Un racconto di Giulia Marengo
è un racconto di GIULIA MARENGO ©2012 www.giuliamarengo.it Immagine di copertina Meticulous è di Kay Peers ©2012 www.pullingcandy.deviantart.com Cover design e impaginazione di Petra Zari © 2012
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Un racconto di Giulia Marengo
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ra stata un’ottima idea quella di far inserire il numero sulle Pagine Gialle. “Cubi S.n.c. - Smaltimento”, diceva soltanto, e poi il numero di telefono. Così, chi sapeva cosa cercare l’avrebbe trovato subito, e al resto ci avrebbe pensato il passaparola. Era importante che la voce girasse negli ambienti giusti. L’attività era nuova di zecca, e ancora dovevano farsi un po’ le ossa. Il loro biglietto da visita migliore sarebbe stato l’efficienza con cui affrontavano il lavoro su commissione. Patrizia fece un grosso sbadiglio, stiracchiandosi sulla sedia girevole. Era mattina presto, anche se non avrebbe saputo dire se ci fosse il sole o piovesse, perché il locale angusto era privo di finestre e, quando era arrivata in ufficio, fuori era ancora buio. Si guardò intorno con occhio critico. L’ufficio di rappresentanza, dove oggi toccava a lei impersonare la segretaria, era poco più di uno stretto loculo imbiancato a fresco. L’ironia era così palese che la sua collega aveva riso per dieci minuti interi, quando gliel’aveva fatto notare. Uno stretto bancone, di legno d’acero, ospitava un telefono, un computer portatile, qualche biro e, in questo momento, i suoi piedi calzati in pratiche scarpe da ginnastica. Alle pareti erano appese stampe colorate, giusto per dare un tocco di colore a quel mortorio. Niente fiori, però. L’ironia va bene, ma senza esagerare. Patrizia aggrottò la fronte, controllando l’ora sul display del telefono. Giada era in ritardo, il che non rientrava nella normalità. Anche se l’idea imprenditoriale era nata da Patrizia, che aveva colto l’occasione per colmare un’evidente lacuna con i servizi da loro offerti, era Giada quella che fin da subito si era appassionata di più. Per Patrizia la “Cubi S.n.c.” era un lavoro come un altro, adatto per portare a casa i soldi dell’affitto e mettere qualcosina da parte. Giada, invece, amava quello che faceva. Era lei quella incaricata di trovare le soluzioni ai problemi, e di escogitare il metodo più efficiente per soddisfare i clienti. Erano una bella squadra. Anche perché, al contrario dell’amica, Patrizia era la ragazza più indicata a gestire le pubbliche relazioni. I clienti l’adoravano, fidandosi istintivamente del sorriso smagliante e dei ridenti occhi verdi. Lupus in fabula. Il telefono stava squillando. Patrizia ritrasse i piedi dal piano del bancone, raddrizzandosi sulla sedia. “Cubi S.n.c, posso esserle utile?”, tubò nella cornetta
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con voce bassa. Una pausa, per ascoltare la voce all’altro capo del filo. “Certamente. Questa sera o domani?” Uno sfrigolio della linea. “Devo verificare con la mia collega. Ma, in linea di massima, possiamo essere lì per le undici e trenta di questa sera”. Mentre parlava, prendeva appunti su un’agenda che aveva estratto da un cassetto, mordicchiando intenta il cappuccio della penna. “Molto bene” udì, dall’altro capo del filo. “Eventuali variazioni devono essere concordate con almeno due ore di anticipo. Benissimo. Arrivederci”. Patrizia riappese la cornetta. In quel momento si spalancò la porta, per permettere l’ingresso di un grumo disordinato di braccia, borse, e borbottii seccati, il tutto corredato da un ombrello gocciolante e da una nuvola palpabile di malumore. Ah, ecco. Dunque piove, pensò Patrizia. “Era ora”, commentò la ragazza al bancone, osservando attentamente lo smalto rosa che le colorava le unghie. “Sei venuta col calesse?” Dal grumo – che, abbandonato l’ombrello a sgocciolare sulla soglia, si era rivelato essere una ragazza minuta, dai lunghi capelli scuri –, venne un ringhio che sembrava più il ronfare di un gattino asmatico. “Poco sarcasmo. Diluvia”. “Vedo. Abbiamo una nuova commissione”. Giada appese il soprabito, abbandonando qualunque pretesa di irritazione. “Davvero? Quando?” “Questa sera”, rispose l’altra. “Con questa pioggia? Che seccatura”. Patrizia annuì. “Però lo smaltimento sarà più semplice. Uno soltanto. E chi vuoi che ci sia in giro, con questo tempo da lupi?” “A parte noi fortunelle, intendi? Consegnano qui, o è un lavoro a domicilio?”, investigò nuovamente la brunetta, scuotendo la frangia e mandando decine di minuscole gocce d’acqua a infrangersi sul bancone. La ragazza consultò l’agenda. “Domicilio. A Borgotondo, per l’esattezza”. “Uhm. È un po’ lontano. Direi che è fuori dal nostro raggio d’azione. Dovremo addebitargli il supplemento chilometrico. Fammi controllare cosa c’è di aperto in previsione
