TUTELA DEL MADE IN ITALY E DELOCALIZZAZIONE DEL PROCESSO PRODUTTIVO Sommario: Premessa – Esame della sentenza – Conclusioni.
PREMESSA La terza sezione penale della Corte di cassazione a pochi mesi di distanza dalla sentenza n. 3352 del 2 febbraio 2005 è intervenuta nuovamente sul tema della tutela del “made in Italy” in relazione al fenomeno della delocalizzazione del processo produttivo, fenomeno che, com’è noto, riguarda molte aziende italiane. Già con la citata sentenza del 2 febbraio di quest’anno, la terza sezione penale della Cassazione, per un caso in cui una società italiana aveva importato dalla Romania prodotti realizzati da una sua controllata e recanti la denominazione precisa e la nazionalità della società italiana senza alcun riferimento al luogo di lavorazione dei prodotti, concludeva che nel caso prospettato non vi fossero gli estremi della fattispecie criminosa prevista dall’art. 4, comma 49, della L. n. 350 del 2003 (legge finanziaria 2004). A sostegno della predetta decisione, la Corte, distinguendo nettamente il concetto di provenienza delle merci da quello di origine delle stesse1, affermava che quando la società controllata ha osservato nel ciclo di produzione le tecnologie produttive, le formule e le procedure aziendali della società controllante di nazionalità italiana, operando con il costante controllo del personale di quest’ultima, è, in via definitiva, la controllante che si assume “la responsabilità giuridica, economica e tecnica del loro processo di produzione e ne garantisce al consumatore la qualità mediante la apposizione della sua denominazione sociale e del suo marchio”2. Secondo la Corte in tal modo viene ribadito il principio già espresso, in altre occasioni, dalla giurisprudenza della Suprema Corte di cassazione, con riferimento alla norma di cui all’art. 517 c.p., secondo cui con la nozione di “provenienza” si intenderebbe la derivazione di un prodotto da un determinato produttore e non dal luogo di produzione. Sul punto, infatti, la Corte precisa che il primo periodo del comma 49 dell’art. 4 della L. n. 350 del 2003 si riferisce esclusivamente alle “false o fallaci indicazioni di provenienza” e non fa alcun riferimento alla nozione di origine del prodotto. Tale omissione, prosegue la Corte, lungi dall’essere una dimenticanza del legislatore dimostrerebbe che la disposizione penale di cui al primo periodo del comma 49 farebbe riferimento al concetto di provenienza dal produttore e non a quella geografica. In effetti, prosegue il giudice di legittimità, solo nel secondo periodo del predetto comma, che si riferisce all’apposizione della stampigliatura “made in Italy”, il legislatore opera un richiamo ai criteri utilizzati dalle norme comunitarie per stabilire l’origine del prodotto, disponendo, a tal fine, che costituisce “falsa indicazione” l’apposizione dell’indicazione “made in Italy” in questione sui prodotti non originari dell’Italia. Ne consegue che “sarebbe semmai solo per l’apposizione del marchio “made in Italy” che potrebbe farsi riferimento alla produzione del prodotto in Italia, e ciò senza voler considerare che in forza della disposizione di cui al comma 63, le modalità di istituzione e di uso del marchio “made in Italy” sono demandate ad apposito regolamento delegato”3. Pertanto, la indicazione sui prodotti importati del nome e del marchio del vero produttore corrisponde al vero e “non è idonea ad ingannare il consumatore sulla provenienza e sulla qualità dei prodotti, mentre è del tutto irrilevante che non sia stato indicato anche il luogo di fabbricazione materiale dei prodotti stessi, luogo appunto indifferente in ordine alla loro qualità ed alla tutela del
Cass., sez. III penale, 02 febbraio 2005 n. 3352, in Doc. econ. e trib. http://dt.finanze.it, p. 6. Cass., sez. III penale, 02 febbraio 2005 n. 3352, in Doc. Econ. e trib. http://dt.finanze.it, pp. 7 e 8.; 3 Cass., sez. III penale, 2 febbraio 2005 n. 3352, in Doc. econ. e trib. http://dt.finanze.it, p. 7. 1 2
1
