Trana tra le due guerre
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I° GUERRA MONDIALE di Stefano Barone
lavoro era fame e disagi per tutte le famiglie che avevano abbandonato la campagna. Naturalmente anche la nostra Val Sangone viene coinvolta; era la prima volta che l’Italia unificata combatteva sotto la stessa bandiera; sorse il problema della lingua, l’italiano era parlato da pochi, la stragrande magLa guerra 1915-18 è stata l’avvenimento più gioranza si esprimeva in dialetto. Si raggrupparoimportante successo nella storia dalle sue origini no quaindi in compagnie tutti quelli che provenifino a quella data. Per la prima volta si parla di vano dallo stesso paese. Dobbiamo dire che anche conflitto mondiale. Tutte le Nazioni su diversi il modo di fare la guerra era differente da come fronti si combattono per quattro lunghissimi anni viene combattuta ai nostri tempi; ora è tecnologica, davanti al nemico il soldato si assesta, aspettando che i missili, l’aviazione e i mezzi corazzati terminino il loro attacco e poi comincia l’assalto. Nella prima guerra mondiale, invece, le truppe erano schierate nelle trincee, non si aspettava che il nemico fosse annientato ma con il concetto che se in una postazione esistevano delle mitragliatrici che potevano uccidere mille persone, se ne mandavano contro millecento: mille morivano o Steli commemorative dedicate ai caduti venivano ferite, ma della Grande Guerra (lato visibile sulla destra) cento conquistavano l’obbiettivo. Dopo nel calo torrido estivo, nel freddo e nella neve questo l’anniversario con la stessa tecnica cercava invernale, nel fango primaverile e autunnale. di riconquistare l’avamposto, e il numero dei Fabbisognavano uomini che potessero combatte- morti era enorme; la fanteria era considerata quasi re, basandosi non sulla tecnologia, ma sul nume- esclusivamente “carne da cannoni” e come non ro. Tutti coloro che potevano usare un’arma ven- parlare dei gas letali che avanzando inarresatbili nero reclutati; addirittura al termine furono chia- sotto forma di nuvola bruciava la pelle, gli occhi mati al fronte i diciannovenni soprannominati: “i e causava la morte con l’asfissia polmonare; solo ragazzi del ‘99”. Si tolsero braccia al lavoro prin- in un secondo tempo i combattenti furono dotati di cipale dell’epoca, che era l’agricoltura. maschere antigas, non sempre funzionanti ed effiAumentarono a dismisura le fabbriche belliche in caci. Quando una compagnia era dimezzata non cui affluirono tutte le risorse sia minerali che eco- annullata, i caduti, per ragioni prima enunciate, nomiche degli stati, contribuendo ancor più alla erano tutti quelli che abitavano nella stessa zona, rivoluzione industriale cominciata nel secolo quindi se un lutto colpiva un paese come Trana, prima. Risultato: ingrossamento della città con i nello stesso istante era condiviso da tutte le famiproblemi dell’integrazione e quando mancava il glie che avevano un loro parente al fronte.
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A causa di ciò la nostra valle, dopo il 1915, si trovò senza quel materiale umano indispensabile per i lavori agricoli e cominciò l’abbandono della montagna e delle sue relative borgate. Sparì in un sol colpo una generazione giovane che sarebbe stata la forza motrice della struttura lavo-
toria, e vedrete che quasi il cento per cento non saprà rispondervi. Allora, cosa è rimasto di questi atti di valore, sacrifici e sofferenze? L’elenco dei morti scolpiti sulle lapidi marmoee poste davanti a tutti i municipi, sia nazionali che esteri, e che sono sempre almeno quadrupli al confronto dei caduti della seconda guerra mondiale; a comprova riportiamo sul nosro testo le fotografie delle lapidi cimiteriali del nostro capoluogo per almeno ricordare questi, ormai dimanticati paesani, sperando che, quando in mezzo al folclore, si ascoltano gli alpini, che narrano gesta della prima guerra mondiale, qualcuno pensi anche a loro.
Il lato visibile a sinistra delle medesime steli commemorative
rativa italiana. Questo portò ai disordini del 1919 sull’onda della rivoluzione comunista russa e fu la causa della nascita del fascismo, sorto per contrastare il clima di anarchia che si era creato. Non vorrei che, dopo quanto detto, si pensasse che abbia voluto sminuire tutti gli atti eroici deinostri soldati, e visto che sono un alpino, ricordati in tutte le canzoni che i cori ci propongono in occasione delle Adunate Nazionali, ma voglio sottolineare l’inutilità dei conflitti che portano solo lutti e disagi alla popolazione. È pur vero che abbiamo sconfitto gli austriaci ed abbiamo annesso il Friuli Venezia Giulia, il Trentino e l’Alto Adige, ma se qualcuno è stato in vacanza nella parte italiana confinante con l’Austria, la lingua parlata non è la nostra, ma il tedesco, e le abitudini sono prettamente teutoniche. Provate ora a chiedere a qualche giovane, o anche meno giovane, cosa è successo il 24 maggio e in che data si dovrebbe festeggiare la fine del primo conflitto mondiale con la nostra vit-
II° GUERRA MONDIALE di Stefano Barone
Anche gli avvenimenti infausti della seconda guerra mondiale colpiscono Trana. I caduti, però, sono decisamente inferiori rispetto a quelli della prima guerra. Questo perchè è cambiato il modo di combattere. Non si mandano più allo sbaraglio i soldati per conquistare con le baionette delle postazioni di trincea, ma è combattuta con mezzi meccanici, come aerei, cannoni e carri armati. I soldati non sono più considerati carne da macello, ma diventano dei combattenti tattici. Grossi lutti li subisce invece la popolazione civile. I bombardamenti a tappeto diventano sempre più frequenti, con l’abbattimento di innumerevoli edifici. Torino subisce pesantissimi danni causati da incursioni aeree. Trana, essendo lontana dalle zone strategiche, non ha subìto bombardamenti ne’ conflitti fra
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gli eserciti contrapposti. Per questi motivi, e trovandosi nella prima cintura cittadina, servita dalla tramvia, diventa un punto di riferimento per il fenomeno dello sfollamento. I torinesi, dopo una giornata di lavoro, passavano la notte a Trana per poi ritornare al mattino nella città. Grande disagio per questi pendolari, ma in questo modo riuscivano a sopravvivere alle bombe sganciate sia dagli americani che dagli inglesi. A questo proposito voglio menzionare un fatto prettamente personale: è grazie a questa circostanza che mia madre, cittadina sfollata, conobbe mio padre che sposò nel dopoguerra, quando lui ritornò dalla prigionia in India, passata nei campi di concentramento inglesi, dopo la battaglia di El Alamein. Voglio ora fare una riflessione polemica. Ai giorni nostri sembra che siano esistiti solo i campi di concentramento tedeschi e non si parla mai dei nostri deportati dagli americani e dagli inglesi; eppure, come mi testimonio’ mio padre, la sua prigionia in India fu dolorosa perchè lui e i suoi compatrioti furono trattati in modo tutt’altro che benevolo. Dovette subire angherie e patire per la mancanza di cibo ed acqua e per il gran caldo a causa delle tettoie di lamiera sotto le quali erano segregati, il che fece impazzire i prigionieri più deboli, debilitati da febbre e malattie intestinali. Quello che mi sono sempre chiesto è il perchè la Storia non si ricorda di questi deportati. Forse perchè i nemici di prima furono in un secondo tempo i nostri alleati e fu necessario far cadere nell’oblio le loro bombe sganciate sulle nostre città e i loro campi di concentramento, addossando tutte le colpe su Mussolini, reo di essere entrato in guerra, quando i tedeschi ormai avevano già conquistato mezza Europa ed erano arrivati a Parigi? A fine conflitto, per ricordare i soldati tranesi morti e dispersi, l’Amministrazione Comunale dedicò due lapidi commemorative presenti, una nel cimitero del Capoluogo, l’altra davanti al Municipio, su entrambe si possono leggere i nomi che qui riportiamo:
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Caduti guerra 1940/45 Castagno Giovanni n.to 1920 Martinasso Silvio n.to 1909 Rege Mario n.to 1910 Bertinetto Luigi n.to 1922
Dispersi guerra 1940/45 Borgognone Giovanni n.to 1917 Paviolo Lorenzo n.to 1919 Ruffino Silvio n.to 1919
Una testimonianza sulla II° guerra Mondiale: quattro ali sopra il mare Settembre 2007. Quando Stefano ed io ci mettiamo attorno ad un tavolo per esaminare il lavoro fatto, lui mi fa notare, con disappunto, che non abbiamo niente sulla seconda guerra mondiale, fatta eccezione del periodo che riguarda la “Resistenza”. Fortunatamente Trana ne era rimasta fuori. « Ci vorrebbe la testimonianza di un ex-combattente », suggerisce Stefano. « Sì, purché non riguardi il Fronte Russo o quello Greco-Albanese, e neppure El-Alamein... Ne ho già parlato fin troppo nei miei libri, e, credimi, è sempre la stessa minestra... Non hai sotto mano qualcuno che sia stato in marina o nell’aviazione? » « Be’... ci sarebbe mio zio, il fratello di mio padre, che abita al Colombé... So che s’è fatto tutta la Campagna del Nord-Africa. Lui pilotava gli idrovolanti... » « Perfetto! Fissami subito un appuntamento. » Carlo Augusto Barone mi riceve il giorno seguente. Accetta volentieri di parlarmi del suo trascorso in aviazione, ma non vuole assolutamente apparire nel libro. La solita storia. Timore che poi, la gente, sollevi critiche a non finire, per lo 113
