Ufficio comunicazione istituzionale
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ANNI DOPO
Possiamo sempre far qualcosa
febbraio 2012
A cura dell’Ufficio comunicazione istituzionale del Senato della Repubblica. © 2012 Senato della Repubblica Stampato presso la Tipografia Monocromo Grafica di Roma. Finito di stampare nel mese di febbraio 2012. La presente pubblicazione è edita dal Senato della Repubblica. Non è destinata alla vendita ed è utilizzata solo per scopi di comunicazione istituzionale. Questo fascicolo è stato prodotto con carta riciclata 100% con certificazione FSC, utilizzando inchiostri a base vegetale.
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Il 23 maggio 1992 la mafia con un attentato dinamitardo in località Capaci, nei pressi di Palermo, uccise il magistrato Giovanni Falcone. Insieme a lui persero la vita la moglie Francesca Morvillo e gli agenti Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Dopo poche settimane, il 19 luglio 1992, una carica esplosiva in via D’Amelio, sotto casa della madre, uccideva il giudice Paolo Borsellino. Nell’attentato vennero uccisi gli agenti Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina. A distanza di 20 anni il Senato su impulso della Presidenza ha voluto ricordare quei tragici avvenimenti con una serie di iniziative rivolte ai giovani. In particolare questo fascicolo, che sarà distribuito agli studenti in visita al Senato, raccoglie la Dichiarazione del Presidente Schifani in occasione dell’approvazione del Piano straordinario contro le mafie (3 luglio 2010 - Senato della Repubblica), la
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Commemorazione dei magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo e degli agenti della scorta (25 maggio 1992 - Parlamento in seduta comune), la Commemorazione del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della scorta (21 luglio 1992 - Senato della Repubblica), il ricordo del 17º anniversario della strage di Capaci (26 maggio 2009 Senato della Repubblica) e il ricordo del 19º anniversario della strage di via D’Amelio (19 luglio 2011 - Senato della Repubblica). Infine sono state riprodotte le prime pagine dei quotidiani Corriere della sera, Il Messaggero, la Repubblica, La Stampa e Giornale di Sicilia dei giorni successivi alle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Tutti gli appuntamenti dell’iniziativa saranno indicati nel sito senatoragazzi.it.
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Dichiarazione Del presiDente schifani in occasione Dell’approvazione Del piano straorDinario contro le mafie, nonché Delega al governo in materia Di normativa antimafia (Aula del Senato della Repubblica - seduta n. 418 del 3 agosto 2010)
Colleghi, ringrazio il presidente Vizzini e il ministro Maroni per aver richiamato il mio impegno, ma io voglio ringraziare tutti voi e, in particolare modo, il senso di responsabilità dei partiti di opposizione che, pur nella esigenza di un possibile miglioramento del testo approvato all'unanimità alla Camera, hanno fatto prevalere un'altra esigenza, quella dell'immediatezza dell'entrata in vigore di un testo così importante. Di questo non posso che ringraziarli, perché hanno accolto il mio invito, dando prova di come, nel contrasto alla criminalità organizzata, ancora una volta questo Parlamento sappia essere unito.
Ritengo che non vi siano precedenti nella nostra storia. In due anni questo Parlamento ha approvato norme di contrasto senza precedenti: dai sequestri dei patrimoni all'inasprimento dell'articolo 41-bis, al codice antimafia, votando tutti questi provvedimenti all'unanimità e dimostrando che la legalità non è esclusiva di qualcuno ma è patrimonio di tutti gli uomini che stanno in politica. (Applausi dai Gruppi PdL, LNP, FLI e del senatore Fosson). Lo dobbiamo ai cittadini che ci hanno eletto, ai nostri giovani, alle future generazioni: consegnare loro un Paese al quale venga estirpato il bubbone
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della criminalità organizzata. E lo dobbiamo, in particolar modo, a tutte le vittime della mafia, che hanno
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pagato con la loro vita il contrasto alla criminalità organizzata. Vi ringrazio. (Applausi).
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commemorazione Dei magistrati giovanni falcone francesca morvillo e Degli agenti Della scorta.
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(Parlamento in seduta comune, 25 maggio 1992 - presidenza del Presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro)
PRESIDENTE. (Si leva in piedi, e con lui i parlamentari e i delegati regionali). Onorevoli colleghi parlamentari, signori delegati regionali, tutti colleghi elettori del Capo dello Stato, è come un tragico richiamo ad una allucinante realtà: qui un'Assemblea che cerca da dodici giorni, con grande impegno, certo, ma, riconosciamolo, anche a volte con incomprensioni o incertezze, di dare alla Repubblica il suo Presidente; fuori di qui, l'aggressione violenta e sanguinaria allo Stato democratico, alle sue istituzioni, creando sconcerto, rabbia, desolazione, insieme a profondi sentimenti di umana pietà e di solidarietà che, per chi crede, si mutano in pre-
ghiera. Conobbi il giudice Falcone negli anni della mia responsabilità al Ministero dell'interno ed ebbi con lui molti incontri, molte ragioni di collaborazione, molti raccordi con il nostro impegno anche in campo internazionale. Una intelligenza viva e ricca, una volontà ferrea per conseguire l'obiettivo nella incessante lotta al fenomeno mafioso, una rara capacità di lavoro e di impegno, una memoria di eccezione nel ricordare ogni episodio, ogni particolare, ogni risvolto, per attuarne confronti e raccordi con altri episodi delittuosi. Un magistrato, insomma, degno del suo compito, ardito nella sua
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responsabilità, inflessibile nella sua determinazione; un magistrato, però, sempre umano, attento ad ogni sentimento, ad ogni possibilità di ricupero, pronto ad ogni colloquio, capace quindi di ottenere fiducia anche dagli imputati e di convincerli a collaborare con la giustizia. Ricordo con commozione fatti, episodi, racconti e confidenze umane del giudice Falcone che radicarono in me questo convincimento della sua doviziosa e sensibile umanità. Ma un punto, evidentemente, non gli fu perdonato: che non cedette mai, né alle minacce, né alle insinuazioni, né alle lotte o alle solitudini che si uniscono fatalmente ad un impegno così delicato e così rischioso. Ha servito la giustizia, ha onorato la toga, ha servito lo Stato democratico. Chi ama la violenza e il delitto come supporti di
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una potenza infame, chi è travolto e assorbito da un'insaziabile sete di denaro e di potere, chi vuol sostituirsi allo Stato per fare ciò che vuole e, per dimostrare la sua arrogante potenza, giunge a delitti di tale infamia, non può che considerare nemico un magistrato di tale fattura. Noi ci inchiniamo a tutte le vittime, che io desidero, nella solennità dell'aula, ricordare una ad una, con la devozione profonda per i morti, con l'augurio per i feriti: Giovanni Falcone e Francesca Falcone, entrambi magistrati; agente scelto Antonio Montinaro, di 29 anni, coniugato, con due figli; agente semplice Vito Schifani, di 27 anni, coniugato; agente scelto Rocco Di Cillo, 30 anni, celibe. E i feriti: Giuseppe Costanza, autista del dottor Falcone, del Ministero di grazia e giustizia; Gaspare Cervello, agente della polizia di Stato, di 30 anni, coniuga-
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to, con un figlio; Angelo Corbo, agente della polizia di Stato, 26 anni, celibe; Paolo Capuzza, agente della polizia di Stato, di 32 anni, coniugato, con un figlio (tutti feriti). E i feriti civili: Ienna Spano Pietra, Mastrolia Oronzo, Ferro Vincenzo, e due di nazionalità austriaca, Eberanz Gabriel ed Eva Gabriel: i civili vittime occasionali di una brutalità senza nome, senza patria! Vorremmo esser capaci di fare nostro il pianto, la disperazione, il senso di impotenza, di abbandono dei familiari degli uccisi: tutti dolori eguali, terribili, che paiono senza speranza: di fronte ai morti non c'è gerarchia. Il dolore e la morte non hanno colori, non hanno gradi, non hanno distinzioni: sono tragedie dell'uomo, e basta! Sappiamo quale sia la quotidiana, pericolosa fatica dei magistrati, specie di quelli più esposti; sappiamo
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quale sia il doloroso e troppe volte insanguinato impegno delle forze dell'ordine, ed a tutti esprimiamo ammirazione e riconoscenza. Ma mancheremmo di verità se non constatassimo che in questi tremendi episodi pare sconfitto - pare -, dolorosamente sconfitto lo Stato democratico, sconfitta la democrazia, poiché è sconfitto l'uomo nei suoi diritti, nella sua dignità, nei suoi valori. È pensiero di verità che dobbiamo con umiltà cogliere e meditare. Occorre che lo Stato democratico sia forte, capace, efficace; per questo deve essere limpido e vero. Il mio non ha né l'autorità, né l'autorevolezza di un richiamo: è esame di coscienza e null'altro, e comincia da me. Troppe volte gli interessi di parte e di partito sopravanzano e sopraffanno il respiro della Repubblica, che pure costò lacrime e sangue. E si aprono alla nostra intelligenza,
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nel nostro animo, interrogativi che non possono rimanere tali. Senza invadere il campo di chi deve investigare e far giustizia, ci si domanda: ma è solo mafia, questa? Ma non ha anche il marchio atroce ed inumano del terrorismo? E chi ci può essere dietro ad un atto di guerra così spietato, così clamoroso, così evidentemente finalizzato a creare sgomento, a presentare lo Stato quasi inutile, a imporre paura, a intimare silenzi, a dare segni di strapotenza infrenabile ed invincibile? E perché tutto ciò avviene proprio mentre il mondo politico appare debole, sconcertato, quasi ferito nella fiducia, non subito capace di raccogliere la voce del popolo che si è espressa nel voto, non subito capace di liberarsi dalle miserie di una politica più idonea ai “no" imbelli ed orgogliosi che ai “sì" fatti di sacrificio per la gente, per la patria?
