UMBERTO FURNARI
Storia popolare della filosofia Parte V Il Novecento
2008
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Presso l’Autore
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CAPITOLO XXX
Il Novecento La storia del pensiero ha contribuito notevolmente alla formazione e alla definizione dell’Occidente non solo come realtà storica ma anche come categoria spirituale e “forma mentis” peculiare e caratteristica. I Greci hanno concepito l’Occidente come la parte (più ampia e per lo più sconosciuta) dell’universo, distinta dall’Oriente, identificato con l’altra ampia regione già entrata nel corso della storia. L’Occidente è stato prefigurato come la sede dell’umanità razionale, dunque come la regione destinata a racchiudere l’avventura del pensiero come capacità e metodo della rappresentabilità dell’essere. In Oriente ha dominato il mistero, si può dire, il divino, qualcosa di inaccessibile allo stesso pensiero simbolico. Per questo gli stessi Greci si sono riconosciuti come diversi da quanti sembrava che non avessero conseguito la chiarezza del linguaggio come forma della stessa convivenza umana. L’Occidente si presentava nelle remote sfere del mito come una realtà da conquistare, da ricondurre al pensiero e alla conoscenza. Noi abbiamo visto lo sviluppo della filosofia come questo medesimo sforzo di affermazione della parola e del sapere attraverso la rappresentazione. Il Novecento, in questo senso, è il punto d’approdo di una lotta sostenuta per l’affermazione dell’autocoscienza. La filosofia ha sostenuto questa “sofferenza” per la trasparenza dell’uomo: “solo attraverso il soffrire si raggiunge la conoscenza”, diceva Eschilo. Dunque la sofferenza n on è inutile; e l’umanità del secolo scorso ha patito forse più che in ogni altro tempo. Dall’esperienza del mistero seguendo il filo del discorso, la filosofia ha accompagnato lo sviluppo della vita spirituale, concorrendo alla formazione della mentalità occidentale. Oggi con un certo orgoglio assistiamo alla costruzione di un’Europa nuova. L’umanità occidentale è chiamata a una sfida e sta sostenendo una prova decisiva. E se la radice primaria è posta nella chiarezza del mondo greco (l’”apollineo”), un’altra radice (altrettanto notevole) va riconosciuta nel mondo cristiano. La religione cristiana prefigura la vicenda cosmica come incardinata nella storia dell’umanità. Il recupero dell’eredità ellenistica, da una parte, e di quella biblica per opera della cultura occidentale (europea), dall’altra, costituisce l’evento fondamentale della formazione dell’Occidente. Si può dire che la filosofia rappresenti la base dello sviluppo della prodigiosa sintesi culturale e spirituale, che ancora segue lo svolgimento della storia universale. La filosofia è sorta come rappresentazione unitaria del reale come “natura”, sfera autonoma, ordinata e retta da una legge immutabile. La vita spirituale, la sfera della soggettività, è apparsa come anch’essa destinata a subire questa legge come una dura necessità. Ma il momento della soggettività è emerso ben presto come aspetto e parte non secondaria della realtà universale. Il soggetto configura la realtà come ipotesi della rappresentazione: esso concorre a costituire il reale in una misura non inferiore a quanto compiuto dalla compattezza dell’”essere”. Se Parmenide esalta l’essere come unica forma della verità, Protagora rivendica il ruolo dell’uomo, misura e criterio d’ogni realtà e di ogni conoscenza. Sulla base di questo equilibrio si è chiesta alla filosofia una norma di vita, persino una condizione di felicità. Sempre si è ottenuta una ragione di dignità per l’autonomia del soggetto, pur a costo di sacrifici. La spiritualità occidentale si è rispecchiata specialmente nel mondo moderno come protagonista del “progresso”, dominatore della natura, svelatore di ogni mistero. Il positivismo (e già l’illuminismo) hanno interpretato in modo radicale l’identificazione del reale e del soggetto pensante. Questo, anzi, è apparso come il termine fondamentale, da anteporre a qualsiasi realtà data. La filosofia, ora, si riconosce nella problematicità che essa medesima alimenta e della quale, paradossalmente, si nutre.
La linea unitaria del pensiero del Novecento
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Il motivo dominante del Novecento è la tendenza (e lo sforzo) verso un’ampia convergenza di orientamenti nel segno (e con lo scopo) di una ripresa e restaurazione del pensiero filosofico e della metafisica. Così si cercò di provare la vitalità di una sorgente che si riteneva, per certi versi almeno, esaurita. Il pensiero speculativo, nelle forme più o meno istituzionalizzate, è tornato a rivendicare prerogative e diritti e le cattedre universitarie di teoretica e di morale hanno parlato con altrettanto prestigio di quelle scientifiche. Indubbiamente tutto ciò era un segno che la filosofia aveva ancora una funzione primaria nel sistema degli studi ed era tutt’altro che prossima alla “fine”. Al centro della molteplicità di correnti e di problemi troviamo la questione dell’essere, un problema antico, “vecchio”, si potrebbe dire, quanto la stessa filosofia ma tale da impegnare il pensiero più profondo (quale allora, per caso o per grazia, ebbe modo di manifestarsi). Le filosofie del Novecento, a ben considerare, appaiono riconducibili a un denominatore comune: quello della reazione all’egemonia del sapere scientifico, ritenuto inadatto a interpretare la realtà dell’uomo e la complessa vicenda e articolazione della vita spirituale. Si è rivendicata la peculiarità specifica del sapere filosofico. Il positivismo era culminato, come è ben noto, nelle tesi dell’evoluzionismo e del darwinismo, che avevano definitivamente strappato l’uomo dalla sua posizione di ente privilegiato, legato direttamente all’essere, facendone una semplice espressione della vita naturale. Cartesio aveva enfaticamente stabilito, tra Dio e l’uomo, quasi un rapporto di reciproca dipendenza, poiché, se è vero che Dio è la sostanza prima da cui derivano le sostanze finite (il pensiero e l’estensione), è anche vero che è l’uomo l’ente in cui si risolve l’intera sostanza pensante e che dà voce a Dio stesso, consentendone la rivelazione e l’intera sua proiezione sul piano dell’esperienza religiosa. Dio fa parte di questa vicenda umana della religiosità fino quasi a identificarsi con essa. La natura autonoma dell’uomo rispetto alla restante realtà fisica costituisce un principio (quasi un dogma) costante del pensiero. E solo col positivismo e la sua espressione estrema e culminante, il darwinismo, questa “verità” fondamentale è messa in discussione. Ciò ha concorso a determinare quella situazione “assurda” di un’umanità scardinata dal suo fondamento e ridotta a una condizione di smarrimento e di angoscia. La reazione al positivismo nasce da un’esigenza imperiosa di restaurare una “verità” quasi costitutiva della storia dell’umanità occidentale (e anche di altre tradizioni culturali). Si è ricordato che la libertà non può risalire alla condizione naturale e che è una prerogativa inconfutabile dell’uomo. Piuttosto si è messo in rilievo che la natura riceve le sue leggi dal soggetto, come bene ha rilevato la filosofia moderna. Bergson ha inteso dimostrare che lo spirito precede la materia e che la natura è un prodotto dell’attività spirituale, configurata come energia creatrice, al di là della stessa distinzione tra materia e spirito. Il principio dell’attività spirituale, identificato nello sviluppo del pensiero o, altrimenti, nella forma dell’attività morale e nel processo della storia, è richiamato in vari modi e rimesso in circolazione da diversi punti di vista. Così si dispiega il quadro delle filosofie del Novecento, articolato tra contingentismo, intuizionismo, storicismo, pragmatismo, attualismo, ontologismo, fenomenologia, esistenzialismo, spiritualismo, neotomismo e così via, per una miriade di corrente, di orientamenti più o meno segnati da un comune motivo di fondo, la restaurazione del primato del pensiero, che, in definitiva, si converte in un sostanziale antropocentrismo. “L’uomo è misura di tutte le cose”: l’antico principio protagoreo continua a dominare così il quadro del pensiero, dando alla linea del Novecento un carattere unitario, che è quello di un assoluto umanismo. Heidegger occupa un posto centrale in questo panorama. Il suo apporto alla rinascita della filosofia come pensiero dell’essere (nel duplice senso soggettivo e oggettivo di questo genitivo) ha una consistenza di straordinario rilievo. Si può dire che mai una crisi così estesa aveva investito il corso della storia, come quella che si aprì nel mondo occidentale alla fine dell’Ottocento. Essa riguardava nello stesso tempo la metafisica e la scienza, l’identità dell’uomo e il mito della felicità e del progresso. La repentina caduta del “fondamento” (la nietzschiana “morte di Dio”), la retrocessione dell’uomo al rango dell’animalità, la scoperta della duplice istintualità umana rilevata da Freud, il carattere ipotetico e provvisorio dei dati scientifici, il sopravvento dell’irrazionale e la messa in discussione della ragione stessa, dunque il primato dell’azione come fine a stessa: tutto ciò (e altro ancora) rappresenta l’età del nichilismo, allorché veramente all’uomo non è dato nessun indizio intorno alla sua stessa identità. Da qui anche la forte reazione antinichilistica, della quale è stato protagonista il pensiero nell’età tra i due secoli. La crisi delle scienze allora ebbe come risultato un rinnovamento interno che diede luogo al superamento del sistema classico delle scienze matematiche e fisiche; mentre sul versante filosofico la ripresa avveniva intorno alla possibile rinascita della metafisica attraverso il recupero della problematica del soggetto come luogo del fondamento stesso. La ripresa ebbe in primo luogo una connotazione neoidealistica. Croce ha cercato di elaborare un sistema sotto il titolo di “filosofia dello spirito” e con la forma di una metafisica dell’essere storico. Egli risaliva all’assunto vichiano, che l’uomo può conoscere solo il mondo storico che è il risultato della sua attività. In tal modo era possibile riproporre in tutto il suo
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significato il tradizionale umanesimo, che lo stesso filosofo ha contribuito a illustrare attraverso la sua multiforme attività di critico e di storico. La concezione dell’essere come soggetto, che era il perno concettuale dell’idealismo, toccava il punto culminante nell’attualismo dell’altro grande rappresentante della cultura italiana del primo Novecento, Giovanni Gentile. La filosofia del soggetto, basata specialmente sull’analisi trascendentale della coscienza, trovava il suo terreno più adatto nell’intuizionismo, nella fenomenologia, nell’esistenzialismo. Il complesso panorama delle correnti che hanno tenuto banco nel corso dell’intero Novecento comprende diramazioni e derivazioni di quelle posizioni fondamentali. In complesso si può dire che il tema intorno a cui ha ruotato il pensiero è lo sviluppo di una nuova conoscenza dell’uomo. L’antropocentrismo, piuttosto che essere esorcizzato, si è riproposto nella sua forma più estesa. Del resto è naturale che un’attività così umana abbia come suo oggetto di riflessione il ruolo, il significato e il destino attuale dell’uomo. Si è affermata, nel Novecento, una corrente che genericamente si può definire come un “realismo spiritualistico”: una concezione per cui il reale originario è dotato di una struttura spirituale, si configura come un centro di vita spirituale, è attività inarrestabile rivolta verso uno scopo, assume, organizzandosi, la figura della “persona”, in quanto si riconosce come “pensiero di sé”. Si tratta dell’orientamento maggiormente sintonizzato con la teologia. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, dunque, il sistema “classico” della metafisica (e nello stesso tempo quello delle scienze) si dissolse, per iniziativa specialmente del Nietzsche, che instaurò l’età del nichilismo attraverso l’esercizio del pensiero negativo. Il sistema dei valori rovinò precipitosamente. Per millenni gli uomini avevano creduto in un sistema di valori immutabili (il bene, il giusto, il bello, il vero, il razionale, l’ordinato e l’armonico, e così via), considerato come la stessa bussola dell’umanità. Ora d’un tratto essi si trovavano come sospesi sopra un abisso, privi di quella possibilità di riferirsi a quel “fondamento” che era stato l’unica ancora di salvezza. Si può dire che, a parte lo sviluppo di atteggiamenti irrazionalistici, attivistici, volontaristici, piuttosto indotti dal clima dei tempi e dunque di carattere prevalentemente ideologico, la reazione della filosofia in nome di una restaurazione metafisica è stata abbastanza forte e condotta con notevole successo (almeno sul piano teorico della riflessioni). Una roccaforte della resistenza fu allora la scuola dell’hegelismo napoletano, custode dell’eredità di Bertrando Spaventa e poi portato a nuova vita da Croce e Gentile. Un altro filone ricco di motivi di rinnovamento era lo spiritualismo francese, alimentato dalla tradizione ottocentesca illustrata specialmente da Cousin. Boutrouz, Ravaisson e poi lo stesso Bergson mettevano l’accento sulla creazione spirituale che coinvolge l’intera realtà. Poi c’era la grande eredità kantiana, che direttamente alimentava le forme di neokantismo, specialmente floride in Germania. In Italia il confronto si sviluppò intorno a indirizzi diversi, tra i neohegeliani, i neokantiani, i pragmatisti, gli spiritualisti, gli epigoni del positivismo. Un contributo in senso storicistico era dato dal Labriola. Insieme combattevano la lotta per la restaurazione razionalistica e contro il vitalismo irrazionalistico. Masci, Varisco, Labriola, Vailati, Calderoni, Martinetti condussero il pensiero filosofico a livelli ragguardevoli, pur sommersi dall’egemonia crociana e gentiliana che si andava profilando in modo indiscusso. Non mancarono i rappresentanti del pensiero scientifico, come l’Enriques, a contrastare la tendenza dominante a sottovalutare la componente matematica della cultura.
Il Novecento: la dissoluzione della sintesi ideal-razionalistica e le ipotesi di ricostituzione (ripresa) della metafisica Kant ha messo in rilievo che l’oggettività appartiene alla scienza costruita sull’elaborazione dell’esperienza attraverso l’applicazione dei principi trascendentali. In questo senso la metafisica potrà tornare ad essere possibile oltre la sfera dell’oggettività, su quel piano che, appunto, considera la realtà come soggetto. Kant ha spianato la via all’idealismo. La metafisica riguarda la concezione della realtà non come semplice oggettività bensì come totalità di soggettività e oggettività. La storia della metafisica dopo Kant è la storia di questo nuovo modo di intendere il reale. Il soggettivismo (e l’oggettivismo conseguente) moderno ha portato alla crisi e alla dissoluzione della metafisica. Kant ha dimostrato che sul piano che rende possibile la scienza oggettiva non è possibile dar luogo a una metafisica e che questa rinvia a un piano diverso di esperienza della soggettività, cioè a quella che più recentemente è stata indicata come esperienza metafisica. Nella filosofia del Novecento si è specialmente sviluppato il dibattito intorno a questo tipo di esperienza, implicante il superamento dell’astratta contrapposizione tra soggettività e oggettività. La metafisica non può trovare posto nel campo del reale in quanto oggetto di conoscenza scientifica; essa deve far capo a una dimensione diversa da quella
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che costituisce la condizione della scienza oggettiva e a un tipo di conoscenza che attinga la sua legittimità (e validità) dall’attività significante del soggetto. Come rilevava Kant, la metafisica è un’esigenza dello spirito: essa risponde alla necessità rilevata dalla stessa ragione (non più semplicemente scientifica) di colmare il deficit della scienza oggettiva mediante significati che esorbitano dal campo strettamente scientifico del verificabile. Gli indirizzi della filosofia contemporanea approfondiscono, in modi diversi, la problematica relativa alla fondazione di significati e ambiti significativi di ricerca. Ciò avviene, ad esempio, con la fenomenologia, lo storicismo, l’esistenzialismo, lo spiritualismo e l’ontologismo, ma anche col pragmatismo, con la filosofia analitica, l’empirismo logico e così via. Tutte queste filosofie hanno a che fare non tanto con ambiti di realtà quanto, invece, con ambiti di significati. E tali ambiti hanno tutti una dimensione metafisica, nel senso, appunto, che si tratta di una dimensione diversa da quella che costituisce l’oggetto delle scienze empiriche. L’esperienza non è solo quella che sta alla base della costruzione del sapere scientifico. E, per la produzione soggettiva dei significati, non può farsi appello a un criterio univoco di fondazione e di verificazione: si tratta di atti della coscienza (e del pensiero) che trovano la loro giustificazione in se stessi o nella capacità che essi hanno di enunciare “verità”, di esprimere valutazioni intorno al senso delle cose. La scienza è forse l’unica che ci pone di fronte a dati universali. Ma non sono da escludere altre fonti della verità e del significato: così, ad esempio, si è potuto parlare di una metodologia dell’inverificabile.1 Indubbiamente si è rilevata la differenza tra la conoscenza scientifica e gli altri tipi di conoscenza. Bergson, in particolare, ha rilevato i limiti della conoscenza intellettuale, basata su parametri e schemi fissi come quelli di spazio e di tempo, e ha fatto emergere, nello sviluppo del suo pensiero, le possibilità che si aprono all’intuizione, all’immaginazione, al sentimento del tempo come “durata” capace di scandire i ritmi dell’esperienza interiore. E ciò costituisce la principale via alla nuova metafisica. In questo senso, cade la critica alla metafisica condotta dalle correnti neopositiviste in nome del paradigma del metodo delle scienze empiriche come l’unico in grado di consentire una qualsiasi scienza. Un apporto decisivo, a questo proposito, è quello recato dalla fenomenologia, che ha evidenziato la complessa problematica dei significati e dei processi di significazione. Il neopositivismo riduce l’intera sfera dei significati al piano dei significati scientifici (oggettivi). La fenomenologia ha rilevato come il problema dell’esperienza significante rimanda allo studio degli atti intenzionali che fondano i significati. Si tratta di esplorare la sfera in cui i significati hanno il loro terreno di fondazione e considerare i livelli di realtà e di esperienza ai quali si riferiscono. E se ancora il nostro tempo è occupato prevalentemente dalla scienza, possiamo chiederci quali altri grandi ambiti di significati attraversano la cultura attuale, anche se non sentiamo più l’urgenza di porci alcune domande (come quelle classiche sul senso della vita) e di cercare più radicali risposte. Indubbiamente l’età della crisi della metafisica è l’età del nichilismo. La metafisica, infatti, rinvia a significati che vanno oltre il mondo fenomenico dell’oggettività scientifica.
La crisi di fine secolo Negli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del nuovo secolo si abbatté sul sistema della cultura occidentale una crisi profonda, che investì i principi fondamentali sui quali si era basata una millenaria tradizione di pensiero. Lo stesso concetto dell’uomo come essere razionale (secondo la celebre definizione di Aristotele) sembrava essersi dissolto di fronte all’ipotesi darwiniana dell’appartenenza della specie umana al generale sistema dell’evoluzione e della selezione naturale, secondo la quale solo lo sviluppo di un apparato di funzioni adattive particolarmente complesso aveva determinato la condizione privilegiata dell’uomo come presenza eminente nell’intero sistema della natura. Freud dimostrava quindi che questo essere fornito di intelligenza in realtà è portatore di una carica istintiva particolarmente articolata, ricca e complessa, recante in sé le due opposte tendenze della vita e della morte, della ragione costruttiva e della follia distruttiva. Nietzsche interpretava il clima della generale crisi dei valori e dei principi sui quali si era basata la grande tradizione della metafisica e della morale, con la ferma convinzione dell’intelligibilità del reale e della universale validità delle leggi scientifiche e della “verità” del sapere concettuale. Egli, in particolare, aveva tracciato il profilo della nuova umanità, sulla base dell’idea del potenziamento dell’uomo, attraverso l’abbandono dell’intero
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P. Prini, G. Marcel e la metodologia dell’inverificabile, Studium, Roma 1950
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apparato concettuale dell’immutabile essere e l’assunzione e la valorizzazione di elementi culturali propri della cultura antica presocratica, specialmente legati a quell’aspetto che era stato una componente essenziale dello spirito greco, il “dionisiaco”, e che era stato interamente rimosso con l’avvento della visione razionalistica. Il “superuomo” avrebbe dovuto riproporre l’originale sintesi di spirito apollineo e di spirito dionisiaco, esaltando i motivi della vitalità cosmica, della fondamentale unità del Tutto, dell’”innocenza del divenire”. La cultura razionalistica appariva come inadatta a interpretare il nuovo slancio dell’umanità verso traguardi inediti di potenza e di dominio del reale. In particolare, essa aveva prodotto uno schema di realtà essenzialmente dualistico, basato sulla contrapposizione dell’essere eterno all’esistenza finita, dell’immutabile al mutevole, dell’assoluto al relativo. Nietzsche, ipotizzando la fine della storia, intendeva anticipare lo spirito del futuro, sulla base del mito dell’”eterno ritorno” dell’eguale. Egli ha indubbiamente contribuito al consolidamento della crisi generalmente identificata come “avvento del nichilismo”. Si determinò allora qualcosa come un “vuoto” culturale, caratterizzato dall’assenza di linee sicure di orientamento, dal declinarsi in negativo della stessa concezione dell’uomo. Perciò si è avuta la particolare proliferazione delle avanguardie artistiche, giustificate, appunto, dallo spirito della ricerca di linguaggi nuovi, dal bisogno di percorrere strade inedite, di ripartire da zero. In tale clima si scatenarono tendenze qualificate generalmente come “vitalistiche” e “irrazionalistiche”: ma si trattò di ideologie che non hanno trovato nessun aggancio sul piano della riflessione e del pensiero filosofico.2 Esse rimasero confinate al livello subculturale e pseudopolitico degli atteggiamenti di dimostrazione e di protesta: il dannunzianesimo può essere indicato come l’esempio tipico, il futurismo l’espressione più significativa sul piano di una certa impostazione teorica. Più esteso e generale è stato allora, invece, il moto di reazione al vitalismo dilagante. Si può dire che le forze del pensiero si siano mobilitate in vista di una articolata controffensiva: neokantiani, neoidealisti, positivisti, pragmatisti, spiritualisti, ontologisti, neoscolastici si sono trovati d’accordo nel combattere le forme di irrazionalismo che affioravano all’orizzonte, contribuendo, in modi diversi, a una vasta opera di “restaurazione” razionalistica, talvolta arricchita da spunti di impostazione nuova e di nuovi percorsi teoretici. Lo storicismo assoluto di Croce, ad esempio, si presenta come una filosofia etica di intenso rigore razionale. Lo spirito, che è l’essenza della realtà e della storia, è progressiva affermazione della legge morale, intesa come principio autonomo della ragione e quindi come espressione della libertà. L’arretramento dell’etica sul piano della “volontà di potenza” appariva come una tappa del cammino a ritroso, verso l’oscuramento della ragione e l’annullamento della libertà, con il consegnarsi dell’uomo alle forze oscure della vita e della lotta per l’esistenza. Non si può non riconoscere alla filosofia crociana di essere l’espressione di un impegno per la restaurazione della razionalità nel mondo. Invece un vero e proprio camuffamento del vitalismo irrazionale sotto la veste dell’idealismo etico appare l’attualismo del Gentile (almeno nel suo esito pratico). In questa prospettiva ogni distinzione finisce per annullarsi. Tutto si risolve nel processo “attuale” di svolgimento dello spirito, nella forma del “pensiero pensante”; né è possibile distinguere teoria e prassi, etica e conoscenza. In questo senso non rimane che giustificare il processo storico nella sua concreta attuazione. I fatti storici, per la sola ragione che sono accaduti, sono tutti giustificati; e non c’è che consegnarsi e affidarsi al processo dello svolgimento spirituale in atto. In questo senso non emerge nessun dubbio, nessun sospetto intorno alla legittimità del dato, nessuna messa in questione di ciò che avviene. L’attualismo si risolveva in una filosofia dell’irresponsabilità. Questa è anche la ragione per cui i discepoli di Gentile hanno dato ben presto luogo a una molteplicità di sviluppi, con l’intento fondamentale di restaurare una sfera di valori etici definiti (o attraverso il sostegno del tradizionale spiritualismo o quello del razionalismo etico o anche del problematicismo critico). Carlini, Sciacca, Spirito, Contadini, Guzzo, Chiavacci sono i principali esponenti della scuola gentiliana che hanno
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L’epoca storica è quella della grande espansione europea, della lotta per il controllo delle risorse del pianeta, di una disperata ricerca di “spazi vitali”, alla quale l’Italia stessa partecipa. La prima metà del secolo è attraversata da questa corrente inarrestabile di vitalismo, nella quale le spinte vitali, inconsce, irrazionali, costitutivamente perverse, sono spesso camuffate sotto un apparente abito di idealismo etico o di progressismo pratico. Sullo sfondo risalta lo “spettro del comunismo”, la lotta dei lavoratori, il conflitto di classe alimentato dalla volontà di emancipazione dallo sfruttamento, da una parte, e dalla spietata affermazione del capitalismo industriale dall’altra.
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percorso vie autonome, nell’intento di ritrovare e riaffermare il principio della responsabilità etica in un’epoca di smarrimento dei valori metafisici ed etici. La denuncia del “nichilismo” veniva, intanto, avanzata dai filosofi più importanti, che hanno dato luogo alle correnti più significative. I neokantiani hanno cercato di far rivivere il razionalismo critico come richiamo a una visione consapevole, capace di riconoscere e rimuovere le tendenze irrazionalistiche e misticheggianti. In generale era così riaffermata l’esigenza di una cultura basata sullo sviluppo della scienza, unitamente a quello di un’etica responsabile, di portata sempre più universale. Il kantismo è essenzialmente la ricerca di valori e strutture culturali validi per tutti gli uomini. La fenomenologia suona come un analogo richiamo alla necessità di sottoporre il molteplice movimento dello spirito all’analisi razionale e di ricostituire la filosofia come indagine rigorosa volta a rappresentare una forma di scientificità peculiare. L’intera sfera delle manifestazioni culturali sarebbe, in tal modo, sottoposta al controllo di una scientificità razionale. L’ideale di Husserl è lo sviluppo di un’umanità razionale, fornita di un tale strumento di analisi e di controllo della razionalità di ogni attività intenzionale. L’analitica esistenziale di Heidegger sviluppa il motivo della finitudine dell’uomo e, in questo senso, richiama l’uomo ad esaminare se stesso, a un atto di estrema responsabilità etica. In tal modo l’uomo è richiamato a riflettere sulla sua libertà, sulla possibilità di progettarsi, sulle modalità in cui egli può scegliere se stesso, senza consegnarsi passivamente a una situazione già determinata. L’uomo è libero ma è nello stesso tempo un ente “gettato” in una situazione insuperabile. Si tratta, allora, di dar fondo a tutte le risorse dell’esistenza come possibilità e come scelta. Secondo Heidegger ciò sarà possibile attraverso un’operazione culturale che impegna profondamente la stessa filosofia in un’opera di trasformazione e di mutamento di rotta sul cammino storico dell’umanità. Il richiamo al problema dell’essere intende essere un invito a questa svolta. L’intero sviluppo della filosofia del “secondo Heidegger” ha questo significato: è un tentativo di attuare un tale mutamento di rotta verso la ricerca (e l’attuazione) dell’autentica umanità. L’oblio dell’essere si configura anche e principalmente come oblio e nascondimento dell’essere dell’uomo. L’errore insito nella situazione storica induce il filosofo ad andare fin verso le origini dell’orientamento storico dell’umanità europea (e della cultura occidentale), per cogliere il momento in cui l’errore si è annidato e, possibilmente, per disporre le condizioni del suo oltrepassamento. Si possono riconoscere in questa filosofia le coordinate di pensiero più appropriate alla riflessione su una condizione di crisi radicale. Il dominio della tecnica, infine, appare come la manifestazione evidente dell’alienazione umana, per cui l’uomo appare irrimediabilmente (o quasi) “gettato” e consegnato al destino di forze che gli sono estranee (e anche nemiche). Altri filosofi hanno messo in rilievo aspetti particolari di tale situazione. Perciò si può parlare della filosofia (o, meglio, dei filosofi) di fronte al dramma del nostro tempo. Un senso tragico attraversa, perciò, la filosofia del Novecento. Tuttavia appare positiva la volontà di trovare una via per sfuggire all’errore, per restaurare la fiducia nella conoscenza e nella ragione etica. Il discorso degli idealisti (neoidealisti) appare, in questo senso, ampiamente meritorio. Pur in un contesto ampiamente problematico, la riaffermazione di quella fiducia è un segnale, se non altro, del nostro bisogno di punti di riferimento teoreticamente argomentati e dimostrati come rispondenti ai principi profondi della razionalità. Altre filosofie hanno inteso interpretare la volontà di ripresa dopo la crisi della prima metà del secolo. Intorno agli anni cinquanta si colloca la massima fortuna delle correnti neorazionalistiche, pragmatistiche, neopositivistiche. Il pragmatismo si è sviluppato già nei primi decenni del Novecento, in nome della fiducia incondizionata nel progresso scientifico e tecnologico. Esso ha interpretato la volontà umana di procedere a una pianificazione globale in rapporto alle esigenze del progresso, del miglioramento delle condizioni di vita attraverso la disponibilità di tutte le risorse naturali. Mai come allora il mondo è apparso a portata della mente e della mano dell’uomo. Tutte le cose si presentavano sotto l’aspetto dell’utilità e dell’utilizzabilità, cioè come elementi del consumo e come mezzi per conseguire scopi prefissati. Il pragmatismo sosteneva la subordinazione del pensiero alla prassi e questa era intesa come processo di pianificazione del mondo. Nel secondo dopoguerra l’espansione dell’influenza americana nel mondo ebbe come suo aspetto anche la diffusione del pensiero d’oltreoceano nel nostro continente. Dewey divenne il simbolo di una filosofia eminentemente pratica, rivolta a risolvere i problemi della vita quotidiana e a promuovere un sistema basato sull’esaltazione delle potenzialità individuali nell’ambito di una società aperta, profondamente rispettosa delle libertà personali e dunque governata secondo i principi della democrazia. Questi risvolti politici erano
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specialmente attuali, in quanto la democrazia anglosassone e americana appariva come il modello da contrapporre al sistema sovietico imperante nei paesi dell’est europeo. Questa corrente, quindi, bene rappresenta la divisione del mondo in blocchi contrapposti e concorrenti l’uno rispetto all’altro. Si può dire che allora il marxismo, che si richiamava al modello hegeliano della dialettica, ebbe maggiore fortuna, almeno sul piano dello sviluppo teoretico come strumento di analisi dei problemi sociali e di tutte le manifestazioni culturali. Questa corrente si adattava all’interpretazione delle componenti sociali nello sviluppo della cultura e della storia. Infatti non vi è aspetto o fenomeno della civiltà umana che non abbia una qualche dimensione sociale, riferita all’organizzazione della società nei diversi momenti storici. Il marxismo si alimentò analogamente dai fermenti insiti nella situazione storica, con la contrapposizione dei due blocchi dell’organizzazione politica ed economica. Il dibattito all’interno di questa corrente, con l’immissione di elementi critici, che via via finirono per disgregare la compattezza del sistema, ha progressivamente condotto a una filosofia configurata come componente critica del dialogo culturale nell’ambito dell’orientamento generalmente neorazionalistico. Si sono avute forme di sintesi e d’incontra tra neorazionalismo, neopositivismo, neopragmatismo e marxismo. La stessa prospettiva del mondo diviso tra due ideologie inconciliabili è andata indebolendosi, in concomitanza con l’abbattimento del muro (materiale e simbolico) che separava le due sfere e il risultato, sul piano teorico, è la formazione di un nuovo storicismo critico e, sul piano pratico, lo sviluppo di un sistema pluralistico, ampiamente attestato sul piano della democrazia e in una posizione di dialogo aperto. In questo senso di parla di crisi delle ideologie. Oggi la filosofia adempie specialmente a un compito ermeneutico. Essa si presenta come la scienza o la disciplina dell’interrogazione e della risposta. L’ermeneutica ha le sue radici nell’attività edipea di scioglimento e spiegazione di un enigma. Essa comprende l’arte della formulazione delle domande, così come quella corrispondente di trovare e formulare le risposte. Ogni testo (non solo letterario o filosofico o scientifico o religioso) è la formulazione di una serie di domande; esprime, cioè, la stessa condizione enigmatica dell’uomo nel suo tempo. Si tratta di cogliere e individuare tali domande e le risposte che ad esse vengono date nel contesto della cultura e della società. Si tratta di un compito che la filosofia è venuta assumendo nell’età della massima interrogazione dell’uomo verso se stesso. L’uomo come enigma è venuto emergendo dalla cultura del Novecento, in seguito alla grande crisi di fine Ottocento. Venuto meno il “fondamento” ed entrati nell’età del nichilismo, la filosofia si è venuta configurando come una specie di pensiero errabondo, la cui caratteristica principale è, appunto, l’errare, l’andare e il sostare presso problemi e situazioni problematiche, senza chiare prospettive di soluzione. Edipo non è più il grande e sicure risolutore degli enigmi; piuttosto egli ha preso il posto della Sfinge e si è installato nella cultura del nostro tempo come l’essenza stessa del domandare, l’enigma che è insito in ogni manifestazione e in ogni forma dell’esistenza. L’ermeneutica non è tanto la scienza della risoluzione degli enigmi e della risposta alle domande radicali, piuttosto è la disciplina della radicalizzazione delle domande stesse nella forma dell’enigma, di un enigma che è destinato ad attendere sempre il suo scioglimento e la sua risposta. La risposta, infatti, non arriverà mai. Essa, piuttosto o almeno, si annuncia, balenando in una frammentaria intuizione, in una figura labile, in un’ombra di concetto, in una traccia confusa, in una parvenza di verità. L’Ermeneutica si sofferma a cercare di decifrare queste tracce che alludono a una risposta ma che rimangono lontane da essa.
Il compito della filosofia oggi Ma la filosofia conserva ancora questa sua caratteristica originaria? La filosofia del Novecento presenta indubbiamente tentativi notevoli per tornare ad essere una proposta positiva di conoscenza ed ha elaborato alcune ipotesi “metafisiche” di visione generale del mondo, di comprensione critica della “totalità” del reale. Si tratta, poi, di vedere come tutti questi tentativi abbiano resistito a un’ulteriore ondata nichilistica oppure siano stati travolti proprio dalle vicende culturali che hanno finito per imporre, nell’età della tecnica, modelli che preludono a una vera e propria “fine della filosofia”.3
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Di “fine della filosofia” ha parlato Lucio Colletti, in un interessante saggio apparso sull’Almanacco di filosofia del 1996 di “MicroMega”. Egli ha rilevato come le due forme prevalenti in cui si è venuta articolando la filosofia, cioè
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Emanuele Severino ha inteso riportare alla “logica” dello stesso sviluppo del pensiero occidentale la ragione del fallimento della filosofia come antidoto all’imprevedibilità del divenire. Questo pensiero, nel corso della sua storia, avrebbe proceduto all’annullamento fittizio e illusorio del divenire stesso, ponendo al suo posto un universo di strutture immutabili, perfettamente conoscibili e dominabili. Ma improvvisamente, negli ultimi decenni dell’Ottocento, e specialmente per opera di Nietzsche, questo edificio dell’universo, concepito come una macchina perfetta, del reale razionale e della stessa umanità come espressione dello Spirito, è precipitato rovinosamente. La cultura dei primi decenni del Novecento è l’attestazione eloquente di un’epoca di smarrimento, di perdita di ogni certezza, di disperata dichiarazione d’impotenza intorno alle possibilità umane di conoscere e dominare il multiforme e sfuggente processo di trasformazione delle cose.4 L’immagine della realtà come sviluppo dialettico di un Principio considerato come Spirito, Ragione o Idea, si è dissolta e al suo posto è subentrata, nella migliore delle ipotesi, quella bergsoniana della realtà come processo imprevedibile di creazione, con la formazione di strutture imprevedibili, in quanto riferite a salti qualitativi nell’organizzazione del reale. Il Severino si è chiesto come tutto ciò è stato possibile. Egli osserva, appunto, che proprio la logica dell’annullamento del divenire, che ha guidato lo sviluppo del pensiero, si è infine rivelata come “il rimedio peggiore del male” (secondo un’espressione di Nietzsche). Infatti, cancellato il divenire, il mondo è tornato a configurarsi come un enigma indecifrabile. Perciò si è posto il problema di cancellare proprio quella “verità” che si era profilata come il rimedio infallibile contro l’imprevedibilità del divenire. Nietzsche ha esortato gli uomini a recuperare il senso della cultura greca antecedente all’affermazione del razionalismo socratico e platonico, a riconoscere ed accettare la fondamentale tragicità dell’esistenza, a “dire sì alla vita” e non a volerla annullare mettendo al suo posto l’immagine di un universo perfettamente ordinato.
Le tendenze della filosofia del Novecento La filosofia contemporanea appare divisa tra due itinerari opposti. Da una parte essa intende fare tesoro della lezione nietzschiana, cercando vie alternative al pensiero razionale, recuperando il senso della vita e il divenire stesso come estrema imprevedibilità. Dall’altra parte, ha compiuto quei tentativi a cui accennavamo prima, riproponendo la validità del discorso metafisico e collocando proprio il problema dell’essere al centro della riflessione. Il Severino ha esaminato puntualmente le molteplici forme in cui la filosofia del Novecento ha inteso attuare la negazione dell’epistéme, sulla scia del programma nietzschiano di un pensiero nuovo, aperto alle manifestazioni della vita al di là di ogni ordine e di ogni conoscenza certa. In primo luogo abbiamo quella forma che si configura come crisi della metafisica, cioè come rimozione dallo spazio del pensiero della categoria di “totalità”. Si esclude la stessa intelligibilità del reale.5 come metafisica, scienza della totalità del reale, e come epistemologia, cioè come critica della conoscenza scientifica, siano oggi esposte a una crisi radicale. A tale proposito riporta un giudizio di Hilary Putman, secondo il quale “le imprese volte a fornire una fondazione dell’Essere e della Conoscenza […] sono fallite disastrosamente”. 4 Ricordiamo, per tutte, la famosa constatazione del poeta Eugenio Montale di poter solo dire “ciò che non siamo”. 5 “La filosofia cessa di essere ‘metafisica’ – cioè conoscenza che si porta oltre l’esperienza per stabilire i confini della totalità dell’essere – e si spezza in una pluralità di teorie particolari: psicologia, logica, sociologia, riflessione critica sulle varie forme della scienza moderna, storiografia” (E. Severino, op. cit., p. 21). Quella volontà di dominare il divenire mediante la metafisica come visione del senso della totalità del reale, così, “conduce appunto alla distruzione di ogni verità e realtà immutabile e definitiva” (ib.): “E’ l’originario senso filosofico del divenire a spingere al dissolvimento della filosofia nella scienza, cioè al dissolvimento della comprensione della totalità nella conoscenza analitica delle parti della realtà diveniente; è l’originario senso filosofico del divenire a spingere al ‘culturalismo’ che caratterizza gran parte della cultura del nostro tempo” (ib.). In effetti, il dissolvimento della categoria di “totalità” implica la dissoluzione dell’idea di una scienza unitaria del reale: la stessa filosofia rinuncia al suo ruolo di ipotesi intorno alla totalità, all’essere, e cede il posto alle scienze particolari, che considerano settori specifici dell’esperienza. In questo senso sono destinate ad affermarsi le scienze specialistiche, mentre viene accantonato qualsiasi tentativo di unificazione della visione scientifica. “Da un lato – come spiega ancora il Severino – si nega l’esistenza di un senso, Fondamento, Centro che raccolgano in unità la totalità delle differenze – sì che la realtà appare dissolta in una molteplicità infinita di parti che possono stare tra loro soltanto in una relazione accidentale; dall’altro lato, questa
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L’altro orientamento, incline a riproporre i motivi più validi del percorso storico della filosofia, e dunque a recuperare motivi della tradizione razionalistica e metafisica, si svolge, secondo il Severino, in maniera complementare al primo, che abbiamo visto, favorevole al dissolvimento della filosofia come comprensione unitaria del reale. In realtà, la critica al razionalismo e alla metafisica era avvenuta quasi all’improvviso e subito dopo la grande espressione dell’idealismo. Era, pertanto, naturale che, nell’ambito del pensiero, si avvertisse l’esigenza di assimilare meglio i motivi propri degli ultimi sviluppi della filosofia e che si tentasse di verificarne ancora la vitalità, prima di una definitiva messa da parte. Questo fatto e anche l’esigenza di un pensiero propositivo, che fungesse da antidoto al nichilismo, determinarono il sorgere di una molteplicità di correnti, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, tutte rivolte a riassorbire motivi della tradizione filosofica, proponendo ipotesi di visione sintetica della realtà e lavorando, in definitiva, per la rinascita della metafisica. Le istanze tipiche che agivano nella filosofia dell’Ottocento, il criticismo, l’idealismo, il positivismo, il realismo, l’ontologismo, lo spiritualismo, lo storicismo, il materialismo storico, il fenomenismo, e altre ancora, continuarono a dominare il panorama del pensiero della prima metà del Novecento. Alla rinascita della metafisica il pensiero italiano ha dato contributi consistenti e significativi. Si può dire che i filosofi italiani, che diedero anche notevoli contributi all’approfondimento degli studi storici sul pensiero antico e moderno, hanno ripercorso tutte le vie della metafisica tradizionale, con proposte talvolta piuttosto deboli ma sempre originali e aderenti alla linea unitaria di sviluppo del pensiero occidentale. In primo piano balza la grande questione del soggetto come ambito nel quale si sviluppa ogni concezione del mondo, ogni visione e interpretazione della realtà. E questa è anche l’eredità del filosofo che porta alla sua maturazione critica il pensiero moderno, cioè Kant. Kant, come sappiamo, è l’autore della celebre “rivoluzione copernicana” in filosofia: egli ha posto il soggetto umano al centro del sistema della conoscenza. Non è più, cioè, il reale in sé il centro di questo sistema, bensì al centro si pone il soggetto che conosce, con la sua mente o “ragione”. Kant ha esaminato il sistema delle facoltà conoscitive (indicato generalmente come “ragione”), per vedere come esso funziona nello sviluppo dei processi conoscitivi.
Le condizioni della ripresa metafisica nella cultura del Novecento. La metafisica nel dibattito tra le correnti del pensiero odierno. Si tratta di verificare l’affermazione di Nietzsche che la metafisica recava in sé il germe della sua dissoluzione. La metafisica era stata la messa tra parentesi del divenire come inarrestabile circolo di nascita e morte e l’assunzione, al posto di questa fondamentale “verità”, dell’errore dell’essere, coincidente col pensiero dell’immutabile, contro ogni evidenza dell’esperienza. Come si è potuto esorcizzare il divenire? Supponendo che il mondo del divenire non sia altro che un mondo apparente, dietro il quale si cela l’ordine immutabile del tutto; ponendo, come una necessità della ragione, il Fondamento, il Principio, l’Assoluto. La storia della filosofia è, in effetti, la storia di questo Principio, diversamente configurato nelle varie dottrine, ma ad ogni modo considerato come la struttura immutabile delle cose. I Greci, fondando la filosofia, hanno dato consistenza concettuale (tanto da identificarla col “logos” stesso) a questa struttura, dapprima chiamata il “Principio”, l’arkè, la stessa materia essenziale dalla quale derivano e alla quale si riconducono tutte le sostanze e tutti i fenomeni. Questo Principio o Fondamento è stato la grande invenzione della ragione, allorché i Greci incominciarono a intenderla come la facoltà della scienza certa, del sapere assoluto. Da Talete frantumazione della realtà totale si rispecchia nella frantumazione della conoscenza della realtà” (op. cit., pp. 21-22). In tal modo si definisce l’orientamento generale della cultura contemporanea. “Con la crisi dell’epistéme e della metafisica viene quindi meno l’atteggiamento della tradizione filosofica che intende la conoscenza della verità come guida dell’azione umana e innanzitutto dell’azione morale e politica. Si nega che la vita dell’uomo possa avere un qualsiasi ‘fine di diritto’ – nell’ordine dell’universo – e si riconosce che i fini dell’uomo sono soltanto quelli che egli sceglie liberamente, non garantito da altro che dalla sua volontà di migliorare la propria esistenza nel mondo. La questione decisiva non è più la contemplazione della verità del mondo, ma la trasformazione pratica di esso in base ai progetti liberamente costruiti dall’uomo” (op. cit., p. 22).
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a Hegel si può dire che si sia compiuto il corso di questo concetto, coincidente con la consistenza della stessa filosofia. Nietzsche, in questo senso, sarebbe il vero profeta della fine della filosofia. Egli, infatti, ha dichiarato che né l’Essere e né la Scienza dell’Essere hanno consistenza di verità. La filosofia, in questo modo, sarebbe stata l’errore dell’Occidente, l’inganno fatale, sfociato, infine, in una specie di “malattia mortale”, in un fattore di dissoluzione della stessa civiltà occidentale, poggiata, per secoli, su quella verità improvvisamente dissolta. Ma che forma di verità ha questa affermazione nietzschiana, o almeno che grado di attendibilità le si può attribuire? Non può essere una manifestazione del “risentimento” di questo intellettuale, preso dalla volontà di sovvertire radicalmente un ordine mentale, di distruggere millenni di storia? In realtà Nietzsche non ha goduto di buona fama nei primi decenni del Novecento, a parte certe suggestioni irrazionalistiche che non vanno confuse con la filosofia e forse neppure con la serietà del pensare. Tuttavia la profezia nietzschiana sembrava avverarsi allorché ideali e strutture razionali, verità e valori precipitavano nell’abisso della guerra mondiale (e, se ciò non bastasse, in quello, ancora più tragico e abissale, di una seconda guerra). Eppure i filosofi resistevano, continuavano a professare ottimismo e fiducia nella ragione. Sia dopo la prima che dopo la seconda guerra si parlò di “ricostruzione”, del dovere di rivedere dettagli dell’ordine universale, ferma restando l’impalcatura di base, costituita da quegli stessi valori e concetti che avevano intessuto la storia del pensiero occidentale. Si può anche dire che, nella nuova contingenza, i filosofi hanno cercato di percorrere vie nuove, di aggiornare e rinnovare gli strumenti del pensare, di adeguare l’arredo concettuale ai nuovi compiti. Sono sorte filosofie nuove, come completamento e aggiornamento di alcune grandi correnti del pensiero moderno (come il criticismo kantiano e lo stesso idealismo). La stessa critica al razionalismo idealistico e specialmente ad Hegel assunse l’aspetto meno radicale e più meditato dell’analisi esistenziale di Heidegger. Nello stesso tempo si moltiplicavano le indagini storiografiche intese a lumeggiare nei minimi particolari gli aspetti del pensiero lungo il suo percorso storico. L’età della crisi della filosofia era anche l’età della storiografia. In tale temperie culturale Nietzsche era quasi dimenticato. Eppure il divenire mostrava il suo aspetto più assurdo e irrazionale, più oscuro e imprevedibile. Questa natura irrazionale del divenire si può dire che sia anche alla base di quell’aspetto tipico della civiltà contemporanea che coincide con l’affermazione della tecnica. La tecnica è indubbiamente un fattore del divenire. Essa ha impresso un’accelerazione alla storia che è al di là di ogni previsione. La tecnica è apparsa come il mostro divoratore che tutto inghiotte e afferma solo se stesso. Essa si è configurata come una forza irresistibile, che non vuole altro che il suo perfezionamento e la sua espansione. Questa immagine potrebbe anche corrispondere a una nostra tendenza a “mitologizzare” un evento storico. Ma la ragione di questa perdita, per così dire, del controllo critico sul fenomeno più universale della nostra epoca sta nel fatto che si tratta di qualcosa di irrevocabile, come ha notato il Severino, contro cui s’infrange ogni decisione umana. E la riflessione intorno alla struttura e alla funzione della filosofia nell’età della tecnica ha impegnato (e tuttora impegna) i maggiori filosofi del nostro tempo. Già Husserl parlava di “crisi delle scienze europee”, riferendosi, appunto, allo sviluppo di una visione scientifica disumana, interamente rivolta a costruire l’immagine di un universo matematico, avente i caratteri dell’esattezza e della estrema determinatezza, lontano, pertanto, dal carattere problematico dell’esistenza umana. L’umanità in qualche modo appare come uno strumento nelle mani della tecnica scientifica e non più come l’ente che decide intorno al suo essere. Questa costituzione dell’uomo, perciò, è stata richiamata da Heidegger, polemicamente; così come è stato richiamato il problema dell’essere come la questione essenziale per l’uomo. La domanda sull’essere in generale consente, infatti, la domanda sull’essere dell’uomo. Che cos’è “essere” e che cos’è “nulla”? In realtà l’uomo appariva sospeso tra queste due alternative di realtà. L’abisso verso il quale sembrava incamminarsi la storia dell’uomo era la tecnica, responsabile di distruggere e fagocitare la libertà dell’uomo, l’uomo stesso come possibilità d’essere. Ecco la domanda che ancora assilla l’umanità. E’ veramente la tecnica questo fattore potente e inevitabile di distruzione dell’umanità dell’uomo? Fino a che punto essa ha il potere di espropriare l’uomo della sua libertà per ricondurlo sul piano della determinazione necessaria? Che cosa può veramente decidere l’uomo nell’età della tecnica? In che senso di può parlare ancora di libertà e di possibilità per l’esistenza? Il sussistere di queste domande giustifica l’impegno della filosofia, come strumento di difesa dell’umanità, come attestazione del libero pensiero, in primo luogo, e come testimonianza della riflessione critica. “Conosci te
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stesso”: questo è l’imperativo che oggi dobbiamo ancora riconoscere come il nostro compito essenziale. Dobbiamo oggi compiere ogni sforzo per ricomporre la nostra identità e, in primo luogo, per riconoscere e affermare la nostra natura totale, della quale, in verità, la tecnica non è che una limitata espressione (sempre revocabile e rimovibile).
L’ipotesi bergsoniana Bergson declina in senso metafisico il vitalismo irrazionalistico, privilegiando il movimento creativo della realtà e facendone l’oggetto dell’intuizione. La sua critica è rivolta al pensiero scientifico, che riporta l’imprevedibile sviluppo del reale agli schemi uniformi del tempo e dello spazio misurabili e impone alla natura una legislazione che già Kant aveva individuato come riduttiva e contraria alla costituzione essenziale della natura medesima, il cui fondamento è la libertà (oggetto della metafisica). Bergson è il grande protagonista della vita culturale in Francia nella prima metà del Novecento, come Croce lo è in Italia. E’ anche il grande restauratore della filosofia. E lo strumento proprio del pensiero filosofico non è tanto la ragione, che fonda il sapere concettuale, bensì è l’intuizione, atta a sondare le dimensioni più profonde dello spirito. Bergson è sostenitore di una cultura alternativa a quella positivistica, che gravita intorno allo sviluppo della conoscenza scientifica. Le categorie tradizionali vengono investite di funzioni e significati nuovi. Bergson è specialmente famoso per la sua innovazione recata al concetto di tempo. Il concetto tradizionale e comune, egli rileva, corrisponde a un’esigenza pratica: quella di avere una dimensione uniforme e standardizzata in cui collocare i fenomeni, al fine di una loro lettura unitaria. Invece il concetto più proprio è quello di durata reale, per cui il tempo non è più costituito da istanti uguali l’uno all’altro, bensì da istanti di durata diversa. Il tempo si dilata o si restringe in rapporto alla nostra esperienza interna, cioè all’esperienza della nostra coscienza. Non solo, ma anche il tempo della natura è costituito da istanti diseguali: esso infatti si differenzia in rapporto al processo creativo che investe la materia. C’è un tempo dell’esplosione creativa, dell’evoluzione; e c’è un tempo della stabilizzazione, della conservazione degli stati della materia. Una profonda analogia si stabilisce tra i fatti naturali e i fatti spirituali e psichici. La materia stessa è attraversata dalle forze opposte della trasformazione e della conservazione: hormé e mnéme, l’una protagonista dei processi di cambiamento, di evoluzione e di creazione, e l’altra fattore di consolidamento, di conservazione, di memoria. Così le strutture della vita umana e sociale sono dominate da queste forze. Vi sono società aperte e società chiuse: alcune sollecitano i cambiamenti, altre mantengono inalterate le loro istituzioni per millenni. Analogamente Bergson parla delle due sorgenti della morale e della religione. Da una parte le società sono legate a tradizioni che si conservano intatte nei secoli, subiscono l’influsso di esperienze immemorabili, custodiscono le memorie antiche; dall’altra parte subiscono i contraccolpi dell’accelerazione impressa dai cambiamenti, dallo sviluppo della scienza e della tecnica. Bergson interpreta le istanze di un secolo inquieto, dominato dalla velocità, soggetto a profondi e rapidi mutamenti. In particolare, coglie con straordinaria profondità di pensiero introspettivo, i processi interni della coscienza individuale e dello spirito delle comunità e dei popoli.
