fondo inespresso del conoscere sembra avere il sopravvento sul linguaggio, in linea di principio, Polanyi sembra ammettere la possibilità, da parte dell’essere umano, di lavorare affinché il sapere tacito venga tradotto nella dimensione esplicita, propria dei sistemi linguistici. Tale possibilità, tuttavia, come ho già detto, vale soltanto in linea di principio; di fatto, le cose stanno diversamente: se così non fosse, infatti, potremmo porre la scienza sullo stesso piano dell’esperienza religiosa e ricostruire, in maniera logicamente coerente, i passi della
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fede. Come abbiamo visto, invece, prendendo in rassegna alcune questioni interne alla filosofia analitica della religione, quando il pensiero logico-razionale comincia ad addentrarsi nel campo della fede religiosa, inevitabilmente si trova a fare i conti con quel mistero che avvolge l’intima esperienza della fede. Le argomentazioni logiche non bastano per descrivere le caratteristiche di un credo che s’incarna nell’esistenza del singolo e diviene pratica di vita. Arrivata a un certo punto, la ragione sente di dover lasciare spazio ad altro, senza, tuttavia, rinunciare a portare avanti il proprio lavoro, attraverso i mezzi che ha a disposizione. Il pensiero razionale continua così a svolgere il suo compito, nella consapevolezza che esistono delle linee di confine che circoscrivono il proprio ambito, aprendolo, tuttavia, a esperienze di altra natura, sulle quali la ragione non è chiamata a esercitare il proprio controllo, ma che costituiscono, in maniera indiretta, un’essenziale fonte di arricchimento per la sfera razionale del pensiero. Stando alla teoria della conoscenza personale polanyiana, la fede entra, a buon diritto, a far parte della ricerca scientifica, o meglio possiamo riconoscere come la capacità umana di credere non abbia mai smesso di occupare un ruolo centrale nella scienza, nonostante la filosofia critica occidentale se ne sia dimenticata. L’esigenza polanyiana di superare il criticismo, a favore di una visione più ampia del concetto di razionalità, nasce proprio dalla volontà di rivalutare ogni aspetto della persona, mostrando un nesso inscindibile tra la sfera razionale e la sfera del credere. Se, dunque, da un lato, la fede è nella scienza, fino a che punto possiamo far rientrare, dall’altro, la scienza nella fede? La riflessione sui possibili strumenti che la logica avrebbe a disposizione per trattare il tema della credenza religiosa, ci ha posto di fronte a un ulteriore problema, quello del dialogo interculturale e interreligioso. Se la ragione possedesse i mezzi per smascherare i complessi meccanismi del credere, si potrebbe arrivare a ipotizzare un dialogo fra culture e religioni differenti, sulla base di argomentazioni razionali condivise. Ma questo è realmente possibile? Una ricostruzione razionale delle diverse fedi religiose ci aiuterebbe certamente a comprendere meglio il punto di vista dell’altro. Ma una comprensione dell’altro, sul piano del pensiero logico-razionale, può costituire la base del dialogo e della relazione? Oppure è necessario rivalutare, al di là della dimensione linguistica, la sfera del non-detto, nel quale si radica l’intera esistenza dell’essere personale? La visione polanyiana di un universo inteso come luogo d’incontro tra “elementi incompatibili” può, a mio avviso, costituire non tanto una risposta a simili
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questioni, quanto un tentativo di rileggere la relazione con l’altro, attraverso un approccio alternativo. Non si tratta di ricercare gli elementi che accomunano una cultura all’altra, al fine di creare un piano argomentativo condivisibile; o meglio, il pensiero logico-razionale non deve rinunciare al compito di ricercare i presupposti razionali del dialogo, ma se, da un lato, la ragione è chiamata a continuare il suo lavoro, dall’altro, la persona, intesa come unità inscindibile di corpo-mente, è costantemente chiamata a ricercare un canale dialogico alternativo, guidata dalla consapevolezza che lo scarto tra la mia cultura e quella dell’altro rimane ineliminabile. Se riconosciamo, tuttavia, la presenza di una verità personale che crea legame nella scissione, quello scarto diviene una ricchezza, diviene ciò che, in senso trascendentale, ci rende capaci di ospitare la diversità, nella fiduciosa certezza che esiste un legame originario tra persone, in grado di assumersi il rischio della fede.