consumatore, e la cui indicazione per le considerazioni svolte, non può ritenersi imposta dall’art. 49, comma 4, della legge finanziaria 24 dicembre 2003 n. 350”. 4 Con la successiva sentenza n. 13712 del 14 aprile 2005, in commento, la terza sezione penale della Corte di cassazione è stata chiamata a decidere una questione sorta in seguito all’effettuazione di un sequestro probatorio da parte dell’autorità doganale e riguardante alcuni capi d’abbigliamento, prodotti in Cina e successivamente importati in Italia. I capi in questione recavano un’etichetta con l’indicazione della composizione del tessuto, nonché la denominazione e la nazionalità della società importatrice italiana, oppure un cartellino con l’indicazione della denominazione societaria dell’importatore e una striscia sottostante con i colori della bandiera italiana e la dicitura Italy. La società importatrice si opponeva al sequestro effettuato ed il giudice delle indagini preliminari disponeva con ordinanza la restituzione della merce alla predetta società, ritenendo che nel caso di specie le indicate diciture non fossero idonee ad individuare il luogo di fabbricazione della merce, bensì stessero ad attestare la denominazione e la nazionalità del produttore, unico soggetto garante e responsabile del prodotto finito. Sulla scorta della giurisprudenza prima menzionata del giudice di legittimità, il G.I.P., infatti, decideva che nel caso considerato non si fosse verificata alcuna lesione del bene tutelato dalla norma incriminatrice, bene che coincide “con l’interesse del consumatore a non essere ingannato sulla qualità e provenienza della merce”5. Avverso la predetta ordinanza, il Procuratore della Repubblica proponeva ricorso per Cassazione, ritenendo che la stessa avesse a fondamento un’erronea applicazione dell’art. 4, comma 49 della L. n. 350 del 20036. Ad avviso del Procuratore della Repubblica, infatti, il reato previsto dal predetto art. 4, comma 49, non avrebbe lo stesso oggetto giuridico e prevederebbe una condotta dell’agente più ampia di quella prevista per il reato di cui all’art. 517 del codice penale, articolo a cui la norma prima indicata della legge finanziaria fa rinvio solo quoad poenam7.
ESAME DELLA SENTENZA La pronuncia in commento si caratterizza rispetto alla precedente giurisprudenza sul punto ed anche rispetto alla sentenza n. 3352 del 2 febbraio 2005 in quanto in essa la Corte elabora un’attenta ricostruzione del quadro normativo di riferimento in questa materia, al fine di individuare con chiarezza la tipologia di reato introdotta dalla legge finanziaria per l’anno 2004. L’analisi della Suprema Corte prende avvio dalla disciplina codicistica posta dall’art. 517 cod.pen (vendita di prodotti industriali con
Idem, p. 8. Cass., 3 sez. penale, 14 aprile 2005 n. 13712/05, p. 1, in De Agostini professionale. 6 art. 4, comma 49, della L. n. 350 del 2003, nella versione precedente alla modifica effettuata dall’art. 1 del D.L. 14 marzo 2005, convertito con modificazioni dalla L. n. 80 del 14 maggio 2005, reperibile dal sito della doc. econ. e trib.: http://dt.finanze.it: (omissis). “L'importazione e l'esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza costituisce reato ed e' punita ai sensi dell'articolo 517 del codice penale. Costituisce falsa indicazione la stampigliatura "made in Italy" su prodotti e merci non originari dall'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l'origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l'uso di segni, figure, o quant'altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana. Le fattispecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l'immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio. La fallace indicazione delle merci puo' essere sanata sul piano amministrativo con l'asportazione a cura ed a spese del contravventore dei segni o delle figure o di quant'altro induca a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana. La falsa indicazione sull'origine o sulla provenienza di prodotti o merci puo' essere sanata sul piano amministrativo attraverso l'esatta indicazione dell'origine o l'asportazione della stampigliatura "made in Italy"”; 7 Art. 517 del c.p.: “Chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti ad indurre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto, è punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a € 1.032”. 4 5
2
