Disegno di Milo Manara
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Un borghese piccolo piccolo «Dalla prima pagina il romanzo di Vincenzo Cerami ti prende obbligandoti a fissare uno sguardo spietato su un campione di società italiana quanto mai rappresentativo: il mondo di un impiegato di ministero, che passa la vita a mandare avanti pratiche di pensione attendendo di andare in pensione lui stesso e di portare suo figlio a occupare un posto nello stesso ministero, a un grado superiore al suo. Una storia d’impiegati ce l’aspetteremmo grigia e povera di fatti e prevedibilmente caricaturale: invece qui di fatti ne succedono parecchi, e dei più romanzeschi: da un’incongrua cerimonia d’iniziazione massonica a una cruenta irruzione nella cronaca nera quotidiana, a un’allucinata, truce vendetta. Ma anche i fatti, appena successi, vengono inghiottiti dalla sorda, vischiosa continuità dell’esistere. È una storia di vittime e nello stesso tempo di mostri, quella che Cerami racconta: vittime d’un assurdo che possiamo scegliere di definire sociale oppure metafisico senza che questo cambi nulla nell’oscura, quasi inarticolata determinazione con cui vi si muove chi non ha altro fine che il farsi largo entro un chiuso orizzonte. Ci rendiamo conto che l’assurdo di questa “tranche de vie” dei nostri giorni ha una dimensione di tragedia. E che è una Roma letterariamente inedita quella che Cerami ci mostra: feroce sotto la risaputa apparenza bonaria.” Dalla presentazione di Italo Calvino a Vincenzo Cerami, Un borghese piccolo piccolo, Garzanti, Milano 1976. Un borghese piccolo piccolo Regia: Mario Monicelli. Soggetto: dal romanzo omonimo di Vincenzo Cerami. Sceneggiatura: Sergio Amidei, Mario Monicelli. Interpreti: Alberto Sordi, Vincenzo Crocitti, Shelly Winters, Romolo Valli, Renzo Carboni, Ettore Garofalo, Enrico Beruschi, Valeria Perilli, Renato Scarpa. Fotografia: Mario Vulpiani. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Musica: Giancarlo Chiaramello. Scenografia: Lorenzo Baraldi. Costumi: Gitt Magrini. Prodotto da: Luigi e Aurelio De Laurentiis per Auro cinematografica. Distribuito da: Cineriz. Italia 1977
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Vivaldi Giovanni (Alberto Sordi), vicino alla pensione, vuole far entrare il figlio Mario (Vincenzo Crocitti), che ha appena ottenuto il diploma di ragioniere, nel ministero dove lui lavora. Diventa massone per ingraziarsi il capoufficio che può procurargli in anticipo il titolo del tema del concorso che il giovane deve sostenere. La mattina della prova scritta, durante il tragitto per raggiungere la sede dove si svolgono gli esami, padre e figlio assistono a una rapina e Mario viene ucciso da una raffica sparata da un giovane criminale in fuga. Giovanni vede in faccia l’assassino. In questura, durante un confronto all’americana, lo riconosce e invece di denunciarlo, quando esce lo segue con la sua utilitaria. Quando è notte tarda riesce a bloccarlo, lo colpisce con il cric e lo trasporta in un suo capanno fuori città. Vivaldi infierisce sul rapinatore dopo averlo legato e imbavagliato. Lo tortura per giorni fino a farlo morire, mentre continua la sua vita di sempre…
“Il romanzo di Cerami – ha dichiarato Monicelli – mi ha subito interessato perché costruisce la figura di un borghese che, colpito nei suoi affetti, vuole vendicarsi da solo. Il lavoro di trascrizione cinematografica è stato complesso, innanzitutto per via della tecnica di scrittura che l’autore ha usato nel libro: un linguaggio mimetico che circonda i personaggi e le situazioni, mostrandoli schiacciati, come attraverso una lente. La storia è umana, addirittura patetica ma occorre tenere presente il contesto in cui si compie. È una piccola borghesia che io definirei anticristiana quella a cui appartiene il protagonista. La ferocia di questo piccolo borghese, quando viene colpito nel suo affetto più caro, è spaventosa. La vendetta è qualche cosa che matura lentamente… Il personaggio del protagonista è quello di un uomo dalla mentalità chiusa, egoista e assolutamente mancante di socialità… Nelle immagini abbiamo scelto con il direttore della fotografia una dominante grigia, resa ancor più grigia con accorgimenti tecnici speciali, che dilaga anche sulle facce, anzi soprattutto sulle facce. Perché, in fondo, anche se si tratta di un grottesco con omicidio, l’omicidio è compiuto da gente che è già morta.” Mario Monicelli, in Claudio G. Fava, Sordi nuovamente “mostro sacro”, “Corriere mercantile”, 6 aprile 1977.
“[…] era giusto fare un film come questo, attualizzare la commedia all’italiana inserendola nel mondo violento di oggi. Tutti gli altri personaggi che ho interpretato nella mia carriera me li sono scrollati subito di dosso. Questo invece non riesco a dimenticarlo: ne sono ancora perplesso, sgomento, spaurito. Oggi non si può più ridere dei nostri vizi. www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
Eppure in questo film io sono riuscito anche a far ridere, non è vero? Questo padre cieco che ama il suo figliolo tanto da vederlo bello e intelligente, quando invece è brutto e cretino, mi ha fatto capire la paternità. Mi ha ricordato quei genitori che chiedendomi l’autografo mi buttano addosso i loro mostruosi figli. […]” Alberto Sordi, in Ornella Ripa, Sordi, il mostro, si scopre papà, “Gente, 9 aprile 1977.
“[…] Abbiamo visto il film con il sociologo Franco Ferrarotti, con il regista Mario Monicelli e con Alberto Sordi. Ci interessava capire se il film fosse riuscito a scandagliare quella realtà sociale così vasta, con lo sviluppo del terziario, avvenuto in questi ultimi anni, che è appunto il piccolo ceto medio nella realtà urbana italiana di cui Roma è il risultato più significativo. Il film colpisce perché, per la prima volta, ci sembra, nel nostro cinema, affronta seriamente e criticamente i “valori” su cui si fonda la vita della piccola borghesia. Lo dico a Monicelli: È stata una vera intuizione capire che se un Dottor Jekyll potrebbe essere italiano non potrebbe essere che un piccolo borghese, come quello del film; un “mostro” perbene che, continuando a credere nella famiglia, nella religione e a rispettare il capoufficio, si trasforma in un “mostro” senza saperlo. Ci sono tutti gli elementi per un confronto interessante. Alberto Sordi è più che un attore, è il simbolo delle viltà e delle virtù in cui il piccolo borghese crede, anche se ne ride. Ferrarotti è un sociologo, che conosce i segreti sociali di Roma. Monicelli non pensa al cinema come arte ma come documento sociale. E infatti dice:«Questo film è la tomba della commedia all’italiana». E in realtà nel film è successo che l’assassinio, la mostruosità del delitto convive con i valori della famiglia, della religione, dei riti, compresi quelli ridicoli (ma indispensabili alla logica di un certo tipo di vita) della Massoneria. […]” Giovanni Russo, Dietro la faccia del piccolo borghese, “Corriere della Sera”, 13 marzo 1977.
“[…] Giovanni Vivaldi non è più Umberto D, ma non è ancora un giustiziere della strada avendo la sua vendetta carattere unico scaturito da una situazione limite. Ciononostante si è posto fuori della legge e nel finale che Monicelli ha apposto al film il suo atto solitario sembra diventare matrice di un nuovo comportamento. Infatti, mentre Cerami mette in risalto il vuoto di una vita privata di affetti e destinata a spegnersi lentamente e in solitudine, Monicelli trasforma l’avvenimento eccezionale in scoperta elevandolo a scelta di una ribellione che sarà matrice di altri www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
delitti. Lo spaccato della società italiana è cambiato. Il neorealismo è la preistoria ed è seguito da trent’anni che non rassomigliano a niente.[…]” Renzo Fegatelli, Un universo popolato da vittime, “La fiera letteraria”, 27 marzo 1977.
Casotto Regia: Sergio Citti. Soggetto e sceneggiatura: Vincenzo Cerami, Sergio Citti. Interpreti: Paolo Stoppa, Jodie Foster, Michele Placido, Ugo Tognazzi, Carlo Croccolo, Gigi Proietti, Franco Citti, Mariangela Melato, Anna Melato, Flora Mastroianni, Ninetto Davoli, Gianni Rizzo, Massimo Bonetti, Gianrico Tondinelli e la partecipazione straordinaria di Catherine Deneuve. Fotografia: Tonino Delli Colli. Montaggio: Nino Baragli. Musica: Gianni Mazza. Scenografia: Dante Ferretti. Costumi: Mario Ambrosino. Prodotto da: Mauro Berardi e Gianfranco Piccioli per la Parva Cinematografica. Distribuito da: Medusa Film. Italia 1977 Una domenica al mare, a Ostia. Il bagnino (Ninetto Davoli) apre la porta del casotto numero diciannove. E tutta l’azione si svolgerà dentro questo capanno–spogliatoio che diventa il palcoscenico sul quale si esibisce una variopinta piccola umanità: una squadra sportiva femminile; un prete dall’accento anglosassone, gentile e misterioso; due benzinai romani in cerca di avventure (Gigi Proietti e Franco Citti), in compagnia di due ragazze facili e furbette; un danaroso assicuratore (Ugo Tognazzi) alle prese con due signore (Mariangela e Anna Melato) che gli vogliono spillare quattrini; due fidanzati (Carlo Croccolo e Katy Marchand) che sono continuamente ostacolati da qualcuno o qualcosa e non riescono a fare l’amore; due militari culturisti con la loro cagnetta; e una famiglia romana con in testa il nonno (Paolo Stoppa) alla caccia di un marito per la nipote incinta (Jodie Foster). Un acquazzone improvviso conclude bruscamente la giornata e il casotto si svuota.
