Superstizioni di Franco Maria Puddu
Convinzioni, credenze e assurdità che hanno accompagnato nei secoli la vita dei marinai
”Superstizione s. f. Insieme di credenze o pratiche rituali proprie di società o ambienti culturalmente arretrati fondate su presupposti magici ed emotivi non razionali.” Con queste parole il Vocabolario Illustrato della Lingua Italiana di G. Devoto e G. C. Oli indica i modi di fare, le convinzioni a volte portate all’eccesso, le eredità ancestrali e gli atteggiamenti che, nel corso dei secoli, hanno fiancheggiato, guidato e alle volte condizionato l’esistenza di buona parte dell’umanità, spesso seguendo percorsi alquanto illogici: per un europeo, ad esempio, il colore del lutto è il nero, mentre per un giapponese è il bianco; per evitare di presentarsi ad una festa in famiglia paludati del colore che richiama la Morte tutti e due sceglieranno abiti di altre tinte, anche se, a meno di non dover partecipare a un funerale, non esiste alcun motivo per rifuggire dal nero o dal bianco. Tutto nacque da due semplici, antichi quesiti: quando, nella notte dei tempi, l’uomo riuscì a intuire il concetto di universo, la prima domanda che si pose fu: “Cosa è la vita?” e, subito dopo: “Cosa è la morte?”. Nei secoli, abbiamo cercato di trovare una risposta alla prima domanda, ma non siamo riusciti a darne alla seconda. Quel nostro lontano antenato iniziò così a crearsi un mondo di regole che, secondo lui, lo avrebbero salvato dall’unica cosa che lo terrorizzava: l’ignoto. Con il tempo aveva imparato a sconfiggere la paura delle belve, degli altri uomini, degli elementi atmosferici e della fame, ma la morte costituiva un mondo sconosciuto sul quale non aveva alcuna certezza. Non sapendo come affrontarlo, dovette improvvisare.
28
gennaio-febbraio 2012
Così, il giorno che si salvò miracolosamente dalla micidiale zampata di un orso, dopo aver ucciso l’animale, inorgoglito dalla sua bravura o rispettoso della forza della belva, questo non lo sappiamo, prese le unghie della zampa e se ne fece una collana dalla quale si sentiva in un certo modo protetto, e da quel momento non andò più a caccia senza indossarla. Erano nati il primo talismano e la prima superstizione. A questa, nei secoli, se ne sarebbe aggiunta una pletora indescrivibile che andava dai gatti neri alle trecce d’aglio, dai venerdì 17 ai giorni dai quali bisogna bandire nozze, viaggi e nuovi lavori, dall’ infausto canto delle civette agli iettatori. Le grandi religioni cercheranno di fare giustizia di questa messe di assurdità, ma avrebbero avuto migliore fortuna se avessero tentato di svuotare il mare con un cucchiaino.
“Non è vero ma ci credo” Anche il più scettico dei credenti, infatti, è disposto a concordare pienamente sull’assurdità della superstizione, rigettandola come frutto dell’ignoranza, ma poi, sulla base di un prudente “non è vero ma ci credo”, se uscendo di casa incontrerà un gatto nero, non tornerà per questo indietro ma siamo certi che rallenterà guardandosi attorno per vedere se sopraggiunge qualcuno che tagli la scia del felino prima di lui. Se non c’è, proseguirà senza dubbio il tragitto, ma con l’animo inconsciamente colmo di spiacevoli sensazioni. Con il trascorrere dei secoli, queste strane abitudini, ossia le superstizioni, create inconsapevolmente dalla mente umana che mano a mano le perfe-