segni mendaci), a cui, peraltro, fa rinvio lo stesso art. 4, comma 49, nonché dall’art. 474 c. p. (introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi)8. Al riguardo, si precisa che, mentre la norma posta dall’art. 474 tutela la fede pubblica e richiede per l’esistenza del reato l’alterazione o la contraffazione del marchio o di altro segno distintivo della merce a cui, comunque, l’ordinamento accorda protezione giuridica, la disciplina di cui all' art. 517 c.p. tutela l’ordine economico e, quindi, la correttezza commerciale, a tutela dei consumatori ed a protezione del produttore dalla illecita concorrenza e non richiede per l’esistenza del reato che i segni distintivi siano alterati o contraffatti. Per la consumazione del reato in esame è, infatti, sufficiente la “semplice imitazione del marchio o del segno distintivo, non necessariamente registrato o riconosciuto, purchè essa sia idonea a trarre in inganno l’acquirente”.9 Partendo dall’analisi dello specifico bene giuridico tutelato dalla norma di cui all’art. 517 c.p., la Corte osserva che l’effetto tipico della condotta illecita descritta è propriamente l’idoneità della stessa a trarre in inganno l’acquirente sull’origine, provenienza o qualità del prodotto. In effetti, come si è già osservato in precedenza, la giurisprudenza di legittimità formatasi sull’art. 517 c.p. ha già rilevato che l’origine o la provenienza del prodotto sono, in realtà, specificati nella norma giuridica poiché si pongono in funzione della garanzia della qualità del prodotto10. Per i prodotti industriali tale garanzia di qualità è assicurata non dalla loro origine o provenienza geografica, ma dalla loro provenienza dall’imprenditore che si rende responsabile del processo di fabbricazione e garantisce che lo stesso processo si sia svolto secondo determinate specifiche. Il discorso è diverso quando si tratti, invece, dei prodotti agroalimentari. In questo caso è di tutta evidenza che la qualità degli stessi sia strettamente correlata ed anzi è direttamente dipendente dal luogo geografico di produzione, trasformazione o elaborazione11. In questa materia il legislatore è poi intervenuto introducendo una nuova fattispecie di reato quella appunto prevista dall’art. 4, comma 49, della L. n. 350 del 2003, il cui esatto ambito viene individuato dalla Corte, prendendo le mosse proprio dalle differenze rintracciabili con il reato di cui all’art. 517 cod.pen. In primo luogo, per quanto attiene al momento di consumazione del reato, la nuova fattispecie illecita si realizza con il compimento delle operazioni d’importazione ovvero con quelle di esportazione del prodotto a fini di commercializzazione. Ciò implica che il reato de quo si perfeziona fin dal momento di presentazione in dogana della merce per l’immissione in libera pratica nel territorio comunitario e la successiva immissione in consumo. In secondo luogo, il nuovo reato ha un oggetto materiale, su cui incide la condotta illecita, più ampio di quello del reato di cui all’art. 517 c.p.. Infatti, mentre la previsione codicistica fa riferimento alle opere dell’ingegno ed ai prodotti industriali, la norma di cui all’art. 4, comma 49, della legge finanziaria 2004 si riferisce in generale ai prodotti, dal che si desume che l’illecito di cui alla predetta norma riguarda qualsiasi prodotto, quindi, non soltanto quelli industriali, ma anche quelli di natura agricola. Art. 474 c.p.: “Chiunque, fuori dei casi di concorso nei delitti preveduti dall'articolo precedente, introduce nel territorio dello Stato per farne commercio, detiene per vendere, o pone in vendita, o mette altrimenti in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali, con marchi o segni distintivi, nazionali o esteri, contraffatti o alterati, e' punito con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a lire quattro milioni. Si applica la disposizione dell'ultimo capoverso dell'articolo precedente”. 9 Sentenza in commento, p. 2, punto n.3. 10Cass., sez. III penale, 26 agosto 1999 n. 2500 (sent. Imp. P.M. in proc. Thum), massima tratta dal CED della Cassazione: “Non può negarsi che l’imprenditore, nel campo dell’attività industriale, possa affidare a terzi sub-fornitori l’incarico di produrre materialmente, secondo caratteristiche qualitative pattuite con l’esecutore, un determinato bene e che possa imprimervi il proprio marchio con i suoi segni distintivi e quindi lanciarlo in commercio. Ciò è ammesso in quanto la garanzia che la legge ha inteso assicurare al consumatore riguarda l’origine e la provenienza del prodotto non già da un determinato luogo ( ad eccezione delle ipotesi espressamente previste dalla legge), bensì da un determinato produttore, e cioè da un imprenditore cha ha la responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione. Ne consegue che anche una indicazione errata o imprecisa relativa al luogo di produzione non può costituire motivo di inganno su uno dei tassativi aspetti considerati dall’art. 517 c.p., in quanto deve ritenersi pacifico che l’origine del prodotto deve intendersi in senso esclusivamente giuridico, non avendo alcuna rilevanza la provenienza materiale, posto che origine e provenienza sono indicate, a tutela del consumatore, solo quali origine e provenienza dal produttore” ; 11 Cass., sez. III penale, 14 aprile 20005 n. 13712/05, in De Agostini professionale, p. 3, punto 3.2. 8