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“In Ostia, il primo film di Sergio Citti, la morte è una ragazza e i due fratelli, dopo averla incontrata, prima di abbandonarsi a lei – come un moribondo che passa in rassegna la sua vita – si dicono il grande amore che uno ha per l’altro, ricordando l’esistenza passata assieme, in grande allegria. Una vita consumata in un sontuoso rituale che ha esorcizzato la morte fino a quel momento, fino a quando essa non è comparsa in carne e ossa davanti a loro. Storie scellerate, lo stesso: due malandrini, condannati a morte per un delitto commesso assieme dopo un incontro voluto dalla fortuna, vicini di cella, in attesa della mannaia, si raccontano tante storie scellerate. Ma queste narrazioni, anche se spesso fanno ridere, sono raccontate da chi sta per andarsene all’altro mondo: sono impregnate di morte, come dette da due morti e quanto più fanno ridere tanto più sono funebri. In Casotto, che ho scritto insieme a Sergio Citti nel 1977, la morte è invece del tutto assente, la gente è assiepata in un vano meschino e, invece di vagabondare in lungo e in largo, entra ed esce da una porta di legno. Eppure, con la stessa intensità dei primi due film, la “senti” costantemente. E più si ride (si ride più che in Storie scellerate) più ti viene addosso con tutto il suo ingombro. Te la senti sulla pelle come uno spiritello furioso, che t’accarezza, se ne va e ritorna senza lasciarti mai, sino alla fine, quando ancora aspetti che dentro il casotto succeda qualcosa. Ma nel casotto non succede niente per un’ora e quarantacinque minuti, ovvero non succede niente di “valore”. È un film senza “storia” e senza nessuno in grado di farla, un film privo di trama, inevitabilmente. In due parole: casotto, secondo il dizionario della lingua italiana, è un piccolo luogo chiuso, un ricovero, uno spogliatoio. Qui è uno spogliatoio balneare: quattro pareti, due finestrelle alte e una porta che si apre e si chiude. All’alba la macchina da presa s’infila all’interno e osserva la gente che entra e che esce: entrano, indossano il costume da bagno, vanno sulla spiaggia, a mezzogiorno mangiano, nel pomeriggio, con lo scoppio di un temporale vanno via tutti, tornano a casa. La macchina da presa resta imprigionata (a meditare?) dentro il casotto. Da dove proviene allora il “senso di morte”, per quali artifizi del linguaggio? Questa volta è con una combinazione di elementi diversi, in orchestrazione, che l’autore riesce a segnare il film con lo stesso sentimento di luttuosa gaiezza delle sue opere precedenti. Innanzi tutto per l’angolo visuale dell’obiettivo: esso non decide ciò che deve fotografare, riprende quello che la “sorte” gli pone davanti e non taglia, non sceglie l’interessante, registra ogni cosa. L’impressione è di assistere al naturale, alla fedele riproduzione di ciò che succede e in quello spogliatoio non succede niente (cosa può accadere nei momenti di pausa di una giornata passata al sole?). Il naturale non è il reale (il reale non è solo il comportamento; l’illusione della realtà è www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
possibile solo scegliendo nel naturale e significando le apparenze attraverso il montaggio) ed è la non-realtà dell’apparenza uno dei fattori del “senso di morte”: l’irrrealtà di ciò che esiste. Un secondo fattore è “la sorte” (il destino). Gli attori non sono “population flottante”, che si incontra casualmente nel suo peregrinare (come in Storie scellerate), ma “locale et sédentaire”, tutti insieme nel medesimo, immobile luogo. Trattandosi di una cabina al mare, però, il gruppo degli ospiti è messo assieme, anche qui, dalla fortuna e così, pur albergando sotto lo stesso tetto, sono estranei che si incontrano: dividono quel piccolo spazio chiamati dal destino. Nati nella stessa epoca, raggruppati nello stesso giorno dentro il casotto numero diciannove. Il destino può tutto ed è lui che accompagna i bagnanti fino alla porta dello spogliatoio; su ognuno di loro grava una enorme presenza invisibile, tanto che non si può dissociarli da questa “condanna”: ogni personaggio è il fato travestito, o meglio, il fato si è travestito nei diversi personaggi. Ma quando il destino di ognuno si compie? Fino a che punto può giungere il suo potere? Fino alla morte: e il destino è lì a ricordarcelo. Un terzo elemento è di ordine, diciamo così, antropologico. Se dobbiamo cercare un protagonista del film, questo è senz’altro la cigolante porta, attraverso la quale nel “mondo” (il mondo è solo quello rappresentato, ciò che sta al di fuori è solo indiziato, è arbitrio, sogno, fantasia) fanno ingresso ed escono, compaiono e scompaiono le persone, in un giorno dedicato al riposo, lontane dai problemi. Un casotto e dentro gente senza problemi. La porta, che si apre e si chiude, scandisce i tempi di un balletto della presenza e dell’assenza (nel mondo). Il ritmo del film (straordinario, tra l’altro) è tutto nelle entrate e nelle uscite. Fuori della porta – che spesso rimane aperta – passa l’alba, il mattino, il pomeriggio… fino allo scoppio del temporale o fino all’Apocalisse.” Vincenzo Cerami
“[…] Ho incontrato Citti in un ristorante di Ostia. Ecco il nostro colloquio: «Com’è nata l’idea di questo film?» «Mi è venuta al cinema, per caso, mentre vedevo un film sui “tipi da spiaggia”: in primo piano apparivano gli attori, e si mangiavano quasi tutto lo schermo, mentre dietro, appena visibili, si muovevano le povere comparse, che magari rappresentavano la realtà, perché cercavano di scappare, di nascondersi, o si chiudevano dentro una cabina. Mi sono detto: gli attori in primo piano sono falsi, ma, dentro la cabina, forse si rappresenta la verità, la verità delle comparse fuori dai loro ruoli. Così, con Casotto, sono entrato a vedere cosa succede dentro la cabina, per cercare il vero, per andare contro quel cinema che inganna gli spettatori. Tutti dicono, non so perché, che quello che si vede ogni giorno per strada è già un film. Mi è venuto il www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
sospetto che non si guardi più per strada, che non si veda più cosa fa realmente la gente. Tanto meno al cinema. Allora mi sono detto: facciamo un film in cui non succede niente, così forse si imparerà di nuovo a guardare attorno a sé. Tutto sommato, nella vita non succede proprio niente: chi può affermare che succede una cosa grave, o bella, o brutta? Nessuno. Ognuno interpreta a modo suo. Il cinema dovrebbe essere come la vita; invece è falso. Data la mia estrazione sociale e il mio carattere, ho scelto di rappresentare dei personaggi ingenui: erano gli unici con cui potevo riuscire a raccontare una giornata qualsiasi, una giornata quasi dimenticata. È un’umanità semplice, la stessa che cammina nelle strade.» […]” Giuseppe Saltini, Un sapiente emarginato, “Il Messaggero”, 17 ottobre 1977. “[…] Tutti corrono, tutti cercano, ma non ha importanza mostrare quello che trovano. Basta rappresentarli mentre cercano, dicendo bene chi sono. Questa la chiave – narrativa e stilistica – con cui Sergio Citti, tanto apprezzato tempo fa per Storie scellerate, ha costruito il film di oggi, coadiuvato nella sceneggiatura da Vincenzo Cerami, l’autore del romanzo da cui Mario Monicelli ha tratto proprio quest’anno Un borghese piccolo piccolo. Una chiave che potrebbe far pensare allo “spaccato di vita”, ma che qui si indirizza soprattutto a analizzare un certo tipo di umanità e, nello stesso tempo, a interpretarlo. L’umanità, appunto, dello svago epicureo, con la doppia molla sesso e interesse, vista dal vero ma anche riletta in equilibrio tra fantasia e realismo, ora mirando al bozzetto, al piccolo scherzo, alla barzelletta persino, ora invece dilatando l’osservazione fino a temi più generali, se non proprio universali, quelli dell’uomo e della sua vita, in un volgere di eventi in cui il bene e il male, il caso e la ragione, la generosità e l’equilibrio, l’amore e la rissa sono equamente suddivisi; in un va e vieni di personaggi e di fatti che, nella sua costruzione, a mezza via fra il teatro e il romanzo, ricorda fino quasi alla citazione La commedia umana di William Saroyan, con eguale propensione per la bonarietà e la malizia. Una bonarietà che in Citti nasce dal suo rustico e sano buon senso romanesco e una malizia frutto di quella sua cultura genuina e proletaria, da intelligente autodidatta, che ai tempi delle loro comuni fatiche nel cinema, arricchì Pasolini più di quanto non ne fosse illuminata e arricchita. Gian Luigi Rondi, Casotto, “Il Tempo”, 2 novembre 1977.
“[…] Casotto è uno dei migliori film del 1977. Soprattutto perché è il contrario di quello che sembra. Sembra uno dei tanti film da spiaggia a episodi, invece è unitario e la spiaggia non c’entra, anzi non c’entra www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
neppure il mare. È divertentissimo ma lascia l’amaro in bocca. Si presenta come una commedia all’italiana ed è invece un racconto filosofico. Ha molti personaggi ma un protagonista solo: il casotto, appunto, che dall’alba al tramonto di una giornata di vacanza ospita figure e fatti di varia umanità. La sigla del film diverso è data subito: dalla panoramica circolare sul mare che non si vedrà più, e dal primo personaggio che si affaccia nel casotto numero diciannove, dopo che la squadra sportiva femminile si è accorta di aver sbagliato numero. È costui un signore ascetico e riservato, evidentemente straniero e sacerdote, che nasconde un abbondante e paradossale segreto. Dopo questa rivelazione, tutto è possibile; e invece ci accorgiamo che tutto è quotidiano, normale. Il dramma sta proprio qui. Folgorazioni come questa, o come quella che riguarderà i due cani, vengon fuori del tutto naturali dalla personale filosofia di Sergio Citti, l’ “unico regista – scriveva Pier Paolo Pasolini – in cui la battuta sia un processo linguistico necessario”. Tale processo non assume in lui l’apparato di una sovrastruttura intellettuale, bensì si cala in un bisogno esistenziale, anzi viscerale: è il solo mezzo a disposizione della “povera bestia”, cioè dell’umana creatura, per rivelare di essere ancora viva. Anarchico di padre, anarchico di nonno, come può essere nata la leggenda di un Sergio Citti estraneo alla cultura? Ma che scherziamo? Proprio il fatto di rifiutare per tradizione e per nascita la cultura borghese, ne fa qualcuno di assai lontano da un naïf. E del resto la sua allegria disperata e mortuaria ha già prodotto opere singolarissime come Ostia e Storie scellerate, “addirittura raffinate ed eleganti” come ben sapeva Pasolini che lo ebbe collaboratore insostituibile di quasi tutti i propri film. […] Insomma, scritto con Vincenzo Cerami, il film sembra ed è spassosissimo, ma è almeno amaro come Un borghese piccolo piccolo, se non di più. L’unità spazio-temporale è ferrea, ma non voluta dal copione. Il mare è lì, appena fuori dei casotti, come spazio di libertà: potrebbe anche essere sano e non inquinato, un elemento nel quale immergersi e vivere. Ma nessuno è venuto qui per usarlo, il suo spazio è semplicemente annullato. […] Ecco perché il film di Sergio Citti, che sembra tanto allegro, non ha proprio nulla di consolante. Quando arriva la fine (basta un acquazzone ad accelerarla…) rimane un gran vuoto d’esistenze. Come scrive Cerami, “il sole nasce, muore e risorge: la creatura umana nasce, muore e non risorge più”. E non ci sono bibbie o crocefissi, voti di castità o suoni di campane che tengano. Ma, per fortuna, Casotto va anche oltre questo pessimismo, questa disperata certezza. E lo fa attraverso i modi stessi della rappresentazione, attraverso l’energia e la generosità con cui il regista affronta i volti dei www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
suoi personaggi, espropriati del diritto a una vita diversa. La sua forza di comicità non sarebbe spiegabile con un atteggiamento di rinuncia, bensì lo è soltanto con uno di rivolta. E infatti nasce dalla consapevolezza, questa volta sì terribilmente allegra, che il mondo, se vuol continuare a essere, va cambiato: una consapevolezza non detta da un messaggio esteriore, ma calata, senza intellettualismi, nell’eloquenza disarmante e spietata del reale. E se questo, almeno in una certa misura, è vero, allora il film è ben più importante di quello che sembrava.” Ugo Casiraghi, Casotto, “l’Unità”, 10 febbraio 1978.
