Un recupero senza paragoni di Franco Maria Puddu
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L’incredibile tragedia che ha portato alla perdita della Costa Concordia è stato il trampolino di un vero miracolo di ingegneria
in dalla notte dei tempi, andare per mare, con bonaccia o tempesta, in pace e in guerra, per lavoro, dovere o diporto non è mai stato un compito facile; a volte divertente, spesso lucrativo, addirittura esaltante o indispensabile, ma mai facile. L’uomo, infatti, può disporre di vedette dall’occhio di falco, rematori eccellenti e nostromi di grande esperienza, di ottanti, sestanti, macchine a triplice espansione, motori diesel o reattori nucleari, telegrafi senza fili, casse e pinne antirollio, radar, sonar, GPS, eliche di manovra e dispositivi satellitari in grado di garantire, epoca per epoca, navigazioni sempre più agevoli e sicure, mentre il mare, il vero padrone di casa, dispone “solo” di se stesso e non fa altro che attendere. Spesso presuntuosi e inesperti si convincono di esserselo fatto amico. Errore: il mare non è amico di nessuno, può essere favorevole, calmo, allettante, ma nel giro di un minuto può mutare fisionomia e divenire un mostro urlante, primordiale e incontenibile. Basta un passo falso, una distrazione, una valutazione errata o anche solo troppo ottimistica e la tragedia si compie senza rimedio. Per averne un esempio non serve rivangare la vicenda del Titanic; basta ricordare un dramma poco noto, ma non per questo meno tragico e assai simile, avvenuto il 30 gennaio del 1959, un venerdì, quando un piccolo ma modernissimo piroscafo danese di collegamento tra la Svezia e la Groen-
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landia, lo Hans Hedtoft, rientrava a Copenhagen ultimando il suo viaggio inaugurale.
Il dramma del piccolo “Titanic” danese
Lungo 93 metri e con 2.900 tonnellate di stazza lorda, era stato progettato per navigare in quelle acque difficili; per questo aveva doppi fondi rinforzati, lo scafo diviso in sette robusti compartimenti stagni e prora e poppa corazzate con lamiere spesse, in alcuni punti, più di cinque centimetri, mezzi di salvataggio in abbondanza, una strumentazione radio e radar modernissima tanto che molti (ahinoi!) lo definirono “inaffondabile”. L’equipaggio era di 40 uomini e poteva trasportare, oltre al carico, 60 passeggeri, ma in quel viaggio inaugurale ne aveva solo 55, tra cui un parlamentare danese con alcuni politici e dei giornalisti. La stiva era colma di pesce congelato e di casse che contenevano tutti i registri parrocchiali della Groenlandia, un tesoro inestimabile perché costituiva l’unica memoria genealogica della grande isola, destinata ad essere archiviata in Danimarca. La navigazione era buona, il mare discreto e quando lo Hedtoft si inoltrò nel Mare di Svezia alla volta di Copenhagen, evidentemente nessuno fece eccessivo caso alle previsioni meteorologiche. A circa 35 miglia a sud di Capo Farewell, il punto più meridionale della Groenlandia, il tempo si stravolse di colpo: il cielo divenne bianco e, mentre un
Lo Hans Hedtoft fotografato in navigazione pochi giorni prima del suo tragico viaggio inaugurale; in apertura, i loghi delle due imprese che hanno dato origine al consorzio Titan - Micoperi