3
Infine, appare ampliata anche la condotta del reato. Mentre l’art. 517 c.p. incrimina la commercializzazione dei prodotti con segni atti ad indurre in inganno il compratore, l’art. 4, comma 49, penalizza la commercializzazione dei prodotti che, come già visto, recano false o fallaci indicazioni di provenienza. Per “falsa indicazione” deve intendersi quella indicazione dell’origine o della provenienza del prodotto che non coincide con la realtà, mentre per “fallace indicazione” deve intendersi un’indicazione di origine o provenienza del prodotto che pur non essendo falsa sia, tuttavia, in grado di trarre in inganno l’acquirente circa l’origine o la provenienza del prodotto stesso 12. È, quindi, chiaro che la condotta del reato previsto dall’art. 517 c.p. coincide con la fallace indicazione di origine o provenienza del prodotto. Il nuovo reato previsto dall’art. 4, comma 49, oltre a fare riferimento alla fallace indicazione comprende anche la nozione di falsa indicazione. Conclusivamente, pertanto, il nuovo reato previsto dall’art. 4, comma 49, della legge finanziaria n. 350 del 2003, punisce la commercializzazione dei prodotti industriali e agricoli “con indicazione di origine o provenienza falsa, cioè non corrispondente alla realtà, oppure fallace, cioè atta a trarre in inganno sull’origine o provenienza medesima; e ciò anche se si tratta di indicazioni consistenti in segni distintivi, emblemi o denominazioni non registrati né giuridicamente riconosciuti” 13. Da quanto premesso risulta, pertanto, che anche la nuova previsione di reato protegge l’ordine economico (libertà e buona fede del consumatore, nonché protezione del produttore dall’illecita concorrenza); inoltre per quanto concerne i suoi rapporti con la disciplina di cui all’art. 517 c.p., la Corte osserva che il reato di cui al predetto articolo è un reato sussidiario, applicandosi la relativa disciplina soltanto ove il fatto non sia previsto da altra disposizione di legge. Al riguardo, considerato che la nuova figura di cui all’art. 4, comma 49 della legge finanziaria per il 2004 ha una portata più ampia, per l’oggetto materiale e per la condotta, rispetto a quella prevista dalla norma posta dall’art. 517 c.p., quest’ultima norma si potrà applicare soltanto nel caso della commercializzazione delle opere dell’ingegno con segni ingannevoli per la quale manca un’altra previsione di legge e per il resto rimane assorbita dalla precedente fattispecie. In ogni modo, per entrambi i reati, quello di cui all’art. 517 c.p. e quello introdotto dalla legge finanziaria per il 2004, valgono le osservazioni già esposte circa il rilievo che l’origine o la provenienza del prodotto hanno sulla sua qualità. Sul punto, la Corte precisa che, un conto è la nozione di origine che rileva per le esigenze del commercio internazionale e che è disciplinata dalle norme del codice doganale comunitario con riferimento alle regole di origine non preferenziale delle merci (artt. dal 22 al 26 del Reg. to CEE n. 2913/92) ed in particolare dall’art. 24 del predetto codice, secondo cui quando alla produzione di una merce hanno partecipato due o più Paesi essa deve considerarsi originaria del Paese in cui è avvenuta l’ultima lavorazione o trasformazione sostanziale, un conto è il richiamo alla nozione di origine effettuata, sia nell’art. 517 del c.p., sia nella disposizione di cui all’art. 4, comma 49, della legge finanziaria per il 2004 che è in funzione del bene giuridico tutelato dalla norma (l’ordine economico appunto) e quindi della qualità del prodotto stesso, come è stato più volte argomentato in precedenza14. In ordine alla definizione dei concetti di “falsa e fallace indicazione” si veda la recente circolare dell’Agenzia delle Dogane n. 20/D del 13 maggio 2005, pp. da 3 a 5, reperibile sul sito http://www.agenziadogane.gov.it. ed in particolare sulla nozione di fallace indicazione: “(omissis) In particolare, sui casi prospettati, si precisa quanto segue: Nel caso di importazione di prodotti nei quali sia indicata l’esatta origine estera, l’ espressa previsione normativa di cui al citato art. 4, comma 49 della L. n. 350 del 2003 può verificarsi solo nel caso in cui la