zionava adattandole a Paesi, necessità e mentalità, palesandole a volte in maniera evidente, a volte in sordina, sotto forma di precetti benefici oppure come regole da seguire imperativamente, continuarono a dilagare sotto più forme. Potevano essere salvifiche, a sfondo mistico, scaramantiche, a fini salutistici e altro ancora, quando non si fondevano in un variopinto bailamme dalle mille sfaccettature. Peggio era quando restavano monotematiche, sconfinando nella mania sino all’ossessione. Tramandate di generazione in generazione divennero vere credenze popolari alle quali nessuno sfuggì: lo schiavo nel circo e il nobile condottiero, la bella castellana e lo svagato poeta, il razionale capomastro e il patriota idealista, il cow boy e il pilota spaziale. A questa regola non poteva fare eccezione la gente di mare, senza distinzione tra mercanti, guerrieri, vogatori, cerusici, preti, motoristi e cuochi. Da quando il marinaio iniziò a credere che questo o quell’evento avrebbe potuto essere per lui vantaggioso o nefasto? Difficile a dirsi, ma sappiamo per certo dai ritrovamenti archeologici che gli amuleti apotropaici (dal greco apotrópaios, che allontana), destinati ad allontanare gli influssi negativi, datano sin dal neolitico. Nelle successive grandi civiltà, che istituzionalizzando le religioni le elevarono spesso a riti di Stato, le navi, onerarie e da guerra, erano, quando necessario, oggetto di manifestazioni propiziatorie volte a proteggerle dagli elementi e dal nemico. Ciascuna aveva a bordo un minuscolo altare su cui celebrarle, mentre i comandanti si facevano proteggere dalle statuette delle divinità familiari, ma il marinaio fidava nel suo amuleto e nell’oculus, l’occhio dipinto sulla prora della nave (usanza comune a egizi, fenici, greci, cartaginesi e romani) che doveva indicare la rotta e allontanare gli influssi maligni, più che nelle formule pronunciate dai sacerdoti, spesso con un linguaggio tanto aulico da risultare incomprensibile.
Protetti dall’oculus È da notare che l’occhio apotropaico, divenuto elemento ornamentale, lo ritroviamo ancora oggi sulla prora di molte imbarcazioni mediterranee, come i bragozzi, i trabaccoli e le tartane dell’Adriatico e i luzzu maltesi, ma anche su quella di altre barche da pesca di mezzo mondo. Questo ci porta a notare che le superstizioni del
Alcuni amuleti neolitici, ricavati da ossa o denti di animali, ritrovati in scavi archeologici (la correggia di pelle è stata aggiunta); notare nei primi due la forma acuminata, tipicamente apotropaica, in quanto agli oggetti a punta, come il “corno” o un chiodo, si attribuisce il potere di allontanare le entità malevole
marinaio sono, ci si passi il gioco di parole, molto più con “i piedi per terra” di quelle di chi non si allontana dalla costa. Fermo restando il fatto che stiamo parlando di altre generazioni che per mare andavano seriamente, in pace o in guerra, e non erano certo naviganti della domenica, il marinaio non ha mai badato molto a quelle superstizioni che sconfinano in un immaginario fine a se stesso come quelle su vampiri, morti viventi, persone da cui diffidare o sistemi per attrarre i favori di belle fanciulle. Le sue superstizioni sono molto “professionali” perché in genere sono legate a tre cose: il suo lavoro, la sua nave e il mare. Alcune, ne faremo cenno, sono certamente strane, altre poco comprensibili, altre ancora scarsamente caritatevoli, ma, a ben guardare, hanno tutte un motivo d’essere che poggia su basi realistiche. Si dice, ad esempio, che sulle barche non si devono portare scarpe con la suola in cuoio o i tacchi a spillo per le donne; questo, non è esatto. Oggi si costruiscono ponti in materiali robusti ma più delicati di quelli di una volta, di ruvida quercia o durissimo tek, quindi le scarpe “da città” che potrebbero lasciare qualche graffio non si devono portare, ma più che altro per “bon ton”.