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Troppe volte pare che siamo totalmente presi, assorbiti da visioni parziali, se non meschine; troppe volte il senso dello Stato, che è amore alla comunità, alla gente, al bene comune, sembra entrare in ombra di fronte a piccole visioni degne di piccoli uomini. Ma ho il dovere di aggiungere: che l'elezione del Capo dello Stato importi discussioni, intreccio di dialoghi, esperimenti, preoccupazioni nel mondo politico parlamentare, non è patologia, non è degenerazione di un Parlamento che solo lo scrollone di un delitto può riportare sulla retta via. No; questa valutazione è ingiusta e non vera. Nulla vi è di perfetto, ma talune considerazioni sono offensive per le istituzioni e ne aumentano svalutazione e discredito a danno dello Stato, e, quindi, a danno di ogni cittadino. Di fronte ad ogni tragedia il
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Parlamento rimane libero nei suoi poteri, fermo nella sua dignità. Da questa tremenda tragedia, che si aggiunge a troppe altre, alziamo il capo e la mente a visioni più degne, richiamiamo la nostra volontà a responsabilità più alte; diamo al popolo italiano la percezione di un mondo politico responsabile che sente l'urgenza di una unità di intenti e di una volontà viva e vera per servire, non per dominare. Colleghi, il silenzio sia sottolineatura di questo impegno; le vittime del dovere e le vittime civili siano richiamo. Ma reagiamo allo
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scoramento ed alla desolazione: i valori dell'uomo sono assai più forti dei mali e delle degenerazioni, ma occorre, quei valori, viverli ad ogni costo; la forza della libertà è assai più potente di ogni prevaricazione e di ogni violenza; la democrazia può essere ferita, ma se ognuno crede e vive il proprio dovere nessuna, dico nessuna, aggressione potrà mai aver ragione. La democrazia vincerà la tremenda battaglia della prepotenza e del delitto. Sta a ciascuno di noi saperne dare certezza. Grazie. (Prolungati, generali applausi).
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commemorazione
Del giuDice paolo Borsellino e Degli agenti Della scorta (Senato della Repubblica, 21 luglio 1992 - presidenza del Presidente del Senato Giovanni Spadolini)
(Fa il suo ingresso nella tribuna d'onore il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, accompagnato dal Segretario generale della Presidenza della Repubblica. Vivissimi, generali applausi). PRESIDENTE. (Si leva in piedi e con lui tutta l'Assemblea). Onorevoli colleghi, ringrazio il Presidente della Repubblica che, al termine della sua odierna, dolorosa visita a Palermo, interprete dei sentimenti della patria tutta per i funerali degli agenti della polizia di Stato trucidati nel vile agguato di Palermo, ha voluto assicurare la sua presenza a Palazzo Madama per il commosso, unanime omaggio del Parla-
mento alla memoria del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. Domenica scorsa la barbara violenza mafiosa ha offeso una volta di più la Sicilia, ha scosso l'intero paese, ha ricordato a ciascuno di noi che la battaglia contro la criminalità organizzata rappresenta un'emergenza nazionale che impone, da parte dello Stato, risposte meditate, precise ed anche dure. Il nostro pensiero accorato si rivolge in questo momento alle vittime di questa strage inaudita, al giudice Paolo Borsellino e ai cinque rappresentanti della Polizia di Stato, l'agente Emanuela Loi, l'assistente Agostino Catalano, l'assistente Eddie Walter
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Cosina, l'agente Vincenzo Li Muli e l'agente Claudio Traina. La nostra solidarietà fraterna va alle famiglie di questi servitori dello Stato caduti in un attentato. I sentimenti della nostra partecipazione al dramma di queste ore si rivolgono a coloro che sono stati feriti e che si sono trovati coinvolti in uno scenario di devastazione e di desolazione, raggiunti dalla violenza fin dentro le loro case. Alla magistratura e alle forze dell'ordine rinnoviamo la nostra riconoscenza per l'opera condotta in condizioni quasi sempre di obiettiva difficoltà, unitamente al cordoglio dell'intera nazione per le famiglie del giudice e dei cinque agenti trucidati, in una linea di martirologio che unisce la Polizia di Stato e l'Arma dei carabinieri a giudici e uomini di legge. Questo attacco portato ad un uomo, il giudice Borsellino, che rappresentava lo
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Stato laddove la logica criminale vorrebbe estirpare i princìpi di legalità sui quali lo Stato si regge, ci fa rivivere la tragedia nella quale perse la vita un altro magistrato che in Italia e nel mondo rappresentava un eguale simbolo di lotta coraggiosa e intransigente contro l'organizzazione mafiosa. Mi riferisco al giudice Giovanni Falcone, colui che per tanti anni, accanto a Paolo Borsellino e ad altri magistrati coraggiosi, condusse la sua battaglia per affermare i princìpi irrinunciabili della ragione contro i mostri della violenza e dell'irrazionalismo. Falcone e Borsellino credevano nel primato della legge, nella civile e pacifica convivenza, nel rispetto dell'uno per l'altro, nella possibilità di dare alla Sicilia e all'Italia un avvenire europeo. Per questo essi sono stati uccisi.
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Assistiamo da alcune settimane ad una spirale di atti di intimidazione, di torbidi messaggi trasversali, di azioni criminali di varia intensità, fino all'esplodere di mostruosi assalti alla legalità repubblicana, assalti mirati e mai casuali, con fini precisi di destabilizzazione. Chi visse in prima persona la sanguinosa stagione degli anni di piombo - e mi rivolgo a tanti colleghi presenti - sa che l'obiettivo del terrorismo era lo stesso: travolgere lo Stato democratico nel nostro paese. E ancora una volta dobbiamo constatare, oggi come negli anni del terrorismo, che l'obiettivo è quello di scuotere la fiducia dei cittadini negli organi dello Stato, nella democrazia e nei suoi rappresentanti sul territorio; in primo luogo, delle forze dell'ordine, per far sì che alla fine una popolazione disperata cerchi sicurezza e riparo non presso le
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autorità, ma presso altre, oscure centrali di potere. La mafia non è solo un'organizzazione che vive e prospera per le attività illegali che conduce. Essa è l'Antistato ed è disposta ad usare la violenza, anche di massa, con il proposito di instillare la paura in ogni settore dell'opinione pubblica. E questo Antistato è tanto più pericoloso quanto maggiori sono al suo interno i contraccolpi di una sorda lotta tra fazioni, in una fase in cui gli equilibri di forze stanno probabilmente cambiando. Per sconfiggere questi criminali, che godono di grandi risorse finanziarie, frutto dei loro traffici scellerati, prima di tutto gli stupefacenti, che hanno collegamenti internazionali estesi, che dispongono di mezzi sofisticati, ci vorrà del tempo; ci vorranno non dico mesi, ma anni. Ma mentre noi chiediamo al paese di seguire il pro-
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prio Governo e i propri rappresentanti in Parlamento in questa difficilissima iniziativa, dobbiamo prima di tutto chiedere a noi stessi di essere coerenti: consapevoli che il prezzo potrebbe essere anche la nostra vita. Un pensiero particolare rivolgo agli agenti di scorta, ricordando le alte parole che Ugo La Malfa pronunciò alla Camera a poche ore dal rapimento di Aldo Moro e dall'assassinio della sua scorta: «Nessuno può proteggere noi, anche se i cittadini che fanno il loro dovere pagano la nostra protezione. Ma noi con le nostre leggi possiamo e dobbiamo proteggere tutti. Nessuno, ripeto, può proteggere i reggitori dello Stato, ma l'ultimo dei cittadini ha diritto alla nostra protezione». E questo deve essere e restare il nostro impegno. Guai a mostrarci divisi in queste ore tanto drammatiche!
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Se i terroristi furono sconfitti, la ragione fu una e fondamentale: le istituzioni della Repubblica, i partiti, le organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori, tutti gli italiani dissero «no» ai traditori della Repubblica. E fin d'ora in concordia di intenti noi dobbiamo essere disposti a dire un «no» altrettanto fermo a chi crede di poter sostituire le tavole del diritto con la dinamite. Ho manifestato il mio pensiero in materia a Palermo dopo il delitto del giudice Falcone, allorché mi è occorso di rappresentare il vertice dello Stato italiano nel commosso saluto al magistrato assassinato insieme con la sua scorta, neanche due mesi fa. Oggi come allora l'opinione pubblica non attende da noi una risposta rituale: attende una risposta concreta. Poche ore fa ho dato notizia in quest'Aula delle decisioni dei Capigruppo per
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quanto attiene all'esame del decreto-legge antimafia, che entro venerdì dovrà essere consegnato alla Camera, tenendo conto del maxiemendamento presentato dal Governo. L'impegno del Parlamento, l'impegno del Senato sarà totale, nel rispetto integrale delle diverse opinioni e del diritto di ciascun Gruppo di esprimere con chiarezza le proprie riserve e di proporre tutte quelle modifiche che si ritengono necessarie. Sono certo che il Senato saprà fare per intero il proprio dovere. Può essere questo il segnale che la pubblica opinione attende da tutti noi: la capacità del Parlamento di dare risposte non retoriche, di cogliere il senso delle richieste dei cittadini, di dare alle vittime e ai loro familiari la certezza che il loro sacrificio non è stato inutile, perché la forza del Parlamento è nelle istituzioni democratiche, è nel consenso dei cittadini il baluardo supremo per la
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difesa della Repubblica. È un compito non facile. La civiltà giuridica si riconosce quando nell'emergenza, accanto alle esigenze immediate, sa mantenere saldo il riferimento a quei princìpi giuridici consacrati nei propri documenti più alti. Il Parlamento dovrà dare questa risposta: difesa dell'ordine sociale, unita alla difesa di quelle libertà giuridiche per cui tanti lottarono. E sono certo che quanto il Senato farà nei prossimi giorni corrisponderà a quella certa idea dell'Italia per cui si batterono Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e i tanti martiri della Repubblica che con loro sono caduti per la difesa delle istituzioni. In segno di omaggio a queste nuove vittime della violenza mafiosa e al dolore dei loro familiari, sospendo la seduta per un minuto in segno di lutto.