Salto nel vuoto Regia: Marco Bellocchio. Soggetto: Marco Bellocchio. Sceneggiatura: Marco Bellocchio con la collaborazione di Vincenzo Cerami, Piero Natoli. Interpreti: Michel Piccoli, Anouk Aimée, Michele Placido, Gisella Burinato, Anna Orso, Antonio Piovanelli, Piergiorgio Bellocchio, Paolo Ciampi, Franceca Maria De Monti, Adriana Pecorelli, Giampaolo Saccarola. Fotografia: Giuseppe Lanci. Montaggio: Roberto Perpignani. Musica: Nicola Piovani. Scenografia: Amedeo Fago e Andrea Crisanti. Costumi: Lia Francesca Morandini. Distribuito da: Cineriz – Durium Home Video, Warner Home Video (Gli Scudi). Prodotto da: Silvio Clementelli per la Clesi (Roma) e la Mk 2 (Parigi). 1980 Marta (Anouk Aimée) sta male, è molto depressa. Si rende conto di aver buttato via la giovinezza, la vita, per fare da madre, da governante, da serva al fratello Mauro Ponticelli (Michel Piccoli), sostituto procuratore della repubblica, con cui vive ancora nella grande casa paterna. Perciò è piena di rabbia. Mauro ha paura che impazzisca e si suicidi. Le urla, i deliri, le scenate pubbliche della sorella lo terrorizzano e fantastica di www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
ucciderla. Un giorno Marta conosce un imputato del fratello, Giovanni Sciabola, un attore teatrale, affascinante e sregolato (Michele Placido). Nasce un rapporto tra i due. Lei finalmente si sente donna, trascura il fratello, ha una vita sua. La disattenzione di Marta preoccupa Mauro che conosce la solitudine in una casa sempre più deserta. Teme che Sciabola plagi la sorella e che la derubi. Il magistrato allora lo fa arrestare. Ma Marta ormai è cambiata e non si sottomette più al fratello. Un giorno in cui lei va a Ostia ospite della domestica, Mauro, rimasto solo in casa, si butta giù dalla finestra.
“Fratello e sorella coabitano avvinti in un torbido rapporto sadomasochista che li isola dal resto della società. Era il tema di I pugni in tasca, famoso film d’esordio di Marco Bellocchio; è ancora il tema di Salto nel vuoto con alcune importanti differenze: quella era una storia di inacidimento provinciale, questa è una storia di degradazione cittadina; là eravamo nel nord, qui siamo nel centro-sud; Lou Castel e Paola Pitagora erano giovani, Michel Piccoli e Anouk Aimée sono in pieno climaterio. Il ragazzo di Pugni in tasca sterminava mezza famiglia, il giudice di Salto nel vuoto uccide se stesso; ma non senza aver covato, per tutto il film, il sogno di veder morire la sorella: e ogni lettore di Freud sa che il suicidio è soltanto un omicidio mascherato. […] Se i racconti si scrivono per dimenticare piuttosto che per ricordare, come asseriva Thomas Wolfe, bisogna dire che l’autore di I pugni in tasca non è ancora riuscito a sciogliere il nodo doloroso che stava dietro a quel film. Già profeta del ’68, Bellocchio condensa in Salto nel vuoto tutto ciò che è venuto dopo. La morte della famiglia, la condanna delle istituzioni totali, l’antipsichiatria, la rivalutazione dell’emarginato, il primato della donna e perfino, in un finale che vede Marta stringersi nel letto al figlio di Emilia, l’approdo della contestazione all’ultima spiaggia, cioè al mito consolatorio e criptocattolico del Bambino. Anche lo stile è cambiato in conformità: secco, urtato, violento, animato da interpreti approssimativi nel ’65; oggi raffinato, sapientissimo, servito da collaboratori eccellenti (l’operatore Beppe Lanci impegnato in un’arrischiata lotta contro le tenebre, gli scenografi Crisanti e Fago che hanno ideato l’appartamento-trappola, il musicista Nicola Piovani). […]” Tullio Kezich, Ti amo, vorrei ucciderti, perciò mi tolgo la vita, “la Repubblica”, 15 febbraio 1980.
“[…] Film realistico e, insieme, simbolico, Salto nel vuoto tradisce manifestamente il suo rifarsi, con più meditata e matura capacità d’analisi, www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
al tema dominante nella non dimenticata prova d’esordio di Marco Bellocchio, I pugni in tasca. E, anche se il cineasta piacentino spiega che la visionaria, tragica vicenda di questa sua nuova fatica potrebbe essere letta in filigrana come una sorta di trasposizione dell’autentico, fosco dramma vissuto tanti anni fa dal poeta Giovanni Pascoli nel suo morboso sodalizio esistenziale con la sorella Mariù, si coglie, proprio nell’approdo progressivo di Salto nel vuoto, il segno “positivo” di una consapevolezza del reale più alta rispetto tanto al torvo apologo del lontano I pugni in tasca, quanto ai più problematici e forse meno compiuti La Cina è vicina, Nel nome del padre e Marcia trionfale (senza contare le esperienze importanti ma radicalmente “altre”, anche sul piano strutturale-espressivo, delle impegnative inchieste Tv Matti da slegare e La macchina cinema). […] Raccontato con uno stile prosciugato ed essenziale – pur tra talune iterazioni e digressioni rivelatrici, a volte, di certi rimandi a soluzioni teatrali: le battute dello shakespeariano Timone d’Atene (inscenato a suo tempo dallo stesso Bellocchio per il Piccolo) messe in bocca al “teatrante” Sciabola – Salto nel vuoto trova una sua compatta, rigorosa cifra di rappresentazione cinematografica proprio in quel perfetto fondersi e complesso rispecchiarsi degli intenti originari dell’autore con le formidabili caratterizzazioni fornite per l’occasione da Michel Piccoli (splendidamente doppiato da Vittorio Caprioli) nel ruolo di Mauro, di Anouk Aimée nelle vesti di Marta, di Michele Placido nella parte di Sciabola (non trascurando di ricordare il congruo contributo del piccolo clan Bellocchio, qui degnamente rappresentato dalla moglie Gisella Burinato, Anna, e dal figlioletto Piergiorgio, Giorgio). […]” Sauro Borelli, Salto nel vuoto, “l’Unità”, 15 febbraio 1980.
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Il minestrone
Regia e soggetto: Sergio Citti. Sceneggiatura: Sergio Citti e Vincenzo Cerami. Interpreti: Roberto Benigni, Franco Javarone, Franco Citti, Ninetto Davoli, Daria Nicolodi, Fabio Traversa, Giorgio Gaber, Olimpia Carlisi. Fotografia: Dante Spinotti Montaggio: Nino Baragli. Musica: Nicola Piovani. Scenografia: Dante Ferretti. Costumi: Mario Ambrosino. Prodotto da: Fulvio Lucisano per Italian International Film – Tarak Ben Ammar per Carthago Film, Tunisi – Rai Radiotelevisione italiana. Distribuito da: Medusa Italia 1981
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La storia inizia con un solo protagonista (Franco Citti), un affamato da sempre, che nel contendere un boccone a un cane randagio, incontra un disperato come lui, che ride volentieri (Ninetto Davoli). Si imbattono in un terzo accattone (Roberto Benigni), e ad essi via via si uniscono altri poveracci. Un po’ come una valanga, che si ingrossa man mano che procede: come se un richiamo segreto corresse misteriosamente a unire i destini di tutte le creature del mondo, che hanno il problema del pasto. E, di avventura in avventura, di incontro in incontro, questa gaia accolita di individui tutti assai diversi, ma identici di fronte alla fame, si sposta per l’Italia al minimo sospetto di cibo in vista, in un fortuito, libero peregrinare che ha molto del picaresco. Il bel gruppo folto, come in una specie di laica processione, fra una risata e una pacca sulle spalle, si avvia verso l’ultima meta, là dove splende il sole e c’è la speranza, dopo l’inverno ingrato, che dove c’è sole non ci sia fame.
“[…]Il film durava quattro ore prima del montaggio finale; ne dura ora due abbondanti, ne durerà tre in Tv dove sarà trasmesso fra un anno e mezzo sulla Rete Uno in tre puntate. […] «La fame è l’unico tema che conosco bene sin dal principio – afferma il regista – perché l’ho vissuto e patito in prima persona. Andare al ristorante e scappare prima di pagare il conto è un’esperienza mia. Non invento nulla, non ne sarei capace. La fame è stata la mia unica rivoluzione possibile.»[…] – Ma allora, dica la verità, cos’è questa fame, una favola? «In realtà il mio film non finisce mai, va avanti all’infinito perché è la fame che non finisce mai. Come si fa a concludere? La fame è conoscenza e vita, e la vita non la si restringe in un’ora e mezzo di proiezione. Per questo io trovo che spesso il cinema è infedele e traditore. Io dico solo ‘viva la vita’, qualunque vita sia e ‘abbasso la speranza’, perché il futuro è sempre uguale, è una ruota che gira sempre nello stesso modo e qualunque terra promessa è una fregatura.»” Maurizio Porro, La fame, unica rivelazione possibile per Sergio Citti. Anteprima del “Minestrone” a Saint Vincent, “Corriere della Sera”, 8 febbraio 1981.
“C’è stato chi, qualche settimana fa, a Berlino, di fronte a quest’ultimo film di Sergio Citti Il minestrone (in origine La fame) è rimasto spiazzato dalla farragine di invenzioni, di soprassalti grotteschi, di enigmatiche proiezioni fantastiche. In verità, c’è di che rimanere stupiti da un film del genere. In esso figure e proporzioni sono tutte sintonizzate sul sovracuto, www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
sull’eccesso. Però, ben lontana dall’essere un limite, questa stessa impostazione tematica-stilistica risulta in sostanza il più autentico, originale motivo ispiratore di un’opera forse squilibrata, ma non mai di corrivo mestiere. La labile traccia che innesca il racconto attraverso le picaresche disavventure di due famelici ‘poveri di spirito’ (Ninetto Davoli, Franco Citti) in catastrofica compagnia di uno stralunato ‘Maestro di vita’ (Roberto Benigni), gira e rigira su se stessa su una sola idea-fissa: mangiare. Tanto, tutto, subito per placare una fame che, tra giravolte e contrattempi dissennati, diventa una concezione del mondo, un incubo, una disperazione. L’irraggiungibilità del cibo, il circolo vizioso dei miraggi, le puntuali frustrazioni assumono presto i contorni astratti della favola surreale. […]” Sauro Borelli, La felicità? È un minestrone, “l’Unità”, 6 marzo 1981.