più dovute a semplice invidia. Ma io non mi arrendo. Le cose che mi sento raccontare sono troppo interessanti, quasi esclusive. In questi casi - lo dico per esperienza - occorre pazienza e diplomazia. « Testimonianze come la sua », gli dico, « non possono perdersi nel nulla. Sarebbe un delitto non lasciarle ai posteri. Non si tratta di pavoneggiarsi, ma solo di raccontare la verità, pura e semplice. » « I suoi “libretti di volo” », aggiungo dopo aver dato un’occhiata ai due preziosi “cimeli” « parlano da soli. È sufficiente che li commenti, dandomi solo qualche notizia in più. Non le chiedo altro. » Carlo mi dice di essere nato e cresciuto al Colombé nella cascina che appartiene alla sua famiglia da generazioni. E qui ce ne sarebbe da dire, ma, per questione di spazio, devo limitarmi agli idrovolanti. C’è però una cosa che devo assolutamente sapere: come può nascere la passione per il volo in un montanaro? La risposta sa quasi di favola. Nasce a quattordici anni, quando Carlo, pedalando sulla sua bicicletta, arriva fino alla periferia di Torino, a Mirafiori, dove a quel tempo c’era un piccolo campo d’aviazione militare, il
“Gino Lisa”. E lì vede per la prima volta volare degli areoplani, segue con attenzione i decolli e gli atterraggi, nonché le evoluzioni in aria di due velivoli, il biplano CR-30 e il “Rosatelli”, costruito dalla FIAT. La cosa lo lascia senza parole, e decide di tornare spesso a godersi lo spettacolo, finché ben presto si accorge di non riuscire più a pensare ad altro che a volare. A casa, invece, dove non ci sono aerei nel cielo del Colombé, si limita
ripresenta allora alla Scuola Aeronavale di Pola, in Istria, che a quel tempo faceva parte dell’Italia, dove riesce ad ottenere il brevetto di pilota di idrovolante. La nuova destinazione, con il grado di sottotenente, è Taranto. Poi il Mediterraneo, a fare esperienza sulla rotta Taranto-Tripoli-Cipro, spesso con voli notturni e navigazione strumentale. Il 6 giugno del ’40, quattro giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia, raggiunge la base
Idrovolanti CANT Z 501 in attesa del decollo nella base aeronavale di Pola in Istria
ad osservare il caratteristico volo delle allodole, fatto di acrobazie e di picchiate, mai più immaginando che un giorno, neppure tanto lontano, sarà lui stesso ad eseguire quei volteggi per aria, al comando di un apparecchio. Nel ’37, ottenuto il diploma da geometra al “Sommeiller” di Torino, parte per l’Accademia Aeronautica di Caserta. Gli aspiranti sono 300 e i posti disponibili solo 50. La selezione è durissima. Nonostante la sleale concorrenza dei tanti raccomandati, risulta fra i primi, ma lui decide improvvisamente di abbandonare l’Accademia e di tornarsene a casa. È venuto a sapere che i diplomati di quel corso non voleranno mai su aerei da guerra, ma saranno destinati ad impieghi secondari. Si
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“Menelao”, a 40 km. da Tobruch, in Libia, e il 12 è già impegnato in missione al comando di un CANT Z 501, un idrovolante con a bordo due piloti, un radiotelegrafista, un mitragliere e un osservatore di marina col compito di identificare le navi inglesi dirette ad Alessandria d’Egitto e di segnalarle alla nostra flotta. Alla base c’è una sola squadriglia composta da sei aerei, per cui si vola ogni giorno, con turni massacranti, specie a partire dal 14 settembre, giorno di inizio dell’offensiva italiana contro l’Egitto guidata dal nuovo capo delle Forze Armate italiane in Africa, il maresciallo Graziani, subentrato ad Italo Balbo, il cui aereo è stato “misteriosamente” abbattuto il 28 giugno dalle batterie di una nostra unità, la “San Giorgio”,
ancorata nel porto di Tobruch. Riporto un solo episodio di quel periodo. Dopo quattro ore di volo sul Mediterraneo, senza aver avvistato convogli nemici, Carlo si concede un breve sonno e affida la cloche al secondo pilota. Il responsabile della navigazione, l’osservatore di marina Lotz Nicher, un istriano di Fiume, compie un errore di rotta e fa dirigere l’areo verso la costa, al confine fra Libia ed Egitto. Convinto di essere
una pista di cemento illuminata da potenti fari. La riva viene poi raggiunta spingendo l’aereo con i remi. Dopo un periodo di due anni trascorso a Pola, nel marzo del ’42 è di nuovo in Libia, a Bengasi, da poco riconquistata dalle truppe dell’Afrikakorps, dopo che gli italiani l’avevano perduta un anno prima. La grande offensiva scatenata da Rommel è in pieno svolgimento e l’avan-
Il tenente Carlo Augusto Barone alla base “Menelao” - Libia - 1940
quasi “a casa”, il pilota comincia a scendere, ma l’aereo viene improvvisamente preso di mira da un nutrito fuoco di artiglieria e mitraglia. Carlo si sveglia, si accorge di essere finito sulle linee inglesi, riprende i comandi e riesce ad allontanarsi indenne, salvo qualche foro di mitraglia sulla fusoliera, seguendo la costa verso Ovest. Ma la base “Menelao” è lontana e l’aereo ha carburante sufficiente per un’ora di volo. È già buio quando Carlo raggiunge l’insenatura che accoglie la base, ma il serbatoio è ormai vuoto. La manovra che lo attende è difficile. Deve evitare l’impatto brusco sull’acqua. Per fortuna il mare è calmo e c’è la luna. Carlo dirige allora l’idrovolante sulla sua scìa luminosa e ammara senza problemi, come su
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zata delle forze italo-tedesche richiede un maggior supporto dell’aviazione. Carlo lascia gli idrovolanti, torna in Italia, ad Aviano, dove passa agli aerei terrestri, poi è nuovamente in Libia, ad AbarHimeir, vicino ad El-Alamein. Ora pilota il CR42, un caccia biplano monoposto col quale ogni giorno esce in volo per mitragliare e sganciare bombe sulle linee inglesi. Rommel continua ad avanzare, ma ad El-Alamein è costretto a fermarsi. Il 23 ottobre gli inglesi comandati da gen. Montgomery passano all’attacco e costringono gli italo-tedeschi ad una ritirata precipitosa e inarrestabile. Carlo lascia la base di Abar-Himeir col suo CR42, diretto ad Ovest. Ha poca benzina nel serbatoio, tant’è che deve ben presto atterrare, dopo aver individua-
to uno spiazzo adatto, con una tenda militare nelle vicinanze. Mentre scende dall’aereo, dalla tenda esce un soldato tedesco che subito gli punta contro il fucile. Carlo chiede un po’ di benzina, ma il tedesco, pur avendo a disposizione parecchi bidoni, non gliene vuol dare. Segue una discussione piuttosto animata. Alla fine, il tedesco viene convinto a telefonare al proprio comando, fornendo i
missioni contro le truppe americane che il 10 luglio sono sbarcate in Sicilia. La pista è stata ricavata sulla spiaggia, ed è sottoposta a continui attacchi dell’aviazione nemica, mentre i G50 rimangono nascosti sotto le piante di sughero. Gli americani, oltre alle bombe, lanciano sulla pista strani ferri a tre punte che, piantandosi nella sabbia, provocano la foratura dei pneumatici delle
Il tenente Carlo Augusto Barone accanto al suo caccia CR42, biplano monoposto
dati del pilota. Dal comando gli rispondono di “sì”, ma quello che Carlo si vede consegnare è una sola tanica, poco più che una ventina di litri di benzina. Gli basteranno appena per rientrare alla base. Il 1° di novembre, mentre la battaglia di ElAlamein infuria ancora, lascia definitivamente la Libia. Nel marzo del ’43 è a Osoppo, in Friuli. Ora pilota il G50, un caccia monoposto costruito dalla FIAT e dotato di carrello d’atterraggio retraibile. Dopo alcuni voli di ricognizione sulla linea di confine per individuare gruppi di partigiani di Tito che compiono azioni di disturbo, viene trasferito a Crotone, base di partenza del “50° Stormo” per le
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ruote e impediscono il decollo degli aerei. Nessuno dei sei aerei che compongono la prima squadriglia alzatasi in volo fa ritorno alla base. Tutti i piloti vengono dati per dispersi. A Carlo tocca il giorno dopo, con la seconda squadriglia. Ma, proprio nell’attimo di sollevarsi da terra, una ruota incappa in uno di quei ferri. L’aereo sbanda, si inclina, rischiando di capovolgersi, infine si ferma. Carlo scende e osserva il pneumatico afflosciato. Ha semplicemente “bucato”, come quando andava in bicicletta! Uno solo degli aerei di quella seconda missione tornerà alla base. Forse, quel ferro, gli ha davvero salvato la vita. Il giorno appresso, vista ormai l’impossibili-
tà di contrastare lo sbarco degli Alleati, per i due aerei rimasti indenni arriva l’ordine di spostarsi al Nord, a Tarcento. Il “50° Stormo” (36 apparecchi) ha finito di esistere. Carlo viene inviato in Lombardia, prima a Bresso, poi a Lonate Pozzolo, e gli affidano un aereo più moderno e meglio armato, il caccia RE2005. L’ultima missione di guerra lo vede
salutarli una seconda volta, ma dal cielo. Qualche ora dopo, infatti, al Colombé e nelle borgate vicine, tutti sono col naso all’insu. Non si è mai visto un aereo volare così basso, muovendo le ali in segno di saluto. L’“8 settembre” è ormai vicino. In quel giorno tanto tragico per la storia del nostro Paese, anche per Carlo è il momento di mollare tutto e di tornare a casa.