Forme della metafisica. La metafisica neoscolastica. La metafisica neoscolastica riprende il concetto aristotelico di metafisica come scienza dell’essere in quanto essere e come scienza dell’Ente assoluto. Aristotele ha elaborato il concetto di realtà in quanto essere e quindi prescindendo dall’articolazione in soggetto e oggetto. Come sappiamo, invece, per l’idealismo si tratta di elaborare e comprendere il concetto di realtà come “soggetto”. Il concetto di ente, per la metafisica classica, è connesso alle categorie di causa (efficiente e finale), di potenza e atto, di sostanza e accidente, di necessità e contingenza, e così via. La metafisica si costituisce come una ontologia: essa riguarda i modi d’essere come sostanza, cioè l’essere dell’ente reale come modo dell’essere in generale. La metafisica riguarda, inoltre, tutti gli altri modi dell’essere, ad esempio il modo d’essere qualità (e le altre modalità corrispondenti alle categorie aristoteliche). Come precisa Aristotele, il modo d’essere sostanza rappresenta il più alto modo d’essere
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dell’essere in generale (quello compiuto e perfetto, in quanto riguarda l’ente, l’esistenza). Come è noto, Aristotele, sulla base del concetto di ente ha elaborato il concetto di Ente realissimo, Dio, Atto puro, il Reale interamente dispiegato e racchiudente tutte le potenzialità dell’ente, aprendo la via al concetto (raggiunto per dimostrazione) di Ente Assoluto, Trascendente. Questa tesi, per cui la metafisica risulta fondata rigorosamente da Aristotele, è stata sostenuta specialmente dall’Olgiati e difesa nel corso di una polemica con lo Sciacca. Secondo l’Olgiati la metafisica si limita a elaborare il concetto di ente o di realtà (l’essere e i suoi modi; l’esistenza e le sue determinazioni); secondo lo Sciacca, invece, la metafisica implica un costitutivo riferimento alla Trascendenza, la comprensione dell’Essere e dell’ente in rapporto all’Essere. La dimensione metafisica dell’ente è, infatti, il suo rapporto all’Essere. E, per lo Sciacca, la metafisica riguarda proprio questa dimensione: essa si configura come “conquista della metafisicità del reale”. Entrambi questi concetti, in realtà, si trovano in Aristotele, che, come sappiamo, parla della metafisica, da una parte, come scienza dell’essere in quanto essere e, dall’altra parte, come scienza dell’Ente primo e assoluto, Dio come Atto puro, Causa prima, Pensiero di sé, racchiudente, cioè, tutte le possibili modalità di determinazione che in forme particolari e limitate si trovano nell’ente finito. Per lo Sciacca, la dimensione metafisica del reale, coincidendo con la Trascendenza, può essere colta solo mediante un tipo di “esperienza” che sta al confine tra l’esperienza ordinaria (razionale, positiva) e l’esperienza religiosa (sorretta dalla fede, connessa alla rivelazione diretta dell’Essere). Per l’Olgiati, invece, la metafisica si attiene al campo rigorosamente ed esclusivamente razionale: essa procede verso il concetto di Trascendenza soltanto attraverso lo sviluppo di ragionamenti e dimostrazioni.6 La filosofia neoscolastica è legata pressoché interamente (nell’intero suo sviluppo nei suoi stessi diversi orientamenti) alla ripresa della metafisica. Come ha osservato Michele Federico Sciacca, i neoscolastici della Scuola di Lovanio “sono dei metafisici nel senso classico del termine, perciò loro punto di partenza è la nozione dell’essere, la cui conoscenza non si può ridurre alla semplice astrazione”.7 Questi filosofi ammettono che l’intera vita della coscienza gravita intorno all’intuizione fondamentale dell’idea dell’essere, cioè a una “esperienza intellettuale” che coincide con la nozione originaria dell’essere (costituiva della mente umana). Tale intuizione intellettiva sarebbe la base di ogni esperienza e di ogni attività conoscitiva. L’idea dell’essere sarebbe l’a priori fondamentale, la condizione per ogni altra intuizione e per ogni processo di astrazione. Il contenuto implicito di tale idea comprende l’intero reale nelle sue diverse forme e fonda tutte le esperienze e conoscenze. Questo è il significato “trascendente” dell’idea dell’essere; e in ciò consiste il fondamentale carattere “metafisico” di essa. Alla base dell’atto intellettivo vi è, dunque, un’istanza metafisica, che è “trascendente” rispetto a ogni singola intuizione e intellezione. Insomma è in virtù di questa idea che il reale si presenta come intelligibile. L’idea dell’essere fonda l’intelligibilità del reale: oppure si deve dire che alla base dell’intelligibilità vi è il rapporto tra l’essere e l’idea stessa che è presente nella mente. Per questo noi cogliamo l’intelligibile nell’oggetto della nostra percezione e riconosciamo l’universale nell’intuizione del particolare; per questo, cioè, noi possiamo dire di un oggetto che “è” una casa, un fiore, ecc., cioè possiamo riportarlo al suo concetto (o all’idea). E questa funzione gnoseologica rimanda a una struttura ontologica:
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Questa differenza di significati risalta ancora meglio allorché si considera la crisi della metafisica, che per l’Olgiati riveste una portata soltanto speculativa ed è connessa allo sviluppo del pensiero moderno, mentre per lo Sciacca implica una perdita in senso più ampiamente spirituale, cioè la crisi, maturata nel mondo moderno, del senso della Trascendenza e della religiosità, l’oblìo della dimensione metafisica dell’esistenza umana. Interessante risulta quanto a questo proposito è stato osservato dal Filiasi Carcano: “Cogliamo con ciò l’aspetto forse più notevole dell’odierno risveglio metafisico: non l’esigenza ontologica, non la costruzione di una vasta sintesi, sono alla radice di questo risveglio, bensì una profonda e diffusa inquietudine, un senso di angoscia misto a un’insopprimibile aspirazione. Ma quello che importa osservare è che questa esigenza spirituale non cerca soddisfarsi con una costruzione razionale, ma si incardina invece in quella ‘esperienza metafisica’ che, riabilitata vigorosamente dal Bergson nel quadro della filosofia contemporanea, fa sentire sempre più la sua fondamentale importanza” (P. Filiasi Carcano, Problematica della filosofia odierna, Milano 1953, pp. 87-88). L’appello all’esperienza metafisica domina tutta la riflessione che confluisce negli scritti della celebre collana Philosophie de l’Esprit, fondata da Lavelle e Le Senne. 7 M. F. Sciacca, La filosofia, oggi, Milano 1963, vol. II, p. 293.
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l’essere di cui noi abbiamo l’idea non è, infatti, il risultato di un’astrazione, bensì corrisponde alla presenza del reale nella mente.8 Gustavo Bontadini, che rappresenta la scolastica italiana, fonda la “costruzione metafisica” sul “principio dell’impossibilità dell’originaria limitazione dell’essere da parte del non essere”. L’esperienza che accerta il divenire non può, dunque, costituire la base per una concezione del reale nella sua assolutezza e totalità. La metafisica si riporta così alla posizione classica ed eleatica dell’essere, in contrapposizione al divenire. Il principio del reale nella sua unità e assolutezza trascende il principio della totalità del divenire e risulta comprensivo rispetto ad esso (ma nello stesso tempo indifferente: cioè non è necessario il divenire per la posizione dell’essere, che, appunto, per la sua assolutezza, non è legato che a se stesso). La metafisica neoscolastica è una riaffermazione (un aggiornamento) della metafisica classica, basata sul principio della permanenza dell’essere. La radice della metafisica sta nel superamento parmenideo dell’istanza naturalistica, secondo cui il principio va cercato nella natura o in un aspetto determinato della realtà. Al principio ontologico corrisponde, sul piano logico, il principio di non contraddizione, che collega l’essere al pensiero.9 Étienne Gilson ha collegato il suo lavoro di storico della filosofia medievale a una notevole attività teorica, rivolta a dimostrare la fondamentale linea metafisica che attraversa lo stesso pensiero moderno, a partire dalla distinzione introdotta da San Tommaso tra essenza e actus essendi e assunta come principio interpretativo di tutta la storia dell’ontologia occidentale (appunto con l’affermazione del primato ontologico dell’actus essendi). Come è stato osservato, questa interpretazione consentiva di accostare il tomismo “ai temi dell’individualità e dell’esistenza che hanno particolare risonanza nella filosofia contemporanea”.10 In tale prospettiva, sia l’essere assoluto che quello finito e limitato sono concepiti come attività, intesa o come assoluto atto creativo o come tendenza e sforzo dell’uomo ad aggiungere qualcosa all’essere finito e a ritornare al proprio fondamento. E in questo itinerario consisterebbe specialmente la metafisica.11
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“La nuova filosofia di Lovanio – scrive lo Sciacca – non è un aggiornamento estrinseco ma un vero tentativo di soddisfare le esigenze più profonde del pensiero moderno e contemporaneo sulla base di un tomismo rinnovato, che non tenga conto soltanto della direttrice aristotelica, ma anche dell’essenziale componente platonica” (M. F. Sciacca, op. cit., p. 301). I filosofi che hanno principalmente approfondito le tematiche della ripresa della metafisica sono N. Balthasar, L. De Raeymaeker e F. Van Steenberghen. Il primo, come è stato osservato, ha compiuto “un vigoroso sforzo d’innesto della metafisica nella consapevolezza critica dell’interiorismo; dello spiritualismo e della partecipazione platonico-agostiniana col trascendentalismo e colla causalità aristotelico-tomista; del personalismo esistenzialistico colla tradizione del realismo classico” (I. Mancini, Trascendentalità e partecipazione nella metafisica di Lovanio, in “Rivista di filosofia neoscolastica”, XLIII (1951), p. 479). Del Balthasar segnaliamo principalmente L’être et les principes métaphysiques, Louvain 1914. Il De Raeymaeker ha approfondito il concetto di “realtà come partecipazione dell’essere”; e il Van Steenberghen fa leva sulla nozione di “presenza” dell’essere reale nella coscienza e, quindi, sull’ascesa interiore a Dio, posta in atto concretamente (e non sui procedimenti di dimostrazione razionale). 9 Per questa problematica cfr. Gustavo Bontadini, Conversazioni metafisiche, Milano 1971, pp. 290-95. Il Bontadini ha cercato di dimostrare come la stessa linea evolutiva del pensiero moderno, attraverso una sorta di autoannullamento della deviazione naturalistica, soggettivistica e gnoseologistica, sia approdata a un nuovo punto di partenza, libero da presupposti di qualsiasi genere, e atto a procedere alla ricostruzione della metafisica classica. In questo senso egli ha parlato, a proposito della sua proposta teoretica, di “filosofia neoclassica”. In polemica con Emanuele Severino, egli ha difeso la realtà del divenire e riaffermato la trascendenza dell’essere, negando la sostanziale collocazione sul piano dell’assoluto delle determinazioni reali (trascendenza ontologica). Contributi significativi alla filosofia neoscolastica in Italia sono stati dati da F. Olgiati (I fondamenti della filosofia classica, Milano 1950), S. Vanni Rovighi (Elementi di filosofia, Milano 1941-50), C. Giacon (Interiorità e metafisica, Bologna 1964), U. A. Padovani (metafisica classica e pensiero moderno, Milano 1961), M. F. Sciacca (La filosofia, oggi, Milano 1963), C. Fabro (Partecipazione e causalità, Torino 1961) e tanti altri. 10 Mario Dal Pra, Presentazione a É. Gilson, La filosofia nel medio evo, tr. it., Firenze 1973, p. IX. 11 In questa direzione i risultati più notevoli sarebbero stati raggiunti da un altro rappresentante della scolastica francese, J. De Finance, autore di saggi specialmente rivolti ad approfondire la tematica del rapporto ontologico tra l’essere e l’esistenza (Existence et liberté, Lyon 1955; Essai sur l’agir humain, Roma 1962; Connaissance del l’être, Paris 1966, Ethique générale, Roma 1963). Su questo orientamento, cfr. I. Mancini, La metafisica dell’agire, in “Riv. di filosofia neosc.”, XLIII (1951), pp. 185-196.
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Anche in Germania la filosofia scolastica ha contribuito alla ripresa delle problematiche metafisiche, anche attraverso il continuo confronto col pensiero di Heidegger. Si può considerare vicino alle tesi del Gilson per il primato attribuito all’actus essendi il filosofo G. Stewerth, la cui critica dell’essenzialismo ontologico trova significative corrispondenze nella dissoluzione operata da Heidegger dell’”onto-teologia”. Anche Max Mueller è allineato su questa posizione, in quanto ha condotto un serrato confronto con la critica heideggeriana nella direzione del superamento dell’ontologia essenzialistica. Lo sviluppo di una metafisica che privilegia l’attività del soggetto nel senso della tensione verso l’essere ha fatto parlare anche di motivi d’incontro con la dialettica dell’idealismo.12 Una originale prospettiva di ripresa della metafisica è costituita, infine, nell’ambito della filosofia neoscolastica, da quella corrente definita come “trascendentalismo realistico” e della quale il principale rappresentante è il Maréchal, autore di una celebre opera, che è stata al centro del dibattito sulla metafisica nella prima metà del Novecento, Le point de départ de la metaphysique.13 Il “punto di partenza” della ricostruzione metafisica, secondo il Maréchal, è l’analisi trascendentale della coscienza, per scoprire nella stessa struttura trascendentale del soggetto il rinvio a un fondamento che è posto oltre la dimensione della coscienza, in una sfera che si definisce come ontologica, dunque come propria di una diretta rivelazione dell’essere. Questa tensione della coscienza caratterizzerebbe lo stesso sviluppo del pensiero moderno, nella forma di un trascendentalismo soggettivistico; per cui il compito della filosofia sarebbe ora quello di rivalutare gli elementi ontologici presenti nella dimensione trascendentale dell’io. A tale scopo verrebbe in soccorso il pensiero di San Tommaso, con la sua fondamentale istanza realistica e con la concezione dinamica dell’intelligenza, considerata come naturale impulso alla conoscenza. Molti studiosi, quindi, hanno inteso approfondire e sviluppare questa problematica, mettendo in rilievo gli esisti ontologistici della filosofia trascendentale, attraverso un confronto tra le prospettive di San Tommaso e di Kant, sostenuto da alcuni motivi elaborati da Heidegger lungo il complesso arco della sua indagine intorno alla questione ontologica.14
La metafisica come esperienza della partecipazione all’Essere. Questo concetto della metafisica costituisce l’esempio più significativo della tensione interna al pensiero contemporaneo, impegnato sul piano della ricerca di vie di riflessione alternative alla logica e alla dialettica razionale. Il Lavelle ha specialmente approfondito questa tematica, parlando di una esperienza della partecipazione all’Essere, come comprensione originaria, radicata nell’esistenza, costitutiva dell’essere dell’uomo.15 E il Blondel ha parlato della metafisica come “scienza dell’al-di-là interiore e superiore alla 12
Cornelio Fabro osserva che la proposta del Mueller è rivolta a rilevare la possibilità di un’esperienza spirituale idonea a riportare motivi dinamici nella compattezza dell’essere, “superando la porta chiusa dell’analogia (tradizionale) di proporzionalità” attraverso “un’applicazione originale e strettamente metafisica” della “tecnica hegeliana della dialettica”, intesa come “dialettica oggettivo-ontologica tomista”, differenziata rispetto alla dialettica “soggettivo-logica dell’idealismo” (Cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino, Torino 1949, pp. 13-15). 13 L’opera, in cinque volumi, è stata pubblicata tra il 1922 e il 1947. 14 In particolare, segnaliamo in questa direzione l’opera di J. B. Lotz, Metaphysica operationis humanae methoso trascendentali esplicata, Roma 1958. Ecco come il Lotz in un’altra sua opera riassume la questione della metafisica nella prospettiva del “trascendentalismo realistico”, basato sullo sviluppo dell’istanza trascendentale presente in San Tommaso e su quello dell’istanza oggettivistica presente in Kant, ad opera della scolastica odierna: “La posizione positivamente aperta che si strada nella Scolastica odierna, assume bensì il metodo oggettivo e non intende affatto sostituirlo con un altro; ma pure vede sino al fondo che esso può dare una spiegazione valida, ma non veramente ultima, e pertanto non soltanto permette, ma pure richiede un completamento. Il completamento richiesto viene ricercato tramite il metodo soggettivo rettificato, che nella sua più intima essenza è tutt’uno col metodo oggettivo e pertanto raggiunge la cosa in sé ed apre la via alla metafisica del sapere” (Die transzendentale Methode in Kants ‘Kritik der reinen Vernunft’ und in der Scholastik, Munchen 1955, pp. 45-46). 15 Questa esperienza, avverte il Lavelle, “Non è l’esperienza dell’opposizione di un soggetto e di un oggetto, ma l’esperienza dell’iscrizione in un essere al quale io partecipo di una esistenza che è la mia, ma che è trascesa essa stessa da una realtà, con la quale io sono in rapporto e che riempie tutto l’intervallo tra questo essere e questa esistenza” (L.
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natura come al soggetto”16 o come “ontologia concreta e integrale”, cioè non più come una riflessione razionale sul concetto di essere, bensì come una interiore (nel senso agostiniano di un viaggio all’interno della coscienza) comprensione del dinamismo dell’esperienza della coscienza (in senso fenomenologico), come riflesso della realtà totale nella quale siamo inseriti e alla quale apparteniamo. La metafisica non sarebbe altro che la consapevolezza del senso di questa appartenenza fondamentale, del nostro essere radicati nell’essere. Essa sarebbe appunto la consapevolezza di questo radicamento. In questo senso la metafisica potrebbe essere ancora il farmaco contro la “malattia mortale”, che è, appunto, lo sradicamento dall’essere maturato nella cultura moderna (e, secondo Nietzsche, risalente ai primordi della riflessione razionale).
La metafisica nella parabola del neoidealismo italiano. Il Bontadini ha descritto con grande chiarezza la linea evolutiva della filosofia italiana nella prima metà del Novecento dall’attualismo al problematicismo.17 In realtà, la soluzione attualistica della riforma dell’idealismo hegeliano operata dal Gentile (e quella storicistica attuata dal Croce) si configurava come una specie di radicale soggettivismo, che difficilmente sembrava sfuggire alle estreme conseguenze della caduta nel relativismo e nello scetticismo, con la totale impossibilità di impostare il problema dell’essere (appunto per la risoluzione di ogni essere nel processo dell’atto spirituale). La reazione antiattualistica era un modo per riaffermare la possibilità della metafisica (e della stessa filosofia). In questo senso il Carabellese accusava lo storicismo di “dissolvere la filosofia”.18 Per questo pensatore, la filosofia è essenzialmente metafisica, indagine critica intorno all’essere, configurato come Principio, fondamento di ogni realtà. Il pensiero moderno, con l’elaborazione del concetto del reale come oggettività, ha eliminato il problema metafisico (il problema dell’essere). E intorno al recupero di questo problema si è sviluppato il travaglio dei filosofi italiani che, movendo dall’attualismo, via via sono andati elaborando forme autonome di critica antiattualistica e di ricostruzione metafisica. Il Carabellese ha denunciato l’errore gnoseologistico della filosofia moderna, consistente nel concepire l’essere come oggettività e dunque tale da risolversi interamente nell’oggetto della conoscenza scientifica, attuata, secondo le indicazioni fornite dall’analitica trascendentale di Kant, dal soggetto, la cui costituzione trascendentale viene, infine, fatta coincidere con le strutture del reale medesimo, nella prospettiva dell’idealismo. Una volta ridotto il reale a “oggetto”, infatti, era facile fare un passo avanti e considerare come fondamento il soggetto trascendentale medesimo, configurato, quindi, come l’Assoluto, lo Spirito. Per conoscere il reale, il soggetto non ha che attuare la conoscenza di se stesso. La filosofia trascendentale eviterebbe l’accusa di dogmatismo, non presentandosi come riflessione e indagine sull’essere, e, nello stesso tempo, ristabilirebbe le condizioni della metafisica, assumendo come oggetto non l’essere (in conoscibile) ma la stessa condizione trascendentale del processo del conoscere, cioè il soggetto trascendentale medesimo, l’Io o lo Spirito.19 Per il Carabellese, in tal modo la filosofia moderna avrebbe
Lavelle, Introduction à l’ontologie, Paris 1947, p. 5). Siamo, come si vede, ai limiti di un’esperienza mistica, in cui l’inquietudine e lo stupore che ci provengono dal senso della problematicità e della misteriosità dell’esistenza e del mondo si placano in una specie di laica beatitudine, per la quale lo spirito prova la sua unione col Tutto e la sua intera appartenenza all’Essere, alla Totalità del reale. E’ questa, infatti, l’esperienza della “presenza totale”, di cui parla lo stesso Lavelle (La présence totale, Paris 1934). La metafisica non è più soltanto lo strumento di attuazione di un sapere unitario, bensì corrisponde a un’intima esigenza di realizzazione della nostra spiritualità. Come ha osservato il Marcel, “una metafisica che non colmi una attesa è una metafisica senza verità, direi quasi senza essere” (G. Marcel, De l’audace en métaphysique, in “Revue de métaphysique et de morale”, 1947. 16 E’ questo il titolo stesso di un saggio di M. Blondel (in “Revue de métaphysique et de morale”, 1947). 17 G. Bontadini, Dall’attualismo al problematicismo, II ed., Brescia 1950. 18 P. Carabellese, Che cosa è la filosofia?, Roma. 19 Il Carabellese ha così sinteticamente esposto la fondazione dell’idealismo a partire dalla filosofia trascendentale di Kant: “Si conserva con Kant il concetto realistico dell’oggetto come qualcosa che non è soggetto, perché oggetto; e, nell’entusiasmo della scoperta, che pur l’oggettività vera che ci risulta è soltanto quella che ci è data nel soggetto, si conclude, tenendo conto di quel primitivo concetto dell’oggetto, che non v’ha che il Soggetto: il Soggetto è l’Assoluto” (P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia, Roma 1931, p. 32.
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finito per eliminare dal campo della sua indagine l’essere, cioè l’oggetto proprio della filosofia. Ciò, in realtà, avrebbe portato alla successiva reazione all’idealismo, con i tentativi più o meno irrazionalistici di restaurare il reale nella sua dimensione autonoma, indipendente dal soggetto. La filosofia del Novecento riprenderebbe in larga parte questa critica antisoggettivistica, col tentativo di operare un recupero del problema dell’essere. Il Carabellese ha, dunque, cercato di dimostrare come sia stato possibile l’equivoco della filosofia come sapere assoluto e come, in realtà, dissolto il problema dell’essere, un tale sapere si sia configurato come una scienza del soggetto e, cioè, come una metafisica priva del suo oggetto proprio, che è l’essere o, meglio, il rapporto dell’ente all’essere. La filosofia del Novecento, in seguito alla critica dell’idealismo, si è mossa proprio in quest’ultimo ambito o orizzonte di riflessione. In questo senso la metafisica è tornata ad occupare un posto centrale nella domanda filosofica (appunto col primato della questione dell’essere). Ma vediamo più dettagliatamente come si sviluppa la critica del Carabellese alla risoluzione idealistica del pensiero moderno. La filosofia moderna, secondo queste obbiezioni, rifiutando la concezione realistica dell’oggetto (e rimovendo perciò il problema dell’essere come tale da non potere rientrare nell’ambito stesso di una indagine filosofica e razionale), ha imboccato inevitabilmente la strada dello scetticismo. In primo luogo, essa ha ristretto il suo campo d’indagine al problema gnoseologico e si sarebbe, pertanto, risolta in una semplice gnoseologia critica. Lo sbocco naturale del pensiero moderno sarebbe Hume, col suo fenomenismo e tendenziale scetticismo. Kant avrebbe riproposto le difficoltà connesse alla conoscibilità del reale: egli avrebbe, cioè, sviluppato l’analisi intorno alla costituzione del reale come oggettività, cioè come fenomeno regolato da leggi. Il risultato è l’ammissione del reale in sé come dato in conoscibile, che sfugge al governo dell’attività trascendentale del soggetto. L’analisi critica, dunque, non estende la sua validità alla sfera del reale come essere. Essa si limita al campo fenomenico e deve, in definitiva, riconfermare quello scetticismo che essa intendeva superare. La soluzione idealistica di Fichte non riuscirebbe a superare questa difficoltà. Fichte, infatti, ha inteso spostare il problema del reale (dell’oggetto) all’interno dell’attività critica e trascendentale, annullando, in effetti, un termine dello stesso rapporto gnoseologico e risolvendo la filosofia in riflessione intorno all’attività (prevalentemente pratica) del soggetto. La conseguenza sarebbe ancora la rimozione del problema dell’essere e la risoluzione della filosofia a “dottrina della scienza”, riflessione intorno al soggetto in quanto termine di fondazione del sapere (e di quell’unico sapere che riguarda il soggetto, sia pure considerato nella sua costituzione trascendentale). La via d’uscita appare, allora, di nuovo e ancora una volta il ritorno alla concezione realistica dell’oggetto. Ma ciò non potrà avvenire rimanendo sul piano della concezione idealistica, poiché, dal punto di vista dell’idealismo, l’essere, il reale in sé, non potendo appartenere alla dimensione trascendentale del soggetto, si configura come un puro nulla (o, al limite, come un termine prodotto dal soggetto e da questo poi faticosamente riportato a sé, come avviene per il famoso non-Io di Fichte).20 La radice dell’errore, secondo il Carabellese, sta, alle stesse origini del pensiero moderno, in Cartesio e, specificamente, nella sua concezione del reale come “oggettività”. La “certezza” cartesiana era, in effetti, una falsa certezza e la scienza basata su di essa era una scienza fittizia, valida, al massimo, a consentire una descrizione dei fenomeni, ma del tutto insufficiente a fondare una filosofia e una metafisica. In Kant, dunque, è questo equivoco che viene ad esplodere e a lasciare emergere lo scetticismo di fondo che esso prima nascondeva. La risoluzione della metafisica idealistica nello storicismo e nell’attualismo sarebbe la conseguenza di tutto questo processo basato su un equivoco e su errore di fondo. Venuto a mancare l’oggetto proprio della metafisica, cioè l’essere, ed essendo rimasto solo il soggetto, tutto, infine, finisce per apparire come un’espressione dello svolgimento storico di quest’ultimo. Il reale si risolve nella produzione del soggetto, nella storia, che, secondo Vico, è appunto la trama dei fatti, prodotti dalla mente umana. Secondo il Carabellese, l’idealismo reca in sé irrimediabilmente il germe della sua dissoluzione e della sua trasmutazione in storicismo assoluto (o in attualismo). 20
“Così l’equivoco storico che abbiamo detto di sostituzione inconsapevole del problema interno al problema ogettivo della filosofia, trova il suo coronamento e il suo presupposto insieme nell’annullamento dell’oggetto. Sono due processi che si condizionano a vicenda, e che hanno la fontenuca del loro errore in un permanere di un motivo di realismo naruralistico nell’indirizzo che tale realismo vuole combattere” (P. Carabellese, Il problema teologico, cit., p. 10). Il Carabellese osserva ancora: “L’eliminazione del problema oggettivo, che a Fichte pareva dovesse rendere possibile la soluzione del problema interno della filosofia, non può invece fare altro che condurre alla eliminazione anche di questo, e quindi al completo annullamento della filosofia” (op. cit., p. 131).
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Per un percorso complementare a quello seguito dal Carabellese (e che è di carattere interamente storico), Vincenzo La Via ha dimostrato che l’istanza propria che potrebbe liberare l’idealismo dall’equivoco che costitutivamente lo vizia è quella dell’assoluto realismo.21 In questa prospettiva l’istanza critica e trascendentale non si attua attraverso la rimozione dell’oggetto, riferito al reale in sé, bensì si attua e si sviluppa attraverso il riferimento all’essere, considerato trascendente rispetto all’istanza trascendentale che avrebbe una valenza esclusivamente gnoseologica, conoscitiva. Da questo punto di vista si riconosce la validità dell’istanza critica e trascendentale, come condizione di un sapere che non si riferisca a un reale fuori di sé (concepito naturalisticamente), e, nello stesso tempo, si riconosce la permanenza del reale all’interno di tale istanza (ma come trascendente rispetto alla forma della conoscenza). Il reale, dal punto di vista critico, torna, così, a profilarsi come l’essere, il termine che trascende la coscienza e tuttavia la fonda nella sua attività (che è di tipo conoscitivo ma anche pratico).22 Secondo la prospettiva ontologistica nella quale si colloca il Carabellese, analogamente, la trascendenza dell’essere si riconosce e si certifica all’interno della coscienza.23 Come si vede, le difficoltà generate dallo sviluppo della filosofia moderna hanno continuato a presentarsi e a condizionare lo sviluppo del pensiero della prima metà del Novecento. La filosofia italiana di questo periodo storico attesta, in modo emblematico, la crisi della filosofia moderna nella sua parabola che va da Cartesio a Hegel e che ha le sue estreme manifestazioni nelle forme neoidealistiche messe in atto da Croce e da Gentile.24
L’uomo, l’essere e la metafisica La metafisica, dunque, riguarda il rapporto dell’uomo con l’essere. Questa sembra oggi come la conclusione di uno svolgimento storico segnato da errori, travisamenti, equivoci, di cui l’espressione più clamorosa è il nichilismo contemporaneo, contro il quale ha reagito il pensiero già nei primi decenni del Novecento,
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Vincenzo La Via, Dall’idealismo al realismo assoluto, Firenze 1941. A differenza del reale in sé di Kant, che rimane assolutamente estraneo alla coscienza (e per cui il soggetto coglie solo una parvenza del reale), l’essere trascendente che costituisce il termine di riferimento dell’attività critica e trascendentale si configura come il reale assoluto, che è fondamento di sé e del soggetto insieme. 23 P. Carabellese, Critica del concreto, Roma 1940, p. 176. Secondo il Carabellese, l’idealismo, invece di giustificare l’immanenza dell’essere alla coscienza, ha finito per eliminare l’essere e per risolversi in un puro soggettivismo. Il vero idealismo sarebbe, in questo senso, quello platonico, basato sull’idea di una essenziale complicazione di immanenza e trascendenza. Nella filosofia moderna sarebbe andato interamente perduto il motivo dell’oggettività immanente”. “Il processo spirituale del conoscere rimane un fatto soggettivo da spiegare in questo suo misterioso riferimento a un’altra realtà che non si sostanzia con esso” (P. Carabellese, L’idealismo italiano, p. 60). Lo stesso Carabellese chiama “critico” il suo ontologismo, a sottolineare la differenza rispetto a ogni ontologia di tipo realistico, basata sulla concezione dell’essere come separato dalla coscienza. Qui il motivo fondamentale è il nesso inscindibile della coscienza e dell’essere. Come ha osservato Heidegger, è proprio l’istanza trascendentale la condizione indispensabile per fondare una ontologia. E come ha efficacemente notato il Moretti-Costanzi, “a differenza dell’ontologia tradizionale il cui leégein concerne descrittivamente l’oçén senza penetrarlo e che da Heidegger è ridotta ad ontica, la metafisica è l’ontologia di un oçn che si presenta, consistendovi, nel proprio loégov, inquantoché, di questo loégov, l’Essere che fonda l’esserci è la sostanza” (T. Moretti-Costanzi, L’ascetica di Heidegger, pp. 6-7). “Il riferimento al soggetto (e all’uomo) – commenta il Filiasi Carcano – non è più dunque argomento di negazione, perché è proprio attraverso la costitutiva trascendenza dell’uomo (inerente all’esistenza umana) che diventa possibile la concreta rivelazione dell’Essere, e pertanto la fondazione di una ontologia critica” (P. Filiasi Carcano, Problematica della filosofia odierna, cit., p. 147). 24 A proposito delle secche a cui era approdato il pensiero che aveva seguito la linea evolutiva dal cartesianesimo all’idealismo, il Carabellese osservava: “E a me paiono ora esauriti i tentativi per darle una risposta. E’ ora di cambiar aria, di correre verso una nuova dimensione dello spazio speculativo. A furia di dimostrare la possibilità della conoscenza, abbiamo finito forse col dimenticare, o meglio possiamo cominciare a vedere che cosa è questa conoscenza di cui vogliamo dimostrare la possibilità” (P. Carabellese, Il problema della filosofia da Kant a Fichte, p. 15). 22
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gettando le basi per una ricostruzione della metafisica. Il riferimento ai grandi temi della filosofia classica è stato salutare per la ripresa delle questioni filosofiche proprie della tradizione del pensiero occidentale. In realtà, la filosofia, nonostante gli equivoci e gli errori, di cui abbiamo prima esaminato qualche esempio, ha svolto sempre la funzione di scienza (o dottrina) rassicurante: essa ha alimentato la fiducia nella conoscenza e nella morale, cioè nella possibilità di perseguire il vero e di scegliere il bene. In questo senso l’avvento della filosofia ha rappresentato veramente l’uscita dall’angosciosa situazione caratterizzata dal senso della tragicità dell’esistenza. A una esperienza dominata dal pessimismo, dalla constatazione che la vita è dolore e che tutto è soggetto alla dissoluzione, è succeduta un’epoca contrassegnata dalla certezza di un fondamentale rapporto dell’esistenza umana con l’essere, la verità e il bene. D’un balzo l’uomo si è visto proiettato in una sfera sottratta al divenire medesimo e legata all’essere immutabile ed eterno. Oppure e meglio, l’uomo si è riconosciuto come l’ente che partecipa di una natura duplice, da una parte della finitezza e della mortalità e dall’altra della infinità e dell’immortalità. Si scoprì che a quest’ultima sfera l’uomo partecipa attraverso il pensiero (e, subordinatamente, attraverso la vita morale e la stessa partecipazione al bello, a ciò che è armonico e ordinato). L’uomo pensa le strutture immutabili della realtà ed è inserito in esse. Ad esempio, l’umanità come modo dell’essere è incorruttibile e immutabile; e partecipando a tale struttura reale l’individuo partecipa dell’incorruttibilità e dell’immortalità. Ma l’umanità così definita può essere solo pensata, non è qualcosa che s’incontra nel mondo; nel mondo esistono i singoli uomini, che, invece, sono mortali. L’uomo è immortale per partecipazione, non per sé, ma in quanto si rapporta all’essere (partecipa del modo d’essere dell’umanità). La distinzione tra gli enti sensibili, che appartengono al mondo, e gli enti soprasensibili, immutabili, è apparsa ovvia ed estremamente chiara ed evidente. Da questa distinzione è nata la metafisica. Mentre all’esperienza, all’opinione empirica, alla verità soggettiva e mutevole è riservato il mondo degli enti finiti, soggetti al divenire, al pensiero puro appartiene la conoscenza delle strutture immutabili, dell’essere, del vero reale. In quanto è l’ente pensante, l’uomo ha il privilegio di conoscere la verità e di accedere a quella conoscenza che riguarda l’essere e che si configura come metafisica. La metafisica appare come propria dell’ente pensante, dunque come qualcosa che appartiene costitutivamente alla natura dell’uomo. Per Platone, come è noto, la parte pensante dell’uomo (l’anima) è immortale. Per Cartesio (che è considerato l’iniziatore della filosofia moderna) l’uomo è costituito di sostanza materiale (il corpo) e di sostanza pensante (incorruttibile). Per Spinoza la sostanza pensante della quale fa parte l’uomo è un attributo della Sostanza unica (cioè di Dio). In questo modo è ribadita la fondamentale metafisicità dell’uomo. Per Vico la mente umana contiene le “potenze” universali del “fare” e perciò è il soggetto della storia. E anche per Kant, nonostante la finitezza propria dell’uomo e della ragione, la mente contiene, nella sua costituzione, i principi trascendentali (universali) del conoscere e dell’agire. Per gli idealisti l’uomo è l’espressione stesso dello Spirito infinito che si viene attuando e viene via via realizzando la conoscenza di sé. Infine, come abbiamo visto, per i filosofi contemporanei che hanno avvertito l’esigenza di una ricostruzione della metafisica, l’essere si radica all’interno della coscienza e concorre a costituire la dimensione metafisica dell’esistenza. Nonostante le variazioni connesse al variare delle epoche storiche, dunque, un motivo costante attraversa la storia del pensiero: un motivo che si definisce come affermazione della essenziale metafisicità dell’uomo. Che vuol dire ciò? A parte il discutibile antropocentrismo, ravvisiamo in questa affermazione un’espressione dello sforzo dell’uomo per conoscere se stesso e per riconoscere il suo posto nel mondo, la sua appartenenza al Tutto. La metafisica è la coscienza fondamentale di questa appartenenza. In questo senso, la metafisica è l’espressione più propria e caratteristica del desiderio naturale dell’uomo di conoscere. Eppure, nel corso della storia del pensiero, la metafisica ha dovuto subire attacchi continui da parte degli oppositori, dei sostenitori di una conoscenza esclusivamente fondata sull’esperienza, dunque limitata alla sfera del divenire. Sono stati numerosi coloro che hanno ripetuto contro la metafisica l’accusa di essere espressione di una tendenza radicata nello spirito umano e secondo la quale gli uomini si fabbricano miti fantastici per sopperire al deficit della ragione e per illudersi di potere conoscere ciò che, purtroppo, è misterioso e inaccessibile ai limitati poteri della mente. Già nell’antichità i Sofisti hanno messo in rilievo le contraddizioni di una pretesa scienza dell’essere e hanno evidenziato il carattere relativo di ogni conoscenza
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e l’apporto del discorso, delle parole e dei ragionamenti, alla costruzione di “verità” (ma in realtà “opinioni”) apparenti.25 E poi gli Scettici hanno rilevato la fondamentale e insuperabile separazione tra il soggetto e la realtà e, dunque, l’impossibilità per quest’ultimo di raggiungere e dominare col pensiero e con l’esperienza quella, destinata a rimanere sempre più lontana e inaccessibile, oggetto solo di ipotesi e fonte di inevitabili illusioni.26 L’avvento, nell’età moderna, della scienza sperimentale, con la prospettiva di una esatta definizione delle leggi che governano i fenomeni, ha alimentato nuove speranze per l’instaurazione del “regnum hominis”, configurato specialmente come dominio dell’uomo sulla natura. Al posto delle illusioni della metafisica si è pensato di poter collocare le nuove certezze della scienza. La matematizzazione della natura, compiuta da Galileo e teorizzata da Cartesio, ha aperto prospettive di indefinito sviluppo all’indagine scientifica e all’esplorazione della materia; e questo cammino è tuttora in corso. Le meraviglie della natura sono davanti ai nostri occhi ora, espresse in formule matematiche e disponibili per la manipolazione da parte della tecnica. La rivoluzione astronomica è stato il primo passo in questa direzione. Cusano, Giordano Bruno, Copernico hanno svelato l’unità del sistema dell’universo, affermando che in tale sistema infinito non vi è un centro, che centro e periferia sono dappertutto e che le leggi che governano i movimenti dei corpi celesti e i processi di trasformazione della materia sono ovunque le stesse. La Terra perdeva il ruolo, che da tanto tempo le era assegnato, di centro dell’universo e l’uomo si scopriva privato del privilegio di essere lo scopo dell’intera creazione, l’ente per il quale l’intero universo era stato creato. In tale situazione, alla filosofia rimase il ruolo di gnoseologia, di indagine critica intorno al metodo e all’estensione della conoscenza scientifica. Ed è vero, d’altra parte, che la conoscenza scientifica apparve subito come tale da non esaurire l’intera serie delle questioni intorno alla costituzione della realtà, intorno all’uomo, allo spirito e al senso della storia. La metafisica, pertanto, sopravvive nello sviluppo del pensiero moderno, fino a che Kant ne mette in rilievo l’equivoca natura, sottraendola al campo della conoscenza e collocandola nella sfera della riflessione intorno ai principi della morale. La metafisica non può, così, offrire alcun apporto alla conoscenza e alla definizione degli “oggetti” della scienza (che sono principalmente le leggi costanti dei fenomeni); ma la sua funzione continua ad essere principale nel campo aperto alle verità della fede. Il soprasensibile, l’immutabile, l’essere si sposta, secondo Kant, nella sfera pratica dell’uomo: l’etica si costruisce sul fondamento, dunque anche sull’esistenza di Dio, che è uno dei postulati della Ragione Pratica. La critica della metafisica coincideva con la riaffermazione dell’esigenza metafisica, in modo che era aperta la via a un ritorno e a una riaffermazione della metafisica stessa nella grande esperienza speculativa dell’idealismo. Nell’Ottocento il positivismo ha ripreso il motivo della lotta alla metafisica, in nome dell’esclusiva legittimità del sapere scientifico. Nietzsche, infine, ha certificato una situazione culturale caratterizzata dalla “morte di Dio”, cioè dalla dissoluzione di tutti i valori permanenti, di tutte le “verità” metafisiche. La lotta per la restaurazione della metafisica e, in contrapposizione, la nuova offensiva antimetafisica sono esplose nel pensiero del Novecento e hanno in gran parte costituito il tema della filosofia contemporanea. La definizione del quadro di questa contrapposizione è lo scopo principale di questa indagine che, a un livello sintetico e limitato ai concetti fondamentali, ci proponiamo di condurre, al fine di individuare il ruolo e la funzione che oggi si profilano per la filosofia. 25
Come sappiamo, Gorgia enunciò la famosa tesi secondo la quale l’essere non è e se anche fosse non sarebbe pensabile e se anche fosse pensabile tale pensiero non sarebbe esprimibile in un discorso; e Protagora contrappose il discorso migliore al discorso peggiore, affermando che il primo è quello che riscontra un maggior numero di adesioni e che risulta più utile al raggiungimento di opinioni largamente condivise e dunque più vantaggioso per la vita civile e la concordia tra i cittadini di uno stato. In queste tesi, tuttavia, permane il concetto dell’utilità della filosofia, configurata, però, piuttosto come retorica, scienza della costruzione del discorso migliore, cioè più verosimile e persuasivo o, comunque, destinato a vincere e avere la prevalenza nel corso dei dibattiti pubblici. 26 In questo modo si riproponeva il motivo della essenziale tragicità dell’esistenza, condannata all’ignoranza, all’errore e all’illusione: la condizione umana sarebbe irrimediabilmente esposta all’errore, all’inganno, all’impossibilità di conoscere il proprio destino; così l’uomo sarebbe l’ente condannato all’illusione, a non sapere nulla intorno al senso della vita e del mondo, a vivere in un regno di ombre fallaci, di impressioni contraddittorie, di pensieri contrastanti. E’ vero, tuttavia, che da questa amara constatazione sorse, per reazione, una grande sete di religiosità, di fede nel soprasensibile e nell’Assoluto; e ciò rese possibile anche la ripresa filosofica e la costruzione di nuovi sistemi metafisici.
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Aspetti fondamentali della polemica metafisica-antimetafisica nella filosofia del Novecento Il dibattito intorno alla metafisica ha avuto per protagonisti, nella prima metà del Novecento, tre gruppi di filosofi: i neopositivisti, gli storicismi, gli ontologisti. I primi criticano la metafisica in generale, come ambito di discorsi arbitrari e privi di senso; i secondi giudicano i primi come incapaci di oltrepassare il piano empirico delle scienze particolari e di considerare il fondamento comune su cui le stesse scienze poggiano, pervenendo così a una visione unitaria e sintetica del sapere; essi, però, criticano anche i terzi, come ancora legati a una concezione realistica dell’essere e prigionieri di un’istanza fideistica che li riporta ad ammettere una trascendenza che non si risolve nell’immanenza della vita spirituale e della storia. Questi ultimi, a loro volta, indirizzano i loro strali polemici proprio contro i secondi, rivolgendo loro l’accusa di avere dissolto la filosofia stessa (e il problema dell’essere) e di essere sfociati in un radicale soggettivismo. A questi gruppi principali che più direttamente sono scesi sul piano della polemica si devono aggiungere quasi tutte le correnti filosofiche che in diversi modi hanno fatto fronte comune con ciascuno degli schieramenti principali. Sul fronte antimetafisico troviamo i marxisti, che possono considerarsi generalmente storicisti (di quello storicismo che privilegia i fatti economico-sociali), i pragmatisti (che negano l’atteggiamento speculativo in filosofia e tanto più un interesse per le strutture permanenti del reale, cioè per il problema dell’essere), gli esistenzialisti (i quali richiamano l’attenzione sulla concretezza della condizione umana). Sul fronte della metafisica troviamo gli intuizionisti bergsoniani (che rivendicano specialmente un sapere alternativo a quello scientifico e forme d’esperienza connesse alle dimensioni più profonde del reale), gli spiritualisti (specialmente coloro che privilegiano l’istanza religiosa e ne sottolineano la funzione primaria in filosofia), gli stessi esistenzialisti (che presentano un interesse duplice, antimetafisico per la critica di ogni discorso intorno a categorie generali astratte, ma metafisico per il fondamentale richiamo al problema dell’essere, sia che questo venga ricondotto sul piano dell’analisi trascendentale, sia che venga riconosciuto come un’istanza più ampiamente esistenziale, connessa all’esperienza singolare vissuta in prima persona). Vediamo, dunque, in dettaglio qual è l’atteggiamento di ciascuna di queste correnti nei confronti della metafisica.
La polemica neopositivista contro la metafisica. La prima e principale forma di critica della metafisica coinvolge tutti i significati a cui questa ha dato luogo, salvo quello relativo a una forma d’esperienza particolare (quale, appunto, quella a cui fanno riferimento alcuni ontologisti). I neopositivisti, come sappiamo, giudicano i discorsi della metafisica come del tutto privi di senso. Essi fanno riferimento a un linguaggio elementare che abbia immediato riscontro nell’esperienza comune; pertanto, come è noto, secondo la precisazione fornita dal Wittgenstein, considerano discorsi forniti di senso, cioè significativi sul piano della conoscenza intorno alla realtà, solo le tautologie logico-matematiche (che si giustificano sul piano autonomo della logica) e le proposizioni verificabili sul piano empirico. Le proposizioni metafisiche, in quanto non appartenenti a queste due classi considerate le uniche “vere”, sarebbero senza senso ai fini della conoscenza, tali, cioè, da non accrescere il sapere e da non recare nessun contributo alla soluzione dei problemi e a dare risposte agli interrogativi intorno alla realtà. Anzi gli stessi problemi ai quali la metafisica intende dare una risposta e che essa medesima pone sarebbero falsi, anch’essi privi di senso.27 27
Così M. Schlick osserva che la metafisica cade “non perché la soluzione del suo problema sia un’impresa oltrepassante le capacità della ragione umana (come, per esempio, ritenne Kant), bensì perché non sussiste il problema stesso” (M. Schlick, La svolta della filosofia, 1930, tr. it. In AA. VV., Il neoempirismo, Torino 1969, p. 260. Cfr. anche Positivismo e realismo, 1932-33, in op. cit., p. 298: “L’empirista non dice al metafisico ‘le tue parole affermano il falso’, bensì: ‘le tue parone non affermano assolutamente nulla’”). E il Wittgenstein rileva che i problemi della metafisica non sono veramente problemi, in quanto assurdi e privi di senso (Tractatus, tr. it., Torino 1995, p. 43). Analogamente il Carnap afferma che le proposizioni della metafisica si rivelano all’analisi logica come
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L’atteggiamento radicalmente critico dei neopositivisti verso la metafisica risulta ridimensionato negli sviluppi più recenti di questa corrente, che, peraltro, si era proposto un programma esclusivamente scientifico, cioè quello di vigilare sulla fondazione del sapere scientifico, affinché in questo non trovassero posto proposizioni di carattere teorico, sorte in campi e in ambiti diversi da quello rigorosamente scientifico. La maggiore apertura verso la metafisica è dovuto specialmente al fatto che la tesi della fondazione esclusivamente empirica della scienza è stata sostituita da quella che attribuisce alla teoria un ruolo altrettanto decisivo. Il Popper è stato il principale artefice di questa modificazione: lo scienziato partirebbe in gran parte da teorie da verificare, poiché, infatti, le teorie non possono derivare dall’esperienza.28
La riabilitazione della metafisica negli sviluppi della filosofia analitica Secondo Popper, il metodo della verificabilità si applica alle proposizioni scientifiche e, quindi, non ha ragion d’essere la sua applicazione al discorso metafisico, che rivendica una sua “logica”, tanto che le tesi e le ipotesi della metafisica sono state sempre oggetto di discussione e sono state sottoposte ad analisi rigorosa, con lo sviluppo di argomentazioni che certamente non possono considerarsi prive di senso. Inoltre è da riconoscere che, nella storia dello sviluppo scientifico, le ipotesi metafisiche hanno avuto un’influenza positiva, stimolando l’indagine e proponendo campi d’investigazione significativi, tanto da poteri dire che scienza e metafisica hanno proceduto in un rapporto di stretta integrazione, poiché quest’ultima rappresenta “la fonte da cui rampollano le teorie delle scienze empiriche”.29 Infatti le idee metafisiche “determinano non solo quali problemi esplicativi sceglieremo di affrontare, ma anche quali tipi di risposte considereremo idonee, soddisfacenti o accettabili”.30 In questo senso, altri rappresentanti dell’empirismo logico e pseudoproposizioni: “Infatti, in esse, o compaiono parole che erroneamente si crede abbiano un significato (come ‘Principio’, ‘Dio’, ‘l’Idea’, ‘l’Assoluto’, il ‘non-ente’, la ‘cosa in sé’, ecc.) oppure tutte le parole ivi presenti hanno, sì, un significato, ma sono combinate in un modo così contrario alla sintassi, che non ne risulta alcun senso” (Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, 1932, tr. it. in AA. VV., Il neoempirismo, cit., pp. 505-506). La metafisica sarebbe, tutt’al più, una specie di poesia, senza però le qualità dell’arte e dunque inutile. Nel manifesto programmatico del Circolo di Vienna si legge: “Il metafisico e il teologo credono, a torto, di asserire qualcosa, di rappresentare stati di cose, mediante le loro proposizioni. Viceversa l’analisi mostra che simili proposizioni non dicono nulla, esprimendo solo atteggiamenti emotivi” (La concezione scientifica del mondo, 1929, tr. it., Bari 1979, pp. 75-76). La metafisica, per i filosofi del Circolo di Vienna, sarebbe un’illusione, un errore, una ‘malattia’ connessi a un arbitrario uso del linguaggio. L’errore principale consisterebbe nel fatto che alla metafisica si attribuisce un valore conoscitivo di alto livello, come, appunto, quello che riguarda la possibilità di rispondere ai massimi problemi. Più recentemente, al concetto di “esperienza” è stato riconosciuto, dagli stessi rappresentanti dell’empirismo logico, una molteplicità di significati, per cui si è potuto arrivare a riconoscere una certa legittimità ad alcune forme di metafisica, connesse, come abbiamo rilevato, a dimensioni particolari dell’esperienza spirituale personale. In particolare, il Feigl ammette una metafisica induttiva, limitata alla attestazione di esperienze non verificabili, e il Neurath (peraltro radicale nella critica ad ogni residuo di metafisica nel discorso scientifico) ammette che esiste un piano dal quale elementi di ipotesi metafisiche sono ineliminabili e che il rischio della metafisica riguarda anche gli scienziati che si riportano, appunto, al confine tra la scienza e la metafisica. D’altra parte, i neopositivisti non hanno inteso escludere la validità e il ruolo della filosofia: essi hanno voluto liberare il sistema del sapere dalle proposizioni prive di effettivo significato e fondamento scientifico. Ad esempio, lo stesso Carnap attribuiva alla filosofia una funzione pragmatica, di riconoscimento del senso generale del mondo e della vita (Cfr. Soulez, Que reste-t-il de la philosophie aprés le dépassement de toute la métaphysique? Carnap et Heidegger, 1984). 28 A questo proposito il Feyerabend ha osservato che “la richiesta di ammettere solo quelle teorie che derivano dai fatti ci lascerebbe senza alcuna teoria” (Contro il metodo, 1975, tr. it., Milano 1979, p. 55). 29 K. Popper, Logica della scoperta scientifica, tr. it., Torino 1970, p. 348). Ad esempio, la cosmologia teorica ha fornito idee e motivi per lo sviluppo del sistema dell’universo e della stessa atronomia. E così, osserva Popper, “da Talete a Einstein, dall’atomismo antico alla speculazione di Gilbert, Newton, Leibniz e Boscovich sulle forze, a quelle di Fraday ed Einstein sui campi di forze, sono state le idee metafisiche ad indicare la strada” (op. cit., p. XXVII). Spesso anche “idee che fluttuavano nelle regioni della metafisica” sono trapassate nel campo delle teorie scientifiche. 30 K. Popper, Proscritto alla logica della scoperta scientifica, tr. it., Milano 1984, vol. III, p. 169.