“[…] Va però detto che, trattandosi di un apologo, gli squilibri narrativi sono in parte riscattati dall’intenzionalità gnomica connaturata allo stesso: rendere cioè accessibile a tutti una verità e più persuasivo l’insegnamento morale. E, come in ogni apologo che si rispetti, anche in questo Citti pone al centro il tema del cibo più povero (il minestrone) e fa parlare programmaticamente gli oggetti in uno di quei momenti magici, non infrequenti nel suo cinema: qui nella riuscita sequenza del pasto immaginario (da raffrontare per analogia all’ultima cena anarchica di Ostia o alla serenata notturna nel cimitero in Due pezzi di pane). […] I personaggi ricondotti lungo tutto l’arco del film a semplici categorie (il Buono, l’Avaro, il Delatore ecc.) si muovono un po’ come nella commedia dell’arte tra dialoghi obbligati e dialoghi improvvisati. Alla macchina da presa non è consentito che di spostarsi da una vignetta all’altra, come la bacchetta del cantastorie sul tabellone, iniziando come di consueto: «Qui si narra, signori, una triste storia in cui…»” Renzo d’Andrea, Il minestrone, “Cinema nuovo”, ottobre 1981.
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Colpire al cuore Regia: Gianni Amelio. Soggetto e sceneggiatura: Gianni Amelio, Vincenzo Cerami Interpreti: Jean-Louis Trintignant, Laura Morante, Fausto Rossi, Vanni Corbellini, Sonia Gessner, Maria Laura Nucci, Vera Rossi, Matteo Cerami. Fotografia: Tonino Nardi. Montaggio: Anna Rosa Napoli. Musica: Franco Piersanti. Scenografia: Marco Dentici. Costumi: Lina Merli Taviani Prodotto da: Enzo Porcelli per Antea Cinematografica e Rai Radiotelevisione Italiana. Distribuito da: Gaumont – Fonit Cetra Video – Gruppo editoriale Bramante. www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
Italia 1982 Emilio (Fausto Rossi), un ragazzo di quindici anni, scopre che Sandro (Vanni Corbellini), un ex allievo del padre Dario (Jean Louis Trintignant), docente universitario, è stato ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia durante un’azione terroristica. Qualche giorno prima aveva visto il padre in grande confidenza con il giovane e sente suo dovere riferirlo alle forze dell’ordine. Dario chiarisce la sua posizione, ma i rapporti con il figlio sono compromessi. Emilio conduce intanto una specie di indagine personale pedinando Giulia (Laura Morante), la donna di Sandro ricercata dalla polizia, che fotografa insieme a Dario. Quando il genitore si reca a casa di Giulia per aiutarla a fuggire, Emilio avverte la polizia e poi assiste di nascosto all’arresto di entrambi.
“Quale autore del film – mi dice Gianni Amelio come sottolineando queste parole, – ho fatto del tutto per mantenere il massimo distacco rispetto al tema scottante che vi si affronta, per non prendere posizione, per non schierarmi in favore del padre o in favore del figlio. Mi sono detto che dovevo esercitare su me stesso un controllo spietato al fine di non perdere mai la lucidità, di reprimere ogni moto di simpatia, anche inconscio, per l’uno o per l’altro. Ciò anche perché io non penso che l’uno abbia decisamente ragione e l’altro decisamente torto, o viceversa. È questa una forma di manicheismo che non si può accettare. Il compito principale di ognuno di noi è quello di capire: capire prima di giudicare o di condannare, di assumere atteggiamenti morali.” Gianni Amelio in Costanzo Costantini, Uno sguardo perduto sul futuro, “Il Messaggero”, 18 marzo 1983. “[…]È importante per Amelio dire che c’è una generazione di “orfani”, o peggio con padri infantilmente balbettanti che hanno tirato il sasso e poi nascondono la mano, costretta ad essere “adulta” in solitudine; una generazione di quindicenni senza sorriso che, di fronte a padri i quali hanno rinunciato a dire del bene e del male, ignora tutto ciò che non sia esistente e concreto e solo a ciò che concretamente esiste commisura sé stessa, il male che può fare, il bene che può avere. Le infinite varianti di questo discorso, Colpire al cuore ha l’intelligenza di accennarle (quell’umbratile figura materna, quel parco cenno alla scuola, quella folla solitaria e indifferente…) ma di non andare oltre il cenno; secondo quella sobria misura che caratterizza tutto il film e alla quale ben si prestano sia l’intensa interpretazione di Jan-Louis Trintignant che quella, assorta, del giovane Fausto Rossi. Ma il film non giungerebbe al risultato sotto tutti gli aspetti ragguardevole cui perviene, se alla www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
soddisfacente soluzione dei problemi ideologici, tematici e narrativi di un racconto così pericolosamente sfaccettato e così facilmente equivocabile non fornisse il sostanziale (e non sembri un gioco di parole) supporto della forma. La compostezza che caratterizza la scrittura di Amelio da La città del Sole (1973) a Il Piccolo Archimede (1979) e dà sempre al suo fraseggio la delicatezza timbrica di una musica da camera, si accompagna qui ad una densità di orchestrazione, piena di eco controllate e di calcolate risonanze. Lo sguardo del regista, che siamo abituati a vedere fecondamente indulgere sulla magia degli oggetti e delle cose, è qui quasi sempre piegato verso i personaggi, ma come gli ultimi oggetti animati di un mondo dalle riverberazioni ormai spente e dalla gestualità meccanica (si pensi alla irruzione “impersonale” di quei carabinieri, visti in campo medio e lungo). E il ritmo, che solitamente ha nei film di Amelio sinuose dolcezze e funzionali mutamenti, si offre qui con una continuità di metronomo proprio come questa story non un “prima” e un “dopo”. nel film ma prima e dopo il film. Insomma plaudiamo a questo “nuovo” autore cinematografico che raggiunge la schiera non folta dei nostri migliori. […]” Lino Micciché, ‘Colpire al cuore’ è opera di un cineasta di talento, “Avanti!”, 4 settembre 1982.
“[…] Ben scritto, ben costruito sui toni dimessi e allusivi che si addicono alle doppie verità, sempre attento al rapporto fra i valori figurativi e quelli psicologici, Colpire al cuore è un referto (e un “giallo”) dolorosamente verosimile, più ricco di motivi di quanto si possa aver detto (ad esempio il toccante rapporto, che sfiora o rammemora l’amore, fra Giulia e il padre di Emilio), dettato dal sentimento del tragico e dal tema della gabbia a un cineasta tanto maturo nella tecnica quanto nella sensibilità. Uno di quelli su cui il cinema italiano può fare assegnamento.” Giovanni Grazzini, Padre e figlio fra le rovine di una civiltà “terrorizzata”, “Corriere della Sera”, 1 aprile 1983.
“[…] L’ultimo, decisivo faccia a faccia tra Dario ed Emilio – col padre esasperato che percuote il figlio, restaurando implicitamente (e rovinosamente) la propria contraddittoria potestà – apre con problematica disponibilità la riflessione su una materia evocativa tanto complessa e tormentosamente attuale. È un film, questo di Amelio che in sintomatica coerenza col titolo “colpisce al cuore” e, più acutamente, trafigge la mente per quel suo www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
fervido, lucido interrogare e interrogarsi sui controversi casi della vita e, al contempo, sui soprassalti traumatici cui ogni attimo della nostra ansia di sapere, di capire resta perennemente esposto. Colpire al cuore è un’opera di inconsueta compiutezza stilisticoespressiva. Anche perché al fitto ordito narrativo fanno contrappunto, scandito da un ritmo esemplare, un montaggio incalzante e soluzioni visuali di coltivata sapienza cinematografica. Tutto ciò grazie alla pressoché perfetta fotografia di Tonino Nardi e, massimamente, all’ottima mano registica di Gianni Amelio, già accreditato da due riuscitissimi precedenti televisivi quali La città del sole e Il piccolo Archimede. A completare qui il quadro senz’altro di ragguardevole livello contribuiscono, inoltre, il prezioso apporto alla sceneggiatura di Vincenzo Cerami e, ancora, le superlative prove interpretative del giovanissimo esordiente Fausto Rossi (Emilio), dell’esperto Jean-Louis Trintignan (Dario) e della sempre intensa, trepida Laura Morante (Giulia). […]” Sauro Borelli, I figli del sospetto, “l’Unità”, 1 aprile 1983.
Segreti segreti Regia e soggetto: Giuseppe Bertolucci Sceneggiatura: Giuseppe Bertolucci, Vincenzo Cerami Interpreti: Lina Sastri, Rossana Podestà, Giulia Boschi, Alida Valli, Stefania Sandrelli, Lea Massari, Mariangela Melato, Massimo Ghini, Antonio Petrocelli. Fotografia: Renato Tafuri. Montaggio: Nino Baragli. Suono in presa diretta: Hubrecht Nijhuis. Musica: Nicola Piovani. www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
Scenografia: Francesco Frigeri. Costumi: Bruna Parmesan. Prodotto da: Ama film. Distribuito da: Istituto Luce Italnoleggio Cinematografico. 1984 Un commando di terroristi (due uomini e una donna) pedina un magistrato attraverso le calli veneziane. La donna uccide il giudice e anche il compagno, che all’ultimo momento non ha avuto il coraggio di sparare. Si chiama Laura (Lina Sastri), e dopo il delitto si rifugia nella villa di famiglia dove viene accolta dalla vecchia tata Gina (Alida Valli). Il racconto si sviluppa attraverso le storie incrociate di altre donne e di altri destini. In Irpinia, fra i baraccati del terremoto, c’è Maria (Rossana Podestà), madre putativa del terrorista ucciso a Venezia, e c’è Rosa (Giulia Boschi), sorella di lui. E a Roma ci sono Renata, Marta, Giuliana. Renata (Stefania Sandrelli) è in clinica dopo aver tentato di suicidarsi. Marta (Lea Massari), madre di Laura e amica di Renata, è una matura vedova. Giuliana (Mariangela Melato) è il giudice istruttore che accoglie la deposizione di Laura, arrestata dalla Digos.
“Con questo film il mio tentativo è stato di andare a vedere gli effetti più che le cause del terrorismo. Un atteggiamento ancora valido oggi. Il che non significa fare un cinema anonimo o neutrale, ma semplicemente un cinema che non ha più dietro l’apporto di una certezza analitica e ideologica. Ricordo che alla conferenza stampa di presentazione del film e nelle interviste successive feci ricorso alla metafora del sasso lanciato nello stagno: mi interessavano i cerchi nell’acqua e non la mano che aveva lanciato il sasso. C’è inoltre una frase di Goethe che non ho messo nel film ma che considero come una sorta di epigrafe: L’incendio di una fattoria è una tragedia, la rovina della patria solo una frase.” Giuseppe Bertolucci.