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anniversario Della strage Di capaci (Senato della Repubblica, 26 maggio 2009 - presidenza del Presidente del Senato Renato Schifani)
PRESIDENTE. (Si leva in piedi e con lui tutta l’Assemblea). Onorevoli colleghi, il 23 maggio 1992, una strage mafiosa annullava la vita di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo, di Vito Schifani, di Rocco Di Cillo, di Antonio Montinaro. Uomini dello Stato uccisi per aver operato, con coraggio, capacità, grande senso di responsabilità, in una terra difficile, quella siciliana, dove fare soltanto il proprio dovere assume una connotazione di rischio. Giovanni Falcone era un magistrato di altissime doti e di eccezionale intuito investigativo. Egli aveva prima di tanti altri compreso che soltanto il contrasto efficace e concreto alla
mafia avrebbe potuto contribuire alla rinascita complessiva della sua terra. Per questo, fin dall’inizio della sua esperienza di magistrato a Trapani e successivamente a Palermo, aveva dedicato interamente la sua vita professionale a comprendere il fenomeno mafioso, nella piena consapevolezza che soltanto una profonda conoscenza dei meccanismi di questa organizzazione criminale avrebbe potuto contribuire a scardinarla dall’interno. E da giudice istruttore aveva avuto la grande intuizione che soltanto lavorando in sinergia e coordinamento con gli altri giudici che si occupavano di indagini sulla mafia si sarebbe potuto realizzare
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quel modello veramente efficace per contrastare un’organizzazione verticistica, gerarchica, unitaria, che operava nelle scelte decisive con coesione e comunione di intenti. Così era nato il pool antimafia, scelta rivelatasi da subito vincente, allorché il primo grande collaboratore di giustizia, Tommaso Buscetta, aveva chiesto di parlare proprio con Giovanni Falcone ed aveva disvelato i meccanismi interni dell’organizzazione Cosa nostra. Da allora erano iniziati i grandi processi: il maxiprocesso del 1986, con centinaia di imputati alla sbarra, aveva segnato il primo grande momento di contrasto a questa organizzazione criminale. Aveva significato il primo grande riconoscimento dell’esistenza del reato di associazione criminale di stampo mafioso, ingenerando tra i mafiosi la grande preoccupazione, rivelatasi fondata, che
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quello era un momento di non ritorno. E poi le condanne severe, inflitte grazie alla serietà ed alla capacità investigativa di questo grande giudice, avevano fatto ulteriormente comprendere ai mafiosi che da quel momento sarebbe stato sempre più difficile poter operare liberamente nell’impunità. Falcone non aveva mai smesso di credere nella sua intuizione, neppure quando aveva ricevuto da parte di tanti, che avrebbero invece dovuto riconoscerne e proteggerne il valore, insinuazioni e pesanti critiche che tanto lo avevano addolorato. Neppure quando aveva scelto di divenire Direttore generale degli Affari penali a Roma, decisione, questa, che era stata interpretata come una volontà di abbandono della Sicilia e che invece, nelle sue intenzioni, come non smetteva di dire ai suoi collaboratori più fidati, rappresentava un
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ulteriore più efficace modo per poter continuare a combattere la mafia. Falcone era stato un grande sostenitore della necessità di concentrare le indagini nelle procure sedi delle corti d’appello; le Direzioni distrettuali antimafia diventarono una realtà grazie alla sua capacità di rappresentare al legislatore le grandi potenzialità che queste strutture avrebbero potuto estrinsecare. Oggi noi traiamo i frutti benefici della sua caparbia intuizione e ogni risultato attuale, che può sembrare scontato, naturale conseguenza delle cose, va, invece, ricondotto al grande progetto di Falcone. Ecco perché il nostro ringraziamento a questo eroe dello Stato non deve rivolgersi soltanto al passato, ma deve considerare anche i traguardi del presente. Accanto a Giovanni Falcone, un ricordo commosso va a Francesca Morvillo.
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Chi ha avuto il privilegio di conoscerla, ricorda di questa donna magistrato, sostituto procuratore al tribunale per i minorenni di Palermo, la profonda conoscenza giuridica ed umana del delicato settore dei minori, la sua grande fermezza di carattere, ma al contempo la sua grande umanità. Francesca Morvillo ha operato per anni non soltanto per reprimere i reati, ma soprattutto per cercare con ogni mezzo di recuperare i tanti minori sbandati e per restituirli ad una vita diversa, migliore, lontana da quelle complicità e quei facili guadagni che in Sicilia costituiscono l’anticamera per l’ingresso in Cosa nostra. Un metodo portato avanti con determinazione e fermezza, in silenzio, un grande contributo anche questo alla lotta alla criminalità. Un ricordo non formale di gratitudine va anche ai tre giovani uomini della Poli-
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zia di Stato che hanno sacrificato la propria vita interpretando fino in fondo un ruolo indispensabile al raggiungimento dell’obiettivo finale. Abbiamo il dovere della memoria, ma anche quello di vigilare, di essere attenti e di contribuire con la nostra attività di senatori a fare in modo che leggi sempre più efficaci e incisive possano fornire agli inquirenti veri ed effettivi strumenti per contrastare il fenomeno mafioso. Mi riferisco, colleghi, alle disposizioni legislative sulle misure di prevenzione patrimoniali e sull’inasprimento del carcere duro che il Senato si appresta ad esaminare. Dopo la strage di Capaci e ancora dopo quella in cui caddero per mano mafiosa Paolo Borsellino e i cinque uomini della scorta, le forze dell’ordine, la magistratura hanno lavorato con grande professionalità e competenza e molto è stato fatto.
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Certo, non possiamo ancora affermare che la mafia sia un fenomeno non più attuale. Il percorso perché questa affermazione diventi una splendida realtà non è ancora ultimato. Oggi dobbiamo contribuire tutti a fare in modo che la strada tracciata da Giovanni Falcone prosegua fino a piegare definitivamente la criminalità organizzata. Tutti significa ciascuno, significa che non vi sono ruoli secondari nella lotta alla mafia. Dal semplice cittadino all’imprenditore, al politico, ciascuno ha questo compito attivo, ogni giorno, in ogni luogo. é il solo modo efficace di onorare Giovanni Falcone e gli altri martiri, ma è soprattutto il modo più alto di amare i nostri figli e la nostra Patria. (Generali applausi). LI GOTTI (IdV). Domando di parlare.