decollare per andare incontro ad una formazione di bombardieri Liberator segnalata in avvicinamento a Milano. Ancora una volta la fortuna è dalla sua, perché non riesce ad intercettarla. I mitraglieri americani lo avrebbero sicuramente abbattuto. Milano, invece, viene duramente colpita. Il 10 agosto ’43 atterra inaspettatamente a Mirafiori, al campo “Gino Lisa”, dove era nata la sua passione per il volo. Il motore del suo apparecchio deve essere sostituito. Lui ne approfitta per fare un salto a casa, servendosi del trenino, e per dormire una notte nel suo letto. Il mattino seguente, nel congedarsi dai suoi, promette di passare a
È ovvio che i ricordi di guerra di Carlo Augusto Barone non sono soltanto questi. Per ragioni di spazio ho dovuto sceglierne alcuni, limitandomi anche nel descriverli. Ma, a parer mio, ce n’è abbastanza per ritenere la sua un’esperienza non comune, quasi da invidiare.
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Ricordi del tempo di guerra: lo “sfollamento”
Di Giulio Vigna, noto pittore e ceramista tranese ho già detto quasi tutto nel mio recente libro sulla Val Sangone. Nel lungo capitolo a lui dedicato avevo cominciato col parlare della prima delle sue tre passioni, quella per l’archeologia, importante sì, ma solo come passatempo, per poi passare alle altre due, la pittura e la ceramica, alle quali si è dedicato interamente dal 1985, facendone la sua professione. In particolare mi ero soffermato nel descrivere l’arte della ceramica “raku”, originaria della Cina ed antichissima, per mezzo della quale lui oggi riesce a ricavare dei pezzi davvero unici, di squisita fattura e anche di valore. Ma io, da buon profano in materia, dopo aver assistito a tutte le fasi necessarie per ottenere una ceramica “raku”, l’avevo scherzosamente definito «un artista che maltratta le sue opere per farle venire meglio». Del suo rapporto con Trana, invece, un rapporto iniziato sin dalla sua infanzia, avevo fatto solo un accenno, limitandomi a riportare per intero un suo breve tema intitolato «Ricordi qualche grande gioia familiare?», il cui testo mi sembra giusto riproporre qui, ora che torno a parlare di lui.
Lo faccio per due motivi. Primo, perché l’episodio descritto da Giulio è avvenuto a Trana nel 1943. Secondo, perché il contenuto del tema non riguarda soltanto un momento particolarmente felice della sua tenera età. Infatti, se lo si legge con attenzione, ci si accorge come, di riflesso, esso coinvolga anche una parte della popolazione di Trana. Mi riferisco a quei giovani che, partiti da qui per andare a combattere in Nord Africa, erano scampati alla dura sconfitta inflitta dagli Alleati alle armate italo-tedesche ad El-Alamein, e proprio in quei giorni stavano tornando a casa alla spicciolata per godersi una meritata licenza. «Una gioia che ha rallegrato la mia famiglia è stato il ritorno di mio papà dall’Africa. È partito il giorno in cui io avevo un anno e due mesi ed è tornato quando avevo tre anni.» «Io e mia mamma eravamo sfollati a San Bernardino di Trana, un po’ dopo Orbassano; tutte le sere passava verso le dieci un trenino fino a Giaveno con dei soldati sopra. Una sera di giovedì, come al solito, eravamo andati a vedere al treno se forse fra tanti soldati vi fosse mio papà, e per la
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strada dissi a mia mamma: ‹ Dimmelo, né mamma, chi è papà, che non vada ad abbracciare un altro soldato ›. Mia mamma mi rispose di sì, piangendo.» «Ad un tratto, quando il treno ripartì, mia mamma fece un grido di gioia. Io vedendo in lontananza un soldato venire quasi correndo verso di noi, capii che era papà, allora mi misi a correre verso di lui. Quando mi trovai vicino, confuso e non sapendo come fare, mi lanciai al collo e lo baciai non so quante volte e lui pure. Mia mamma correndo anch’essa lo abbracciò piangendo. Fino a casa non mi staccai dal suo collo; vi era pure gente della casa a salutarlo. Credo che questo sia stato il giorno più felice, la gioia più grande della famiglia.» La data è quella del 10 novembre 1949. Giulio aveva allora dieci anni. Per quel “tema in classe” Giulio aveva preso un “8”, scritto in rosso, a matita. Un bel voto, non c’è che dire, ma senz’altro meritevole di qualcosa di più se si considera il suo contenuto. Credo sia stata la mancanza di alcune virgole, evidenziate anch’esse con la matita rossa, a costringere la maestra a privare Giulio della soddisfazione di portarsi a casa un “9” o addirittura un bel “10”. Quando torno a trovare Giulio nella sua casa di San Bernardino con l’intenzione di parlare soltanto del suo rapporto con Trana, e lui mi vede estrarre dal taschino della camicia il solito notes per gli appunti, intuisce al volo che la mia non è una normale visita di cortesia. «Ma... t’sès tòrna sì!?» esclama allargando le braccia e puntando lo sguardo verso l’alto. Per fortuna che, oltre la battuta un po’ maligna e l’espressione di sconforto stampata sul suo viso, ad accogliermi c’è il suo solito sorriso e la sua disponibilità di sempre, per cui ne approfitto subito per sottoporlo al consueto interrogatorio. «So che sei nato a Torino, e che pure i tuoi erano torinesi. Come mai, allora, questo legame così stretto con la Val Sangone, e con Trana in particolare? Se ricordo bene, eri appena nato quando sei venuto qui per la prima volta, vero? Poi, nel ’68, sei venuto ad abitarci, esatto?» Le risposte piovono altrettanto a raffica, tant’è che sul taccuino riporto solo l’essenziale. «Sua mamma, da piccola, era stata a Ponte Pietra, dalla signora Oliva. Negli anni precedenti
la guerra veniva, invece, in villeggiatura a S.Bernardino e aveva fatto amicizia con Anita Dovis, proprietaria della “Trattoria del Tramvai”, dove c’era la fermata del trenino elettrico. Allo scoppio della guerra i genitori di G. decidono di andare via da Torino e si trasferiscono a S.B.. Lì prendono in affitto un alloggetto, proprio sopra la trattoria della Dovis. Giulio ha appena un anno. Suo padre è in guerra, in Nord-Africa. G. e la mamma rimangono a Trana dal ’40 al ’45.» Mentre Giulio mi riassume brevemente quanto già mi aveva accennato in occasione del nostro primo incontro, avvenuto all’incirca quattro anni fa, mi rendo nuovamente conto di quanto le nostre infanzie si assomiglino, dal momento che tutti e due, da piccoli, siamo stati portati via “di brutto” - è proprio il caso di dirlo - dalla stessa città a causa della guerra. Erano stati i nostri genitori a prendere quella non facile decisione, consapevoli degli enormi disagi ai quali sarebbero andati incontro, ma lo avevano fatto solo a fin di bene. Torino era sotto la continua minaccia dei bombardamenti, e chi poteva se ne andava via, anzi, fuggiva lontano, dove si sapeva che le bombe inglesi non sarebbero cadute, se non per sbaglio. Con quella fuga precipitosa da Torino le nostre famiglie erano entrate a far parte di una nuova categoria di “villeggianti”, i cosiddetti “sfollati”, un termine caduto nel frattempo talmente in disuso, che sono in molti, oggi, a non sapere nemmeno che cosa esso significhi e a che cosa si riferisca di preciso. Per Giulio, come per me, gli anni della guerra hanno comunque lasciato un segno profondo, e anche alcuni ricordi che di tanto in tanto tornano alla mente, un po’ annebbiati, senza dubbio, dato il notevole tempo trascorso, ma incancellabili, al punto che, a volte, basta davvero poco per vederli riaffiorare. Ed ecco allora la voglia, quasi irresistibile, di raccontare, una voglia che diventa puro piacere quando le stesse vicende sono state vissute anche da chi è all’ascolto. «Come quella volta che i tedeschi stavano per portare via il Podestà di Trana, Zanolli si chiamava...» mi spiega Giulio, non appena, parlando del proprio “sfollamento”, accenno ai rastrellamenti tedeschi avvenuti in Val Sangone. «E tu eri presente?» domando. «Ma... come hai potuto assistere a quella scena, piccolo com’eri!?»