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dell’epistemologia postpositivistica hanno potuto ammettere che la metafisica oggi continua a svolgere il ruolo di stimolo per l’avanzamento del sapere scientifico e per l’esplorazione di nuovi campi della scienza della natura.31 Una specie di rivalutazione della metafisica è stata messa in atto anche da alcuni filosofi analitici della scuola di Oxford, i quali si sono richiamati specialmente alla concezione del linguaggio (del secondo Wittgenstein) come fonte di giuochi linguistici, la cui validità è fondata sulla legittimità dell’uso pratico nel contesto della comunicazione e dell’espressione di esperienze significative. Si riconosce che i soli discorsi significativi non sono quelli degli scienziati, ma che hanno significato anche i discorsi che esprimono emozioni, sentimenti, desideri, come quelli dei poeti, degli artisti, dei profeti.32 La metafisica avrebbe la funzione di “forzare” la rete dei significati ordinari in cui sono sedimentati i nuclei significativi delle parole e di portare alla luce complessi semantici occultati dall’uso ordinario del linguaggio. In tal modo si avrebbe l’accesso a una “nuova e più potente visione delle cose”.33 Gli stessi epistemologi del Novecento hanno proceduto a riabilitare la metafisica. Kühn e Lakatos hanno ipotizzato nei loro “paradigmi” e “programmi di ricerca”, cioè negli schemi generali della produzione scientifica, la presenza di teorie metafisiche, orientative per la ricerca e la formulazione dei modelli teorici relativi alla formulazione di ipotesi scientifiche.34 E, ancora più radicalmente, il Feyerabend ha messo in rilievo la fecondità del discorso metafisico per lo sviluppo delle teorie scientifiche, che, peraltro, non sono esclusive ma ammettono in sé un pluralismo concettuale, dal cui confronto continuo si alimenta la stessa prassi scientifica.35
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Agassi ha parlato della metafisica come la disciplina capace di indicare “programmi per il futuro sviluppo scientifico” e Watkins ha elaborato il concetto della “metafisica influente” e “confermabile”, cioè tale da influire sugli sviluppi della scienza e costituita da proposizioni non falsificabili ma confermabili. Ad esempio, quest’ultimo osserva che “chiunque abbia indagato sulla rivoluzione scientifica del XVII secolo non può non essere stato impressionato dal ruolo ivi giocato da un gruppo di dottrine metafisiche, quali il determinismo, il meccanicismo, le dottrine sulla conservazione del momentum, la semplicità, l’ordine e la struttura matematica della natura” (Confirmable and Influential Metaphysics, in “Mind”, 1957, n. 67, p. 335). 32 Cfr. Dario Antiseri, Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede, Brescia 1980. 33 F. Waissmann, Analisi linguistica e filosofica, Roma 1970, p. 40. 34 Ad esempio, il Kühn ha osservato che nel secolo XVII “i fisici assunsero l’ipotesi che l’universo fosse composto di microscopici corpuscoli e che tutti i fenomeni naturali potessero essere spiegati in termini di forma, dimensione, moto e interazione di corpuscoli. Nel loro insieme, questi assunti erano al tempo stesso metafisici e metodologici: metafisici in quanto dicevano allo scienziato quali specie di entità conteneva l’universo e quali non conteneva; metodologici, in quanto determinavano le caratteristiche che dovevano avere le leggi ultime e le spiegazioni fondamentali” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche, 1962, tr. it., Torino 1969, pp. 62-63). 35 Cfr. P. K. Feyerabend, I problemi dell’empirismo, 1965, tr. it., Milano 1971. L’autorevole epistemologo ha, tra l’altro, affermato che “una scienza che sia libera dalla metafisica è nelle migliori condizioni per diventare un sistema metafisico dogmatico” (op. cit., p. 9).
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CAPITOLO XXXI Il pensiero italiano nella filosofia del Novecento A proposito della reazione antipositivistica. Il positivismo aveva segnato il trionfo della scienza e della tecnica, insieme all’esaltazione del progresso, inteso come avanzamento dell’umanità sulla via della conquista della felicità e del benessere. Esso era stato, dunque, l’espressione di una tipica epoca storica, in cui scienza e tecnica raggiunsero uno sviluppo straordinario e promettevano il riscatto dell’uomo dalla penuria, dalla fatica, dalla sofferenza. Era proclamato il diritto alla felicità. Certi toni polemici rivolti all’etica della rinuncia e dunque anche al cristianesimo come principale assertore di tale etica si spiegano in rapporto a quell’ideale di riscatto. Ma la scienza costituiva, nello stesso tempo, un limite, poiché essa risultava legata alla determinazione delle leggi fisiche e intendeva sottoporre l’uomo a quelle stesse leggi. La reazione al positivismo, perciò, assunse la configurazione della libertà dell’uomo, considerato come l’ente il cui essere andava oltre i limiti della natura. L’idealismo era la grande riserva della concezione spiritualistica, che giustificava la libertà umana, il cammino dell’uomo sulla via del dover-essere. In realtà, la concezione positivistica appariva viziata da una contraddizione: come poteva, infatti, essere proclamata la libertà dell’uomo, se l’uomo stesso veniva sottoposto alle ferree leggi della natura? Bisognava attribuire all’uomo la dignità della vita spirituale. In questo senso l’idealismo rappresentava la migliore soluzione per affermare l’uomo libero, proteso in una infinita conquista della libertà. Si trattava di considerare le condizioni di liberazione dalle leggi della natura, piuttosto che ribadire l’esclusiva sottomissione ad esse. Ragioni politiche, oltre che metafisiche e ideologiche, reclamavano una concezione spiritualistica e idealistica dell’uomo. Era il tempo della grande affermazione del liberalismo. L’individuo come libero soggetto della storia era il grande tema che si conciliava con la stessa esaltazione della scienza e della tecnica come strumenti di liberazione. Il determinismo della natura non si conciliava con la grande affermazione della libertà umana. Spaventa può essere considerato il grande rappresentante di questa esigenza teorica. Va bene, tuttavia, che questa concezione della libertà poteva trovare riscontri significativi nell’irrazionalismo. La libertà esigeva anche il superamento dei confini della stessa ragione. Nietzsche va oltre Hegel. La razionalità hegeliana è, in definitiva, una gabbia (logica) che tiene chiuse le possibilità dell’uomo. All’uomo sembravano aprirsi scenari nuovi, orizzonti inediti di sviluppo. In questo senso lo sviluppo descritto da Hegel nella Fenomenologia appariva limitato e circoscritto. Nietzsche inserisce l’uomo in un processo cosmico (l’innocenza del divenire) che non è chiuso in un fine preciso. L’uomo accetta e riconosce come sua propria condizione la possibilità stessa d’essere. Lo “slancio vitale” di Bergson sfugge a ogni delimitazione e a ogni categoria razionale: esso è radicale creatività. Perciò Gentile identifica lo sviluppo con l’atto spirituale, che è atto creatore. S’intende in tal modo celebrare la piena e radicale libertà dell’uomo. La scienza e la tecnica sono ricondotte al senso dell’atto in cui lo spirito configura se stesso. Nessuno sviluppo naturale sembra potere essere accostato a questo processo spirituale. La storicità dello spirito è continuo processo creativo. Di fronte alle scienze fisiche, dunque, si pongono, con caratteri nuovi e peculiari, le scienze dello spirito e le scienze storiche, che riguardano la peculiarità e novità dei processi spirituali. Mentre i fenomeni fisici accadono sempre allo stesso modo e seguono le identiche leggi deterministiche, gli eventi storici recano sempre qualcosa di imprevedibile e nuovo, sono, cioè, radicalmente diversi e non si lasciano ricondurre a schemi fissi e categorie univoche.
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Il tema dominante è la peculiarità e specificità della sfera spirituale, che si manifesta nelle molteplici forme dell’attività umana. Si tende a eliminare ogni traccia di determinismo dalla prassi umana e dalla storia. Spaventa, in questo quadro, rappresenta la resistenza dell’hegelismo e del razionalismo, secondo cui le forme della vita spirituale sono definite secondo un senso che è lo stesso sviluppo teleologico della vita spirituale, dalle forme più oscure a quelle più limpide della esperienza della coscienza. Anche la rinascita dello spirito del kantismo risponde a questa esigenza di definizione delle categorie della vita mentale e spirituale, in quanto principi che fondano le sfere dell’attività umana, dalla conoscenza alla morale, dall’arte alla religione, dalla tecnica alla politica. Il kantismo prelude, in qualche modo, alla fenomenologia. L’analisi, come “critica della ragione”, riguarda l’articolazione delle facoltà della mente in rapporto alla complessa articolazione della vita spirituale e storica. Oltre questa posizione critica, la libertà sembrava volere attingere domini indefiniti, non disciplinati da una precisa legislazione mentale. La stessa psicanalisi contribuiva a configurare il quadro di una dinamica sottratta a ogni legislazione categoriale. Anche le scienze fisiche e matematiche, infine, apparivano come costruzioni arbitrarie, fondate sull’uso e sull’applicazione di categorie mentali possibili. La cultura del secolo XX sarà basata sulla convinzione che l’intera realtà corrisponde a una costruzione mentale e che noi abbiamo sempre a che fare con le nostre produzioni. L’universo è una costruzione della mente, in quanto è quello che la scienza astronomica ci rappresenta. L’analisi matematica ci dà l’idea della costituzione profonda della materia. Il sistema delle scienze è lo stesso sistema dell’universo fisico. La “volontà di potenza” a un certo punto assunse anche l’aspetto della volontà di dominare il mondo, disegnando la carta geo-politica mondiale in rapporto alle prospettive di espansione della propria vitalità. La “guerra mondiale” diventava, così, come un aspetto di quella generale visione del mondo come risultato della prassi dispiegata con l’aiuto della tecnica. L’ideologia della potenza mondiale rappresentava, d’altra parte, lo sviluppo dell’ideologia della nazione, propria della cultura romantica. I popoli come soggetti della storia degeneravano in espressioni della volontà di potenza, di dominare il mondo. La sistemazione geopolitica del mondo appariva come qualcosa da definire, in rapporto al compimento della potenza di una nazione che si attribuiva il compito e la funzione di guida dell’umanità. In questo modo si è andata configurando la complessa fenomenologia del secolo XX. La filosofia italiana nel Novecento Quale eredità ha lasciato l’Ottocento alla filosofia italiana? Il pensiero italiano negli ultimi decenni dell’Ottocento si era rinsaldato al pensiero europeo, del quale rifletteva gli indirizzi prevalenti, con l’aggiunta di qualche peculiare apporto originale. Il positivismo continuava grazie all’opera di Ardirò e di una schiera di pensatori, pedagogisti, studiosi di scienze sociali (tra cui, ad esempio, il Tarozzi). Ed era vivace il dibattito su Spencer e l’evoluzionismo. Il neocriticismo era rappresentato in modo eccellente: ad esempio il Cantoni non era secondo rispetto ai classici rappresentanti del neokantismo in Germania. Lo spiritualismo risorgeva grazie a Varisco e Martinetti. A ciò si aggiungeva il grande sviluppo dell’hegelismo grazie alla scuola di Bertrando Spaventa. Da tale ceppo si sviluppavano, quindi, lo storicismo e l’attualismo, le filosofie più notevoli della prima metà del Novecento. Vivace e criticamente aperto fu anche il dibattito sul marxismo, con Labriola, Mondolfo, Gramsci: si deve riconoscere che la linea italiana è stata quella maggiormente feconda, grazie, appunto, alla visione storicistica in cui venne a inquadrarsi. Nello stesso tempo non mancarono spunti esistenzialistici, con Michelstaedter. Certo la corrente che ha avuto la maggiore incidenza nei primi decenni è stato il pragmatismo, con Calderoni, Vailati, Prezzolini. Queste filosofie partivano tutte dal primato dell’azione. Anche per Croce il pensiero si esplica come attività che modella il mondo (configurandolo come sfera etica della libertà). Il “fare” vichiano qui svolgeva la sua funzione di categoria metafisica fondamentale. E nel suo fare si risolveva il pensiero per il Gentile. Croce esaltava le istituzioni liberali come espressioni del fare consapevole da parte dello spirito libero. La riflessione sulle forme o categorie dell’attività spirituale costituiva il tema proprio degli indirizzi che si sono venuti sviluppando dalle filosofie di Croce e Gentile (in articolare da quest’ultimo). Carlini, Spirito, Carbonara, Sciacca, Contadini e altri ancora hanno elaborato motivi gentiliani, cercando di dare forme definite al
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pensiero come principio del fare umano. L’interesse per l’organizzazione dell’attività storica rispondeva, sul piano sociale, all’emergere della borghesia e all’affermazione della tecnica. Non a caso una delle tematiche fondamentali era costituita dalla riflessione sul nesso di scienza e filosofia. La ragione era ridimensionata alla luce di una ideologia che intendeva l’attività pratica come debordante la razionalità e regolata da categorie autonome del fare. Si trattava, del resto, di una generale tendenza, che caratterizzava la civiltà mondiale nell’età delle guerre mondiali. Le guerre stesse sono state le manifestazioni del “fare” pratico debordante l’ordine e le categorie della razionalità. Il nesso scienza-filosofia era espressione strema del sapere sottomesso alla prassi. Proprio avvertendo il vuoto teorico che si stava producendo, il mondo cattolico cercò allora di riportare in auge la filosofia di Tommaso, come criterio razionale dell’attività etica. Si trattava di far rientrare l’attività pratica entro le categorie razionali dell’etica. Il pensiero neoscolastico finiva così per polemizzare contro l’intero sviluppo della civiltà moderna, essenzialmente dominata dal motivo dell’azione rivolta a modellare il mondo, al di là degli aspetti naturali. D’altra parte, le filosofie italiane ponevano lo stesso problema sul versante di un pensiero laico (ma in sostanziale dialogo con i neoscolastici). Labriola ha contribuito allo sviluppo del socialismo democratico. Certo, il problema del soggetto della storia, individuato nella classe dei lavoratori, risultava coerente a una prospettiva che si poneva in alternativa al mondo borghese, inevitabilmente destinato alla prova più tragica del conflitto. Al capitalismo liberista si contrapponeva l’ideologia pacifista della prassi socialista unicamente interessata al riscatto dell’umanità dal fardello di cui si caricava allora la borghesia imprenditoriale e concorrenziale. Prassi sociale prassi borghese si opponevano nettamente e Labriola era consapevole intorno all’impossibilità di trovare un compromesso tra liberalismo e socialismo. Vailati è il filosofo che maggiormente ha discusso ed esaminato il nesso di filosofia e sapere scientifico. Qui le istanze della scienza e della filosofia finiscono per cedere il primato all’organizzazione della prassi. Si rileva, ad esempio, che le categorie e le ipotesi scientifiche vanno revisionate continuamente in rapporto alle esigenze dell’organizzazione della prassi. Complessivamente inclini ad ammettere il primato della sfera pratica risultavano anche i neokantiani (Cantoni, Tocco, Barzellotti, Fiorentino, Masci). Un ritorno a Vico appare, in definitiva, la filosofia di Croce. Gentile va oltre lo storicismo, approdando a un irrazionalismo mistico, in cui lo spirito del fare coincide con lo stesso pensiero in atto (che è un pensiero inconsapevole di sé, poiché si è trasformato interamente nel suo attuarsi). Più legato all’istanza razionale appare il Martinetti, in cui l’idea della realtà è dominata da una fondamentale istanza teleologica: “l’attività del nostro pensiero è una lenta e continua creazione di questa realtà più alta, che insensibilmente si sostituisce alla realtà che oggi ci è data, la costituzione del mondo intelligibile non è soltanto una costruzione soggettiva, ma è veramente l’inizio d’una nuova realtà, la rivelazione iniziale dell’essere profondo delle cose”. Non mancarono coloro che cercarono di dare all’attività pratica i fondamenti razionali dell’etica: ad esempio il Calderoni, il Marchesini e il Limentani possono essere considerati “moralisti” nel senso classico del termine. Tipico rappresentante di questo indirizzo è anche Erminio Juvalta. Lo sviluppo di una filosofia della prassi come ideologia dell’attività rivoluzionaria della classe lavoratrice (il soggetto di un mondo pacificato) ha avuto come suo principale autore il Gramsci. Nel clima del secondo dopoguerra, dominato dalla volontà di ricostruire il tessuto della razionalità critica in un mondo ancora possibile, si è profilato un essenziale ritorno alla ragione. Un razionalismo critico è, ad esempio, l’indirizzo teorico del Banfi. Sulla possibilità di configurare un mondo razionale è rivolta la riflessione dell’Abbagnano. S’intende scoprire il carattere positivo della stessa finitudine esistenziale. Nello stesso si rileva l’impossibilità di una metafisica dell’essere. La critica della categoria dell’essere costituisce un punto centrale nella generale inversione di rotta dell’indagine filosofica. Oggetto di riflessione è il finito, la condizione dell’esistenza. E l’esistenza può essere considerata da un punto di vista fenomenologico, attraverso la descrizione del suo articolarsi e prodursi. Per alcuni filosofi che non intendono rompere la tradizione della metafisica, si pone come ancora attuale il ricorso alla trascendenza dell’essere. Ugo Spirito finisce per dichiarare come unico campo di conoscenza quello della certezza scientifica. Si tratta di dar luogo a un sapere universalmente accettato. L’unica possibilità che rimane agli uomini sul piano della certezza è di approfondire ed estendere il campo della scienza positiva (ad esempio alla società). Cleto Carbonara in modo simile guarda allo sviluppo del sapere attraverso i modi dell’organizzazione (universale) dell’esperienza. Ritengono che non si debba rinunciare alla metafisica dell’essere Sciacca, Carlini, Guzzo, Stefanini e altri (oltre, ovviamente, ai rappresentanti della neoscolastica). La critica della ragione si sviluppa
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(specialmente in Luigi Preti) in senso storicistico, non ammettendo più categorie immobili ma schemi costituiti storicamente e relativi all’approfondimento dell’esperienza. Si va verso una convergenza di motivi diversi in una sintesi scientifica e filosofica. Marxismo, fenomenologia, pragmatismo, problematicismo, storicismo, razionalismo, neo-positivismo appaiono come elementi di una sintesi ampia e articolata. Enzo Paci può essere considerato un protagonista di questo indirizzo di costituzione di una vasta sintesi fenomenologica. La sintesi può essere individuata, quindi, nel “pensiero debole”. La filosofia italiana nel secondo dopoguerra Nell’autunno del ’46 si tenne a Roma un importante congresso internazionale di filosofia, il primo, ovviamente, dopo la guerra e il primo, tra quelli tenuti in Italia, che vantasse la partecipazione dei più importanti filosofi viventi. Le tematiche fondamentali erano l’esistenzialismo e il marxismo. L’esistenzialismo era stato del tutto ignorato in Italia dalla cultura idealistica e spiritualistica. Bobbio allora rilevava il significato di quella filosofia come segno della crisi dei tempi: una specie di antihegelismo, una confessione di fede del fallimento stesso della filosofia nella storia dell’Occidente, una resa del pensiero all’irrazionale e al nichilismo. L’importanza maggiore consisteva in quel richiamo all’interrogativo sul senso di una storia millenaria della razionalità. Perché l’uomo si scopriva irrazionale e affidava alla filosofia questa scoperta? Così riassume il Garin a proposito della funzione e del ruolo dell’esistenzialismo nella cultura della prima metà del Novecento: “La sua forza polemica contro la visione superficialmente ottimistica di una realtà garantita, e contro i troppo comodi miti di tanta filosofia ottocentesca; la sua violenta distruzione delle fiduciose evasioni idealistiche e spiritualistiche; la sua negazione di troppi enti di ragione e di troppo finzioni ‘metafisiche’; il suo richiamo all’esperienza; la sua sfiducia nella filosofia ‘scolastica’ e professorale, staccata dalle molteplici forme della vita concreta dell’uomo; la sua implicita richiesta di un umanismo ‘reale’: tutto questo è rimasto acquisito alla cultura contemporanea, ed ha operato proficuamente per una restaurata serietà di ricerca”36 Sono passati attraverso l’esperienza dell’esistenzialismo filosofi come Abbagnano, Paci, Luporini, per i quali quell’esperienza significò un aprirsi di orizzonti nuovi intorno alla struttura dell’uomo come esistenza possibile e storicità concreta. In qualche modo affine è stato il problematicismo. “Il problematicismo fu, con tutti i suoi sviluppi, l’ultima avventura dell’attualismo, in cui echeggiò un nobile senso del filosofare, e un’accorata e dolorosa consapevolezza di una realtà storica crudele ed amara, che non concede di partecipare se non parteggiando, soffrendo e facendo soffrire, in un’umanità divisa nelle idee e nelle azioni”.37 Né sembrano sforzi teoretici condotti all’altezza richiesta dalla situazione quelli delle correnti neospiritualistiche, che, sotto la parvenza di una novità, in realtà riproponevano motivi ottocenteschi, difficilmente attualizzabili. E lo scopo in definitiva era quello del controllo di importanti cattedre universitarie. “Sullo sfondo di pensatori ottocenteschi scelti fra i più arcaici, e conservati in tutte le loro chiusure così teoretiche come pratiche, l’edifizio barocco di cosiffatte ‘nuove’ metafisiche ha coperto sotto le volte dei sublimi ardimenti ideali la difesa di molto precisi interessi mondani”.38 Tali sono stati gli approdi di molti professori di filosofia che erano stati già idealisti (gentiliani e crociani). Ma l’idealismo non si è risolto soltanto in tali esiti. L’eredità di Spaventa, De Sanctis, Labriola fu sempre viva: “e non è vero che scegliere Spaventa, o De Sanctis, sia rinnegare il senso positivo e concreto del reale, la storia degli uomini”.39 Lo stesso storicismo, e insieme il marxismo rielaborato nella versione gramsciana, e poi il razionalismo critico, hanno costituito un fronte interessante, contrapposto a quello, ampiamente retorico, degli spiritualisti. “Contro il narcisismo delle anime belle, contro la retorica e il mito, oltre la sterile ed evasiva esasperazione del dubbio, da più parti, e sia pure in forme diverse, si è venuto definendo un modo del filosofare umile insieme ed intransigente, scientifico perché fondato sulla ragione, sempre AA. VV., La cultura italiana tra ‘800 e ‘900, Bari 1964, p. 215. Ib., p. 217. 38 Ib., p. 217. 39 Ib., p. 217. 36 37
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impegnato in questioni precise, con l’intento di chiarire criticamente il nostro discorso, e di offrire all’opera strumenti per migliorare la nostra condizione; un filosofare, insomma, tutto calato nella realtà, eppure conscio dei confini del mondo, sempre inquieto e mosso a stimolare l’indagine oltre ogni ordine dato, verso un nuovo ordine più soddisfacente” (Ib., p. 227). Intorno al 1948 il Pareyson scriveva: “L’esistenzialismo si presenta immediatamente come una filosofia della libertà, […] dato che la filosofia dell’esistenza nacque come una rivolta contro la filosofia hegeliana, intesa come un razionalismo metafisico negatore della libertà” (cit. p. 284). “Il fatto è – aggiungeva – che l’esistenzialismo tedesco non è che il capovolgimento di quel razionalismo metafisico che caratterizza una parte della filosofia moderna” (Ib.). In realtà l’interesse per l’esistenzialismo era stato piuttosto diffuso nella cultura filosofica italiana. Osserva il Garin: “Certo non mai propriamente esistenzialista Galvano Della Volpe ma dell’esistenzialismo studioso attento, nel ’43 credeva ancora alle sue possibilità, nell’ambito di una polemica antiromantica (‘l’esistenzialismo è […] attuale […], in quanto tenta di sostituire all’individualismo romantico un individualismo che direi realistico o storico, cioè un individualismo che tende ad essere tanto concreto quanto il primo è astratto e immorale’). L’esistenzialismo era senza dubbio esposto alle peggiori tentazioni, ma ‘la sua aspirazione più profonda’ era la tendenza verso ‘un nuovo individualismo e umanismo, veramente moderno, antidogmatico, un umanismo veramente virile anche nel suo pessimismo (critico)” (Ib., p. 291). L’eredità dell’idealismo Come dobbiamo interpretare l’eredità dell’idealismo? Innanzitutto come l’inscindibilità del reale dal pensiero. Non solo è impossibile concepire (comprendere) il reale senza il pensiero, ma non è neppure porlo (supporlo). Il reale è inseparabile dalla sua pensabilità. L’errore della metafisica classica era quello di supporre il reale come una sfera autonoma, indipendente dal pensiero. Il pensiero raggiungerebbe dall’esterno la realtà, cogliendola in rapporto alla sua costituzione analogica. Per la metafisica “nuova” (come dicono gli idealisti), pensiero e realtà costituiscono due differenti modi d’essere della medesima e unica sostanza. Il reale non può derivare dall’esterno la sua pensabilità, la sua struttura razionale; deve invece possederla intrinsecamente, costitutivamente. Il pensiero è un aspetto della identica realtà, anche se strutturato in un modo peculiare, diverso dalla struttura della natura. Non vi è realtà prima del pensiero, e viceversa. Questa inscindibilità di pensiero e realtà è il “dogma” dell’idealismo (sia pure dimostrato). Il pensiero non può essere senza pensare niente; il reale non può essere senza una struttura pensabile. La conoscenza è possibile sulla base di questa unità fondamentale. Il soggetto sviluppa le condizioni della conoscenza che appartengono alla struttura del reale; non crea quelle condizioni. La conoscenza appartiene al reale nella sua costituzione: il soggetto la attua in forme determinate. Il soggetto esplica e attua le condizioni di conoscibilità che sono proprie della realtà degli enti che vengono fatti oggetto di conoscenza. Perciò di parla di strutture e di processi a priori. Per Kant le condizioni della conoscibilità sono le forme a priori; ma esse sono considerate come proprie del soggetto, come strutture e forme della ragione (mente umana). Kant non è pervenuto a considerare le forme a priori come strutture proprie della realtà. Gli idealisti hanno compiuto questo passo: hanno assimilato il soggetto (con le sue forme a priori) alla realtà stessa (concepita dunque come Io). Essi non hanno tenuto (troppo) presente che il soggetto elabora i contenuti del sapere (comprende il reale come tale contenuto) e non è esso stesso quei contenuti (la realtà stessa). Le forme a priori (trascendentali) riguardano l’attuazione della conoscenza, non la costituzione ontologica della realtà. Esse hanno una funzione gnoseologica e non ontologica. Gli idealisti tendono a identificare i due piani, attribuendo una consistenza reale ai contenuti della conoscenza. Invece questi hanno la loro radice nella costituzione del soggetto conoscente. Gli idealisti rischiano di identificare il reale con l’oggetto della conoscenza. Per Hegel la realtà stessa è assimilata al concetto. Gli enti sono veramente (nella loro razionalità) in quanto sono concetti, cioè considerati nella loro pensabilità. I concetti sono i termini della conoscenza assoluta: essi esprimono la realtà in quanto conosciuta nella sua essenza propria. La scienza della realtà, l’ontologia, è la logica (la scienza dei concetti). Si considera la conoscenza sempre più vera in quanto sempre più pura, cioè in quanto attinta dalla ragione, cioè nella condizione della sua pensabilità. In che si differenzierebbe il real-idealismo? Forse nel fatto che esso intende la conoscenza non come un processo puro,
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basato sull’uso delle sole categorie a priori, bensì come un processo complesso che muove dall’esperienza ed è capace di andare oltre di essa, per coglierne l’interna struttura. La conoscenza empirica, in questo senso, è significativa. Da essa, infatti, muove ogni processo conoscitivo e su di essa è fondato ogni sapere. Si tratta di una differenza gnoseologica, cioè, non propriamente ontologica. Il real-idealismo non discute intorno all’unità fondamentale di pensiero ed essere. Esso non mette in discussione la costituzione ontologica del reale. Ma si differenzia nel modo di intendere la metafisica come il risultato di un processo complesso che muove dalla conoscenza empirica e non come una forma di conoscenza pura. Non si costruisce una metafisica per via puramente logica; bensì si perviene a questa forma di conoscenza alla conclusione di un percorso che muove dai dati empirici e passa attraverso la riflessione critica costituita come un trascendimento continuo. Il metodo della metafisica va rifondato, dunque, e non va assunto acriticamente. La “nuova” metafisica va discussa e fondata sulla elaborazione critica di un metodo adeguato. La metafisica s’inquadra nella forma di sapere che storicamente si delinea. Essa ha un carattere storico. La logica/metafisica di Hegel invece si configura come un sapere assoluto, come una scienza pura. La razionalità, invece, ha una struttura relativa, attuabile in forme diverse e in rapporto al quadro complessivo del sapere. Il real-idealismo è problematico. Sulla linea del real-idealismo probabilmente si è configurata la linea dall’attualismo al problematicismo. Il travaglio dell’idealismo consiste in questa oscillazione tra l’esigenza idealistica e quella realistica. Il real-idealismo, elaborato per prima da Spaventa, rappresenta la soluzione di tale oscillazione, la risoluzione critica di una aporia. Il real-idealismo muove dai dati dell’esperienza e segue il metodo fenomenologico, della progressiva scesa della ragione verso punti di vista capaci di fornire una visione (elaborazione del sapere) maggiormente totale. La visione dialettica della filosofia sarebbe il culmine del metodo della conoscenza. Idealisticamente, si considera la coscienza, nell’esplicazione delle sue facoltà conoscitive, come la struttura fondamentale. La coscienza produce innanzitutto la natura. Nella natura la coscienza si nasconde, si assimila con le strutture inconsce. Dalla natura poi riprende il cammino verso il riconoscimento di sé. La natura stessa diventa, poi, oggetto della logica. Infatti la coscienza riporta sul piano concettuale le strutture inconsce, il sistema stesso della natura. La scienza della natura, invece, si ferma al grado della manifestazione inconscia. Le strutture naturali sono separate dai processi della coscienza. La coscienza, infatti, si è sedimentata in esse. La filosofia intende andare oltre e penetrare questa sedimentazione, riportarla alla coscienza. La coscienza si riconosce nella natura, in quanto essa ha prodotto le strutture naturali. Queste recano l’impronta della coscienza. La logica considera le strutture naturali in quanto espressioni della coscienza, in quanto la coscienza si è sedimentata in esse. La scienza naturale non si pone il problema dell’oltrepassamento, della considerazione della natura in quanto prodotto della coscienza.
Nella filosofia si distinguono il punto di vista fenomenologico e il punto di vista logico. Il primo riguarda lo sviluppo della coscienza; il secondo considera la struttura della coscienza nella forma della sua compiuta realizzazione. Il punto di vista dell’uomo della strada, ad esempio, costituisce un particolare momento della vita della coscienza, quel momento che corrisponde al realismo della coscienza empirica (la hegeliana “certezza sensibile”). La coscienza non è consapevole di essere la produttrice del mondo reale; essa assume tale mondo come un dato. Il positivismo corrisponde a questo modo di vedere. I fatti positivi sono i dati obiettivi, che assumono la configurazione di dati, anche se sono espressioni del fare umano. La coscienza produce i dati reali ma considera tali dati come esistenti di per sé, anteriormente alla stessa attività della coscienza. Oggettività e gnoseologismo nella filosofia moderna La scienza moderna gravita intorno a questa osservazione di Galileo: “Vaglia dunque l’esercizio permessoci e ordinatoci da Dio per riconoscere e tanto maggiormente ammirare la grandezza Sua, quanto meno ci troviamo idonei a penetrare i profondi abissi della Sua infinita sapienza” (Dialogo sopra i massimi sistemi, Giorn. IV (in Opere, ed. naz., VII, p. 489). L’uomo non può comprendere i misteri della creazione; può tuttavia sviluppare una scienza esatta della natura. Questa scienza è strettamente connessa con la fede. Chi ha tratto le conseguenze gnoseologiche dalla nuova situazione è stato Kant, il quale, appunto, ha inteso giustificare, sul piano logico, la scienza oggettiva della natura, ma ha dimostrato come proprio le
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ragioni che rendevano possibile la fondazione di una fisica (il sistema dei principi trascendentali applicato alla elaborazione dei dati empirici) escludevano ogni conoscenza metafisica. La ragione, come facoltà rivolta a comprendere il reale nella sua intelligibilità, si ritraeva, per lasciare il posto all’intelletto. Cartesio aveva ancora ritenuto che fosse possibile la metafisica come scienza razionale delle diverse sfere della realtà e aveva tratto l’idea della “res extensa” dalla concezione meccanicistica della natura: l’ipotesi fisica del meccanicismo consentiva lo sviluppo di una metafisica dualistica. Kant ha ricondotto la ragione alla dimensione trascendentale dell’intelletto, escludendo lo sviluppo di una scienza esclusivamente razionale e restringendo l’ambito scientifico alla elaborazione dei soli dati dell’esperienza sensibile. L’unica scienza possibile appariva così quella dei fenomeni e la natura si configurava come l’ambito dei fenomeni. Le condizioni dell’obbiettività sono nel soggetto, non riguardano l’essere. In realtà sembrava impossibile oltrepassare il soggettivismo trascendentale. Kant ha tratto le conseguenze logiche dalla trasformazione subita nell’età moderna dalla concezione della realtà e del soggetto. Per la prospettiva classica (platonica e aristotelica) l’intelligibilità riguarda il reale nella sua costituzione essenziale e si pone un processo di continuità dall’esperienza sensibile alla metafisica; per la concezione moderna le condizioni dell’intelligibilità appartengono al soggetto e sono quelle, appunto, scoperte ed elencate da Kant: esse danno una conoscenza delle condizioni empiriche del reale, né si dà un processo di approfondimento nell’ambito dell’intelligibilità, che rimane legata alle condizioni conoscitive del soggetto. “Ciò che Kant considera non è più la ragione come ‘facoltà dell’eterno’, ma la ragione come ‘facoltà delle regole’, e quindi – in un certo senso – una larva di ragione, capace bensì di costruire la scienza, ma internamente destituita di qualsiasi potere intuitivo (o ‘intellettivo’, nel senso originario e pregnante del termine. Del resto è ovvio come, passando da un universo eterno a un universo creato, anche la dottrina dell’intelligenza debba subire una metamorfosi profonda: poiché un mondo creato (non emanato, non partecipato) non ha più in sé alcuna intrinseca intelligibilità, ma è posto con un atto di arbitrio di Dio, i cui decreti la nostra intelligenza non ha più il compito di penetrare, ma soltanto di passivamente registrare”.40 Il razionalismo moderno ha cercato di far sussistere una specie di compromesso tra la scienza moderna e l’antica metafisica, attribuendo al soggetto empirico la facoltà della scienza esatta della natura e all’intelligenza razionale la scienza dell’essere. Kant ha posto fine a questo compromesso, dimostrando che la metafisica dipende da un uso illegittimo della ragione, dalla pretesa della ragione di dedurre le idee generali intorno alla realtà, senza l’apporto dell’esperienza, secondo la famosa immagine della colomba che crede e s’illude di potere volare meglio senza la resistenza dell’aria. L’intelligenza che si suppone e richiede per un mondo che dipende dalla volontà di Dio non riguarda l’essere (che coincide con Dio stesso), bensì una realtà provvisoria (dipendente da quella volontà), il cui unico senso è quello che emerge dall’esperienza umana, dalla umane capacità intellettive. Il soggetto umano si pone, infatti, al centro della creazione, tanto che il reale stesso si subordina ad esso, ha senso in quanto può essere descritto in modo uniforme e regolare. All’uomo è data un’intelligenza adeguata per tale descrizione, mentre la scienza dell’essere è interamente accantonata, una volta che all’essere stesso è sostituito il mistero della creazione. La metafisica è esclusa dall’ambito dell’intelligenza. Anzi viene meno l’oggetto della metafisica (l’essere); e la dimensione reale unicamente accessibile all’intelligenza è quella fenomenica. La filosofia non può più dar conto della natura delle cose, non riguarda le ragioni d’essere, gli enti nella loro struttura intelligibile. In più, il mondo fenomenico è oggetto di manipolazione: le cose risultano dalla loro composizione, sono aggregati di particelle materiali. Nel pensiero moderno accade che la metafisica, come scienza puramente razionale, si riferisca a una dimensione puramente possibile del reale, a essenze separate dall’esistenza. Essa riguarda, in questo senso, la possibilità del mondo, non il mondo reale. Si comprende che in tal modo la metafisica perde ogni funzione relativa alla realtà delle cose, per assumere un significato astratto, per cui l’esistenza costituisce un’aggiunta accidentale, non connaturata con l’essenza. Si tratta di una posizione che risale ad Avicenna e che caratterizza l’avicennismo in contrapposizione all’averroismo. In tale situazione l’ultima parola spetta alla 40
P. Filiasi Carcano, op. cit., p. 281. Per il concetto della ragione come “facoltà dell’eterno”, cfr. P. Philippson, Origini e forme del mito greco, tr. it., Torino 1949, pp. 21-25. Il Gilson ha rilevato che l’universo della scienza moderna è quello occamista, in cui noi vediamo gli eventi che si verificano ma non percepiamo le cause del loro verificarsi, poiché essi dipendono unicamente dalla volontà di Dio e potrebbero essere altri se Dio lo volesse. La nostra intelligenza è limitata all’osservazione dei fenomeni e alla registrazione, tutt’al più, della loro regolarità.
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fede: persino l’esistenza del mondo implica la fede, come ha osservato Berkeley. Senza la fede noi non potremmo neppure attestare l’esistenza del mondo nel quale viviamo. Una situazione analoga viene a verificarsi, secondo Kant, nella sfera della moralità, dove non si tratta più di conseguire la perfezione della natura umana, bensì di improntare la volontà a un modello di legislazione universale. Analogamente che per i principi trascendentali della conoscenza, si danno i principi dell’agire morale, che sono altrettanto universali. Nella morale, si tratta di attuare l’umanità universale, che riconosce i principi trascendentali della moralità (la libertà, l’immortalità dell’ani,a, Dio, come postulati della ragion pratica, basati sulla fede). Le due sfere separate della conoscenza e della morale, l’una fenomenica e l’altra profondamente metafisica, tornano a unirsi in Fichte. La sfera della morale, fondata sulla libertà del principio o fondamento (l’Io assoluto), diventa la stessa dimensione metafisica del senso del reale. Il dover-essere è questo reale: il senso dell’essere è il processo del suo compimento. La metafisica della morale in Kant si compie esclusivamente sul piano della morale. In Fichte si compie sul piano dell’essere. Il dover-essere è il senso dell’essere; esso costituisce la dimensione metafisica del reale. “In Fichte, noi vediamo il rapporto tra criticismo e moralismo (concepito ancora alquanto estrinsecamente da Kant) diventare intrinseco; e questo è molto importante perché rende possibile il costituirsi di una nuova metafisica, il cosiddetto idealismo della libertà” (Filiasi, 293). Il moralismo kantiano, seppure avente una base metafisica, si riporta alla fede; quello fichtiano intende sganciarsi dalla fede e quindi emanciparsi dalla stessa religione, per radicarsi nella questione filosofica del senso dell’essere. Ritorna, si può dire, l’antica domanda metafisica. Il moralismo si fonda metafisicamente; ha la sua radice nell’essere libero, nella concezione del principio o fondamento in senso soggettivo. Il reale è l’Io libero (o che si attua come libertà). La libertà kantiana si riporta, invece, alla fede religiosa: continua ad essere, in qualche modo, la libertà del cristiano. L’umanità universale ha il suo fondamento nell’Io libero. La morale e la metafisica ora coincidono. In Kant, invece, le condizioni della morale mancano di una vera e propria consistenza metafisica. La conoscenza fa parte della stessa moralità, in quanto si iscrive nel processo stesso di affermazione (e di attuazione) dell’Io libero. Storia, morale, metafisica qui si saldano profondamente insieme. Nella prospettiva fichtiana la conoscenza si sostanzia nella morale, ha senso in rapporto alla libertà del soggetto. Infatti Fichte critica una conoscenza che abbia il suo fine in se stessa, la scienza cosiddetta oggettiva. Si profila così l’ideale di una conoscenza che sia finalizzata alla realizzazione, al compimento dell’umanità libera. In questo senso si è potuto parlare dell’affacciarsi di una nuova gnosi. La conoscenza apre le porte del mistero dell’essere (cfr. Filiasi, p. 295). L’approfondimento del tema della funzione della conoscenza per l’attuazione del soggetto libero è compiuto da Schelling ed Hegel, in cui la gnosi si annuncia come “filosofia della libertà” e come “sapere assoluto”. “Kant aveva mostrato che la scienza cristiana era una scienza fenomenica, che doveva essere duplicata dalla fede, e Fichte (pur integrando genialmente Kant) era rimasto, almeno in parte, vincolato a questa posizione; Schelling ed Hegel ripropongono invece in pieno il problema della nuova scienza (di una scienza che non sia liitata dalla fede) e hanno cercato entrambi, ciascuno coi propri mezzi, di assolvere questo programma. Così vediamo (soprattutto forse con Schelling) risorgere la scienza proibita, la ‘scienza della creazione’, che non rispetta i misteri di Dio, e cerca nell’anima umana i mezzi per investigare questi miseri” (Fiiasi, p. 296). Hegel ha considerato il cristianesimo come la religione assoluta, dunque come l’espressione in forma di verità dogmatiche della stessa conoscenza filosofica come sapere assoluto. Egli infatti scrive: “Nella religione cristiana si sa che cosa sia Iddio […] la religione cristiana è quella che ha manifestato agli uomini la natura e l’essenza di Dio. […] I cristiani sono, così, iniziati ai misteri di Dio; e in tal modo ci è data anche la chiave per intendere la storia del mondo” (Lezioni di filosofia della storia, vol. I, pp. 26-27). Si può discutere l’osservazione del Filiasi Carcano, che in realtà questa conoscenza di Dio “si riduce a conoscenza del mondo (del divino nel mondo o, più esattamente, dell’ordine divino del mondo)” (p. 300). In questo senso il pensiero hegeliano sarebbe rivolto alla conoscenza del mondo e della storia: la vera realtà, per Hegel, è lo Spirito assoluto che si attua nella storia del mondo. In realtà sembra ad alcuni (come ad esempio al Carabellese) che la scienza idealistica hegeliana sia piuttosto che una scienza dell’essere una
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scienza dell’oggettività (lo Spirito oggettivo che è il soggetto della storia). Come ha osservato l’Alquié: “Il soggetto dell’idealismo, avendo perduto il senso dell’esserre, si dà come costruttore dell’oggetto in generale, o la fonte dei valori” (La nostalgia dell’essere, p. 44, cit. p. 203). Così l’idealismo, “sostanzializzando, sotto il nome di soggetto, la perdita dell’essere legata alla costituzione del pensiero scientifico, camuffa in vittoria la disfatta delle aspirazioni ontologiche della coscienza”. Perciò il Filiasi Carcano può osservare: “L’identificazione hegeliana fra logica e metafisica è, in fondo, una riprova che manca alla metafisica un contenuto proprio, e si spiega così come gli ontologisti possano rimproverare agli idealisti la perdita della metafisica” (pp. 303-4). I grandi rappresentanti dell’idealismo hanno inteso far rinascere la metafisica come scienza delle essenze, della costituzione razionale della realtà, della connessione unitaria del tutto. Il problema che si pone è di vedere fino a che punto il loro disegno sia riuscito, quali siano gli eventuali limiti e le intrinseche contraddizioni. Essi hanno voluto superare la grande difficoltà della scienza moderna, espressa nella denuncia kantiana del fallimento della metafisica razionalistica della scuola cartesiana; e in verità l’ambizioso programma di Hegel, di costruire il sistema del sapere assoluto, costituisce una delle più grandi manifestazioni del pensiero filosofico, tale da reggere il confronto, ad esempio, con la filosofia di Platone e di Aristotele. La scoperta kantiana della costituzione trascendentale del soggetto, che ancora in Kant assume una funzione gnoseologica, si carica di un significato metafisico, culminante nel sistema hegeliano ma destinato a subire poi le più diverse critiche, fino al processo di dissoluzione verificatosi attraverso il Novecento. La filosofia trascendentale ha avuto principalmente la funzione di superare il presupposto realistico che caratterizza la vecchia metafisica. Ogni presupposto dogmatico è eliminato dalla filosofia trascendentale. In tal modo era superata la difficoltà in cui tornavano a imbattersi i sostenitori della metafisica cartesiana, cioè il residuo realistico che rendeva le conclusioni della metafisica razionalistica mere enunciazioni logiche, rispondenti all’ipotesi razionale della realtà, cioè a quella stessa per cui Hegel poteva stabilire l’equazione famosa di logica e metafisica. Il presupposto realistico, che sembrava definitivamente eliminato dallo sviluppo idealistico della dimensione trascendentale, in realtà permaneva, tradotto sul piano meramente logico e concettuale. Hegel non compiva l’esecuzione di un disegno sostanzialmente molto diverso da quello perseguito dai razionalisti di stampo cartesiano. In tal modo la risoluzione trascendentale si configurava come un processo illusorio, di carattere meramente concettuale. La struttura trascendentale del soggetto appariva legittima per la costruzione della scienza dei fenomeni, ma rivelava i suoi equivoci allorché era applicata alla fondazione di una nuova metafisica riguardante il senso dell’essere. La scienza fondata sui giudizi sintetici a priori in realtà non oltrepassa la stessa sfera dei fenomeni. Essa riguarda la fisica pura e la matematica; e sarebbe idonea a fondare la metafisica, se così sviluppata non riguardasse enunciazioni prive di qualsiasi riferimento alla realtà. Il famoso principio unitario della sintesi a priori kantiana ha una funzione esclusivamente gnoseologica e ad esso non si può attribuire (come ha fatto Spaventa con la sua scuola) una dimensione metafisica, anticipatrice dell’idealismo. Kant ha chiaramente chiarito il carattere trascendentale del principio sintetico, ma ha anche fermamente negato la possibilità che i giudizi sintetici a priori potessero concorrere a costruire una scienza del tutto svincolata dalle condizioni dell’esperienza. Gli idealisti hanno compiuto proprio questo passo: hanno inteso attribuire una realtà metafisica (diversa dalla semplice oggettività) alla dimensione trascendentale del soggetto (valida unicamente sul piano gnoseologico). In definitiva, per Kant il principio sintetico a priori rimane di carattere esclusivamente logico. Pertanto risulta illegittimo l’uso metafisico che di tale principio si è inteso fare nell’ambito dell’idealismo. Come ha osservato il Carabellese, gli idealisti non tengono conto che l’intero sistema dei principi priori ha la funzione di consentire la costruzione dell’oggettività fenomenica e non quella di dedurre una qualche realtà metafisica. Kant in questo senso non supera i limiti del cartesianesimo per quanto riguarda la concezione del soggetto. Il soggetto, infatti, non riesce mai a comprendere il noumeno, a rendere intelligibile la realtà. Esso permane nella condizione del dubbio iperbolico. Perciò Jaspers ha potuto osservare che l’idealismo non ha minimamente contribuito a superare la crisi scettica dello Hume. Infatti l’idealismo, trasponendo sul piano della realtà la costituzione trascendentale del soggetto, ha riconfermato la portata del dubbio. Solo ammettendo la fede nella corrispondenza tra ordine del pensiero e ordine del reale lo scetticismo potrebbe essere superato. Ma l’idealismo esclude questa posizione dogmatica. “Con la tesi della inconoscibilità della cosa in sé, il kantismo non fa altro che accentuare il soggettivismo
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cartesiano e mettere a nudo la problematica cartesiana dell’idealismo” (P. Filiasi Carcano, p. 123). I critici dell’idealismo (Carabellese, La Via, Hartmann, Jaspers) hanno messo in rilievo questo equivoco, cioè l’interpretazione metafisica di un principio sostanzialmente formale. In realtà la concezione del soggetto in Kant non fa un passo avanti (dal punto di vista della rimozione e risoluzione del dubbio) rispetto a Cartesio. Il Carabellese ha messo in rilievo l’equivoco gnoseologistico della filosofia moderna, per la quale, appunto, il soggetto si pone in un rapporto estrinseco con la realtà, considerata come ambito di conoscenza, per quanto cioè diventa intelligibile e si pone come l’oggetto per il soggetto conoscente. Come ha stabilito Cartesio, l’essere si risolve, nella concezione moderna, come l’oggetto conoscibile, come oggettività. Il reale in quanto in sé costituito, indipendentemente dall’attività conoscitiva non ha senso e non è neppure preso in considerazione. L’esse obiectivum è il reale quale Dio ha destinato alla conoscenza (e alla manipolazione) umana: in tale essere non è racchiuso più nessun mistero; esso non possiede neppure quella dimensione rivelativi che gli era attribuita dai filosofi antichi (da Parmenide a Eraclito a Platone a Plotino). L’oggettività, nell’idealismo, diventa la stessa soggettività nel suo processo storico. Poiché il soggetto è assolutizzato, non si pone più un’oggettività fuori di esso. Non solo la forma dipende dal soggetto, bensì anche il contenuto. L’essere è escluso, ridotto a oggettività come espressione del soggetto. La dialettica si risolve all’interno dell’Io o dello Spirito; e così l’oggetto (ogni reale) non è che l’espressione della dialettica del soggetto. Il soggetto risolve nella sua costituzione dialettica (produttiva) ogni aspetto del reale. L’equivoco su cui si basa l’idealismo è l’assunzione del reale nell’oggettività e la concezione soggettivistica per cui l’oggettività non è altro che produzione e aspetto del soggetto. Come efficacemente riassume il Filiasi Carcano, riprendendo le tesi del Carabellese: “La posizione oggettivistica moderna si definisce automaticamente come esclusiva della oggettività, e ciò in conseguenza dell’errore gnoseologistico, il quale (contrapponendo soggetto e oggetto) porta a concepire l’oggettività non come ciò che costituendola si manifesta nella soggettività. Ma come ciò che opponendosi costituisce, in definitiva, la negazione della soggettività. Il dialettismo antitetico non è che lo sviluppo conseguente di questa premessa soggettivistica. La filosofia moderna è, en effetto, intrinsecamente incapace di pensare positivamente la oggettività” (p. 124). La riduzione al soggetto appare come l’inevitabile soluzione del problema della conoscibilità del reale. Ma questo superamento del realismo, inevitabilmente connesso con lo scetticismo, avviene solo in ambito soggettivistico e attraverso la riduzione del reale alla soggettività. L’oggettività è dedotta idealisticamente attraverso la dialettica antitetica. L’istanza del pensiero che s’instaura nella opposizione originaria di essere e nulla reca in sé anche l’istanza oggettivistica. Non solo essa rende possibile il movimento del reale ma lo rende intelligibile. Il reale è l’oggetto del pensiero. Secondo il Carabellese, questa conclusione idealistica è lo sviluppo coerente del cartesianesimo (con la concezione dell’essere oggettivo e con la identificazione del fondamento nel “cogito”). In realtà si è eliminato l’essere, risolvendolo nel pensiero (nell’attività pensante, nel “cogito” e nei “cogitata”). L’impostazione gnoseologistica del problema del reale si conclude con la soluzione idealistica. Come osserva il Carabellese, “si conserva con Kant il concetto realistico dell’oggetto come qualcosa che non è soggetto, perché oggetto; e, nell’entusiasmo della scoperta, che pur l’oggettività vera è soltanto quella che ci è data nel soggetto, si conclude, tenendo conto di quel primitivo concetto dell’oggetto, che non v’ha che il Soggetto: il Soggetto è l’Assoluto” (Il problema teologico, cit., cap. II, § 14, cit. p. 126). La logica antitetica è basata sul principio di contraddizione: così il principio (l’essere) è intrinsecamente contraddittorio; esso, infatti, coincide col nulla, che è il suo opposto. Alla concezione tradizionale per cui si pone il reale, e non invece il nulla, si sostituisce quella per cui, ponendosi il reale, si pone automaticamente anche il nulla. Il nulla è principio del reale altrettanto che l’essere. L’unità di essere e nulla è il fondamento. L’essere è negazione di ogni determinazione. Come dunque avviene il passaggio all’ente determinato? Sembra che la logica antitetica hegeliana non possa riuscire a legittimare tale passaggio. L’essere in senso positivo è quello aristotelico, il reale nella totalità delle sue determinazioni, l’atto puro, che non diviene, ma è tutto già realizzato. Tale è l’essere richiesto dalla logica dell’identità. Il fondamento è tale che esso non può divenire altro né è tale che ad esso manchi qualcosa (per cui debba attendere di realizzarsi attraverso un processo qual è il divenire). L’essere deve negarsi come tale, cioè come fondamento, per assumere la consistenza dell’ente determinato (la totalità degli enti compresa nel divenire). Ma in quanto determinato non è più fondamento. Fondamento non può essere un ente o un altro. Sembra che alla logica hegeliana sia essenziale la negazione dell’essere. La logica antitetica, ponendo l’essere come concetto contraddittorio, non
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può configurarsi come la logica dell’essere. La metafisica hegeliana respinge da sé il concetto di essere e assume l’idea del divenire. In questo senso si giustificano le critiche alla logica hegeliana e i tentativi di una sua riforma.41 Il fallimento della logica antitetica sul piano della metafisica determina la ricaduta nella concezione tradizionale (realistica) dell’oggettività. Assunto l’essere come soggetto, all’essere come reale non può che attribuirsi il carattere dell’oggettività realistica classica. La filosofia moderna, che è la filosofia nell’età della rappresentazione del mondo, intende superare il realismo ingenuo della concezione classica, per elaborare un concetto critico del reale: essa procede, pertanto, a eliminare il concetto del reale in sé, per recuperare, quindi, tale concetto sul piano della deduzione trascendentale; ma così non si va oltre la sfera della rappresentazione; il reale non può costituirsi se non nei termini del “rappresentato”, cioè dell’oggetto. Il reale non può darsi che come oggetto della rappresentazione. Il reale in sé risulta, infatti, inevitabilmente in conoscibile, qualcosa con cui non possiamo avere a che fare, l’essere che non può proporsi che in una condizione di nostalgia. In realtà, l’essere degli idealisti non è che l’essere del soggetto o il residuo oggettivistico dell’attività rappresentativa. La metafisica non può che configurarsi come una metafisica della rappresentazione, assunta a sostituire l’essere stesso. Come è noto, l’idealismo ha inteso superare il dualismo tra io e realtà, ponendo il principio della rappresentazione all’interno della realtà e ponendo fine all’equivoco (assurdo) di un soggetto che dall’esterno si trova a dover conoscere un oggetto. Il reale costituisce una sfera unitaria al cui interno si dà anche la condizione della conoscenza. Ma ciò avviene in virtù della costituzione dialettica del reale: l’essere deve negarsi come reale in sé, per assumere in sé il principio del suo “altro”, del pensiero. Il reale deve essere, così, se stesso e il suo altro; deve possedere l’alterità come suo principio costitutivo. Perciò la dialettica antitetica è la prospettiva logica sulla quale si basa l’idealismo. Si può assumere tale prospettiva logica come quella logicamente unica e necessaria? Essa costituisce in realtà lo sbocco della logica moderna e della filosofia trascendentale? Principalmente, tale logica è quella che può trarre il suo contenuto metafisico e non porsi come semplicemente formale? La logica formale, basata sul principio d’identità, fa in modo che non si predichino condizioni contraddittorie nello sviluppo del pensiero. Il pensiero, che aderisce al reale, non può essere contraddittorio. Il pensiero rappresenta l’elemento formale del conoscere, la forma, appunto, secondo cui avviene la conoscenza. Esso implica che il conoscere si abbia mediante le idee, attraverso i concetti (universali, in modo che la forma sia valida per tutti i soggetti). E la struttura trascendentale consente che la forma sia valida per tutti e soddisfi le esigenze dell’oggettività. Ma non si può pretendere che il pensiero costituisca anche il contenuto del sapere e che esso medesimo sia l’oggetto della sua forma. L’identità di essere e pensiero, attestata fin da Parmenide, indica la necessità per cui il pensiero implica un contenuto reale positivo, per cui esso esclude il nulla. Del nulla non si può pensare né dire alcunché. Non si può avere una scienza concettuale del nulla; questa può essere possibile solo dell’essere. L’equivoco dell’idealismo è proprio la pretesa derivazione del contenuto dalla forma del sapere. Il “sapere assoluto” di Hegel indica proprio questo tipo di sapere, per cui esso non dipende da nessun elemento che non sia la forma medesima del sapere, e per cui, dunque, non implica il reale in sé e non è subordinato ad altro che a se stesso. “Assoluto” vuol dire infatti sciolto da ogni condizione, che non dipende da altro. Il pensiero, invece, secondo l’assunto parmenideo, rimanda ad altro di sé, all’essere; ed è necessariamente connesso all’essere, tanto da potersi dire che i due termini fanno parte di un medesimo plesso logico. La derivazione del contenuto dalla forma, affermata dall’idealismo, conduce alla costruzione di una metafisica illusoria, configurata come scienza del soggetto e come oggettivazione delle strutture logiche e formali del sapere. Tale è il sapere assoluto di Hegel. Si tratta di un sapere che ha tratto i suoi contenuti esclusivamente dalla forma logica del sapere: perciò la metafisica coincide con la logica; la forma medesima finisce per essere assunta come il contenuto (l’intero contenuto) del sapere. Per l’idealismo il contenuto del sapere è la sua stessa forma. La logica si riconosce come l’oggetto del sapere, come l’unico sistema del reale.