“[…] Merito e pregio espliciti di Segreti segreti sono, al di là d’ogni più approfondita valutazione, quegli scorci narrativi balenanti, quei climi intensamente evocativi, soprattutto quegli esemplari personaggi femminili che, attraverso ellittiche, talvolta persino tortuose manovre riescono a condensarsi alla distanza in un racconto esemplare e grandemente rivelatore. Non tanto, non solo della logica aberrante, spesso contraddittoria, comunque per gran parte indecifrabile della violenza www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
terroristica; quanto piuttosto degli intrecciati drammi, delle inestricabili tragedie, delle contingenti sofferenze che, d’immediato riflesso, vengono allo scoperto in simili frangenti tra tutti coloro d’un colpo coinvolti, anche loro malgrado dall’improvviso infuriare di un vento di follia.” Sauro Borelli, Dietro i segreti di sette donne, “l’Unità”, 15 marzo 1985.
“[…] Scritto come un teorema pasoliniano, il bel copione di Bertolucci e Vincenzo Cerami (che sta diventando un drammaturgo chiave del cinema italiano moderno) è antineorealista nel senso che non si propone né l’analisi né la denuncia del terrorismo. La scrittura ha i difetti delle sue virtù, cioè paga l’alta qualità stilistica con qualche fastidioso compiacimento letterario. […] Il carrello finale che si allontana dalle due donne l’una di fronte all’altra arretrando in un lunghissimo corridoio buio suggerisce una metafora del tipo: siamo tutti in fondo a un pozzo, giudici e giudicati. Nei momenti di ispirazione Bertolucci svela il dono dell’immagine allusiva, come accade nella pittura, piuttosto che l’impegno dell’informazione, del racconto o del significato. Lo aiutano la stupenda fotografia di Renato Tafuri, il montaggio impeccabile di Nino Baragli, le musiche epigrammatiche e lancinanti di Nicola Piovani. Segreti segreti non pretende di insegnare, non è accusatorio, né giustificazionista, è un sasso nella coscienza dello spettatore, l’effetto dipende dalla disponibilità di chi lo recepisce. […] Tullio Kezich, Sette donne spezzate dagli anni di piombo, “la Repubblica”, 15 marzo 1985.
“Pur senza fare della diversità un valore assoluto, c’è da dire che Segreti segreti è un film diverso che fa macchia nel grigio e piatto panorama del cinema italiano di oggi. È diverso per lo spessore morale che lo sostiene, per l’assillo stilistico che lo permea, per la struttura narrativa che è complessa senza essere complicata. È diverso – e qui il dato salta agli occhi – perché interamente affidato a personaggi femminili: è una storia di donne, la sua materia è la psicologia e il comportamento femminile. Non è una trovata: una scommessa, un azzardo. Si dice che nel cinema italiano mancano le attrici. Mancano perché non si sanno inventare storie di donne e personaggi femminili oppure non si scrivono storie di donne perché mancano le attrici? Propendo per la prima ipotesi. Bertolucci junior e Cerami mi danno ragione, arrischiandosi in un film con sette personaggi femminili. In un cinema in coma anche per la paura
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di rischiare, questa scommessa è già un merito, tanto più che è stata vinta. […] Segreti segreti è anche sul terrorismo. Dopo Colpire al cuore, è il solo film italiano sul terrorismo che lascerà una traccia. Laura, che attraversa tutto il film, venendo a contatto con cinque delle sei donne, è una terrorista. Mentre il film di Amelio fa perno su un rapporto tra padre e figlio, Segreti segreti è fondato su una serie di rapporti tra madre e figlia. In questo film in cui il discorso politico è indiretto, il terrorismo è soltanto uno dei temi. È una storia di donne che si parlano e che, dicendosi o strappandosi la verità, si sgretolano. Il segreto di Laura vale quello delle altre donne: ha pari dignità in un contesto dove sono molte le donne che prendono la parola. Segreti segreti è un film sugli effetti, non sulle cause. Bertolucci lo paragona alla sassata in uno stagno. La vicenda è situata in un passato prossimo indefinito, collocabile da vari segni tra il 1981 e il 1982. […]” Morando Morandini, Scomode verità di donne nell’Italia del terrorismo, “Il Giorno”, 17 marzo 1985.
Il piccolo diavolo Regia: Roberto Benigni. Soggetto: Roberto Benigni, Giuseppe Bertolucci, Vincenzo Cerami. www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
Sceneggiatura: Roberto Benigni e Vincenzo Cerami. Interpreti: Roberto Benigni, Walter Matthau, Nicoletta Braschi, Giacomo Piperno, Franco Fabrizi, Paolo Baroni, Flavio Bonacci, Annabella Schiavone, con la partecipazione straordinaria di Stefania Sandrelli e con John Lurie. Fotografia: Robbie Müller. Montaggio: Nino Baragli. Musica: Evan Lurie. Scenografia: Antonio Annichiarico. Costumi: Aldo Buti. Prodotto da: Mauro Berardi per Yarno Cinematografica, Mario e Vittorio Cecchi Gori per Cecchi Gori Group Tiger, in collaborazione con Reteitalia. Distribuito da: Mario e Vittorio Cecchi Gori. 1988 Un prete esorcista americano (Walter Matthau), che vive a Roma, deve stanare un diavolo che fa il matto con voce da uomo dentro una signora napoletana che ha ingurgitato una dose massiccia di zuppa inglese. Dopo il rito degli scongiuri “l’essere immondo” si materializza nella figuretta di Benigni nudo con indosso solo la pelliccia della sua “ospite”. Non è un cattivo diavolo, ma è infantile e appiccicoso. Tentando invano di liberarsene, il prete si trova a dover correre dietro al demonietto che, nella sua ingenuità, ne combina di tutti i colori. È felice di stare nel mondo e addirittura si innamora di un’affascinante e misteriosa fanciulla (Nicoletta Braschi).
“Se ci sono film che dividono il pubblico, Il piccolo diavolo di Roberto Benigni divide lo spettatore. Da una parte diverte e mette allegria, dall’altra sconcerta e delude. Ovviamente sono reazioni personali: ma andate a vederlo (Benigni merita comunque una visita) e decidete voi. Abbiamo dei grandi comici e non sappiamo cosa fargli fare: se continuerà così, invecchieranno senza diventare né Chaplin, né Keaton, né Harold Lloyd. […] Benigni è l’uomo-orchestra di sempre: imprevedibile, strampalato, ruspante e raffinato insieme. Un giocoliere della parola in libertà che s’incarna in un supermimo. Fa rabbia che il film, pur ideato e condotto da protagonista, non schiuda spazi adeguati alla sua fantasia, alla sua voglia di muoversi in tutte le direzioni e perfino di volare. Fin troppo diligente e corretta, la cornice registica sembra creare intorno al protagonista una serie di pleonastiche barriere. […]” www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
Tullio Kezich, Piccolo diavolo dentro la gabbia, “la Repubblica”, 15 ottobre 1988.
“[…] la vicenda stessa, il suo attraversare un mondo sconosciuto in compagnia di una guida matura e compiacente, permette proprio quella pertinenza delle invenzioni, degli eccessi, delle “false” improvvisazioni che sono l’anima stessa del film, il suo tessuto estraniante. Di qui anche il bellissimo gioco delle allusioni (prive di ogni volgare connotazione maliziosa come da sempre invece accade nella nostra morente commedia all’italiana) che diventano poesia illuminando non solo il personaggio del diavolo che non ha parole per esprimersi, che non ha pensieri per capire eppure sente, percepisce, ma illuminando, come sempre, i fantasmi erotici collettivi e di Benigni, secondo un registro di grande verità e delicatezza. […]” Michelangelo Buffa, Benigni esorcista di sé, “Filmcritica”, n.391-392, gennaio/febbraio 1989.
“C’est un film fou furieux. Le genre de truc qu’on improvise tard dans la soirée quand l’atelier pétards est au bord de la rupture de stock. […] Le Petit Diable n’est pas pour autant un one-man show, parce que Benigni a l’intelligence de laisser passer ses partenaires devant quand ils ont la carrure qui s’impose. […] Enfin, il est nécessaire de noter que ce film radical-délire est évidemment beaucoup plus grave qu’il n’y paraît. Pas tellement dans le registre un peu tannant qui voudrait que, derrière l’animal toqué, se cache la bête d’une grande âme blessée. On peut être très marrant sans avoir besoin d’aller à heure fixe hurler son désespoir aux chiottes. Non, la vraie folie du Petit Diable, son anarchie fondamentale, c’est le programme d’un mode de vie où tout est prétexte à délirer, jusqu’à faire peur finalement, comme le professeur Tournesol lors de sa fameuse crise de nerfs dans Obiectif Lune:«Le Zouave! Je fais le Zouave! Il va vous montrer de quoi il est capable le Zouave!» Alors, ne cherchez pas pourquoi certains pisse-froid vont vous colporter d’un air important que le Petit Diable n’est pas si drôle que ça. C’est bien simple, ils sont gênés.” Gérard Lefort, Benigni, le diable au corps, “Libération”, 21 juin 1989.
“[…] Già dal soggetto, emerge la doppia anima di questo film: il personaggio è sufficientemente bricconesco per leggervi l’intervento di www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
Bertolucci; al contempo, sufficientemente astorico, astratto e atemporale per essere veicolo di quella comicità pura auspicata ed esaltata da Cerami. Se è vero, infatti, che alla base del plot vi è la figura del piccolo diavolo, archetipo della maschera comica sin qui perseguita, è vero anche che non si tratta di una presenza aggressiva e oscena, bensì di uno spiritello maldestro e curioso, furbo e innocente come un bambino. Ogni volgarità è bandita e anche i più espliciti riferimenti all’umana fisiologia rimandano alla maliziosa leggerezza dello stupore infantile. […] Cristina Borsatti, Roberto Benigni, Il Castoro Cinema, Milano 2002, p.68.
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I ragazzi di via Panisperna Regia: Gianni Amelio. Soggetto: Gianni Amelio, Vincenzo Cerami. Sceneggiatura: Gianni Amelio, Alessandro Sermoneta. Interpreti: Mario Adorf, Giorgio Dal Paz, Ennio Fantastichini, Georges Geret, Alberto Gimignani, Sabina Guzzanti, Virna Lisi, Cristina Marsillach, Michele Melega, Laura Morante, Andrea Prodan, Giovanni Romani. Fotografia: Tonino Nardi. Montaggio: Roberto Perpignani. Musica: Riz Ortolani. Scenografia: Franco Velchi. Costumi: Lina Nerli Taviani. Prodotto da: Urania Film – Rai Uno Roma – Taurus Film München. Distribuito da: Bim Distribuzione. 1988 Nel 1930 lavora a Roma, nell’Istituto di Fisica di via Panisperna, un gruppo di giovani di grande talento: Ettore Majorana, Bruno Pontecorvo, Edoardo Arnaldi e Emilio Segré, sotto la guida di Enrico Fermi. Quando Fermi insieme agli altri fisici riesce a scatenare la reazione nucleare che condurrà alla bomba atomica, Majorana, che a poco a poco ha disertato gli esperimenti, si trova in Sicilia. Più tardi scomparirà in modo misterioso durante un viaggio in mare. Il racconto nella prima parte è allegro e leggero, mentre nella seconda si fa sofferto e malinconico.