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«Certo che ero piccolo! Nel ’44 avevo cinque anni appena compiuti... Ho visto tutto perché ero sul balcone della “Trattoria del Tramvai”, proprio dove il trenino elettrico faceva la fermata. Io abitavo lì, al primo piano, con la mamma. Papà era tornato l’anno prima dalla Libia, ma poi, dopo l’Armistizio, era andato di nuovo via...» «E così, quando i tedeschi hanno fermato il Podestà, e stavano per caricarlo su un autocarro, io, dal balcone, mi son messo a gridare: “Lassé sté monsù Zanolli! Lassé-lo sté!”» «Lo hai detto proprio così, in piemontese?» «Sì, perché io, da piccolo, lo parlavo benissimo, meglio dell’italiano... Comunque, le mie grida non sono servite a niente. I tedeschi si sono girati a guardare verso il balcone, si son fatti una bella risata, ma poi lo hanno caricato lo stesso sul loro camion. Puoi immaginare che cosa gliene fregasse, a quelli, che un bambino si fosse messo a gridare...» «Scusa, ma... come mai ti preoccupavi così tanto di quell’uomo? In quel periodo, se ricordo bene, il Podestà doveva per forza essere un fascista, dico bene?» «Ma cosa vuoi che ne capissi, io, di quelle cose! Avevo cinque anni, te ne rendi conto!? So solo che quel signore mi voleva bene perché, praticamente, mi aveva quasi visto nascere. E anch’io gli volevo bene perché, quando mi incontrava, mi regalava sempre le caramelle... Sì, sì, come hai detto giustamente tu, doveva per forza essere un fascista, altrimenti non lo avrebbero messo a fare il Podestà, ma il fatto che i tedeschi avessero preso anche lui, questo mi dà da pensare. Chissà! Si vede che, come Podestà, lasciava un po’ a desiderare...» Assieme ad una foto della sua famiglia scattata nel ’43 durante la breve licenza del padre a Trana, dopo il rientro dalla Libia, Giulio mi ha fatto pervenire una sua poesia dedicata agli anni della seconda guerra mondiale, trascorsi appunto a Trana. È intitolata “Sfolamènt”, versione in dialetto piemontese della parola “Sfollamento”. Questa poesia, è ovvio, è stata scritta parecchio tempo dopo, in età matura, e questo non fa che confermare quanto ho detto poc’anzi, a proposito del segno lasciato nel cuore di entrambi da quegli anni, e quanto siano ancora ben impressi nella mente di ciascuno di noi i ricordi legati a quel lontano periodo.
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La famiglia Vigna nel 1943, a S.Bernardino. Il papà del piccolo Giulio non sta indossando una gonna, ma un paio di pantaloni “alla zuava”, molto di moda in quegli anni.
Sfolamènt Ancheuj l’odor dël cafè-lait a l’è pi nen come lo sentì-a quando i jera cìt an brass a mia nòna, forse a l’era ël pan che a savì-a ’d gran, forse a l’era ’l feu ’d la stùva, che quand a scapàva a savì-a ’d brusà. Im ricordo che as mangiava tut, mia nòna am portava ’ntla cort davzin a vëdde ’l pavòn che a fasì-a la ròa e a slargava le piume come na ventajna. Ël me coeur as saràva e l’avì-a veuja ’d pioré perché me papà a-jera an guera, mia mama a travajé. E noi j’ero sfolà. ma poi pensava che a j’era mia nòna con j’jeui furb, la soa riga da na part. E l’indomàn mangiava ’l cafè-lait
La guerra di “resistenza”
di Bartolomeo Romano, Presidente A.N.P.I. Val Sangone
Dopo l’8 settembre 1943, anche Trana è teatro della guerra civile. La Val Sangone diventa un punto di riferimento per i cittadini che, non volendo essere arruolati nella “Repubblica Sociale”, si aggregano ai partigiani che hanno eletto a rifugio le nostre montagne. Tralasciando i fatti che non riguardano Trana, sebbene importanti e che hanno causato innumerevoli lutti alla nostra popolazione, parliamo dell’evento più tragico successo nel nostro paese. A causa di una rappresaglia tedesca, il 26 giugno 1944 quaranta cittadini inermi vengono presi come ostaggi e, dopo essere stati radunati nell’attuale Piazza dei Caduti, hanno rischiato la fucilazione in massa. Ma procediamo con ordine. In quei giorni il gruppo partigiano operante in zona, in accordo con il C.L.N. di Torino, decide di attaccare le due polveriere, quella di Sangano e quella di Avigliana. La Brigata del 121
comandante Sergio De Vitis attaccherà Sangano, mentre quella del comandante Eugenio Fassino, padre dell’ On. Piero Fassino, attuale Presidente Nazionale dei D.S., si occuperà di Avigliana. Questa azione non influirà nella vicenda tranese, se non di riflesso. Con un’azione fulminea e ben studiata, De Vitis e i suoi riescono ad impossessarsi del presidio nemico ed a catturare tredici soldati tedeschi. Tuttavia, il comando torinese nazifascista viene subito allertato e da Torino partono immediatamente i rinforzi con truppa e mezzi pesanti. A questo punto, per permettere ad una parte dei suoi di fare ritorno in Val Sangone con i prigionieri, passando dal Monte Pravigero, il comandante De Vitis organizza alla polveriera un gruppo al fine di coprire la ritirata. La zona viene presto accerchiata dalle forze nemiche e, nonostante una difesa valorosa, De Vitis e altri sette partigiani cadono sul campo. Gli altri, con la copertura della Brigata Campana appostata alla cava, riescono a raggiungere i rifugi situati sulle montagne della Val Sangone. La rappresaglia tedesca è immediata. Come
Manifesto commemorativo del 1945 con le firme autentiche degli ostaggi (La documentazione fotografica di questo capitolo è stata fornita dall’Autore) 122
abbiamo già accennato, vengono sequestrati e radunati nella piazza quaranta cittadini, come testimonia il foglio di comando firmato dal capitano tedesco Funk, documento che verrà in seguito incorniciato e conservato nel Santuario di Trana, come ex-voto. I tedeschi dettano le condizioni: rilascio immediato dei loro soldati tenuti prigionieri, oppure la fucilazione di tutti i cittadini catturati. Il parroco di Trana, il teologo Don Giuseppe Gianolio, protesta così vivacemente con il comandante tedesco che viene arrestato e portato nel car-
fucilazioni: scambio degli ostaggi con l’aggiunta, nell’elenco dei civili da rilasciare, di due personaggi di spicco della Resistenza, in quel momento in mano tedesca: Celeste Colla ed Eugenio Fassino. All’indomani, il 27 giugno 1944, al “curvone” di San Bernardino, avviene lo scambio dei prigionieri. Occorre menzionare, ad onor di cronaca, che il comandante partigiano Giulio Nicoletta, coraggiosamente presente durante lo scambio, si fidò della parola data dai tedeschi, che invero la mantennero, liberando poco tempo dopo Celeste
Trana - 29 giugno 1945 - foto di gruppo degli ostaggi liberati
cere di Pinerolo. La trattativa, a questo punto, viene proseguita dal Podestà di Giaveno, Giuseppe Zanolli (uomo di grande correttezza, tant’è che, a guerra finita, i giavenesi lo premieranno eleggendolo a Sindaco) con la collaborazione di altri notabili tranesi e con l’intervento particolare del vice-curato della parrocchia della Collegiata di Giaveno, Don Carlo Busso. Si giunge in breve ad un accordo, anche perché i tedeschi hanno dato un ultimatum di ventiquattro ore, scaduto il quale saranno cominciate le
Colla, detenuto nelle carceri “Nuove” di Torino, consegnandolo nelle mani del partigiano Titano Fumato e di un suo compagno, soprannominato “Balìn”, i quali, rischiando in prima persona, andarono a prenderlo a Torino. Per quanto riguarda Eugenio Fassino, come riporta il capitano Funk nel documento dell’accordo, lui non era in carcere, ma giaceva, ferito, in un letto dell’Ospedale Molinette. Il prof. Guido Usseglio Mattiet, che lo aveva in cura, cogliendo l’occasione di dover accompagnare il proprio degente, abbandonò
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dopo la sua cattura e l’impiccagione avvenuta a Giaveno. Concludendo, la brutta avventura degli ostaggi tranesi è finita nel migliore dei modi, grazie alla buona gestione delle trattative da entrambe le parti, una conclusione considerata, allora, quasi miracolosa, tant’è che per anni è stata commemorata con una funzione religiosa nel Santuario di S.Maria della Stella. Non dimentichiamo, infatti, che nello stesso periodo, il 3 aprile, a Cumiana, una situazione analoga finiva, invece, tragicamente con la fucilazione di cinquantuno civili presi per rappresaglia dai nazifascisti.