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Tra questi tentativi il più famoso è quello messo in atto dal Gentile; ma già notevole è quello dello Spaventa, il quale credeva di risolvere il limite della dialettica hegeliana mediante la categoria del pensiero, implicita alla opposizione essere/nulla.
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Hegel ha preteso distinguere la sua scienza della logica dalla tradizionale logica formale, ma in realtà egli non ha fatto altro che assumere questa logica nel senso della metafisica, supponendo che la forma coincida col contenuto, una volta che ad essa sia stato attribuito il carattere dell’antiteticità. La logica antitetica non cambia in realtà nulla riguardo alla sua struttura formale, se non il fatto che essa si applica ai concetti opposti. Ma i contenuti sono sempre quelli dati. Per comprendere il concetto di “individuo”, io devo riferirmi al concetto di “società”, ma questo non posso desumerlo dalla forma del sapere. La logica antitetica esige che si muova da concetti opposti; ma i contenuti devono essere effettivamente opposti, costituire dati opposti. “Individuo” e “società” sono termini reali in sé e non assumono tale caratteristica attraverso la loro contrapposizione nell’ambito della scienza che intende conoscerli. La logica antitetica è altrettanto formale di quella antica e tradizionale. Ciò non vuol dire che la logica antitetica sia del tutto indifferente rispetto ai contenuti del sapere. E’ vero, anzi, che la forma investe i contenuti e attribuisce ad essi un senso diverso e particolare. Il concetto di “società” serve a criticare quello di “individuo”, a mostrarne i limiti e la mancata razionalità, a mettere in rilievo come la compiuta realizzazione di esso sia appunto la società. Ma ciò non vuol dire che in tal modo il pensiero contribuisca a fondare la realtà dei due termini opposti. La forma propria del pensiero consente che i termini siano messi in relazione tra loro, appunto perché la categoria di relazione appartiene all’apparato formale della logica (così come vi appartengono tutte le altre categorie, che sono i modi in cui possono venire assunti e considerati i singoli termini). La categoria dell’opposizione appartiene a questo sistema formale del pensiero: essa non pretende rappresentare nulla di più rispetto alle altre categorie, per quanto riguarda il riferimento ai contenuti. Questi sono dati e ricevono dal pensiero la loro struttura di elementi del sapere, termini del conoscere, contenuti, appunto, “saputi”. La dimostrazione hegeliana (e poi spaventiana) dell’identità di essere e pensiero è basata sull’assunzione sul piano della realtà di categorie o principi o concetti che appartengono alla forma del pensiero. Il concetto di “essere” non può avere caratteri o “contenuti” che non siano quelli predicabili di esso nella situazione di sapere in cui concretamente si viene operando. Così, ad esempio, è chiaro che si ha una situazione in cui non si assume nulla di determinato. Il concetto di essere logicamente corrisponde a quello dell’assolutamente indeterminato. Nessuna determinazione può essere attribuita all’essere che non sia logicamente coerente con tale concetto. La struttura ontologica, relativa, cioè, all’essere in sé non può essere modificata dal pensiero, né questo può determinare il passaggio al divenire. Questo costituisce un altro concetto. Per l’idealismo, ogni alterità è ricondotta all’identità, così come è superata ogni contraddizione ed è colmato ogni divario tra termini opposti. La dialettica concilia tutto e tutto risolve. Vincenzo La Via ha condotto una critica dell’impostazione del problema della conoscenza nell’idealismo, che presenta singolari analogie con l’analisi del Carabellese. Egli ha messo in rilievo la contraddizione tra l’assoluta immanenza del dato del conoscere sul piano del metodo della conoscenza stessa e l’assunzione di contenuti che non si identifichino con il processo stesso della conoscenza. Se si suppone che il dato della conoscenza sia risolto già nella forma del conoscere, se si assume cioè una posizione assolutamente immanentistica, si toglie il problema stesso della filosofia come indagine intorno all’essere, al reale stesso. Solo se l’essere si pone in senso trascendente rispetto al problema nel cui ambito è indagato, solo cioè nella posizione dell’assoluto realismo, il problema filosofico ha un senso. Si tratta di qualificare questo problema in senso trascendentale, considerando la trascendenza non in modo ingenuamente realistico ed empirico, bensì in senso critico, cioè in relazione alla stessa impostazione trascendentale, che non esclude la trascendenza dell’essere (il dato della conoscenza). Non si può prescindere dall’istanza trascendentale nell’impostazione del problema filosofico, né si può risolvere il contenuto in tale istanza critica, come fa l’idealismo. D’altra parte, si tratta di riconoscere che l’impostazione critica modifica la trascendenza del contenuto (essere, reale). L’elemento assoluto, in questo senso, risulta costituito dalla trascendenza del reale così come esso diventa oggetto dell’impostazione del problema della sua conoscenza. Assoluto è il reale in quanto problema di conoscenza, in quanto assunto in tale problema e nella forma di questo medesimo problema (che comprende l’orizzonte critico e trascendentale). Al soggetto che indaga è presente la forma dell’impostazione critica del problema della conoscenza e la costituzione trascendente dell’essere che si pone nell’ambito di tale impostazione.
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Il significato autentico dell’immanenza gnoseologica, secondo il La Via, consiste nell’istanza che richiede di non cercare l’essere fuori del conoscere, in un reale supposto indipendentemente dalla conoscenza. Si esprime così semplicemente “il fatto che il reale o l’essere a cui può solo riferirsi l’affermazione criticamente giustificabile è il (l’assoluto) dato nel conoscere, e non alcunché di attinto – non si vede come – in un fantastico salto oltre il conoscere” (Dall’idealismo al realismo assoluto, Sansoni, Firenze 1941, cap. II, “L’immanenza gnoseologica come oggettività fondamentale e l’equivoco dell’idealismo antitetico”, cit. Filiasi, p. 129). Intesa in questo senso, l’immanenza gnoseologica non sfocia nel soggettivismo, anzi riafferma con forza l’istanza ontologica, e non esclude la trascendenza dell’essere, anzi riporta la trascendenza sul piano della critica gnoseologica, investendola della dimensione trascendentale. Invece equivoca e contraddittoria è l’immanenza concepita dagli idealisti. Essa in realtà coincide con l’istanza soggettivistica, con l’affermazione che l’essere è il soggetto. E ciò avviene sulla base della critica dell’assunzione del soggetto empirico e sull’affermazione del soggetto trascendentale. Si assume la dimensione trascendentale del soggetto come un’istanza capace di assorbire in sé il reale, dunque di eliminare ogni residuo realistico. Ma altro è la dimensione trascendentale del soggetto, altro è la trascendenza dell’essere. La filosofia trascendentale è idonea a superare il soggettivismo empirico, ma non è legittima l’operazione per cui essa risolve l’essere nel conoscere. La critica, infatti, riguarda il soggetto, non può investire l’essere nella sua trascendenza. L’idealismo non si configura come un superamento del soggettivismo empiristico ma come una critica gnoseologica del realismo naturalistico. Esso riconduce l’essere (il reale) al piano della conoscenza e intende attuare interamente l’immanenza gnoseologica. Piuttosto che mettere in atto un processo per cui impostare criticamente il problema dell’essere, l’idealismo assolutizza la posizione del soggetto, ponendolo come l’unico problema della filosofia. Secondo il La Via, questo problema si configura come problema del realismo assoluto. Questo problema consiste nel “fondare assolutamente il contenuto di realtà o di essere per cui c’è (in atto) contenuto di conoscenza e conoscere”. Si tratta di recuperare l’essere partendo dal conoscere. Il contenuto di conoscenza rimanda a una trascendenza di realtà o di essere. La soluzione non è allora quella di abbandonare idealismo e realismo alle loro posizioni antitetiche, senza operare una risoluzione critica delle loro istanze. Infatti, come riassume il Filiasi Carcano, “l’esigenza filosofica di fondazione assoluta non può soddisfarsi in modo alcuno se non ricorrendo a quell’essere o a quella trascendenza che l’idealismo antitetico crede di dovere eliminare” (p. 132). L’idealismo presume attuare l’immanenza ponendo (risolvendo) l’essere nell’esserci del conoscere. Conclude opportunamente il Filiasi Carcano: “La storia dell’idealismo, lungi dal mostrarci – secondo il classico schema hegeliano – il progresso dell’idealismo, ci mostra viceversa le sue difficoltà interne, le sue contraddizioni latenti, e, in definitiva, quel processo di autodissoluzione e di autocritica, sul quale soprattutto i sopraccitati pensatori italiani (forti della esperienza attualistica) hanno insistito” (p. 135). Realismo e idealismo rappresentano, dunque, non due istanze contrapposte, bensì le due facce di una stessa istanza, che è quella dell’immanenza/trascendenza dell’essere (reale) nel problema della conoscenza. Per l’idealismo si ha l’immanenza completa attraverso la risoluzione del problema ontologico nel problema critico/trascendentale del conoscere. Per il realismo, invece, il problema dell’essere permane come un dato irriducibile all’ambito della conoscenza. Si tratta di vedere, a questo punto, come il problema dell’essere viene investito dalla questione critica, e come, d’altra parte, il problema della conoscenza presuppone la trascendenza dell’essere come suo termine di riferimento. I due punti di vista si integrano e si richiamano reciprocamente. Si tratta di impostare il problema critico senza risolvere la trascendenza dell’essere in senso soggettivistico e, d’altra parte, di assumere la trascendenza dell’essere nell’ambito del problema critico/trascendentale, in modo che questo non sia semplicemente il punto di vista del soggetto. La questione ontologica rimane quella fondamentale (che giustifica la filosofia stessa come problema) e l’impostazione critica si configura come quella necessaria per l’esistenza della filosofia. Questa, infatti, dopo Kant, sembra che non possa essere che trascendentale. La conoscenza si risolve sempre nella produzione di una oggettività. Si tratta di vedere come tale oggettività non sia una riduzione soggettivistica (o la conseguenza di essa) ma sia la forma assunta dallo stesso problema dell’essere nell’ambito gnoseologico. Il punto di vista dello gnoseologismo costituisce l’altro aspetto del problema della filosofia. L’oggettività rimanda all’essere e alla sua trascendenza, come la conoscenza rimanda all’immanenza dell’essere; e i due punti di vista si richiamano e si integrano, come dicevamo. In questo senso si può legittimare il corso della
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filosofia moderna come processo di indagine intorno all’intera questione. L’empirismo apre la via al soggettivismo; il razionalismo risolve la questione ontologica in quella logica e lascia irrisolto (neppure impostato criticamente) il problema dell’essere; l’idealismo si risolve in gnoseologismo; il realismo ripropone la trascendenza in modo acritico. Secondo il La Via il punto di vista del realismo assoluto è il risultato maturo dell’intero processo problematico della filosofia moderna. In tale punto di vista non solo le contraddizioni connesse alle diverse visioni unilaterali sono superate, ma la stessa filosofia come problema è riconfermata nella sua legittimità e possibilità. La filosofia rimane ciò che è sempre stata, impostazione del problema dell’essere e prospettiva di una soluzione possibile. Essa si profila alla luce del progresso dell’intera problematica attraverso l’intero percorso storico e il punto di vista del realismo assoluto non è che (da tale prospettiva critica) il risultato maturo di una lunga indagine che si è articolata nel tempo (lungo la tradizione occidentale). Razionalismo, empirismo, criticismo, gnoseologismo, metafisica, fenomenologia, logica trovano così modi nuovi di assetto problematico nell’ambito di un problema la cui impostazione giustifica la filosofia. Che cos’è dunque la conoscenza? E’ chiaro che non possiamo più intenderla come il “raggiungimento realistico di una oggettività estranea alla coscienza”, cioè come l’acquisizione di contenuti dati, già costituiti per via realistica; e neppure come “l’dealistica mediazione negativa dell’oggetto”; pertanto è da intendersi come “consapevolezza della oggettività intrinseca alla coscienza” (Carabellese, cit. Filiasi, p. 138). Secondo la prospettiva realistica classica, il reale è conosciuto nella sua obbiettività costituita indipendentemente dal soggetto; secondo quella idealistica, è conosciuto, invece, solo in quanto si risolve in dato della coscienza, in concetto, in elemento del pensiero. Dal punto d vista ontologistico, la conoscenza riguarda l’essere come obiettività che si da nella coscienza conservando la sua trascendenza. La coscienza manifesta la trascendenza del reale, la sua consistenza ontologica, il suo essere. E la trascendenza non è concepita in antitesi con la intrinsecità della coscienza. Infatti, come osserva il Carabellese, “la negazione della trascendenza non è l’immanenza, ma l’esaurimento, cioè la negazione del Principio”, il che vuol dire l’impossibilità del rapporto conoscitivo (che implica e richiede la trascendenza dell’oggetto della conoscenza rispetto al soggetto, ma nello stesso tempo l’appartenenza di esso in modo intrinseco alla coscienza). Considerazioni analoghe sono espresse dal La Via, quando scrive che “la fondazione filosofica (assoluta) del dato (del contenuto di conoscenza con esso irrecusabilmente posto) non è (non può essere) se non il riconoscimento della relazione al Trascendente, come ciò in cui si risolve costitutivamente il contenuto di oggettività del dato” (Dall’idealismo al realismo assoluto, p. 27, cit. p. 139). “Immanenza e trascendenza sono aspetti complementari, inseparabili, senza dei quali non si riesce a definirsi l’autentica esigenza filosofica” (Filiasi C., p. 139). L’immanenza implica la coincidenza dell’oggetto col processo del conoscere. Praticamente non si dà alterità. La trascendenza riconosce l’alterità: il contenuto è altro rispetto al processo. Proprio del conoscere è il riconoscimento dell’alterità. Il “conosciuto” non è l’oggetto risolto nel processo conoscitivo (l’atto del conoscere), bensì è l’oggetto riconosciuto per sé, nella sua costituzione autonoma. In tal modo si apre la via di una metafisica critica, che riproponga l’essere (a anche Dio) non come oggetto realistico da conoscere estrinsecamente, bensì “come principio intrinseco alla coscienza”. “La metafisica critica è possibile come ontologismo (cioè come piena immanenza dell’Essere oggettivo alla coscienza), e non come immanentismo soggettivistico, come l’idealismo postkantiano ha creduto (o si è illuso) di poterla edificare” (Filiasi C., p. 141). Il riferimento alla coscienza rimane l’istanza fondamentale, ma esso va considerato come il fattore disvelante rispetto alle condizioni del reale. L’oggettività cartesiana è un po’ questa condizione ontologica, relativa alle diverse sfere ontiche, anche se principalmente rispetto alla costituzione matematico-spaziale della realtà fisica. Che vuol dire, infatti, che la realtà fisica si dispiega come una geometria nella scienza oggettiva della natura? Qui la coscienza è la ragione, facoltà disvelante rispetto alla costituzione matematica della natura. Perciò l’Alquié ha potuto osservare che “la metafisica cartesiana rivela la sua profondità a chi sa scorgere in essa il movimento mediante cui la coscienza si libera da ogni ontologia fisicista, e situa la scienza in rapporto all’essere e in rapporto all’uomo” (cit. da Filiasi C., p. 140). Certo, lo stesso Cartesio non ebbe la piena consapevolezza del significato ontologico di tali prospettive scientifiche; e al fondo rimanevano questioni che sapevano ancora di dispute scolastiche, di tradizionali modi d’impostare il problema teologico (come il tema della creazione delle verità eterne e della creazione continua). Questi limiti (per così dire)
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“c’inducono a ritenere ogni verità razionale come non ontologica, a cogliere ogni oggetto, ogni legge, ogni necessità come già separate dall’essere, come situate n un piano in cui l’essere e la libertà non potrebbero scoprirsi” (Alquié, cit. p. 140). Suggestive indicazioni di ricostruzione metafisica il Carabellese ha riscontrato anche in Kant, in cui, ad esempio, basterebbe considerare attentamente la pensabilità e l’inconoscibilità dell’essere in sé. Inconoscibilità vuol dire impossibilità di ridurre l’essere alla dimensione dell’oggettività scientifica (solo l’oggetto è conoscibile): E la inconoscibilità non esclude la pensabilità. Si tratta di pensare l’essere in una dimensione diversa dalla oggettività scientifica. Il Carabellese fornisce qualche ipotesi intorno alle modalità di questa pensabilità oltre la dimensione dell’oggettività. Heidegger ha proposto una interpretazione di Kant nel senso dello sviluppo di una metafisica gravitante intorno al problema dell’essere. Kant avrebbe anticipato la ricerca intorno alle condizioni di manifestazione dell’essere attraverso la dimensione trascendentale della ragione umana: Sappiamo infatti che l’analitica esistenziale è intesa come un’introduzione al problema dell’essere. Si tratta di vedere la costituzione trascendentale dell’esserci del soggetto, per avere le indicazioni fondamentali intorno al modo in cui può svilupparsi un pensiero intorno all’essere. In realtà il pensiero di Kant è rivolto verso il problema del fondamento. Kant avverte che tale problema non può essere impostato attraverso la via del metodo della conoscenza scientifica e che occorre battere vie alternative, quali quelle offerte dalla riflessione intorno alla morale. L’indagine riguarda la costituzione trascendentale del soggetto in quanto “persona”, che si riconosce libera e appartenente a un ordine diverso da quello naturale, costituito secondo il sistema oggettivo delle categorie (principalmente sulla base della categoria di causalità). La libertà si prospetta come il principio metafisico, come parte del fondamento, dunque come un modo per andare oltre la fisica, che riguarda l’aspetto oggettivistico, proprio della scienza dei fenomeni. Morale e metafisica sono strettamente congiunte nella ricerca del principio o fondamento. Libertà vuol dire non dipendere da altro, non presupporre altro per giustificare se stesso, principio capace di autofondarsi. Il reale (l’essere) è fondamento per se stesso. Il senso dell’essere trae consistenza dal senso dell’uomo. E l’uomo ha senso in rapporto alla sua consistenza spirituale, di ente fornito di anima immortale. Può sembrare antiquato questo modo di pensare, che ripropone concetti della tradizione classica (platonica). Ma l’istanza spiritualistica si pone come un’esigenza per costituire il senso dell’esistenza umana. All’uomo è attribuita la massima dignità. Ma il culmine nella posizione del fondamento è la prova etica dell’esistenza di Dio. Il senso dell’essere è il bene come fondamento. “La pensabilità della cosa n sé kantiana non è che questo vivere l’in sé nella concreta coscienza; la sua inconoscibilità non è che il reciso negare che l’essere astratto della scienza sia l’essere in sé” (Carabellese, cit. da Filiasi C., p. 141). Il punto di riferimento è sempre la coscienza, che qui viene assunta per la sua consistenza metafisica, per il modo in cui è capace di porsi di fronte al problema dell’essere. E tale modo dovrebbe andare oltre il modo dell’intelligenza scientifica, della stessa ragione logica; dovrebbe risolversi come un concreto vivere e sopportare questo problema secondo un senso pregnante e totale, tale da investire l’intera spiritualità, dunque le risorse dell’intelligenza nel loro insieme, così come, ad esempio, sono impegnate sul piano dell’espressione artistica oppure nella sfera della religiosità, della fede. Si presume un diretto collegamento della coscienza con l’essere. Il Carabellese afferma la piena immanenza dell’essere alla coscienza, in un senso che va oltre il soggettivismo idealistico e riconosca la trascendenza dell’essere in sé. L’essere, in sé trascendente, è in rapporto con la coscienza e configura ogni contenuto obiettivo della coscienza stessa, dando alle espressioni della vita spirituale significati che riguardano, appunto, la realtà (e non solo la soggettività). La metafisica critica si delinea come un ontologismo. Gli idealisti, invece, hanno affermato che il sapere è la misura dell’essere e hanno inteso il contenuto reale come l’oggetto della coscienza, il “saputo”. In tal modo essi hanno abbandonato il senso del kantismo, secondo il quale le condizioni della nostra conoscenza non sono quelle dell’essere (cfr. Alquié, cit. p. 143). Essi hanno inteso superare la contraddizione del noumeno insieme pensabile e in conoscibile e hanno riportato l’essere alla conoscenza, intendendo questa come essenzialmente concettuale e logica e rinunziando alla complessità dei modi di manifestazione dell’essere nella stessa coscienza. La sfera concettuale è quella dell’intelletto o quella della ragione dimostrativa e deduttiva (non quella della ragione come totalità dell’intelligenza). “La dialettica
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diventa pertanto (soprattutto in Hegel) una tecnica d deduzione del contenuto: l’interesse di questa deduzione spodesta interamente l’interesse ontologico per la manifestazione dell’essere, e condanna fatalmente l’idealismo all’empirismo” (Filiasi C., p. 144). La conclusione dunque è quella hegeliana: la metafisica nella forma della logica, e viceversa. La via che così s’intende seguire è quella tradizionale del processo della conoscenza come processo che muove dall’esperienza del particolare per giungere ai concetti universali. In realtà l’antinomia dialettica dei concetti si manifesta a livello si può dire empirico, sul piano dell’apparenza immediata. L’intelligenza che così viene applicata (la stessa ragione dialettica) è quella empirica, relativa alla comprensione immediata dei contenuti. Ciò, come ha osservato Michele Federico Sciacca, “è arrestarsi alla superficie o almeno sull’ultimo gradino rifiutandosi di penetrare nella radice profonda del reale stesso, dove è il componimento di tutte le antinomie. E’ indietreggiare di fronte alla metafisica, che è appunto la filosofia; è essere ancora degli empirici; è fare della filosofia una scienza empirica (sia pure sui generis) come le altre scienze; è il residuato empiristico che l’idealismo trascendentale non è mai riuscito a sciogliere, malgrado i suoi sforzi metafisici” (cit. da Filiasi C., p. 144). L’enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel non sarebbe, da questo punto di vista, sostanzialmente diversa dalle enciclopedie scientifiche proprie del tempo e basate sui risultati delle scienze empiriche. E’ lo stesso Hegel a rilevare i presupposti empiristici delle scienze particolari come essenziali per lo sviluppo e l’articolazione del sistema delle scienze filosofiche. Il sapere empirico rimane un elemento fondamentale, necessario per la costituzione delle scienze filosofiche. In confronto a questa configurazione del rapporto tra scienze positive e filosofia, più profondo appare il rapporto che riscontriamo nel cartesianesimo fra scienza matematica della natura e scienza dello spirito. Quest’ultima non può configurarsi come una scienza obiettiva, rimane legata ai modi concreti in cui si articola la vita spirituale, la concreta storia della coscienza. In qualche modo la fenomenologia si è avvicinata al senso di questa scienza cartesiana dello spirito. La coscienza è irriducibile a oggetto del sapere scientifico. Essa conferma sempre il suo carattere soggettivo (il che vuol dire proprio della coscienza individuale concreta). Con termini heideggeriani, si potrebbe dire che la prospettiva cartesiana è ontologica, mentre quella hegeliana è essenzialmente ontica. La scienza hegeliana si riduce sempre all’oggettività del concetto. Sulla base della concezione cartesiana, non sarebbe mai possibile una scienza sistematica, essenzialmente unitaria, relativa a tutte le sfere del reale e comprendenti i principi di tutto lo scibile. Il sistema della scienza, invece, resterebbe profondamente differenziato al suo interno, articolato in sfere irriducibili l’una alle altre e costituita ognuna secondo una logica propria (non secondo una logica unitaria). Heidegger ha rilevato questa profonda differenza tra spirito del cartesianesimo e idealismo oggettivistico (cfr. Filiasi C., p. 144). La corrente che più propriamente ha messo in rilievo la dimensione ontologica della coscienza è l’esistenzialismo. Il problema dell’essere non può essere posto, da questa prospettiva, secondo il metodo del sapere scientifico e della logica razionale. Esso, infatti, si richiama alle concrete forme dell’esistenza (ad esempio l’essere-nel-mondo, il con-essere, e così via). Ciascuna di queste forme è vissuta dal soggetto in modo proprio e irriducibile. Tale irriducibilità fa sì che non si possa mai configurare una scienza oggettiva di essa. Come ha osservato Heidegger, altra cosa è la messa in questione del senso dell’essere partendo dall’analitica della condizione umana (esistenziale) e altra cosa ancora è dedurre il sistema dell’ente, cioè dedurre l’insieme delle categorie secondo cui si articola il resale esistente. Infatti: dare una interpretazione ontologica dell’essere, in e per la trascendenza della realtà-umana, questo non equivale affatto a operare una deduzione ontica di tutto l’esistente, che è fuori dell’essere dell’uomo, procedendo a partire dall’esistente come realtà umana” (L’essenza del fondamento, cit. Filiasi C., p. 145). Anche il Carabellese ha rilevato questo carattere ontico e non ontologico della “Enciclopedia” hegeliana, un’opera (pertanto) in cui non si trova il problema dell’essere, bensì si presuppone il reale come Spirito, cioè il reale come dato e costituito nella sua totalità e nel suo significato. “Nell’Enciclopedia di Hegel – egli osserva – possiamo e dobbiamo, alla pur fine, vedere la Summa della filosofia che fu moderna. Summa che, a suo modo, conclude questa. Come Summa essa fu empiristica, non ontologica, e quindi non concretamente idealistica. Dobbiamo uscire da quell’empirismo e non dedurre da esso, se veramente sentiamo i limiti in cui l’astratto gnoeologismo ci ha chiusi”(cit. da Filiasi C., p. 145). “Hegel, in altri termini, consuma in pieno l’equivoco della filosofia moderna, e suggella definitivamente quella deviazione sistematica che ha svuotato dall’interno il motivo trascendentale di Cartesio e di Kant per metterlo a servizio dell’oggettività” (Filiasi C., p. 145). L’idealismo autentico indica
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quella corrente che attesta l’immanenza dell’essere nella coscienza, ma evita la riduzione dell’essere all’oggettività. L’essere è riconosciuto nella sua trascendenza, ma è anche inteso (compreso) come il fondamento e il principio del pensiero. L’idealismo moderno si pone, invece, dall’esclusivo punto di vista gnoseologico, per risolvere ogni reale nell’oggetto del sapere. Il suo punto di vista è il soggettivismo gnoselogistico. Invece proprio dell’idealismo è il carattere ontologico della coscienza, considerata come il luogo di manifestazione del senso dell’essere. “Vero idealismo permane, per il Carabellese, quello platonico, quando però si sappia scorgere la sua esigenza profonda di un’oggettività ideale, e – comprendendo il carattere e la funzione ontologica dell’idealità – si sappia peraltro resistere alla corrente interpretazione trascendentistica delle idee platoniche” (Filiasi C., pp. 145-46). Le idee platoniche sono le forme delle cose così come sono comprese dall’intelletto (dalla coscienza): sono gli intelligibili, in quanto l’essere si attua in esse e l’intelligibilità si riporta alla coscienza. In ciò consiste l’idealità (essere forme o sostanze e condizioni dell’intelligibilità). Si suppone, dunque, un rapporto ontologico, il rapporto del senso dell’essere alla coscienza come condizione della intelligibilità o idealità. Secondo il Carabellese questa dimensione ontologica del platonismo è stata particolarmente esaltata dalla filosofia platonica italiana del Rinascimento. Le idee sono strutture eterne (parte dell’essere, anzi l’essere stesso) immanenti al mondo e alle cose, tali da manifestare l’essere nelle forme delle cose, nella struttura dell’universo. Discutibile, invece, appare la tesi che questa prospettiva sarebbe stata approfondita ancora dal cartesianesimo e da Kant. Lo stesso Carabellese ha osservato che il cartesianesimo, inizialmente in linea con l’esigenza ontologistica propria del platonismo rinascimentale, si sia poi sviluppato in sintonia”con lo spirito soggettivistico della Riforma, facendo registrare un regresso al pensiero moderno. Così, “il cogito di Cartesio, l’io penso di kant risentono di questa soggettività protestante e per questo rimane non sentita, insoddisfatta l’esigenza dell’oggettività immanente” (cit. da Filiasi C., p. 146). Per tale direzione di sviluppo, il cartesianesimo ha via via accentuato la sua componente soggettivistica e il kantismo è sfociato in una specie di nuovo scetticismo. L’essere si ritrae in una posizione di assoluta trascendenza che l rende in conoscibile. La filosofia esclude dalla sua indagine l’essere e al suo posto ammette una oggettività sostenuta dall’atto rappresentativo del soggetto. “L’ontologismo del Carabellese può pertanto caratterizzarsi come un ritrovamento della problematica essenziale del platonismo, attraverso una nuova interpretazione di Cartesio e di Kant, e una critica della deviazione sistematica (gnoseologistica e soggettivistica) della filosofia moderna” (Filiasi C., p. 146). Il Carabellese ha inteso fondare una ontologia “critica”, cioè basata sulla dimensione trascendentale del soggetto (o della coscienza). La ricerca trascendentale riguarda le condizioni interne della coscienza che sono essenziali per la manifestazione dell’essere. Non si presuppone, quindi, una rivelazione dell’essere che preesista all’atto della coscienza, nel senso realistico classico. L’ontologia tradizionale, realistica, riguarda la descrizione dell’ente; quella “critica” riguarda l’ente quale si presenta nell’ambito del senso dell’essere in generale. Tale è la questione ontologica dell’ente (cioè la questione filosofica, poiché la filosofia riguarda il senso dell’essere considerato attraverso il rapporto dell’ente all’essere). Tale è l’intelligibilità dell’ente: cioè la costituzione dell’ente in rapporto al senso dell’essere. Una tale ontologia implica e richiede l’analitica trascendentale dell’esistenza. L’ontologia riguarda il problema del senso dell’essere dell’ente. L’analitica trascendentale rimane il presupposto per la fondazione di una metafisica come ontologia (generale, riguardante il senso dell’essere e particolare, riguardante gli enti e principalmente l’uomo). L’analitica trascendentale dell’esistenza, compiuta da Heidegger, può essere considerata un primo passo verso la fondazione dell’ontologia critica o trascendentale. Un altro passo può essere quello compiuto dalla fenomenologia. Le condizioni di costituzione delle sfere oggettive appartengono alla coscienza (al soggetto trascendentale): è per tali condizioni che si dispiega, ad esempio, l’attività politica o quella artistica o quella scientifica, e così via. La struttura del con-essere è alla radice di ogni costituzione intenzionale di oggettività (caratterizzata da uno specifico senso ontologico). Escluso che alla metafisica appartenga il discorso sviluppato dalle scienze, rimane per essa il discorso ontologico riguardante il senso dell’essere. La scienza descrive i fenomeni e le condizioni di regolarità secondo cui essi si producono. La metafisica riguarda il senso che gli enti e i fenomeni assumono in relazione alla realtà nella sua totalità e alle determinate sfere in cui essa si articola e si manifesta. L’ontologia dell’esistenza riguarda l’uomo in relazione ai significati che assumono le diverse sfere dell’attività umana nei
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rapporti con le altre regioni ontologiche. Ad esempio, essa si chiede quali significati sono prodotti dall’attività politica in relazione alla totalità delle sfere ontologiche. Così si pongono domande come le seguenti: quali limiti incontra l’uomo nei rapporti con la natura (e specificamente con la sfera vegetale o con quella animale, e così via)? Quali compiti si pongono in un particolare contesto, per assolvere a determinate condizioni di senso? Secondo i rilievi dell’Alquié, l’idealismo avrebbe disperso il significato autentico del kantismo, cioè che l’essere non può essere ridotto a oggettività e il problema dell’in sé non può essere posto secondo il metodo della fondazione della scienza dei fenomeni. In questo senso si sarebbe verificato qualcosa di analogo a ciò che era accaduto con lo sviluppo del cartesianesimo, cioè con la pretesa costruzione di una metafisica oggettivistica, basata sul metodo della deduzione razionale, idonea a trasferire sul piano della impostazione del problema dell’essere i medesimi criteri gnoseologistici applicati alla costruzione della scienza fisica. Invece già con alcuni sviluppi dello stesso filone cartesiano (come per esempio in Pascal) si erano avuti i primi significativi esiti sul piano del coinvolgimento dell’esperienza più ampia del pensiero (sulla base dello spirito di finezza) per affrontare il problema dell’essere in sé (mentre lo spirito di geometria sarebbe stato valido per costruire la scienza della natura). Gli idealisti hanno semplicemente eliminato l’in sé, con la pretesa di risolvere il reale nella coscienza. Invece si trattava di considerare la dimensione del pensiero che era richiesta per lo sviluppo della metafisica e alla quale lo stesso Kant aveva fatto riferimento, spostando il problema dell’in sé sul piano della morale, con la conseguente ricerca di vie alternative del pensiero (rispetto a quello della logica formale classica). In tal modo era portato a compimento il disegno moderno della costruzione di una scienza oggettiva che comprendesse la totalità del reale (l’essere stesso). Hegel nella sua Enciclopedia avrebbe effettivamente dato corpo a questo disegno. Il pensiero della metafisica avrebbe dovuto seguire le vie cartesiane della “meditazione”, intendendo per ciò un pensiero impegnato oltre i termini della logica, sul piano della totalità delle risorse spirituali, specialmente, è ovvio, sul piano dell’intuizione e dell’approfondimento della vita spirituale (in senso, per intenderci, pascaliano). L’intera cultura del Novecento ha reagito alla riduzione gnoseologistica moderna del sapere a fondazione dell’oggettività. Essa è attraversata da significativi esempi di sviluppo del pensiero, oltre i canali della scienza oggettiva e nella direzione dell’impegno e dello sforzo personale. In questo senso si è parlato della filosofia e della metafisica come di una specie di ascetica e di soteriologia (cfr. Filiasi C., p. 151). Per la meditazione filosofica la forma logica tradizionale risulta inadeguata, è insufficiente lo stesso atteggiamento speculativo basato sullo sviluppo del ragionamento serrato e rigoroso, risulta, pertanto, inadeguata la teoresi (propria della filosofia teoretica delle scuole e delle accademie). Si tratta di ridestare la teoresi nel senso originario, cioè di contemplazione della verità o rivelazione dell’essere. Perciò Heidegger ha messo in luce il significato originario della alethéia, della verità come non nascondimento. La critica carabellesiana dell’oggettivismo moderno assume una portata di grande rilievo e giustifica i numerosi tentativi di seguire percorsi alternativi di pensiero, oltre quello della logica e della deduzione razionale. “La metafisica non è quindi solo riflessione ma anche attività e sforzo, ed è indissolubilmente tutte queste cose, perché mentre da un lato riflette sul trascendimento, d’altro lato lo promuove e lo potenzia. E si determina come una concreta attività mistica” (Filiasi C., p. 152). In questo senso il Moretti-Costanzi ha definito la metafisica: “La filosofia come metafisica – nel senso etimologico di meta# ta# fusika@ - può, nell’istanza costitutiva del suo trascendere, venire intesa come attività mistica per eccellenza, solo perché il conoscere scientifico ch’ella sorpassa rappresenta, con la finalità che gli è caratteristica, il piano o l grado infimo della partecipazione: di quella partecipazione all’essere che dovrebbe essere l’esistenza. La medesima, certamente, non culminerebbe nella pienezza dello stato metafisico dove ci si trova – per così dire – permeati e traversati dall’Essere, se all’Essere non facessero appello, pur da lontano e mediatamente, i fatti dell’esperienza; se, in altri termini, le cose fisiche, oggetto di un conoscere finito, in ciò e per ciò non rivelassero (nella finitezza della realtà umana) il fondamento della metafisica che con esso, appunto, appare e si manifesta in qualità di ontologia fondamentale” (L’ascetica di Heidegger, pp. 9-10, cit. Filiasi C., p. 152). Su questa base e in rapporto a questa esigenza ampiamente “teoretica” si giustificano numerose espressioni di cui è ricco il panorama del pensiero del Novecento. Diamo qui un semplice elenco di queste istanze teoretiche: l’ontologia come riflessione sull’essere e come propedeutica fondamentale per ogni discorso sull’esistente (Dufrenne, cfr.. p. 153); la partecipazione metafisica (Lavelle); la relazione ontologica (Hartmann); una rivoluzione nella nostra relazione
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con l’essere (Heidegger); il sacrificio come rinunzia a ogni essente; e così via. Al fondo di tutti questi orientamenti riscontriamo la stessa critica dell’oggettività scientifica, il medesimo interesse ad ampliare l’orizzonte dell’esperienza culturale. Nello stesso tempo riscontriamo una significativa tendenza ad investire della capacità del pensiero le forme della stessa vita quotidiana, nell’intento di dare un senso alle nostre azioni e al nostro atteggiamento di fronte agli eventi e alle cose. Contro la pretesa hegeliana di ridurre il pensiero (la riflessione filosofica) alla forma della logica antitetica, le filosofie del Novecento hanno reagito, a partire specialmente da Bergson, proponendo forme alternative diverse di pensiero speculativo, cioè rivolto a scoprire le facce multiformi della verità, nella direzione fondamentale della manifestazione dell’essere. “Bisogna dar merito al Lavelle (e in genere a tutti i nuovi metafisici francesi) di avere apertamente riconosciuto la capitale importanza del concetto bergsoniano di esperienza metafisica, di avere correntemente parlato di un’esperienza ontologica, distinta secondo caratteristiche proprie dell’esperienza empirico-realistica, e di aver fatto consistere il compito specifico della filosofia nella critica dell’esperienza empirica per reintegrare invece, nella sua pienezza, l’esperienza ontologica” (Filiasi C., p. 155). Le condizioni della metafisica nel pensiero del Novecento hanno implicato, come rileva il Filiasi Carcano, “il darsi di una nuova esperienza, la trasformazione non solo della nostra concezione del mondo, ma del nostro rapporto all’essere, la metamorfosi (per così dire) della nostra coscienza” (p. 159). I tentativi di attuazione di nuove forme di esperienza, significative per l’impostazione del problema del senso dell’essere, sono molteplici e toccano le diverse aree d’indagine, non solo quelle proprie delle scienze umane (antropologia, psicologia, sociologia, semantica, estetica e così via) ma anche quelle delle scienze naturali e persino delle matematiche (ove si toccano frequentemente i confini del pensiero filosofico). I concetti di coscienza e di natura, così, risultano notevolmente investiti dei risultati delle diverse scienze. Il sapere è messo in discussione da ogni parte; sembra di essere precipitati in un generale problematicismo. In tale orizzonte si delineano le nuove possibilità di sviluppo della metafisica.
A proposito del pensiero italiano dal 1945 al 1980 V. Verra (in La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980, Guida, Napoli 1988, pp. 63-82) ha cercato di definire alcune “costanti” del pensiero italiano di questi 35 anni, rispetto a quello della prima metà del secolo. Tali costanti nella loro generalità si configurano come “la presenza di motivi idealistici di fondo” e “l’interesse per il pensiero cristiano”. Il Verra ha anche cercato di tracciare le parabole di correnti significative come il neoilluminismo e il marxismo (ma si potrebbero mettere anche l’esistenzialismo, il neorazionalismo, il realismo critico, la fenomenologia). Per quanto riguarda la persistenza di motivi propri dell’impostazione idealistica, non si fa riferimento allo sviluppo della scuola gentiliana e di quella crociana in una molteplicità di autori che hanno in modi diversi elaborato l’attualismo e lo storicismo, bensì si tiene conto della più vasta influenza assicurata, ad esempio, dall’impostazione idealistica dell’insegnamento della filosofia (e della storia) nei licei. Si rileva che ricade nell’orbita dell’influenza crociana (storicistica) la notevole funzione che ha avuto, ad esempio, la scoperta di Gramsci in quanto maestro dell’interpretazione marxista dei fatti culturali e sociali. La fortuna del marxismo in Italia è dovuta, dunque, all’egemonia culturale crociana. Sull’altro versante, è da notare che gran parte del pensiero neoscolastico muove da posizioni gentiliane (esempio tipico il Bontadini). Un altro aspetto fondamentale è il processo di sprovincializzazione al quale il pensiero italiano si sottopone. E’ stato il Banfi ad avviare questo processo, non solo con il suo pensiero ma anche con alcune iniziative editoriali di notevole significato (la collana “Idee nuove” di Bompiani). Protagonista autorevole è stato, poi, il Paci, prima sostenitore, con l’Abbagnano, dell’esistenzialismo positivo e poi, con la prospettiva del relazioniamo, fautore di un’apertura verso molteplici esperienze filosofiche straniere (prima Witehead e poi Husserl), fino al tentativo di fondazione di una “enciclopedia fenomenologia”, strumento e terreno di autentico rinnovamento delle scienze umane. La filosofia italiana cercò nel secondo dopoguerra di aggiornarsi intorno al discorso sul sapere scientifico, liberandosi dal pregiudizio crociano delle scienze come campo proprio di pseudoconcetti e come strumento pratico e non propriamente teoretico. Si cercò di dimostrare l’impegno e la validità teoretica delle scienze
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matematiche e fisiche, attraverso un interesse per l’area logica messa in rilievo dagli orientamenti neopositivistici e logicistici europei (Circolo di Vienna). Nello stesso tempo si approfondiva l’indagine intorno al metodo delle scienze storico-sociali, specialmente attraverso lo studio di Dilthey e di Max Weber, nonché dell’intero storicismo tedesco. Intanto si rinnovava anche il metodo della storiografia filosofica, con l’attenzione rivolta non solo allo svolgimento delle idee ma ai nessi tra le idee e gli aspetti della realtà storica, ad esempio gli eventi culturali e sociali. Discipline come la sociologia della conoscenza, l’antropologia culturale, la linguistica e altre contribuivano a modificare il modo di concepire la stessa ricerca filosofica. Sul versante del pensiero cattolico, notevole è stato il tentativo di Bontadini di fondare una metafisica di tipo classico, riformando il principio dell’essere parmenideo attraverso il concetto di “creazione”, in modo da liberarlo dall’ipoteca nichilistica, secondo cui il nulla era considerato la molla del divenire.42 La ripresa della metafisica era allora anche l’oggetto degli studi condotti presso l’Università di Padova prima dal Padovani e poi da Marino Gentile.43 Anche Cornelio Fabro ha inteso dimostrare la forte presenza dell’esigenza del Trascendente nella filosofia contemporanea (da Kierkegaard a Heidegger e Sartre), come proiezione e continuità della grande tradizione metafisica classica. Il gruppo dei filosofi cristiani di orientamento non neoscolastico ha cercato di andare oltre la prospettiva stessa della metafisica classica, per dimostrare la vitalità del pensiero cristiano ai fini dello sviluppo di un pensiero libero dagli schemi concettuali della neoscolastica. Guzzo, Stefanini, Sciacca sono i principali rappresentanti di questo indirizzo, che ciascuno ha percorso in modo originale, dando luogo a forme teoriche peculiari. Su questa via troviamo anche Pietro Prini, che si è confrontato specialmente con l’esistenzialismo francese, per definire le linee di un “umanesimo programmatico” come esperienza spirituale capace di servirsi di un più ampio concetto di razionalità per interpretare le esigenze dell’attuale momento storico in vista di una forte tensione progettuale. Lo Sciacca ha approfondito, invece, il motivo dell’”interiorità oggettiva” di stampo rosminiano; lo Stefanini ha evidenziato specialmente la funzione della dimensione estetica nello sviluppo di una nuova metafisica; il Guzzo, specialmente attraverso la sua scuola, ha alimentato una molteplicità di studi, di cui è testimonianza la complessa attività editoriale della rivista “Filosofia”. In tale ambito hanno svolto la loro attività filosofi come il Pareyson e il Mathieu: il primo ha sviluppato una metafisica della persona come una “ontologia della libertà”, in cui, appunto, l’accesso all’essere muove dalle risorse spirituali personali e assume una connotazione ermeneutica, relativa alla carica di significati di cui dispone l’esperienza; il secondo ha ripensato momenti fondamentali del pensiero moderno (Leibniz, Kant) attraverso lo studio del Bergson e la critica della scienza esatta della natura (e per cui l’esistenza è l’inoggettivabile). Fra le correnti che, in nome del rinnovamento e dell’aggiornamento culturale dopo il periodo dell’egemonia idealistica, hanno attraversato i primi decenni della seconda metà del Novecento, troviamo in primo luogo il neoilluminismo, in crisi verso la fine degli anni ’60, sviluppato specialmente dall’Abbagnano e dal Bobbio. La filosofia particolarmente studiata nell’ambito di questo indirizzo è quella del Dewey, non solo per il concetto di una ragione critica come strumento dell’interpretazione e dell’impostazione dei problemi storici concreti, ma anche per la significativa posizione politica di difensore e teorico della democrazia integrale. Specialmente dopo l’esperienza del ’68 il programma neoilluministico di una riforma razionale della società appariva già arretrato rispetto ad alcune istanze rivoluzionarie dirompenti. Un altro indirizzo che ha avuto una complessa elaborazione critica è il marxismo, incentrato intorno all’analisi del pensiero di Gramsci. Gramsci ha contribuito a fissare alcune idee fondamentali che costituiscono i punti cardinali del marxismo italiano: in primo luogo troviamo il concetto del marxismo come strumento di interpretazione complessiva della storia e della realtà e quello di tale strumento come effettivo fattore di egemonia culturale che si riflette in egemonia politica della classe operaia. Era chiara, però, in questa posizione la proiezione della componente ideologica (l’egemonia di una classe ai fini della rivoluzione socialista) sull’interpretazione della realtà e della cultura (ad esempio con lo scarso interesse per lo sviluppo di un concetto rigoroso della scientificità). 42
La presenza del principio del nulla all’interno del principio dell’essere, per giustificare il divenire, era considerata dal Bontadini come la grande contraddizione da eliminare mediante il concetto di creazione. 43 Per Marino Gentile l’istanza metafisica non caratterizza solo il pensiero classico antico, bensì anche quello moderno, “anche se il pensiero moderno ha preferito viverla come instaurazione del regnum hominis e come privilegiamento della matematica quale modello del sapere” (Verra, ib., p. 71).