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Conclusione
L’interrogativo da cui prende le mosse la mia ricerca, vale a dire la domanda sui possibili aspetti ragionevoli o razionali, rintracciabili nell’ambito della fede religiosa, scaturisce dalle riflessioni polanyiane sulla scienza. Per questo, la prima parte del lavoro ha preso in esame i tre aspetti centrali dell’epistemologia polanyiana: la componente tacita della conoscenza, la conoscenza come immedesimazione e la comunità scientifica presa a modello di una società libera. A partire, infatti, dalla teoria del sapere personale, secondo la quale le nostre capacità espressive sono radicate su un fondo di nozioni tacite che determinano e guidano il nostro modo di rapportarci al mondo, è emersa la possibilità di un incontro tra scienza e fede religiosa. In particolare, l’analisi dei meccanismi conoscitivi che s’intrecciano all’ambito dell’agire umano mi ha portato, in un primo momento, ad approfondire il ruolo della nozione agostiniana di fede, all’interno del pensiero polanyiano. Il discorso agostiniano sulla fede è stato ripreso nell’epistemologia polanyiana al fine di mostrare “un’innegabile solidarietà che lega la scienza alle altre provincie della cultura” (Polanyi 1958, p. 249). Se, infatti, ogni tentativo appassionato di ricercare il vero costituisce un’esperienza unica e irripetibile della realtà, la scienza non può essere isolata dall’arte, dalla moralità, dal diritto e dalla religione, ma i confini tra una disciplina e l’altra indicano il punto nel quale la mente umana viene maggiormente sollecitata ad uscire dai propri schemi per incontrare ciò che è altro da sé. Attraverso l’esigenza agostiniana di riscoprire la fede al di sotto dei procedimenti razionali, l’atto del credere esce da un ambito psicologico meramente privato, per diventare un impegno nei confronti della realtà. Le nostre parole, i nostri gesti, il nostro stesso essere corporeo si trasformano in mezzi attraverso i quali la verità tenta di venire alla luce. Da questo punto di vista, il confronto incessante con l’altro, all’interno di un particolare contesto sociale, si rivela indispensabile al fine di ricercare quella verità che è da sempre dentro di noi:
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A che altro aspiriamo – scrive Sant’Agostino in De fide et symbolo – se non a trasferire la nostra stessa anima, se fosse possibile, nell’anima di chi ascolta perché la conosca e la osservi bene, cioè a far sì che pur rimanendo in noi stessi e senza distaccarci da noi, tuttavia forniamo un indizio tale per cui l’altro faccia la nostra conoscenza […] ? Facciamo ciò adoperandoci con le parole, con il suono stesso della voce, con l’espressione del volto, con i gesti del corpo; sono tanti, infatti, gli espedienti ai quali ricorriamo quando desideriamo mostrare ciò che è dentro di noi.1
Qui sono particolarmente importanti le parole indizio ed espedienti, parole che ci permettono di cogliere il nesso fra la teoria della conoscenza personale polanyiana e alcune questioni di chiara derivazione agostiniana. I termini appartenenti a un determinato sistema linguistico, infatti, da un lato sono utili a veicolare la verità, in quanto indizi di ciò che si muove dentro noi stessi in maniera disordinata e confusa; dall’altro, tuttavia, le parole, accompagnate dai gesti corporei, non sono altro che espedienti, piccoli stratagemmi ai quali ricorriamo per portare a termine un compito molto più grande di noi, un compito fondamentalmente irrealizzabile. Tuttavia, l’essere umano, costantemente attratto dalla verità, non può rinunciare al tentativo di ricercare il vero, attraverso il dialogo con l’altro. Anche quella che Polanyi chiama conoscenza esplicita, allora, può essere letta come indizio ed espediente: indizio di un sapere tacito che ci lega inconsapevolmente gli uni agli altri, ed unico espediente attraverso il quale la persona umana può tentare di entrare in relazione con l’altro, attingendo così a una verità, che assume i caratteri della relazione. La filosofia polanyiana può essere riletta come una rinascita del pensiero agostiniano (cfr. Vinti 2002, p. 119), il quale viene rielaborato in un’ottica epistemologica, del tutto nuova ed originale: il valore della fede, intesa come il tentativo di affidarsi all’altro senza perdersi nell’altro, viene riscoperto da Polanyi in quanto nucleo caratterizzante la persona umana, una persona da sempre inserita in un preciso contesto sociale e culturale. I coefficienti taciti del sapere finiscono così per coincidere con i coefficienti civili, poiché conoscere, dal punto di vista polanyiano, vuol dire sempre inserirsi in una comunità e condividere con essa una serie di valori (cfr. Polanyi 1958, pp. 350-355). La fiducia nella realtà diviene così la fiducia nei confronti degli altri: ciascun individuo, infatti, attraverso il dialogo e la condivisione può riscoprire quelli che Polanyi definisce 1
Agostino, De fide et symbolo, 3, 4; tr. it., Città Nuova Editrice, Roma, 1995, p. 259..