Il comandante Eugenio Fassino, padre dell’On. Piero Fassino, attuale Presidente Nazionale dei D.S., in una foto scattata prima dell’attacco alla polveriera Agliana, azione nella quale rimase ferito e fu fatto prigioniero dai tedeschi. A lato Eugenio Fassino sui monti della Val Sangone, assieme agli uomini della sua brigata, dopo la liberazione avvenuta in seguito ad uno scambio di prigionieri.
l’ospedale poco prima del suo arresto. I tedeschi avevano infatti scoperto la sua militanza partigiana che lo portò a prendere il posto del “Campana”, il Marchese Cordero di Pamparato, 124
Tragedie della guerra civile
DUE VITTIME INNOCENTI di Ester Lavarini e Piero Taverna
Nell’affrontare il periodo della Resistenza mi sono trovato in difficoltà, dovuta, questa, alle reticenze dei probabili testimoni. Nessuno parlava in modo esplicito della morte dei due ingegneri, finchè non ho conosciuto la figlia dell’Ing. Lavarini, che ancor oggi trascorre parte del periodo estivo nella sua casa di Trana. Dopo il nostro incontro si è deciso di rendere noto lo svolgimento della tragica fine di suo padre e del suo amico, ing. Taverna, anche se ci rendevamo conto che sarebbe stato “scomodo” per qualcuno. La testimonianza della Lavarini congiunta, a quella di Piero Taverna, figlio dell’ingengere, è stata in seguito suffragata dal ritrovamento di una documentazione esistente presso l’Istituto Storico della Restistenza a Torino. Trattasi del diario lasciato da Giuseppe Zanolli, che in quegli anni ricopriva la carica di Podestà, a Giaveno. La sua onestà e credibilità negli anni della guerra, sono state premiate, a fine conflitto, con la sua elezione, avventura in modo democratico, a Sindaco del medesimo paese. Stefano Barone
Il 27 giugno 1944 i partigiani della Val Sangone eseguirono l’operazione descritta dettagliatamente da Bartolomeo Romano nel capitolo precedente. Parliamo di avvenimenti riguardanti le nostre famiglie e che abbiamo vissuto in prima persona. Quando, la sera stessa del 27 giugno, i prigionieri tedeschi apparvero sulla piazza di Trana, ci fu un grande tripudio fra la popolazione, in quanto ciò significava l’imminente liberazione dei quaranta ostaggi dal tremendo destino che li minacciava. Tuttavia, quella manifestazione di giubilo fu considerata, in ambito partigiano, ostile e meritevole di ritorsione. Un mese dopo l’accaduto, il 24 luglio, alcuni partigiani, intorno alle ore 23, si presentavano alla casa dell’ing. Luigi Taverna col pretesto di volere delle informazioni, ma, non appena egli aprì la porta, lo circondarono con le armi in pugno e lo prelevarono. Passato lo sgomento per l’accaduto, la famiglia avviò una serie di azioni per individuare e contattare il gruppo autore del sequestro
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La famiglia del ing. Lavarini, alla fine degli anni ’30
al fine di ottenere la liberazione del proprio congiunto. Sul piano locale, la signora Silvia Taverna assieme ai due figli quindicenni Piero e Giorgio tentò inutilmente di avvicinare qualche esponente partigiano, mentre a Torino i contatti col CLN furono tenuti dalla stessa signora con l’appoggio della società Nebiolo, di cui il marito era un componente. Tutti gli interpellati, appartenenti a diverse formazioni partigiane della Val Sangone, Susa e Cumiana, si dichiararono all’oscuro di prelevamenti di civili nella notte del 24 luglio. Tuttavia, per maggior sicurezza, il CLN di Torino decise di inviare una staffetta a tutte le formazioni della zona con l’ordine di sospendere qualsiasi azione nei confronti del sequestrato. Nella giornata del 25 luglio furono notati, a Trana, alcuni partigiani. Si diceva che avessero una lista di persone da prelevare. Il pomeriggio del 26 luglio la signora
Taverna, sulla strada provinciale, venne avvicinata da un partigiano. Costui, dopo averle mostrato a scopo di presentazione un portacarte del marito, le consegnò un breve messaggio di saluto, che lei subito lesse. Alla fine della lettura, il partigiano aggiunse freddamente: « Nel biglietto non è stato detto tutto. Nulla è emerso nei confronti di suo marito, ma, come certamente vi sarete resi conto, c’è stato uno scambio di persona. Vogliamo parlare col fratello dell’ingegnere, e solo dopo lo restituiremo.» Cosa significavano queste parole? Verso la metà di giugno, il fratello dell’ingegnere, Luigi Carlo, per evitare la guerra che stava raggiungendo Firenze, dove lui abitava, si era trasferito con la famiglia a Trana, ospite del fratello. Il mattino del 28 giugno, giorno del rastrellamento, per non essere incluso nel gruppo degli ostaggi, si era avvalso della propria iscrizione al PFR. Gli interlocutori torinesi di Silvia Taverna già il giorno 25 le avevano consigliato che il cognato lasciasse Trana, e così egli fece. (Per completezza va detto che Carlo Taverna, imprigionato e giudicato a San Vittore, dopo il 25 aprile 1945 fu prosciolto con formula piena da ogni addebito.) Pertanto la signora Taverna rispose al partigiano che suo cognato Carlo, al momento, era in clinica a Torino e che le occorreva un minimo di tempo per avvertirlo. Si concordò quindi col partigiano per un secondo appuntamento per far fronte alla richiesta. La sera stessa di quel 26 luglio, un gruppo armato di partigiani si presentò alla casa dell’ing. Lavarini. La famiglia era riunita per festeggiare l’onomastico della figlia Anna (la quarta di sei figli, tre maschi e tre femmine). Con la scusa di voler rivolgere alcune domande all’ingegnere, lo prelevarono, così come avevano fatto col Taverna. L’ing. Lavarini, ex-allievo dell’Istituto “Fratelli delle Scuole Cristiane” e promotore dell’associazione ex-allievi del Collegio San Giuseppe, era persona ben conosciuta in Val Sangone poiché, ricoprendo la carica di direttore tecnico delle Tramvie Comunali ed Intercomunali di Torino, si interessava pure della linea per Giaveno ed aveva assunto alle proprie dipendenze diversi abitanti della zona. Inoltre, fin dal 1925, aveva affittato, ed in seguito acquistato in Borgata Rivafredda di Trana una casa per le vacanze estve In quel periodo, a titolo gratuito, progettò e dires-
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La passerella sul Sangone a Rivafredda (poco più a Nord del ponte) fatta costruire a proprie spese dall’ing. Lavarini e che venne portata via dall’alluvione nell’autunno 1950.
se i lavori del costruendo asilo infantile di S.Bernardino e donò alla chiesa parrocchiale di Trana il mosaico artistico del Sacro Cuore, che ancor oggi si può ammirare sopra l’altare della cantoira. Durante la guerra si rese attivo per organizzare una compagnia di Milizia Contraerea col compito di segnalare per tempo la direzione dei bombardieri alleati diretti a Torino, pur continuando la sua attività professionale. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la successiva spaccatura politica dell’Italia, tutta la Milizia fu assorbita dall’Esercito e l’ing. Lavarini venne nominato capitano, ma non partecipò mai ad alcuna azione bellica. Sempre il 26 luglio, a Trana, un altro sequestro di persona da parte dei partigiani fallì in quanto il ricercato non era presente. Il pomeriggio del giorno 27 la signora Taverna portò la risposta suggeritale dal CLN di Torino, e cioè di fissare un incontro per il giorno successivo presso la stazione di S.Bernardino della linea Satti, ma la proposta, apparentemente accettata, venne disattesa. Il 28 luglio nessun partigiano si presentò nel luogo e nell’ora concordati,
in quanto, poche ore prima, in località Provonda, ad un mese esatto dalla liberazione dei prigionieri tedeschi e dei quaranta ostaggi civili di Trana, gli ingg. Lavarini e Taverna, con una sentenza sommaria emessa senza processo, erano stati fucilati dopo aver ricevuto i sacramenti religiosi, come testimoniò il parroco di Provonda che li assistette al momento dell’esecuzione. Al sacerdote, dopo la fucilazione, fu fatto divieto di comunicare l’accaduto a chichessia e gli furono sequestrati (e mai trasmessi alle famiglie) gli effetti personali ed i messaggi che gli erano stati affidati dai due ingegneri. Il giorno seguente, 29 luglio, qualcuno riuscì ad avvertire il Podestà di Giaveno, il quale, dopo aver individuato nella banda Campana (nome di copertura del suo capo, il ventiquattrenne Cordero di Pamparato) il gruppo autore delle fucilazioni, si mise in contatto col Campana. Nel corso di un tempestoso colloquio avvenuto nella notte a casa sua, il Podestà si fece narrare l’accaduto e ottenne di togliere il veto che impediva di informare le famiglie. Alla richiesta di poter avere le salme fu, invece, opposto un rifiuto.