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A questo proposito una versione alternativa del marxismo era quella proposta dal Della Volpe, decisamente antihegliana e antidealistica, dunque orientata nel senso del recupero dei motivi logici aristotelici ed empiristici. Nell’ultimo decennio del periodo esaminato (1945-80) si assiste a un’inversione di tendenza, per cui quelle espressioni di pensiero che erano prima considerate come tipiche della “distruzione della ragione” e della crisi della cultura borghese invece sono utilizzate proprio come strumenti per portare avanti la critica di quella cultura.44 Gianni Vattimo (Irrazionalismo, storicismo, egemonia, pp. 263-283 dello stesso volume) traccia un profilo delle tendenze irrazionalistiche nel pensiero italiano di quel periodo. Tali tendenze, che si esprimono nell’interesse verso l’esistenzialismo e poi verso tematiche avanzate dall’ultimo Heidegger e da filosofi “nuovi” come Derida, Deleuze, Lacan, Foucauls, Baudrillard, Lyotard, e inquadrate in una generale “crisi della ragione” o crisi del concetto tradizionale di ragione. Per “ragione”, infatti, in senso classico e tradizionale, s’intende “l’idea che il mondo sia un sistema di cause ed effetti ricostruibile secondo una rigorosa applicazione del principio di ragione sufficiente” (p. 263). Si potrebbe dire che questa crisi coincide anche con quella del modello meccanicistico dell’universo, quale è stata determinata dagli stessi sviluppi scientifici in senso indeterministico. Per Heidegger si tratta del principio razionalistico che ha consentito il dispiegarsi della metafisica nell’organizzazione scientifico-tecnologica moderna. Il termine “ragione” costituisce il punto di unione e di raccordo tra il sistema dell’oggettività scientifica (tradotto anche nel sistema della tecnica) e il soggetto assurto a fondamento stesso. “Il corrispettivo del mondo metafisico della oggettività è il soggetto inteso come il soggetto dell’oggetto, nel duplice senso del genitivo, come caratterizzato da una volontà di dominio che si attua, appunto, nella tecnica, ma insieme suscettibile anch’esso di divenire oggetto di manipolazione e condizionamento, dunque di cadere in possesso dell’oggetto” (pp. 263-64). Le analisi di Marx sull’alienazione rientrano in questa critica del sistema metafisico basato sulla specularità di soggetto e oggetto. Il sistema reale si basa sull’attività oggettivante del soggetto e sulla corrispondente carica alienante dell’oggetto rispetto a quello. Il sistema metafisico moderno, dunque, ha questa caratteristica: di essere proprio della rivoluzione soggettivistica moderna (che pone il soggetto a fondamento della rappresentazione della realtà). Questa pone la realtà come oggettività, cioè come quella realtà che diventa “oggetto” del pensiero. Per Cartesio, come è noto, infatti, l’esse obiectivum è il reale che diventa il campo proprio dell’indagine scientifica. Si tratta di quell’area che la ragione indaga come sistema di cause ed effetti. Fanno parte di uno stesso sistema il soggetto e l’oggetto corrispondente. Di tale sistema Kant ha ricercato le condizioni trascendentali. L’idealismo, poi, ha inteso dare a tale sistema la definitiva dignità metafisica, assumendolo a sistema della realtà in senso assoluto. Il sistema classico antico, invece, non dipende dal soggetto, bensì poggia sul concetto di “essere”. Oggetto della conoscenza, per Platone, è il sistema delle idee, cioè delle essenze; per Aristotele è il sistema delle sostanze. Il sistema dell’oggettività, che è proprio della cultura moderna, si dispiega, quindi, nello sviluppo della tecnica. L’intero reale rientra nella manipolazione tecnica; e il soggetto diventa un termine della stessa operazione. Il sistema dell’oggettività si configura come il sistema stesso della realtà. L’attività del pensiero (che pone l’oggettività) si configura come attività manipolatrice, tecnica. L’irrazionalismo si profila proprio in relazione alla crisi di questo modello di realtà (dell’oggettività). Vattimo osserva che la critica della ragione nel pensiero italiano si indirizza verso la ragione storica, cioè verso una visione razionale del processo storico (che secondo il marxismo, ad esempio, è governato dalle 44
“Si ha così una sorta di rovesciamento di segno per cui quelle correnti che da Schopenhauer a Nietzsche e a Heidegger, dalla fenomenologia a Wittgenstein, hanno svolto una critica del pensiero hegeliano e dialettico, o, quanto meno si sono sviluppate al di fuori di esso, e che da molta parte del marxismo sono state considerate come irrazionalistiche, vengono invece indicate come lo strumento più adeguato per cogliere il carattere strutturale della crisi della società capitalistica. Si apre così la strada a sostenere non solo la possibilità, ma anche la necessità di un confronto tra Heidegger e Marx (pensiamo agli scritti di Massimo Cacciari), una volta chiarito che la posizione heideggeriana non coincide affatto con l’’utopia husserliana’ per cui la filosofia come critica dell’oggettivismo scientifico sarebbe la custode del senso autentico della soggettività. La filosofia di Heidegger allora non appare come distruzione della ragione, ma come collocazione della ratio che mette veramente in luce i motivi interni di crisi del mondo dominato dalla tecnica e l’impossibilità di un loro superamento puramente filosofico, e, in questo senso, rappresenta un’integrazione della scoperta marxiana dell’alienazione” (Verra, ib., pp. 79-80).
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leggi della dialettica), mentre non tocca l’impalcatura metafisica dell’oggettività moderna. Tuttavia motivi come quelli heideggeriani investono proprio questa impalcatura e, dunque, la costituzione del sistema metafisico moderno alle sue radici (che secondo Heidegger risalgono a un’epoca più lontana, cioè alle stesse fonti del pensiero greco). Il sistema oggettivo sarebbe il sistema dell’ente. Solo che la scienza moderna avrebbe tramutato tale sistema in dominio della tecnica. Ciò non toglie efficacia all’impostazione del discorso storiografico da parte di Vattimo. “Una prima ipotesi che propongo – egli scrive – è, dunque, che le tendenze irrazionalistiche presenti nel pensiero italiano siano da intendere come espressioni di momenti di crisi dello storicismo” (p. 265). E nello storicismo rientra anche il marxismo (essenzialmente gramsciano). Verso questo si è indirizzata, del resto, la critica più recente. Questa riguarda la posizione più generalmente egemonica della ragione nella cultura moderna (e ancora di più nello sviluppo della tecnica). Il pensiero più recente ha insistito sul motivo della differenza come termina che indica tutto ciò che si sottrae alla ragione calcolante e a ogni schema dialettico dello sviluppo storico. Scriveva Cacciari in un articolo del 1976: “Il nascondimento dell’essere non è una deficienza, ma la ricchezza specifica della metafisica – l’annichilimento caratteristico dell’essere che essa produce è il fondamento del potere scientifico sul dato” (Pensiero negativo e razionalizzazione, Venezia 1977, p. 77). E secondo l’interpretazione di Heidegger, Nietzsche con la sua “volontà di potenza” aveva definito “l’autentico orizzonte trascendentale del progetto scientifico moderno”. Secondo Severino, l’errore di provocare l’annichilimento dell’essere col concetto di divenire, si evita col ritorno a Parmenide. In definitiva, ciò vorrebbe dire sottrarre il reale all’eventualità dell’interpretazione oggettivistica moderna, dunque restituire il reale al suo “destino di necessità”. “Chiarito ciò, – osserva Vattimo – l’interesse per il pensiero di Severino come critico più radicale di ogni altro della nostra cultura e dei suoi caratteri alienanti dovrebbe rivelarsi fondato su un equivoco, perché la sola cosa che è davvero oggetto di critica è, da parte sua, la pretesa che qualcosa possa (e debba) davvero cambiare” (p. 280). Analogo equivoco è rintracciato nella prospettiva di Cacciari: “Nel recente saggio sulla nozione di progetto [Progetto in ‘Laboratorio politico’, p. 117] e sulla sua intrinseca contraddittorietà (dimostrata con una applicazione letterale delle categorie severiniane: il progetto vuole la modificabilità totale dell’ordine esistente; ma, contraddittoriamente, vuole anche la durata stabile del nuovo ordine da realizzare, Cacciasi si assegna l’unico compito di esibire la ‘chiusura’ senza visibili speranze di soluzione del sistema” (p. 280).
Aspetti del pensiero italiano del Novecento Nell’età a cavallo tra i due secoli può essere collocata la nascita della filosofia italiana contemporanea nei suoi caratteri più significativi. I grandi animatori del dibattito filosofico in quegli anni sono Croce e Gentile, i quali riescono a imporre l’egemonia del loro pensiero e a catalizzare l’attenzione del mondo intellettuale sulla successiva divaricazione delle loro prospettive, lo storicismo e l’attualismo. Intanto un motivo comune era dato dall’inclinazione verso gli studi storici e dalla relegazione a un livello inferiore delle scienze fisiche e delle stesse scienze umane (psicologia, sociologia, antropologia).45 Nel decennio (l’ultimo dell’Ottocento) in cui avviene la formazione dei due filosofi, in Italia si diffondeva il marxismo, la cui visione della storia, trovava conferme in quella evoluzionistica del darwinismo. A Roma insegnava allora Antonio Labriola, scolaro di Spaventa ma studioso anche di Herbart, la cui influenza congiunta gli consentirono di approdare al marxismo come concezione materialistica della storia (intorno al 1890).46 L’influsso del Labriola nell’ambiente filosofico è attestato dal fatto che i giovani Croce e 45
In questo senso sono emarginati studiosi e pensatori come Vailati, Enriques, De Sarlo. “Labriola è un personaggio pubblico, non solo in quanto accademico della capitale, ma anche in quanto esponente di punta del movimento socialista, che proprio allora raggiunge una sua maturità politica, organizzativa e culturale: del 1892 è il congresso col quale nasce il moderno Partito Socialista Italiano, del 1891 è la fondazione della rivista ‘Critica Sociale’ per iniziativa di Filippo Turati e altri, di quegli anni è la crescita elettorale inarrestabile e la lotta per una democratizzazione della società italiana in tutti i suoi aspetti. Labriola è anche un personaggio di rilievo internazionale: è in corrispondenza epistolare – e collaborazione culturale – con l’anziano Engels, che muore nel 1895, con il notissimo Sorel, con Bernstein e con altri importanti personaggi della cultura internazionale; la sua funzione politica e culturale 46
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Gentile allora scrissero saggi di notevole spessore teorico sul marxismo: l’uno il libro Materialismo storico ed economia marxista (in cui sottolinea l’importanza del canone metodologico relativo agli studi di economia rilevante per gli studi storici), l’altro La filosofia di Marx (in cui rileva il significato teorico della ‘prassi’ come azione volta alla trasformazione della società: un concetto che concorrerà successivamente alla delineazione di quello di “atto”). Croce scrive le sue opere filosofiche fondamentali nel primo decennio del Novecento; Gentile nel secondo. Il pensiero cattolico allora cercò di emanciparsi dalla tutela della Chiesa e di cercare vie autonome di sviluppo col Buonaiuti e col Murri, sostenitori della corrente del “modernismo”.47 Nel periodo a cavallo dei due secoli, inoltre, si registrano altri indirizzi, che rendono abbastanza complesso e vario il panorama culturale. Sul fronte filosofico si devono tenere presenti coloro che si trovano a gestire l’eredità del positivismo e quella idealistica e spaventiana, inoltre i pragmatisti (Papini, Prezzolini) e gli studiosi di scienze sociali, politiche ed economiche (Pareto, Mosca, Pantaleoni), nonché i pedagogisti (Montessori, De Dominicis). “Si deve anche ricordare, come appare da recenti studi, che le riviste di orientamento positivistico, dirette a portare lo spirito scientifico nelle diverse scienze umane e sociali, non sono soltanto quelle filosofiche, ma quelle che nascono soprattutto negli ultimi vent’anni del secolo e che costituiscono canali di comunicazione con il più avanzato pensiero europeo e statunitense del periodo” (Restaino, 173).48 negli anni Novanta è molto chiara: restituire al socialismo la sua dottrina autentica, quella risalente a Marz, e liberarlo dalle incrostazioni positivistico-darwuniane che rischiano di inquinarlo e di renderlo politicamente sterile con la fiducia in un immancabile e inarrestabile ‘progresso’ necessitato dalle ‘leggi’ della ‘evoluzione’. Egli svolge la sua funzione, fra il 1895 e il 1900, principalmente con i tre scritti sui quali il marxismo successivo italiano ha costruito una sua ‘genealogia’ quasi ufficiale: In memoria del Manifesto dei comunisti, Del materialismo storico. Delucidazione preliminare, Discorrendo di socialismo e di filosofia.(Restaino, p. 165). 47 Buonaiuti pubblicò il Programma dei modernisti nel 1907: Pio X condannò il modernismo con l’enciclica “Pascendi” del 1909. I due esponenti del modernismo furono sospesi dal sacerdozio e scomunicati. Il Buonaiuti insegnò poi Storia delle religioni all’Università di Roma, ma in seguito al Concordato venne sospeso anche dall’insegnamento. Croce e Gentile avevano mostrato perplessità di fronte a quell’indirizzo di pensiero, ritenendo che lo spirito critico non fosse applicabile alle verità di fede e che fosse proprio della filosofia. 48 Per l’eredità dell’Ottocento, cfr. E. Garin, Cronache di filosofia italiana, Bari 1966, pp. 1 sgg. Forse è da rivedere il giudizio del Gentile sull’indebolimento della vena speculativa in Italia negli ultimi decenni dell’Ottocento. Osservava, tra l’altro il Gentile: “Acquetatosi lo spirito italiano coll’appagamento delle sue aspirazioni, parve che la nostra vena speculativa si disseccasse. Vennero le critiche, i commenti, le storie; ma la vita della filosofia disparve” (Le origini della filosofia contemporanea in Italia, Messina 1917, p. 3). Il Garin coglie i motivi di un’eredità feconda negli stessi sviluppi del positivismo dell’Ardigò: “L’avere sottolineato l’importanza dell’indagine psicologica rivolta alla comprensione del meccanismo psichico, l’avere oscuramente sentito l’importanza delle questioni che urgevano entro le ricerche sociologiche, l’avere inteso il senso di una scienza morale che alle pretese normative sostituisse i processi di un’indagine critica: son tutti meriti che non gli si possono disconoscere. L’avere egli coraggiosamente esasperato nel suo monismo naturalistico il problema stesso del significato dell’uomo, della coscienza, della libertà, non fu piccolo vanto. Onde gli scolari più accorti vennero a far convergere i loro sforzi, non già sulle divagazioni di una larvata teologia, ma sul senso dell’uomo, e sulla possibilità dell’azione. Che fu il punto in cui, si conceda la parola grossa, si consumò il dramma del positivismo italiano, ed il suo lento rovesciarsi in soluzioni, o di radicale fenomenismo, o di idealismo” (E. Garin, Cronache, 8-9). In questo modo, il positivismo italiano riprese la via già tracciata da Vico e Cattaneo, rivolgendo la sua attenzione agli aspetti storici e concreti della vita dell’uomo, evitando le cadute in una metafisica naturalistica o meccanicistica, ricercando le radici storiche delle strutture dell’uomo e della società. “I discepoli di Ardirò, che si volsero in prevalenza a indagare il problema del fondamento della moralità, del senso delle idealità morali, e insomma i vari temi della storia dell’uomo, se rimasero fedeli a una non comune figura di maestro, ne abbandonarono in tutto la sistemazione. Ne trassero, e fu certo eredità vitale, un più sollecito senso del problema della drammaticità dell’azione e della libertà, del problema del senso della storia. Ma sia che si sollevassero, come il Tarozzi, a indagare il fondamento ultimo delle teorie deterministiche, e la possibilità della contingenza; o che, col Marchesini, venissero fissando l’attenzione sulle ‘finzioni’ umane sollecitatrici dell’azione e orientatici della storia, equivocando curiosamente tra finzione e realtà, ma pur giungendo a salvare, attraverso l’equivoco stesso, il mondo degli uomini; comunque tutti gli ardigoiani, per vie diverse, fatto centro non più sulla ‘natura’ ma nell’uomo e nella sua storia, già sulle soglie del ‘900 liquidavano il loro maestro” (Ib., 11). Il Troilo, infatti, osservava: “La necessità dell’essere che
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Comunque, gli sviluppi del pensiero successivi a quel periodo, cioè riguardanti i decenni successivi al primo del nuovo secolo, appaiono condizionati dall’influsso di Croce e Gentile. I due maggiori filosofi italiani della prima metà del Novecento sviluppano i fermenti vitali che attraversavano la tradizione idealistica meridionale, rappresentata da De Sancts da una parte e dall’altra da Vera e da Spaventa e i suoi scolari Maturi e Jaja. In realtà, il Vera, che aveva compiuto un gigantesco sforzo di traduzione, commento e diffusione delle opere di Hegel, con la sua interpretazione decisamente “di destra”, rivolta cioè a privilegiare gli aspetti sistematici del pensiero hegeliano, nel senso della costruzione di un edificio culminante in una specie di teologia in cui immobilmente si riflette lo spirito come totalità del reale, poneva il pensiero dialettico sul piano di un misticismo senza storia. La funzione di continuazione della tradizione idealistica doveva, quindi, spettare a Bertrando Spaventa (oltre che al Sanctis per lo sviluppo di una estetica e di una critica letteraria che saranno destinate a dominare il Novecento). Come osserva il Garin, il De Sanctis (così come lo Spaventa) delineava un preciso disegno, “secondo il quale noi assisteremmo a una progressiva liberazione da tutti i presupposti teologici verso un trionfo dello spirito umano che, libero da ogni impaccio e fatto signore d sé e consapevole artefice della propria sorte, attua la storia come perenne affermazione di libertà” (Ib., 15). Spaventa, con l’idea della circolazione del pensiero italiano del Rinascimento nell’Europa moderna, evidenziava, ormai in un modo inequivocabile, la funzione essenziale della cultura italiana nella formazione del mondo moderno, basato sulla centralità dello spirito umano nello sviluppo della storia. Sembrava così che la coscienza dell’autonoma capacità dell’uomo di costruire la propria realtà e il proprio mondo fosse giunta al suo livello più alto. E Spaventa aveva puntualmente seguito, attraverso il nesso hegeliano di fenomenologia e logica, lo sviluppo dello spirito fino a quel punto culminante della storia umana. Nello stesso tempo, De Sanctis e Spaventa mettevano in rilievo l’esigenza di andare oltre l’idealismo, verso una prospettiva che consentisse il recupero degli aspetti concreti e molteplici della realtà, al di là della visione unitaria dello spirito, in modo che la stessa filosofia, attenta alla concretezza dei dati storici, potesse operare una più incisiva influenza sull’interpretazione della realtà umana e sociale del tempo e sulla costruzione di una società emancipata, veramente libera. Come è noto, il De Sanctis era portato a celebrare “il realismo nella scienza, nell’arte, nella storia”, come superamento di una visione mistificata della realtà e ritorno alla concretezza dell’esistenza, poiché “il realismo incoraggia gli studi seri, introduce nell’uso della vita pratica, distoglie dalle ipotesi e dalle generalità, indirizza al possesso della realtà, restaura la fede nell’umano sapere, prepara una nuova sintesi”. “E’, si badi, un realismo sorto ‘dal seno dell’idealismo’; è, diremmo, una rigorosa interpretazione dell’idealismo come operosa fedeltà al limite concreto, come umana opera nel mondo contro ogni evasione astrattamente moralistica e retorica” (Garin, 16). La medesima esigenza si può cogliere nella interpretazione spaventiana di Hegel.49 culmina nella libertà dello spirito, nella superiore autonomia umana, è la migliore formula e la maggiore attuazione possibile di ricchezza, di forza e di bellezza” (cit. ib.). Per il bilancio compiuto dallo stesso Troilo, cfr. di questo discepolo dell’Ardigò, Idee e ideali del positivismo, Roma 1909. Il difficile compromesso tra necessità e libertà, sul quale il Trailo insisteva, era comunque un segno della crisi alla quale era pervenuto il positivismo italiano. L’uomo e la sua libertà rimanevano un mistero per l’ipotesi scientista e deterministica che il positivismo avanzava. Lo stesso Troilo ammetteva: “Né antropocentrismo, né libero arbitrio, sotto alcuna forma, ammette il positivismo; ma colloca l’uomo nella catena degli uomini e delle cose, e non lo fa eccezione […]. Pure, se l’uomo non ha una posizione propria privilegiata, contraddittoria, assurda ontologicamente, è tale tuttavia che, dal suo posto nell’universo, può ricostruire e ricostruisce un antropocentrismo soggettivo, morale, ideale. Il quale è dovuto, non già a qualche cosa che turba l’armonia e la legge universale; bensì a proprietà ed a funzioni, che –esistenti in germe e in potenza anche negli altri esseri – lentamente si vengono svolgendo ed affermando fino a compiere magnificamente, nella più alta forma umana” (cit. ib., 12). Il Garin opportunamente commenta: “In realtà il positivismo nei suoi meno agguerriti seguaci denunciò l’equivoco connubio di una nascosta metafisica con una forte spinta umanistica” (Ib., 12). Insomma sembrava che il positivismo avesse esaurito la sua funzione e che non avesse più avvenire in un quadro che sollecitava una forte ripresa umanistica, nel segno di un’attività umana e di iniziative in grado di recare profonde trasformazioni al mondo. Si trattava, cioè, di sviluppare un pensiero basato sulla rivalutazione della libertà creatrice, sulla capacità umana di progettare un ordine morale e sociale sostanzialmente nuovo. Si evidenziavano, pertanto, i limiti di una filosofia che non interpretava le spinte rivoluzionarie che già agivano nel quadro culturale della vigilia del nuovo secolo. 49 Le istanze realistiche in Spaventa sono rilevate dal Garin, il quale, appunto, coglie il significato del prevalente rivolgersi dello Spaventa, piuttosto che verso la compatta unità dell’Idea, verso il cammino fenomenologico della
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“Croce e Gentile avevano differenziato le loro posizioni teoriche nel secondo decennio del secolo. L’iniziativa in questo senso era stata di Gentile, che nel primo decennio si era impegnato principalmente a ricostruire la tradizione filosofica italiana recente e lontana in una cornice idealistica comune a lui e a Croce. Con la delineazione di un suo idealismo diverso da quello crociano, e cioè con la filosofia dell’atto puro, e con la formazione di una sua scuola di allievi e seguaci, Gentile aveva dato a Croce motivi per una pubblica presa di distanza, avvenuta in alcuni articoli – di ambedue i filosofi – apparsi su ‘La Voce’ tra la fine del 1913 e l’inizio del 1914” (Restaino, 170-71). La differenza era poi maturata sul piano politico, in seguito all’adesione del Gentile al fascismo e alla professione sempre più antifascista del Croce.50 Un intervento significativo del clima che allora si instaurò nell’ambiente culturale italiano fu la chiusura d’autorità del Congresso nazionale di filosofia, che si teneva a Milano con la presidenza del Martinetti (marzo 1926). Costui si era collocato su una posizione di idealismo “critico”, basato su un fondamentale razionalismo aperto alle esigenze della fede e orientato in senso etico, come affermazione della libertà umana. Agostino Gemelli, rappresentante della rinascita della filosofia scolastica, plaudiva a quell’avvenimento. Invece i rapporti tra i gentiliani e i cattolici tornarono a profilarsi come difficili in seguito al Concordato, che riportava la religione cattolica, il cui insegnamento era stato limitato da Gentile alla scuola elementare (mentre nelle classi secondarie era sostituito dalla filosofia), a coronamento del processo educativo. Al Congresso nazionale di filosofia del 1929 Gentile e i suoi allievi (tra cui Guzzo e Calogero, poi approdati a orientamenti diversi, l’uno verso uno spiritualismo cattolico, l’altro verso lo storicismo crociano) mettevano in rilievo le conseguenze di quelle norme concordatarie per la laicità della scuola. Alcuni allievi di Gentile allora si avvicinarono alle posizioni crociane (Calogero, Omodeo, De Ruggiero, Lombardo Radice, Codignola): mentre altri si avvicinarono alle posizioni dello spiritualismo cattolico (Guzzo, Battaglia, Sciacca, Carlini). In tal modo il panorama filosofico italiano andava differenziandosi ulteriormente. L’egemonia gentiliana si esercitava, tuttavia, attraverso il controllo delle più significative istituzioni culturali (l’”Enciclopedia Treccani”, la Scuola Normale di Pisa, le più prestigiose case editrici come Sansoni, La Nuova Italia, Vallecchi). Il quadro filosofico intorno agli anni trenta risultava, dunque, occupato principalmente dai gentiliani (ortodossi e dissidenti, come Spirito), dagli spiritualisti cattolici, dai neoscolastici (tra i quali emergevano Sofia Vanni Rovighi e Bontadini). I diversi gruppi gravitavano intorno a riviste di notevole prestigio, come la “Rivista di filosofia neoscolastica”, il “Giornale critico della filosofia italiana”, la “Critica”. Vi era, poi, un indirizzo di pensiero di orientamento razionalistico, che rivendicava una autonomia sostanziale. Il Banfi nel 1926 pubblicava i Principi di una teoria della ragione; il Martinetti continuava a dirigere la “Rivista di filosofia”, Abbagnano si accostava all’esistenzialismo, pubblicando nel 1939 La struttura dell’esistenza, Lombardi faceva conoscere Kierkegaard e Feuerbach (1936), Geymonat introduceva le correnti neopositivistiche (1934), Della Volpe riproponeva in forma originale il pensiero di Hegel (1930), Bobbio nel suo libro La filosofia del decadentismo (1944) contrapponeva una linea razionalistica al dilagare dell’irrazionalismo, Luporini si avvicinava originalmente alle tematiche dell’esistenzialismo e del marxismo (1935). Il secondo dopoguerra si caratterizza dalla forte capacità di influsso e di espansione dimostrata dal marxismo, in seguito alla elaborazione compiuta da Gramsci, che ne aveva rilevato la sostanziale vicinanza con la tradizione storicista del pensiero italiano. Il dibattito all’interno dello stesso marxismo è stato ricco e vivace, come è dimostrato dalle diverse linee interpretative, che ne hanno rivelato, soprattutto, la capacità di coscienza, gli aspetti storici di quel percorso, il peso che continuamente esercita il patrimonio accumulato nell’esperienza sensibile, la concreta declinazione dello spirito nella forma della mente umana e in quella della soggettività etica. “La sua speculazione viene così facendo centro nell’uomo, nell’uomo concreto” (Garin, 17). Come scriveva lo stesso Spaventa: “In altri termini l’uomo è essenzialmente storia; e chi dice storia, dice positivismo, aposteriorismo. L’uomo a priori è l’uomo astratto; l’uomo senza storia”. “Di qui quel rovesciarsi in una rigorosa fedeltà all’esperienza, quel proclamarsi vero e schietto positivista, perché ‘il positivismo è la vera espressione dell’esigenza contenuta nel vero idealismo’; perché ‘l’infinita esistenza è attività delle cose e specialmente dell’uomo’. Di qui quel suo duro, intransigente umanismo” (Garin, 17). 50 Gentile pubblicava nella primavera del 1925 il “Manifesto degli intellettuali fascisti”, al quale Croce rispondeva con il “Manifesto degli intellettuali antifascisti”, sottoscritto da decine di autorevoli rappresentanti del mondo della cultura, tra i quali il filosofo Martinetti.
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adattamento alle diverse situazioni storico-culturali e di sintesi con altre correnti e orientamenti di pensiero. Infatti del marxismo in Italia sono state sviluppate diverse versioni, oltre a quella storicista e gramsciana: la versione critico-razionalista di Banfi, quella logico-scientista di Della Volpe (e del suo allievo Colletti, polemica verso l’interpretazione storicista che privilegia la discendenza idealistica, laddove si tratterebbe invece di sviluppare il nesso tra marxismo e tradizione galileiana e illuministica), quella materialisticoscientista del Geymonat (che avvicina il marxismo al nerazionalismo e al neopositivismo), quella esistenzialistica di Leporini e quella fenomenologica di Paci. “La filosofia del dopoguerra si orienterà in pochi anni nel segno di tre correnti principali: quella marxista, quella laica nelle sue molteplici articolazioni ideali e geografiche, quella cattolica nelle due versioni neotomista e spiritualista” (Restaino, 179). “L’area universitaria di Torino, Milano, Firenze e Bologna è quella in cui si afferma con maggiore creatività e influenza la corrente laica. Nell’area di Napoli si forma intorno a Pietro Piovani prima, e a Fulvio Tessitore dopo, una scuola di studiosi che si occupano prevalentemente di problemi teorici e storiografici legati alle tematiche dello storicismo, sia italiano (da Vico a Croce) sia tedesco” (Ib.). A Torino si è sviluppata anche la scuola del Pareyson, che ha continuato a dialogare con le correnti esistenzialistiche e poi con l’ermeneutica, formando pensatori di un notevole influsso culturale, come Eco e Vattimo. Fra i promotori della restaurazione della metafisica classica, si è distinto il Bontadini. Particolarmente articolata è la scuola di Abbagnano, con Pietro Rossi e Viano. Preti e Paci sono stati allievi di Banfi. “Per alcuni decenni, dal 1945 circa ai primi anni Settanta, il dibattito filosofico italiano si sviluppa sia tra queste tre correnti di pensiero, cia all’interno di ciascuna di esse, con casi talvolta clamorosi: fra i cattolici, Emanuele Severino, allievo di Bontadini, viene allontanato dall’Università Cattolica di Milano perché le sue idee non sono gradite alle autorità accademiche ed ecclesiastiche (firmerà più tardi una sua scuola nell’area veneta); Augusto Del Noce presenterà un cattolicesimo molto critico nei confronti del marxismo, ma su posizioni teoriche di grande rilevanza e influenza. Ci saranno dibattiti e scontri anche fra i laici che si divideranno su diverse questioni, e fra i marxisti, divisi anch’essi su Gramsci e su altro. Dagli anni Settanta a oggi il dibattito filosofico italiano è poi cambiato in maniera molto significativa: le correnti ideali non sono pù le tre di cui si è detto, giacché le ‘appartenenze’ dei singoli pensatori, da allora, non sono sempre state chiaramente classificabili secondo vecchie etichette. Marxismo, laicismo, cattolicesimo, sul piano filosofico, entrano in crisi sia per il mutamento rapido della società italiana (ci sono stati il ’68, lo sviluppo industriale e tecnologico, i nuovi media), sia per il massiccio ingresso nella cultura italiana di pensatori precedentemente ignorati o trascurati, da Wittgenstein a Nietzsche, da Heidegger a Gadamer, dai francofortesi agli strutturalisti e poststrutturalisti, e altri ancora. Le divisioni tra i filosofi, col passar degli anni, si precisano intorno a temi molto diversi da quelli del dibattito precedente. Assumono importanza, infatti, i temi del ‘moderno’ (la ragione ‘forte’, illuminista e marxista, tecnologica e progressiva) e del ‘post-moderno’ (critica del filone illuministico e razionalistico, rivalutazione dello ‘spirituale’ in varie forme, che vanno dallo heideggerismo all’ermeneutica). Dalla parte del ‘moderno’, rivisitato e ‘ripulito’ dai miti che gli vengono attribuiti, stanno gran parte degli eredi del neoilluminismo e del marxismo (Viano, Massimo Cacciari, A. Giorgio Gargani)” (Restaino, 180).
Il panorama filosofico intorno al 1925 Come appariva da due articoli pubblicati da Armando Carlini sulla “Voce” nel 1914 su Le riviste italiane di filosofia, in quegli anni il dibattito filosofico in Italia si svolgeva su tre riviste: la “Critica”, fondata da Croce nel 1903, la “Rivista di Filosofia”, sorta nel 1909 per opera degli eredi del positivismo e del neokantismo, e la “Cultura filosofica”, fondata nel 1907 da De Sarlo, su una posizione alternativa sia al positivismo che all’idealismo. Intorno al 1925 lo scenario è occupato principalmente dalla filosofia di Croce e di Gentile. Un quadro completo dello scenario filosofico italiano è, tuttavia, tracciato in un ponderoso fascicolo della rivista “Logos”, fondata da Antonio Aliotta, come prosecuzione della rivista del De Sarlo, cessata nel 1915. Tra i componenti dell’ultima generazione dei positivisti, troviamo gli allievi di Ardigò (Marchesini, Tarozzi, Troilo, Ranzoli), filosofi che privilegiavano l'indagine etico-pedagogica (Javalta, Limentani), cultori delle
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scienze storiche e sociologiche (Mosca, Pareto, Antonio Labriola, Monfolfo, Adolfo Levi), studiosi di frontiera tra filosofia e scienza (Enriques, Peano, Annibale Pastore), sostenitori dello scetticismo critico (Rensi) e dell’empirismo (Guastella). Una corrente che intanto si era affermata era quella neoscolastica, capeggiata da Agostino Gemelli. Sotto la denominazione di “idealismo critico” erano compresi Martinetti, Varisco e Carabellese. Il neocriticismo appariva articolato in due filoni, uno critico-storico, con Fiorentino, Tocco, Carlo Cantoni, Chiappelli, e uno costruttivo-sistematico, con Masci, Maresca, Giovanni Del Vecchio. Nell’ambito dell’attualismo, già allora il Della Volpe poteva distinguere una corrente di destra, con Armando Carlini, trascendentistica e filocattolica, e una di sinistra, immanenstista e laica, con Giuseppe Saitta e Guido De Ruggiero, oltre a una posizione ortodossa, con Vito Fazio-Allmayer, Adolfo Omodeo, Cecilia Dentice d’Accadia, Francesco Anzilotti. Tra gli allievi di De Sarlo erano compresi l’Aliotta, il Lamanna, il Calò ed Ernesto Bonaventura. Il pragmatismo era ormai assente. Il marxismo era stato sviluppato specialmente da Antonio Gramsci ne “L’Ordine Nuovo ” tra il 1919 e il 1920. Scarsi erano i riferimenti allo sviluppo della riflessione filosofica in Europa: soltanto Antonio Banfi nello studio sui Princìpi di una teoria della ragione, del 1926, si occupava di importanti correnti come la fenomenologia di Husserl e il pensiero di Simmel, e Nicola Abbagnano nel 1927 pubblicava un saggio su Il nuovo idealismo inglese e americano. Nel 1925 apparvero i due famosi manifesti, quello degli intellettuali fascisti, steso dal Gentile, e quello del Croce. Intanto Gentile e i suoi discepoli avevano criticato la filosofia crociana, specialmente per le distinzioni all’interno della vita dello spirito, accentuando l’immanenza totale della vita spirituale nella sua unità indistinta nell’atto del suo svolgersi. E Croce aveva puntualmente messo in rilievo la prospettiva paradossale dell’attualismo, per cui la vita spirituale si configurava come qualcosa di impensabile e di ineffabile, come un “immobile presente”, al di là di ogni distinzione. Per Gentile, bisognava “insistere fortemente sul principio di tutto l’idealismo moderno, del pensiero che non presuppone nulla perché assoluto, e crea tutto. Non presuppone neppure il soggetto, come suo antecedente, ma è il soggetto, come scoprì Descartes, distruggendo la vecchia distinzione di sostanza e attributo. Non ci sono io, e il mio pensiero, ma io sono il mio pensiero, che non è un essere, e tanto meno qualcosa, ma un processo, il processo”. Fuori di questo processo, o atto, non c’è nulla. “Di qui non s’esce, ma qui c’è tutto in tutte le sue distinzioni, che io non conto, perché infatti, come distinzioni interne al tutto, non hanno numero” (“La Voce”, 1908-1914, Torino 1960, p. 620). Un articolo apparso sul giornale “Il Popolo” metteva allora in rilievo la pericolosità dell’attualismo gentiliano. “In esso – si osservava – pensiero e realtà si identificano, e l’atto del pensiero pensante è l’assoluta realtà. Il pensiero fa l’uomo Dio”. Né si trascurava di mettere in evidenza l’annullamento dei diritti individuali derivante dalla concezione gentiliana dello stato etico, cioè di uno stato “che acquista, nei confronti della Chiesa, un concetto proprio del divino e della universalità etica della sua natura, considerandosi finalmente non più una istituzione esterna e meccanica in servizio di qualche cosa di più alto e fuori di lui, ma lo spirito concreto della comunità umana, la universale potenza etica” (G. Donati, in E. Papa, Storia di due manifesti, Feltrinelli, Milano 1958, p. 128). Intanto partiva l’offensiva teoretica contro l’attualismo, culminata con la messa all’Indice, nel 1934, delle opere di Gentile (e anche di quelle di Croce). Già nel 1925 era uscito lo studio critico di E: Chiocchetti, La filosofia di G. Gentile; 51 e lo stesso Agostino Gemelli, esponendo il suo pensiero nel libro Il mio contributo alla filosofia neoscolastica (1927), scriveva: “l’idealismo ha fatto opera di scristianizzazione in Italia assai più profonda di quella compiuta dal positivismo”. Così si cercava di screditare l’attualismo e si proponeva la filosofia neoscolastica come quella più autenticamente conforme alla cultura e alla tradizione italiana, in un clima di esaltazione dei valori nazionali. Il concordato del 1929, riconoscendo l’insegnamento della religione cattolica come il cardine dell’intero sistema educativo, poneva, poi, quella filosofia in una posizione di effettiva egemonia. Nel Congresso nazionale di filosofia, che si tenne a Roma nel maggio 1929, doveva inevitabilmente esplodere la polemica tra i laici, guidati dallo stesso gentile, e i cattolici, capeggiati appunto da padre Gemelli. Gentile, nella sua relazione su La filosofia e lo Stato, rivendicava la funzione essenziale del libero 51
Sulla polemica che ne seguì, cfr. S. Romano, G. Gentile. La filosofia al potere, Bompiani, Milano 1990.
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pensiero riguardo alla stessa individuazione dell’indirizzo politico da seguire via via, in rapporto allo sviluppo della vita spirituale, e metteva in rilievo, ovviamente, la particolare incidenza dell’attualismo sullo sviluppo di una cultura rispondente alle esigenze dello stato etico. Questo stato, osservava il filosofo, “non è amorale e non è agnostico”, e “ha diritto a insegnare perché ha una dottrina, sa il fine della nazione, sa il valore di questo fine, e lo sa non in astratto, ma in relazione al passato e all’attuale presente e alle forze vive e perenni della nazione”. La filosofia, in quanto coglie la vita spirituale nel suo svolgimento, comprende il processo in cui l’autocoscienza si riconosce attuata nella vita dello stato, e perciò essa segue lo sviluppo spirituale e non può assumere mai una forma definitiva di dottrina chiusa e dogmatica. Gentile, così, di fronte alla filosofia dei cattolici, configurata come la conquista definitiva della verità, metteva in rilievo il carattere dinamico e critico del libero pensiero. “Il carattere critico che compete alla dottrina dello Stato – osservava – è lo stesso carattere critico essenziale al pensiero, e cioè alla filosofia. La quale […] vive perciò di critica (ossia di pensiero che sa di doversi di continuo rinnovare e svolgere, sopra tutti i suoi oggetti”. Agostino Gemelli poneva con estrema durezza il problema dell’insegnamento della filosofia nelle scuole, osservando che, in ottemperanza al principio concordatario che riconosce la dottrina cattolica come “fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica”, doveva essere insegnata “una filosofia che sia in armonia con l’insegnamento della religione”, e obiettava che “l’idealismo non può essere insegnato nella scuola media pubblica senza violare la coscienza dei giovani”, poiché “nulla vi è di meno religioso, di meno cristiano del pensiero di Gentile e degli idealisti […], nulla vi è di più anticristiano”. Gentile reagiva, ricordando la difesa della libertà di pensiero condotta dalla filosofia idealistica e, dunque, il ruolo svolto da essa nel processo di rinascita dello stesso pensiero cattolico, ridotto al silenzio “per mezzo secolo […] dall’intolleranza del positivismo dominante”. E Augusto Guzzo, allora gentiliano, esprimeva la sua fiducia in una posizione di equilibrio, che riuscisse a conciliare le esigenze della Chiesa con quelle dello Stato. “Il quesito è duplice: - egli osservava – 1) Si può sensatamente credere che la Chiesa cattolica intenda valersi delle buone disposizioni dello Stato italiano per tentare di asservire con la forza le coscienze che non siano già, per spontanea reverenza, fedeli? 2) Si può ragionevolmente supporre lo Stato italiano disposto a comprimere la libertà di coscienza, e massime la libertà d’indagine speculativa in Italia?”. Il Gemelli, nella voce sulla filosofia neoscolastica per l’”Enciclopedia italiana”, ribadiva il programma di critica di tutto il pensiero moderno e l’essenziale “medievalismo” di quella filosofia. “Col nome di filosofia neoscolastica - scriveva – s’intende propriamente la restaurazione medioevale nell’ambito della civiltà moderna, considerando il pensiero medievale non come espressione transitoria di una civiltà ma, quanto alla sostanza, come definitiva conquista della ragione umana, nel campo della metafisica, conquista maturata attraverso la speculazione greca e il cristianesimo, avente per caratteristiche fondamentali il realismo e il teismo”.52
La diaspora attualista. Carlini e Sciacca. Negli anni trenta si consuma la divisione sul fronte dell’attualismo, con la formazione di due correnti, una di “destra”, metafisica, personalistica, trascendentistica, e una di “sinistra”, critica, problematica, immanentista. I rappresentanti più autorevoli della “destra” sono Carlini e Sciacca. Armando Carlini ha esposto la sua prospettiva di pensiero ne Il mito del realismo, del 1936, e nello scritto più breve Lineamenti di una concezione realistica dello spirito umano, del 1942. Il nucleo di questa concezione, che si definisce come un “trascendentismo realistico cristiano”, è costituito dalla realtà spirituale, considerata nella sua forma di esistenza concreta dell’individuo/persona. Questa realtà, in quanto spirituale, è “in atto”, cioè è uno svolgersi e un manifestarsi; e il suo carattere fondamentale è dato dal fatto che è presente a se stessa, cioè dall’autocoscienza. Questo dato è il primo elemento metafisico dello spirito in quanto entità concreta. Da esso deriva l’articolazione di “sentimento” e “intuizione”, che riguardano non più soltanto l’esistenza spirituale finita, ma la stessa spiritualità come totalità e come principio di ogni concreta esistenza 52
Cfr. I. Mancini, La neoscolastica durante gli anni del fascismo, Belforte, Livorno 1985, p. 283.
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spirituale. Dal sentimento si sviluppa, quindi, la fede religiosa, mentre dall’intuizione deriva il pensiero filosofico, che è, essenzialmente, concezione metafisica. In entrambi i casi, si ha il riferimento a una “trascendenza”. Inoltre, l’intuizione, sul piano della sensazione, genera il “bello”, come suo proprio valore, mentre sul piano del pensiero dà luogo al “vero” e il sentimento religioso produce il valore del “bene”. In complesso, si tratta di una metafisica del soggetto, che mette in discussione il realismo dogmatico e fonda il sistema della vita spirituale sulla comprensione originaria che il soggetto ha di sé, cioè su un fondamentale atto di autocomprensione e autoproblematizzazione. Il soggetto pone il problema di sé e il problema della realtà deriva e si sviluppa a partire da quell’atto problematizzante primario. Perciò Carlini parla di “metafisica critica”: Ad esempio, è sulla dimensione etico-sociale della persona che si costruisce ogni edificio religioso. “L’esigenza maggiore di tutte le religioni - scrive Carlini, infatti – è di dare un fondamento al mondo etico-sociale, ed è in questo che più immediatamente si opera il passaggio dalla pura religiosità, presente nella interiorità trascendentale dell’atto, alla religione positiva. Il cristianesimo, come religione positiva, supera infinitamente le altre religioni su questo terreno del mondo etico-sociale, perché esso solo, dopo di avere rivelato all’uomo il presupposto trascendente della sua personalità, gli fa comando di tradurre i valori di questa nel mondo della socialità” (in Filosofi italiani contemporanei, a cura di M. F. Sciacca, Marzorati, Milano 1946, p. 250). Michele Federico Sciacca definiva, intorno al 1936, la sua prospettiva nelle Linee di uno spiritualismo critico. Ugo Spirito, nell’ambito della “sinistra” gentiliana, ha inteso sviluppare una versione critica dell’attualismo, per cui l’atto spirituale assume i caratteri della ricerca continua e della problematicità. L’essenza della vita spirituale è l’essere sempre nella condizione della ricerca, della domanda (La vita come ricerca, 1937). In quanto insoddisfazione continua, la vita spirituale non accetta nessuna condizione data e si pone sempre in un atteggiamento di possibilità e di libertà. E questo si esprime specialmente (nella forma più compiuta) nell’arte, come attività che produce mondi dotati di senso. L’artista, infatti, “sogna il suo ideale e cerca di realizzarlo, in un processo di catarsi che s’infrange nella delusione, ma che si rinnova continuamente nel rinnovarsi dell’ispirazione” (La vita come arte, 1941, in Filosofi italiani, cit., p. 467). La riflessione critica di Guido Calogero (l’altro importante filosofo che ha sviluppato in senso critico l’attualismo) sfocia, a sua volta, in una “filosofia del dialogo”, secondo cui il principio della vita spirituale è di carattere etico. “Non la logica genera la morale, - egli osserva – ma la morale la logica”, per cui “il ‘principio del dialogo’ appare come più cogente, più originario del ‘principio del logo’” (La filosofia del dialogo, Ed. Comunità, Milano 1962, pp. 43-44).
Posizioni critiche nell’ambito della filosofia neoscolastica. Bontadini. Gustavo Bontadini ha cercato di instaurare un rapporto critico tra filosofia neoscolastica e idealismo attualistico. Egli ha tracciato il suo originale itinerario filosofico specialmente in due libri, che già nei titoli sintetizzano la linea programmatica del suo pensiero, Dall’attualismo al problematicismo, del 1946, e Dal problematicismo alla metafisica, del 1952. Il nucleo di questo pensiero è costituito dalla ricerca di un’alternativa sia al realismo ingenuo, secondo cui il reale è un “dato”, sia all’idealismo, secondo cui il reale è un “costruito”, cioè un prodotto dell’attività spirituale. Questa posizione alternativa sarebbe rappresentata dalla concezione del reale come “presenza”, cioè come un orizzonte in cui il reale si costituisce nell’ambito di uno svelamento originario. Il “più ampio orizzonte di presenza” è da considerarsi come “assoluto”, “totale”, non subordinato “ad un particolare processo empirico di costituzione”. Questa “presenza” comprende insieme il soggetto e l’oggetto, l’atto dell’esperire e il contenuto esperito. Bontadini rileva come solo l’idealismo abbia superato tutte le posizioni dualistiche che si sono riprodotte dall’antichità a Descartes e a Kant. Ma l’idealismo ha inteso il superamento del dualismo semplicemente come negazione dell’essere nel pensiero. Tuttavia, questa negazione riguarda l’alterità dell’essere, non l’essere stesso, che si mantiene come termine intrinseco al pensiero, cioè come “contenuto o termine intenzionale del pensiero stesso” (in Filosofi italiani, cit., p. 168). L’essere, dunque, è riaffermato come problema, il problema fondamentale della filosofia. In questo modo, si evidenzia già il passaggio dall’attualismo (che risolve il reale nell’atto spirituale) al
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problematicismo (che riconosce il problema dell’essere come ineliminabile dal pensiero) e, infine, alla metafisica (poiché il problema dell’essere è tipicamente metafisico).
Il dibattito sull’esistenzialismo. Abbagnano. Con una prospettiva di “esistenzialismo positivo”, Nicola Abbagnano cercava di attuare un superamento sia del razionalismo, che tendeva a riportare in un ambito “dialettico” il dinamismo vitale, sia dell’irrazionalismo vitalistico, che, al contrario, sosteneva l’assoluta irriducibilità della vita (anche della vita spirituale) alla dialettica razionale. Considerato il dualismo di vita e ragione, egli cercava una prospettiva di conciliazione dei due termini. Ne le sorgenti irrazionali del pensiero, del 1923, si limitava a mettere in rilievo il carattere del pensiero, considerato “come il simbolo delle situazioni, dei movimenti e dei contrasti della vita stessa”: il pensiero, cioè, esprime a suo modo (concettualmente, simbolicamente) “sul piano di una logicità che non arriva mai ad essere assolutamente pura ed autonoma, i bisogni e gli urti, le deficienze e le aspirazioni della vita umana” (Filosofi italiani, cit., p. 3). Così Abbagnano si accostava all’esistenzialismo di Kierkegaard e di Heidegger. “L’esistenza – infatti egli spiega – toglie l’estraneità tra il pensiero e la vita costituendoli nell’unità di una vita pensante o di un pensiero vitale. Ma il suo tratto caratteristico è quello di non presentare questa unità come un dato presupposto e neppure come un processo la cui realizzazione sia affidata a una dialettica necessaria o impersonale, ma nella forma di una radicale problematicità. Pensiero e vita costituiscono nella loro unità problematica i termini del problema dell’uomo” (Ib., pp. 6-7). L’esistenza, dunque, riassume in modo inscindibile la vita e il pensiero: essa è realtà problematica, che reca in sé la consapevolezza di essere affidata a se stessa come una possibilità che deve essere scelta e realizzata. Senza l’intervento del pensiero, l’esistenza neppure si attua. L’uomo è, in modo costitutivo, il problema del suo essere: perciò questo si attua nell’orizzonte del pensiero, cioè nel modo in cui il pensiero lo assume, lo interpreta, lo problematizza. “Il problema dell’essere, del suo essere, è dunque costitutivo dell’uomo, implicito anche nei suoi atteggiamenti più insignificanti e domina tali atteggiamenti fino alla loro più minuta e quotidiana particolarità. Il problema dell’essere è per l’uomo il problema dei suoi compiti, dei suoi interessi, della sua felicità, in una parola del suo destino” (Ib., p. 7). L’essere, in questo senso, è l’orizzonte delle possibilità dell’esistenza umana. “L’essere dell’uomo non è che possibilità di essere, cioè possibilità di costituire un qualsivoglia rapporto con l’essere. Tale problematicità costituisce la finitudine dell’uomo. L’uomo è un ente finito” (Ib., p. 8). L’esistenzialismo positivo di Abbagnano si presentava come una filosofia dell’impegno etico: poiché, infatti, l’esistenza dipende dalle scelte individuali e collettive, si tratta di riflettere, specialmente, su queste scelte, affinché l’uomo realizzi le sue possibilità più valide (eticamente e socialmente più significative). “Il riconoscimento della finitudine connessa alla problematicità dell’esistenza umana implica l’impegno dell’uomo nell’esistenza. […] impegnarsi significa cogliere il proprio compito e rimanere ad esso fedele. […] l’impegno è tuttavia un’alternativa libera. Esso si radica nella problematicità ed è l’atto con cui l’esistenza si fonda e si consolida nella possibilità del suo rapporto con l’essere. E’ l’atto con cui l’esistenza fa di tale possibilità la sua norma costitutiva e si realizza come esistenza autentica. L’esistenza autentica è autenticamente rapporto con l’essere, con l’essere del singolo, che in virtù di essa è propriamente un io, cioè personalità, soggetto, ragione giudicante, con l’essere del mondo, che in virtù di essa si rivela nel suo ordine e vale propriamente come oggetto, con l’essere della comunità, che in virtù di essa si rivela nella sua unità solidale, nel suo destino storico. Ma l’esistenza autentica per la sua normatività costitutiva, è essenzialmente libertà” (Ib., p. 9).
