Una lunga
e nobile storia
Dalla seconda metà del Seicento agli inizi del Novecento la Calabria ha scritto le pagine fondamentali della storia della liquirizia di qualità
Il concio ducale di Corigliano oggi e in un’incisione del 1786
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uando oggi in Italia si parla di liquirizia, si parla di Calabria. La Calabria, tuttavia, non è stata una pioniera nella lavorazione e nel commercio di questo prodotto. Le fonti dell’antichità parlano anzitutto della Grecia e dell’attuale Turchia. Lo scrittore e naturalista romano del I secolo d.C. Plinio il Vecchio, riporta, nella sua «Naturalis Historia», che le radici provengono per lo più dalla Cilicia, una regione della costa meridionale della Turchia, e dal Ponto, sulla costa nord orientale turca affacciata sul mar Nero. Galeno, invece, medico greco del II secolo, loda sia la radice sia la preparazione che si realizza nell’isola di Creta. Anche nel Medioevo i commerci europei riguardano essenzialmente radici non italiane. Prevalgono quelle spagnole, in qualche caso quelle russe oppure, ancora una volta, le cretesi. La Calabria rimane estranea anche all’invenzione del preparato più classico, l’estratto solido, avvenuta probabilmente in Germania alla fine del Quattrocento e diffusasi già pochi decenni dopo in Spagna e in Aragona. Sembrerà strano ma nei quasi due secoli in cui si afferma e ar-
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riva a maturazione il fiorente mercato europeo dell’estratto, tra fine Quattrocento e fine Seicento, della Calabria e dell’Italia meridionale non troviamo quasi traccia.
Mediatori napoletani in Calabria alla ricerca di radici di qualità Nella seconda metà del Seicento, scocca finalmente la scintilla: gli intermediari napoletani, spinti dalle crescenti richieste dei loro clienti olandesi e inglesi, riescono a trovare alcuni imprenditori calabresi disposti a trasformare l’abbondante radice spontanea locale in estratto. Le fonti storiografiche parlano di inizi incerti e stentati: qualche imprenditore fallisce e in diversi casi l’estratto non risponde, per qualità e quantità, agli standard richiesti dal mercato nord europeo. Ma qualcosa è avvenuto: il guadagno, per chi produce bene, è alto e quando le cose funzionano la qualità dell’estratto risulta veramente eccellente. Così, dopo le incertezze degli inizi, dai primi anni del Settecento le liquirizie calabresi sfondano letteralmente i mercati di
riferimento, insieme ai protagonisti della grande avventura: i latifondisti dell’alto Jonio e le maestranze specializzate dei Casali di Cosenza.
I secoli d’oro Dopo un secolo di importazioni esclusivamente spagnole, tra il 1697 e il 1703 le dogane inglesi cominciano a registrare sistematicamente l’arrivo di liquirizie italiane e attorno al 1710 le carte dei duchi di Corigliano iniziano a fare riferimento a una propria produzione di estratto che diventerà in pochi anni talmente importante da richiedere l’ingaggio di un agente dedicato sulla piazza commerciale di Livorno. L’epoca di massima gloria delle liquirizie calabresi è comunque l’Ottocento, quando le quantità di radice e di estratto prodotte ed esportate aumentano progressivamente portandosi, nel caso dell’estratto, sulle 5-600 tonnellate annue accompagnate da un’universale attestazione di superiorità: gli estratti calabresi sono i più puri, quelli lavorati con maggior cura, quelli più gradevoli al palato e dotati delle migliori capacità curative. Questo prestigio, che nasce dalla pratica commerciale, dalla perizia dei mastri liquiriziai calabresi e da una materia prima di finissima qualità, si riflette immediatamente sui prezzi: nell’Inghilterra della seconda metà dell’Ottocento il prezzo dei prodotti italiani è un terzo più alto della media!