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PRESIDENTE. Ne ha facoltà. LI GOTTI (IdV). Signor Presidente, mi riconosco pienamente nelle parole che lei ha pronunziato con l'autorità dell'altissima carica che ricopre. Ci ha rappresentato con le sue parole manifestando dei sentimenti autentici che noi condividiamo. La storia giudiziaria del nostro Paese ci ha ormai consegnato il fatto che il 20 febbraio 1992 la commissione provinciale di Cosa nostra, all'indomani dell'esito del maxiprocesso esito nefasto per Cosa nostra, non tanto per le condanne quanto per l'annullamento delle assoluzioni - deliberava di sferrare l'offensiva stragista nei confronti dello Stato attraverso l'individuazione degli obiettivi da abbattere, attraverso la triplice indicazione consacrata negli atti processuali: uccidere i
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nemici; uccidere gli ex amici per sovravvenuta inaffidabilità; uccidere i traditori. Il primo di quei nomi era quello di Giovanni Falcone, già condannato a morte negli anni precedenti, quando proprio attraverso il maxiprocesso aveva concretizzato la possibilità di contestare - ed era un fatto raro che non avveniva da anni in Sicilia e in particolare a Palermo - il reato associativo. Era questo il passaggio che era mancato negli anni precedenti. Fu un attacco stragista violentissimo portato allo Stato, che vide saltare un pezzo dell'autostrada, perché dovevano tremare i palazzi fino a Roma. Giovanni Falcone - questa era la logica dell'attentato - era un nemico pericoloso, un nemico da abbattere, per tre aspetti significativi che Cosa nostra aveva colto: il suo metodo di lavoro; il suo intuito; la sua capacità
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di organizzare il lavoro di squadra. Egli operò in questa direzione, oltre che con il lavoro fatto con il maxiprocesso - che rimane una pietra giudiziaria fondamentale nella ricostruzione di quegli avvenimenti attraverso l'intuizione della costituzione della DIA e, come giustamente si ricordava, della procura nazionale antimafia, delle procure distrettuali e della legge sui collaboratori di giustizia, in un momento in cui l'Italia era veramente in ginocchio (tutti ricordiamo lo sgomento che colse il popolo italiano di fronte a ciò che stava avvenendo ed all'incapacità di individuare una risposta): metodo, modello e strumenti che il mondo ci ha invidiato e ci invidia. Quella stagione ha subìto poi un periodo di offuscamento, eppure Giovanni Falcone - voglio ricordarlo con queste ultime parole che spesso vengono ripetu-
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te - era fedele ad una sua profonda convinzione: la mafia, come tutte le cose umane, è destinata a finire. Con questo Giovanni Falcone voleva dire che combattere la mafia significa impegnarsi con costanza, con intelligenza, con dedizione, con esempi e coerenza, senza arretrare un attimo, perché certe cose finiscono se l'uomo vuole che finiscano e noi come politici abbiamo il dovere di farle finire. Ecco perché è giusto ricordare Giovanni Falcone, ma ricordarlo significa ricordare il suo metodo e i suoi strumenti di lavoro, la sua intelligenza, il suo intuito. Rendere attuale il ricordo di Giovanni Falcone significa rendere attuale la lotta alla mafia per poterla sconfiggere, perché dipende da noi. (Applausi dai Gruppi IdV, PD e PdL. Congratulazioni). BODEGA (LNP). Domando
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di parlare. PRESIDENTE. Ne ha facoltà. BODEGA (LNP). Signor Presidente, a 17 anni dall'atroce fine che strappò alla propria terra cinque tra i figli migliori del Sud, ne ricordiamo oggi le figure esemplari, l'ammirevole abnegazione, il fulgido coraggio nella lotta strenua e generosa contro il flagello della mafia. La memoria è doverosa: in questo senso, risulta lieve il peso del pur immenso debito che lo Stato, le istituzioni e l'intera comunità civile hanno contratto nei confronti di chi offrì tutto di sé per la salvezza e il riscatto della propria gente. Da 17 anni per quanto riguarda i martiri della strage di Capaci, ma ormai da mezzo secolo, a datare dalla rimpatriata di Cosa nostra, lo Stato italiano ha dichiarato ostilità aperte
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nei confronti di mafia, 'ndrangheta, camorra e sacra corona unita. Oggi la mafia siciliana, avendo subìto colpi durissimi, cede terreno, che tuttavia viene presto riconquistato alle attività criminose dalle organizzazioni sorelle, in primis la 'ndrangheta calabrese. L'immigrazione incontrollata nel nostro Paese, caldeggiata non per virtuoso altruismo cristiano, ma per vizioso masochismo, ha poi consentito la penetrazione in forze di terribili mafie straniere, attualmente soprattutto impegnate a intessere quelle reti logistiche criminali che preludono a sviluppi preoccupanti. La ricorrenza della strage di Capaci è una pietra che si abbatte sulla nostra memoria e sulla nostra coscienza: il doveroso omaggio a Giovanni Falcone non si può esaurire in un rituale, sia pur sentito, celebrativo di un autentico eroe del
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nostro tempo. C'è la sua lezione, ancora oggi attualissima, che deve essere declinata ai nostri giorni, laddove i segni dell'attività mafiosa sono sempre più visibili, anche in territori lontani dalla culla naturale, e in forme diverse e più raffinate avvelenano e ipotecano pesantemente attività economiche e commerciali del Nord e di ogni parte d'Italia. In questo senso, mi sento di ringraziare il Parlamento, il Governo ed il ministro Maroni, che tiene alta la guardia e provvede a monitorare la progressiva espansione della nuova mafia e della 'ndrangheta, che vanno intrecciandosi dove c'è profumo di affari. Ricordando Falcone, cogliamo una stagione dolorosissima della storia del nostro Paese, quella calda estate che tolse al Paese due formidabili e indomiti servitori, come appunto Giovanni Falcone e Paolo Bor-
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sellino. Nel tracciato della loro testimonianza e della loro lotta senza quartiere alla mafia, si è formata un'intera classe dirigente in tutti i Corpi dello Stato, che ha saputo attrezzarsi e sferrare attacchi decisivi al cuore di questa piaga; piaga che ha radici profonde e sa sempre ripresentarsi sotto spoglie diverse. Il ricordo di oggi deve avere il valore di un impegno, convinti - come siamo - che le mafie, la 'ndrangheta, la camorra e tutte le forme di criminalità organizzata, interne ed esterne, si possono arginare e battere con un'azione determinata e preventiva delle forze dell'ordine, degli apparati appositi e dello Stato, in tutte le sue articolazioni territoriali. (Applausi dal Gruppo LNP e del senatore Li Gotti). LUMIA (PD). Domando di parlare.
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PRESIDENTE. Ne ha facoltà. LUMIA (PD). Signor Presidente, è così: il 23 maggio del 1992 è un giorno che nessuno di noi, nessun cittadino, può dimenticare. Quella voragine nell'autostrada a Capaci, Palermo, ha creato una ferita profonda, solo in piccola parte rimarginata. È stato un evento drammatico che è entrato nel cuore della storia del nostro Paese: rappresenta una sorta di spartiacque. È stata una sferzata di consapevolezza a quanti sottovalutavano, disconoscevano, minimizzavano la portata della presenza mafiosa a Palermo, in Sicilia e nel Paese tutto. È stata una chiamata di responsabilità forte, di denuncia, per quella parte delle istituzioni e della politica che hanno creato quel sistema di collusione che ha reso Cosa nostra potente, aggressiva e capa-
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ce di organizzare delle stragi: il 23 maggio a Capaci, dopo poche settimane in via d'Amelio e poi lungo il continente a Roma, a Firenze e a Milano. Giovanni Falcone un magistrato che sapeva faticare, intelligente, critico, che sopportò da più parti delle pesanti forme e tentativi di isolamento, ma seppe servire sempre in piedi il suo Stato; sua moglie Francesca Morvillo, anch'essa magistrato intelligente, capace e attiva; i tre stupendi agenti della scorta (Vito Schifani, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro) hanno donato la loro vita ad un Paese che se la deve meritare tutta e ciò avverrà quando avrà deciso di andare fino in fondo nell'eliminare la presenza delle mafie dalla società, dall'economia, dalla politica e dalle stesse istituzioni. Le forze dell'ordine, con passione e professionalità, la magistratura, con auto-
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nomia e intelligenza, hanno accertato le responsabilità cosiddette militari: gli esecutori materiali (chi azionò il telecomando), quelli che riempirono di tritolo il tunnel sotto l'autostrada, quelli che prepararono la strage e i capi di Cosa nostra, Riina e Provenzano, che decisero di aggredire lo Stato come mai prima di allora nella sua storia. Mancano ancora le responsabilità dei cosiddetti mandanti, di coloro che con Cosa nostra pensarono e decisero di agire, e gli eventuali intrecci di natura politica che hanno sempre caratterizzato le scelte della mafia nell'agire contro i rappresentanti delle istituzioni. Signor Presidente, la politica deve assumersi pienamente la responsabilità di chiarire fino in fondo la natura di quelle stragi e tutte le responsabilità politico-istituzionali che ad esse sono collegate. Signor
Possiamo sempre far qualcosa
Presidente, siamo pronti in Commissione parlamentare antimafia a donare al nostro Paese anche la più terribile, rigorosa e amara fra le verità, ma la politica nel contempo deve saper definire un salto di qualità come mai è avvenuto nella vita del nostro Paese. Colleghi, la lotta alla mafia deve diventare per tutti una grande priorità che deve impegnarci come mai prima d'ora, a partire dal nostro Parlamento. Diceva Giovanni Falcone: bisogna rendersi conto che la mafia è un fenomeno terribilmente serio e grave, che va combattuto non pretendendo l'eroismo di inermi cittadini, ma convergendo nella lotta le forze migliori delle istituzioni. Fino ad ora i risultati migliori li abbiamo ottenuti nella cosiddetta antimafia del giorno dopo: prima colpiscono, si riorganizzano e poi lo Stato reagisce. Dobbiamo passare a quella
Possiamo sempre far qualcosa
dimensione tanto cara a Falcone che è quella dell'antimafia del giorno prima: prevenirli, disarticolarli, scardinare il loro sistema integrato che sa agire tanto sul piano militare quanto su quello sociale, economico e politico. Oggi le proposte ci sono: dal 41-bis alle misure di prevenzione patrimoniale, dalla confisca dei beni al loro riutilizzo sociale e produttivo, al controllo di legalità nel sistema degli appalti, dalla lotta alle estorsioni e al riciclaggio locale e internazionale, dal sistema della compravendita dei voti financo allo scioglimento per mafia dei comuni infiltrati. Siamo ancora alle prime scelte, qui in Parlamento, al Senato; siamo ancora lontani da un'azione sistematica, profonda, in grado di sradicare il fenomeno mafioso. Molte delle proposte sono nate con Giovanni Falcone, adesso sta a noi