Vicende del marxismo italiano. Dal 1948 al 1951 avviene la pubblicazione dei sei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Il primo (Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce) è dedicato allo sviluppo di una versione originale del marxismo, considerato come “filosofia della prassi” e come uno storicismo alternativo a quello crociano,
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eminentemente speculativo e d’impronta hegeliana (perciò si riproduceva l’opposizione Hegel-Marx e si riproduceva la tesi marxiana della filosofia come strumento rivoluzionario, rivolto a cambiare il mondo e non solo a interpretarlo). Secondo Gramsci, la filosofia, come espressione dell’autoconsapevolezza storica, esprime la coscienza politica, in virtù della quale una classe sociale assume la consapevolezza del suo ruolo storico. La filosofia della prassi si presenta come uno strumento di elaborazione critica intorno alla situazione storica e all’organizzazione dell’attività rivolta a fondare via via le forme della vita sociale. Essa rifiuta il naturalismo, la concezione della realtà come un “dato”: come spiega lo stesso Gramsci, la scienza non ha come sua area d’indagine l’”oggettività del reale, ma l’uomo che elabora i suoi metodi di ricerca, che rettifica continuamente i suoi strumenti materiali che rafforzano gli organi sensori e gli strumenti logici (incluse le matematiche) di discriminazione e di accertamento, cioè la cultura, cioè la concezione del mondo, cioè il rapporto tra l’uomo e la realtà con la mediazione della tecnologia” (Il materialismo storico, Torino 1948, p. 55). La filosofia della prassi, in questo senso, “è una filosofia che è anche una politica e una politica che è anche una filosofia” (p. 87). Gramsci metteva in rilievo, in particolare, la matrice hegeliana di questa filosofia. “In un certo senso – scriveva – la filosofia della prassi è una riforma e uno sviluppo dell’hegelismo, è una filosofia liberata (o che cerca di liberarsi) da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni” (p. 93). Questa filosofia è il risultato di tutto lo sviluppo del pensiero moderno. “L’immanentismo hegeliano diventa storicismo, ma è storicismo assoluto solo con la filosofia della prassi, storicismo assoluto o umanesimo assoluto” (p. 105). Così Gramsci sottolineava i caratteri distintivi di questo pensiero rispetto allo storicismo crociano. “La filosofia della prassi è la concezione storicistica della realtà, che si è liberata da ogni residuo di trascendenza e di teologia anche nella loro ultima incarnazione speculativa: lo storicismo crociano rimane ancora nella fase teologico-speculativa” (p. 191). Ancora di più, Gramsci individuava la fondamentale matrice dello storicismo crociano nella filosofia della prassi. “A me pare - osservava – che sotto la forma e il linguaggio speculativi sia possibile rintracciare più di un elemento della filosofia della prassi nella concezione di Croce. Si potrebbe forse dire di più e questa ricerca sarebbe di immenso significato storico e intellettuale nell’epoca presente e cioè, che come la filosofia della prassi è stata la traduzione dell’hegelismo in linguaggio storicisitico, così la filosofia di Croce è in una misura notevolissima un ritraduzione in linguaggio speculativo dello storicismo realistico della filosofia della prassi” (p. 199). Perciò: “Occorre rifare per la concezione filosofica del Croce la stessa riduzione che i primi teorici della filosofia della prassi hanno fatto per la concezione hegeliana”. Gramsci riconosceva, così, la grande funzione dello storicismo crociano per lo sviluppo della filosofia della prassi; esso, infatti, aveva fatto rivivere l’hegelismo, riproponendolo come ambito di elaborazione per la nuova concezione storicistica. “Bisogna dire che l’eredità della filosofia classica tedesca – osservava ancora, infatti – sia non solo inventariata, ma fatta ridiventare vita operante, e per ciò occorre fare i conti con la filosofia del Croce, cioè per noi italiani essere eredi della filosofia classica tedesca significa essere eredi della filosofia crociana, che rappresenta il momento mondiale odierno della filosofia classica tedesca” (p. 200). In un saggio del 1947, apparso sulla rivista “Studi filosofici” e intitolato Verità e umanità nel pensiero contemporaneo, intanto, Antonio Banfi presentava il marxismo come il punto d’arrivo della filosofia moderna, cioè come l’univa filosofia positiva, in grado di indicare una via di sviluppo per la storia dell’umanità, in un’epoca di incertezze, di dispersione dei valori tradizionali e di crisi della razionalità. Una versione sostanzialmente dogmatica del marxismo veniva sviluppata anche da Galvano Della Volpe nei saggi La teoria marxista dell’emancipazione umana, del 1945, e La libertà comunista, del 1946. Il Della Volpe stabiliva un confronto tra Rousseau e Marx a proposito della teoria intorno all’emancipazione dell’uomo. Rousseau avrebbe ancora presente il modello naturalistico dell’uomo e perciò non avrebbe potuto elaborare il vero concetto di “uguaglianza” come una condizione da conseguire nella storia, come un elemento culturale e sociale (Cfr. Opere, III, Ed. Riuniti, Roma 1973, p. 326). Invece, la concezione marxiana, riconducendo ogni aspetto della condizione umana al contesto materiale-economico, indica le vie per il conseguimento dell’uguaglianza come presupposto di libertà. Secondo Marx, infatti, come è noto, il superamento di ogni forma di alienazione avviene attraverso l’instaurazione di un nuovo sistema materiale e politico, basato sull’eliminazione delle differenze di classe e su una concezione del mondo liberata da ogni residuo di autorità trascendente (per cui l’ateismo sarebbe un aspetto conseguente del materialismo storico, che considera come autore della storia unicamente l’uomo, impegnato a risolvere i problemi pratici).
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Posizioni diversamente sfumate e che, in particolare, mettevano a confronto il marxismo con le principali correnti della filosofia europea, erano quelle di altri studiosi, come Geymonat, Preti, Luporini. Ludovico Geymonat nei suoi Studi per un nuovo razionalismo (Chiantore, Torino 1945) proponeva un razionalismo antimetafisico, sostenitore dello sviluppo scientifico, collegato, perciò, con la corrente neoempirista del Circolo di Vienna, e, insieme, significativo sul piano storico-politico, per l’accentuazione del legame tra filosofia, scienze e prassi rivoluzionaria. In questa prospettiva, si trattava di eliminare alcuni pregiudizi, legati alla tradizionale concezione metafisica, come, ad esempio, che le leggi razionali della natura esprimano una razionalità intrinseca alla natura stessa, o che, invece, queste leggi siano una semplice proiezione del soggetto e non abbiano alcun riscontro nella realtà oggettiva, o che, infine, la razionalità della natura sia un carattere della costituzione della materia. Geymonat si opponeva a ogni metafisica, sia di carattere idealistico e spiritualistico che di orientamento materialistico. Anche il materialismo, infatti, egli osservava, “interpreta la razionalità come un carattere intrinseco del reale, come qualcosa che esiste in sé, indipendentemente dalla scienza” (p. 256). La prospettiva di Geymonat si presentava, perciò, come un razionalismo critico. “La razionalità del reale – egli precisava – non può, ai nostri occhi, esprimere altro se non questo: tutto il reale è descrivibile in sistemi logici precisi. E cioè, via via che a noi si presenta un fatto reale, non vi è ostacolo alcuno, che ci impedisca – per principio – di inserirlo esso pure in un sistema logicamente costruito di proposizioni (si basi questo sull’una o sull’altra logica), che spieghi tale fatto unitamente a tutti i fatti precedenti del medesimo tipo. […] In breve, la razionalità risulta, in questa interpretazione, una caratteristica di certi sistemi linguistici, non una proprietà della ‘natura in sé. Parlare, come vorrebbe il metafisico, di una ‘natura in sé’, cioè di una natura pensata come realtà esistente al di sotto del linguaggio, è – secondo noi – privo di senso” (p. 259). Giulio Preti, nel libro Praxis ed empirismo (Einaudi, Torino 1957), proponeva un confronto tra il marxismo e il pragmatismo. Le due filosofie, infatti, hanno in comune il motivo dell’attività umana come fattore della storia: esse, perciò, “vengono a incontrarsi su questo terreno, che la base e l’essenza fondamentale dell’uomo e di tutta la vita spirituale è l’attività pratico-sensibile, in virtù della quale l’uomo, mediante il corpo e le funzioni organiche, viene influenzato dall’ambiente esterno, ma a sua volta lo influenza, con il lavoro”. Cesare Luporini è noto specialmente per il saggio su Leopardi progressivo, del 1947. Leopardi, secondo questa interpretazione, interpreta le esigenze di un’epoca caratterizzata dalla fine di tutte le illusioni (specialmente di quelle romantiche) e dalla scoperta dell’”arido vero”. In quest’età, in cui non è possibile più illudersi, l’uomo si trova di fronte a un compito nuovo, quello di affrontare il suo destino storico con una nuova consapevolezza, che è, in primo luogo, coscienza della essenziale finitudine e precarietà della condizione umana, e, insieme, assunzione di un nuovo impegno di azione solidale, per imprimere alla storia uno sviluppo rivolto a consentire all’umanità la minore infelicità possibile. Perciò Luporini si riferisce specialmente al Leopardi della Ginestra, cioè al poeta che presenta una sua prospettiva intorno alla via che l’umanità dovrebbe percorrere per riuscire a non soccombere interamente alle furia distruttiva della natura. In questo senso, la filosofia di Leopardi si configurerebbe come un razionalismo critico.
Le tendenze attuali Il panorama attuale comprende principalmente tre aree, in modi diversi collegate con le tematiche del pensiero “post-moderno”: l’area torinese, rappresentata da Umberto Eco e Gianni Vattimo, che eredita l’ermeneutica di Pareyson e ha come strumento di dibattito la “Rivista di estetica”; l’area milanese, rappresentata dai discepoli di Paci, specialmente Sini e Rovatti e raccolta intorno alla rivista “aut-aut”; quella eclettica, rappresentata da Severino, Cacciari, Gargani. Massimo Cacciari, nel libro del 1976 Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, mette in rilievo la fine della razionalità classica e dialettica (compresa quella del marxismo) e la funzione ricostruttiva del pensiero negativo. Aldo Gargani, a sua volta, sottolinea la crisi della ragione moderna, univoca, alla quale contrappone la molteplicità dei saperi, riconducibili a una pluralità logico-epistemologica, quale, del resto, è venuta emergendo in concomitanza con la crisi della fisica classica con lo sviluppo delle scienze umane e sociali.
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“La razionalità classica – egli osserva nel saggio introduttivo al volume Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane (Einaudi, Torino 1979, p. 6) – si è presentata per alcune centinaia di anni con i connotati e i titoli di una struttura naturale, necessitante e apriorica. Il potere della sua presa era di una vastità illimitata, perché quella ragione doveva essere responsabile di ogni possibilità cognitiva e di ogni possibilità logica; ciò rende conto anche del suo regime linguistico alto, astratto e sublime. Tutto ciò che è specifico, individuale, era pertanto degradato rispetto alle terse strutture razionali di un ordine centrale, esclusivo e invariante, entro il quale è da sempre codificato e precostituito il gioco di tutte le possibilità che competono alle cose, alla natura così come ai movimenti del nostro pensiero. In questi termini, la riflessione razionale doveva esplicitare e rendere trasparente alla coscienza degli uomini un processo ideale che di gran lunga la sorpassava. E’ stato un pregiudizio della ragione classica quello di identificare alcuni strumenti e procedure della ragione classica con il dominio stesso della realtà, delle cose, e dei comportamenti umani”. Quella ragione entra in crisi specialmente con l’empiriocriticismo di Mach e la fine della funzione di modello univoco assunta dalla fisica newtoniana. Infatti, “Mach ha respinto la nozione newtoniana di massa come quantità di materia – cioè nei termini di un assoluto ontologico – e per ridefinirla come rapporto misurabile tra le accelerazioni che i corpi si imprimono tra loro. In luogo di sostanze, di entità statiche, subentrano operazioni di misura, interazioni tra strutture fisicamente determinate” (pp. 21-22). Così finisce l’egemonia di schemi totalitari nell’epistemologia. E finisce anche ogni modello che si attribuisca una funzione egemonica nell’interpretazione e organizzazione della società. La nostra età si profila come l’età del pluralismo scientifico ed etico. Gianni Vattimo, nel saggio introduttivo Dialettica, differenza, pensiero debole (nel volume collettivo Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983), colloca il “pensiero debole” oltre la filosofia dialettica hegeliana (e la sua dissoluzione) e la “filosofia della differenza” che ha in Nietzsche e in Heidegger i suoi rappresentanti più significativi. Rispetto alla dialettica e alla filosofia della differenza, il pensiero debole non si pone, tuttavia, nella forma dell’oltrepassamento, bensì in un rapporto che si può approssimativamente definire di riproduzione (o riproposizione) in una forma “indebolita”. Esso, cioè, intende proporre ciò che di quelle filosofie rimane come una traccia sbiadita. Già questo tipo di rapporto lega il pensiero dialettico novecentesco a Hegel e Marx. Filosofi come Sartre, Benjamin, Adorno e Bloch “non sono pensatori della dialettica, ma della sua dissoluzione”. Vattimo spiega questo rapporto con uno “schema assai semplice”. “il pensiero dialettico novecentesco, avendo recepito le ragioni del rovesciamento marxiano dell’idealismo, si presenta come pensiero della totalità e pensiero della riappropriazione, rivendicando come materialismo il riscatto di ciò che la cultura dei dominatori ha escluso. Ma la ‘parte maledetta’, ciò che è stato escluso dalla cultura dei dominatori, non si lascia tanto facilmente ricomprendere in una totalizzazione. Gli esclusi hanno fatto esperienza del fatto che la stessa nozione di totalità è una nozione signorile, dei dominatori. Di qui, nel rovesciamento materialistico della dialettica hegeliana, una permanente tendenza che si può chiamare ‘dissolutiva’, che ha la sua peculiare espressione nella dialettica negativa di Adorno, nella mistura di materialismo e teologia in Benjamin, nell’utopismo di Bloch. Su questa tendenza dissolutiva e sulle questioni che essa riflette e apre si inserisce il pensiero della differenza” (p. 17). “Il pensiero della differenza – speiga Vattimo – si può concepire come l’erede e il radicalizzatore delle tendenze dissolutive della dialettica; non si tratta, qui, di risolvere i problemi della dialettica con un’‘assunzione della teologia al servizio del materialismo storico’, come voleva Benjamin, spostando in un futuro utopico la riconciliazione, la riappropriazione e la ricomposizione della totalità (come pensano, per vie diverse, Bloch e Adorno), si tratta piuttosto di sviluppare alla lettera la suggestione (forse puramente verbale) di Sartre, secondo il quale il senso della storia (ossia, si può pensare, il senso dell’essere) sarà patrimonio di tutti quando si sarà dossolto n loro. Non c’è riappropriazione possibile senza liberazione dell’essere dal carattere della stabilitàpresenzialità, dalla cosa. Ma una riappropriazione che non abbia più da fare con l’essere come stabilità che cos’è ancora? L’indebolimento dello (della nozione di ) essere, il darsi esplicito della sua essenza temporale (anche e soprattutto: effemerità, nascita-morte, tras-missione sbiadita, accumulo antiquariale) si ripercuote profondamente sul modo di concepire il pensiero e l’Esserci che ne è ‘soggetto’. Il pensiero debole vorrebbe articolare queste ripercussioni, e così preparare una nuova ontologia. Questa nuova ontologia si costruisce non solo svolgendo il discorso della differenza, ma anche rammemorando la dialettica” (p. 20). Il pensiero debole, pertanto, attesta “l’esperienza post-moderna” della dissoluzione della dialetica, della
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temporalizazione dell’essere, dell’abbandono di ogni ragione fondativa. Esso si caratterizza come una “ontologia del declino”, una “ontologia debole”, che non assume il concetto di “essere” nel senso della sostanza assolutamente intelligibile, bensì nel senso di ciò che si rivela nascondendosi, di ciò che si annuncia e insieme si cela. Dell’essere si tratta, allora, di ricercare i segni, le tracce, nelle pieghe del linguaggio, nei rinvii e nelle allusioni, piuttosto che nei significati espliciti. Perciò Vattimo più recentemente ha messo in rilievo le connessioni del pensiero debole con l’ermeneutica e ha proposto “una nuova koiné filosofica”, “un’ermeneutica largamente venata di pragmatismo”, aperta a direzioni molteplici di ricerca, tale, dunque, da potere accogliere e interpretare motivi presenti nella tradizione storicistica e retorica italiana (da Vico a croce e a Gramsci) e motivi heideggeriani e gadameriani, nonché dell’ultimo Wittgenstein e del pragmatismo. “E’ una ontologia debole che va oltre la metafisica e le precedenti filosofie di recente egemonia in Europa (marxismo, strutturalismo), una ontologia debole e ‘pluralista’ (forte era l’essere uno della metafisica), in cui la pluralità non è momento provvisorio che deve riscattarsi in una sintesi, in una unità finale, bensì condizione permanente”. Ed è significativo, per Vattimo, che si possa ravvisare “una sorta di vicinanza del pensiero debole alle riscoperte del ‘tragico’ della condizione umana che si incontrano in certa filosofia neoesistenzialistica (da Pareyson a Cacciari), ma anche a molto pluralismo ‘postmoderno’” (in Dove va la filosofia italiana?, Laterza, Bari 1986, p. 192). Il pensiero di Emanuele Severino prende il suo avvio da un articolo apparso nel 1964 sulla “Rivista di filosofia neoscolastica” e intitolato programmaticamente Ritornare a Parmenide. Proprio quell’articolo ha suscitato le polemiche (seguite alle discussioni con Sciacca e con Bontadini) che hanno portato all’allontanamento del Severino dalla Cattolica e al suo trasferimento a Venezia. Severino rintracciava il filo conduttore dell’intera storia della metafisica nell’abbandono del problema parmenideo dell’essere e nell’assunzione del problema dell’ente come ciò che “diviene”. La filosofia ha concentrato i suoi sforzi nella comprensione del divenire, cioè di quella dimensione unicamente reale che comprende il continuo sorgere degli enti e il loro trapassare nel nulla. Il pensiero greco, osserva Severino, “per la prima volta e una volta per tutte [ha evocato] il divenire, inteso come la dimensione visibile dove le cose provengono dal niente e ritornano nel niente, dopo essersi provvisoriamente trattenute nell’essere. Per la prima volta il pensiero greco si rivolge all’opposizione infinita dell’essere e del niente e intende il divenire come un processo in cui ne va dell’essere, ossia come oscillazione delle cose tra l’essere e il niente” (Dove va la filosofia italiana?, cit., p. 165). L’abbandono del problema dell’essere provoca, tuttavia, un sentimento di angoscia per l’imprevedibilità del divenire; così il pensiero ha cercato delle entità immutabili che occupassero il posto dell’essere. Questi “immutabili”, evocati come difesa dal divenire, sono Dio, i valori etici, le leggi della natura, assunti a oggetti della metafisica, cioè di quel sapere ritenuto certo e incontrovertibile, che già in Parmenide si era configurato come l’epistéme, contrapposta alla doxa, la scienza dell’essere (considerato come la vera realtà immutabile). Severino segue lo sviluppo di questa metafisica fino agli sviluppi moderni nella forma della tecnica, intesa come dominatrice del divenire. Il cristianesimo è stato il momento di massima espressione della volontà di superare l’angoscia di fronte al divenire, evocando l’esistenza di una entità trascendente. Ma infine le entità immutabili sono apparse come un ostacolo alla volontà umana di dominare il divenire. “L’uomo moderno – osserva Severino – si rende conto che il rimedio – come avverte Nietzsche – è stato peggiore del male, ossia che gli immutabili, prevedendo e controllando il divenire, soffocano e minacciano la volontà di esistere, in modo più insopportabile della stessa minaccia del divenire” (Ib., p. 167). L’uomo allora ricorre alla scienza e alla tecnica e abbandona la metafisica come dottrina degli immutabili. “La filosofia contemporanea tende a tramontare nel sapere scientifico, proprio perché essa è negazione e distruzione degli immutabili. La ‘liberazione’ dell’uomo moderno è la storia di questa negazione - che non è soltanto un’operazione di carattere teorico, ma investe la prassi e culmina nella civiltà della tecnica. Proprio perché è negazione e distruzione degli immutabili, la civiltà della tecnica tende a farsi totalmente guidare dalla tecnica” (p. 68). Queste tesi sono sposte in alcuni libri che hanno avuto vasta eco nella cultura contemporanea: Essenza del nichilismo, Le radici della violenza, Il destino della necessità (1972, 1979, 1980).
La critica del pensiero post-moderno: Viano, Paolo Rossi, Colletti. Bodei e il compito della filosofia oggi.
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Carlo Augusto Viano ha tracciato un quadro critico delle ultime tendenze della filosofia italiana, dominate da un eccessivo influsso della cultura filosofica tedesca e orientate verso prospettive e soluzioni generalmente critiche della razionalità e tendenti a privilegiare quelle forme di “pensiero poetante” che, in realtà, forniscono solo suggestioni più o meno attraenti ma non riescono a proporre una visione costruttiva della nostra realtà storica. L’apertura verso la filosofia europea, specialmente tedesca, è finita per configurarsi, in filosofi come Paci o Pareyson e nei loro discepoli, come assoluta perdita di quei caratteri che erano appartenuti alla tradizione italiana. “In Italia – osserva Viano – l’influenza è prevalentemente tedesca e francese, cioè della filosofia più turgica e di carattere prevalentemente letterario o profetico; meno operanti sono le influenze anglosassoni, che prediligono forme di sapere un po’ sottili e faticose. Oggi in Italia si leggono soprattutto lunghe tirate contro la civiltà tecnico-industriale, sul destino dell’Occidente, variazioni su temi gerericamente hegeliani, parafrasi di testi hedeggeriani, esaltazioni della letteratura. Gli autori necessari per scrivere un testo filosofico sono Nietzsche, Musil, Heidegger e Peirce; un attacco sempre buono è una frase di Nietzsche o di Heidegger; la tecnica più importante è il trait d’union, cioè la scrittura delle parole in modo di-viso. Persino l’epistemologia italiana, che tanto deve a Geymonat, ha preferito, nei suoi rappresentanti più popolari, sviluppare i contenuti dialettici delle discutibili sintesi del maestro e approdare o alla facile dialettica di Feyerabend o ai consolanti recuperi filosofici di Thom e Prigogine. Il marxismo italiano sembra del tutto in coma, e i suoi eredi o recitano rosari hegeliani o snocciolano anch’essi massime nichiliste, apprese da Nietzsche e da Heidegger, gareggiando con gli eredi del pensiero cattolico” (Dove va la filosofia italiana, cit., pp. 204-205). Paolo Rossi ha messo in rilievo la sostanziale artificiosità dell’immagine che dello sviluppo del pensiero occidentale è stata data dai critici della metafisica e della razionalità classica. D’altra parte, con la sua opera storiografica, ha concorso a ricostruire l’immane lavoro attraverso il quale è stato costruito l’edifico della scienza moderna come strumento d’interpretazione razionale del reale. Lucio Colletti ha osservato che “da oltre un secolo la filosofia italiana è una provincia del Reich filosofico germanico” (Ib., p. 39), per cui si spiega “non solo come la maggior parte degli indirizzi della filosofia italiana contemporanea si siano lasciati penetrare dai temi del rifiuto della società industriale moderna, ma come essi siano rimasti indifferenti, in massima parte, alle grandi svolte teorico-scientifiche del nostro tempo” (p. 44). Egli riporta l’atteggiamento delle filosofie post-moderne, sostanzialmente dominate dall’influsso del secondo Heidegger e dell’ultimo Wittgenstein, alla vecchia distinzione romantica ed hegeliana tra l’intelletto, che è strumento della scienza, e la ragione, organo della filosofia. “Resta il fatto, in ogni caso, - egli osserva – che, tra i principali pensatori del nostro tempo, solo Heidegger è stato pari a Wittgenstein nella violenza della polemica contro l’‘intelletto’ e la ‘spiegazione scientifica’, cioè contro quell’antico bersaglio della filosofia romantica, che già Hegel soleva chiamare l’‘ordinario intelletto umano o senso comune’. E resta che, come al Denken, cioè al pensare giudicante e intellettualistico, Heidegger ha opposto l’Andenken [il pensare rimemorante], così Wittgenstein gli ha contrapposto la ubersichtliche Darstellung, cioè quella ‘rappresentazione perspicua’ (o sinottica) che, in lui, tiene il luogo di ciò che nei romantici era chiamata ‘intuizione intellettuale’” (p. 48). Remo Bodei rileva, invece, i nuovi compiti che le trasformazioni contestuali attuali impongono alla filosofia. Si tratta di tenere conto dei mutamenti indotti dalla società post-industriale. “Questi rapidi mutamenti – egli osserva – porteranno certamente a rilevanti trasformazioni delle mappe concettuali e delle forme di condotta, nei modi di apprendere, nella struttura del pensare, dell’immaginare e del ricordare, nell’uso del tempo libero e della ‘cura di sé’, nello sforzo di investire e disinvestire di senso le quotidiane metamorfosi della realtà, nelle strutture dell’impresa scientifica e produttiva, nel grado di complessità e di sofistificazione concettuale, nella qualità dell’intreccio dei criteri e delle regole etiche che dovranno coordinare i sistemi di preferenza individuali. Anche il rapporto tra le diverse forme del sapere e la filosofia è destinato a mutare e sarebbe bene non trovarsi concettualmente disarmati rispetto a tali mutamenti” (Ib., p. 37). A questo proposito, la stessa ricchezza della tradizione storica del pensiero filosofico può costituire una fonte di risorse concettuali sempre attuali: le opere dei filosofi, infatti, “ogni volta costituiscono schemi di senso articolati e persistenti, che servono da saldi punti di riferimento al pensiero autonomo” (p. 39).
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La testimonianza dei poeti: Montale. L’esistenza come smarrimento e angoscia Montale, il poeta degli “Ossi di seppia” e delle “Occasioni”, testimonia con particolare efficacia il clima di smarrimento e di angoscia che gravava negli anni successivi alla guerra mondiale. L’uomo, dinnanzi al tremendo spettacolo di morte, ritraeva sgomento pur di fronte a se stesso, incapace ormai di riconoscere in sé la figura umana. Come di fronte al nulla, egli rimaneva muto, privo della parola stessa che gli consentisse di definire e nominare le forme del suo essere. “Non chiedermi la parola”, cantava il poeta, interpretando la situazione di estrema crisi e decadenza dello spirito e della ragione; “posiamo dire ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”: la declinazione al negativo dell’esistenza appariva come il residuo d’umanità, qualcosa come l’”osso di seppia”, un lontano segno di un passaggio, di una vita trascorsa. Il tempo degli Ossi di seppia è quello di una giovinezza che criticamente si colloca tra l’infanzia mitica (“l’età illusa”) e un futuro incerto, di crisi radicale e perciò già declinato al negativo (ciò che non siamo, ciò che non vogliamo). L’io strozzato ovviamente risente dell’atmosfera propria del contesto storico. L’ambiente è quello del mare: ma dal mare l’io è risucchiato, come dall’elemento vitale, ma, nello stesso tempo, restituito alla terra; “il mare è dunque la pienezza, l’integrità impossibile, quella della Vita stessa, contemporaneamente cantata a piena voce e negata al soggetto che la canta” (Pier Vincenzo Mengaldo, in Letteratura italiana. Le opere, Einaudi, Torino 1995, vol. IV/1, p. 638). Perciò le poesie sono quasi tutte ambientate nella terra ligure: “La Liguria orientale – ha scritto lo stesso Montale – la terra in cui trascorsi parte della mia giovinezza – ha questa bellezza scarna, scabra, allucinante”; ed egli ha cercato un verso aderente a tali qualità del paesaggio. Da una parte questo paesaggio è il correlato oggettivo dell’animo del poeta, in cui dominano i sentimenti di aridità, di strozzatura e di solitudine, cioè di disagio esistenziale, e, d’altra parte, indica l’atteggiamento stoico di chi ai tempi della miseria oppone la dignità dello spirito libero. La città è una specie di inferno, “il brulichio dei vivi”, che porta l’alienazione e la degradazione all’estremo. “Tematicamente gli Ossi sono la poesia della negatività senza scampo, della ‘necessità’ che ci stringe lasciando appena qualche spiraglio al caso e forse al ‘prodigio’, al ‘miracolo’. Non è esagerato parlare di posizioni pre-esistenzialiste. La vita è ‘uno scialo/di triti fatti’, l’io è imbozzolato in un’ovatta che volta a volta, o tutt’assieme, è atonia, indifferenza, rigidità d’automa, ‘male di vivere’, ‘delirio d’immobilità’, raramente squarciati da lampi di vitalismo (come in Mediterraneo) o da speranze di ricomporsi in un’unità positiva (Riviere). Ma l’individuo che non riesce a vivere, a rigore neppure ad essere, proprio per ciò è massimamente capace di vedere e registrare; e la vita che non dà senso globale proprio per ciò è aggredita, non solo catalogata nei suoi aspetti fenomenici con una straordinaria aderenza al pullulare dei dati concreti in una vera e propria furia di nominazione. Ecco allora che contenuti dominati dal senso della negatività e della disgregazione vengono detti in uno stile nient’affatto disgregato e smozzicato, anzi quanto mai compatto, assertivo, deciso, insomma eloquente” (L. cit., p. 638). Le Occasioni si differenziano notevolmente. Con lo spostarsi di Montale a Firenze, viene meno l’unità paesistica; si ha il tema ricorrente del viaggio; la Liguria emerge in quanto legata alla memoria. Il contesto storico (degli anni trenta) induce a una maggiore chiusura, a un pessimismo desolato. La figura femminile assume un ruolo centrale (Clizia è figura di donna avvolta in un’atmosfera di mistero numinoso). Il commento filosofico non si aggiunge alla parte lirica e rappresentativa, ma fa tutt’uno con essa. La vicenda d’amore è come sospesa fuori dal mondo. In Bufera la figura di Clizia assume una funzione soterica per tutti. Il soggetto è un io che attende. Perciò molte poesie esprimono un profondo senso di religiosità. “Alla figura dell’io sospeso si alterna quello dell’io che scava nel suo passato. E’ l’altro grande tema della Bufera, quello già iniziato negli Ossi, del colloquio coi propri morti (L’arca, A mia madre, Proda di Versilia, Voce giunta con le folaghe), che comporta ‘l’abolizione della barriera tra vita e morte’, la ‘rottura delle frontiere fra dentro e fuori’: l’autenticità che nella guerra barbara e nel vischioso dopoguerra è negata ai vivi e ai vicini, abita sempre più per Montale presso i lontani e i defunti (significativo che in Voce giunta con le folaghe al dialogo col padre morto presenzi l’ombra di Clizia). Tuttavia, ed è una cospicua novità, a questi temi che puntano dritti al sublime fa da contrappeso una zona di materia più feriale e sliricata. A Clizia angelicata e cristofora si oppone infatti Volpe, terrestre, sensuale e
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mondana, l’‘Antibeatrice’: titolare dei Madrigali privati e, ancor più interessante, alternante con Clizia in ‘Flaches’ e dediche. Tale personaggio, come richiede un’ambientazione nel quotidiano-mondano antipoda rispetto a quella rarefatta di Clizia, così prescrive altro linguaggio, più idiolettico e conversativo da un lato, che anticipa Satura, dall’altro, come riconosciuto dal poeta stesso, che recupera l’antico ‘impressionismo’ degli Ossi” (L. cit., pp. 640-41). Notevole appare il distacco, poi, con le ultime quattro raccolte. Da Satura si registra piuttosto una varietà tematica difficilmente riconducibile a una linea unitaria. “Giusta un’impostazione fondamen-talmente diaristica, si ha una moltiplicazione di occasioni e personaggi, sempre più collocati all’altezza del quotidiano, mentre solo la memoria ne fa riaffiorare altri passibili di abitare le sfere del mito e del sublime (Clizia, la stessa Arletta). Si approfondisce perciò la dialettica presente-passato, con l’avvertenza che tuttavia anche in questo prendono posto personaggi comuni e antisublimi (si vedano il dottor Cap di Xenia, i personaggi di Lettera, il Carubba di Corso Dogali, Diario; così gli animali, altri dagli araldici o mitici di un tempo, come il cagnetto Galiffa dell’infanzia di Nei miei primi anni, Quaderno). Montale ha scritto una volta, col solito acume autocritico, di non saper inventare nulla, di partire sempre dal vero. Da Satura in poi ciò diventa vero alla lettera. […] Gli ‘oggetti’ montaliani erano un tempo oggetti privilegiati, nobili, emblematici, investiti di forti cariche psichiche e conoscitive; ora gli oggetti privilegiati tendono a scomparire, perché le cose del quotidiano sono fungibili [Montale dichiarò di vivere la situazione dell’uomo ‘assediato dalle cose’, per cui ‘la voce non può dialogare che con esse’], e in ogni caso la loro rappresentazione non appartiene più alla folgorazione lirica ma all’affabulazione micro-narrativa, non senza ironia. E l’io affabulante è ora un io che guarda il mondo, o lo pensa […]. In queste condizioni la parola non è più sonda metafisica ma ‘qualche cosa che approssima ma non tocca’ (Quaderno, Domande senza risposta), il che permette di scivolare sulla superficie sgangherata e risibile del mondo contemporaneo senza cercarne il fondo, e di rimuovere tante cose, a cominciare dal Tragico. Ciò si vede bene quando questo Montale si fa esegeta di se stesso, della propria antica poesia: sempre o quasi queste metapoesie diluiscono la densità delle antiche situazioni spogliandole del loro carisma mitico e riempiendo i vuoti biografici a suo tempo lasciati a bella posta” (L. cit., pp. 641-42). “Ossi di seppia” La prima raccolta di Montale apparve nel 1925 presso l’editore Piero Gobetti a Torino. Essa comprende, dopo il componimento di apertura In limine, 5 sezioni: “Movimenti” (13 liriche, di cui due aggiunte nell’edizione del ’28), “ossi di seppia” (22 poesie brevi che costituiscono la struttura portante), “Meriggi e ombre” (15 poesie, di cui 4 aggiunte nel ’28); Riviere è il componimento di chiusura. Il motivo fondamentale è il sentimento di una natura e di un mondo che hanno perduto la loro forma, in cui cose e figure umane si presentano come relitti e ombre indecifrabili, resti di un’azione implacabile e misteriosa di disfacimento. “Questi ossi – osservava il Solmi (uno dei primi recensori) – intendono essere le inutili macerie abbandonate lungo le spiagge aride, le morte memorie di ciò ch’è stato solo una desolata velleità di esistere. Poesia fatta di sotterranei trasalimenti, di silenziosi distacchi, di rassegnate riflessioni”: osservazioni che hanno un preciso riscontro in versi come questi: Mia vita, a te non chiedo lineamenti/ fissi, volti plausibili o possessi./ Nel tuo giro inquieto ormai lo stesso/ sapore han miele e assenzio.// Il cuore che ogni moto tiene a vile/ raro è squassato da trasalimenti./ Così suona talvolta nel silenzio/ della campagna un colpo di fucile (“Tutte le poesie”, Mondadori, Milano 1990, p. 33). Qui la poesia dichiara la sua estrema possibilità, quella di registrare gli improvvisi trasalimenti di fronte a una realtà nella quale i lineamenti delle cose si sono disfatti. La poesia non coglie e rappresenta figure “plausibili”, dunque neppure verosimili, ma può solo cogliere frammenti di forme incomprensibili e moti imprevedibili dell’animo, che ormai non può vivere neppure una ordinata connessione di impressioni, ma è squarciata dalla violenza della realtà esterna. Questa, infatti, comprende i relitti di una rappresentazione che si è dissolta: l’ordinata rappresentazione del mondo, che pure l’uomo moderno si era costruita, è d’un tratto squarciata e dissolta dall’irrompere della violenza (specialmente l’assurdità della guerra). La verità che l’uomo ha inteso raggiungere mostra il suo disfacimento, e il suo volto non è più ricomponibile.
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Nella sua introduzione all’edizione del ’28, Alfredo Gargiulo rilevava come motivo dominante del libro “la corrosione critica dell’esistenza”, riflessa specialmente nella visione desolata di un paesaggio di “pietrame” (come da crollo di edifici), di rottami informi, depositati dalla “fiumana del vivere”. “Sono intaccati – notava il critico – fin gli ultimi centri della resistenza vitale, caduta è anche ogni velleità di reazione; lo stesso sgomento di vivere è superato: la vita seguita solo come riconosciuto non vivere” (L. cit., p. 1072). Infatti gli “animi arsi in cui l’illusione brucia un fuoco pieno di cenere” hanno perduto la memoria del “fuoco che arse impetuoso nelle vene del mondo”, e, intorno ad essi, “in un riposo freddo le forme, opache, sono sparse”; e se vivere vuol dire “assumere un volto”, nessun volto possibile rimane a chi giace nel “limbo squallido delle monche esistenze”; e così non rimane che l’estremo destino, la riduzione dell’esistenza a ombra di se stessa: “Se un’ombra scorgete, non è un’ombra – ma quella io sono”. Arsenio (già pubblicata in “Solaria” nel 1927 e aggiunta nell’edizione del ’28) è emblema della condizione del poeta (ma anche dell’uomo in generale) nell’età della crisi estrema. L’oscuro personaggio (egli pure senza una forma precisa) percorre una strada che scende al mare in un tardo pomeriggio estivo. Un vento turbinoso (simbolo di una forza che rimescola le cose e ne travolge i contorni) solleva “la polvere/ sui tetti, e sugli spiazzi/ deserti”,dove “i cavalli incappucciati” vivono il presentimento della tempesta (e il sentimento d’angoscia è nell’atteggiamento di quegli animali che “annusano la terra”, come per scorgere i segni di moti che recano distruzione. Dunque dietro l’apparente immobilità del paesaggio (“innanzi/ ai vetri luccicanti degli alberghi”) sta una violenza nascosta, oscura e imprevedibile. Arsenio scende per quella strada “in faccia al mare” in quell’ora in cui segni contrastanti si presentano nel cielo (“or piovoso ora acceso”), di pioggia imminente e di calore acceso, mentre il corso del tempo è come agitato e sconvolto dagli scoppi secchi dei tuoni che sembrano un ritmo di “castagnette”. Così un ritmo violento si sostituisce a quello regolare del tempo: lo strano “ritornello di castagnette” finisce per sconvolgere l’ordine delle ore “uguali, strette in trama”. Arsenio si colloca nell’‘orbita’ del tempo irregolare, fatto di scoppi laceranti, fuori della uguale cadenza delle ore quotidiane; egli è risucchiato dal vortice della tromba marina, grigia come piombo ed estremamente mobile (“vagabonda”), che si solleva tra il mare e il cielo (“salso nembo/ vorticante, soffiato dal ribelle/ elemento alle nubi”); e ha avvertito l’ostacolo della ghiaia sulla riva e poi il viluppo delle alghe intorno al suo corpo. Forse quel momento è “l’istante” “molto atteso” della liberazione dalla necessaria successione degli eventi, da quella prigione che è la vita stessa come “viaggio” verso la morte, dunque “immoto andare”, piccolo “anello” di quella catena che è l’inarrestabile divenire, e illusione e delirio di una condizione chiusa e immobile nel suo immodificabile destino. Arsenio intende così sfuggire al corso monotono della vita, mentre intorno a lui il divenire delle cose continua nella sua fantasmagoria di parvenze e di fenomeni. Tra i palmizi i violini continuano a mandare le loro melodie intervallate dal rombo dei tuoni, che s’abbatte come “un fremer di lamiera percossa”; ma perfino “la tempesta è dolce quando/ sgorga bianca la stessa di Canicola/ nel cielo azzurro e lunge par la sera/ ch’è prossima”, cioè quando il sole si trova nella stella di Sirio (nella costellazione del Cane maggiore), tra la fine di luglio e quella di agosto, e la luce si prolunga ancora mentre già cala la sera; e in quell’ora, se l’aria è attraversata da un fulmine, per essa di disegna la figura di un albero che si dirama in mezzo a una luce che si colora di riflessi rosati; mentre il rombo del tuono che segue è coperto dal timpano dell’orchestra che intona motivi tzigani. Con queste immagini, che riprendono moduli dannunziani e pascoliani, Montale vuole sottolineare il carattere artificioso e letterario della nostra rappresentazione della natura e della realtà circostante, cioè il fatto che si tratta di una nostra disposizione a farci delle cose un’immagine dolce e familiare, che copre quegli aspetti che, invece, provocano sgomento e angoscia. L’uragano ora confonde tutto in “un’ombra sola” che comprende insieme la terra, il mare e il cielo; e scende il “buio che precipita/ e muta il mezzogiorno in una notte/ di globi accesi, dondolanti a riva”. Resistono, cioè, sparsi segni del paesaggio: quella debole serie di lampioncini disposti per la festa e il palpito intermittente delle luci bianche d’acetilene sulle barche da pesca (i “gozzi sparsi” nel mare). E intanto tutto è immerso e confuso nell’uragano che s’è abbattuto; tutto si agita e sbatte (“sbattono/ le tende molli”, “giù s’afflosciano stridendo/ le lanterne di carta sulle strade”) e “un frùscio immenso/ rade la terra” . “E’ un momento di passaggio al discorso allegorico: il buio che previene la notte si trasformerà nel vuoto dell’abisso infernale, la mareggiata diventerà l’onda invisibile della spersonalizzazione” (V. Boarini, P. Bonfiglioli, Avanguardia e restaurazione. La cultura del novecento: testi e
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interpretazioni, Zanichelli, Bologna 1976, p. 316). Così sperso tra i vimini e le stuoie/ grondanti, giunco tu che le radici/ con sé trascina, viscide, non mai/ svelte, tremi di vita e ti protendi/ a un vuoto risonante di lamenti/ soffocati, la tesa ti ringhiotte/ dell’onda antica che ti volge; e ancora/ tutto che ti riprende, strada portico/ mura specchi ti figge in una sola/ ghiacciata moltitudine di morti,/ e se un gesto ti sfiora, una parola/ ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,/ nell’ota che si scioglie, il cenno d’una/ vita strozzata per te sorta, e il vento/ la porta con la cenere degli astri (vv. 4559). “L’ultima strofa svolge gli elementi allegorici della prima (il viaggio come immoto andare) e ne offre la chiave in un discorso che passa scopertamente, non senza qualche forzatura, dal fisico al metafisico. Arsenio non è più uomo, ma giunco; non ha mai saputo staccarsi dalle sue radici (non mai svelte), vale a dire dall’automatismo di una vita priva di sbocchi. Le radici sono viscide (aggettivo che, insieme con l’immagine del giunco, suggerisce l’idea della passività): perciò la violenza della tempesta non trova resistenza: anziché spezzare la pianta, la estirpa con le sue radici. L’uomo-giunco si trascina così, legato alle sue vecchie condizioni di sconfitta, e l’istante dello sconvolgimento non implica per lui lo scatto della libertà; il suo andare è apparente. La vita è ancora presente in lui come un tremito (tremi di vita), che lo differenzia dalla condizione dei più, soffocati nel vuoto del pozzo infernale. Ma l’onda invisibile della spersonalizzazione, da cui l’uomo-giunco emerge un istante per un allarme che sembra promettere il passaggio ad un’altra orbita, lo riassorbe: le cose di prima lo riprendono: strade e portici, vecchie mura e specchi di vetrine che riflettono una moltitudine di fantasmi irrigiditi” (Op. cit., p. 317). Dalla folla di questi fantasmi emerge la figura di una donna, che si offre in sacrificio per salvare Arsenio. “Qui, come in Incontro, una vita strozzata fra la moltitudine dei ‘morti’ rivive in un gesto di sacrificio e subito si disperde nell’annullamento cosmico” (Ib.). Il tema del miracolo, cioè di un evento che può spezzare la catena della necessità, è al centro della breve poesia che incomincia col verso Forse un mattino andando in un’aria di vetro (“Tutte le poesie”, p. 42). “La libertà-miracolo segna la fine dell’‘inganno consueto’, lacera lo schermo su cui si accampano le rappresnetazioni come abitudini inerti. Di colpo l’intelletto raggiunge l’essenza dei fenomeni, l’‘ultimo segreto’ delle cose, al di là della loro illusoria filmografia. Ma la fine dell’inganno è anche una silenziosa esplosione cosmica: rivela la crisi dei fondamenti, l’insostanzialità del reale, il vuoto al posto delle relazioni e dei nessi. Ne deriva una vertigine metafisica, paragonabile al terrore istupidito dell’ubriaco, che non sa più riconoscere punti di sostegno e di orientamento. Crollato l’edificio della necessità (‘l’ordegno universale’), la libertà si riduce alla contemplazione stupefatta del nulla” (Boarini, Bonfiglioli, op. cit., p. 309). In Fine dell’infanzia il poeta ricorda nostalgicamente il tempo favoloso della rappresentazione di un mondo dominato dall’ordine e dalla bellezza. Di quel mondo ora non restano che rovine informi, poiché un giorno improvvisamente l’incanto è stato travolto: Pesanti nubi sul torbato mare/ che ci bolliva in faccia, tosto apparvero./ Era in aria l’attesa/ di un procelloso evento./ Strania anch’essa la plaga/ dell’infanzia che esplora/ un segnato cortile come un mondo!/ Giungeva anche per noi l’ora che indaga,/ la fanciullezza era morta in un giro a tondo. In Incontro (aggiunta nella seconda edizione) è ripreso il motivo di Arsenio, della salvezza possibile che può venire da un “tu”. Nella dissoluzione di tutte le forme, solo l’occasione miracolosa di un incontro può sostenere la coscienza morale in una estrema volontà di resistere al male che imperversa: “un’occasione che, rovesciando la metamorfosi infernale dell’uomo-pianta, faccia riemergere dalla pianta la figura umana e dia al condannato la speranza di ‘riavere un aspetto’, di assumere una forma e definirsi, prima di cadere nell’annullamento” (Boarini, Bonfiglioli, op. cit., p. 318). La possibilità di assumere un volto è, per Montale, la condizione propria della moralità in un mondo che ha smarrito il senso della vita: Forse riavrò un aspetto: nella luce/ radente un moto mi conduce accanto/ a una misera fronda che in un vaso/ s’alleva s’una porta di osteria./ A lei tendo la mano, e farsi mia/ un’altra vita sento, ingombro d’una/ forma che mi fu tolta; e quasi anelli/ alle dita non foglie mi si attorcono/ ma capelli.// Poi più nulla. Oh sommersa!: tu dispari/ qual sei venuta, e nulla so di te./ La tua vita è ancor tua: tra i guizzi rari/ dal giorno sparsa già. Prega per me/ allora ch’io discenda altro cammino/ che una via di città,/ nell’aria persa, innanzi al brulichio/ dei vivi; ch’io ti senta accanto; ch’io/ scenda senza viltà. Dunque, l’io disperso, incontrando una “misera fronda” umana, un altro io perduto, compie il riconoscimento e in tale atto avviene la riconversione nella identità personale. Qui il rapporto d’amore si declina come riconoscimento dell’umanità reciproca. “La metamorfosi di Dafne in alloro, magari nella versione dell’Oleandro dannunziano qui richiamata da alcuni elementi verbali, è il presupposto letterario che Montale rovescia innestandovi il tema dantesco della riconversione della pianta nella figura umana. La frasca che si muta in chioma, attorcendosi alle dita di una mano amata, rappresenta certo un incontro d’amore. Ma l’Eros è qui, come in altre liriche degli Ossi, religione sacrificale, oblazione: la donna, riconoscendosi nell’uomo
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come l’uomo si riconosce in lei, gli dà la propria vita per farlo vivere e per vivere in lui, o meglio lo restituisce a se stesso, e scompare” (L. cit., p. 320). L’unione mistica delle due vite è rotta inevitabilmente; ma quel sacrificio non è inutile: di esso rimane la speranza che l’io così ritrovato diventi coscienza morale, sostenuta dalla speranza di scendere al nulla senza viltà, cioè con la dignità propria dell’uomo (nel senso stoico della libertà come segno irrinunciabile dell’uomo). Montale interpreta la crisi politica e culturale del tempo in termini di scacco generale dell’esistenza, “male di vivere”. L’esistenza, che pure è aspirazione alla libertà, sperimenta le dure leggi della necessità. “Il problema è filosofico: coinvolge un discorso sull’essere (più esattamente: un’ontologia negativa di tipo probabilistico), concepito come un sistema di probabilità finite (la ‘rete che ci stringe’). La finitezza è, dunque, il mondo della necessità, che continuamente reinserisce l’eccezione nella serie degli eventi prevedibili. Il rapporto fra necessità e libertà diventa perciò essenziale e condiziona la stessa poesia in quanto eventualità positiva, non necessaria, cioè libera; ma la libertà è un evento assolutamente aleatorio, è la probabilità irreale del miracolo” (L. cit., p. 308): e noi andremo innanzi senza smuovere/ un sasso solo della gran muraglia;/ e forse tutto è fisso, tutto è scritto,/ e non vedremo sorgere per via/ la libertà, il miracolo,/ il fatto che non era necessario! (Crisalide, “Tutte le poesie”, p. 87). Montale intende la poesia come questa possibilità di salvezza, anche se ad essa non resta che testimoniare la condizione dell’esistenza che ha perduto ogni fondamento e galleggia, perciò, sul mare del nulla. Questa consapevolezza segna anche il distacco dalle forme poetiche tradizionali e il proposito del poeta di rimanere estraneo a ogni forma di restaurazione letteraria. Perciò nella poesia che apre la raccolta, I limoni, troviamo la famosa dichiarazione programmatica: Ascoltami, i poeti laureati/ si muovono soltanto fra le piante/ dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti./ Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi/ fossi dove in pozzanghere/ mezzo seccate agguantano i ragazzi/ qualche sparuta anguilla:/ le viuzze che seguono i ciglioni,/ discendono tra i ciuffi delle canne/ e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.// […] Qui delle divertite passioni/ per miracolo tace la guerra,/ qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza/ ed è l’odore dei limoni (“Tutte le poesie”, p. 11). Al poeta non interessa la bella forma, letterariamente elaborata, bensì interessa lo sforzo conoscitivo, l’impegno a testimoniare la verità. “Grazie a questo impegno conoscitivo gli Ossi di seppia, che sono anche un libro di resistenza passiva e impotenza, di stoicismo ostile a tutte le mitologie ottimistiche ed edificanti, perseguono con ostinazione razionale l’intento di scoprire il punto di rottura su cui l’impalcatura dell’universo si affloscia e crolla in cenere” (Boarini, Bonfiglioli, op. cit., pp. 308-9). Ecco, infatti, nella stessa lirica, l’enunciazione di questo intento: Vedi, in questi silenzi in cui le cose/ s’abbandonano e sembrano vicine/ a tradire il loro ultimo segreto,/ talora ci si aspetta/ di scoprire uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,/ il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel mezzo di una verità./ Lo sguardo fruga d’intorno,/ la mente indaga accorda disunisce/ nel profumo che dilaga/ quando il giorno più languisce./ Sono i silenzi in cui si vede/ in ogni ombra umana che si allontana/ qualche disturbata Divinità. Giorgio Zampa, che ha curato l’edizione di “Tutte le poesie”, ritiene che “l’essenza di Ossi di seppia è espressa piuttosto da atmosfere di una luminosità traslucida, da accalmie abbacinanti che inducono a uno stupore inerte e presago” (“Tutte le poesie”, p. XXVI). Montale coglie i momenti di quiete, nei quali cioè la natura è come sospesa in una immobilità miracolosa, per potere, in tal modo, fermarsi in quell’atteggiamento contemplativo che è anche la condizione della poesia. “Dell’età dell’oro [in qualche modo caratteristica della fanciullezza], corrispondente forse alle origini, si può avere un presenti- mento nella smemoratezza dell’ora meridiana, nella grande pace. E’ l’istante della sospensione, dell’abbandono, se si vuole dell’abdi- cazione ma anche della divinazione, per fuggevole che sia” (Ib.). La prima sezione comprende le composizioni più recenti. Il titolo Movimenti allude alla prevalente componente musicale. Così, ad esempio, in Corno inglese il vento che soffia tra gli alberi fa di questi quasi degli strumenti musicali, e quel suono il poeta intende accordare i suoi sentimenti: il vento che nasce e muore/ nell’ora che lenta s’annera/ suonasse te pure stasera/ scordato strumento,/ cuore (“Tutte le poesie”, p. 13). In Falsetto, il poeta augura a Esterina una gioia continua, una vita che sia concerto ineffabile/ di sonagliere. Minstrels riproduce un ritornello musicale suonato, nel mezzo dell’afa estiva, da strani orchestrali, tre avanzi di baccanale/ vestiti di ritagli di giornali,/ con istrumenti mai veduti,/ simili a strani imbuti/ che si gonfiano a volte e poi s’afflosciano (Ib, p. 16). Anche nella prima delle “Poesie per Camillo Sbarbaro”, Caffè a Rapallo, l’impressionismo visivo si unisce all’immancabile riferimento alla musica prodotta da un giuoco di bambini: S’ode grande frastuono nella via.// E’
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passata di fuori/ l’indicibile musica/ delle trombe di lama/ e dei piattini arguti dei fanciulli:/ è passata la musica innocente (Ib,, p. 17). In Quasi una fantasia, il poeta pensa a un momento magico, in cui alla visione della città si sostituisca quella d’un paesaggio di intatta quiete, immerso nel completo silenzio: Avrò di contro un paese d’intatte nevi/ ma lievi come viste in un arazzo./ […] Non turberà suono alcuno/ quest’allegrezza solitaria (p. 20). L’immagine di un mondo immerso in una quiete sovrannaturale domina anche la prima poesie delle quattro della serie intitolata Sarcofaghi: nel blando/ minuto la natura fulminata/ atteggia le felici/ sue creature, madre non matrigna,/ in levità di forme./ Mondo che dorme o mondo che si gloria/ d’immutata esistenza, chi può dire?,/ uomo che passi, e tu dagli/ il meglio ramicello del tuo orto./ Poi segui: in questa valle/ non è vicenda di buio e di luce (p. 21). La prima sezione si chiude con due poesie, Vento e bandiere e Fuscello teso dal muro, rubricate come “Altri versi”. Nella prima, ha osservato il Contini, “parrebbe di vedere interpretato in modo nuovo quel nucleo d’una intermittence du coeur; un fatto fisico (un determinato timbro di vento) ripropone una figura del passato, il passato è riconosciuto come non rinnovabile, e l’attimo è confermato nel suo privilegio dai segni di festa (le bandiere, ‘il mondo esiste…’); ma l’ispirazione si scinde stavolta fra quei due poli (il ricordo, l’istante privilegiato), che in intensa originalità s’immaginavano accostati” (Un lunga fedeltà. Scritti su Montale, Einaudi, Torino 1974, p. 9). La sezione “Ossi di seppia” comprende 22 componimenti di varia struttura: alcuni, infatti, sono idilli, quadri di paesaggi immersi nel sole estivo (Meriggiare pallido e assorto), altri epistole (Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe) o epigrammi (Mia vita, a te non chiedo lineamenti/ fissi, volti plausibili o possessi) o riflessioni di carattere morale (Felicità raggiunta, si cammina/ per te su fil di lama) o gnomico (Spesso il male di vivere ho incontrato:/ era il rivo strozzato che gorgoglia,/ era l’incartocciarsi della foglia/ riarsa, era il cavallo stramazzato.// Bene non seppi, fuori del prodigio/ che schiude la divina Indifferenza:/ era la statua nella sonnolenza/ del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato). Questa sezione ha come complemento le nove liriche di “Mediterraneo”. “L’integrazione è legittima: l’assenza precedente di caratteri definiti è qui compensata con larghezza, tanto da far parlare di eccesso di descrizione. L’elemento equoreo è rappresentato nelle sue particolarità specifiche, nei suoi tratti localmente riconoscibili, mentre le parole ad esso rivolte riguardano il suo carattere cosmico, di elemento primigenio” (G. Zampa, in “Tutte le poesie”, p. XXVII). Segue la sezione “Meriggi e ombre”, articolata in tre parti: la I comprende Fine dell’infanzia, L’agave su lo scoglio (articolata in tre momenti: Scirocco, Tramontana, Maestrale), Vasca, Egloga, Flussi, Clivo); la II solo Arsenio; la III Crisalide, Marezzo, Casa sul mare, I morti, Delta, Incontro. La sezione “Riviere” chiude la raccolta. “I ‘Meriggi’, sigillati da ‘Riviere’, raccontano quanto in precedenza era stato oggetto di rappresentazione distaccata o di riflessione. E’ questo l’inizio di quello che viene anche qui indicato come il ‘romanzo’ di Montale, la storia frammentaria di una vita che si è raccontata fino all’ultimo: riflessi balenanti nel buio, in un tentativo considerato disperato e ogni volta riuscito. L’infanzia e l’adolescenza trascorse nell’ambiente marino prima descritto sono vedute alla luce di un’inconsapevolezza o illusione di cui si comprende ora il senso. Vengono ricreate situazioni atmosferiche per significare il trascorrere del tempo, il senso del transitorio e insieme la sua ineluttabi- lità: venti nubi luci acque suoni piante alberi ancora una volta, ma come fissati in un giro che li sottrae all’effimero, Prima, in prevalenza, paesaggi, situazioni senza figure o con un lieve staffage; adesso il teatro è lo stesso, ma con la presenza di un personaggio, Arsenio, figura destinata a diventare centrale, e di personaggi femminili. Di questi uno ha un nome, posto dapprima come titolo di Incontro, poi cancellato: appare per la prima volta Arletta, presentata come fantasma e come fantasma destinata a percorrere l’intero canzoniere. Insieme con Arsenio, le tre liriche del ’26 dedicate ad Arletta [Delta, Incontro, I morti] appartengono già a Le occasioni per tematica, struttura, immagini e linguaggio. Con “Meriggi e ombre” il mare tranquillo, al più un poco mosso, di Ossi di seppia e di Mediterraneo si agita fino a diventare tempestoso; ne L’agave su lo scoglio si ha una casistica meteorologica degli effetti che i venti hanno su di esso. Si affacciano il nembo, la tromba marina; rotola il tuono in Arsenio: si odono segnali che crepiteranno nelle Occasioni. Siamo ormai fuori della chiave di Ossi di seppia. Il libro d’esordio è posto sotto il segno dell’accalmia accidiosa, della sospensione meridiana, d’un momento di segno contrario a quello
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panico di D’Annunzio. Come le marine, le pinete, le macchie, gli uliveti di D’Annunzio, colti nei momenti di più profondo abbandono, trovano una definizione nell’istante in cui paiono toccare una coscienza arcana del loro essere, in Ossi di seppia essi inducono a un sopore uggioso, alla consapevolezza della vanità della vita. Il timbro, il contrassegno della raccolta è dato dal sentimento affiorante sulla superficie di una coscienza inerte e presaga. Libro di interrogazioni davanti ai fenomeni d’una natura ora muta, ora troppo eloquente, formulate quando si crede di intuire il moto di un eterno ritorno non esaltante come quello celebrato da Zarathustra, ma avvilente quale condanna alla iterazione, alla monotonia. […] Quando si parla di Ossi di seppia in senso stretto, sarebbe meglio riferirsi all’edizione Gobetti del ’25. Il libro è più compatto: nella sua secchezza e nei suoi abbandoni, nella rigidità delle sue articolazioni restituisce meglio l’immagine del poeta come si presenta ai contemporanei: un Montale più omogeneo rispetto a quello di tre anni dopo, anche se meno ricco, di raggio più breve, ma con un carattere che non consente ipoteche regionali: vedere in quest’opera un segmento della così detta ‘linea ligustica’ è operazione criticamente poco fondata e fuorviante. La qualità della pronuncia, il suo timbro, si staccano da ogni precedente: la novità, in alcuni casi sconcertante, del lessico, le sprezzature deliberate nell’ambito della metrica, la raffinatezza nell’uso della rima, che pochi allora sono in grado di cogliere, l’abbandono di norme tradizionali, sono tali prove d’indipendenza che alcuni contatti inevitabili di natura ambientale paiono accessori. Colpiscono la perentorietà, la decisione con cui l’opera si stacca da quanto la precede e accompagna. […] Nelle composizioni aggiunte nel ’28 il paesaggio prima deserto cui si rivolge l’io monologante sembra animarsi in funzione dei personaggi che vi figurano. Principale interlocutore non è più il Mediterraneo, che ormai scompare come soggetto lirico. La vita non è più colta e auscultata nei suoi aspetti naturali; certo descrittivismo di Ossi di seppia è assorbito, eliminato. All’abulia, all’inerzia come atteggiamenti di fondo, succedono interesse, parteci-pazione, dedizione; alla descrizione enumerativa un’inquietudine che può raggiungere il pathos” (G. Zampa, in “Tutte le poesie”, pp. XXVII-XXXV). Il Contini ha delineato la parabola evolutiva dalla prima alla seconda raccolta. “Gli Ossi di seppia, più che svolgere un sentimento di non-esistenza, perpetuano un non-sentimento; e questa mancanza di sentimento vive fuori d’una dialettica, produce scarse proteste, pallide ribellioni (se non in termini pratici); più che farsi sentire essa stessa, incoraggia l’inerzia. La realtà rimane assolutamente esterna agli interessi del poeta, e ogni sforzo linguistico vòlto a riconoscerne volontariamente l’esistenza conferma quella trascendenza in modo irrimediabile. E’ una situazione dell’ordine gnoseologico, negativa; che rende improbabile la nascita delle liriche effettive, cioè di sentimenti concreti discorsi nella loro articolazione dialettica. A rompere quest’eccezione occorrerà che l’inazione e l’indifferenza appaiano beni minacciati, o dalla tentazione perpetua del viaggio (Portovenere) o da un pericolo esterno (Arremba su la strinata proda). Salvataggi, come si vede, di breve stagione. La vera salute (nell’ordine del concreto, e perciò della lirica) della poesia montaliana è, sempre fuori da questo mondo, presente e distrutto, nel sospetto di un altro mondo, autentico e interno, o magari ‘anteriore’ e ‘passato’. Così si propone l’istante d’un diverso, sia pure, primitivamente, come impossibilità di rinnovamento dell’istante buono (Vento e bandiere, Cigola la carrucola del pozzo) […]. In un caso-limite si parte addirittura dalla vita misteriosa, congetturabile per una sola traccia (Delta). E’ a questo punto, un po’ dopo gli Ossi, che comincia veramente l’arte di Montale, come autoidentificazione perfetta dei suoi motivi: ogni sua lirica consisterà, da allora, nella definizione d’un fantasma che abbia la possibilità di liberare il mondo nascosto. Poiché s’è rinunciato a qualsiasi variazione, cioè a qualsiasi ‘futuro’, il fantasma liberatore potrà anche presentarsi, metaforicamente, come ‘ricordo’” (G. Contini, op. cit., pp. 19-20). Possiamo cercare di considerare Ossi di seppia come un percorso poetico unitario e coerente, che, rispetto alle raccolte successive, rappresenta, ovviamente, il momento iniziale, l’avvio. In primo luogo, Montale intende mostrare l’animo umano (considerato nel suo atteggiamento poetico, dunque specialmente nel suo sentimento delle cose, della natura e degli uomini) nell’età del disincanto. Che ne è della natura allorché l’animo è come una pietra arida? Il paesaggio aspro, arido, rinsecchito, avvolto dalla grande calura, che non offre spiragli di refrigerio, corrisponde, ovvia- mente, a tale stato d’animo. Il poeta non può che proporsi di rappresentare l’“arido vero”, secondo l’insegna- mento leopardiano. Il contesto storico-culturale è quello del disfaci- mento dell’immagine razionale e ordinata del mondo. La stessa scienza del tempo incominciava a mettere l’accento sui fattori della casualità e della contingenza. Non è possibile rintracciare, si credeva, una linea di sviluppo coerente degli eventi, né, in particolare, si può parlare di una linea di sviluppo progressivo.