“[…] La direttrice di marcia del film è lineare e sinuosa allo stesso tempo. Proprio perché evoca la figura enigmatica dominante di Ettore Majorana, precoce e prodigiosa mente matematica, in dialettico, tormentato confronto col maturo amico e provvido maestro Enrico Fermi; e perché prospetta, altresì, attraverso notazioni puntuali, esattissime, la dinamica e gli effetti desolanti di un clima politico, di una condizione sociale-civile avvilenti dello scorcio del fascismo tronfio e prevaricatore. Azzeccato e acutamente rivelatore risulta, in questo senso, lo scherzo alla Orson Welles ante litteram posto in apertura dello stesso film, allorché i “ragazzi di via Panisperna” sbertucciano ferocemente con un esilarante annuncio radiofonico, proprio l’ufficialissimo, supponente www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
scienziato del regime Guglielmo Marconi. Per il resto, la vicenda segue, a fasi alterne, il doppio e talora intrecciato solco della misteriosa scomparsa di Majorana e delle personali vicissitudini di Enrico Fermi e della moglie Laura, fino alla loro forzata partenza per l’America prima del secondo conflitto mondiale. Giovani attori già esperti e misuratissimi nelle loro rispettive, riuscite prove; la presenza sempre solare di Laura Morante nel ruolo della moglie di Fermi; un accuratissimo décor ambientale, scenografico ed epocale; immagini e musiche calibratissime fanno del film di Gianni Amelio un’altra di quelle sue tipiche realizzazioni destinate a suscitare appassionati consensi e vivissima emozione.” Sauro Borelli, Via Panisperna che fisico!, “l’Unità”, 5 febbraio 1989.
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Porte aperte Regia: Gianni Amelio. Soggetto: dal libro omonimo di Leonardo Sciascia. Sceneggiatura: Gianni Amelio, Vincenzo Cerami, con la collaborazione di Alessandro Sermoneta. Interpreti: Gian Maria Volonté, Ennio Fantastichini, Renzo Giovanpietro, Renato Carpentieri, Lydia Alfonsi, Giacomo Piperno, Silverio Blasi, Tuccio Musumeci. Fotografia: Tonino Nardi. Montaggio: Simona Paggi. Musica: Franco Piersanti. Scenografia: Franco Velchi, Amedeo Fago. Costumi: Gianna Gissi. Prodotto da: Angelo Rizzoli per Erre Produzioni, Istituto Luce, Urania Film in collaborazione con Rai 2. Distribuito da: Istituto Luce Italnoleggio Cinematografico. 1989 Nella Palermo degli anni Trenta un giudice a latere cerca di opporsi, in piena legalità, alla legge in vigore, che autorizza la pena di morte. La sua è una battaglia durissima perché si scontra non solo con l’opinione pubblica e con i poteri dello Stato, ma con lo stesso imputato che, da perfetto servo di una ideologia aberrante, chiede per sé la fucilazione.
“In Italia ‘si dorme con le porte aperte’. Una delle massime più sinistre del regime fascista dà il titolo al romanzo breve (1987) di Leonardo Sciascia da cui il regista Gianni Amelio ha tratto il film uscito ieri nei cinema italiani. È un film duro, asciutto, bellissimo, un atto d’accusa contro la pena di morte e contro ogni forma di intolleranza, ancorché coperta dal culto dell’ordine. Nei panni del protagonista, un giudice a latere che nella Palermo fascista del 1937 lotta per sottrarre alla fucilazione un pluriomicida odioso e confesso, un grande Gian Maria Volonté, attorniato da un valoroso stuolo di attori teatrali. […] Nell’avvicendarsi dei personaggi ce n’è uno, il procuratore, che racconta una leggenda sul suo anello. Questo anello – spiega – dovrebbe www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
possedere un potere magico: basta girarlo per veder sparire una persona che non ci piace. E a quel punto l’anello lo si vorrebbe avere tra le mani e girarlo, per rimuovere la tensione che la forza del film ha creato dentro di noi. Eppure l’uomo dell’anello è convincente e suggestivo. La pena di morte si giustifica – dice – con il bisogno che ha la gente di pace, di sicurezza. Se saranno eliminati tutti i pericolosi assassini si potrà finalmente dormire lasciando aperte le porte di casa. Ma il nemico, l’insidia, la minaccia, non sono sempre altrove. Spesso si annidano tra le porte chiuse delle nostre emozioni più nascoste. Per questo l’uscio di casa potrebbe restare inutilmente aperto e sicuro. È possibile che nelle ultime scene si senta un nodo alla gola. Ma non è commozione. È l’aver sentito tutta l’attualità della vicenda. È l’aver capito che anche le più salde certezze, qualche volta, possono vacillare. Ed è questa la forza del film: restituirci a noi stessi più forti e più convinti, dopo il dubbio, l’ansia e la paura.” Gianna Schelotto, Il rischio di scoprirsi reazionari, “l’Unità”, 30 marzo 1990.
“[…] Gianni Amelio, il regista del recente I ragazzi di via Panisperna, ha fatto il suo film più bello e maturo: un atto d’accusa alle intolleranze di ieri e di oggi, un elogio della moralità individuale, un omaggio sincero al cinema di attori e di parole. Il libro di Sciascia è una traccia forte che Amelio e i suoi sceneggiatori svuotano e riempiono di personaggi altrettanto forti, distaccandosi notevolmente dalla pagina scritta (così piena di digressioni letterarie e di curiosità siciliane) ma conservandone gelosamente il “messaggio”. […] Il supercinefilo Gianni Amelio ha fatto un film giudiziario che contraddice continuamente se stesso (un produttore americano gli direbbe che è matto e glielo farebbe rimontare). E sta qui, probabilmente, la singolare bellezza di Porte aperte nell’obbligare lo spettatore a seguire i percorsi mentali dei personaggi, a riflettere su quella che Sciascia chiama ‘la vocazione all’assassinio che si realizza con gratitudine e gratificazione da parte dello Stato’, a gustare i vuoti dell’azione e la grandezza dei sentimenti in gioco. Ci sono pagine molto ispirate in questo film prosciugato e laconico che mostra le ragioni di tutti – perfino quelle ‘folli’ dell’assassino – senza per questo farsi imparziale; ma certo l’incontro finale tra il giudice solitario in via di trasferimento e il valoroso giurato agricoltore (cresciuto tra i libri del padrone) è un pezzo da antologia, che commuove gli animi e smuove le coscienze. […]” Michele Anselmi, Palermo ’37: la parola ai giurati, “l’Unità”, 30 marzo 1990. www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
“[…] Ma le infedeltà di Amelio e compagni sono quelle di una bella traduzione. La chiarezza illuministica e i dubbi umani con cui Sciascia affronta da storico e pamphlettista la storia del suo piccolo giudice prendono nel bel film di Amelio i colori cupi e la tangibilità naturalistica della vita di un uomo isolato dalle sue convinzioni, abbandonato da chi gli è vicino al suo rischio ideale, in una Sicilia – splendidamente fotografata da Tonino Nardi – più vicina per i suoi misteri e i suoi intrecci a Pirandello e ai suoi delitti borghesi che al folklore. La filosofia troppo spesso ricorrente per cui ‘processo per processo dobbiamo fare in modo che la gente perbene possa vivere tranquilla, possa andare la sera a dormire lasciando aperta la porta di casa’ – secondo una massima del regime così riassunta dal Procuratore del film – esce sconfitta – momentaneamente – dall’apologo vero di Sciascia e di Amelio grazie a un solitario kamikaze del diritto e all’unico sostegno che trova: esemplarmente indicato nell’agricoltore di buone letture che affianca il piccolo giudice come giudice popolare (un simpaticissimo Renato Carpentieri). […] Con un guizzo di ottimismo il film di Amelio – che lo riconferma uno dei più notevoli talenti del cinema italiano di questi anni – conclude: ho fiducia. Sciascia, con il pessimismo della ragione, chiudeva il suo libro confessando di essere spaventato di tutto.” Irene Bignardi, Il giudice Volonté. Con Sciascia nella Sicilia del fascismo, “la Repubblica”, 30 marzo 1990.
“A Gianni Amelio è riuscito, e alla grande, quel che non è riuscito ad altri: trarre un film da un racconto di Leonardo Sciascia senza banalizzarlo né involgarirlo senza farne un insopportabile pistolotto moralistico. […] Di Palermo Amelio cerca e racconta le penombre e le misteriose ambiguità: quelle fisiche del tribunale e delle abitazioni e anche, in primo luogo, quelle psicologiche. In questo gli è essenziale la recitazione contenutissima di Gian Maria Volonté del tutto libero dalle forzate ‘tipizzazioni’ di un tempo. Nella parte finale, invece, le penombre sono come dissolte dalla luce. Ora, con pudore, la Sicilia di Porte aperte scopre di sé l’assolato e gentile incanto mediterraneo, così simile al fascino della sua grande cultura, forte e schiva.” Roberto Escobar, “Il Sole-24 ore”, 5 giugno 1990.
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Johnny Stecchino
Regia: Roberto Benigni. Soggetto e sceneggiatura: Roberto Benigni e Vincenzo Cerami. Interpreti:Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Franco Volpi, Ivano Marescotti. Fotografia: Giuseppe Lanci. Montaggio: Nino Baragli. Musica: Evan Lurie. Scenografia: Paolo Biagetti Costumi: Gianna Gissi. Prodotto da: Group Tiger, Melampo Distribuzione: Cecchi Gori. Italia 1991 Dante (Roberto Benigni) è autista di un pulmino per ragazzi disabili. È ingenuo, timido, allegro, sentimentale. La bella moglie di Johnny Stecchino – mafioso pentito, uomo durissimo, egocentrico, nevrotico, nascosto in una villa palermitana per evitare vendette – incontra per puro caso Dante e riconosce in lui la perfetta fotocopia del criminale siciliano. La donna decide di portare Dante con sé a Palermo e medita di sostituirlo a Johnny, perché faccia da bersaglio ai mafiosi che vogliono eliminare il suo uomo. Dante crede che la ragazza si sia invaghita di lui e va incontro, del tutto inconsapevole e pieno d’amore, a tutta una serie di disavventure.
“[…] D’accordo: è un film comico, più che satirico. Si direbbe che Benigni e Cerami abbiano tenuto conto di un rozzo detto di Samuel Goldwyn: «La satira è una commedia della quale il pubblico non ride ». E loro volevano soprattutto far ridere. www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
Eppure la grande scena al teatro dell’opera, invenzione che un surrealista sottoscriverebbe, la dice lunga sulla mentalità mafiosa. La commedia degli equivoci, che parte dalla sparatoria in coincidenza col furto della banana, culmina col ricevimento del ministro e il passaggio del sacchetto di cocaina e sostiene quasi interamente l’ultima parte, è di una buffoneria irresistibile proprio perché, oltre ai lazzi, ha la struttura di un meccanismo congegnato senza falle.