vento forza 12 e onde alte oltre i 10 metri rendevano ingovernabile la nave, una tempesta di neve, insieme all’aerosol di mare polverizzato e ghiacciato portato dal vento, fece scendere la visibilità a zero. Lo Hans Hedtoft, precipitando nell’avvallamento tra due onde, strisciò la poppa corazzata contro un modesto iceberg che tagliò le piastre di acciaio come un rasoio; la sala macchine era a poppa. Venne lanciato subito l’SOS con il punto nave al quale risposero due pescherecci lontani ore di navigazione; dopo circa un’ora la sala radio ritrasmise “L’acqua entra nella sala macchine”. I motori si fermarono, mancò la luce e i radiotelegrafisti attivarono gli elettrogeni di emergenza. Dopo un’altra ora: “La nave sta iniziando ad affondare di poppa” e, ancora un’ora dopo, un ultimo grido disperato: “Affondiamo lentamente, urge assistenza immediata. Ripetiamo, immediata!”, poi più niente. L’acqua era a 3°: chi cadde in mare soffrì di meno perché morì subito. Nove mesi dopo le onde deposero un salvagente con la scritta Hans Hedtoft sulla sassosa costa groenlandese; a tutt’oggi il relitto non è mai stato localizzato. La Hedtoft è stata l’ultima nave affondata da un iceberg con perdite umane, ma non è stata certo l’unica perdita, specie fra le navi passeggeri. Nello scorso secolo abbiamo avuto, tralasciando ovviamente gli eventi dei due conflitti mondiali, molti affondamenti di transatlantici, a iniziare dal Titanic nell’aprile del 1912, per proseguire con l’Empress of Ireland speronato nel maggio del 1914, il Lusitania, silurato ma affondato dall’esplosione del carico di armi di contrabbando che trasportava
nel maggio 1915, il Gorge Philippar incendiatosi nel viaggio inaugurale nel maggio 1932, l’Andrea Doria, speronato nel luglio 1956. Per fermarci ai grandi liner oceanici.
La crisi dei transatlantici Il lungo periodo di calma che seguì l’affondamento del Doria, non fu dovuto a mancanza di incidenti ma alla crisi nella quale precipitò il comparto della navigazione oceanica, dovuto all’innalzamento del prezzo dei combustibili, all’accanita concorrenza del trasporto aereo e al crollo del fenomeno delle emigrazioni di massa. Per parare questo grave colpo, le società armatrici iniziarono perciò, nell’ultimo decennio del 1900, a varare navi da crociera sempre più grandi che, all’occhio dei vecchi marinai, di navale hanno ben poco, essendo più che altro immani alberghi/casinò galleggianti. Il breve arco di vita del secolo attuale, in appena tredici anni ha registrato la perdita di ben due unità fra le maggiori esistenti al mondo nel loro settore: il sottomarino nucleare russo Kursk e una nave da crociera italiana, la Costa Concordia, due eventi che rimarranno sicuramente come pietre miliari nella storia dell’ingegneria navale, non per il loro specifico contesto, ma per le vicende che seguirono i loro affondamenti. Infatti per motivi ecologici e di sicurezza nazionale nel caso del sottomarino russo, e per evitare una tragedia da inquinamento nel caso della Concordia, è stato assolutamente indispensabile rimettere in galleggiamento i due scafi per recuperarli e poi
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Il grande sottomarino lanciamissili balistici nucleare Kursk in banchina presso la sua base di Severomorsk affondato il 12 agosto 2000 nelle acque del Baltico durante una esercitazione e recuperato il 23 ottobre 2001
trasferirli in località più sicure dove demolirli. Nello scorso secolo furono fatti passi da gigante nel settore dei recuperi e delle ricerche navali, raggiungendo risultati eccellenti come con la nave Artiglio, della Società SORIMA, ma si trattava di recupero dei carichi, con procedure invasive e distruttive per gli scafi. Oppure con la spedizione Gimbel che nel 1981 portò al recupero di una cassaforte dell’Andrea Doria (che giace a soli 75 metri di profondità), che si rivelò una delusione perché