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i fini ultimi della società, capaci di orientare l’esistenza umana verso la dimensione divina. La coincidenza tra coefficienti taciti e coefficienti civili, quindi, non chiude la fede all’interno di un preciso contesto socio-culturale, ma ci permette di valorizzare l’appartenenza culturale di ciascun individuo, per trasformarla nel punto di partenza di ogni ricerca appassionata del vero. Se, dunque, nella prima parte del lavoro ho cercato di entrare nell’ottica polanyiana, descrivendo i caratteri di una conoscenza personale, ma mai soggettiva, che attraversa ogni forma di sapere e che ci permette di riscoprire la fede nella scienza, nella seconda parte ho tentato di approfondire la nozione stessa di fede, attraverso il confronto con un autore, Thomas Kuhn, che sotto alcuni aspetti è molto vicino a Polanyi. Toccare le tematiche centrali del pensiero kuhniano, infatti, mi ha permesso di accostare la nozione di fede che emerge da La struttura delle rivoluzioni scientifiche, a quell’atto di fiducioso abbandono attraverso il quale Polanyi fonda il sapere razionale. Tuttavia, il tema dell’incommensurabilità fra paradigmi e la sua evoluzione, a partire proprio da La struttura, mi hanno portato a scindere i due autori e a individuare due possibili percorsi. In un primo momento, ho cercato di mostrare come il concetto d’incommensurabilità rimanga sempre al centro dell’epistemologia kuhniana, nonostante l’abbandono, negli ultimi scritti, della metafora della Gestalt, a favore del concetto di traduzione. Le stesse difficoltà o contraddizioni presenti ne La struttura si ritrovano, infatti, negli scritti più recenti. Al centro del pensiero kuhniano rimane la tesi di una “conversione” finale, momento inspiegabile razionalmente, ma necessario per compiere il passaggio verso un nuovo modo di vedere gli oggetti del mondo. Dopo la “conversione” è come se lo scienziato guardasse la realtà con occhi diversi, cogliendo aspetti nuovi e impensabili nell’ottica del vecchio paradigma; allo stesso modo l’individuo intento a tradurre un testo apparentemente indecifrabile “si accorge che ha avuto luogo la transizione, che egli è scivolato nel nuovo linguaggio senza aver preso nessuna decisione. [...] Intellettualmente una simile persona ha fatto la sua scelta, ma la conversione [...] gli sfugge” (Kuhn 1962, pp. 244-245). A questo punto lo scienziato e il traduttore potranno rispettivamente usare le nuove teorie, e comprendere il lessico prima d’ora sconosciuto, come fa “uno straniero in un ambiente straniero” (Kuhn 1962, p. 245); solo col tempo e attraverso un particolare percorso formativo, le novità iniziali, viste soltanto da pochi, entreranno a far parte della comune “normalità”.
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L’esperienza della “conversione scientifica” pone una serie di questioni critiche che sotto alcuni aspetti avvicinano il pensiero kuhniano all’epistemologia di Polanyi. L’autore di Personal Knowledge, infatti, al pari di Kuhn, descrivendo il passaggio da una teoria all’altra come un atto di conversione può essere accusato di riprendere, inconsapevolmente, la tradizionale separazione, neopositivistica prima e popperiana poi, fra logica e psicologia della ricerca, separazione rifiutata, in modo esplicito, da entrambi gli autori (cfr. Buzzoni 2004, pp. 75-82). Ammettere la presenza di abilità pre-verbali al di sotto del sapere razionale, come fa Polanyi, o negare in linea di principio la possibilità di esplicitare le regole che hanno guidato lo scienziato verso una particolare scoperta, come ha fatto Kuhn in tutte le sue opere, “significa presupporre implicitamente un qualche atto irrazionale del tutto simile a quello presupposto dalla dicotomia neopositivistica e popperiana fra contesto della scoperta e contesto della giustificazione” (Buzzoni 2004, p. 77). Da questo punto di vista, allora, Polanyi scindendo gli aspetti psicologici della scoperta dagli aspetti oggettivi ed empiricamente verificabili, finirebbe per ignorare la stretta relazione fra il momento teorico e quello pratico-operativo della ricerca scientifica; ma soprattutto, in questo modo, egli distruggerebbe i presupposti necessari allo sviluppo di una conoscenza personale, in cui il soggetto, sempre considerato all’interno di una struttura fiduciaria, entra, per mezzo delle sue abilità, all’interno dell’oggetto conosciuto. Il problema, a mio avviso, potrebbe riguardare le diverse modalità in cui Polanyi descrive i meccanismi del sapere, all’interno di Personal Knowledge: per un verso, infatti, vi sono certamente alcuni passi in cui l’autore descrive la scoperta scientifica come un “mutamento irrevocabile”, facendo emergere quel fondo indefinito di abilità che non è concepibile nell’ambito del sapere scientifico. Per un altro verso, tuttavia, in molte parti2, Polanyi non parla tanto dell’impossibilità, quanto piuttosto di una difficoltà di tradurre il sapere tacito in espressioni linguistiche, e la natura di questa difficoltà può essere compresa soltanto tenendo presente la dialettica fra gli elementi sussidiari e focali del conoscere. In questo modo, le abilità non appaiono come qualcosa d’inspiegabile e inaccessibile, ma come aspetti personali di cui il soggetto è consapevole solamente in maniera sussidiaria o indiretta. Il sapere tacito delle abilità finisce così per costituire il fondo comune di tutta la conoscenza, definita da Polanyi 2
Mi riferisco, in particolare, al v capitolo di Personal Knowledge, dedicato alle abilità e alla spiegazione della dialettica fra sussidiario e focale.