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La storia stessa è una vicenda irrazionale di fatti del tutto imprevedibili; e ogni tentativo di individuare una logica, una razionalità, è un’illusione. Montale condivide questa prospettiva “nichilistica”. Caduto definitivamente l’universo delle essenze immutabili, la realtà si configurava come una fantasmagoria di fenomeni razional- mente incomprensibili: delle cose non è possibile che constatare l’esistenza, ma è impossibile porre domande sul loro significato. Dunque la realtà è, nel senso più radicale, divenire, un flusso in cui è impossibile fissare lineamenti precisi, figure determina-te. Ogni forma definita si dissolve in tale flusso; e così la figura umana. L’uomo ha perduto la sua precisa fisionomia, né si può parlare di una sua “natura”, di un suo preciso “ethos”. Perciò il poeta non può che registrare questa situazione di assenza, di mancanza, di disfacimento. La natura appare, perciò, immersa in una immobilità senza senso. Essa non ha sbocchi, significati, vie percorribili. Tutto si riproduce in essa con una ossessio- nante monotonia: suoni, melodie, odori, immagini si succedono e si ripetono continuamente, senza una regolarità, un ordine o un’armonia. Ogni apparente armonia è improvvisamente scossa da qualche rumore sordo e lacerante; ogni figura viene travolta dal flusso del divenire. Il poeta trae da questa condizione una sua “morale”, una specie di dottrina che riguarda gli aspetti fondamentali dell’esistenza. Ecco un esempio della disarmonia, del dissolversi di ogni ordinata e sensata parola: Tentava la vostra mano la tastiera,/ i vostri occhi leggevano sul foglio/ gl’impossibili segni; e franto era/ ogni accordo come una voce di cordoglio.// Compresi che tutto, intorno, s’inteneriva/ in vedervi inceppata inerme ignara/ del linguaggio più vostro: ne bruiva/ oltre i vetri socchiusi la marina chiara.// Passò nel riquadro azzurro una fugace danza/ di farfalle; una fronda si scrollò nel sole./ Nessuna cosa prossima trovava le sue parole,/ ed era mia, era nostra, la vostra dolce ignoranza (“Tutte le poesie”, p. 44, sezione Ossi di seppia). Il mondo è sospeso nel vuoto e ogni cosa dilegua inevitabilmente nel nulla: Debole sistro al vento/ d’una persa cicala,/ toccato appena e spento/ nel torpore ch’esala.// Dirama dal profondo/ in noi la vena/ segreta: il nostro mondo/ si regge appena.// Se tu l’accenni, all’aria/ bigia treman corrotte/ le vestigia/ che il vuoto non ringhiotte./ Il gesto indi s’annulla,/ tace ogni voce,/ discende alla sua foce/ la vita brulla (p. 46). Così ogni ricordo è una chimera, ogni immagine richiamata subito torna ad inabissarsi nel fondo misterioso dal quale è emersa: Cigola la carrucola del pozzo,/ l’acqua sale alla luce e vi si fonde./ Trema un ricordo nel ricolmo secchio,/ nel puro cerchio un’immagine ride./ Accosto il volto a evanescenti labbri:/ si deforma il passato, si fa vecchio,/ appartiene ad un altro…/ Ah che già stride/ la ruota, ti ridona all’atro fondo,/ visione, una distanza ci divide (p. 47). Le cose sono come barchette che un fanciullo ha posto per gioco in uno specchio d’acqua e che un turbine improvviso travolge (Arremba su la strinata proda, p. 48). Solo l’inconsapevolezza di un uccello primaverile come l’upupa arresta il tempo: Upupa, ilare uccello calunniato/ dai poeti, che roti la tua cresta/ sopra l’aereo stollo del pollaio/ e come un finto gallo giri al vento;/ nunzio primaverile, upupa, come/ per te il tempo s’arresta,/ non muore più il Febbraio,/ come tutto di fuori si protende/ al muover del tuo capo,/ allegro folletto, e tu lo ignori (p. 49). Nella serie di Mediterraneo, l’interlocutore del poeta è il mare, considerato, appunto, come l’elemento dal quale emergono e nel quale tornano a confondersi tutte le forme e tutte le vite. Il poeta sosta davanti al paesaggio marino e vede come in esso si riflette il giorno, come nella prima poesia della serie (Scotta la terra percorsa/ da schembe ombre di pinastri,/ e al mare là in fondo fa velo/ più che i rami, allo sguardo, l’afa che a tratti erompe/ dal suolo che si avvena); oppure avverte l’appartenenza a quel paesaggio e la sua somiglianza, per avervi egli trascorso l’infanzia e tratto da esso nutrimento e costume (La casa delle mie estati lontane/ t’era accanto, lo sai,/ là nel paese dove il sole cuoce/ e annuvolano l’aria le zanzare./ […] Tu m’hai detto primo/ che il piccino fermento/ del mio cuore non era che un omento/ del tuo; che mi era in fondo/ la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso/ e insieme fisso, p. 54). Il mare conserva le tracce di ogni trasformazione, di ogni segno lasciato dal tempo; e le grotte scavate sembrano architetture misteriose, aerei templi,/ guglie scoccanti luci, sicché l’accesa fantasia può immaginarsi una città di vetro dentro l’azzurro netto, qualcosa come la patria sognata, la pianta di un paese incorrotto. Nello stesso tempo, il mare mostra l’inflessibile legge del tempo, la legge severa, che è impossibile sfuggire: Questo ripete il flutto in sua furia incomposta,/ e questo ridice il filo della bonaccia (p. 56). Di fronte alla vastità del mare, l’io finito si sente, piuttosto, frammento terrestre, e allora avverte il suo destino diverso e la sua natura fragile, simile a quella della ripa acclive […]/ franosa, gialla, solcata/ da strosce d’acqua piovana, o del secco pendio che lentamente frana, o del pezzo di suolo non erbato su cui nasce una margherita (p. 57). Il poeta avverte che qualcosa di quel suono marino si conserva nella melodia dei suoi versi: Pur di una cosa ci affidi,/
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padre, e questa è: che un poco del tuo dono/ sia passato per sempre nelle sillabe/ che rechiamo con noi, api ronzanti./ Lontani andremo e serberemo un’eco/ della tua voce, come si ricorda/ del sole l’erba grigia/ nelle corti scurite, tra le case./ E un giorno queste parole senza rumore/ che teco educammo nutrite/ di stanchezze e di silenzi,/ parranno a un fraterno cuore/ sapide di sale greco (p. 58). Nel mare il poeta può, poi, indagare e scoprire il male/ che tarla il mondo, la piccola stortura/ d’una leva che arresta/ l’ordegno universale (p. 59). Così egli è sottratto all’illusione della ragione, che l’universo sia ordinato e fornito di senso, avendo appreso gli eventi del minuto/ come pronti a disgiungersi in un crollo. E di questo apprendimento è pago, dato che la scienza che attribuisce una legge ai fenomeni (in modo che questi siano prevedibili) è in gran parte illusoria. Montale qui dichiara che la via della poesia è quella della verità e che è felice della sua scelta, di avere, cioè, preferito agli studi razionali (egli aveva seguito i corsi di ragioneria) la poesia: Seguìto il solco d’un sentiero m’ebbi/ l’opposto in cuore, col suo invito; e forse/ m’occorreva il coltello che recide,/ la mente che decide e si determina./ Altri libri occorrevano/ a me, non la tua pagina rombante./ Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli/ ancora i groppi interni col tuo canto./ Il tuo delirio sale agli astri ormai (p. 59). E, riflettendo sui risultati conseguiti nella poesia, riconosce i limiti della parola, l’impossibilità di riportare nel suo discorso l’eco profonda della voce che viene dai rimescolamenti del mare: Potessi almeno costringere/ in questo mio ritmo stento/ qualche poco del tuo vaneggiamento;/ dato mi fosse accordare/ alle tue voci il mio balbo parlare: -/ io che sognavo rapirti/ le salmastre parole/ in cui natura ed arte si confondono,/ per gridar meglio la mia malinconia/ di fanciullo invecchiato che non doveva pensare./ Ed invece non ho che le lettere fruste/ dei dizionari, e l’oscura/ voce che amore detta s’affioca,/ si fa lamentosa letteratura./ Non ho che queste parole/ che come donne pubblicate/ s’offrono a chi le richiede;/ non ho che queste frasi stancate/ che potranno rubarmi anche domani/ gli studenti canaglie in versi veri./ Ed il tuo rombo cresce, e si dilata/ azzurra l’ombra nuova./ M’abbandonano a prova i miei pensieri./ sensi non ho; né senso. Non ho limite (p. 60). Rimane la speranza e il proposito del poeta di sintonizzarsi perfettamente con quella voce, di fare aderire la sua parola all’epifania della natura: M’attendo di ritornare nel tuo circolo,/ s’adempia lo sbandato mio passare. Nelle poesie che compongono il trittico del L’agave sullo scoglio, il poeta si identifica nella forte pianta che predilige gli ambienti marini, così come essa appare in tre diverse situazioni connesse con il volgere del tempo (nel senso meteorologico). L’agave resiste alla furia del mare che, alle ventate di scirocco, s’avventa contro le rocce; e così, nell’ora in cui tutto è coinvolto in un moto ambiguo, che trascina tutto, in modo che non rimane altro che l’impressione d’una vita che fugge/ come acqua tra le dita, quell’immobilità finisce per configurarsi come un tormento (Scirocco, p. 71). Quando, poi, l’intero paesaggio è sconvolto dal forte vento, l’agave si tiene stretta alle sue radici (Tramontana, p. 72). Infine, dopo che è tornata la calma e l’agave può mostrare i suoi fiori, risuona ancora la voce del tempo, misteriosa e profonda, a ricordare il destino insuperabile del trapassare: O mio tronco che additi,/ in questa ebrietudine tarda,/ ogni rinato aspetto coi germogli fioriti/ sulle tue mani, guarda:// sotto l’azzurro fitto/ del cielo qualche uccello di mare se ne va;/ né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:/ ‘più in là!’ (Maestrale, p. 73). Nella poesia Vasca c’è il dramma della vita di colpo spezzata e quello della vita che non riesce neppure a varcare la soglia che la porta alla luce ed è morte prima di apparire. In Egloga ritorna il motivo dell’esplosione meridiana.Il meriggio è un’ora critica, un tempo rivelatore: Ora è finito il cerulo marezzo./ Si getta il pino domestico/ a romper la grigiura,/ brucia una toppa di cielo/ in alto, un ragnatelo/ si squarcia al passo; si svincola/ d’attorno un’ora fallita./ […] non durano che le solenni cicale/ in questi saturnali del caldo./ Va e viene un istante in un folto/ una parvenza di donna./ E’ disparsa, non era una Baccante. In Flussi la vita appare come una ripetizione di gesti inutili e gratuiti: La vita è questo scialo/ di triti fatti, vano/ più che crudele. In Clivo il poeta segue il cammino verso il mare attraverso un informe declivio. Suoni e parole umane scendono nella ventosa gola e si dissolvono sui frangenti. Così si dismemora il mondo e può rinascere: il mare porta vie le scorie terrestri che accompagnano l’umana giornata. Al mattino l’ampia veduta del mare è una promessa, una speranza: Con le barche dell’alba/ spiega la luce le sue grandi vele/ e trova stanza in cuore la speranza. Ma quando lungi è il mattino e sfugge il chiarore, la visione si chiude e il clivo non ha più vie,/ le mani s’afferrano ai rami/ dei pini nani; poi trema/ e scema il bagliore del giorno. E al primo sopraggiungere della sera arriva implacabile l’ora del disfacimento: un crollo di pietrame che dal cielo/ s’inabissa alle prode…// Nella sera distesa appena, s’ode/ un ululo di corni, uno sfacelo.
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La prima poesia della III parte della sezione “Meriggi e ombre” è Crisalide, un altro lucido esempio della constatazione della crisi esistenziale, del fallimento che coinvolge anche l’esperienza o il tentativo di un dialogo. Al soffio d’aprile le piante d’un giardino rinverdiscono, umide e liete. Ogni attimo vi porta nuove fronde/ e il suo sbigottimento avanza ogni altra/ gioia fugace; viene a impetuose onde/ la vita a questo estremo angolo d’orto. Per il poeta una figura femminile è come quelle piante e ad essa il suo animo si protende: Per me che vi contemplo da quest’ombra,/ altro cespo rinverdica, e voi siete.// […] ed io/ dall’oscuro mio canto mi protendo/ a codesto solare avvenimento. Egli si aggrappa con forza a quell’immagine che già di per sé è come un miracolo: Voi non pensate ciò che vi rapiva/ come oggi, allora, il tacito compagno/ che un meriggio lontano vi portava./ Siete voi la mia preda, che m’offrite/ un’ora breve di tremore umano./ Perderne non vorrei neppure un attimo:/ e questa la mia parte, ogni altra è vana./ La mia ricchezza è questo sbattimento/ che vi trapassa e il viso/ in alto vi rivolge; questo lento/ giro d’occhi che ormai sanno vedere. Ma si tratta di una breve illusione, della certezza d’un momento, destinata a dissolversi, a sparire nell’ombra: M’apparite/ allora, come me, nel limbo squallido/ delle monche esistenze. La primaverile rinascita è un prodigio fallito come tutti/ quelli che ci fioriscono accanto. Le illusioni si dissolvono come fumi, sopra il mare e vanno a formare altre illusorie figure: Vanno a spire sul mare, ora si fondono/ sull’orizzonte in foggia di golette. Nell’afa meridiana una barca sembra aspettare, una barca di salvezza. Ma è una barca che non salperà mai, anzi chiuderà chi vi sale in un unico silenzio: Il silenzio ci chiude nel suo lembo/ e le labbra non aprono per dire/ il patto ch’io vorrei/ stringere col destino: di scontare/ la vostra gioia con la mia condanna. Ciò che s’attendeva non si è verificato, essendo, appunto, esso la libertà, il miracolo,/ il fatto che non era necessario! Rimane solo la possibilità di una sospensione dell’incanto, come in Marezzo. Allora è come se la vita stessa si fermasse, come se il tempo stesso perdesse la sua continuità: Parli e non riconosci i tuoi accenti./ La memoria ti appare dilavata. La Casa sul mare è l’approdo del viaggio nel tempo. Si può chiedere se oltre di essa non vi è nulla, se così tutto vanisce/ in questa poca nebbia di memorie. Ed ecco la risposta: Vorrei dirti che no, che ti s’appressa/ l’ora che passerai di là dal tempo;/ forse solo chi vuole s’infinita,/ e questo tu potrai, chissà, non io. Alla compagna il poeta vuole insegnare la via che porta a varcare la soglia del tempo: Penso che per i più non sia salvezza,/ ma taluno sovverta ogni disegno,/ passi il varco, qual volle si ritrovi./ Vorrei prima di cedere segnarti/ codesta via di fuga/ labile come nei sommossi campi/ del mare spuma o ruga./ Ti dono anche l’avara mia speranza. A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:/ l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.// Il cammino finisce a queste prode/ che rode la marea col moto alterno./ Il tuo cuore vicino che non m’ode/ salpa già forse per l’eterno. Ora anche I morti raccontano la loro storia, inserita nell’inarrestabile turbinio del mare: Quivi/ gettammo un dì su la ferrigna costa,/ ansante più del pelago la nostra/ speranza! – e il gorgo sterile verdeggia/ come ai dì che ci videro fra i vivi.// […] Più d’alga che trascini/ il ribollio che a noi si scopre, muove/ tale sosta la nostra vita: turbina/ quanto in noi rassegnato a’ suoi confini/ risté un giorno. Riviere chiude la raccolta, con le immagini lusinghiere delle piccole cose (fiori e piante che crescono sulle riviere) che fanno rivivere un antico giuoco: Riviere,/ pochi stocchi d’erbaspada/ penduli da un ciglione/ sul delirio del mare;/ o due camelie pallide/ nei giardini deserti,/ e un eucalipto biondo che si tuffi/ tra sfrusci e pazzi voli/ nella luce;/ ed ecco che in un attimo/ invisibili fili a me si asserpano,/ farfalla in una ragna/ di fremiti d’olivi, di sguardi di girasoli. Così la visione desolata che ha dominato la sua poesia ora è riportata dal poeta a quello splendore magico dell’infanzia: Potere/ simili a questi rami/ ieri scarniti e nudi ed oggi pieni/ di fremiti e di linfe/ sentire/ noi pur domani tra i profumi e i venti/ un riaffluir di sogni, un urger folle/ di voci verso un esito; e nel sole/ che v’investe, riviere,/ rifiorire! La poesia posta come introduzione alla raccolta, In limine, fa, in qualche modo, anche da chiusura. Come ha osservato acutamente il Contini: “Agli Ossi la chiaroveggenza di Montale giunse a mettere innanzi, con In limine, una descrizione molto veritiera, e in parte anticipatrice, dei suoi fatti più autentici: non orto ma reliquiario (e insieme prigione) la sua poesia, viluppo di memorie morte e non sede delle visitazioni della vita; e gli oggetti non reali immagini (‘un volo…’), ma indicazioni di abissi interni; e l’ordine di questi oggetti e le loro vestigia, perso il loro valore primitivo e insomma il loro contenuto storico, posti a stabilire delle mere possibilità di futuro. Forse, tuttavia, in mezzo a queste reliquie è la salvazione: da incontrarsi per puro caso, anzi per azzardo in uno degli infiniti lanci di dadi (‘t’imbatti/ tu forse nel fantasma che ti salva’); […] e mostra non trattarsi d’una purchessia ricerca del tempo perduto […], bensì d’un’infinita attesa dell’istante di liberazione improba- bile e gratuito” (op. cit., pp. 27-28).
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Ecco il testo: Godi se il vento ch’entra nel pomario/ vi rimena l’ondata della vita:/ qui dove affonda un morto/ viluppo di memorie,/ orto non era, ma reliquario.// Il frullo che tu senti non è un volo,/ ma il commuoversi dell’eterno grembo;/ vedi che si trasforma questo lembo/ di terra solitario in un crogiuolo.// Un rovello è di qua dell’erto muro./ Se procedi t’imbatti/ tu forse nel fantasma che ti salva:/ si compongono qui le storie, gli atti/ scancellati pel giuoco del futuro.// Cerca una maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!/ Va, per te l’ho pregato, - ora la sete/ mi sarà lieve, meno acre la ruggine… Continua il commento di Contini: “E anche linguisticamente: l’orto cui si compara quel carcere di anziani relitti è (in rima) un pomario; e il lembo di terra si trasforma (pure in rima) in crogiuolo. […] Un ultimo documento linguistico è quella ruggine per ‘rancore’ […]. E si torna a documentare il doppio carattere degli Ossi: per un verso, una riservata aridità di rappresentazione obbiettiva ed esauriente; per altro verso, un lungo persistere frammentario di metrica tradizionale, ‘mnemonica’, un intermittente ma non estinto desiderio di chiusura regolare e di ritorno, quasi ad agevolare, su quest’onda persuasiva di facilità, l’opera di penetrazione del mistero. […] Un ‘fantasma che ti salva’, dunque. E allora scrutiamo la natura dei fantasmi salvatori ( e s’intenda: che potrebbero essere salvatori, ma indecifrabili) entro agli Ossi […]. Uno di quei fantasmi è indubbiamente l’odore dei limoni […]. In un secondo momento: quel silenzio par mettere sulla strada che conduce a scoprire lo sbaglio fondamentale del mondo […]. In un terzo momento: per chi ha perduto anche quest’ultima ‘illusione’ conoscitiva, in mezzo all’inverno, l’odore dei limoni sarà un’improvvisa e aneddotica consolazione, un miracolo di ‘solarità’. Ne risulta che la sensazione rimane ignuda, con la sua inesplicabile missione consolatoria, e ad essa pertiene esclusivamente la poesia […]. Prima di giungere al possibile ‘anello che non tiene’, è quell’alone di silenzio, incarnazione dell’iato fra senso e verità: è quell’alone di silenzio che dovrebbe spiegare la verità, sì che la sensazione, essa, si disperde in un vago estetistico (‘nel profumo che dilaga/ quando il giorno più languisce’)” (Op. cit., pp. 28-30).
I tempi della poesia di Montale Il primo tempo della poesia di Montale è quello di Ossi di seppia. Montale, che avverte specialmente l’influsso della filosofia di Bergson, considera le forme dell’esperienza come i residui ossificati delle cose, che sono inafferrabili, in quanto costituiscono lo stesso fluire della vita e del tempo. All’uomo non è dato conoscere la realtà, poiché, appunto, di essa egli coglie solo forme irrigidite, ormai fuori della vita e, dunque, coperte di una veste fittizia e convenzionale. Il secondo tempo è quello delle Occasioni. Ora il poeta ammette che in alcune occasioni la realtà si rivela nella sua costituzione essenziale. Si tratta di cogliere questi momenti di grazia e di miracolo, in cui si manifesta la verità del mondo. Il terzo tempo è quello de La Bufera. Il poeta ammette la conoscibilità delle cose colte attraverso l’esperienza quotidiana. Perciò egli non rappresenta più forme ideali ma le cose nei modi in cui presentano normalmente. Questa tendenza a “raccontare” le cose dell’esperienza si accentua nelle raccolte successive (Satura, Diario del ’71 e del ’72, Quaderno di quattro anni, Altri versi). La poesia assume sempre di più l’andamento dimesso del discorso quotidiano, fino a confondersi con la prosa. Ciò vuol dire che le cose assumono il sopravvento e, col loro assedio continuo, reclamano una parola che le riporti per ciò che sono: elementi di un discorso usuale (logorato dall’uso).
La filosofia italiana del Novecento. Il decennio tra i due secoli. Antonio Labriola ha tentato una significativa sintesi di idealismo e materialismo storico. Nel decennio a cavallo dei due secoli si svolge la sua intensa e significativa attività, per cui il pensiero italiano acquisisce la lezione del marxismo nella sua versione più autentica e feconda, quella connessa col rinnovamento degli studi storici, mediante l’applicazione delle categorie economiche e sociali, e, d’altra parte, col programma di emancipazione delle classi popolari da uno stato di radicale alienazione. Tra il ’95 e il ’98 egli scrive le sue
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opere, con l’intento di delineare un marxismo capace di far maturare la coscienza di un ruolo attivo della classe dei lavoratori, che stava per assumere la funzione di nuovo soggetto della storia. Intanto operavano positivisti e pragmatisti. Dal 1896 al ’99 Giovanni Vailati, laureato in matematica a Torino nel 1884, tenne corsi sulla storia della meccanica in quella città. Le tre prolusioni “possono essere considerate una proposta di riforma del positivismo volta a riaffermare la razionalità del mondo e della scienza” (M. Quaranta, in L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, VI, 309). Nel 1906 pubblicava l’opera Pragmatismo e logica matematica, che lo collocava nella corrente che allora andava affermandosi specialmente attraverso la rivista “Leonardo” di Papini e Prezzolini. In un libro del 1907 sulle correnti filosofiche del tempo criticava sia l’idealismo che il positivismo. L’altro rappresentante del pragmatismo italiano, Mario Calderoni, nel 1905 pubblicava sul “Leonardo” l’acuto saggio La varietà del pragmatismo, in polemica coi due letterati, che mettevano in rilievo il primato del “credere” al posto delle scelte razionali. Vailati morì a soli 46 anni.53 Del panorama di quegli anni facevano parte i neokantiani. Cantoni, Tocco, Fiorentino, Barzellotti erano ancora impegnati in un’attività di notevole livello: nel 1899 era fondata la “Rivista filosofica”, diretta dal Cantoni; nel 1897 Tocco pubblicava uno dei primi saggi su Nietzsche; nel 1904 usciva il libro di Barzellotti Dal Rinascimento al Risorgimento; nel ’97 era uscito Il socialismo e il pensiero moderno del Chiappelli. Nel 1904 il Martinetti, che faceva parte a sé, aveva pubblicato l’opera che comprende la prima esposizione sistematica del suo pensiero, Introduzione alla metafisica. Sono anche gli anni degli esordi di Croce, il quale nel 1893 aveva esposto il primo nucleo del suo neoidealismo nella memoria La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. Nel 1900 uscivano i suoi saggi sul marxismo e in quello stesso anno era pubblicata un’altra memoria accademica, che diventava, nel 1902, l’opera fondamentale in cui è esposta la sua teoria estetica. Del 1903 è la prima edizione della Storia della filosofia italiana del Gentile. La crisi del positivismo era significativamente espressa dal Marchesini, la cui opera appare fondata sul tentativo di attuare una nuova sintesi di realtà e idealità. Il suo studio principale, La crisi del positivismo e il problema filosofico, è del 1898,e ad esso è da collegare il libro Le funzioni dell’anima. Saggio di etica pedagogica, pubblicato nel 1905 e in cui il problema gnoseologico è trattato nella sua connessione con quello etico. Suo allievo è stato il Limentani, che ha svolto la sua attività negli anni venti. Nel 1901 usciva l’opera più notevole di Erminio Juvalta, Prolegomeni a una morale distinta dalla metafisica. Dello stesso anno è il primo saggio di Mario Calderoni (la sua tesi di laurea), I postulati della scienza positiva e il diritto penale; e lo stesso autore confermava la sua tendenza antimetafisica nel suo successivo studio sull’etica, pubblicato nel 1904. L’avvenimento principale di quegli anni appare indubbiamente l’inizio dell’attività di Croce e Gentile. Nel 1903 incominciava l’avventura straordinaria dell’influsso sulla cultura italiana per oltre mezzo secolo della rivista più famosa di tutte, “La Critica”. Le riviste fiorentine sorsero in quello stesso periodo ed ebbero una risonanza non trascurabile. Il Garin individua un qualche elemento comune tra i due avvenimenti: “Ciò che accomunò provvisoriamente la rivolta della rivista napoletana e la scapigliatura dei fiorentini, fu la difesa delle dimensioni dell’uomo, della vita spirituale, dell’iniziativa umana. Anche se il sottinteso era, fin da allora, profondamente diverso, il nemico per il momento era lo stesso: una posizione che poggiava sull’idea di strutture rigida del reale, che lo costringessero in una fissità definita per sempre e da sempre” (Cronache, 22). Dunque il soggetto umano è posto al centro dell’attenzione in quanto il luogo stesso della riflessione critica. Si scopre il carattere storico e umano della scienza; che la stessa impostazione dei problemi e delle questioni dipende dal progetto che gli uomini del tempo riescono a delineare intorno alla propria attività e alla propria presenza nel mondo. La visione della scienza che viene seguita e approfondita è quella “economicistica” del Mach; e il modello machiano della scienza viene volentieri esteso al campo della morale. Ciò che è meglio per l’uomo è operare in modo da assicurare la maggiore felicità a un maggior numero di persone. “Si vide che il fatto era condizionato dall’idea che permetteva di trovarlo, si vide che la legge ben lungi dall’essere sillaba di Dio si inseriva come una tappa sempre superabile nella costruzione dell’edificio dell’umano sapere” (Garin, 27-28). 53
Su Vailati cfr. le pagine di Mario Quaranta in Storia del pensiero filosofico e scientifico, cit.
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Intorno a quegli anni si consuma l’avventura umana e filosofica di Carlo Michelstaedter (morto suicida nel 1910). Ma nell’intero dibattito filosofico, pur così ricco di orientamenti, di sfumature teoretiche, di spunti culturali interessanti, si profilavano come già dominanti le figure di Croce e Gentile. Giovanni Gentile era nato a Castelvetrano (Trapani) nel 1875 e si era laureato a Pisa con una tesi su Rosmini e Gioberti (pubblicata nel 1898). Il suo principale maestro era stato lo Jaja, illustre scolaro di Spaventa e prosecutore della tradizione hegeliana. Studiando Rosmini e Gioberti, il giovane Gentile scopriva il nucleo idealistico che si agitava all’interno di quel pensiero: “Il merito incontestabile del Gioberti: accorgersi e avere il coraggio di affermare che quell’essere, dal Rosmini ancora creduto meramente ideale, esso è l’essere reale, e dico il coraggio, perché la conclusione era che il pensiero e l’essere sono dentici, e la realtà è la realtà del pensiero […]. Ma posta l’identità essere e pensiero, si apprestò a costruire la scienza di questo essere che è pensiero; a costruire cioè una metafisica della mente”. Gioberti, osservava il Gentile, perveniva a una concezione idealistica originale, sulla base dell’idea che l’essere/pensiero è essenzialmente attività creativa, svolgimento di sé nel mondo. Pertanto si trattava di sviluppare quel nucleo originale, riformando lo stesso hegelismo nel senso di liberarlo da quel residuo realistico che non era ancora risolto nella creatività dello spirito. Così il giovane Gentile individuava già il nucleo speculativo intorno al quale costruire una originale prospettiva filosofica. Un altro passo era costituito dal successivo studio su Marx del 1899. Il Gentile interpretava la filosofia della prassi in senso idealistico, sulla base della identificazione del fare marxiano (il fare umano che modella e trasforma il volto del mondo) con l’attività dello spirito, anzi con lo sviluppo medesimo dell’atto spirituale. Egli esponeva quindi il suo programma culturale e filosofico, che credeva di sviluppare insieme all’amico Croce, nel saggio La rinascita dell’idealismo del 1903. La rinascita dell’idealismo era dovuta, secondo il giovane filosofo al “fallimento della scienza”, per non avere mantenuto (né potere mai mantenere) le promesse intorno alla soluzione dei problemi “intorno all’origine e al destino dell’uomo”. E il nuovo idealismo doveva qualificarsi come “assoluto”, in quanto non ammetteva “limiti del reale” e si opponeva nello stesso tempo “all’idealismo critico o neo-kantismo” e “al naturalismo, al misticismo non meno che al materialismo”. Inaugurando un corso libero di filosofia a Napoli nel febbraio del 1903, il Gentile così prospettava il carattere dell’idealismo, nel senso dell’affermazione e del ruolo delle idee nella costituzione del reale: “La realtà da cui pare che ci si allontani, e in un certo senso infatti ci si allontana col processo astrattivo del conoscere, è la realtà che si vede e che si tocca, la semplice realtà sensibile. Ma allontanandoci da questa realtà per la via delle idee si va incontro a una novella realtà, che è appunto la realtà delle idee: la quale, lungi dall’essere la prima, degradata e stremata del meglio dell’esser suo, deve certo possedere un più alto valore”, per cui “negare le idee non è possibile […]; ma neppure è possibile negare la natura; perché in essa sono le radici dello spirito, e negar lei è barbicare questo dal suolo, donde trae i succhi vitali. L’idea nasce dal senso, e il senso ci è dato dalla natura, è esso stesso natura”.54 L’idea, dunque, ha senso in quanto esprime e realizza l’esigenza di oltrepassamento del dato naturale e sensibile. Essa ha la funzione di tradurre, esprimere e manifestare la costituzione intelligibile del reale. Il reale in quanto dato immediato è ancora oscuro, inintelligibile, fuori dell’ambito in cui esso è dominato dallo spirito e si pone come un elemento dello stesso sviluppo spirituale. Il problema dell’idealismo è quello della chiarificazione del nesso inscindibile tra reale e idea, fra dato e pensiero, fra intuizione e ragionamento. Infatti il reale stesso, nella sua interezza e nel suo compimento, nella sua piena attuazione, è quello che si attua in tale sintesi, dunque attraverso l’assimilazione dell’idea, che è elemento del pensiero. Attuare la sintesi di natura e idea vuol dire “conciliare la trascendenza con l’immanenza, il determinismo meccanico col finalismo, l’idea col senso”. L’idealismo non consiste in un astratto vagheggiamento del mondo ideale; esso invece è l’intendimento del continuo trapassare della natura nella storia dello spirito, dell’incessante assumere, da parte del dato sensibile, la trasparenza dell’intelligibilità. Ciò che è dato immediato diventa contenuto mentale. L’idealismo è la prospettiva per cui si coglie questo passaggio continuo: è il punto di vista per cui si vede come “le idee escono l’una dall’altra con irrequietezza incessante; e le idee delle idee si traggon fuori dalle idee della natura; e si rompe quella diga artificiale, che separa il continente dell’uomo e dello spirito dal fluttuante e iridescente mare della natura; e questo si riversa su quello, e quello rimane al 54
G. Gentile, Saggi critici, Napoli 1921, pp. 15, 18-19 (cit. Garin, 47).
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fondo di questo”. L’idealismo, insomma, si prospettava, secondo il Gentile, come concezione del reale in quanto svolgimento e continuo attuarsi di sé, sulla base di un continuo rapportarsi alle idee che ne esprimono l’intelligibilità. Tutto ciò presupponeva la priorità ideale dello spirito e la concezione della natura come finalismo spirituale e dunque processo che si iscrive all’interno della storia dell’uomo. Ne risultava una visione essenzialmente monistica e immanentistica. Un altro ciclo di lezioni era inaugurato dal Gentile presso la “Biblioteca Filosofica” di Palermo nel novembre 1911. Il giovane filosofo reclamava una filosofia che interpretasse e rispondesse alle esigenze del mondo storico. “Di quella filosofia solitaria ed astratta – diceva - ridiamo anche noi come di un grosso sproposito”, poiché la filosofia, “se ha un valore, se è una forza, deve penetrare di sé la vita umana e governarla, informarla di sé”. Come osserva il Garin (che riporta quelle constatazioni gentiliane), si trattava dell’affermazione di un “concetto nuovo del filosofare, come risoluzione dei problemi in termini effettuali e in operosa modificazione del mondo”.55 Il che, in verità, non era altro che la riproposizione, in termini aggiornati, certamente, della famosa tesi marxiana secondo cui i filosofi che fino allora si erano limitati a tracciare una metafisica contemplativa del reale avrebbero dovuto invece contribuire a cambiare il mondo. Il Gentile aggiungeva, infatti, che la filosofia ha il compito di delineare “un nuovo mondo mentale”, per sostituire con esso quello posseduto precedentemente e rispondente piuttosto a una realtà data, naturale, subita come un’oscura necessità. Era l’esigenza che gli uomini si rendessero autori e artefici del proprio mondo; e a tale scopo essi avrebbero dovuto configurarsi un mondo “ideale”, tracciati sulla base dell’attività creatrice dello spirito. Il Gentile insegnò filosofia teoretica a Palermo dal 1906 al 1914 (per passare a Pisa e poi nel ’17 a Roma). Un bilancio del pensiero di quell’epoca era compiuto nel 1924 sulla rivista “Logos”. A Palermo era nato nel 1881 Antonio Aliotta e vi aveva trascorso i primi anni universitari; era passato a insegnare filosofia teoretica a Padova nel 1905, fondando e dirigendo la rivista “Logos”, aperta ai contributi di più varia provenienza. In un poderoso fascicolo del 1924 di quella rivista i filosofi del tempo erano chiamati a tracciare un bilancio del proprio pensiero e un profilo dello sviluppo delle diverse correnti che allora occupavano ancora la scena. Ludovico Limentani, tracciando un profilo del positivismo italiano, metteva in rilievo le istanze ancora vitali di quell’orientamento, individuandole principalmente nel metodo rivolto a ricercare le fonti della conoscenza nell’osservazione e nell’analisi dei fatti. A quell’epoca già i superstiti sostenitori della filosofia positiva e antimetafisica facevano fronte contro l’attualismo gentiliano e le altre filosofie idealistiche. La schiera dei seguaci della filosofia positiva era abbastanza nutrita. Vi figuravano: tra gli allievi dell’Ardigò, Marchesini, Tarozzi, Trailo, Ranzoli; tra i rappresentanti dell’indirizzo etico-pedagogico, Limentani, Juvalta; tra i cultori delle scienze sociali, Mosca, Pareto, Labriola, Mondolfo, Groppali, Levi; tra i filosofi più direttamente legati a nteresi scientifici, matematici e naturalistici, Varisco, Enriques, Peano; tra gli scettici e gli empiristi, Rensi, Guastella, Arturo Masnovo tracciava le linee del rapido affermarsi del pensiero d’indirizzo tomistico e neoscolastico, in seguito all’enciclica Aeterni Patris del 1879, ponendo in crisi il pensiero d’ispirazione rosminiana e continuando la polemica contro positivisti, materialisti e idealisti. Adolfo Levi si occupava de L’idealismo critico in Italia, trattando specialmente di Martinetti, Varisco e Carabellese, che riproponevano, in una prospettiva ontologistica, il tema della trascendenza. Nicola Maresca delineava il quadro del neocriticismo italiano, distinguendo tra il filone critico-storico (Fiorentino, Tocco, Cantoni, Chiappelli, Guida) e quello teoretico sistematico (Masci, Maresca, Del Vecchio). Il giovane Della Volpe (gentiliano) distingueva già all’interno dell’attualismo una “destra” trascendentista e filocattolica (Carlini) e una “sinistra” (Saitta, De Ruggiero), immanentista, oltre a una corrente “ortodossa” (Fazio-Allmayer, Omodeo, Dentice di Accadia, Anzilotti). Paolo E. Lamanna tracciava un profilo del realismo psicologistico sviluppato dal De Sarlo nel suo laboratorio di psicologia e nella rivista “La cultura filosofica” dal 1907 al 1913. Vicini a tale indirizzo erano Antonio Aliotta e lo stesso Lamanna.
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Garin, Cronache, 46.
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Il panorama filosofico in Italia intorno agli anni venti è in primo luogo caratterizzato dalla scomparsa di due indirizzi abbastanza vitali all’inizio del secolo, il marxismo e il pragmatismo. Croce in un articolo del 1911 aveva dichiarato esaurito il marxismo, mentre il pragmatismo si era dissolto con la scomparsa di Vailati e Calderoni. Ugo Spirito nella sua tesi di laurea (1921) fece già un bilancio di quest’ultima corrente. Un altro carattere è dato dal fatto che il pensiero si è andato sempre di più chiuso al dialogo e all’influsso più ampiamente europeo, per restringersi a un orizzonte quasi esclusivamente italiano.56
L’attualismo di Gentile Gentile stesso ha riportato le origini del suo attualismo all’interpretazione data da Bertrando Spaventa alle prime categorie della Logica di Hegel; ma recentemente alcuni studi hanno dimostrato che questa interpretazione è orientata, piuttosto, verso sviluppi real-idealistici, dunque di segno opposto a quello ipotizzato dal fondatore di questa corrente (Cfr. gli studi di Felice Alderisio e del suo discepolo Nicola Caputo). Il motivo essenziale dell’attualismo è la concezione del reale come svolgimento in atto di un principio soggettivo che si identifica con lo stesso pensiero. Il fondamento metafisico è il pensiero in atto, nel processo del suo svolgimento. Pieno di entusiasmo e come pervaso dall’effetto di un’ispirazione divina (e ciò dimostra il suo spirito orientato verso il misticismo, l’unione irrazionale col principio divino delle cose; il suo quasi innato idealismo pervaso di spirito panteistico rinascimentale e bruniano, dunque di marca schellinghiana più che hegeliana), Gentile nel 1897 comunicava al suo maestro Donato Jaia, il suo maestro all’Università di Pisa, la sua scoperta del pensiero come atto in cui si identifica l’intero svolgimento del reale (Cfr. Paci, pp. 62-63). L’atto è avvertito ancora in forma aurorale, come “energia divina”, “potenza meravigliosa”, “forza onnipotente”, afflato in cui i soggetti si confondono (in realtà, si fondono insieme o sono già fusi; e la cultura umana è l’espressione di questa fusione). L’atto, però, è indicato ancora come una “terra promessa”, come qualcosa che è, piuttosto che un fatto, un fieri, piuttosto che un “avvenuto” un advenire. Noi siamo spirito in continua formazione; il nostro compimento è continuamente rimandato. L’attualismo, in questo modo, prospetta la realizzazione di sé come un progetto continuo. Maestro e scolaro formano un’unità: anch’essi sono l’espressione di un processo di fusione, alludono a una situazione di mistica unità. La totalità irrompe nell’attimo stesso e fa di ogni momento una tensione: essa è la trascendenza che attraversa l’immanenza del mondo, senza fermarsi in essa e lasciandovi le tracce dell’incompiutezza, della nostalgia e dell’attesa. C’è una specie di sentimento del destino come fatalità in questa concezione. Noi viviamo nell’attesa della trascendenza, attendiamo la nostra realizzazione, il compimento del nostro stesso destino. Ma in realtà il nostro destino è l’incompiutezza. Si può allora considerare la morte come il segno del compimento? Soltanto se la morte è un fatto sociale, risponde Gentile, cioè se qualcuno può considerare quella vita compiuta; ma più che il piano della società qui è considerato il piano religioso (e inevitabilmente una tale concezione mistica doveva approdare ai confini dell’esperienza religiosa, che è, appunto, tra l’altro, l’esperienza del compimento visto, però, nell’altro, nel prossimo o in Dio stesso). La scienza del pensiero in atto è la logica, considerata come logica del concreto (contrapposta alla logica dell’astratto, che è la logica formale). In quanto sviluppo, il pensiero in atto è storicità; il pensiero si risolve nella sua storia; e la sua conoscenza è la storiografia. La storia della filosofia è un modo di cogliere in qualche modo il senso e le tappe del pensiero nel suo svolgimento. Ma c’è anche un’interna dialettica dello spirito come atto puro. Lo spirito comprende, in primo luogo, i momenti della soggettività e dell’oggettività. Il lato soggettivo emerge specialmente nell’esperienza dell’arte. Il pensiero in atto si ritrae in se stesso, nelle sue figure, e si distacca dalla realtà, dall’oggettività che esso
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Fino al 1915 nei congressi internazionali di filosofia era stata notevole la presenza di pensatori italiani, come Vailati, Peano e lo stesso Croce. Un certo rapporto con gli sviluppi del pensiero europeo era in quegli anni mantenuto dal Banfi che nel suo libero Principi di una teoria della ragione del 1926 introduceva riflessioni ispirate a Husserl e altri filosofi tedeschi; si deve segnalare anche l’attenzione del giovane Abbagnano per Il nuovo idealismo inglese e americano.
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medesimo crea. Tutto, infatti, è prodotto dell’attività spirituale; e prodotto è la natura (l’espressione massima dell’oggettività). L’arte è “libera creazione del soggetto che si stacca dal reale”; è “forma della soggettività”, “individualità immediata dello spirito”, “la forma più ingenua e primitiva dell’attualità spirituale”. Invece la religione è “esaltazione dell’oggetto sottratto ai vincoli dello spirito”. Si tratta, dunque, di modi della vita dello spirito. Così l’etica è il modo della vita sociale, dell’esperienza intersoggetiva. Questa esperienza ha la sua massima realizzazione nello stato. Lo spirito come comunicazione, come rapporto di soggetti o persone, è lo “stato etico” (che è un altro modo della fusione mistica nella totalità). Fuori di questa unione mistica c’è l’esistenza concreta, irriducibile alla totalità, individuale, specifica, personale. L’esigenza personalistica emerge, a un certo punto, dallo stesso attualismo. Ed è questa la principale ragione per cui i discepoli del Gentile si sono trovati in prospettive diverse, di marca spiritualistica.