gennaio-febbraio 2012
29
L’occhio apotropaico che campeggia sulla prora dell’Olympias, la trireme fatta ricostruire dalla Marina greca, lo ritroviamo (da sinistra in alto, in senso orario) nel luzzu maltese, nel trabaccolo di Cesenatico e anche in questo peschereccio armato impiegato dalle forze speciali USA durante il conflitto vietnamita
L’antico divieto, che risale alla marineria velica, faceva riferimento alle scarpe nuove (come pure agli abiti nuovi) per un altro motivo: allora a bordo si indossava solo vestiario da lavoro. Quello nuovo lo indossava il re vichingo steso sul suo drakkar, pronto per il viaggio funebre; oppure il marinaio che, nella sua casa a terra, stava per iniziare l’imbarco dal quale non si torna: quello sulla navicella di Caronte. In altre parole chi era morto ed era stato abbigliato per l’occasione. Quindi, a scanso di equivoci, a bordo solo abiti e scarpe da lavoro, di stoffa o di gomma. Inoltre, a quei tempi, quando un marinaio si perdeva in mare, i suoi beni venivano subito divisi fra gli amici (nella marineria inglese venivano messi all’asta e il ricavato inviato alla vedova) e la sua branda veniva fatta scomparire: non per avidità, ma per cancellare i segni della sua presenza, e far sentire meno la sua mancanza ai sopravvissuti che, dimenticandolo, non avrebbero avuto da pensare che un giorno o l’altro potevano fare anche loro quella fine. Il marinaio rischiava la vita
30
gennaio-febbraio 2012
ogni giorno e lo sapeva benissimo, ma non voleva macerarsi in questa consapevolezza. Anche per questo, i sacerdoti erano malvisti a bordo: prima di tutto perché, essendo preposti a somministrare l’Estrema Unzione, erano troppo a stretto contatto con la Morte, e questo non rientrava nella simpatia dei marinai; ma soprattutto perché Satana, sapendo che un servo di Dio si trovava sulla nave, avrebbe fatto di tutto per affondarla, quindi era meglio non correre rischi imbarcandoli. In tutti i casi, non bisogna accusare i naviganti occidentali di essere dei “mangiapreti”, perché anche i giapponesi non tolleravano bonzi a bordo delle loro navi, mercantili o da guerra. Ma non erano solo i preti a non essere bene accetti: la stessa sorte toccava alle donne, cosa incredibile per un marinaio, ma motivatissima: in mezzo a decine di uomini condannati al celibato forzato da navigazioni lunghe mesi se non anni (qualcuno ogni tanto prendeva una...scorciatoia, tollerata purché non evidente; Horatio Nelson diceva “facciano quello che vogliono, purché stiano calmi”), la
presenza di una donna, prima o poi suscitava gelosie, invidie, risse e coltellate, con il logico corollario di funerali e impiccagioni. Raramente le mogli di ufficiali o sottufficiali ebbero il permesso di seguire i mariti a bordo, e non si trattò mai di decisioni felici; in tre o quattro casi, nel mondo delAnne Bonny, una la pirateria, delle donne vennero delle due donne, accettate a bordo ma, è intuibile, l’altra fu Mary si trattò di estreme eccezioni. (Mark) Read, che Un’altra superstizione, molto più fu poi la sua compagna, che riuscimoderna e inspiegabile se non verono a farsi accetdendola come una versione intare a bordo dalla conscia di quella appena citata, comunità pirata, ed ebbero anche vuole che le donne non salgano a una “carriera” ribordo perché i capelli lunghi si spettabile, concluinfilano nelle filettature di viti e sasi con il capestro bulloni, creando vie d’acqua e facendo affondare la nave. Così dicevano, in particolare, i primi sommergibilisti.