fallace indicazione (segni,figure e quant’altro) abbia caratteristiche tali da “oscurare”, fisicamente o simbolicamente, l’etichetta di origine, rendendola di fatto poco visibile o praticamente non riscontrabile anche ad un semplice esame sommario del prodotto. Pur non escludendo, quindi, il verificarsi di tali possibilità, tuttavia le fattispecie penalizzabili, in tali casi, sembrano essere molto ridotte. Nel caso di esportazione di prodotti nei quali non sia indicata la loro esatta origine, perché l’indicazione possa essere considerata fallace deve indurre chi la legge a riconoscere al prodotto un’origine errata (in particolare, quella italiana).Può essere il caso in cui, ad esempio, in mancanza di una qualunque indicazione di origine, il prodotto presenti una etichetta riportante una bandiera italiana, oppure la semplice dicitura “Italy”, oppure ancora il nome di una città (Firenze, Venezia, ecc. (omissis)”. 13 Sentenza in commento p. 6. 14 sul punto in tema di origine non preferenziale delle merci si veda la recente cir. dell’Agenzia delle Dogane n. 20/D del 13 maggio 2005, pagg. 5-6 reperibile sul sito: http://www.agenziadogane.gov.it: “Sembra infine opportuno precisare che ogni riferimento fatto all’origine dei prodotti deve essere inteso come riferito all’origine non preferenziale degli stessi, così come viene definita negli articoli da 22 a 26 del Codice doganale comunitario (reg. CEE n. 2913/92). Difficoltà applicative possono essere riscontrate, in particolare, nell’applicazione dell’art. 24 di detto Codice nel quale viene precisato che una merce alla cui produzione abbiano contribuito due o più paesi deve essere considerata 12
4
In relazione a quanto fin qui premesso, appare chiaro che, secondo il giudice di legittimità, il richiamo alla nozione europea di origine contenuto nel citato art. 4, comma 49, della legge finanziaria del 2004, non ha modificato “la corretta interpretazione che si deve dare della origine e provenienza di un prodotto ai fini della tutela penale dell’ordine economico o della fede pubblica. Posto che a tali fini origine e provenienza sono funzionali alla qualità del prodotto, rileverà la derivazione territoriale o quella imprenditoriale secondo che la qualità del prodotto dipenda dall’ambito geografico o dalla tecnica produttiva in cui la merce nasce”.15 Da quanto premesso, la Suprema Corte ha concluso che nel caso sottoposto alla sua attenzione, il comportamento tenuto dalla società italiana non ha gli estremi del reato di cui all’art. 4, comma 49, L. n. 350 del 2003, posto che i prodotti tessili importati non recano alcuna falsa o fallace indicazione sull’origine imprenditoriale dei beni importati. L’etichetta posta sui capi di abbigliamento riporta, infatti, chiaramente l’indicazione veritiera dell’identità e nazionalità del produttore italiano a nulla rilevando il luogo di produzione dei predetti capi.
CONCLUSIONI Nella pronuncia in esame è evidente lo sforzo ermeneutico compiuto dalla Suprema Corte per dare linearità ad una disposizione, quale quella contenuta nell’art. 4, comma 49, dal tenore letterale non sempre caratterizzato da chiarezza espositiva. A tale proposito, basti pensare che il legislatore configura il reato di cui al predetto art. 4, comma 49 anche nell’ipotesi delle false o fallaci indicazioni di provenienza poste sui prodotti destinati all’esportazione per fini di commercializzazione. Tuttavia, quando, poi, individua espressamente il momento di consumazione del reato fa riferimento all’atto della presentazione della merce negli spazi doganali per “l’immissione in consumo o l’introduzione in libera pratica”. Il riferimento all’immissione in libera pratica della merce rinvia inevitabilmente alle sole operazioni di importazione nella Comunità di beni provenienti da Paesi terzi. Manca, invero, un’analoga previsione, in ordine al momento di consumazione del reato, nel caso dell’operazione doganale di esportazione definitiva, operazione che consiste nell’inviare merci comunitarie al di là del territorio doganale comunitario previa, anche in questo caso, presentazione delle merci in dogana accompagnate da una dichiarazione scritta predisposta su un formulario unico16. In questa circostanza, dalla lettera della disposizione in esame si evince che la preoccupazione principale del legislatore nazionale è soprattutto quella di evitare l’ingresso di merce recante false o fallaci indicazioni nel territorio comunitario ed, in particolare, sul suolo italiano.
originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale.È proprio il concetto di trasformazione sostanziale che può creare difficoltà interpretative alla luce delle diverse valutazioni che possono essere attribuite alle operazioni cui i prodotti medesimi sono sottoposti.Al riguardo, si forniscono le seguenti indicazioni: Gli allegati 10 e 11 del regolamento CEE n. 2454/93 riportano, per taluni prodotti, la descrizione delle lavorazioni (cd. “regole di lista”) che permettono al prodotto finito (per la cui produzione sono utilizzati materiali aventi origini diverse) di acquisire l’origine del Paese dove è avvenuta la trasformazione in questione, trasformazione che viene in tal modo ad essere considerata sostanziale.Detti elenchi, tuttavia, comprendono soltanto alcune tipologie di prodotti. Per tutti gli altri una simile previsione non è espressamente indicata dalla norma e quindi, per questi ultimi, continuano a persistere i possibili dubbi interpretativi soprarichiamati, tenuto conto che quella contenuta nel citato art. 24 del Codice doganale comunitario è una disposizione di carattere generale, non direttamente applicabile a casi concreti e la cui interpretazione è lasciata, quindi, alla responsabilità delle Amministrazioni doganali degli Stati membri. In un simile scenario si inseriscono i negoziati attualmente tenuti a Ginevra, presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio, relativi all’armonizzazione, a livello mondiale, delle regole di origine non preferenziale (omissis)”. 15 sentenza in commento p. 5, punto n. 5. V., inoltre, la disposizione normativa prevista dall’art. 24 del Codice doganale comunitario (Reg. CEE n. 2913/92): “una merce alla cui trasformazione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima lavorazione o trasformazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’ impresa attrezzata, a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo ed abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione” . Con riferimento a questa disposizione la Corte rileva che “E’ ben vero che quando alla produzione delle merci contribuiscono due o più paesi, l’art. 24 del Reg. CEE n. 2913/92 definisce come paese di origine quello in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, atteso che per le esigenze del commercio internazionale, l’origine della merce deve essere sempre radicata in un solo paese. Ma si tratta appunto di una nozione di origine che è stabilità per il funzionamento del codice doganale comunitario, non già per la tutela dei consumatori dalle frodi e dei produttori dalla illecita concorrenza.”, sentenza in commento p. 5. 16 L. Lombardi, Manuale di Tecnica doganale e commercio estero, Franco Angeli editore, 17° Ed., 2001, pp. 291 ss.. 5
Sotto altro profilo, la sentenza in commento è una pronuncia che riconosce come normale e del tutto legittimo il ricorso delle imprese italiane alla delocalizzazione delle attività produttive che consente alle stesse di poter beneficiare dei ridotti costi di produzione. Sul punto, la Corte, ribadisce concetti che aveva già esposto in precedenza, anche se con riferimento alla disciplina di cui all’art. 517 c.p., nella sentenza n. 2500 del 26 agosto 1999 (c.d. sent. Thum), precisando che le delocalizzazioni sono ammesse e i beni prodotti in Paesi extra comunitari e successivamente importati possono riportare la denominazione sociale, ovvero il marchio dell’imprenditore, sempre che, attraverso il controllo del processo di produzione e delle materie prime impiegate, la società italiana riesca a garantire lo standard qualitativo medio del prodotto finito. Occorre, tuttavia, precisare che subito dopo la pronuncia del 2 febbraio 2005 (sentenza n. 3352), il legislatore è intervenuto per modificare il testo letterale della disciplina prevista dall’art. 4, comma 49. L’art. 1 del D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni nella legge 14 maggio 2005, n. 80, in vigore dal 15 maggio 2005, ha, infatti, aggiunto la parola origine alla nozione di false e fallaci indicazioni per cui la prima parte dell’art. 4, comma 49, risulta così modificata: “l’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale(omissis)” . Il legislatore, quindi, preoccupato del fatto che il mancato riferimento all’origine nella prima parte dell’art. 4, comma 49, della legge finanziaria 2004 avesse autorizzato l’interpretazione giurisprudenziale finora descritta, ha ritenuto opportuno effettuare la modifica normativa in esame. In ogni caso, anche in relazione al mutato testo, sono tuttora attuali le argomentazioni esposte nella pronuncia in commento, tenuto conto della ricostruzione del quadro normativo di riferimento nella materia in essa contenuta e soprattutto della precisa individuazione dell’oggetto giuridico protetto dalla norma. Il giudice di legittimità, infatti, riconosce l’importanza che ha per la norma di legge in esame