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decidere se la memoria che oggi celebriamo deve essere viva, attiva e capace di produrre risultati in grado di cancellare dal nostro Paese la presenza della mafia, o meglio delle mafie. Il Presidente della Repubblica, in un commovente intervento a Palermo, nell'aula bunker, di fronte a centinaia di giovani studenti, ha tracciato il cammino giusto. Le associazioni antiracket, la Confindustria siciliana, le associazioni di volontariato come Libera hanno fatto scelte positive, coraggiose ed esemplari. Adesso spetta a noi fare, fino in fondo, la nostra parte. (Applausi dai Gruppi PD, IdV e PdL). VIZZINI (PdL). Domando di parlare. PRESIDENTE. Ne ha facoltà. VIZZINI (PdL). Signor Presidente, colleghi, nel 1992,
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il 23 del mese di maggio, Giovanni Falcone con Francesca Morvillo, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani morivano nella strage di Capaci. Una strage che diede vita ad una stagione di attacco allo Stato da parte dell'ala militare della mafia, una stagione che non esito, oggi, a distanza di 17 anni, a definire una stagione di terrorismo politico‑mafioso. Da lì sino alle stragi del 1993. E mi piace ricordare che nella notte tra oggi e domani di 16 anni fa avveniva la strage di via dei Georgofili. Giovanni Falcone, quando entrò in scena come magistrato antimafia, di fatto si trovò in una situazione di rottura di una stagione in cui lo Stato stava per cedere silenziosamente alla infiltrazione della mafia nella nostra società. Egli costruì, comprendendo fino in fondo che i fatti di mafia non potevano essere esami-
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nati singolarmente, il lavoro dei pool che dovevano affrontare l'intera materia. Riuscì a convincere a collaborare mafiosi che mai avevano detto una parola, costruendo un impianto istruttorio - quello del maxiprocesso - che poi resse sino alla sentenza definitiva della Cassazione, diventando in quel modo un fatto sconvolgente nella vita del Paese e nella rottura degli equilibri. Per fare questo incontrò tanti nemici nella sua vita. Io ebbi, per caso, la fortuna di trovarmi ad essere nella sua stanza il giorno in cui otto magistrati del suo ufficio - tutti tranne uno - firmarono un documento di fiducia, perché veniva attaccato dalla politica e poi ancora attaccato e tradito da colleghi magistrati mentre doveva accedere a funzioni importanti (Applausi dal Gruppo PdL). Ma aveva conquistato il cuore di tanti giovani della
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Sicilia. È stato il primo magistrato che è riuscito a creare emozioni forti, che si sono scatenate nella società visibilmente per anni dopo la sua scomparsa. Il ricordo di Falcone ha vissuto e continua a vivere, nel condurre una battaglia intorno alla quale oggi c'è molto più popolo che scorte, c'è molto più popolo che istituzioni, c'è la partecipazione di tanti giovani che credono che tale battaglia si possa condurre. Ovviamente tutto questo ha portato a conseguenze drammatiche, ma ha rappresentato una svolta nella vita e nella lotta alla criminalità organizzata. Cosa nostra e le sue connessioni interne ed internazionali hanno subìto un durissimo colpo. Ed è vero quello che è stato detto in quest'Aula, lo dico con grande angoscia interiore. Abbiamo identificato gli esecutori materiali della strage. Abbiamo identificato - i
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magistrati e gli inquirenti hanno identificato - i mandanti interni, i capi di Cosa nostra che avevano deciso l'azione, i capi di Cosa nostra di quell'epoca, che ardirono pensare che dopo le stragi si sarebbe aperta una fase in cui avrebbero trattato con lo Stato come se fossero stati un altro Stato o uno Stato nello Stato. Badate bene, stiamo parlando di cose avvenute non nel 1500, ma poco più di dieci anni fa, nella Repubblica italiana. E Giovanni Falcone aveva capito tutto questo. Per questo ha perso la vita. Io credo allora - e concludo, signor Presidente, onorevoli colleghi - che la vera commemorazione di Giovanni Falcone la faremo quando avremo fatto piena luce, verità e giustizia su tutta quella stagione, che rappresenta ancora un buco nero e buio nella storia della Repubblica italiana. Questa è la realtà di quella
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stagione. Restano molte cose da capire e molte da verificare; e resta da capire se il fenomeno fu tutto un fatto tra la mafia e i magistrati coraggiosi o se a questo si arrivò con tutta una serie di connessioni che sono ancora da svelare, tant'è che procure importanti stanno ancora lavorando. Credo che 17 anni siano un tempo che può consentire oggi di arrivare finalmente alla verità, perché i giovani che crescono possano sapere e ricordare sempre, nel loro futuro, qual è la verità della più brutta stagione che la nostra Repubblica ha vissuto dalla sua fondazione ai giorni nostri. (Applausi dal Gruppo PdL e del senatore Vallardi). CALIENDO, sottosegretario di Stato per la giustizia. Domando di parlare. PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
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CALIENDO, sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, la ringrazio e mi associo, a nome del Governo, alle sue parole, ma la vita riserva a volte anche delle sorprese. Mi trovo qui oggi a commemorare Giovanni, e credo che nessuno di noi possa capire la grandezza di Giovanni Falcone se non si ricorda che egli era un giudice che svolgeva esclusivamente funzioni civili, un giudice fallimentare. Quando alcuni di noi all'epoca ero componente del Consiglio superiore della magistratura - riuscirono a nominare Rocco Chinnici consigliere istruttore di Palermo e con lui andai a pregare Giovanni Falcone di passare alla magistratura penale, lui portò in quell'esperienza la formazione del giudice civile, l'attenzione alle regole del contraddittorio, alle regole del processo. Inventò, con Rocco Chinni-
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ci, un sistema di accertamento delle responsabilità penali, ma non si è mai illuso di poter risolvere il problema della mafia con i processi. I processi servivano ad accertare le responsabilità, a condannare i responsabili di fatti mafiosi, ma ha sempre ritenuto che la mafia poteva essere debellata dal corretto funzionamento di tutte le istituzioni del Paese, a partire dall'istituzione giudiziaria. La mafia cresce e può anche avere addentellati all'interno delle istituzioni quando non vi è un corretto comportamento in ogni agire quotidiano, in ogni azione della vita. È solo così che la mafia può essere debellata. E Giovanni Falcone portò nell'esperienza del penale, venendo dal civile, le sue cognizioni, la sua concezione dello Stato, la sua concezione di servitore di questo Paese, insieme a Francesca Morvillo, che era del mio con-
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corso e che è morta. Badate che la vera svolta fu impressa da quel gruppo di magistrati che iniziarono a capire la necessità di lavorare in pool, di lavorare senza il bisogno di primeggiare o di essere riconosciuti come i primi della classe. E Giovanni Falcone ha esercitato in questo modo il suo ministero durante tutta la sua vita. L'ho incontrato ancora, una settimana prima che fosse ammazzato, per la realizzazione del sogno che aveva in mente: la Direzione nazionale antimafia, ma una Direzione nazionale antimafia diversa da quella che poteva essere realizzata e che convinse il Parlamento a varare. Ricordare Giovanni Falcone serve a ricordare Rocco Chinnici, Paolo Borsellino, tutti gli altri, da ultimo Livatino, morti nell'adempimento del dovere, perché rappresentavano, in una terra in cui molte volte le
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istituzioni non avevano una parvenza di legalità, quel baluardo di legalità
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che li portò alla morte. (Applausi dai Gruppi PdL e PD).
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sul 19º
anniversario Della strage Di via D’amelio (Senato della Repubblica, 19 luglio 2011 - presidenza del Presidente del Senato Renato Schifani)
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, ricorre oggi il diciannovesimo anniversario della strage di via D’Amelio nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della Polizia di Stato di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Una pagina tragica della vita della nostra Nazione, un evento che scuote ancora le nostre coscienze e che invita a riflettere e a meditare sulla ferocia e sulla pericolosità della criminalità organizzata che allora non esitò a commettere un delitto così efferato per colpire il cuore del nostro Paese. Paolo Borsellino era un
giudice che anteponeva su tutto il senso del dovere, dello Stato e i valori della democrazia. Magistrato dotto, sereno, scrupoloso nell’applicazione delle leggi che ai giovani colleghi invitava ad approfondire ed osservare prima di tutto e sopra ogni cosa, Paolo Borsellino è stato esempio di come si amministra la giustizia. Da giudice istruttore a Palermo, aveva affrontato diverse vicende giudiziarie fino all’istruzione del più poderoso processo della storia della criminalità organizzata mafiosa: il maxiprocesso definito poi dalla corte d’assise di Palermo con centinaia di condanne severe, confermate in secondo grado e dalla
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Suprema corte il 30 gennaio 1992. A quel processo, Borsellino aveva lavorato in piena sintonia con Giovanni Falcone, con passione, con determinazione, con volontà di capire e di predisporre un impianto accusatorio che reggesse al vaglio dei magistrati decidenti. La stesura dell’ordinanza di rinvio a giudizio era stata completata dai due magistrati in località protetta, per le fondate e ripetute minacce di morte ricevute. I due giudici erano accomunati dalla stessa tenace volontà di comprendere le dinamiche e la struttura dell’organizzazione criminale «cosa nostra», che nella loro terra di Sicilia – alla quale erano profondamente legati da un vincolo di amore – tendeva ad impadronirsi dei settori vitali dell’economia con metodi illegali, contro ogni forma di democrazia. Fu anche a causa di quel
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processo che la mafia volle la loro morte e la eseguì con modalità efferate ed eclatanti, così da lasciare non solo nel nostro Paese, ma in tutto il mondo, un ricordo tragico ed indelebile. Paolo Borsellino veniva ucciso a meno di sessanta giorni di distanza dall’amico e collega Giovanni Falcone; con le due stragi venivano eliminati i due uomini che rappresentavano il simbolo della volontà di non arretrare di fronte al fenomeno mafioso; la volontà di riscatto e di combattere e di fare della Sicilia una terra libera da violenza, intimidazione, ricatto. Ma la reazione dello Stato fu allora, e rappresenta anche oggi, la risposta più severa e decisa. Dopo il 1992 i continui risultati ottenuti da magistratura e forze dell’ordine sono la dimostrazione tangibile della prosecuzione inces-
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sante del lavoro di Borsellino e Falcone, sulla scia da loro tracciata. Sono la conferma che lo Stato c’è, e sa rispondere con spirito di coesione ed affrontare unito le emergenze e le difficoltà. La strage mafiosa di via D’Amelio, nonostante i numerosi ergastoli inflitti a personaggi di spicco della criminalità organizzata mafiosa, presenta ancora oggi lati oscuri che continuano ad essere oggetto di approfondimento da parte della magistratura. A tutti i magistrati impegnati in questa instancabile attività, va il nostro ringraziamento e il nostro sostegno. La verità deve continuare ad essere ricercata, i riflettori sulla morte di un uomo giusto e dei suoi uomini della scorta non devono mai essere spenti finché ogni ombra sarà fugata. Capire cosa accadde, chi volle che accadesse, resta per tutti un imperativo non