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come un processo unitario e personale: l’uomo, situato in un determinato ambiente socio-culturale, e impegnato nel tentativo di conoscere, cerca sempre di stabilire un contatto autentico con la realtà, e lo fa proprio grazie ad abilità che sono state apprese attraverso l’educazione, e che, quindi, non possono essere considerate principi innati e inspiegabili3. In quest’ottica, fede religiosa e scienza non sono più in contrapposizione, ma risultano profondamente legate dal credere in un’unica realtà, che si rivela in modalità sempre nuove. La scienza e la religione, ovviamente, impegnano l’essere umano su piani diversi e attraverso strumenti molto differenti; tuttavia, nel pensiero di Polanyi, è sempre possibile rintracciare una continuità fra i due ambiti, entrambi legati alla fede in una realtà che non dipende da noi. Tenendo presente questo legame tra scienza e fede, tuttavia, emerge un altro problema: Polanyi, infatti, sembrerebbe far valere la possibilità, in linea di principio, di riguadagnare a livello consapevole gli aspetti taciti del sapere, non soltanto per la conoscenza empirica, ma per ogni tipo di esperienza conoscitiva. Ciò determinerebbe a sua volta la possibilità, da parte della ragione, di accedere all’ambito della fede religiosa, attraverso l’utilizzo di particolari strumenti. A mio avviso, dunque, questa continuità fra scienza e fede descritta da Polanyi, va accettata soltanto entro certi limiti, al fine di riflettere sui possibili mezzi che il pensiero razionale avrebbe a disposizione per guardare al di là dei propri confini, verso il mistero di Dio. Il confronto fra Polanyi e Kuhn mi ha permesso, quindi, di ritornare, in un secondo momento, sul problema del rapporto scienza-fede. Nell’ottica polanyiana esiste la consapevolezza di una scienza che ha i suoi limiti, in quanto attività umana, ma non esiste il concetto di paradigma scientifico, strettamente connesso alla nozione di incommensurabilità. Il filo conduttore di tutto il pensiero polanyiano resta l’idea di una realtà che chiama costantemente l’essere umano all’impegno e alla ricerca. Sia per Kuhn che per Polanyi, le leggi scientifiche descrivono il mondo attraverso concetti storicamente contingenti e quindi soggetti a cambiamento; tuttavia, mentre per il primo un simile argomento determina la negazione della teoria della verità come corrispondenza, dal punto di vista polanyiano la contingenza e la necessità dei concetti elaboranti dalla persona umana, intesa come 3
Tali questioni vengono approfondite nella seconda parte di questo lavoro. Mi riferisco in particolare al II capitolo intitolato “Kuhn e Polanyi: i possibili problemi che comporta la dimensione della fede in ambito epistemologico”.