il fatto che il bene rechi correttamente le indicazioni di origine, tuttavia, una volta individuato nell’ordine economico (comprendente la tutela dei consumatori e dei produttori contro l’illecita concorrenza) l’esatto oggetto giuridico protetto dalla norma, egli appare costretto a ribadire nuovamente le considerazioni già svolte dalla giurisprudenza precedente, circa la funzionalizzazione, nel caso dei prodotti industriali, dell’origine rispetto alla qualità degli stessi prodotti. Pertanto, l’origine non rileva quale luogo di produzione, bensì come derivazione imprenditoriale come provenienza da un imprenditore che si è assunto la responsabilità economica, giuridica e tecnica del processo produttivo17. Un’ulteriore conseguenza di quanto finora argomentato e che può facilmente desumersi dalla sentenza in commento è, altresì, che l’origine geografica del bene può diventare essa stessa oggetto di diretta protezione da parte dell’ordinamento nazionale soltanto qualora venga istituito un apposito marchio che abbia la specifica funzione di distinguere i beni di origine italiana da tutti gli altri presenti sul mercato. Al riguardo e senza voler approfondire la tematica ben più ampia dei marchi e dei segni distintivi è, tuttavia, opportuno specificare alcuni aspetti di questa materia, importanti ai fini che ci riguardano. A tale proposito si osserva che la funzione tradizionale assolta dal marchio è soprattutto quella di indicare la provenienza di un determinato prodotto da una particolare impresa. In merito, l’art. 7 del D.lgs n. 30 del 2005 (recante il Codice della proprietà industriale) stabilisce che “possono costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purchè siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese”. Tuttavia, secondo la più recente dottrina, il marchio, nella pratica quotidiana, avrebbe assunto anche la funzione di garantire la qualità del prodotto sì da rassicurare il consumatore sull’esistenza di determinati standard qualitativi. Il discorso è diverso quando, invece, un marchio nasce con la funzione specifica di indicare l’origine di un prodotto da un determinato Stato (c.d. marchio d’origine). A tali marchi il predetto codice della proprietà industriale fa riferimento soltanto a proposito dei marchi collettivi (art. 11), 17
Sentenza in commento, p. 5. 6
stabilendo che “i soggetti che svolgono la funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi, possono ottenere la registrazione per appositi marchi come marchi collettivi, ed hanno la facoltà di concedere l'uso dei marchi stessi a produttori o commercianti”18. Da notare che l’orientamento giurisprudenziale della Corte di giustizia è tendenzialmente poco favorevole all’istituzione da parte delle legislazioni nazionali dei marchi di qualità e di origine, apposti su prodotti finiti fabbricati o trasformati in un determinato territorio, in considerazione del fatto che le disposizioni nazionali possono avere effetti sulla libera circolazione delle merci in quanto possono favorire la commercializzazione delle sole merci di origine nazionale a danno di quelle importate, in contrasto con quanto previsto dall’art. 28 del Trattato CE 19. Con riferimento al marchio d’origine è bene precisare che il comma 61 dell’art. 4 del D.lgs. n. 350 del 2003 prevede l’istituzione di un marchio a tutela del “made in Italy” che dovrebbe distinguere sul mercato i beni integralmente prodotti in Italia o ad essi assimilati, in forza di quanto disposto dalle norme europee in materia di origine da tutti gli altri ed, in particolare, da quelli prodotti in Paesi terzi da società italiane che hanno lì delocalizzato i processi di produzione. Il successivo comma 63 del predetto art. 4 stabilisce che l’istituzione ed uso del predetto marchio deve essere disposta con apposito regolamento che, ai sensi dell’art. 17 della L. n. 400 del 1988, dovrebbe essere emanato su proposta del Ministro delle Attività produttive di concerto con i Ministri dell’Economia e Finanze, degli Affari Esteri, delle Politiche Agricole e Forestali e per le Politiche Comunitarie. In merito, si precisa che nel corso della seduta del 30 maggio 2005, la Camera dei Deputati ha approvato un disegno di legge contenente le “norme per la riconoscibilità e la tutela dei prodotti italiani” (A.C. 472), trasmesso in data 31 maggio 2005 al Senato (A.S. 3463) e tuttora in attesa di definitiva approvazione. Nell’indicato disegno di legge è prevista l’introduzione del marchio “100 per cento Italia”, di proprietà dello Stato italiano, riservato ai prodotti finiti “per i quali l’ideazione, il disegno, la progettazione, la lavorazione e il confezionamento sono compiuti interamente sul territorio italiano, utilizzando materie prime anche di importazione, nonché semilavorati grezzi (omissis) realizzati interamente in Italia”. 