Infine c’è la tenerezza. Non a caso il personaggio di Dante prevarica su quello di Johnny nella misura di tre o quattro a uno. Il suo candore riverbera di tenerezza tutto il film senza essere contraddetto dal finale, ossia senza cadere nel sentimentalismo. Sottile nel sostenere l’ambiguità di Maria, dark lady della situazione, Nicoletta Braschi è una partner impeccabile di Benigni in quella che è, nonostante tutto, una storia d’amore senza happy end, mentre il Bonacelli colorisce con la nota bravura il consigliori che sniffa.” Morando Morandini, Chi vuole stecchire Johnny Stecchino?, “Il Giorno”, 25 ottobre 1991.
“Johnny Stecchino o le avventure di Pinocchio nel paese della mafia. Roberto Benigni o la ventura di avere tanto di quel talento da dover fare più cose alla volta. Due personaggi invece di uno. E almeno tre film sotto uno stesso titolo. Perché Johnny Stecchino è una eccentrica storia d’amore, è un film politico duro almeno quanto Il Portaborse (ma più obliquo e sottile), ed è un giallo con tutti gli ingredienti del caso – il crimine, la droga, gli agguati, la morte – ma filtrati e stravolti da una comicità gioiosa quanto implacabile nel far valere le sue ragioni. Che sono ragioni sostanzialmente morali. Non è da tutti, oggi, far ridere parlando di mafia. E non tutti possono permetterselo. Benigni (e Vincenzo Cerami, che con lui ha scritto la sceneggiatura) si conquistano questo diritto catapultando nel regno del Male un concentrato di Innocenza, Purezza, Onestà. […] Ma dietro lo smalto delle invenzioni, dietro la grazia con cui volteggia giocondo sopra il grande mare delle lordure nazionali, Johnny Stecchino nasconde un’anima riflessiva e segretamente sentimentale. È quella che innerva la prima parte del film, più lenta a prima vista, in realtà più attenta ai segnali del cuore. Guardate con quanta delizia Dante scopre che la celestiale Maria ha un corpo come tutti i comuni mortali (e infatti cerca, ohibò, una toilette). Guardate quanta innocenza e quanto erotismo
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insieme c’è in quel dito sporco di panna e leccato al volo, senza parere. […]” Fabio Ferzetti, Benigni nel paese della mafia, “Il Messaggero”, 31 ottobre 1991.
“[…] Il balzo in avanti compiuto da Benigni è di notevole entità: accanto all’attore dovremo d’ora in poi considerare col rispetto dovuto il regista che, senza limitare minimamente l’apporto del primo, ha saputo costruirgli intorno una storia che, grazie all’apporto finalmente visibile di Cerami, regge dalla prima inquadratura all’ultima, anche perché il regista trova sempre e con grande semplicità l’immagine giusta per descriverne lo sviluppo, tanto regge la storia da permettersi il lusso nella prima metà di non fare accadere nulla di eclatante, né sul piano dell’avventura, né su quello della comicità avendo cura soltanto di tener desta l’attesa dello spettatore per quello che prima o poi dovrà pur accadere. […] Nella seconda parte, dicevo, la comicità esplode in modo irresistibile e si regge senza vedere la story, al contrario rafforzandola, come è accaduto solo nei classici della comicità, Il dittatore di Chaplin in testa. E se Il dittatore, insieme a Vogliamo vivere di Lubitsch – badate: due film comici – sono entrambi incentrati sul travestimento e sulle più forti testimonianze che il cinema abbia mai prodotto contro il nazismo, è più che probabile che Johnny Stecchino rimanga il film più esplicito e più impermeabile all’usura del tempo che mai si sia fatto sulla mafia.” Callisto Cosulich, Un Benigni a pieni voti, “Paese sera”, 31 ottobre 1991.
“Roberto Benigni est un acteur complètement toqué, enfant naturel de Toto et de Groucho Marx, un vibrion sidérant dont chaque apparition est un morceau d’anthologie; détenu surexcité, en cavale, dans Down by law de Jim Jarmusch, R. Benigni assomait ses comparses impavides avec un incompréhensible jargon italo-anglais. Transformé en chauffeur de taxi dans l’un des sketches d’Une nuit sur la terre, il terrassait un client ecclésiastique à coups de confidences grivoises. Et avec Le petit diable, qu’il a réalisé, R. Benigni gigotait dans Rome ébahie. […] Impossible et surtout vain, de raconter toutes les péripéties, truffées de rebondissements délirants et de quiproquos géniaux – à un moment, un vol à l’étalage d’une banane sert de prétexte à une cascade de gags – qui s’enchaînent avec une précision diabolique, jusqu’à la dernière seconde, où une ultime pirouette fait encore basculer tout l’histoire. C’est bien
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simple: la Stecchinomania a déjà saisi toute l’Italie. N’essayez surtout pas d’y résister!” Philippe Royer Un film délirant du nouveau grand comique italien, “La Croix”, 10 avril 1992.
La vita è bella Regia: Roberto Benigni. Soggetto e sceneggiatura: Vincenzo Cerami, Roberto Benigni. Interpreti: Roberto Benigni, Giorgio Cantarini, Nicoletta Braschi, Giustino Durano, Sergio Bini Bustrich, Giuliana Lojodice, Amerigo Fontani, Pietro De Silva, Francesco Guzzo, Raffaella Lebboroni, Marisa Paredes, Horst Bucholz, Claudia Alfonsi, Gil Baroni, Jürgen Bohn, Verena Buratti. Fotografia: Tonino Delli Colli. Montaggio: Simona Paggi. Musiche originali: Nicola Piovani. Musiche non originali: Jacques Offenbach. Scenografia e Costumi: Danilo Donati. Prodotto da: Gianluigi Braschi, Mario Cotone, Elda Ferri Distribuito da: Cecchi Gori. 1997 Siamo in Toscana nella seconda metà degli anni Trenta. Guido (Roberto Benigni), un giovane ebreo pieno di allegria e vitalità, abbandona la campagna per cercare fortuna in città. Come accade nei più bei romanzi d’amore, Guido incontra la sua “principessa”, Dora (Nicoletta Braschi), una maestrina fidanzata con un burocrate arrogante e pomposo. Guido se ne innamora follemente e la rapisce. Dal loro amore viene alla luce un www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
bambino, Giosuè (Giorgio Cantarini). Ma la felicità della famiglia viene spezzata dalle leggi razziali contro gli ebrei: il giovane insieme alla moglie e al bambino viene deportato in un lager nazista. Per salvare il figlio dall’orrore che li circonda, Guido fa credere al piccolo Giosuè che tutto ciò che vedono è parte di un grande gioco in cui dovranno affrontare prove tremende per vincere il meraviglioso premio finale.
“«Vincenzo Cerami, è vero, come dice Benigni, che il titolo La vita è bella, lo ha trovato lei?» «È semplice, perfino coraggioso per quanto è semplice, ma dietro si nasconde una grande verità. Mi ha sempre impressionato il testamento di Trotzkij. Gli avevano massacrato i figli, i sicari di Stalin lo braccavano, era chiuso in un bunker di Città del Messico, e proprio prima di essere ammazzato a colpi di accetta, scorge la moglie nel giardino e scrive “malgrado tutto la vita è degna di essere vissuta”. Dal fondo della tragedia. Questo senso della vita mi sembra importante specialmente adesso, in un’epoca in cui sembra più attraente la cultura della morte del valore del vivere.» «Questo è il film più difficile scritto con Benigni?» «È il più difficile in assoluto, perché si trattava di trovare equilibri geometrici. Soprattutto la prima parte era difficile, dovevamo raccontare cinque anni, riassumere in un’ora qualcosa che ha l’andamento del romanzo, che mostrasse il passato di due che diventano marito e moglie. Ho cercato di “vedere” i miei genitori, i nonni, due persone che vivono l’età anziana. Se ci fermiamo a guardarli con un pizzico di amore, riusciamo a immaginarli com’erano quando si sono conosciuti, e senti un odore di campagna, un sapore un po’ arcaico, chissà se lei ha avuto altri amori prima di lui, e che battaglia ha fatto lui per conquistarla, in quell’epoca marmorea nel sogno dell’Impero, in quell’Italia che faceva finta di essere sicura di se stessa, con il fascismo, la burocrazia, l’istituzionalizzazione della morale piccolo borghese… E in tutto questo inserire Benigni, segaligno, elettrico, una molla che saltabecca, che ha voglia di vivere, di amare, che viene dalla campagna e vuole aprire una libreria, che ha un amico poeta e ha letto poesie, antifascista per costituzione fisica. Se non avessimo costruito questo background, che è la memoria dei personaggi – e questo giustifica il colore favolistico della storia d’amore – non avrebbe avuto senso la seconda parte nel lager.» […]” Maria Pia Fusco, “Il senso della vita in fondo alla tragedia”, “la Repubblica”, 12 dicembre 1997.
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“[…] L’umorismo degli ebrei che dalla Torah e dal Talmud, attraverso i maestri del Khassidismo, scende nel letz e nel badkhen, mitici giullari e buffoni del mondo ebraico creatori del witz, arriva fino a noi con i grandi comedians della Mitteleuropa e d’oltreoceano. Questo umorismo è un bagliore filosofico che illumina le insolubili contraddizioni dell’esistenza attraverso un vertiginoso meccanismo autodelatorio, è la critica della ragion paradossale che spiazza la violenza e sfibra il pregiudizio. Benigni sa tutto questo, lo sa per istinto, lo sa con la ragione del cuore, della mente e del corpo. Pur provenendo dalle radici profonde di un’altra grande tradizione, per la sua grazia stralunata, per la vitalità ipercinetica – quasi khassidica – del suo corpo “naturalmente antifascista” e aggiungerei anti idolatrico, e per la sua khutzpe (la faccia di bronzo del ghetto) è a suo totale agio nei panni dell’ebreo: e noi, irrigiditi dall’indicibilità dell’argomento, dalla nostra suscettibilità anticipata, ci sciogliamo affidando al suo irresistibile disequilibrio il nostro dolore e la nostra memoria, come lo consegneremmo alle mani più fidate. Benigni ci regala una storia, scritta con Vincenzo Cerami, e un film a mio parere il suo più bello e maturo, necessario, che brilla per la fedeltà a se stesso anche sulla soglia dell’infinito dolore e che per questo può tendere la corda dell’acrobata sulla voragine dell’inferno e farcelo attraversare, tenendoci tutti sulle sue esili e possenti spalle. La pietas artistica di Benigni è tale da permetterti di affacciarti sull’universo concentrazionario nazista senza impazzire. E nell’assumere su di sé, come individuo particolare, l’urgenza di raccontare, usa una parabola poetica, la parabola del padre che vuole salvare il figlio piccino dall’orrore, a prezzo della più inaudita menzogna. Benigni padre dispone solo della disarmata menzogna del gioco più inverosimile, cui il figlioletto crede perché crede al padre. Questo gioco ridicolizza il nazista e insieme lo rende più efferato che nei film seri. Ci fa ridere Benigni, ma è proprio in quei momenti che ci si serra la gola, che il nostro rinnovato dolore si strugge e si fa più lancinante. Benigni ha la consapevolezza che la Shoà è il calvario non di masse indistinte, ma di esseri umani ciascuno, alto o basso, con il suo bagaglio di vita vissuta e da vivere. […]” Moni Ovadia, Divertiti Roberto, da oggi sei ebreo honoris causa, “Corriere della Sera”, 19 dicembre 1997.