Alla larga dagli avvocati Esiste ancora un’altra categoria, gli avvocati, che non deve salire la passerella per due motivi. Prima di tutto perché lavorano con le parole, cosa poco comprensibile e ancor meno gradita ai marinai; poi perché spesso questi ultimi, con la loro vita raminga, erano costretti a tornare a bordo per poter pagare i debiti contratti scialacquando in pochi giorni l’ultimo premio d’imbarco, facili vittime degli avvocati, che, in Gran Bretagna, i naviganti chiamavano landsharks, ossia “squali di terra”. Altri fenomeni invece, anche se un tempo erano considerati soprannaturali come i fuochi di Sant’Elmo, erano bene accetti a bordo. Sopra il rogo sul quale il Santo (che in realtà si chiamava Erasmo, era vescovo di Formia ed in seguito divenne protettore dei marinai) subì il martirio nel 303, sotto l’imperatore Diocleziano, comparve una fiamma blu che venne interpretata come l’Ascensione della sua anima. Quindi le luminescenze blu vivo a forma di fiamma a una o più lingue che comparivano a bordo delle navi alle estremità di oggetti appuntiti, come alberi, antenne o pennoni, nell’aria ionizzata dei temporali, venivano chiamate Fuochi di Sant’Elmo e si riteneva fossero un segno benevolo della presenza del Santo, tanto che, alle volte, sui vascelli da guerra venivano tributati loro gli onori. Si ha testimonianza della loro esistenza sin dal-
Una rappresentazione dei fuochi di Sant’Elmo in una stampa pubblicata dalla rivista The Aerial World, di G. Hartwig, a Londra nel 1886
l’antichità (ne parla Giulio Cesare), segno che il fenomeno era noto già prima della fine del povero Erasmo. Chi scrive questo articolo, imbarcato alla fine degli Anni 60 sull’incrociatore Andrea Doria, in una occasione ebbe modo di vederli. E quale rapporti intercorrevano tra i marinai e il vento, elemento importantissimo e per secoli principale energia motrice delle navi? Buoni, ma da prendere con le molle. Prima di tutto, secondo gli inglesi non si doveva fischiare a bordo (come del resto non si doveva né starnutire né accennare un passo di danza imbarcando) perché fischiare portava vento nelle vele, ma bisognava farlo con cautela, e soprattutto non si doveva assolutamente fischiare a sud del Canale (la Manica), perché avrebbe portato sventura. Anche una ballata francese confermava: “siffle gabier, siffle pour appeler le vent, mais sitôt la brise venu, gabier ne siffle plus!” (fischia, gabbiere, fischia per chiamare il vento, ma appena il vento è arrivato, non fischiare più). Per evitare il vento di prora, una iattura per le navi a vela, si doveva anche stare attenti... alle spese.
gennaio-febbraio 2012
31
Gusci d’uovo, il non plus ultra per la navigazione, i preferiti da streghe e demoni; si prega di frantumare dopo aver consumato il loro contenuto onde evitare che il mare venga percorso da questi sgradevoli ospiti
di queste signore scagliando nella tempesta delle frecce, una evidente allusione sessuale di quegli assatanati cacciatori di gonnelle. Se però si scatenava una tromba d’aria, allora erano guai grossi, ma a tutto c’è un rimedio. In Italia, anzi, ne avevamo una serie: in Sicilia, quando si riteneva che la tromba nascesse ad opera di un demonio, lo si lusingava con una serie di bestemmie particolarmente oscene e atroci. Quando il demone si avvicinava allo scafo ritenendo che i marinai fossero anime perse, veniva colpito dalla recita improvvisa del “Padrenostro Verde”; il perché del colore è ignoto, forse si trattava di una preghiera infarcita di termini magici il cui contenuto non è giunto ai giorni nostri. A questo proposito, ricordiamo che i marinai non si sono mai vestiti di verde, perché tutti sanno che è un colore che porta sfortuna. In realtà esiste un motivo che convalida questa scelta: il verde è un colore che in mare è quasi impossibile scorgere, e se un uomo vestito di verde cade fuori bordo.... Invece, a chi veniva sepolto in mare, prima di essere messo nel sacco zavorrato con due palle di cannone, venivano cucite simbolicamente le narici con un punto di refe, per essere certi che quel povero corpo, già macerato dallo scorbuto oppure squarciato dalla mitraglia, non respirasse più.