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unità inscindibile di mente-corpo, costituiscono i lati opposti di una stessa medaglia. Se non teniamo presente il polo oggettivo della conoscenza personale non riusciamo neanche a scorgere la possibilità di tenere insieme due esperienze di verità apparentemente molto distanti tra loro, come la scienza e la religione. La verità che spinge l’essere umano a uscire da se stesso, a mettersi in movimento verso mete sconosciute, è una sola, ma chiede alla persona di manifestarsi attraverso strumenti e modalità diverse; ciò che conta è non perdere mai di vista quell’orizzonte comune che spinge ciascun individuo alla ricerca e all’interrogazione. Il discorso polanyiano sulla scienza si sviluppa, quindi, su un piano differente rispetto a quello kuhniano: se il contesto e i presupposti dai quali hanno inizio le ricerche di entrambi gli autori sono gli stessi, le conclusioni verso cui tendono le due rispettive posizioni ci conducono verso strade differenti. Lo studio polanyiano dei meccanismi conoscitivi e l’idea di una fede, intesa come risposta personale al richiamo di una realtà oggettiva, alla quale non è possibile rinunciare, ci spingono, infatti, ai confini dell’epistemologia, dando vita a una serie d’interrogativi riguardanti l’origine ultima dell’esistenza umana e di tutto il creato. Il concetto kuhniano di una fede, relegata all’interno di un particolare paradigma, e la nozione d’incommensurabilità tra sistemi scientifici, sociali e linguistici diversi ci portano, invece, nella direzione di un’epistemologia sterile, che rimane costantemente chiusa su se stessa. Se dunque Polanyi si limita a mostrare il ruolo del credere nel conoscere, aprendo la relazione uomo-mondo a un terzo polo, coincidente con un Dio lontano ma allo stesso tempo vicino al cuore dell’uomo, ho ritenuto utile provare a fare un passo avanti, interrogandomi sui mezzi che la conoscenza razionale avrebbe a disposizione, per accedere all’esperienza della fede, rimanendo tuttavia all’interno di un ambito epistemologico. A tale proposito, ho pensato che la filosofia analitica della religione potesse fornire una serie di strumenti più o meno utili ai fini della nostra ricerca, permettendoci di rileggere il rapporto tra il pensiero razionale e l’ambito della credenza religiosa, da un punto di vista alternativo. Il mio tentativo è stato quello di entrare, in un primo momento nelle questioni relative alla filosofia analitica dell’esperienza religiosa, per poi uscirne, provando a ripensare un possibile dialogo tra le due differenti posizioni di Kuhn e Polanyi e la stessa filosofia analitica della religione. Da una parte, infatti, credo che il concetto kuhniano
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d’incommensurabilità possa condurci, rimanendo all’interno della filosofia analitica della religione, nella direzione del cosiddetto fideismo wittgensteinano, secondo il quale ogni discorso teologico o religioso risulta comprensibile soltanto da chi vive all’interno di un ambito religioso. L’altro resta inserito in un mondo che non è il mio e il riconoscimento di tale diversità, in questo caso, non apre una possibile via al dialogo, ma tende ancora di più a chiudere ciascuno nelle proprie convinzioni, nella propria piccola realtà. Se esiste uno scacco tra culture, questo non può essere colmato e per quanto ci si possa impegnare l’incontro con il diverso non sarà mai autentico, ma piuttosto superficiale e privo di contenuti. Di fronte a una simile conclusione mi sono, allora, chiesta se ci fosse un’alternativa, ovvero se, rimanendo all’interno del pensiero analitico, venisse prospettata la possibilità di accedere razionalmente alla credenza religiosa,
senza
tuttavia
cancellare
ciò
che
rende
la
fede
un’esperienza
straordinariamente emozionale. Seguendo allora l’interpretazione di M. Micheletti, ho dedicato l’ultimo paragrafo della seconda parte, al pensiero filosofico di J. Wisdom, in particolare alla sua proposta d’intendere la razionalità, non soltanto come il tentativo di elaborare enunciati intellegibili e empiricamente verificabili, ma anche come riflessione sull’esperienza comune. La conoscenza riflessiva di Wisdom che muta il nostro sguardo sul mondo, permettendoci di contemplare razionalmente possibilità diverse, potrebbe essere, sotto alcuni aspetti, paragonata alla conoscenza personale polanyiana, attraverso la quale noi tentiamo di “entrare” nell’oggetto, pur rimanendo consapevoli di non poter mai diventare l’oggetto. Senza dubbio, l’intento di Polanyi e tutto il suo percorso di ricerca sono molto distanti dal contesto in cui si trovano a lavorare i filosofi analitici come Wisdom, i quali cercano di giustificare lo status logico della credenza religiosa, rintracciando nella fede una serie di criteri universalmente validi. Tuttavia la conclusione alla quale si giunge è, a mio avviso, molto simile: esiste, al centro dell’esperienza religiosa un nucleo oscuro, un mistero profondo che è essenziale alla fede e che distingue il rapporto uomo-Dio da qualsiasi altra relazione che l’essere umano può vivere, all’interno del proprio ambiente socio-culturale. Ciò, tuttavia, non impedisce al pensiero logico di farsi strada in un ambito che rimane comunque distante da esso. La ragione, a un certo punto, deve avere l’umiltà di mettersi da parte per lasciare spazio ad un’esperienza nuova, che non coincide con la mera negazione della razionalità, ma, in un certo senso si riappropria del razionale, per viverlo in maniera