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Al superamento di tale rifiuto provvide in seguito lo stesso Podestà Zanolli che, fissato un nuovo incontro col Campana in luogo neutrale e, dopo aver ottenuto la promessa di essere per il futuro tempestivamente avvertito su tutto, onde evitare altre tragedie, ottenne l’autorizzazione al recupero delle salme sotto la propria responsabilità. Nella stessa giornata il permesso veniva concesso anche dal comando partigiano della Val Sangone, che dichiarò di essere stato informato della vicenda solo ad esecuzione avvenuta e che definì il comportamento delle due vittime “eroico e cristiano”. Il riconoscimento ed il trasporto delle salme da Provonda al cimitero di Giaveno avvenne notte tempo, il 3 agosto. Vi presero parte Silvia Taverna, la figlia diciassettenne dell’ing. Lavarini, Ester, accompagnata da una zia e dalla figlia del Podestà Zanolli, sua carissima amica, scortate da due uomini armati. Il Podestà fu la guida ed il garante dell’operazione nei confronti dei posti di blocco dei partigiani. I corpi delle due vittime giacevano crivellati di proiettili in una buca scavata
Lapide nella tomba di famiglia nel cimitero di Trana
nella terra in un vallonetto che aveva come punto di riferimento due alberi isolati vicini alla chiesa. Le spoglie recuperate e collocate in due casse furono caricate su un carretto e deposte in un primo momento, sempre di notte, nella cappella sacerdotale del cimitero di Giaveno. Superate le difficoltà per ottenere i certificati di morte, la settimana successiva, ancora di notte e passando per strade secondarie, le salme vennero trasportate a Trana e seppellite nella tomba della famiglia
Lavarini. Alcuni anni dopo la fine della guerra, la salma di Luigi Taverna fu traslata a Torino, nella propria tomba di famiglia.
Dal Diario del Podestà di Giaveno, Giuseppe Zanolli (conservato presso l’Istituto Storico della Resistenza in Piemonte, a Torino) Il canonico Ripamonti mi viene ad avvertire che da quattro giorni sono scomparsi da casa loro due ingegneri di Trana, un certo Taverna ed un certo Lavarini. « Ma come sono scomparsi? Si sono allontanati o non sono rientrati da Torino?» « No! Sono stati prelevati per un interrogatorio dai partigiani e più non sono tornati. » « Ma da quali partigiani? » « Uno sembra sia stato quello che chiamano “Il Boia”. » « Perdinci! Ma allora sono della Banda Campana. Male, perché non avvertirci subito? » « E da quanti giorni precisi mancano? » « Da lunedì, quindi cinque giorni e non quattro. » « Troppo tardi, caro signor Canonico. Se, come la penso io, sono stati presi dalla Banda Campana, ormai non c’è più speranza. » « Io ho voluto fare delle indagini. » « Ma benedetto uomo! Perchè non ha avvertito almeno il prevosto che subito l’avrebbe mandato da me? » « Veramente, la sera che sono stati prelevati, “Il Boia” ha detto di non dire nulla, che il giorno seguente sarebbero rientrati a casa. » «E già! Temevamo che io ne venissi a conoscenza e cercassi di impedire la loro fucilazione. » « Ma io credevo sempre e speravo ritornassero. » « Ha fatto male. A ogni modo ora ogni recriminazione è inutile. Vado subito a vedere. » « In montagna, ai Morelli, Campana non c’è. Il dottor Besasso mi dice che sono stati tutti e due fucilati giovedì (ieri l’atro) alla Provonda. » « Ma perchè? » « Denunce venute da Torino. » « È inutile discuterne con lei, ne parlerò con Pamparato. » Torno a casa avvilitio e dico al Canonico:
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«Purtroppo non c’è più nulla da fare.” « Ma io non l’ho fatto. » « Non è colpa sua - gli dico troncandogli la parola. - Ma ora come si fa? Chi va a dirglielo alle famiglie? Io non mi sento il coraggio. Vada lei. » « Sì, ci vado io. » Alla fine viene a casa mia Pamparato e abbiamo una discussione tanto violenta che ad un punto, per non perdere la pazienza, scappo via io da casa lasciandolo solo. Il Canonico Don Ripamonti viene ancora da me a pregarmi di intercedere presso il comando parigiano perchè siano restituite le salme. « Sta bene, ma mi raccomando, non per mancanza di riguardo verso di Lei, ma perchè so meglio di lei come si trattano queste cose, la prego di non parlarne con nessuno. » « Ma, a dir il vero, ho fatto approcci con Campana, ma egli non ha voluto assolutamente concederlo. » « Ma benedetto signor Canonico! Me ne ha già fatta una, quella di non avvertirmi subito dell’arresto ed abbiamo avuto i due morti. Ed ora me ne combina un’altra! » « Ma io l’ho fatto a fin di bene! » « Non intendo affatto rimproverarla, Dio me ne liberi, ma l’altro giorno le ho fatto capire di non far nulla di sua iniziativa in queste cose. Ormai «cosa fatto capo ha». Ma stia attento per un’altra volta. L’assicuro che io l’aiuterò sempre senza far conoscere che io vi prendo parte. Io cerco solo la salvezza di tutti gli italiani e solo quella. Che si sappia o meno, non ha per me importanza. Anzi, sono più contento che non si sappia. » Cosa debbo fare? Bisogna assolutamente che faccia la pace con Campana per poter avere le salme. Lo faccio avvertire ed egli scende a Giaveno dandomi l’appuntamento a Villa Fontana. Dopo ampia discussione, durante la quale mi assicura che d’ora innanzi non condannerà più alcuno e mi avvertirà di tutto, chiedo le salme. Risponde che nulla egli avrebbe in contrario, ma che i suoi capi partigiani presenti quando il Canonico Don Ripamonti lo aveva chiesto con modo offensivo avevano, alla unanimità, negato, e francamente egli non saprebbe come fare. « Facilissimo - dico io - lei non me le dia,
sono io che me le piglio. Dove sono? » « Sono sotto la discesa della parrocchia della Provonda, in un piccolo valloncello sabbioso con due piante isolate. « E mi dà una cartina topografica per meglio indirizzarmi. « Hanno chiesto qualche cosa i due prima di morire? » « Hanno chiesto un sacerdote e io ho loro concesso il parroco della Provonda. »
Giuseppe Zanolli in divisa
« Sta bene, è un ottimo sacerdote. Gli parlerò io. » « Questa sera mi recherò al valloncello con due casse e un carretto e preleverò le salme. Lei dica ai suoi uomini che, se mi vedono, mi lascino passare. » « Farò di meglio, darò loro l’ordine che in qualunque ora, di giorno o di notte, solo od accompagnato da carri funebri o da altro, il podestà di Giaveno deve essere lasciato andare ed aiutato dove e come egli possa chiedere. » « Eh no! E allora un’ultima raccomandazione. Fate un verbale di ogni interrogatorio o
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sentenza che date, e tenetevi i documenti ben nascosti e pronti per essere presentati alla fine della guerra. Potrebbe darsi che allora vi si chiedesse delle condanne inflitte, sarà quindi bene che, con documenti alla mano, possiate giustificarvi. » « Le ho detto che d’ora innanzi non farò più procedimenti e di ogni cosa la informerò. » « Grazie. » Alla sera, verso le ore 22 con il Canonico Ripamonti « Vai, con il falegname e un saldatore, mia figlia e la figlia di uno dei fucilati, e la sorella dell’altro (mia figlia ha voluto accompagnare la figlia dell’ingegner Lavarini perchè sua compagna di collegio), ci rechiamo a Provonda. Trovato il luogo, risumiamo le salme, che vengono riconosciute dai parenti presenti, e messele nelle casse scendiamo verso Giaveno. Prima di Mollar dei Franchi troviamo tre partigiani armati di mitra che ci danno il « Chi va là? » « Podestà di Giaveno » « Passi pure e se ha bisogno di salvaguardia o di aiuto siamo pronti. » « No grazie. » Portate le salme al cimitero dico al Signor Canonico che non ho nulla in contrario che siano portate domani durante la notte a Trana per seppellirle nella tomba di famiglia, ma che mi raccomando le cose siano alla chetichella per non insospettire maggiormente l’elemento partigiano perchè (il fatto si chiami come si vuole), secondo me è un vero atto di rappresaglia. Nel volume edito dalla nostra casa editrice “Storia di Sangano e della sua gente” di Massa-Andruetto, avevamo dedicato un capitolo speciale al gruppo di partigiani che furono protagonisti dell’unica azione di guerra combattuta nel nostro territorio: la conquista della polveriera di Sangano. Episodio di vera guerra che vide tragicamente protagonista il comandante De Vitis e i suoi partigiani. Leggere le testimonianze riportate in questo libro su Trana e ritrovare gli stessi eroi di allora, come volgari assassini, mi ha turbato non poco. Sono perciò andato a raccogliere, nella sua casa di Orbassano, la testimonianza di Michele Ficco, all’epoca comandante partigiano di Trana. Mi riceve nella sua abitazione e mi precede, con una agilità incredibile per i suoi ottantaquattro anni, sulla scala a chiocciola che conduce alla sua mansarda/studio. Mi mostra con orgoglio il suo libro pubblicato con la casa editrice del partito comunista gli “Editori Riuniti”. Con fare amabile chiede alla moglie di prepararci il caffè e, con il sorriso di chi è stato ed ha la consapevolezza di essere un protagonista del nostro secolo, ini-