invece di oro e gioielli conteneva solo banconote marcite. Ma anche in questo caso si trattò di recupero di un singolo materiale attraverso uno squarcio aperto nello scafo. O, ancora, con il batiscafo Trieste dello scienziato svizzero Piccard che nel gennaio del 1959 raggiunse i 10.916 metri di profondità nella Fossa delle Marianne o la spedizione franco-americana Michel - Ballard che nel settembre del 1985 localizzò il Titanic ad una profondità di 3.787 m, ma ancora una volta con immersioni unicamente esplorative. Nel nostro caso, invece, si sono dovute ideare procedure nuove e assolutamente inedite che, messe in atto con cura in due teatri difficilissimi, ciascuno per le sue peculiarità, hanno dato risultati eccellenti, tali che, forse, neanche i più ottimisti avrebbero sperato di poter raggiungere. Tralasciamo adesso la vicenda Kursk per occuparci di quella della Costa Concordia, prima di una classe
La Costa Concordia, la più grande nave di superficie mai affondata nella storia fotografata in navigazione il 26 dicembre del 2009
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Il grande transatlantico adagiato sulla fiancata destra davanti alla costa del Giglio. Sono ben visibili, verso poppa, lo squarcio della carena con un pezzo di scoglio ancora incastrato tra le lamiere
di cinque unità, la maggior nave passeggeri in servizio su tutti gli oceani, fiore all’occhiello della cantieristica italiana, della quale la nostra Rivista si occupò in occasione del suo varo (vedi Lega Navale, numero di Luglio - Agosto 2006).
Il leviatano spiaggiato Sorvoliamo sul come e perché si è verificato l’incidente che ha portato questo leviatano della tecnologia, il 13 gennaio del 2012, a spiaggiarsi fortunosamente davanti all’isola del Giglio, con lo scafo squarciato e lo spezzone di uno degli scogli detti Le Scole ancora conficcato nelle lamiere. Le responsabilità, le inettitudini, i malfunzionamenti e le connivenze non ci riguardano, preferiamo lasciarli ai tribunali. Seguiamo invece, da vicino, la colossale macchina da recupero che si è attivata, diremmo, già pochi giorni dopo l’incidente.
La prima reazione scattata quasi contemporaneamente al salvataggio dei passeggeri e del personale di bordo era stata la messa in sicurezza della superficie del mare nel quale la nave giaceva semiaffondata, circondandola con panne e sbarramenti di superficie per impedire il diffondersi di carburanti e altri liquidi inquinanti. Contemporaneamente venivano effettuati rilievi geologici sotto lo scafo che poggiava con il ginocchio (nell’opera viva, la parte della carena che ha la maggior curvatura) sul fondale e ci si accorgeva con costernazione che la posizione era sufficientemente stabile, ma che in caso di slittamenti (dovuti per esempio al vento o al mare grosso), la nave sarebbe potuta “scivolare” verso un fondale più profondo con conseguenze disastrose. Il naufragio era avvenuto il 13 gennaio, e meno di due settimane dopo un consorzio fra l’americana Titan e l’italiana Micoperi si presentava alla gara
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d’appalto bandita dalla 5 - piloni di ancoraggio 1 - sponsons Costa Crociere per la ri6 - cavi di acciaio 2 - piattaforma metallica mozione dello scafo, ve7 - Micoperi 30 3 - cemento per stabilizzazione fondale 4 - fondale marino nendo subito prescelto. La statunitense Titan Salvage è una sussidiaria della Crowley Maritime Cor7 poration, una Azienda di recuperi marini di fama mondiale con alle spalle oltre 350 relitti strappati 1 1 al mare a partire dal 1980, mentre l’italiana Micoperi è una società leader del settore, attiva 6 2 sin dal 1946, quando venne costituita per libe3 5 rare le vie marittime dai relitti lasciati dalla Secon4 5 da Guerra Mondiale. Nell’operazione venivano coinvolte anche altre naufragio, si approntavano 400 sacchi rimovibili di 7 aziende italiane: Cimolai, Fincantieri (con i canuno speciale cemento che, deposti sotto lo scafo, tieri di Genova, Palermo, Napoli e Ancona), Rosetavrebbero impedito movimenti del suolo, ulteriori ti, Gas&Heat, Trevi, Fagioli, Nuova Olmec, tutte inquinamenti e, a termine operazioni, sarebbero sotto il