un estratto difeso strenuamente
La minaccia delle contraffazioni Un eloquente indicatore della fortuna degli estratti calabresi è dato, paradossalmente, dai tentativi di contraffazione. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento i duchi di Corigliano, i D’Alife possessori del marchio Solazzi, i Martucci di Rossano, i Pignatelli di Cerchia-
ra, i Barracco di Crotone, ma anche Case calabresi meno famose, si ritrovano a combattere una guerra estenuante e permanente contro produttori sia italiani, siciliani in particolare, sia stranieri, che cercano di vendere mediante ogni sorta di stratagemma estratti di qualità inferiore con marchi contraffatti o che imitano abilmente quelli originali. Il cilindretto di estratto, detto, in italiano «biglia», o stick in inglese, deve venire presto contrassegnato da un marchio di riconoscimento. Lo stemma del casato, un simbolo o, semplicemente, il nome del produttore, stampigliato su un’estremità del bastoncino funge da garanzia di origine del prodotto. Una vera e propria «origine protetta» ante litteram!
Le lotte intestine per l’accaparramento dei territori di produzione In effetti, in Calabria, l’estratto è sempre stato il centro dell’attività produttiva e commerciale. A differenza di altre regioni del Mediterraneo per lungo tempo la radice calabrese non è stata esportata: l’inizio del suo sfruttamento ha coinciso con la nascita di un’industria dell’estratto che ha avuto talmente tanto successo da riuscire non solo ad assorbire tutta la produzione di radice, ma anche a causare vere e proprie guerre commerciali per l’accaparramento dell’eccellente materia prima presente sul territorio. Già nel Settecento, produttori dinamici come gli Abenante di Rossano avevano sfruttato le proprie capacità commerciali e la propria ricchezza per acquistare terreni ricchi di radice, anche assai lontani come quelli di Monasterace, perché non volevano essere troppo condizionati dalla spietata
L’antico concio di Rossano come appariva all’inizio del Novecento e come si mostra oggi ai nostri occhi
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concorrenza sull’accaparramento delle risorse della Sibaritide e della foce del Crati.
L’esportazione della materia prima L’esportazione di radice calabrese è iniziata, e con grande successo, solo in seguito a una vera e propria catastrofe: le disavventure finanziarie dei duchi di Corigliano, a fine Ottocento, che posero fine alla prima e più prestigiosa azienda signorile di produzione di estratto in Calabria. La famiglia ducale, fermati i propri conci, continuò infatti a gestire l’estrazione di radice dai propri vastissimi possedimenti e trovò presto acquirenti non solo tra gli altri produttori locali, ma anche presso la grande corporazione anglo-americana McAndrews & Forbes, leader mondiale del settore.
le aziende storiche della produzione di estratto La fama della liquirizia calabrese nel mondo, tuttavia, non fu quella della radice, bensì quella dell’estratto. Furono molti, tra Seicento e Novecento, a cimentarsi nella sua produzione; diversi piccoli e medi produttori effimeri, durati solo per pochi anni; altri, invece, più longevi e organizzati. Se è esistita una gloria delle liquirizie calabresi, tuttavia, essa è dovuta principalmente a un pugno di grandi famiglie latifondiste: i Pignatelli a Cerchiara; i Saluzzo, i Compagna, i Solazzi e i D’Alife a Corigliano; Abenante, Martucci, Labonia e Amarelli a Rossano; i Barracco nel Crotonese; i Serra a Cassano; i Berlingieri a Policoro. Accanto a questi, attivi sin
dal Settecento, si sono aggiunti nell’Ottocento alcuni fortunati imprenditori «puri» come i Longo a San Lorenzo del Vallo e gli Zagarese a Rende. La longevità, l’efficienza e il prestigio internazionale di queste imprese furono determinati non solo alla capacità di sfruttare direttamente una materia prima tra le migliori del Mediterraneo, ma anche alla costante disponibilità di capitale e a un sistema aziendale articolato e integrato in imprese agricole e commerciali più ampie, dotato di notevoli infrastrutture e in grado di far ricorso a maestranze altamente specializzate.