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solo morale. Abbiamo un debito nei confronti non soltanto delle famiglie che hanno sopportato in questi lunghi anni il dolore per la perdita di persone care; abbiamo un debito verso la Nazione e i cittadini onesti che hanno il diritto di conoscere tutta la verità su un giorno così buio della nostra Repubblica. Onorare la memoria di Paolo Borsellino e di quanti, servitori dello Stato, hanno creduto nei veri valori della legalità, della democrazia, nei princìpi fondanti della nostra Carta costituzionale, significa prima di ogni cosa seguire il loro esempio, fare tesoro dell’insegnamento che ci hanno lasciato, per contribuire nei fatti e sempre, con determinazione e tenacia, a rendere migliore la nostra terra d’Italia. La memoria e il ricordo assumono, allora, il vero e autentico significato, perché indicano la direzione
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obbligata che ciascuno di noi deve seguire per realizzare giorno dopo giorno la legalità; per essere ciascuno di noi esempio da offrire anche e soprattutto ai nostri giovani, che sono il nostro futuro. (Generali applausi). VIESPOLI (CN-Io Sud). Domando di parlare. PRESIDENTE. Ne ha facoltà. VIESPOLI (CN-Io Sud). Signor Presidente, signor Sottosegretario, colleghi, a volte ci sono frasi e immagini che da sole raccontano una storia ed il senso di una storia. «Un giorno questa terra sarà bellissima»: è una frase di Borsellino, che da sola racconta una vita, il senso di una vita e del suo sacrificio. E’ una frase di struggente semplicità e di straordinaria forza evocativa e simbolica, perché descrive un eccezionale
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rapporto di identità, un legame con la propria terra, la Sicilia, perché racconta un rapporto fortissimo con la volontà di combattere in nome dei valori della legalità e di rappresentare il senso e il valore dello Stato, e in questo modo determinare e costruire una speranza. «Questa terra sarà bellissima» è il tentativo di animare una speranza, pur in un luogo di difficoltà, di confronto forte, violento, aggressivo; racconta il tentativo di affermare alcuni valori per i quali noi ricordiamo sempre Borsellino, in particolare il valore dello Stato. In fondo, quando pensiamo a Borsellino, riportiamo alla mente cose che appaiono purtroppo desuete. Il fatto che di un uomo con la toga si dica, si scriva e si legga che la sua unica ambizione era quella di essere un servitore dello Stato oggi appare desueto,
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superato. Egli era un servitore dello Stato, un uomo capace di servire le istituzioni, di esprimere sobrietà attraverso il proprio impegno, umile ma forte, determinato nel contrasto al fenomeno criminale. Credo tuttavia che ci sia un’altra immagine da ricordare, Presidente, ed è quella di un uomo che muore mentre porta il suo saluto alla madre, vittima di una madre terra matrigna, che lo ammazza nel momento in cui egli esprime ancora la forza straordinaria di alcuni valori, che purtroppo appaiono – anche questi – desueti. Allora, ricordare Borsellino significa ricordare tutto questo: significa ricordare il servitore dello Stato; significa ricordare, per chi ha avuto una certa storia politica, che ci sono valori che vanno continuamente rappresentati, non solo in occasioni come quella che stiamo vivendo, ma nella
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quotidianità dell’impegno, del confronto e del dibattito politico. Lei, Presidente, in un passaggio del suo intervento, ha detto che ci sono ancora lati oscuri. Ecco, io credo che oggi si possa e si debba affermare, con una coralità istituzionale, prima ancora che politica, che tutti abbiamo il diritto alla verità. Se non c’è la verità, non solo la Sicilia, ma la nostra Patria difficilmente potremo definirla una terra bellissima. (Applausi). DE ANGELIS (Per il Terzo Polo: ApI-FLI). Domando di parlare. PRESIDENTE. Ne ha facoltà. DE ANGELIS (Per il Terzo Polo: ApI-FLI). Signor Presidente, oggi, 19 luglio, commemoriamo il diciannovesimo anniversario della morte di Paolo Borsellino e ricordiamo che con
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lui morirono e sacrificarono la loro vita gli agenti della sua scorta, i cui nomi vorrei citare: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Siamo a 19 anni dalla tragica scomparsa di un uomo che ha dato la sua vita per quei valori di democrazia che noi oggi ancora portiamo avanti con determinazione, ma che soprattutto stanno portando avanti, e vogliamo ringraziarli in questo momento, gli organi dello Stato, la magistratura e le forze di polizia, che tanti successi stanno continuando ad avere nei confronti della criminalità organizzata. Allora come oggi l’Italia si trovò di fronte ad un momento storico molto difficile, una fase in cui la criminalità organizzata aveva sferrato un duro attacco allo Stato. Borsellino e Falcone ne rappresentavano la difesa
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principale, il simbolo della legalità, il baluardo degli ideali delle nostre istituzioni. L’impegno serio ed efficace di Paolo Borsellino ha fatto sì che la sua opera diventasse un momento di grande importanza in tutta la società italiana. A lui, agli uomini, ai tanti poliziotti, ai tanti magistrati morti per difendere la legalità, la Patria e tutti quanti noi, dobbiamo tanto. Caro Presidente, lei ha sottolineato bene, anche in maniera molto incisiva, che dobbiamo dire no a quelle zone d’ombra che, dopo 19 anni, fanno sì che non si sia ancora arrivati ad una verità su una delle stragi di mafia più drammatiche della nostra storia. Dobbiamo dire no. Vogliamo andare alla ricerca della verità definitiva. Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. Come forze politiche dobbiamo dire no a
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quelle collusioni e a quelle zone d’ombra che ancora esistono all’interno dei partiti. Lo dobbiamo a tutti quegli uomini che hanno sacrificato la loro vita. Paolo Borsellino dopo tanti anni è diventato un mito per tutti quanti noi, un mito per la nostra società. Il contributo che ha dato alla società civile è stato importante, ma il contributo che quest’ultima ha dato è stato altrettanto importante: gli sono stati intitolati scuole, edifici pubblici, parchi e vie in tutte le parti della nostra Nazione. Ma la sua immortalità, perché di questo dobbiamo parlare, nella storia della nostra Patria è il ricordo che di lui conservano e portano innanzi i giovani. Le manifestazioni continue delle nuove generazioni nel suo nome fanno sì che Borsellino rientri nel Pantheon degli eroi della Patria. Di una Patria che i nostri giovani stanno cercando di
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portare avanti, fatta di legalità, di meritocrazia, di rispetto dello Stato e delle istituzioni; fatta di verità, di ricerca della verità in quei tanti, troppi momenti drammatici che ha vissuto e che non sono stati ancora chiariti. Il ricordo di Paolo Borsellino deve essere portato avanti proprio in virtù del suo sacrificio. Dobbiamo far sì che la sua vita e quella degli agenti della sua scorta non vadano sprecate. Lo stanno facendo i nostri giovani. Di ciò noi dobbiamo essere degni. (Applausi). LI GOTTI (IdV). Domando di parlare. PRESIDENTE. Ne ha facoltà. LI GOTTI (IdV). Signor Presidente, onorevoli colleghi, la commemorazione non è retorica se ad essa si accompagna una forte ten-
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sione di ricerca totale della verità, senza il timore di rimanerne stupiti. C’è stato un momento in cui autorevoli personalità politiche erano critiche sull’ansia di non far cadere l’oblio sulla storia tragica del nostro Paese. Ora, nessuno, forse qualcuno a malincuore, si permette più di dire che si sta inseguendo il passato. Noi non possiamo, e non vogliamo, accettare che la storia della nostra Repubblica sia tessuta con una trama di misteri tragici ed irrisolti. Noi non vogliamo che la strage di via D’Amelio sia un’altra pagina non scritta della storia. Noi non saremo una democrazia compiuta sin quando accetteremo di convivere con i misteri, spesso di Stato, espressione di collusioni e complicità, pagine non scritte che hanno nomi ben precisi: piazza Fontana, l’Italicus, Bologna, piazza della Loggia, Ustica, Moro, Mattei, Pecorelli, Sindona,
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Ambrosoli, Calvi, via D’Amelio e via dei Georgofili. Non si diventa matura e forte democrazia senza le risposte ai misteri. È interesse dell’Italia, è un nostro dovere, senza grottesche speculazioni e preconcette verità. Paolo Borsellino è stato trucidato quando non si era piegata la sua ansia di conoscere e capire, con il suo, ma era anche quello di Giovanni Falcone, metodo di lavoro «falsificazionista», ma non negazionista. Sarebbe bastato dare, per vivere, anche un impercettibile segnale di cedimento alla forza dirompente della barbarie. Fece, invece, il contrario. Fece capire di essere una roccia, con le sue penetranti interviste, con il suo parlare ai giovani. Il suo fu un dono di amore immenso per l’Italia e per la giustizia. Non basta essergli grati: noi gli dobbiamo di più;
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noi possiamo di più, per onorare il sacrificio e per dovere verso i nostri figli, assistiti dall’umiltà del dubbio, ma con la tensione per dare adesso risposte. Ho scolpiti nella mente e nel cuore tre ricordi: quando Giovanni Falcone mi chiese – non c’era ancora la legge sui collaboratori di giustizia ed era un momento difficilissimo e cruento, all’indomani della strage di Bagheria, quando vennero trucidate la madre, la zia e la sorella di Francesco Marino Mannoia – di assistere quelle voci che aprivano i primi squarci nell’omertà. Ricordo ancora la tensione del 1º luglio 1992, e l’interrogatorio interrotto di Mutolo, per consentire a Paolo Borsellino di recarsi al Ministero dell’interno. Infine, l’ultimo incontro con Paolo Borsellino, il 17 luglio di quell’anno, la tristezza e l’amarezza nei suoi occhi e la corsa contro il destino, per cercare la veri-
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tà. Non fece in tempo. Onore noi dobbiamo ai caduti per un’Italia libera dalla morsa mortale del male, intensificando il contrasto e recidendo il rapporto con la politica, isolando i collusi, liberando Parlamento e istituzioni dagli insani ospiti, senza perniciose indulgenze, ritrovando la linea di discrimine tra chi è morto per combattere la mafia e chi con la mafia fa affari e dalla mafia prende voti. Paolo Borsellino, e le tante altre vittime, giovani che servivano lo Stato, sono i nostri eroi. Noi non ne conosciamo altri. (Applausi. Congratulazioni). SERRA (UDC-SVP-AUT: UV-MAIE-VN-MRE-PLI). Domando di parlare. PRESIDENTE. Ne ha facoltà. SERRA (UDC-SVP-AUT: UV-MAIE-VN-MRE-PLI).