Giuseppe Zanolli primo sindaco di Giaveno nel dopoguerra
zia a raccontare con orgoglio della sua amicizia con Oliva, l’attuale Assessore alla Cultura della Regione Piemonte, e di quella volta che entrambi furono ospiti di “Carmelo” nella sua casa in Sicilia. «Carmelo? Un galantuomo, un vero signore, perseguitato ingiustamente dalla sua fama di violento e dall’errore giudiziario in cui fu coinvolto dopo l’eccidio di Villarbasse. Una persona così buona e un soprannome vile... (omissis dell’Editore). Uomo generoso e di cuore. Pensi, che quel giorno non sapendo dove ospitare me e il sig. Oliva ci cedette il suo letto matrimoniale. Caro Lazzaretti... Io, Michele Ficco, ho dormito nello stesso letto con l’uomo che sarà il futuro Assessore alla Cultura della Regione Piemonte, in casa di Carmelo!» «Comandante... - replico - Un vero onore! Ma... cosa ricorda di quell’episodio, dell’assassinio di Taverna e Lavarini, a Trana?» «Assolutamente nulla - mi risponde Ficco. - Chi erano? Ma... sono veramente esistiti?» «Ma come! Non penserà mica che le vedove si siano inventate tutto, anche il colloquio con il comandante partigiano?» «Tutte balle!» «Balle non credo... - ribatto - C’è la testimonianza riportata nel diario di Zanolli nel quale viene indicata esplicitamente la banda Campana e “...il boia” come esecutori dei due omicidi.» «Zanolli? Lasci perdere, giovanotto... Un fascita.» Con lo stesso sorriso di prima il sig. Ficco mi congeda. (nde)
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MORTE DI UN CIVILE di Stefano Barone
L’unico civile di Trana a perdere la vita durante la guerra di “resistenza”, ovviamente a causa di quest’ultima, è stato Domenico Garola. Ecco come erano andate le cose in base alle notizie fornitemi dalla figlia Clelia, allora tredicenne, e a quanto mi raccontò mio padre, “il geometro”, legato a Domenico da una grande amicizia. Devo tuttavia far presente come, su questo episodi, non ci siano notizie certe, almeno nella prima parte, poiché non c’erano stati testimoni al di La famiglia Garola. Da sin.: Giuseppe, mamma Adelaide, Domenico fuori delle persone coinvolte nel Garola, Remo. Sedute: Clelia e nonna Delfina. fatto, tutte decedute in quell’occasione. È il 4 febbraio 1944. Domenico Garola sta Clelia di tredici. Ma in casa Garola vi è pure la ritornando a casa da Avigliana in sella alla sua bici- sorella Marianna, nata in America e con gravi procletta. Nelle vicinanze del Lago Piccolo incontra un blemi fisici, nonchè i due suoceri anziani. È facile gruppo di militanti fascisti che lo invitano, o lo immaginare in quali tremende difficoltà fosse costringono - questo non si saprà mai - a salire sul venuta a trovarsi questa famiglia. Ancora oggi loro autocarro, con la scusa di accompagnarlo a Clelia Garola, che abita nella borgata casa. È assai probabile che i fascisti abbiano voluto S.Bernardino, ed è conosciuta da tutti come titolaservirsi di Domenico come ostaggio, poiché temeva- re di un banco per la vendita di articoli di abbigliano che più avanti, al bivio per Trana e Giaveno, i mento, da anni è presente sui mercati della zona, partigiani avessero piazzato un posto di blocco per coadiuvata dal marito e dai figli, ricorda il intercettarli. Infatti, appena giunti all’incrocio, l’au- momento della triste notizia data a sua madre, ed tomezzo viene colpito da numerose raffiche di mitra il periodo infausto seguito alla morte del padre. A sparate dai partigiani appostati dietro la siepe del questo proposito, Clelia tiene a precisare come Santuario di S.Maria della Stella. I fascisti, che sono solo grazie alla solidarietà dei suoi concittadini la armati, cercano di rispondere al fuoco, ma il mezzo sua famiglia riuscì a superare quella terribile trasi ribalta subito e tutti gli occupanti rimangono ucci- gedia. E li ringrazia tutti. E mio padre, “il geomesi, compreso il povero Domenico, il quale, data la tro” era fra questi. Quando lui tornò a casa rapidità dell’azione, forse non ha neppure avuto il dall’India, dove era stato per quasi quattro anni in tempo di far capire a quelli che gli stavano sparando un campo di concentramento dopo esser stato fatto addosso che lui non aveva nulla a che fare con gli prigioniero dagli inglesi, ad El-Alamein, in Nordaltri occupanti dell’autocarro, essendo, invece, un Africa, appena saputo della terribile fine che era toccata al suo amico, aveva subito cercato di fare loro ostaggio. Comunque siano andate le cose, Domenico qualcosa per aiutare la sua famiglia. lascia la moglie, Podio Adelaide, con tre figli: Remo, di diciassette anni, Giuseppe di quindici e
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I CADUTI PARTIGIANI di Giglia Gian Carlo
Non sono purtroppo riuscito a ricostruire gli esatti avvenimenti che hanno portato alla loro tragica fine, e ciò è dovuto alla mancanza di testimonianze sia scritte che verbali. Quindi, per non scrivere inesattezze, riporto semplicemente l’elenco dei nomi scolpiti nella lapide commemorativa posizionata sulla piazza antistante il Municipio di Trana.
ARENA Francesco, nato nel 1925 GIORDANO Bruno, nato nel 1924 NEIROTTI Oreste, nato nel 1923 GIGLIA Celestino, nato nel 1924 Solo sull’ultimo dei caduti, essendo mio zio paterno, sono in grado di fornire qualche notizia. Nel novembre del 1944 gli Alleati decidono di aiutare i partigiani della nostra valle con approvviginamenti di armi attraverso ponti aerei e lanci paracadutati. L’incarico viene assunto secondo la testimonianza di Bartolomeo Romano, Presidente dell’Associazione Partigiani di Giaveno - dal capitano Carlo Mautino, aviatore, che diventerà in seguito, al termine della sua carriera militare, Generale di Divisione. Giaveno, suo paese natale, gli ha dedicato la piazza coperta nella quale si svolgono le principali manifestazioni organizzate dal Comune. I lanci alleati vengono purtroppo individuati dai tedeschi, che mandano immediatamente una squadra nella zona dell’Aquila, denominata le ruciàse per intercettarli e per recuperare le casse contenenti armi e munizioni. Nel frattempo, mio zio e altri quattro partigiani, che si trovano nella zona del lancio, vedendo arrivare i tedeschi, trovano un sicuro rifugio nascondendosi negli anfratti rocciosi della montagna. Mentre i tedeschi stanno già ridiscendendo a valle, uno di loro, forse sporgendosi per guardare nel vallone sottostante, perde l’elmetto che, rimbalzando di pietra in pietra, finisce la sua corsa proprio dov’è nascosto mio zio. Il tedesco, segui-
Lapide davanti al Municipio a ricordo dei caduti e dei dispersi dell’ultima guerra
to dai suoi camerati, scende a recuperare l’elmetto e, quando si china per raccoglierlo, si trova faccia a faccia con i partigiani. Segue un breve ma drammatico scontro a fuoco nel corso del quale tutti i nostri cadono sotto le raffiche dei fucili-mitragliatori nemici. Ricordo ancora il dolore dei miei famigliari quando mi raccontavano questo triste episodio, di come il caso fosse stato così crudele nei confronti di mio zio e dei suoi compagni. E la tristezza di non poter nemmeno riportare a valle i loro corpi, essendo stati ricoperti da un’abbondante nevicata che, trasformatasi subito in ghiaccio a causa della bassa temperatura, ne permise il loro recupero solo nella primavera successiva.