IL FATTORE: ANIMA DELLa produzione La storia della produzione di estratto calabrese è sin dall’inizio, e lo sarà fino a metà Novecento, anche la storia di generazioni di lavoratori e di tecnici provenienti quasi tutti da un ristretto nucleo di piccoli paesi della Sila, i Casali di Cosenza. Per motivi a noi ignoti da qui sono sempre venute le squadre di scavatori di radice, i lavoranti semplici dei conci, i lavoranti specializzati e i fattori, una sorta di direttori tecnici che organizzavano tutta la produzione di estratto per conto dei proprietari. Era di fatto il fattore del concio l’anima della produzione, colui che reclutava e organizzava le squadre dei lavoranti, che consigliava il proprietario, che sovrintendeva alla qualità del prodotto, e che raccordava le varie fasi della produzione, dallo scavo alla commercializzazione. È stato grazie all’elevata professionalità di questi mastri liquirizai se gli estratti calabresi sono diventati famosi per l’incomparabile purezza e la piena rispondenza agli standard organoletti-
A San Lorenzo del Vallo sorgeva il concio dei Longo, una famiglia di imprenditori «puri», non appartenenti a casati di proprietari latifondisti. Questi imprenditori sono comparse nel settore della liquirizia nell’Ottocento. Alcune strutture sono state abbandonate e le attività dismesse, altre sono state riassorbite da nuove realtà come nel caso degli Zagarese di Rende oggi sul mercato con il marchio Nature Med srl
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ci ed estetici richiesti dagli esigenti mercati nordeuropei, e, soprattutto, se gli aristocratici calabresi hanno potuto accedere a questo redditizio mercato internazionale.
l’ultimo dopoguerra, il declino e la rinascita In epoche più recenti, gli anni che seguirono il Secondo dopoguerra, sembrano segnare un triste e irreversibile declino di questo complesso sistema produttivo. Nel giro di pochi decenni si verifica una vera e propria morìa di imprese storiche: i Martucci, i Barracco, i Longo, i D’Alife-Solazzi. Chi sopravvive, come Amarelli e Zagarese, sembra doverlo fare tra difficoltà crescenti. Pian piano persino la memoria di un’attività così caratterizzante, che per la provincia di Cosenza aveva a lungo rappresentato l’unica grande produzione manifatturiera accanto alla seta, si va perdendo. Gran parte dei conci storici, caduti in rovina o riutilizzati per altri scopi, compaiono ancora qua e là nelle campagne senza essere capaci di dire qualcosa della loro storia, non solo a chi vi passa davanti, ma anche a chi vi si addentra alla ricerca di qualche traccia del passato.
Le imprese che hanno scommesso sulla liquirizia calabrese interpretano anche nelle ricercate confezioni la storica tradizione del prodotto secondo le esigenze del consumatore contemporaneo
Nuova linfa per la liquirizia di Calabria La liquirizia, tuttavia, è una pianta tenace e quella calabrese sembra oggi voler riportare orgogliosamente alla luce il valore storico delle sue radici oltre che quello organolettico e commerciale. Grazie all’impegno di imprenditori che credono nelle potenzialità di questo prodotto regionale universalmente noto, e grazie all’accesso a sistemi di finanziamento pubblico, la rinascita della liquirizia calabrese, sia pure con diversi attori e nel contesto di un mercato profondamente trasformato, è ormai un dato di fatto. L’artigianato calabrese della liquirizia fa oggi leva sull’identità e sulla memoria storica di questo prodotto tipico come strumento di affermazione e di successo commerciale. A fianco di altre imprese storiche di fama intramontabile, come quella della famiglia Amarelli di Rossano, nel Castrovillarese è stata recuperata un’importante eredità storica, quella degli Zagarese di Rende, e ha preso vita da questa operazione un’impresa moderna e promettente, la Nature Med srl, che ha come caratteristica quella di utilizzare per i propri prodotti esclusivamente materia prima di origine calabrese. L’obiettivo di questa impresa è quello di riuscire a interpretare la storica tradizione della liquirizia secondo le particolari esigenze del consumatore contemporaneo, attento alla qualità, all’origine della materia prima e alla soste-