coordinamento della Costa. stati rimossi e portati via. A questo punto iniziavano le attività direttamente sopra al relitto della nave. Scatta l’operazione di recupero In pratica lo scafo, adagiato al fondale sulla fiancaDopo le prime prospezioni, comunque, veniva decita destra, veniva imbragato da 36 cavi di acciaio in so che era essenziale consolidare il fondale e a quetensione su altrettanti martinetti idraulici, passansto scopo venivano collocate, come basi per sopporti sotto alla piattaforma metallica e agganciati alla tare il peso della nave una volta che questa fosse stasommità di 15 sponsons (cassoni stagni di gallegta raddrizzata, 6 piattaforme metalliche delle digiamento alti 30 metri e larghi 10, per un peso mensioni globali di un campo di calcio e, mentre si complessivo di 6.500 t) saldati sul lato sinistro provvedeva a “trapiantare” in luogo sicuro 200 (quello emerso) della Concordia. esemplari di Pinna Nobilis, uno splendido mollusco Successivamente scattava un ulteriore incremento la cui sopravvivenza era stata messa a rischio dal delle attività di controllo dell’ARPAT (l’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Toscana) che, ef-
Il relitto della Costa Concordia la sera prima dell’inizio dell’operazione di raddrizzamento. Notare gli sponsons disposti sul lato emerso. In alto una rappresentazione schematica del teatro del recupero della nave
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Il ponte di comando e le sovrastrutture più alte della nave emergono a raddrizzamento avvenuto; l’inclinazione che aveva assunto lo scafo adagiandosi con il lato destro sul fondale è evidenziata dallo strato di sedimenti che si è depositato sulle superfici un tempo candide durante il periodo di immersione
fettuando campionamenti periodici dell’acqua di mare sottobordo alla Costa, a 100 metri dallo scafo sottovento, nel porto e nell’area interdetta alla navigazione, avrebbe consentito da adesso sino alla fine delle operazioni di avere un quadro completo e in tempo reale della “salute” del mare per monitorare, in caso, improvvise perdite di liquidi pericolosi. Predisposto anche questo apparato, torniamo ad osservare i cavi, la cui trazione lenta ma costante doveva causare, il 16 settembre 2013, a 18 mesi dal naufragio, un lieve rotolamento dello scafo che, unitamente al controllo del livello dell’acqua di mare all’interno dei cassoni di galleggiamento, avrebbe consentito il raggiungimento di un assetto verticale (operazione, questa, definita parbuckling), dopo di che altri 15 sponsons identici a quelli agganciati sul lato sinistro sarebbero stati saldati su quello dritto oramai svincolato dal fondale, garantendo allo scafo, oltre ad un corretto assetto,
anche una galleggiabilità in condizioni di sicurezza anche se la nave, pur riportata gradualmente in alto, non sarebbe mai arrivata alla sua vecchia linea di galleggiamento, né al Giglio né durante il trasferimento verso il sito di demolizione. Per portare a termine tutte queste operazioni, oltre al personale, ai sommozzatori e ai mezzi della Marina Militare, della Guardia Costiera, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e dei Vigili del Fuoco sarebbero stati impiegati 400 tecnici, 100 dei quali sommozzatori, 20 mezzi navali e la grande gru galleggiante Micoperi 30, alta 60 metri. Tutto questo personale, che ha sempre lavorato a ritmi serrati, nella fase cruciale dei lavori ha operato 24 ore al giorno per 7 giorni alla settimana senza concedere una sosta a se stesso, ma neanche una tregua al mare che, con una improvvisa mareggiata, avrebbe potuto vanificare quello che, meritatamente, per tutti coloro che vi hanno contribuito, po■ tremmo definire “il miracolo del Giglio”.
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