Un detto bretone ammoniva infatti “Vent debout, vent debout sans fin: qui n’a pas payé sa catin?” ossia “vento di prua, vento di prua senza fine: chi è che non ha pagato la sua puttana?” segno che i debiti fatti nei porti con le signore di facili costumi dovevano essere onorati, altrimenti... Ma spesso il vento nasceva da forme più ostili, e per questo in Scozia e nel Regno Unito gli abitanti dei paesi costieri recitavano novene a catena per placare i diavoli del mare che li scatenavano; per i tedeschi, il fenomeno atmosferico era causato da un diavolo che passava portando con se l’anima di un impiccato, e si sarebbe placato solo a sepoltura avvenuta. In Bretagna, la colpa era dei dispetti dei Tud Vor, i demoni neri che corrono sulle onde, o dai Cornandoned, gli gnomi marini. Per quanto riguarda le tempeste, però, tutti erano concordi, la colpa era delle streghe. Tuttavia, le loro malefatte potevano essere contrastate agitando fazzoletti benedetti e gettando nelle acque ribollenti olio, gioielli, oggetti preziosi; in Bretagna il marinaio più giovane Quale pericolo può essere maggiore di una tromba d’aria? Due trombe d’aria, ma niente paue bello di bordo doveva ra: con un coltello con il manico rosso o che non abbia mai tagliato cipolle, un buon esorcista vi può rapidamente cavare d’impaccio placare l’eterno femminino
32
gennaio-febbraio 2012
La temibile Draunara Nel meridione, contro le trombe d’aria si invocavano le grazie della Draunara (o Dragonara), per alcuni una bellissima donna nuda che, agitando i lunghi capelli sciolti, provocava i venti, mentre per altri, il fenomeno era causato da un dragone (drauni) che scuoteva la coda, mentre nel Veneto la colpa era del “foleto marin”, che si poteva placare invocando Santa Barbara. Per gli istriani, la generava “el Sion”, un potente stregone, neutralizzabile tracciando sul ponte di prora una stella a cinque punte, o pentacolo, mentre nelle Marche era composta da migliaia di anime in pena che avevano subito torti da parte di qualche marinaio, e adesso tornavano per vendicarsi. Per eliminarla si doveva prendere un coltello con il manico rosso con il quale tracciare sul ponte una croce inscritta in un cerchio; quindi si recitava una formula magica e si vibrava una violenta coltellata alla croce; la tromba d’aria sarebbe scomparsa. Un altro sistema prevedeva l’impiego di un bastone e di un coltello che, per carità, non avesse mai tagliato cipolle. Dopo aver recitato la formula magica di turno, con una coltellata si tagliava in due il bastone, smezzando la tromba. Ancora agli inizi dello scorso secolo, era facile riconoscere i vecchi lupi di mare osservandone il comportamento a tavola, specialmente, sembra, in Liguria. Infatti, se erano servite delle uova con il guscio e un commensale lasciava nel piatto le due fragili scodelline o, peggio, se qualcuno beveva un uovo senza frantumarlo, il nostro si sarebbe senza dubbio peritato di polverizzare gli avanzi perché, come tutti ben sappiamo, le streghe utilizzano i mezzi gusci come barche, mentre il Demonio trasforma quelli interi in galleggianti. Per concludere, quale era l’atteggiamento dei marinai nei confronti degli altri esseri viventi che condividevano con lui il mare? Curiosamente la loro attenzione fra le varie specie marine era polarizzata dai soli delfini, evidentemente tutto il resto era appetibile per la padella, mentre in cielo erano attratti da quasi tutte le specie avicole di mare anche se, a ben ve-
dere, il loro apparente rispetto era figlio del timore di ritorsioni ad una inutile crudeltà nei confronti dell’avifauna. I delfini, fedeli compagni dei naviganti da sempre, come dimostrano antichi affreschi, saltando davanti alla prora proteggono la nave, a meno che il branco non la abbandoni al suo destino cambiando improvvisamente rotta; anche i gabbiani sono dei protettori, mentre gli albatri, i grandi uccelli marini del nord, attirano invece la tempesta. Nessun uomo di mare si sognerebbe mai di far del male ad un delfino, un albatro o un gabbiano, specie a questi ultimi che, secondo una leggenda, incarnano le anime dei marinai morti in mare; i loro stridii ricordano delle grida di qualcuno che da lontano cerchi di richiamare l’attenzione di un amico dal quale non riesce a farsi capire. Ma, a ben vedere, anche questa, come tutte quelle che abbiamo citato in precedenza e tante altre per narrare le quali non abbiamo avuto spazio, è una leggenda, e come tutte le leggende contiene appena quel pizzico di realtà che le rende verosimili, il resto è fantasia. Abbiamo parlato solo di quelle favole, belle o brutte, che da secoli attirano l’attenzione dell’uomo, in particolare dell’uomo di mare che, in fondo alla sua anima, per quanto possa apparire a volte duro, insensibile e anche crudele, rimane sempre un poco bambino. Non abbiamo parlato che di storie, di mare ma solo storie. Però, per chi li ha avuti come compagni di navigazione nelle fredde giornate invernali, quando il grigio del mare non si distingue dal grigio del cielo e il vento gelido si intrufola sotto il giaccone pesante, effettivamente i gabbiani, con ■ quelle loro grida solitarie e tristi....
gennaio-febbraio 2012
33