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di domani”, aggiunse Giada, girando intorno al bancone e riportando in vita il computer. “Spostati, dai”, intimò all’amica, facendole cenno di lasciare libera la sedia. Patrizia sbuffò. “Eddai. Guarda che c’ero prima io”. Giada la fissò con aria di rimprovero, scalzandola di peso dalla seggiola e accomodandosi al suo posto. “Non fare la bambina. Siamo qui per lavorare”. Una pausa, inframmezzata dal ticchettio rapido delle dita sulla tastiera. “Ecco qui. Ce n’è una fissata per domattina a Tranna. È piuttosto vicina a Borgotondo. Inoltre, non credo che ci serviranno chiavi, probabilmente sarà aperto”. Patrizia fece spallucce. “Probabilmente. Ci pensi tu a caricare il materiale sul furgone? Io chiamo il cliente per confermargli la nostra disponibilità”. Una smorfia da parte di Giada. “Grazie tante. Tanto sono già bagnata fradicia, cos’è un ettolitro d’acqua in più o in meno? Va bene, ci penso io. Ma tu addebitagli il sovrapprezzo”. *** Qualche ora dopo, le due ragazze sedevano nel furgone scuro. Giada era al volante, con il naso appiccicato al parabrezza nel tentativo di scorgere qualcosa in mezzo alla pioggia battente. “Mannaggia a lui. Proprio stasera doveva chiamarci?” Patrizia le rivolse un sorriso placido. “Beh, non puoi dire che non sia appropriato. Molto lovecraftiano. Li hai presi i teli di plastica?” “Ovvio. È per questo che detesto lavorare a domicilio. Si fatica il doppio, e non si è mai certi del risultato. Ma dove diavolo... ah, ecco. La casa dev’essere quella”. Con quelle intemperie, si sarebbe aspettata una magione uscita direttamente da un racconto di Poe, con tanto di camini pericolanti e tetto spiovente. Invece, come accadeva per la maggior parte delle loro commissioni, si trattava di una graziosa villetta intonacata di giallo girasole. Una piccola veranda decorava l’ingresso e il prato, curatissimo, vantava una fontana in pietra bianca. La pioggia era una fitta cortina argentea che avrebbe nascosto il furgone da occhi curiosi, pertanto Giada imboccò il vialetto, parcheggiando il più possibile vicino alla porta d’ingresso.
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Sentì Patrizia scendere, aprire l’ombrello e andare a suonare il campanello. Riparandosi il capo con il cappuccio del soprabito, spalancò il portellone posteriore del furgone e ne estrasse un lungo rotolo di plastica arrotolata. Sentì una voce maschile alle sue spalle. “Lasci, l’aiuto io”. Sobbalzò, sorpresa, voltando la testa di scatto. Accanto a lei c’era un uomo piuttosto giovane, trent’anni circa, che s’infilò a metà nel vano del bagagliaio, estraendo le grosse borse nelle quali aveva riposto l’occorrente. La luce che pioveva dalla porta di ingresso, spalancata, le lasciò intravvedere due grandi occhi verdi e un sorriso amichevole. “Grazie”, mormorò. Un momento dopo erano all’interno della casetta. L’uomo, che aveva i capelli scuri appiccicati mollemente sul cranio a causa della pioggia, fece strada attraverso un soggiorno luminoso, arredato con gusto nei toni del panna e del bianco. Il mobilio era moderno e funzionale. “Venite, vi faccio strada”, disse lui, accennando con il capo verso un corridoio che si allontanava nell’oscurità. Patrizia annuì, lasciando passare la collega, e seguendola da presso. Attraversarono un vestibolo, poi l’uomo aprì una piccola porta in legno dipinta di bianco. “Qua sotto”, commentò indicando con un cenno vago. Giada non ne fu sorpresa. Gli sgomberi raramente avvenivano al piano superiore e, in quei pochi casi, di solito il proprietario della casa molto semplicemente non aveva una cantina. L’uomo si allungò alla ricerca di un interruttore. Uno sfrigolio, e il locale sotto di loro venne immerso in una luce algida da obitorio. Perfetta. Giada si soffermò sul terz’ultimo gradino, lasciando vagare lo sguardo nella stanza. “Un bel pasticcio”, commentò, con voce incolore. L’uomo si strinse nelle spalle, imbarazzato e un po’ colpevole. “Era la mia prima volta. Sto ancora imparando”. Sembrava un cucciolo vergognoso, e Giada gli rivolse suo malgrado un sorriso di comprensione. “Siamo qui apposta, non si preoccupi”. Dalle sue spalle giunse la voce caustica di Patrizia. “Ci diamo una mossa? È tardi”. Giada sbuffò, alzando gli occhi al cielo. L’uomo sorrise. “A proposito, io sono Marco”.