20 L’imprenditore che volesse utilizzare il predetto marchio dovrà dimostrare il rispetto delle norme vigenti in materia di tutela del lavoro, in campo fiscale e contributivo, nonché in ordine all’esclusione dell’impiego dei minori ed al pieno rispetto delle norme per la salvaguardia dell’ambiente. Dovrà, altresì, garantire che tutte le fasi di realizzazione si sono svolte sul territorio nazionale, ed inoltre che sono state effettuate tutte le analisi chimiche e meccaniche necessarie ad accertare la salubrità dei materiali utilizzati e le qualità meccaniche relative alla resistenza ed alla durata del prodotto21. L’art. 1, comma 2, del citato disegno di legge stabilisce che si intendono realizzati in Italia i prodotti finiti per i quali il processo di lavorazione sia stato compiuto interamente sul territorio italiano. Il successivo comma 3 del predetto articolo prevede che deve intendersi per lavorazione “ogni attività del processo produttivo che porta alla realizzazione del prodotto finale”. Pertanto, dal combinato disposto dei due precedenti commi si evince che potranno utilizzare il marchio in questione i prodotti finiti per i quali, tra l’altro, ogni attività del processo produttivo si sia compiuta interamente in territorio italiano. Si deve osservare, che l’originaria previsione contenuta nel comma 61 dell’art. 4 della L. n. 350 del 2003 sottolinea espressamente che il marchio a tutela del “made in Italy” può essere apposto non soltanto sui beni integralmente prodotti sul territorio nazionale ma anche su quelli ai primi assimilati in forza di quanto disposto dalle norme comunitarie in tema di origine non preferenziale, il che include
Per un approfondimento sul punto v. Saba Kiflè e Nicola Pernotti, Made in Italy marchio d’origine o di provenienza?, in Rivista Impresa commerciale industriale, n. 6/2005, ETI Editore, pp. 1021 ss.. 19 V. sul punto CGE nella causa C-255/03- Commissione delle Comunità europee contro Regno del Belgio, in http://curia.eu.int.. 20 V. l’art. 1 del disegno di legge in esame, reperibile sul sito istituzionale del Senato della Repubblica con il riferimento (A.S. n. 3463). 21 V. l’art. 3, comma 1, del disegno di legge in esame, reperibile sul sito istituzionale del Senato della Repubblica con il riferimento (A.S. n. 3463). 18
7
inevitabilmente anche la previsione contenuta nell’art. 24 del Reg. CEE n. 2913 del 1992 in ordine alla trasformazione sostanziale del bene. Nella versione contenuta nel disegno di legge non viene operato un espresso richiamo alle norme europee in materia di origine non preferenziale delle merci anche se, tuttavia, è inevitabile che la normativa nazionale che voglia istituire un marchio d’origine debba raccordarsi con la predetta disciplina poiché essa contiene i criteri di determinazione dell’origine per i beni che trovano ingresso nel territorio della Comunità. In forza delle precedenti argomentazioni appare evidente che il problema della tutela dell’origine geografica del bene più che essere combattuto con strumenti normativi di portata nazionale dovrebbe essere affrontato compiutamente in sede comunitaria22. Un ultimo accenno merita, infine, il tema dell’etichettatura dei prodotti finiti. Com’è noto e come del resto evidenziato anche dalla giurisprudenza di legittimità finora descritta, le indicazioni riportate nelle etichette forniscono informazioni al consumatore finale in forza delle quali egli è poi in grado di effettuare una scelta consapevole d’acquisto. Per questo motivo, il legislatore si è preoccupato di prevedere nel predetto disegno di legge (art. 7), in via generale, le indicazioni che dovrebbero normalmente comparire sui prodotti realizzati in Paesi non comunitari. Il disegno di legge, infatti, stabilisce che il sistema di etichettatura deve evidenziare il Paese di origine del prodotto finito, “nonché dei prodotti intermedi e la loro realizzazione nel rispetto delle regole comunitarie e internazionali in materia di origine commerciale, di igiene e sicurezza dei prodotti”. Il successivo comma 2 del predetto art. 7 stabilisce, inoltre, che nell’etichettatura dei prodotti finiti ed intermedi il produttore o l’importatore dovranno fornire informazioni specifiche sulla conformità alle norme internazionali vigenti in materia di lavoro, sulla certificazione di igiene e sicurezza dei prodotti e sull’esclusione dell’impiego di minori nella produzione, sul rispetto della normativa europea e degli accordi internazionali in materia ambientale. Flavia Venturini Funzionario dell’Area Centrale Affari Giuridici e Contenzioso Agenzia delle Dogane
Per un approfondimento sul tema v. N. Picchi, Marchio d'origine: ipotesi di tutela del "made in italy e quadro normativo internazionale. La prima pronuncia della cassazione in merito al comma 49 dell'art. 4 L. 350 del 2003. Le nuove disposizioni introdotte dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35”, punto 9, reperibile sul sito www.filodiritto.com. 22
8