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rinnovata. E la fonte della novità è proprio quel mistero insito nella realtà che ci porta a ricominciare sempre da capo e ci permette di essere persone, nel senso polanyiano del termine. Arriviamo così alla terza parte del lavoro, costituita da un primo capitolo nel quale viene approfondito il tema del rapporto fra la conoscenza personale e l’immagine di un universo suddiviso in livelli gerarchici, al fine di mostrare come simili tematiche aprano l’epistemologia polanyiana ai temi centrali del Cristianesimo. Tali riflessioni, in un secondo momento, mi hanno permesso di prendere in esame alcuni testi della letteratura secondaria, che tende spesso ad utilizzare il pensiero polanyiano con lo scopo di chiarire alcune questioni teologiche, a volte anche troppo lontane dall’autore stesso. Tuttavia, il fine di questa terza parte non è stato semplicemente quello di contestualizzare la teoria della conoscenza personale all’interno di un ambito teologico (ciò a cui si è limitata la maggior parte della letteratura critica). Dopo aver chiarito in che modo ci si possa servire del pensiero polanyiano per affrontare il problema della relazione tra Dio e il mondo o la complessa questione della Trinità, infatti, ho cercato, nel secondo capitolo, d’illuminare la posizione di Polanyi secondo una diversa prospettiva che non si limiti alla religione cristiana, ma riguardi il rapporto tra realtà religiose e culturali differenti. A tal fine è stata decisiva una rilettura della teoria polanyiana del linguaggio. Il fatto che la filosofia polanyiana venga per lo più considerata come una filosofia di supporto al discorso teologico può farci dimenticare che le riflessioni polanyiane sulla religione sono il risultato di una precisa teoria epistemologica, fondata sulla riscoperta della persona umana. Per questo ho ritenuto necessario affrontare il problema del rapporto scienza-fede, puntando l’attenzione sul primo termine della relazione, ovvero sulla scienza e sui meccanismi che rendono possibile il suo sviluppo. In particolare, nell’ultimo capitolo, sono partita dalla proposta polanyiana di paragonare le teorie scientifiche al linguaggio verbale: più volte Polanyi, in Personal Knowledge, sottolinea quest’affinità tra le teorie scientifiche e le parole, un’affinità che emerge osservando il rapporto con la realtà alla quale entrambe si riferiscono. L’analisi della teoria linguistica ha fatto emergere con più chiarezza i caratteri della persona umana e proprio a partire dalla persona umana ho, in ultimo, riconsiderato il rapporto scienza-fede: in maniera più specifica, interrogandomi sulle modalità attraverso cui la filosofia possa realizzare
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un’analisi trascendentale delle possibilità della fede, sono giunta al problema del rapporto tra realtà culturali differenti. A mio avviso, l’elemento da sottolineare, all’interno della teoria linguistica polanyiana, è la capacità che hanno le parole, appartenenti a un preciso sistema linguistico, di essere modificate nel loro significato; ciò, tuttavia, non avviene poiché esse sono dei meri segni convenzionali, ma dipende dal modo sempre rinnovato con il quale la persona si rapporta alla realtà. Il linguaggio è della persona e per la persona e in quanto tale è soggetto a cambiamento. Il cuore dell’atto verbale è sempre l’essere personale che vive immerso nella propria realtà linguistica. L’essere umano, dimorando nell’oggetto del conoscere, dimora anche nelle parole che veicolano il conoscere stesso; l’autorità e il senso delle parole pronunciate derivano proprio da questo dimorare della persona nel linguaggio. La lingua e i gesti corporei, quindi, hanno la stessa radice, che corrisponde al nostro essere personale. La contingenza e la necessità degli atti verbali s’incontrano nella complessità della persona, considerata al vertice del processo evolutivo ma, al contempo, irriducibile alla somma dei diversi livelli ontologici che la costituiscono. Come la persona è determinata da una serie di caratteri chimico-fisici, sociali e culturali, senza risolversi in essi, così anche l’atto verbale, da un lato, si appoggia su precise regole sintattiche e grammaticali, assumendo un certo significato soltanto in un contesto predefinito, ma dall’altro lato le frasi che pronunciamo mantengono sempre un carattere di assoluta novità, poiché la loro origine risiede nell’essere personale, inteso come unità di corpo-mente. A ragione, allora, W. Poteat può inserire il pensiero polanyiano all’interno di una logica diversa da quella tradizionale (cfr. Poteat 1985), una logica in cui prevale l’ascolto, piuttosto che la visione