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“Giada”. “E io Patrizia, ci siamo parlati al telefono. Adesso possiamo procedere?” ***
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Poco dopo, Giada osservava la scena con aria critica, soppesando le alternative. Il corpo giaceva in una pozza di sangue nel centro del locale, a pancia in giù, un braccio piegato in modo innaturale dietro la schiena. Schizzi di sangue disegnavano ampi archi sul pavimento e sulle pareti, segno che era stata recisa almeno un’arteria mentre l’uomo era ancora vivo. Giada non poteva vedere il suo volto, ma i capelli, per quanto impiastricciati di fluidi e materia cerebrale, erano prematuramente canuti. Indossava un completo blu di ottimo taglio. “L’ha pugnalato?” domandò, girando intorno al corpo, attenta a non calpestare il sangue ancora umido. Marco annuì. “Errore da dilettante, lo so. Ma avevo dimenticato la pistola col silenziatore in macchina, e ho dovuto improvvisare”. “E il cranio?” Marco sospirò. “Non ne voleva sapere di morire. Continuava a lamentarsi. Lo sai anche tu che non è giusto nei loro confronti, farli soffrire tanto. Così gli ho sfondato la testa con un martello” spiegò, indicando con il mento il colpevole utensile, appoggiato con cura sull’ultimo gradino. Patrizia incrociò le braccia al petto. “Un consiglio per la prossima volta. Meno sporchi, e meno ti viene a costare tutto questo”. “Lo so, lo so. Ma mi hanno detto che siete le migliori”. Le due ragazze si scambiarono un’occhiata. “Chi te l’ha detto?”, interloquì Giada. “Servetti. È stato lui a darmi il vostro biglietto da visita”. Un sorriso compiaciuto danzò sulle labbra della ragazza. Servetti era stato uno dei loro primi clienti. Era molto richiesto nel giro, e molto, molto bravo. Se Servetti aveva deciso di sostenerle, beh, il successo era assicurato. Indossò i guanti e un lungo camice di nylon, mentre Patrizia faceva lo stesso. Insieme, srotolarono un lungo foglio di plastica, e, grugnendo per lo sforzo, vi adagiarono sopra il corpo. Giada tornò indietro per frugare nella grande borsa.
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Quando azionò la sega Stryker, stava ancora sorridendo. *** Tagliare il corpo a pezzi la impegnò per circa due ore. Mentre Giada si detergeva il sudore che le era colato sul viso, Patrizia usò un aspiratore per disfarsi delle materie molli. Poi, steso un altro telo di plastica, si occupò di impilare con efficienza le parti recise, avvolgendo il telo intorno a formare un cubo di dimensioni compatte, poco dissimile da un qualunque scatolone avvolto nel pluriball. Infine, da un’altra borsa estrasse un flacone pieno di un liquido misterioso che a Marco ricordò insistentemente l’acqua ossigenata, uno strofinaccio e un bastone telescopico per spazzare. “Quanto odio questa parte”, si lagnò la ragazza. “Perché sono sempre io quella che deve pulire?” “Perché tu tagli pezzi troppo grossi”, la rimbeccò Giada. “Inoltre, sei più brava di me e scovare le macchie”. Aveva ragione. Nel giro di mezz’ora la cantina era immacolata come se al suo interno non avesse mai giaciuto, riverso, il corpo spezzato di uno sconosciuto. La ragazza si guardò intorno. Sembrava una normalissima rimessa, con tanto di cassetta degli attrezzi e bicicletta appesa al muro. Ottimo. Marco, che durante tutta l’operazione era rimasto seduto sulle scale a guardare, si strofinò le mani. “E adesso che si fa?” “Adesso andiamo a smaltire il tuo amichetto” rispose Patrizia, sfilandosi i guanti in lattice. “Posso venire anch’io?”, domandò ancora lui. Patrizia guardò Giada, interrogativa. L’altra fece spallucce. “Se lo porti tu. È pesante”. “Affare fatto”. La risalita fu molto più faticosa della discesa, carichi com’erano. Marco portava il cubo avvolto nella plastica, mentre Patrizia bilanciava precariamente l’aspiratore che sciaguattava e la borsa con gli stracci sporchi. Giada chiudeva la fila, con gli strumenti del mestiere che tintinnavano allegramente. Quand’ebbero caricato tutto sul furgone, spento le luci e richiuso la porta della villetta, Marco si issò sul furgone dietro di loro, abbracciando il poggiatesta di Giada.