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Signor Presidente, vorrà consentire alcuni ricordi personali, e anche un pensiero intriso di commozione, sia pure a distanza di tanto tempo. Sono passati 19 anni, e ho ancora negli occhi quella immagine: una strada, quella che porta da Palermo all’aeroporto, sollevata come una montagna da 1.000 chili di tritolo, e la morte di Giovanni Falcone con gli uomini della scorta e la moglie. Ho ancora l’odore di quei poveri corpi bruciati da una violenza che non aveva precedenti. Ma ho negli occhi ancora la figura di un uomo appena giunto sul posto, disperso nel vuoto, colpito da un dolore enorme per la perdita di un grandissimo amico. Quell’uomo era Paolo Borsellino. Di lui ricordo il magistrato dalle eccezionali doti professionali, pari solo alla serenità del suo giudizio, in ogni circostanza; un compagno con il quale ho divi-
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so e condiviso pagine indimenticabili. Ricordo l’uomo, straordinario con la sua famiglia. Ricordo l’amico. Ero sicuro che nessuno più di lui, in quegli anni, avesse la consapevolezza di quello che stava accadendo. Siamo nel 1992 e Tangentopoli sta irrompendo nella vita politica del nostro Paese. Era difficile per me capire dove quell’uomo straordinario trovasse quel coraggio, quella tenacia di sempre, quella forza di andare avanti in un momento così devastante per il Paese. Una forza rimasta intatta, totalmente intatta, fino al 19 luglio, giorno in cui la mafia decise di farla finita anche con lui e mise fine al suo instancabile lavoro e al suo compito, che per lui era una missione vera. Disse nell’ultima intervista (che lezione per tutti noi!): «La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi
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in estremo pericolo è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio. So che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri insieme a me e so anche» – proseguì – «che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuare a farlo, senza lasciarci condizionare dalla sensazione o dalla certezza che tutto questo può costarci caro». Questo – ne sono convinto – è l’insegnamento migliore per tutti noi. Ancora oggi mi chiedo se un giorno arriverà la verità, se riusciremo a capire perché e chi ha premuto quel pulsante provocando quella tragedia immane, che ha visto morire con Paolo Borsellino gli eroici uomini della sua scorta. Mi chiedo se si riuscirà mai a dipanare l’intricata matassa della connivenza e delle falsità. Ho la speran-
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za, però, che tutto questo possa avvenire, perché i magistrati siciliani, pur a distanza di tanti anni, stanno lavorando con coraggio e grande professionalità, sebbene nelle crescenti difficoltà dell’ambiente in cui sono costretti ad indagare, ambiente talvolta fin troppo vicino ad apparati statali infedeli. Poco dopo la morte di Paolo sono tornato nella sua Palermo da prefetto, e ho avuto l’onore di conoscere la moglie, una donna eccezionale (non poteva che essere così), e il figlio, che da poliziotto voleva seguire le orme del padre, un servitore dello Stato. A quella famiglia, degna di un giudice, ma soprattutto di un uomo così straordinario, va il mio ricordo, il mio pensiero e quello di tutto il mio Gruppo. (Applausi). VALLARDI (LNP). Domando di parlare.
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PRESIDENTE. Ne ha facoltà. VALLARDI (LNP). Signor Presidente, sono trascorsi 19 anni da quel triste e tragico 19 luglio 1992. Paolo Borsellino fu assassinato con una carica di tritolo, lo sappiamo: in quel momento se ne andò un valoroso giudice. Insieme a lui se ne andarono però anche Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, tutti agenti di Polizia della sua scorta. Fu quella una grande perdita per il nostro Paese: una grandissima perdita per la lotta alle mafie e alla criminalità organizzata in genere. Paolo Borsellino è un eroe dei nostri tempi (ma definirlo un eroe è poco). Come tutti gli eroi, egli ci ha lasciato insegnamenti positivi: la sua dedizione al lavoro, il suo impegno, il
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suo ingegno, il suo attaccamento al fare piuttosto che all’apparire (questa è sicuramente una grande dote), la sua concretezza, le sue idee, la sua paura, anche però accompagnata da un grandissimo coraggio, che lo ha fatto andare sempre avanti, fino alla sua triste fine, il suo inarrestabile desiderio di riuscire a cambiare quella città, quella Regione, questo Paese, purtroppo troppo spesso fatti anche di troppi, troppi silenzi. Le sue idee sono state raccolte però come preziosa eredità da questo Governo – bisogna riconoscerlo – in cui il ministro Maroni, prendendo spunto anche dalle sue idee, ha attuato l’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla mafia, dimostrando di non dimenticare il prezioso esempio e la volontà di Paolo Borsellino e di essere con questo accanto a tutte quelle forze dell’ordine che
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sempre, quotidianamente, combattono contro le mafie. Il valore del giro di affari della mafia è impressionante: si parla di 135 miliardi di euro, di cui oltre 70 miliardi di utile. Paolo Borsellino voleva l’agenzia per i beni confiscati, e credo che ogni confisca di beni, ogni sequestro di denaro e ogni arresto di latitante sia il modo migliore, sia un modo eccezionale per ricordarlo e per ricordare tutti coloro che come Paolo Borsellino hanno creduto che la mafia si può e soprattutto si deve sconfiggere. Noi della Lega Nord siamo convinti che il sacrificio e il ricordo di questo servitore dello Stato sia e debba essere di esempio e di monito all’impegno di tutti nella lotta contro la criminalità organizzata e contro tutte le mafie, senza dimenticarci che le mafie non sono solo al Sud: sono anche al Centro e al Nord
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del nostro Paese, e solo con la coesione e l’impegno di tutti riusciremo a sconfiggere la criminalità organizzata. (Applausi). CAROFIGLIO (PD). Domando di parlare. PRESIDENTE. Ne ha facoltà. CAROFIGLIO (PD). Signor Presidente, il 19 luglio 1992 oltre a Paolo Borsellino – è stato già detto, ma giova ripeterlo – morirono gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Non possiamo onorare lui senza onorare loro, tutti insieme collocati sulla stessa linea ideale, cioè il fronte del coraggio e della dignità di fronte all’ottusa barbarie delle mafie, di tutte le mafie: quelle più riconoscibili, perché munite di mitra ed esplosivi, e soprattutto quelle occulte,
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le più pericolose perché annidate nelle stanze del potere. Posso dirlo? Non amo le commemorazioni. In esse è sempre presente il rischio delle frasi fatte, dell’elogio ipocrita, della retorica di chi è molto bravo, a volte, a parlare e meno a trarre le conseguenze delle parole, trasformandole in fatti e in contegni. Allora, preferisco far risuonare in quest’Aula, attraverso la mia, la voce di Paolo Borsellino, leggendo la trascrizione testuale di un suo intervento in una scuola, e non è privo di significato che proprio di un intervento in una scuola si tratti. Lo leggerò senza spendere una sola parola per commentarlo. «L’equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le
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organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. Eh no! Questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire che quest’uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano, devono trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi, che non costituivano reato – o i reati non sono stati accertati – ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono
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stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno?». Sono – ripeto – le parole di Borsellino pronunciate in una scuola. Paolo Borsellino era consapevole di andare incontro al suo destino, ogni giorno un passo in più. Un destino che sfuggiva – come di fatto è sfuggito – al suo controllo. Lo disse più volte, come lo disse Giovanni Falcone, come lo dissero altri, caduti su quella linea di resistenza della
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civiltà contro la barbarie. Questa consapevolezza non mutò la loro determinazione. Ci sono momenti in cui quello che accade sfugge al nostro controllo, in cui il caso o forze sovrastanti – ciò che non era prevedibile e che comunque non è governabile – sembrano dominare le nostre vite, individuali e collettive. Ma anche in quei momenti possiamo decidere e scegliere come comportarci rispetto all’ottusa brutalità del destino. Il coraggio, il rispetto di noi stessi, la dignità, la capacità di mantenere fede alla parola data – agli altri, ma soprattutto a noi stessi – sono le qualità che ci rendono padroni della nostra sorte, anche quando sembra che un destino spietato potrà presto sovrastarci. Borsellino, come Falcone, come altri, sono stati padroni della loro sorte, anche e soprattutto quando