distaccata dell’oggetto. Ma, a mio avviso, accanto alla logica dell’ascolto, potremmo ripensare le teorie polanyiane del conoscere e dell’essere all’interno di un’ulteriore logica, che ho definito con l’espressione metalogica. Se, dal punto di vista ontologico, i livelli superiori dell’essere poggiano su livelli inferiori senza risolversi in essi, se le condizioni logiche della nostra conoscenza sono apprese tacitamente, se la scienza e la matematica poggiano su una struttura fiduciaria, coincidente con il nostro corpo-mente e se, infine, contingenza e necessità s’intrecciano inevitabilmente nella realtà dell’essere personale, possiamo, in maniera legittima, definire la logica polanyiana come una meta-logica, ovvero come una logica che individua al di là delle categorie logico-razionali il proprio campo di applicazione. Allo
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stesso modo, l’epistemologia è costretta a interrogarsi sui propri limiti, o meglio su quelle linee di confine che definiscono il proprio ambito, ma che, al contempo, la pongono
in
relazione
con
numerosi
aspetti
della vita umana, considerati
tradizionalmente estranei alla scienza. Nell’idea di un’epistemologia che ha bisogno di guardare al di là di sé, per ritrovare la propria ragion d’essere, è già presente l’esigenza di un’apertura o di un dialogo tra esperienze e realtà differenti. Per questo, nell’ultimo paragrafo, ho provato a ripensare l’alternanza tra aspetti incompatibili, come la contingenza e la necessità, in riferimento alla persona umana, per interrogarmi su quel residuo ineliminabile che esiste tra culture diverse. È possibile attribuire a tale residuo una certa necessità, che in un senso ci spinge a dialogare con l’altro, ma al contempo ci chiede di tradursi in situazioni contingenti, grazie alle quali una cultura rimane diversa dall’altra? Forse l’esigenza polanyiana di mostrare che il mondo ha un significato, in quanto terreno di incontro tra persone, può essere letta come un tentativo, non tanto di rispondere a una simile domanda, quanto di portare avanti, instancabilmente, il proprio cammino di ricerca, nella consapevolezza che esiste una possibilità d’incontro, non soltanto tra discipline apparentemente molto lontane fra loro, ma anche fra realtà personali che sembrano scisse da un solco invalicabile. Considerando gli scontri ideologici tra diverse realtà culturali e religiose, l’idea di una verità personale, alla quale ciascun individuo è chiamato a partecipare, può rappresentare un piccolo passo verso il dialogo e l’ascolto reciproci. Condividere con l’altro una verità personale, e non soggettiva, vuol dire aprirsi all’altro senza perdere di vista la propria identità; sulla base di un simile modello, potremmo pensare a una ragione che non cerchi di entrare in maniera troppo forzata negli ambiti della fede religiosa, ma che venga spinta a rinnovarsi e a rimettersi in gioco, di fronte a un mistero che non può essere sciolto, poiché, se lo fosse, la vita stessa della persona umana scivolerebbe nella noia e nel non-senso. Si può pensare a un criterio ultimo, valido in senso trascendentale, non coincidente con le singole tradizioni, sulla base del quale religioni e culture differenti possano dialogare. Tale criterio, pur non coincidendo con nessuna specifica fede o cultura, può essere difeso e argomentato solo a partire dalle singole tradizioni (cfr. Buzzoni 2008, pp.135-138). Pur difendendo la propria prospettiva, l’individuo è spinto ad aprirsi verso le ragioni del proprio interlocutore, poiché nonostante l’evidente incompatibilità tra il nostro mondo e quello dell’altro, non
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possiamo fare a meno di riconoscere che esiste un piano comune sul quale argomentare, un piano comune che coincide con un senso di giustizia, verità e rispetto, sul quale si fonda, in senso trascendentale, la relazione dialogica. Ciò, tuttavia, non ci permette di eliminare le differenze o d’ipotizzare un’utopica riconciliazione degli opposti, ma la consapevolezza che esiste un criterio di verità sul quale porre le condizioni di un confronto costruttivo costituisce il primo passo per incominciare, utilizzando una terminologia polanyiana, a vedere l’altro come un prolungamento di noi stessi, del nostro essere corporeo-mentale. Tale criterio può essere descritto come “un’istanza obiettiva e inesauribile […], un «luogo», […] una dimensione di trascendenza in cui alienazione completa e la completa realizzazione di sé coincidono” (Buzzoni 2008, p. 138). Ma in quale altro luogo l’alienazione completa e la completa realizzazione di sé coincidono, se non nella persona umana? Nella riscoperta della persona umana come unità relazionale originaria, dunque, si può intravedere la possibilità di un incontro tra scienza e fede, al fine di gettare le basi per un dialogo interculturale e interreligioso. Come abbiamo già sottolineato, prendere a modello la verità personale polanyiana non significa tentare di eliminare le differenze, mirando a una riconciliazione degli opposti, ma vuol dire impegnarsi, citando un’espressione