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“Dove stiamo andando?” Patrizia sospirò. “Ma non la smetti mai di fare domande, tu?” “Non lo sai che non si risponde a una domanda con un’altra domanda?” ribatté lui, pronto. Giada ridacchiò. “Fregata. Stiamo andando al cimitero di Tranna” proseguì poi, rivolta a lui. “Adesso vedrai”. Tranna, un paesino triste e nebbioso pochi chilometri a nord di Borgotondo, era avvolto nel sonno quando il furgone l’attraversò. Non un’anima vagava per le strade, e le facciate fatiscenti delle case immergevano il luogo in un’atmosfera spettrale. “Che posto da zombie”, commentò Patrizia. Uscirono dal paese e parcheggiarono accanto a un modesto cimitero. Giada aveva avuto ragione. Il cancello era aperto, come se nessuno temesse incursioni notturne in quel posto lontano dalla civiltà. Facendo tuttavia attenzione a non dare nell’occhio, i tre scaricarono il cubo e sfilarono in silenzio fra le file immote di lapidi sbeccate, illuminate da pochi lampioni itterici. Proprio in fondo, una delle tombe era aperta, la terra smossa di fresco. Il giorno dopo sarebbe stato celebrato un funerale, e gli addetti alle pompe funebri avevano già predisposto la scala per calare la bara del morto all’interno. Giada indicò la scala con un cenno, porgendo a Patrizia una piccola pala in metallo dal manico retrattile che era stata contenuta dall’onnipresente borsa. “Avanti”. “Ma perché devo essere sempre io a impiastricciarmi di terra? Ma che schifo…”, brontolò la ragazza, calandosi con attenzione nella fossa. Fuori, Giada e Marco restarono ad aspettare. Marco aveva un’espressione curiosa e Giada, senza dargli troppo peso, descrisse – per amor di precisione – quanto stava avvenendo: “Patrizia scava un buco all’incirca delle dimensioni del cubo in fondo alla fossa”, spiegò con tono didascalico. “Poi buttiamo dentro il cubo e livelliamo la terra in modo che non si noti la differenza. Il giorno dopo quelli delle pompe funebri seppelliscono il loro defunto, chiudono la buca, et voilà. Il gioco è fatto”. “È geniale”, commentò l’uomo, ammirato. Dal fondo venne una voce cavernosa. “Se avete finito di fare conversazione, io vorrei tanto andare a farmi un bagno”.
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Giada scosse la testa. “Cosa devo fare con lei?” mormorò, canzonatoria. “Su, dammi una mano”. I due spinsero il cubo giù nella fossa, dove atterrò con un tonfo sordo. “Ehi, piano! A momenti mi prendevi”, si lamentò la voce incorporea. Dal basso vennero una serie di fruscii, e il rumore ritmico di una pala che impattava sul terreno. “Ecco fatto”. Marco, da perfetto gentiluomo, aiutò Patrizia a risalire dalla scala a pioli. Poi rovinò tutto scoppiando a riderle in faccia. “Cosa?” ringhiò lei, la pelle coperta da uno strato sottile di polvere scura. Lui continuò a ridere in modo incontrollato, piegandosi in avanti per respirare. “Un posto da zombie, dicevi”, anfanò, con le lacrime agli occhi. A questo punto anche Giada scoppiò a ridere. Patrizia, per tutta risposta, tirò su col naso con dignità, e si allontanò a grandi passi verso l’entrata del cimitero. Rimase zitta per tutto il viaggio di ritorno, mentre gli altri due continuavano a ridacchiare senza motivo apparente a intervalli regolari. Giada arrestò il veicolo davanti alla villetta gialla e scese per lasciar smontare Marco. L’amica si rifiutò di scendere dal furgone, brontolando un saluto che suscitò nuove ondate di risa. L’auto dell’uomo, una berlina grigio scuro, era parcheggiata a pochi passi. Quando l’ilarità si fu dissipata, Marco si grattò la testa, imbarazzato. “Allora grazie. Ho lasciato la busta con la vostra parcella nel cassettino del cruscotto”. Giada allungò una mano per stringere la sua. Gli occhi verdi di Marco brillavano anche nell’oscurità, notò. “Grazie a te. È stato un piacere”. Lui trattenne le sue dita ancora per un momento. “Posso richiamarti? Richiamarvi, cioè. Per un lavoro”. Un piccolo sorriso. “Quando vuoi”. Sentì vibrare qualcosa nella tasca, poi nell’aria si propagò a basso volume l’Inno alla Gioia. Senza staccare lo sguardo da quello di Marco, Giada premette il tasto di risposta. “Cubi S.n.c, in cosa posso esserle utile?”
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