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sono andati incontro, consapevolmente al loro destino. Concludo il mio intervento dedicando loro una poesia che amo molto: una poesia sulla dignità di chi si trova sottoposto ad un destino che non riesce a sconfiggere e sceglie comunque l’atteggiamento da adottare rispetto a quel destino. La poesia è stata scritta da un poeta inglese del XIX secolo, William Ernest Henley e si intitola – non a caso – Invictus. «Dal profondo della notte che mi avvolge, buia come il pozzo più profondo che va da un polo all’altro, ringrazio qualunque dio esista per la mia anima invincibile. Nella feroce morsa del caso non ho arretrato né ho gridato d’angoscia. Sotto i colpi d’ascia della sorte il mio capo sanguina ma non si piega. Oltre questo luogo di collera e lacrime incombe solo l’Orrore dell’ombra, eppure la minaccia degli
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anni mi trova, e mi troverà, senza paura. Non importa quanto sia stretta la porta, quanto pieno di castighi il destino, io sono il padrone della mia sorte: io sono il capitano della mia anima». (Applausi). GASPARRI (PdL). Domando di parlare. PRESIDENTE. Ne ha facoltà. GASPARRI (PdL). Signor Presidente, onorevoli colleghi, il nostro Gruppo si associa al ricordo di Paolo Borsellino e di tutti gli agenti della sua scorta sterminati, come tutti ricordiamo, 19 anni fa in via D’Amelio, in un’estate che fece seguito ad una tragica primavera. Una delle fasi più oscure della storia della Repubblica; una fase che però portò ad una reazione immediata delle istituzioni, del Parlamento, con il varo di norme, di provvedimenti,
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di misure tesi a contrastare in maniera forte e determinata la criminalità organizzata, in particolare la mafia. Come tutti, non intendiamo solo associarci ad un ricordo, che peraltro non dev’essere un’occasione retorica, bensì un momento vero, vivo, pulsante, di riflessione sui temi della legalità, della lotta alla criminalità; nelle Aule del Parlamento e in tutti i luoghi, a Palermo e ovunque, Paolo Borsellino e la sua scorta vengono ricordati, così come tanti altri eroi, da Falcone a Livatino, che hanno pagato con la vita il loro impegno di contrasto alla criminalità. Riteniamo piuttosto che l’impegno non debba esaurirsi nei discorsi, e che ad esso debbano seguire i fatti. E per quanto riguarda le indagini, i depistaggi e tutte le vicende di cui si discute, come tutti, ci auguriamo che l’accertamento definiti-
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vo della verità sia il più rapido possibile, ma non possiamo, proprio per non essere formali e per essere invece sinceri in questo ricordo, non rilevare quanto, nel corso di questa legislatura è emerso in maniera grave e inquietante. Mi riferisco ad una vicenda della quale forse poco si sta parlando, quella relativa all’applicazione di alcune norme: parlo del 41-bis e del carcere duro, di cui nei giorni scorsi si è tornato a parlare anche in riferimento a orientamenti che da parte degli organismi europei competenti in materia di diritti umani sono stati espressi. Il 41-bis, il carcere duro, quelle misure di particolare isolamento dei boss mafiosi furono introdotte proprio all’indomani di queste tremende stragi della primavera-estate siciliana. Proprio nel 1992, quando furono adottati questi decreti-legge e queste
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misure, si passò all’applicazione di tali normative. Nel corso della legislatura, dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia, l’ex ministro della giustizia Conso narrò, con una sincera illustrazione dei fatti, una storia che non era stata sufficientemente portata all’attenzione della pubblica opinione: nel novembre 1993, non dopo 19 anni ma solo dopo un anno e mezzo dalla strage di via D’Amelio e poco tempo dopo la strage di Capaci, si decise di non rinnovare la misura prevista dall’articolo 41-bis (all’epoca il regime del cosiddetto carcere duro veniva deciso a tempo) per diverse centinaia di esponenti della criminalità organizzata. L’ex ministro Conso – della cui onestà personale nessuno ha mai dubitato in quest’Aula, né nella Commissione antimafia, né altrove – ha fornito dinanzi alla Commissione parlamentare
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antimafia una motivazione inquietante di quella scelta. Egli ha affermato che si è tentato di dare un segnale in una stagione stragista (altri attentati ed altre vicende inquietanti seguirono le stragi di Capaci e di via D’Amelio). Alla fine del 1993, dunque, con successivi atti (ricordo che al Governo Amato subentrò il Governo Ciampi), si decise di cancellare e di non prorogare quella misura. Credo che tale vicenda sia quella più scandalosa tra le tante, pur inquietanti, emerse nel corso di quella legislatura. Dedichiamo giustamente molta attenzione a numerosi fatti, ma si dedica poca attenzione a questa vicenda inquietante. (Applausi dal Gruppo PdL. Commenti dei senatori Astore e Garavaglia Mariapia). Riteniamo che la Commissione parlamentare antimafia abbia acquisito tutti gli elementi; è stato chiesto
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che la Commissione antimafia potesse avere dal Ministero della giustizia, dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, tutta la documentazione. Al riguardo, si è svolta una lunga discussione, ma questa non è la sede più idonea, né vi sono tempi adeguati per ricordarne i vari passaggi. Pensiamo, però, che anche alcuni esponenti delle istituzioni – ci rivolgiamo, con grande rispetto, al presidente Scalfaro, al presidente Ciampi e all’ex ministro dell’interno Mancino – debbano aiutare il Parlamento e le istituzioni a fare luce su questa vicenda che merita di essere portata all’attenzione. Noi lo abbiamo fatto, signor Presidente, con una mozione, che riteniamo dovrà essere discussa in Aula nelle prossime settimane, perché, al di là delle attività lodevolmente condotte in Commissione antimafia, con acquisizioni di
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materiali, crediamo che l’Assemblea del Senato abbia il diritto di conoscere perché, come, ad opera di chi e quando si decisero quelle misure in netto contrasto con ciò che il Paese auspicava, con ciò che l’Italia aveva fatto all’indomani di quelle stragi e con ciò che si è fatto successivamente. Io ho l’onore di aver fatto parte di un Governo che ha reso permanente nell’ordinamento penitenziario l’articolo 41bis; inoltre, in questa legislatura, per iniziativa del nostro Gruppo e del Governo e con un’ampia condivisione (credo pressoché unanime), abbiamo rafforzato l’istituto del 41-bis. Allora, dedichiamo con fatti concreti e con precisi atti del Parlamento il nostro impegno alla memoria di Paolo Borsellino e della sua scorta. Credo che non saranno i Ciancimino junior o alcuni personaggi a raccontare la
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verità: dovrà essere anche il Parlamento a fare luce, non solo sulla verità di quelle stragi, ma sui fatti che attenuarono lo sforzo dello Stato. Si tratta di una vicenda inquietante che, in memoria di Paolo Borsellino, vogliamo portare all’attenzione dell’Assemblea del Senato. (Applausi dal Gruppo PdL. Congratulazioni). CALIENDO, sottosegretario di Stato per la giustizia. Domando di parlare. PRESIDENTE. Ne ha facoltà. CALIENDO, sottosegretario di Stato per la giustizia. Signor Presidente, a nome del Governo, intendo associarmi alle sue parole per il ricordo degli agenti che furono ammazzati nell’eccidio di via D’Amelio e per il ricordo di Paolo Borsellino. Ho citato prima gli agenti, perché ho avuto la
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fortuna, o la sfortuna, di conoscere Paolo Borsellino e Giovanni Falcone nel 1976. La senatrice Finocchiaro, che li ha conosciuti come me, sa che loro avevano il dono dell’umiltà e la capacità di vedere al di là delle posizioni e degli incarichi, ai quali molti aspirano: per loro era importante il lavoro che svolgevano. Nel 1976 Giovanni Falcone era ancora un giudice del civile. Tutti dobbiamo ancora misurare l’importanza di quello che è stato creato all’epoca della gestione dell’ufficio istruzione di Rocco Chinnici. Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Borsellino introducono un nuovo modo di investigare e di rispondere all’attacco mafioso: un modo che è stato d’insegnamento alle nuove generazioni, anche se a volte, forse, non è stato compreso fino in fondo per essere
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seguito integralmente. Ritengo che in questi tre anni, in un momento particolare, il Senato abbia dato una risposta al riguardo ricordando figure come Falcone, Borsellino e Livatino, il cui processo di canonizzazione è stato da poco avviato (Applausi), attraverso un voto unanime, quindi senza differenze di schieramento, ricreando lo stesso spirito con cui abbiamo votato l’articolo 2 del cosiddetto disegno di
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legge sicurezza, che prevede una riscrittura delle norme antimafia, e non solo dell’articolo 41-bis. Questa è la logica con cui sposo le parole del Presidente sottolineando, in particolare, la necessità che non vi siano più ombre e che quelle che ci sono ancora siano diradate, e perché ci sia restituita la verità su quello che ha portato a sottrarci non solo dei servitori dello Stato ma, per me, degli amici. (Applausi).
LE PRIME PAGINE DI ALCUNI QUOTIDIANI NEI GIORNI SUCCESSIVI ALLE STRAGI DI CAPACI E DI VIA D’AMELIO
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