nibilità dei sistemi produttivi, con particolare simpatia per quelli che utilizzano i metodi di agricoltura biologica. Diverse aziende che escavano la radice hanno guardato con fiducia alla nascita di questa nuova realtà ed hanno sposato la proposta di un progetto di filiera che unisca sotto la stella della rivalutazione e dello sviluppo tutto il comparto produttivo. Grazie a questo progetto molti piccoli produttori che erano destinati a scomparire possono continuare a svolgere un’attività vecchia di generazioni, facendo pure esperimenti di innovazione tecnologica e commerciale che contribuirà certamente a dare nuovo lustro alla liquirizia calabrese nel mondo dei prodotti agroalimentari di qualità in Italia e nel mondo. Luigi Piccioni Dipartimento di economia e statistica Università della Calabria - Cosenza 2/2012 -
i conci, le antiche industrie calabresi della liquirizia Nella Calabria di fine Seicento l’estrazione di succo dalla radice di liquirizia trova un terreno già maturo, in quanto le nuove officine possono appoggiarsi a una tecnologia localmente molto diffusa: quella della produzione di olio d’oliva. I trappeti oleari, gli antichi frantoi, costituiscono infatti il modello di riferimento per organizzare i conci di liquirizia, le officine per l’estrazione succo. In entrambi i casi, la lavorazione della materia prima avviene attorno ad un unico edificio che ha al centro un torchio. Al torchio arrivano sia la pasta di olive che quella di liquirizia, entrambe ottenute dalla macinazione della materia prima. Tuttavia, mentre nel caso del trappeto il passaggio della pasta dal torchio costituisce la parte finale della lavorazione, quella da cui si ottiene l’olio, in quello della liquirizia è semplicemente un passaggio intermedio da cui si ottiene il succo da avviare alla bollitura. Nella produzione della liquirizia la bollitura rappresenta la fase cruciale e la più delicata da cui si ottiene, per l’evaporazione dell’acqua in eccesso, la pasta di liquirizia. In particolare, il succo viene fatto passare attraverso le conche e le conchette, superfici roventi dove avviene l’evaporazione dell’acqua e il conseguente addensamento del succo. Questa operazione si prolunga fino al punto di addensamento più idoneo per la lavorazione manuale della pasta e la confezione del prodotto finale. È in questa fase finale che diventa determinante la competenza delle maestranze e si decide della qualità del prodotto. Questa organizzazione del lavoro resta sostanzialmente immutata per tre secoli fino alla seconda metà del Novecento, quando vengono introdotti nei
conci alcuni macchinari che automatizzano e controllano buona parte della lavorazione. Tra il Seicento e il Novecento, in Calabria, come in tutto il Mezzogiorno, sorgono conci di dimensioni molto diverse. Si va dalle piccole capanne smontabili dei primi decenni del Settecento ai veri e propri stabilimenti degli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento dove possono essere impiegati fino a 100 lavoratori. La sequenza delle fasi e degli ambienti è però sempre la medesima: un ampio cortile nel quale vengono accatastate le radici, la legna da ardere e il legname per confezionare gli imballaggi; lo spazio interno, dove avvengono il taglio e lo sminuzzamento della radice; quello della molitura che trasforma le radici tagliuzzate in una pasta; quello del torchio che separa la parte solida dal succo di liquirizia; la zona della cottura del succo fino all’estrazione della pasta e, infine, i locali in cui le biglie – cioè le barrette cilindriche di estratto – vengono sagomate a mano e depositate in casse di legno per l’invio. Il paesaggio calabrese è punteggiato di conci dismessi che formano un importante patrimonio di archeologia industriale. Il solo concio storico ancora in funzione è quello degli Amarelli a Rossano. Gli altri, riconvertiti o diroccati, si stagliano ancora imponenti in molte località, con particolare interesse a Corigliano (concio ducale), Rossano (Martucci e Labonia), San Lorenzo del Vallo (Longo), Cerchiara (Pignatelli). L.P.
Una stampa di inizio Novecento mostra una veduta dell’antico concio Solazzi a Taranto. Nei conci potevano trovare impiego 100 lavoratori. Anima della produzione era il «fattore del concio» un ibrido tra il moderno direttore e il responsabile assicurazione della qualità. Organizzava i lavoranti, sovraintendeva alla qualità del prodotto e raccordava le fasi della lavorazione dallo scavo alla commercializzazione
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