ricoeuriana, a tradurre l’intraducibile, cercando di dare forma a quel senso di verità e giustizia che ci spinge a trovare un punto d’incontro con l’altro, nonostante la diversità. Nessuno può sottrarsi alla “sfida dello straniero” (Ricoeur 2004, p. 42), o meglio, ogni persona, in quanto parte di una comunità, deve essere messa nelle condizioni di poter rispondere a una simile sfida. E il riconoscimento di una verità personale, che in senso polanyiano, crea legami mantenendo in vita la diversità, può costituire una possibile risposta. Il modello proposto dall’epistemologia polanyiana permette alla scienza di riscoprire la sua origine antropologica, il suo profondo legame con la persona, senza, tuttavia, scindere la ricerca scientifica dalla verità; l’esigenza di descrivere la realtà naturale, attraverso gli strumenti del sapere scientifico, viene alimentata da una seconda esigenza, altrettanto essenziale alla ricerca: l’esigenza di credere in quella verità che orienta l’esistenza umana e che, al di là di ogni ideologia, può assumere i caratteri di una verità personale, capace di far uscire l’uomo dall’isolamento, cui la ragione può portare se arriva ad assolutizzarsi. Se, dunque, l’interrogativo iniziale che mi ha spinto a
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ripercorrere la strada della conoscenza personale polanyiana riguarda i possibili strumenti che la ragione scientifica avrebbe a disposizione, per affrontare i temi della fede, giunti alle ultime pagine di questo lavoro, potremmo riconoscere, come presupposto di un dialogo tra scienza e fede, innanzitutto l’esigenza, da parte della ricerca scientifica, di non perdere mai di vista la propria radice antropologica. La scienza non può progredire se non aprendosi a un senso d’ulteriorità, che le permette di uscire da un piano puramente funzionale e al contempo le ricorda i suoi limiti. La ragione, dunque, possiede degli strumenti che le permettono di affrontare il tema della fede, ma forse ricercare una serie di argomentazioni razionali, sulla base delle quali si possa ipotizzare un dialogo tra culture, non basta a creare la relazione. Una ricostruzione razionale delle diverse fedi religiose ci aiuterebbe certamente a comprendere meglio il punto di vista dell’altro. Ma una comprensione dell’altro, sul piano del pensiero logico-razionale, può realmente costituire la base del dialogo e della relazione? Oppure è necessario rivalutare, al di là della dimensione linguistica, la sfera del non-detto, nel quale si radica l’intera esistenza dell’essere personale? Il non-detto o l’intraducibile, infatti, non coincidono con un deficit, ma con un eccesso di senso, che permette, in senso trascendentale, l’incontro con la diversità. Attraverso l’epistemologia polanyiana, la dialettica tra ricerca e verità, in Platone, e quella tra fede e ragione, in Agostino, vengono riprese all’interno di una relazione triadica, nel quale il terzo elemento è costituito dal soggetto conoscente (cfr. Vinti 2002, p. 119). Soltanto nella complessa realtà personale la fede e la ragione possono collaborare al fine d’incontrare l’altro; e in questo caso, il termine altro sta ad indicare l’oggetto della nostra attenzione, l’oggetto nei confronti del quale impegniamo non soltanto la nostra intelligenza, ma anche il nostro cuore. La realtà oggettuale assume così un carattere dinamico che spinge il soggetto a non chiudere la propria ricerca in risposte definitive; l’esperienza del conoscere, all’interno di qualsiasi ambito disciplinare, diventa una relazione del tipo io-Tu (cfr. Polanyi, Prosch 1975, p. 241), nella quale l’oggetto vivo di fronte a me, m’invita a riconsiderare in maniera sempre rinnovata, il mio rapporto personale con il mondo. In tal senso, la nozione polanyiana di conoscenza personale, legata alla visione di un universo inteso come luogo d’incontro tra “elementi incompatibili”, può, a mio avviso, costituire un tentativo di rileggere la relazione con l’altro, attraverso un approccio alternativo. Non si tratta di ricercare gli
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elementi che accomunano una cultura all’altra, al fine di creare un piano argomentativo condivisibile; o meglio, il pensiero logico-razionale non deve rinunciare al compito di ricercare i presupposti razionali del dialogo, ma se, da un lato, la ragione è chiamata a continuare il suo lavoro, dall’altro, la persona, intesa come unità inscindibile di corpomente, è costantemente chiamata a ricercare un canale dialogico alternativo, guidata dalla consapevolezza che lo scarto tra la mia cultura e quella dell’altro rimane ineliminabile. Se riconosciamo, tuttavia, la presenza di una verità personale che crea legame nella scissione, quello scarto diviene una ricchezza, diviene ciò che, in senso trascendentale, ci rende capaci di ospitare la diversità, nella fiduciosa certezza che esiste un legame originario tra persone, in grado di assumersi il rischio della fede.
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Riferimenti bibliografici
Opere di M. Polanyi
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