“«Che carattere ha la musica di La vita è bella?» «È una musica in due tempi. Che però non corrisponde alle caratteristiche tematiche degli stessi. Mi spiego. Nella prima parte, dove il gioco comico, la maschera,
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sono evidenti, c’è un tema d’amore. Il metodo è questo: collocare la musica in opposizione alle situazioni per ottenere lo straniamento.» […] «Quale, a suo avviso, il segreto del film?» «L’autenticità. Ricordo il primo giorno in cui Benigni me ne parlò. Andai a trovarlo a Terni, dove stava, ci vedemmo nella saletta privata di un ristorante. Dopo mangiato, mi recitò tutto il film a memoria, interpretò tutte le parti, dal bambino alle SS. Tre, quattro ore di seduta. Riuscì ad emozionarmi, a farmi amare da subito la storia. E così è andata avanti. Il clima sul set, l’orchestrina, la costruzione dei personaggi… Tutto con molto amore. […]»” Rita Sala, Piovani: abbiamo fatto centro con la forza dell’innocenza, “Il Messaggero”, 11 febbraio 1999.
“[…] Benigni ci dà qui un sorprendente saggio di surrealismo, che libera la maggiore tragedia di questo secolo dalle pastoie documentali, ricostruite tante volte da trasformarle in rito o, per quel che concerne il cinema, in un vero e proprio genere, per offrirne una visione più ampia e permanente; forse quella che ci avrebbe offerta Chaplin, se Il grande dittatore fosse stato girato dopo la guerra e non alla sua vigilia, forse quella che voleva darci Jerry Lewis in Il giorno in cui il clown gridò, il suo film rimasto sfortunatamente incompiuto. Una visione che ci dice come la realtà sia articolata attraverso una serie di ambiti, regolati da collegamenti reciproci e in un certo senso mobili. Lo ha scritto Heisenberg, che per l’occasione mi sono concesso di citare due volte. Lo ha scritto proprio in Germania e nel 1942, più o meno nell’anno in cui si compie la tragedia ottimista, inventata da Benigni e da Vincenzo Cerami, il suo sceneggiatore di fiducia.” Callisto Cosulich, Sogno di un prigioniero, “Avvenimenti”, 2 gennaio 1997.
“Roberto Benigni ha spiazzato un’altra volta tutti. Lo avevamo lasciato clown e Pinocchio, irriducibile “creatura montanina” dalle recenti ascendenze contadine e dissacratore spietato del costume politico contemporaneo. Ora, con La vita è bella ci costringe a ripensarlo in una chiave diversa, anche se profondamente connessa con quelle precedenti. Vero è che questo elemento di libertà, anzi, di incoercibilità fantastica, proprio di ogni grande comico, si poteva indovinare anche prima. Non a caso, scrivendone dopo il tour pre-elettorale dell’anno passato, mi era capitato di osservare che, come Pinocchio, “anche Benigni, cantando, gridando, parlando e correndo, sfugge alla presa di chiunque, – di chiunque, dico, – voglia intrappolarlo nella propria casella”. Ma bisogna www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
riconoscere che quest’ultima volta, con la complicità, suppongo, di un Vincenzo Cerami in grandissima forma che sempre più si rivela uno dei nostri più robusti ideatori e narratori di “storie”, il balzo di PinocchioBenigni dalle caselle degli spettatori e dei critici è stato davvero imprevedibile e straordinario, tanto da prefigurare, forse, una nuova e più ambiziosa fase del comico. […] Benigni sorvola l’ardua materia dall’alto e alla sua maniera, e cioè come potrebbe accadere al narratore di un racconto di fiabe. Andate a rileggervi le Fiabe italiane di Italo Calvino e contate quanti racconti di crudeltà e di orrore esse annoverino. Un Orco (o un Mangiafuoco, ma davvero crudele) è sempre fra noi e può materializzarsi in ogni istante in qualche cosa di orribile: questa volta nelle divise verdi e negli occhi chiari, ottusi e spietati delle SS di guardia ad un campo di concentramento nazista. È prodigioso come questo svolgimento fiabesco lieve ed aereo (davvero un po’ calviniano, a pensarci bene), non cancelli affatto l’orrore dell’universo concentrazionario: solo che lo condanna in particolari fulminanti, in cui come un raggio gelido e spietato di luce, cala la scena e ci consente di vederla in tutta la sua terribilità. […] Un ultimo spunto. A completare un disegno di questa natura ci voleva un elemento amoroso e al tempo stesso materno, di cui Nicoletta Braschi si fa interprete concisa e deliziosa. Oltre la difesa del figlio, c’è nel film, ancor più all’origine, più in radice, la nascita, anch’essa strana e irresistibile, fortemente voluta e perseguita contro ogni ostacolo, di un amore. Quest’amore è destinato a produrre il bambino, – ossia il piccolo uomo, il futuro, il pegno di un’unione e di una speranza, – e il gioco paterno è fatto tutto per salvarlo. E tuttavia i messaggi che Roberto lancia nelle maniere più imprevedibili attraverso gli orrori del campo di concentramento per tentare di raggiungere l’altrimenti irraggiungibile Nicoletta, sono messaggi d’amore, che prescindono dalla discendenza e dalla continuazione. Anche questi sono lampi di luce, ma luce di quel sentimento umano che illumina, con assoluta discrezione poetica, la tenebra circostante.” Alberto Asor Rosa, Questo film di Benigni è un gran film, “l’Unità”, 18 dicembre 1997.
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Uomo d’acqua dolce Regia: Antonio Albanese. Soggetto e sceneggiatura: Antonio Albanese, Vincenzo Cerami. Interpreti: Antonio Albanese, Valeria Milillo, Antonio Petrocelli, Sara Anticoli, Emanuela Grimalda, Stefano Sarcinelli, Valerio Isidori, Birte Berg, Alessandra Comerio, Pino Ingrosso, Nicola Rignanese, Pier Senarica. Fotografia: Massimo Pau. Montaggio: Cecilia Zanuso. Musica: Nicola Piovani. Scenografia: Sonia Peng. Prodotto da: Vittorio e Rita Cecchi Gori. www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
Distribuito da: Cecchi Gori. Italia 1997 Antonio (Antonio Albanese) e Beatrice (Valeria Milillo) sono sposati e attendono un figlio. Antonio per soddisfare una voglia di Beatrice esce per comprare un vasetto di funghetti sott’olio. Al supermercato gli cade in testa una pesante confezione di zucchero che lo fa svenire. Quando si rianima non ritorna a casa ma si perde nella città. Passano cinque anni, Beatrice vive ora con Goffredo (Antonio Petrocelli) che fa da padre a Tonina (Sara Anticoli). Un giorno all’improvviso ricompare Antonio, come se niente fosse successo, portando in mano un vasetto di funghi.
“Ma come è nata l’idea del film? «Da un incontro con Vincenzo Cerami. S’è innamorato del mio lavoro, della mia fisicità, del mio lavoro sul corpo e mi ha proposto questo soggetto perché potevamo andare oltre e lavorare sulla comicità. Su una storia esile. Non ci interessava rappresentare delle psicologie, ma lavorare sul gesto. Io faccio comicità e per me questo era il bello, mi incuriosiva, è una parte importante del mio lavoro. Poi c’era l’entusiasmo di Vincenzo, che non lavora con tutti, così abbiamo cominciato a frequentarci e ci siamo accorti che il binomio funzionava. Abbiamo scritto il trattamento…»” Antonio Albanese in Antonello Catacchio, “il manifesto”, 12 marzo 1997.
“[…] Albanese è un comico diverso da tutti, che assai più di Benigni va oltre la parola per esprimersi con il corpo, i gesti, il dinamismo demente. In Uomo d’acqua dolce è irresistibile il suo modo di camminare come un automa, di inseguire un’oca o farsi inseguire da lei imitandone l’andatura, di riproporsi testardamente in forme diverse o diversamente occultato (dietro una pianta o un quadro, in travestimento da animale di peluche o da suora). È irresistibile il suo modo di ballare che comincia di colpo, repentinamente, senza preavviso, che gli scuote tutto il corpo come in una danza di dervisci, che lo fa sussultare e fremere: perfettamente a tempo con la musica e insieme assolutamente autonomo come seguisse un ritmo interno, capace di impegnare e sprigionare un’energia fortissima che pare l’ultima rimastaci. Sono irresistibili il disagio e la simpatia provocati dalla sua faccia di uomo qualunque certo non bello, dalla sua testa semicalva, dalle sue labbra di rettile, dalla sua infida sollecitudine. Senza esagerare troppo, si può forse dire che Albanese rappresenta per gli anni Novanta quel che Rascel rappresentò nei Quaranta: un’apparizione surreale, irrazionale, pre o post www.vincenzocerami.com Tutti i diritti sono riservati
intellettuale, non satirica né sardonica ma soltanto comica, espressione inimitabile dell’incertezza, del vuoto, dell’allarme, del disgusto del proprio tempo. […]” Lietta Tornabuoni, Albanese, un corpo anarchico, “La Stampa”, 15 febbraio 1997.
“È una sferzata di surrealismo di origini lunari Uomo d’acqua dolce di Antonio Albanese. Per questo tipo di artista non ci si metterà a parlare di cinema italiano da rilanciare, di attenzione al box office e nuovi filoni da esplorare, ma di un volo poetico che dal palcoscenico passando per il piccolo schermo a attraverso i fogli dell’alchimista Vincenzo Cerami è diventato un film da afferrare.[…] Il cinema spesso deve spiegare tutto per filo e per segno, non si accontenta di suggerimenti, ma Albanese dopo essersi munito di una abile sceneggiatura (Cerami, appunto), che tiene conto dei suoi tempi comici e dei tempi del cinema, dissolve come regista i precisi punti di riferimento e ci regala un’opera astratta, degna di una altro personaggio che arrivava nei luoghi come da un altro mondo, monsieur Hulot. Hulot giocava a tennis come Antonio si ostina a seguire la musica in levare invece che in battere, andava in bicicletta seguendo una sua strada mentale, come lui cammina e cammina intorno a Milano.[…]” Silvana Silvestri, Epifanio tra le nuvole. “Uomo d’acqua dolce, “il manifesto”, 21 febbraio 1997.
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