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8 Settembre 1943
di Renato Foresto
Alle recenti esequie di Eugenio Lavarini mi venne da ripensare all’ 8 Settembre del 1943 che vide lo sfacelo del Regio esercito e la fuga dei reduci sulle montagne per schierarsi contro l’alleato tedesco. In quel drammatico evento, degenerato tosto nella guerra civile, a Trana fummo in tre a seguire una opposta strada che ci portò il giorno di Santa Barbara nella caserma dell’ artiglieria di Novi Ligure chiamati dalla cartolina-precetto della Repubblica Sociale: Mario Borio (nipote del Medico condotto Piccotti), Eugenio Lavarini (figlio dell’ ing. Ettore, benemerito tranese d’adozione, trucidato poi senza un perché sulle montagne di Giaveno), e il sottoscritto. Dedico lo spazio che Stefano Barone mi concede su questo libro a ricordo di quel fatale evento che ebbe radici nel Fascismo, la cui origine potremo definire “nazionalista” poichè contrapposto all’”internazionalismo socialcomunista”. 133
Il nazionalismo italiano, ovvero l’esaltazione della Patria del Risorgimento, raccolse subito larghi consensi: negli anni Trenta gli antifascisti tranesi si potevano contare sulle dita di una mano, e non è da credere che ciò dipendesse dalle smaglianti divise e pennacchi della nuova classe dirigente, ma dal rinnovato concetto di Patria di cui furono portavoce. Messaggere entusiaste di patriottismo e di rispetto delle istituzioni furono, in prima fila, le maestre elementari: a Trana concentrico la Gagliazzo, la Goria e la Piovano. La commemorazione del 4 Novembre davanti alla lapide dei Caduti nelle guerre d’indipendenza, riempiva la piazza di popolo e di scolaresche ancora di più delle ricorrenze fasciste. Della scuola media mi rimane indelebile l’arrivo (si era nel 1935) di un insegnante prete, miracolosamente sfuggito in Spagna ad una fucilazione di massa. Il prestigio guadagnato da quell’apprezzato maestro, l’aura che circondava la sua tragica vicenda che tenne tutta per sé e infine il suo repentino ritorno, ci diedero la certezza che gli spagnoli combattessero per la loro Patria e i repubblicani per la “patria russa”, che il bene
venne meno neppure dopo le sanzioni economiche imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni. L’adunata di protesta che ne seguì, organizzata dal partito nella piazza del Dopolavoro, raccolse praticamente tutta la popolazione. Ricordo bene che l’oratore tuonasse contro le “plutocrazie reazionarie dell’ Occidente” La foto è stata fatta durante un’esercitazione contro eventuali attacchi partigiani, avvema soprattutto nuti in un solo caso in cui furono sparati pochi colpi. contro la striMai ci fu richiesto di fare rastrellamenti. sciante opposizione al regime che appartenesse al generale Franco e il male a Stalin. stava organizzandosi nelle città. Neppure le vergoForse, per il clima del nuovo concordato concluso gnose leggi razziali e la spericolata dichiarazione allora, posso dire che i preti della mia scuola non erano fascisti, né antifascisti, bensì patriottici. Ancora adesso ricordo le numerose odi patriottiche mandate a memoria, da Petrarca a Carducci. Da Trana molti volontari partirono per la guerra di Etiopia, accompagnati dall’afSiamo a Leca, entroterra di Albenga, provincia di Savona, nella postazione di un pezzo fetto della da 75/13 protetta da rete mimetica. In primo piano il s.tenente Casulli, il cap.magg. popolazione e il Accatino e il sergente Debernardi, tutti torinesi, l’ ultimo emigrato poi in Paraguay dove fu consenso non direttore della locale Enel nonché presidente degli Ingegneri dell’ America del Sud. In secondo piano il sottoscritto, capo pezzo. 134
di guerra a fianco dei tedeschi ebbe opposizione di rilievo, come se l’evento fosse di scarso interesse. Ecco perché la rottura dell’8 settembre non separò i buoni dai cattivi, ma piuttosto due inconciliabili modi di intendere l’interesse nazionale. La guerra fredda che seguì fece emergere questa contraddizione e fu buona ventura che milioni di voti dei contadini salvassero l’Italia dalla sovietizzazione. Ci vollero comunque 45 anni perché cadesse il muro fra Oriente e Occidente e desse il colpo di grazia a un sistema politico che ha sulla coscienza ottanta milioni di morti ammazzati. Mi pare, insomma, che il fascismo sia finito soltanto con la fine del comunismo. Soltanto allora, con Mario ed Eugenio, constatammo che non c’eravamo sacrificati invano, benchè sul nostro “stato di servizio” al Distretto Militare non vedremo mai scritto che abbiamo servito la Patria con onore e fedeltà, riconoscimento concesso a tutti i combattenti, perché quell’ anno e mezzo del nostro servizio è cancellato, come mai avvenuto. Ho vissuto il regime fascista da giovane e in periferia. Forse in città era diverso. Orribili sono state le leggi razziali e altre cose incominciavano ad andare storte, ma dobbiamo riconoscere che sessant’anni di democrazia non sono bastati per farci camminare, anche civilmente, al passo delle altre democrazie. Accecati dall’antifascismo, non ci siamo accorti della crescita nel corpo della Nazione dei mali propri del sovietismo, l’ugualitarismo dei bisogni e quindi dei compensi, il centralismo democratico, ovvero la dittatura delle maggioranze, la prevalenza dei diritti sui doveri, il privilegio del lavortore dipendente sull’homo faber privato della proprietà, lo Stato dominante sull’individuo... Valenti storici hanno scritto sul fascismo pagine definitive, ma è fiorente una pubblicistica ormai tutta di giovani autori che scrivono pro o contro il medesimo, non avendo vissuto quel clima. Nell’archivio storico, di Trana alla voce “Partito nazionale fascista”, si trovano documenti che riguardano uomini e fatti della vita tranese che meriterebbero senz’altro il “pollice verso” dei politologi, ma che sanno di pulito. Mi pare che la loro lettura, senza prevenzioni insegnerebbe qualcosa alla nostra sgangherata democrazia. Riconosciuto, con il senno di poi, che la tragedia 1940-1945, la quale continuò fino 1989, si risolse con la vittoria della democrazia intesa in senso
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occidentale, non rimane che darne atto ai vincitori, raccomandando ai nostri figli di non ripetere gli stessi errori.
Aderisco alla curiosità dell’amico Stefano co-autore di questo libro, aggiungendo qualche notizia sulla mia personale vicenda di “artigliere repubblichino” che in un anno e mezzo di carriera militare giunse con fatica al grado di caporalmaggiore. Giunto, come ho già detto, a Novi ci trovammo in mezzo a uno stuolo di ufficiali e di reclute ed essendo quel giorno Santa Barbara, patrona degli artiglieri, godemmo al rancio di uno speciale trattamento. Le esercitazioni (marce, ginnastica, teoria) durarono un mes,e dopo di che fummo spediti a Leca di Albenga in provincia di Savona, a prendere possesso di una batteria di quattro pezzi da 75/13 e di altri due anticarro da 100/27, al comando di un tenente italiano e la supervisione di un sottufficiale austriaco che non nascondeva il desiderio di tornare a casa al più presto. La nostra batteria faceva parte di un gruppo a comando tedesco che comprendeva tutta la Riviera di Ponente schierato contro lo sbarco americano atteso proprio nella piana di Albenga, sbarco che avvenne poi in Francia. Fu così che la nostra batteria fu repentinamente spostata sulle alture di Fontan, in valle Roja, dove – e siamo già a fine marzo ’45 – ci sorprese la precipitosa ritirata e la liberazione del 25 aprile. Consegnate le armi ai tedeschi, prendemmo la strada di casa a piedi verso Cuneo e Torino, mai molestati dai partigiani trovati via via, salvo che a Moncalieri dove, privati dei soldi e oggetti personali, passammo due notti rinchiusi nel Castello e testimoni di due fucilazioni eseguite nel cortile. Si può quindi immaginare il favore col quale accogliemmo la notizia dell’arrivo a Torino degli americani garanti contro gli abusi. Avvertito dalla mia famiglia capitò un mio compagno di scuola che svolgeva un compito di collegamento con gli inglesi e che, trovatomi nella condizione di prigioniero, mi prese per un braccio, assicurando ai miei carcerieri che non avevo fatto del male a nessuno, spalancando come d’ incanto tutte le porte d’ uscita. Come nelle celebrate azioni di kommando, le parole che mi rivolse Tommaso Sacco (diventato poi professore emerito alla’ Università) furono ridotte all’ essenziale: «Renato, io devo andare. Arrangiati!» Il tram della linea 5, che allora aveva capolinea proprio al castello, mi posò “gratis” (in tasca non avevo una lira), dopo poche fermate, dai miei cugini , in corso Belgio, dove ebbi rifornimenti e abiti civili. Fu facile con la tramvia, perfettamente funzionante raggiungere Trana in serata e celebrare in famiglia lo scampato pericolo. A onor del vero debbo riconoscere che mai i miei genitori ebbero molestie dai partigiani. Anche per me i rischi dell’avventura repubblicana finirono lì.