Croce in sintesi Il principio fondamentale dell’idealismo crociano è la “distinzione”. La distinzione consente di qualificare ogni atto spirituale come specifico di una forma spirituale, cioè di una determinata sfera della produzione del reale come espressione dello spirito. La filosofia ha il compito di identificare ogni realtà per ciò che essa è, in quale sfera dell’attività spirituale s’inquadra. Il giudicare, infatti, riporta il particolare sotto una categoria universale. E ogni fatto e ente particolare fa parte della storia, cioè del processo di produzione spirituale. La filosofia ha la funzione di definire le realtà particolari, riconducendole alle sfere spirituali corrispondenti. Un fatto o un ente appartiene a una determinata sfera dell’attività spirituale: può essere un fatto conoscitivo, teorico, connesso al bisogno di conoscere; oppure può essere un fatto pratico, economico, morale, politico, connesso all’attività pratica. Separando le diverse sfere, Croce riconosce a ciascuna di esse una piena autonomia. In questo modo, ad esempio, l’economia ha le sue leggi, che sono diverse da quelle della morale; essa si costituisce un suo mondo che ha una sua logica e segue determinati processi. Così l’arte è autonoma, risponde a principi specifici e non può essere giudicata dal punto di vista della conoscenza o della moralità. L’arte è tale in quanto attua l’espressività dello spirito attraverso il linguaggio. Il sistema di Croce comprende il sistema delle attività spirituali, considerate nelle loro specificità, nelle leggi autonome che regolano ciascuna sfera. Una forma dell’attività spirituale riguarda la conoscenza. Lo spirito è principalmente facoltà di conoscere: perciò esso è attività di pensiero; e la forma compiuta di questa attività è quella concettuale e logica. Qui il sistema della realtà trova il livello della sua completa rappresentatività ed espressione. Così, ad esempio, si può definire l’uomo attraverso concetti. I concetti indicano la struttura essenziale e dunque la costituzione universale di un ente: ad esempio, che è l’uomo in generale. Il reale diventa intelligibile. Il sistema dei concetti rende esplicita l’intelligibilità del reale. Lo sviluppo del pensiero procede attraverso la sintesi a priori. Esso elabora concetti. E la scienza così costituita è la filosofia. Essa procede attraverso l’analisi concettuale e la sintesi a priori: da determinati concetti se ne deducono altri e da una serie di concetti si formulano giudizi. Si profilano filosofie, cioè sistemi di conoscenze teoriche, per ciascuna sfera della realtà. La conoscenza filosofica si ha allorché una sfera del reale è sottratta alla osservazione empirica ed è riportata al livello dell’analisi concettuale e della sintesi a priori concettuale. L’antropologia filosofica, ad esempio, comprende il sistema concettuale relativo alla sfera dell’uomo. Ogni conoscenza filosofica è “pura”, cioè risolta e realizzata a livello concettuale, escludendo ogni rappresentazione empirica. Perciò la teoria della conoscenza è la Logica come teoria del concetto puro (1905). Ma appartiene alla sfera della conoscenza anche l’arte, che è basata sull’intuizione. Questa ha la sua base nel sentimento. L’intuizione artistica (“lirica”) si ha attraverso la sintesi a priori di intuizione ed espressione. L’intuizione coglie, mediante il sentimento, il contenuto universale che è rappresentato da un particolare (l’oggetto dell’intuizione), e l’espressione dà ad essa forma rappresentativa concreta. Il poeta, ad esempio, è dominato dall’intuizione relativa al desiderio dell’uomo di volare; egli interpreta e coglie un aspetto universale dell’umanità: e ciò attraverso un suo sentimento; quindi esprime poeticamente la sua intuizione nella figura del “cavallo alato”. Questa è la vita dell’arte. Si ha l’arte allorché i contenuti della conoscenza non sono dominati ed espressi da concetti, bensì sono compresi ed espressi attraverso simboli e figure, cioè
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attraverso il linguaggio (poetico o figurativo). Questa teoria è esposta dal Croce nell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale: teoria e storia (letta nel 1900 all’Accademia Pontaniana di Napoli e pubblicata nel 1902, integrata di una storia delle teorie estetiche). I fini universali verso i quali è diretta l’umanità costituiscono l’etica, mentre l’economia è diretta a conseguire e realizzare fini particolari. I rapporti tra utile e morale sono esposti nella Filosofia della pratica (1908). I problemi della storia sono esposti in Teoria e storia della storiografia (1913).
Croce: il giudizio individuale e la conoscenza della storia La logica crociana è stata esposta per la prima volta in una memoria letta all’Accademia Pontaniana di Napoli il 10 aprile e il 1° maggio del 1904 e recante il titolo Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro. L’esposizione in volume (pressappoco con lo stesso titolo) apparve nel 1909. Il concetto ha caratteri peculiari, che lo distinguono dall’intuizione estetica (percezione): esso riguarda l’intelligenza del reale, cioè un tipo di comprensione che si presenta purificata di ogni elemento rappresentativo (ad esempio di tipo simbolico o analogico). In questo senso, il concetto esprime la piena identità con se stesso, la sua impossibilità di essere contraddittorio o molteplice. Esso vive di una condizione di totale autonomia rispetto alle rappresentazioni dell’esperienza.57 I concetti puri sono “ultra” e “onnirappresentativi”: essi vanno oltre le particolari rappresentazioni, in quanto non si esauriscono in nessuna di esse e, tuttavia, si ritrovano in ciascuna, comprendendole tutte. Il concetto puro (universale) è adeguato a esprimere l’intelligibilità del reale a cui si riferisce: la condizione reale espressa dal concetto è interamente intelligibile ed esprimibile. Si potrebbe dire, ad esempio, che l’essere è pensabile (traducibile in concetto) ed esprimibile e comunicabile.58 Tutti gli altri concetti, che non pervengono ai caratteri dell’espressività, dell’universalità e della concretezza sono, secondo Croce, in diversi modi spuri: sono, cioè, pseudoconcetti. Tali sono i concetti costituiti da gruppi di rappresentazioni. Ad esempio, il concetto di “casa” sarà sempre legato alla concreta e particolare rappresentazione dell’oggetto. Si tratta, cioè, di concetti che non riusciranno mai ad assumere il carattere dell’universalità. Analogamente non sono veri concetti quelli che non riescono ad avere il carattere della concretezza, come, ad esempio, quelli matematici.59 Croce attribuisce a questi concetti una validità pratica, ma esclude per essi un valore rigorosamente conoscitivo, in quanto non appartengono al campo della vita 57
“Un concetto vero e proprio, appunto perché non è rappresentazione, non può avere a suo contenuto un singolo elemento rappresentativo, né riferirsi a questa o quella rappresentazione particolare o a questo o a quel gruppo di rappresentazioni; sebbene, d’altra parte, appunto perché universale rispetto all’individuale delle rappresentazioni, si riferisca a tutte e a ciascuna insieme. Si consideri qualsiasi concetto di carattere universale: quello della qualità, per esempio, o dello svolgimento, o della bellezza, o della finalità. Si può mai pensare che un tratto di realtà datoci nella rappresentazione, per ampio che sia, e abbracci pure secoli e secoli della più ricca storia o millenni su millenni di vita cosmica, esaurisca in sé la qualità o lo svolgimento, la bellezza o la finalità, in modo che si possa affermare l’equivalenza tra quei concetti e quel contenuto rappresentativo? E si consideri per converso un frammento quanto si voglia piccolo di vita rappresentabile: si può mai pensare che in esso, per piccolo, per atomico che sia, manchi qualità o svolgimento e bellezza e finalità?” (Logica come scienza del concetto puro, pp. 14-15). 58 “Espressività, universalità, concretezza sono dunque tre caratteri del concetto, il primo dei quali afferma che il concetto è atto conoscitivo ed esclude che sia meramente pratico, come si pretende in vario senso dai mistici e dagli arbitraristi o finzionisti; il secondo, che esso è un atto conoscitivo sui generis, l’atto logico, ed esclude che sia intuizione, come si vuole dagli estetisti, p che sia gruppo d’intuizioni, secondo che è asserito nella dottrina degli arbitraristi e finzionisti; e il terzo, infine, che l’atto logico universale è insieme pensamento della realtà, ed esclude che esso possa essere universale e vuoto, universale e inesistente, secondo che è sostenuto altresì nelle dottrine degli arbitraristi” (Ib., p. 29). 59 “Un triangolo geometrico non c’è mai nella realtà, perché nella realtà non sono linee rette, angoli retti e somme di angoli retti e somme di angoli uguali a due retti. Un moto libero non c’è mai nella realtà, perché ogni moto reale si effettua in condizioni determinate e necessariamente tra ostacoli. Ora un pensiero, che non abbia per oggetto niente di reale, non è pensiero; e perciò quei concetti non sono concetti, ma funzioni concettuali” (Ib., p. 17).
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concettuale.60 Tali “finzioni concettuali” non possono, pertanto, essere valutati col metro della conoscenza, né si può dire che essi si contrappongano alla conoscenza vera e inducano nell’errore, e la loro valutazione spetta unicamente alla sfera pratica, che essi indubbiamente concorrono a promuovere e a sviluppare.61 Infatti la vita pratica, per la sua organizzazione e il suo sviluppo, ha bisogno di sostenersi a rappresentazioni che riguardino l’esperienza acquisita e siano efficaci al fine di orientare lo spirito intorno alle più efficaci operazioni che occorre mettere in atto per conseguire determinati scopi. Croce esamina, quindi, la vita del concetto nell’ambito dell’espressione e del discorso. Lo stesso linguaggio, in primo luogo, è costituito in base allo sviluppo dell’area concettuale. Esso è organizzato in relazione al pensiero logico, oltre che in rapporto all’attività rappresentativa e allo sviluppo delle molteplici forme dell’esperienza. In realtà, il concetto vive nella struttura del giudizio: il giudizio è “il concetto stesso nella sua effettualità”. La forma primaria del giudizio logico è la definizione. Nel giudizio definitorio il soggetto e il predicato sono due universali; nel giudizio particolare, invece, il concetto universale si predica del particolare. Una definizione è la seguente: “la volontà è la forma pratica dello spirito”. Un giudizio particolare è questo: “Paolo è buono”. I concetti puri non vivono su un piano astratto, bensì animano la vita della stessa rappresentazione, si fanno essi stessi nuovamente rappresentazioni, sia a livello di esperienza “estetica” (sensibile) sia a livello di discorso logico. In particolare, i concetti operano sulle rappresentazioni, trasfigurandole e attribuendo ad esse un valore conoscitivo. L’intera attività rappresentativa assume forma logica e viene tradotta nel discorso. “Oltre il giudizio individuale – osserva il Croce – o percezione non vi ha altro atto conoscitivo da conoscere. In esso ultimo e perfettissimo degli atti conoscitivi, il giro della conoscenza si chiude. L’oscura sensibilità, diventata già chiara intuizione, e fattasi dipoi pensamento dell’universale, viene nel giudizio individuale logicamente pensata, ed è ormai conoscenza del fatto o dell’accadimento, ossia della realtà effettuale. Il giudizio individuale adegua pienamente la realtà”.62 L’attività conoscitiva viene a compiersi compitamente nell’articolazione della vita concettuale, quale si viene svolgendo sul piano della formazione dei giudizi individuali (che assurgono sul piano concettuale le rappresentazioni della complessa esperienza). In questo senso la stessa vita logica viene a calarsi nell’articolazione dell’attività rappresentativa. Perciò Croce sostiene l’identità del giudizio definitorio (concetto puro) e del giudizio individuale o percettivo. Infatti il giudizio definitorio è presupposto del giudizio individuale: ad esempio, non posso dire “Pietro è uomo” se non ho la definizione dell’uomo. D’altra parte, la definizione dell’uomo non avrebbe senso se non in riferimento agli uomini particolari. In realtà, dunque, i due giudizi fanno parte di un’unica struttura concettuale che concorre alla comprensione della realtà. Infatti, “se si considera la definizione nella sua concreta realtà, vi si troverà sempre, esaminandola con cura, l’elemento rappresentativo e il giudizio individuale”.63 L’intera teoria crociana del giudizio (l’intera logica) appare finalizzata a giustificare la conoscenza della storia come la “vera” conoscenza, cioè qualcosa come l’hegeliano “sapere assoluto”. La conoscenza, basata sul concetto puro, è la conoscenza dell’individuale, espressa, appunto, nel giudizio individuale che esprime la comprensione del particolare concreto, del singolo dato dell’esperienza. La filosofia attribuisce al dato determinatissimo i caratteri dell’oggetto conosciuto nella sua struttura reale; essa supera gli aspetti connessi 60
“A quest’uopo giova riportare l’attenzione sul loro momento costitutivo, che […] non è teoretico ma pratico; e domandarsi in qual modo e a qual fine lo spirito pratico possa intervenire nelle rappresentazioni e concetti prima prodotti, e manipolarli e farne finzioni concettuali” (Ib.). 61 “L’atto del foggiare finzioni intellettuali non è dunque né di conoscenza né di anticonoscenza; non è logicamente razionale e non è nemmeno illogicamente irrazionale, ma è razionale a suo modo, praticamente” (Ib., p. 21). 62 Ib., p. 101. 63 “Ammessa la condizionalità individuale e storica di ogni pensamento del concetto ossia di ogni definizione (condizionalità donde si origina il dubbio, il problema, la domanda a cui la definizione risponde), si deve ammettere altresì che la definizione, la quale contiene la risposta e afferma il concetto, nel fare ciò illumini insieme quella condizionalità individuale e storica, quel gruppo di fatti da cui essa sorge. Lo illumina, ossia lo qualifica per quel che è, lo apprende come soggetto dandogli un predicato, lo giudica; e poiché il fatto è sempre individuale, forma un giudizio individuale; ossia ogni definizione è insieme giudizio individuale. […] l’atto logico, il pensamento del concetto puro, è unico, ed è identità di definizione e giudizio individuale” (Ib., p. 138).
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alla rappresentazione empirica e consegue il piano della pura comprensione e intelligenza logica. L’intera costruzione crociana della teoria dell’identità di giudizio definitorio e giudizio particolare (o storico) è protesa a dimostrare come il pensiero si eleva via via dal piano della rappresentazione e dell’intuizione empirica alla sfera della comprensione concettuale. In realtà tale comprensione non riguarda i concetti puri nella loro universalità astratta e immobile, bensì le modalità secondo cui i concetti puri tornano a compenetrare la vita delle rappresentazioni e delle intuizione, per trasfigurarle e condurle sul piano dell’intelligenza logica e razionale. Lo scopo è la conoscenza del particolare, la piena intelligenza di ciò che prima è oggetto di intuizione, di rappresentazione empirica, di impressione emotiva. Croce si propone di indicare la via della piena comprensione intellettuale come forma di conoscenza che, in definitiva, riguarda e comprende ogni forma di esperienza umana. “L’espressione rappresentazione in cui vive il concetto […] – avverte Croce – è una nuova rappresentazione, condizionata dal concetto”.64 I dati della vita emotiva, della percezione, insomma dell’esperienza più o meno immediata, sono mediati e trasfigurati dall’applicazione dei concetti puri, cioè dallo sviluppo dell’attività logico-razionale.65 In questo senso, mentre, ad esempio, in Hegel la vita del concetto è mantenuta nella sfera dell’assoluta intelligenza logica, in Croce è fatta circolare nel complesso piano dell’esperienza.66 La peculiarità dell’intera concezione crociana, configurata come storicismo assoluto, consiste in questa identificazione del pensiero (della conoscenza razionale e concettuale) col giudizio storico. La conoscenza concettuale riguarda non un universo logico-metafisico in sé chiuso e dominato da una dialettica propria, bensì riguarda il mondo multiforme dell’esperienza storica.67 64
Ib., p. 93. Ecco un esempio in cui Croce espone efficacemente questo processo della mediazione: “Poniamo che io mi trovi in uno stato d’animo, che mi riesca cantare o verseggiare o rendere oggettivo innanzi a me, ma oggettivo appunto come un fantasma, in modo che non saprei dire, nel momento di quell’effusione poetica e musicale, che cosa avvenga realmente in me, se io vegli o sogni, se veda o intraveda o traveda. Quando dalla varietà di quella o delle altre rappresentazioni che vi si congiungono, passo a domandarmi la verità di tutte esse e salgo al concetto, quelle rappresentazioni stesse, in forza del concetto raggiunto, sono rivedute bensì, ma non più con gli occhi di prima, ma. Ormai, pensate. Così quel mio stato d’animo si determina logicamente, e io sarò in grado di dire: ‘Ciò che ho sentito (e cantato e poetato) era un desiderio assurdo; era un cozzo di tendenze diverse, che doveva essere superato e composto; era un rimorso; era un alto proposito’, e via esemplificando. In forza del concetto si fa, insomma, di quelle rappresentazioni un giudizio”. 66 Perciò è stato opportunamente osservato: “Hegel impostava il problema della sua logica sul piano metafisico e da questo punto di vista guardava la realtà come processo e sviluppo, costruendo il suo sistema col metodo dialettico dell’opposizione. Ma la sintesi hegeliana, presupponendosi a priori agli opposti, veri e reali solo in essa, finiva coll’immobilizzare il preteso divenire e col riassumere tutta la realtà nel momento culminante dello spirito assoluto, nella filosofia; e la logica hegeliana era pur sempre una fase astratta del reale, contenendo le forme pure della natura e dello spirito, non la natura e lo spirito nella loro pulsante realtà: sia pure in un senso tutto particolare, il concetto hegeliano rimaneva tuttora astratto. – Chi seppe trasformare l’astratto logicismo hegeliano nel senso vivo e profondo della storia come irripetibile accrescimento e sviluppo dello spirito nella circolarità inesauribile delle sue forme, fu B. Croce, il quale sostituì al metodo artificioso e in fondo dommatico dell’opposizione la distinzione e intese il concetto non più come mera generalità e astrazione, ma come l’universale veramente universale, e cioè come concetto puro, ultrarappresentativo e insieme onnirappresnetativo.” (C. Carbonara, v. Concetto, in Enciclopedia Filosofica, Firenze 1957, vol. I, col. 1149). E giustamente si fa risalire a Bertrando Spaventa (alla sua originale e interessante interpretazione dell’hegelismo) un tale processo di riforma della concezione logica hegeliana: “A richiamare la dialettica dello hegelismo dal piano metafisico a quello umano, facendone una dialettica non più ontologica ma del pensiero umano in generale, fu B. Spaventa, la cui riforma della dialettica hegeliana, ripensata da G. Gentile, portò all’attualismo. Qui [nell’attualismo], se pur si ritorna al dommatismo triadico e si irrigidisce, in certo senso, il sistema del sapere, si coglie tuttavia l’effettiva concretezza dello spirito, in un momento di autoriflessione, in cui la coscienza si fa autocoscienza, il concetto autoconcetto e cioè ‘pensamento della verità che si costituisce nell’atto stesso del pensiero che pensa’ (Gentile, Logica, III, 8, 1). Il pensiero e il mondo si unificano, a priori, nell’atto stesso del pensiero, che è sintesi, come realtà di se stesso e dell’altro, ed è categoria come autocoscienza che si risolve nelle infinite categorie della coscienza, ossia negli infiniti concetti con cui si pensa il reale nelle sue determinazioni concrete (cfr.: Teoria generale dello Spirito, 18, 11)” (Ib.). 67 “La formola crociana del giudizio può apparire ovvia e innocente, ché sempre si è saputo, per lo meno da Aristotele in poi, che il pensiero è giudizio, unità di soggetto particolare e di predicato universale. Ma, pensata con rigore nelle sue 65
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Croce ha elaborato, pertanto, una logica per la conoscenza storica. In questo senso ha portato a compimento il disegno vichiano di una metafisica dei fatti storici. Tali fatti non sono semplicemente certificati, cioè verificati e descritti nei loro aspetti fenomenici, ma sono compresi nel loro significato, cioè in quanto esprimono e realizzano le forme della vita dello spirito, in quanto sono fatti estetici (artistici), scientifici, morali, politici, religiosi e così via. Ogni fatto è rivelato nella sua struttura e costituzione interna, in quanto significativo dello sviluppo storico nel suo complesso. La storia viene elevata al piano della pura comprensione concettuale.68 L’altro elemento fondamentale del “sistema” criociano è la teoria della distinzione delle forme dello spirito. Si tratta di un motivo strettamente unito all’altro che abbiamo visto: infatti il giudizio storico si sviluppa proprio in riferimento alla definizione del fatto storico in relazione alla distinzione nelle grandi categorie della vita spirituale. Il giudizio storico non può essere che distinzione e valutazione. E la distinzione non può avvenire che in riferimento a categorie generali. I fatti storici vengono compresi in quanto espressioni della vita spirituale, articolata come attività conoscitiva logico-concettuale o come intuizione artistica, per quanto riguarda la sfera conoscitiva, e come attività etica (rivolta unicamente al perseguimento del bene e alla realizzazione della natura umana) o attività economica (rivolta al perseguimento dell’utile). Ognuna di queste sfere della vita spirituale è autonoma nei suoi principi e nelle forme del suo svolgimento, anche se ognuna fa parte di un processo circolare in cui tutte vivono e si compenetrano, interagendo le une con le altre. Ogni fatto storico è espressione di qualcuna di queste sfere spirituali e, insieme, riflette i modi in cui tutte interagiscono in una fondamentale unità della vita spirituale. La filosofia riguarda la vita delle forme spirituale, in quanto attuata ed espressa nei determinati “fatti”. E la vita spirituale è, in definitiva, quella stessa dell’umanità, anche se, in qualche modo, la trascende. Si può dire, infatti, che l’uomo è espressione dello spirito, e non viceversa. Lo “storicismo assoluto” si configura come un assoluto umanismo.69 L’uomo assume la funzione di termine essenziale di riferimento per la stessa realtà dello spirito. La storia, infatti, è l’attività della “mente umana” sul fondamento di una realtà o struttura spirituale originaria (la cui assolutezza, tuttavia, consiste nella relazione).70 La conoscenza storica si risolve, per Croce, in intera conoscenza dell’umanità. Questa conoscenza non si limita ai fatti già accaduti ma coinvolge e riguarda l’intero corso dell’accadere storico, dunque anche gli elementi progettuali in base ai quali si producono gli eventi futuri. La produzione spirituale non riguarda conseguenze, essa si rivela paradossale e rivoluzionaria. Terra e cielo, mondo storico della varietà, della novità, del divenire, e regno degli eterni ed assoluti valori coincidono. Finito ed infinito cessano d’esser separati. Cade ogni possibilità di dualismo, di metafisica, di trascendente teologia, ma cade altresì ogni possibilità d’una conoscenza d’una realtà in sé, esterna, d’una natura diversa dallo spirito, ché il pensiero non può essere che la conoscenza dei concreti fatti storici, e quindi l’unica realtà concepibile è la storia” (C. Antoni, Commento a Croce, Venezia 1955, p. 113). 68 “Questa riduzione del conoscibile alla mera storia umana può sembrare un’insopportabile limitazione. In realtà Croce ha compiuto un’enorme liberazione, ché, eliminando ogni trascendenza, ha aperto la via ad intendere l’infinita spontaneità, creatività, libertà della storia e l’ha redenta da ogni condanna, riconoscendole un positivo valore, anzi l’unico valore realizzabile. La ‘logica della filosofia’ già di per sé trasporta dalla teoria alla vita, in quanto si rivela una logica della storiografia, anzi la prima vera e propria logica della storiografia che mai sia stata. – Nella millenaria storia della logica il soggetto del giudizio non era mai stato identificato con la concreta individualità del fatto storico. La storia era collocata fuori dalla sfera razionale e quindi dalla scienza. Era considerata racconto, memoria, rievocazione letteraria, non dominio del pensiero. Hegel si era bensì proposto d’intendere la razionalità della storia, ma i momenti stessi, che egli cercava di determinare, non erano i fatti ‘empirici’, per i quali aveva un sommo disprezzo, ma concetti. Vico solo aveva volto il suo sguardo con mente filosofica verso questo basso mondo dell’impurità, dell’arbitrio e dell’accidentalità e aveva trovato che esso era il solo mondo intelligibile. La conversione vichiana del vero e del certo diventa il giudizio storico crociano” (Ib., p. 114). 69 “Ne è risultato un nuovo umanesimo, che celebra l’uomo e le sue opere nel mondo in senso, per dir così, integrale, in quanto è la logica stessa del giudizio storico, che non consente di giustificare il pensamento d’un ordine trascendente” (Ib., p. 115). 70 “Col suo storicismo Croce ha semplicemente negato una teologia, che pretenda definire Dio senza il mondo. Ma la sua negazione colpisce anche un’antropologia, che pretenda definire l’uomo per sé stesso. Se si annulla il rapporto, si ha lo schiacciamento dei due termini, che spariscono entrambi nel nulla, nell’assenza di pensiero, che è il congiungimento mistico” (Ib., p. 118).
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solo l’“essere” ma anche il “dover-essere” e il “poter-essere”, le possibilità che si aprono all’esperienza umana e le prospettive di realizzazione continua di sé.71 La teoria del giudizio costituisce il nucleo della crociana “filosofia dello spirito”. Le forme universali della vita spirituale sono di due tipi: teoretico e pratico. Innanzitutto lo spirito è consapevolezza di sé. Affermare come principio della realtà lo spirito vuol dire ammettere all’origine della realtà stessa il principio dell’autoconsapevolezza. Il pensiero umano è espressione di questa coscienza fondamentale. In questo pensiero l’atteggiamento teoretico rappresenta un’istanza originaria: esso si esprime nella molteplice attitudine a fondare la conoscenza. Croce distingue la conoscenza intuitiva, attraverso l’immagine, e la conoscenza concettuale, espressa attraverso i giudizi. L’arte comprende le forme non concettuali in cui lo spirito esprime e rappresenta se stesso. Il contenuto dell’arte si viene configurando variamente, anche in relazione alle diverse tappe dell’itinerario estetico crociano. Nella prima Estetica il contenuto è costituito da immagini sensibili, da impressioni dei sensi, ai quali viene attribuito un significato simbolico. Nella terza edizione del 1907 il contenuto è individuato nel sentimento. Una tonalità spirituale, riferita all’intuizione di una forma universale dello spirito, viene tradotta in espressione compiuta. La specifica forma del sentimento consente la piena rappresentazione in immagine. Nel Breviario di Estetica, così, Croce giunge alla definizione dell’arte come sintesi a priori di intuizione e di espressione, cioè come “intuizione lirica”. Un particolare sentimento intenso, in cui si rivela un significato della vita spirituale, si fissa in un’immagine (il desiderio della serenità spirituale nell’immagine di una montagna coperta di neve); e l’arte consiste nel tradurre interamente quell’immagine che contiene in sé quel determinato sentimento. Nel 1917 il contenuto acquista l’ampiezza del senso cosmico. Nell’Aesthetica in nuce, del 1929, l’arte diventa espressione del senso della vita cosmica, del dramma morale del mondo: come ha osservato l’Attisani, il momento estetico acquista un respiro metafisico.72 L’estetica, dunque, è la disciplina filosofica che si viene articolando in rapporto a una sempre più vasta visione della funzione universale, umana e storica, dell’arte.73
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“Infatti il giudizio non è soltanto l’atto con cui il predicato universale proietta la sua luce sul singolo soggetto, ma è anche l’atto con cui il predicato si accende e illumina, si definisce e acquista coscienza di sé, e non soltanto come singola categoria, ma come totale struttura dello spirito. E’ autocoscienza, che afferma la realtà del soggetto proprio in quanto afferma la propria realtà. E mentre proclama il valore del singolo soggetto nella sua concretezza storica, il giudizio proclama nello stesso tempo il valore infinito, fuori del tempo, assoluto, dell’universale predicato. Di fronte quindi all’essere rappresentato dalla storicità del soggetto, si erge, con la sua sovrana autorità, il dover essere del predicato. Il predicato è l’ideale, che mai si esaurisce e conclude nella finitezza storica, ma, per così dire, la trascende con la sua infinità. Perciò lo stesso giudizio storico, pur constatando la positività del soggetto, postula un’integrazione, un avanzamento, un progresso: afferma che la vita non finisce nel soggetto, ma che è aperta la via verso l’infinito, e questo infinito urge e chiede d’essere ulteriormente realizzato. – Quindi quella struttura dello spirito, che si è rivelata nel predicato del giudizio storico, diventa l’ideale da realizzare, la norma della successiva produzione. Il giudizio storico, insomma, non si limita a contemplare la situazione su cui sorge l’azione, ma fornisce la luce anche all’azione” (Ib., pp. 122-123). 72 “L’arte diventa così un simbolo o mito della dialettica di vitalità ed eticità.” (Ib., p. 162). 73 “La linea dello sviluppo dell’estetica crociana volge a vantaggio del contenuto. Da mera sensazione, cioè da mero fatto psichico, esso si spiritualizza come sentimento, conferendo all’arte la nota ad essa essenziale della liricità; da sentimento, fatto ancora psicologico, si eleva a senso cosmico, in cui è il Tutto che palpita e conferisce all’opera d’arte il respiro della cosmicità; raccoglie quindi in sé aneliti verso l’infinito e l’eterno, dando all’arte uno slancio quasi religioso; si configura poi come ‘forte’ personalità morale ed infine è la dialettica, dramma e catarsi, di pathos ed ethos. Si potrebbe dire che, lungo la strada, le parti si siano scambiate e che l’iniziativa sia passata al contenuto, che è ormai la vita stessa dell’uomo, che ‘rivela’ e ‘svela’ il suo dramma, si ‘ritrae’ in una immagine ed in essa si contempla e placa” (Ib., p. 163).
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Interpretazioni di Croce Un diverso modo d’intendere l’unità dello spirito sta alla radice del polemico disaccordo tra Croce e Gentile. Per Gentile, “non c’è forma di pensiero […] che non sia essa stessa filosofia”, poiché “lo spirito che vuole è pur lo spirito che pensa. Onde un concetto dev’essere pure alla base di ogni atto di volontà”. Il pensiero filosofico (concettuale), per Gentile, permea ogni atto spirituale; per cui Croce vi ravvisava una notevole traccia di “panlogismo”. Nello stesso tempo, vi si poteva rinvenire un motivo di “paneticismo”, dato che lo sviluppo spirituale appare basato essenzialmente sul continuo farsi “attuale” della norma interiore che fa parte costitutiva della spiritualità. Nella prospettiva gentiliana andavano risolvendosi tutte le distinzioni crociane: così, ad esempio, si profilavano le tesi dell’identità di linguaggio e poesia e dell’unità sintetica di forma e contenuto. Negli anni quaranta, in particolare, allorché si diffonde in Italia la conoscenza dell’esistenzialismo, assistiamo al tramonto dell’idealismo. Il fenomeno si consolida poi nel periodo successivo, in concomitanza con l’affermazione di correnti diverse, come la fenomenologia, la filosofia analitica, lo strutturalismo, il marxismo, il neoilluminismo. Tuttavia l’interesse per lo storicismo rimaneva uno degli aspetti tipici di quel clima culturale. In quel periodo si registrano notevoli contributi all’interpretazione dello storicismo crociano: sono quelli di Dario Faucci, Mario Corsi, Guido Calogero,74 Ugo Spirito,75 Galvano Della Volpe,76 Carlo Antoni,77 Adelchi Attisani, Raffaello Franchini.78 74
Il Calogero ha messo in rilievo, tra l’altro, il rapporto tra economia ed etica, l’una espressione della volizione del particolare e l’altra della volizione dell’universale, dunque l’una propria dell’attività dell’individuo che agisce per perseguire uno scopo particolare e suo proprio e l’altra, invece, riferita allo stesso soggetto individuale in quanto si pone dal punto di vista della totalità spirituale, cioè dell’umanità intera o della comunità alla quale egli appartiene, per conseguire fini universali. Stabilire un accordo tra queste due opposte istanze sembra oltremodo difficoltoso. Infatti il problema viene ad assumere quest’altra configurazione: oltre al soggetto individuale, quale altro soggetto (universale, metafisico) si deve ammettere dal punto di vista dell’idealismo? In realtà e a rigore, come avverte il Calogero, “il problema non può evidentemente esser risolto che nel senso dell’assoluta esclusione di qualsiasi Soggetto o Spirito che non coincida col soggetto o spirito che in atto si realizza” (G. Calogero, Economia ed etica, in G. Calogero, D. Petrini, Studi crociani, Bibliotheca editrice, Rieti 1930, p. 44). Dunque la prospettiva economicistica, che considera l’individuo nella sua irriducibile soggettività, esclude la stessa etica, che, invece, dovrebbe riguardare un soggetto in realtà inammissibile. Calogero osserva che di fatto l’individuo è in rapporto con altri individui ed è questa dimensione quella in cui si sviluppa il punto di vista etico dell’universalità. A rigore sembra che non possa svilupparsi che la sfera economica, che è quella che si riferisce agli individui reali; e tale sfera non ammette che atti rivolti unicamente a scopi particolari. Non solo, ma in tale prospettiva gli “altri” assumono l’aspetto di “cose”, entità considerate in rapporto al soddisfacimento dei bisogni soggettivi. “Se le persone dei miei simili le considero in quel solo aspetto, nel quale vedo tutti gli altri oggetti della mia conoscenza, non posso sentire di fronte ad esse alcuno di quei doveri morali, che qui è questione d’intendere. Di fronte a un mondo tutto fatto di cose, non si vede che dovere possa sorgere, fuori di quello, immediatamente economico, di viverne” (op. cit., p. 46). “L’aporia – osserva il Calogero – sembra quindi si possa risolvere soltanto in un modo. Se, nel mio mondo di soli oggetti, non c’è posto per la mia esigenza morale, e un mondo di soggetti, esistenzialmente conosciuti come gli oggetti, non ci può essere, non resta altra via che quella di riconoscere il principio morale appunto in questa stessa esigenza, e cioè nella mia volontà di considerare le persone dei miei ‘simili’ come reali soggetti, che siano anch’essi assoluta ed universale volontà cosciente”. In definitiva qui è espresso il principio del dialogo tra le individualità come fondamento dell’etica. Senza lo sviluppo di tale principio, gli individui rimangono legati all’interesse particolare e non sono in grado di superarlo. Si deve notare, tuttavia, che, restando ferma la validità della proposta etica del Calogero, nella prospettiva crociana i diversi momenti della vita spirituale (e dunque, in primo luogo, l’economico e l’etico) non sono rigidamente separati e chiusi ognuno nella sua sfera tipica ma confluiscono tutti in un processo unitario, influenzandosi e compenetrandosi reciprocamente. 75 Le difficoltà del rapporto tra sfera economica ed etica si ripropongono a proposito del problema della responsabilità individuale. Dal punto di vista economico, l’individuo non può essere responsabile di fronte alla società e il rapporto tra queste due dimensioni spirituali non può avere che un carattere estrinseco, come quello basato sul criterio del premio e della punizione. “Il vero problema etico – osserva Ugo Spirito – è invece quello che ha la sua unica radice nella coscienza dell’individuo e che prescinde da ogni fattore estrinseco all’individuo stesso. E’ quello, insomma, per cui il colpevole si sente responsabile e non si sente fatto responsabile” (Ugo Spirito, L’idealismo italiano e i suoi critici, Le Monnier, Firenze 1931, p. 37). La responsabilità, per Croce, rimane un fatto esteriore, riconducibile all’arbitrio della
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società o alla volontà del soggetto stesso che riesce a considerare l’interna incoerenza delle sue azioni. “L’uomo, in altri termini, è un irresponsabile: se si crede responsabile, è perché tale lo fa la società o si fa da se stesso. Ma appunto perché in effetti la responsabilità non esiste, quando la si afferma, la si afferma con un atto d’arbitrio. E l’arbitrio può essere o della società, che senza ‘udire ragioni’, ossia irragionevolmente, ci dichiara responsabili, o di noi stessi, che con altrettanta irragionevolezza ci dichiariamo spontaneamente tali. Con altrettanta irragionevolezza, anzi ancora più irragionevolmente, poiché se la società ha in certo modo ragione, per i suoi scopi pratici, di essere irragionevole, l’individuo, invece, che sia veramente convinto dell’irragionevolezza del suo dichiararsi responsabile, non può continuare a ritenersi tale neppure ai fini pratici della sua vita: la coscienza della sua irresponsabilità non può non investire tutta la sua attività pratica. Al Croce, naturalmente, tutta la contraddizione della sua teoria non può apparire. Egli pone un tale distacco tra teoria e pratica, che per lui riesce niente affatto inconcepibile un individuo, il quale, veramente convinto di una cosa, si dimentichi di essa al momento di agire e torni a ricordarla dopo la sua azione, e così via, sempre frantumando la sua vita in tanti atti diversi, che non possono in nessun modo legarsi tra di loro e che anzi si escludono a vicenda. Il ritenersi responsabile, viene a dire, in conclusione, il Croce, è assurdo, ma, per chi non conosce questa assurdità, è utile: dunque, anche chi la conosce è bene che agisca come se non la conoscesse, tranne poi ad affermarla in sede filosofica. L’intima incoerenza della conclusione, in cui va a sboccare il pensiero del Croce, conferma l’osservazione già fatta del carattere in parte deterministico e in parte arbitraristico del suo concetto di libertà. Dove cessa il determinismo comincia l’arbitrio, e mai sorge la libertà vera e quindi la vera vita etica” (op. cit., pp. 4748). 76 Galvano Della Volpe ha, in particolare, condotto una critica radicale della teoria estetica del Croce. Egli, ripercorrendo lo sviluppo dell’estetica crociana, ha osservato come questa sia partita da un’esigenza kantiana di rivalutazione della sfera del sentimento come facoltà della conoscenza intuitiva e sia, infine, approdata al recupero (o alla riproposizione) della concezione romantica della “totalità” e “cosmicità” dell’arte. In questo sbocco si può vedere lo stesso dissolversi della specificità del bello artistico e, quindi, della peculiarità propria dell’opera d’arte. Questa, in realtà, viene a confondersi con le altre manifestazioni della bellezza. Nella prima fase, invece, il limite consiste nel presupposto del doppio sentimento, quello puro, proprio dell’ispirazione artistica, e quello impuro o pratico, come impulso ad agire. In questo modo si consuma il totale divorzio tra arte e vita e la sfera artistica si caratterizza come ambito della pura contemplazione estetica, nella quale il soggetto si distacca da ogni impulso vitale, dimentica i problemi e gli aspetti della vita quotidiana e si astrae in un mondo ideale. Nella fase conclusiva della sua estetica, Croce accentua ancora di più questo distacco, ponendo l’arte come una dimensione privilegiata rispetto alla stessa filosofia, in quanto la sola idonea a trasportare il soggetto nel mondo della pura universalità cosmica. Croce osserva che la poesia attribuisce a concetti e sentimenti e a tutta la realtà di cui essi fanno parte una “impronta umana e onnilaterale”, liberandoli dall’“impronta storica e unilaterale” (Cfr. La poesia, pp. 185, 84). Osserva a questo proposito il critico: “Non ci stupiremo di riscoprire in queste crociane ‘immagini puramente ideali’ quelle hegeliane ‘figure spirituali’ che costituiscono il ‘sereno’ regno dell’Ideale, quel regno di ‘ombre’, tanto lontano dalla ‘prosa mondana’ di ogni giorno, dalla ‘fatica’, dall’‘interesse’, dal ‘bisogno’, dalla ‘serietà della vita’. Non ci stupiremo in quanto il residuo invincibile platonismo ricollega l’epigono italiano al Maestro tedesco, in questo conclusivo atteggiamento romantico, appunto: in questa persuasione che l’arte sia assente dal mondo degli interessi quotidiani, dalla fatica e dal lavoro; dal mondo dell’intelletto insomma” (G. Della Volpe, Critica dell’estetica romantica e altri saggi, Samonà e Savelli, Roma 1963, pp. 16-20; originariamente Crisi critica dell’estetica romantica, 1940). “Restiamo, così, al divorzio di arte e vita […]; a una filosofia teologica […]; a una teologia, moderna, dell’Idea […]” (ib.). Evidentemente l’arte non può essere una totale fuga dalla realtà e dalla storia. D’altra parte bisogna tenere conto che lo stesso artista vive nel suo tempo e risente degli influssi molteplici del contesto storico, oltre che essere portato a misurarsi continuamente con la “materia” e gli strumenti (primo tra tutti il linguaggio) dell’arte. Nella prospettiva del Della Volpe (di una estetica materialistica) questi elementi e questi fattori sono tenuti presenti. Sull’estetica crociana più recentemente sono stati espressi motivi di analisi più particolareggiata studiosi come Rosario Assunto (che ha considerato specialmente la connessione dell’estetica con l’intero pensiero crociano), Guido Morpugo Tagliabue (che ha rilevato i rapporti e le corrispondenze tra la concezione dell’arte come intuizione lirica e le poetiche dei grandi lirici italiani ed europei dell’età del decadentismo e dell’ermetismo), Gianfranco Contini (che ha analizzato l’influsso di Croce sullo sviluppo della letteratura), Tullio De Mauro (che ha messo in rilievo le affinità tra la teoria crociana del linguaggio e le concezioni di De Saussure e Wittgenstein). 77 Carlo Antoni ha messo in rilievo il nesso individuo/universale nel pensiero di Croce. Il reale è individuale, ma nell’individuale vive un universale (nel singolo uomo vive l’umanità intera). In ciò consiste la fondamentale eticità, di cui la vita dell’uomo è espressione, mentre essa medesima è il prodotto di questa. “La filosofia crociana dello spirito, che ammette soltanto la conoscenza storica, si vieta di oltrepassare i limiti del mondo umano e storico, ma vede attorno
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Più recentemente lo storicismo crociano è stato oggetto di attenta analisi per opera di Gennaro Sasso,79 Gaetano Calabrò, Alfredo Parente,80 Adriano Bausola,81 Nicola Abbagnano.82 a questa ristretta sfera l’‘ombra del mistero’. […] Nello spirito umano, però, il dovere della vitalità di promuovere e difendere nella propria individualità il dono dell’universale, è trasceso dalla diretta consapevolezza dell’universale, che si fa eticità, dovere di promuovere e difendere quel valore in ogni singola vita. […] Spiegare la ragione dell’esistenza dei due termini e del nesso, che li unisce e divide, è impossibile, perché sarebbe un andare al di là dell’atto del pensiero stesso. L’uomo non potrà mai risolvere il problema della propria esistenza e individualità, che tuttavia lo assilla. Ma è proprio questo assillo che, spingendolo a penetrare sempre più a fondo in se stesso, dà movimento e senso alla sua storia” (C. Antoni, Commento a Croce, Neri Pozza, Venezia 1955, pp. 238-41). 78 Sono notevoli gli studi del Franchini sulla teoria crociana della conoscenza. Ad esempio, assumono un valore di vera e propria “scoperta” le osservazioni su quella forma di conoscenza che riguarda l’operare pratico e che è connessa con l’agire. Nelle prime pagine della Filosofia della pratica, Croce osserva che l’azione sorge e si sviluppa sulla base di un tipo particolare di conoscenza, che è diverso da quelli di carattere teoretico, relativi all’arte e alla filosofia. Questa conoscenza si può valutare come percettiva, in quanto corrisponde a una specie di intuizione fondata sull’esperienza. Croce assimila questa conoscenza al colpo d’occhio di chi ha una particolare sensibilità storico-politica, cioè dell’uomo d’azione. Il Franchini spiega come questa terza forma di conoscenza diventerà in seguito un aspetto del giudizio storico e precisamente quel modo di riferirsi del giudizio medesimo al futuro (piuttosto che al passato), cioè a una situazione in svolgimento. La distinzione tra i due aspetti del giudizio può essere assimilata a quella tra azione e accadimento: quest’ultimo è oggetto di giudizio storico, mentre la prima può essere considerata solo prospetticamente in rapporto ai suoi esiti possibili. Croce precisa che “la volizione coincide con l’azione, ma non già con l’accadimento” (Filosofia della pratica. Economica ed Etica, Laterza, Bari 1963, p. 52). “Il che significa – spiega lo stesso Croce – che noi possiamo inserirci in una situazione in sviluppo, conoscerla con la percezione e concorrere a modificarla anche in larga o larghissima misura, ma non determinarla in tutto e per tutto [...]. [Infatti] la volizione dell’individuo è come il contributo ch’esso reca alla volizione di tutti gli altri enti dell’universo; […] e l’accadimento è l’insieme di tutte le volizioni, è la risposta a tutte le proposte”. In rapporto a tale questione, il Croce ha avvertito: “La Storia è l’accadimento, il quale […] non si giudica praticamente, perché trascende sempre i punti di vista particolari, che soli rendono possibile l’applicazione del giudizio pratico. Il giudizio della Storia è il fatto stesso della sua esistenza: la razionalità sua è la sua realtà. Questa trama storica, la quale è e non è l’opera degli individui, è l’opera dello spirito universale, del quale gli individui sono manifestazioni e strumenti” (op. cit., p. 173). Sull’interpretazione di questo giudizio crociano il Franchini apporta alcune considerazioni che concorrono a riportarlo al suo significato intenzionale, sgombrando il terreno dai critici che hanno gridato allo scandalo. Infatti, “qui il Croce intende semplicemente ribadire, in maniera, se si vuole, fortemente polemica, il concetto già poche pagine prima asserito, che l’azione non può a nessun patto venir confusa con l’accadimento, nell’universalità del quale le singole proposte o, che è lo stesso, le proposte dei singoli scompaiono per dar luogo a una formazione storica la cui complessità o totalità va oltre il contributo ad esso recato dagli individui. [In questo senso] gli individui, come si è accennato, sono le componenti di una totalità e solo in questa accezione è lecito se non debito parlare di una loro sottomissione all’universale, il quale non potrebbe, per il principio stesso della dialettica, attuarsi senza gli individui” (R. Franchini, La teoria della storia di Benedetto Croce, Morano, Napoli 1966, pp. 59-66). Una questione analoga riguarda il rapporto tra l’artista e la sua opera. Per Croce l’artista si risolve nell’opera che produce, fino al punto che risulta insignificante cercare la personalità dell’artista su un piano di autonomia della persona e indipendentemente dalle opere. “Le intimità individue, – ha scritto a questo proposito Croce - di cui si vorrebbe apprendere il carattere proprio, singolare e originale, non sono conoscibili perché non sussistono, cioè sussistono solo come opere e non come individualità per sé stanti” (B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, p. 131). Questo carattere impersonale dell’arte è stato rilevato dal Pareyson: “In questo senso, parlare di rapporti fra arte e persona è fuori luogo, perché la personalità estetica e poetica si riduce senza residuo alla concreta opera d’arte, la quale sola esiste e dalla quale soltanto è possibile definire la stessa personalità. Se si pensa, poi, che le opere sono sempre dello spirito, opere ‘create dallo spirito che è tutto in ciascuna di esse e non delega ad altri il suo potere’, ne risulterà che, per un altro verso, l’opera è sempre impersonale o sovrapersonale, sì che la teoria della personalità dell’opera coincide con quella della sua impersonalità. Se la concretezza vivente dello spirito consiste nell’unità di individuale e universale, si dovrà concludere che la personalità è l’individualità dell’opera nella quale vive l’universalità dello spirito. Dal che risulterebbe ancor più fondato il sospetto che voler indagare i rapporti fra arte e persona sia impresa priva di senso” (L. Pareyson, Teoria dell’arte. Saggi di estetica, Marzorati, Milano 1963, p. 10). 79 Gennaro Sasso ha specialmente rilevato la vitalità e l’attualità dello storicismo crociano, considerato non solo nelle sue componenti teoriche fondamentali ma anche nel suo svolgimento, fino alla rivalutazione della categoria della vitalità e della sua portata nei confronti di un equilibrio spirituale supposto ottimisticamente come costante. In questo
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Heidegger e la cultura dell’idealismo (Cfr. Caterina Resta, Heidegger e la cultura dell’idealismo italiano (1927-1947), in AA. VV., Itinerari dell’idealismo italiano, a cura di G: Cotroneo, Giannini, Napoli 1989, pp. 129-149) Il confronto dei filosofi e degli studiosi italiani che gravitavano nell’area dell’idealismo con il pensiero di Heidegger ha riguardato specialmente l’analitica esistenziale sviluppata in Essere e tempo e non tanto le tematiche successive alla famosa “svolta” heideggeriana intervenuta a partire da L’essenza della verità (1930), anche se, dopo la Lettera sull’umanesimo del 1947, si è avvertita l’esigenza di una interpretazione globale.83 Intorno agli anni ’30 il panorama della cultura filosofica in Italia era dominato si può dire quasi interamente dall’attualismo e dalle sue ramificazioni. E in realtà questa costellazione filosofica (come la si può chiamare, data la sua articolazione complessa, dovuta ai diversi orientamenti ai quali l’attualismo aveva dato luogo, con motivi che insistevano specialmente sull’esigenza di recupero della dimensione personale – e dunque anche “esistenziale” - del soggetto umano, troppo assorbito, e quasi dissolto, nella corrente dello svolgimento spirituale) si trovava in uno stato di interna tensione da richiamare verso di sé istanze interpretative collegate con le tematiche dell’analitica esistenziale e, dunque specialmente, con la riflessione intorno al posto e al ruolo del soggetto umano nel mondo. In tale situazione e in rapporto alla stessa struttura storica che era venuto assumendo l’attualismo, sono maturate interpretazioni differenziate dell’“esistenzialismo” heideggeriano. In primo luogo troviamo il tentativo condotto avanti da Ernesto Grassi di una trascrizione di quella filosofia in termini attualistici; l’altra lettura di una certa consistenza era quella compiuta dagli spiritualisti di formazione gentiliana (Carlini, Guzzo, Stefanini, Battaglia), che cercavano di mettere in rilievo la tensione etico-religiosa sottesa alla estrema accentuazione della finitezza dell’esistenza e rivolta a superare quella tendenza nichilistica, che appariva specialmente nella definizione heideggeriana dell’uomo come essere-per-la-morte; una terza via interpretativa era quella proposta dai sostenitori di un “esistenzialismo positivo” (Abbagnano e Paci); un altro tentativo di recupero era quello compiuto dai filosofi neoscolastici (Vanni Rovighi, Mazzantini, Fabro), che sviluppavano significativi elementi di confronto con le istanze del realismo tomista; infine c’era il gruppo di coloro che rifiutavano l’intera problematica esistenzialistica, definendola estrema espressione della crisi della razionalità (dunque della stessa filosofia) e, generalmente, come la punta teorica del generale irrazionalismo imperversante nella cultura del tempo. senso Gaetano Calabrò ha considerato una certa drammaticità del problema del male nell’ultimo Croce. Anche Augusto Guerra ha rilevato il senso realistico e tragico della storia; e il Roggerone ha visto in Croce una fondamentale opposizione esistenziale tra positività e negatività del vero. Francesco Capanna ha esaminato, su questa linea, il significato della religione, del mito e della fede tra filosofia della conoscenza e filosofia della pratica. 80 Il Parente ha sottolineato con energia l’interna coerenza del pensiero crociano e ha insistito sul motivo della “circolarità”, che, del resto, è l’elemento fondamentale della struttura unitaria di esso. 81 Il Bausola nei due volumi dedicati a Croce compie una analisi accurata dei problemi, a cominciare dalla logica fino al concetto di storia e al rapporto tra economia ed etica, riportando, per ogni questione, le principali interpretazioni critiche. 82 L’Abbagnano, al contrario, mette in rilievo i persistenti motivi “metafisici”, che contrasterebbero col fondamentale storicismo. In modo analogo si sono orientati Pietro Rossi, Stelio Zeppi, Vincenzo Vitiello (un discepolo di Carbonara). Francesco Valentini ha imputato questo limite alla fondamentale influenza della dialettica hegeliana, riformata in senso dogmatico (tanto che parla di una “controriforma” sia per Croce che per Gentile; mentre la vera riforma sarebbe il marxiano “rovesciamento della prassi”). Antimo Negri, utilizzando specialmente motivi di Feurbach e di Marx, ha rilevato i limiti delle categorie crociane, piuttosto ipostatizzate in una loro autonomia. 83 In questo senso, come ha osservato il Vattimo, “la vera storia della critica heideggeriana […] comincia in un certo senso solo dopo la seconda guerra mondiale, negli anni cinquanta, quando Essere e tempo non è più l’unica opera, o quasi, a cui gli studiosi possono riferirsi, ma appare nella sua giusta luce come primo passo di un itinerario che si tratta di ricostruire nel suo senso complessivo e nelle sue svolte” (G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, p. 143).
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Nella lettura del Grassi, ad esempio, l’Esserci (“Dasein”) è inteso come “un atto che ha sempre il carattere di soggettività assoluta”, come “fondamentale orizzonte in cui l’essere diventa concreto, come attualità e come tale mai oggetto, cosa”, dunque tale che “non può essere concepito come cosa o esemplare di una specie che sia già dato”.84 L’Esserci, in questo modo, veniva ricondotto al principio del reale come assoluta soggettività, radice della stessa condizione del mondo come espressione del soggetto assoluto nel suo svolgimento.85 Così sembrava che bastasse l’identificazione dell’esistenzialità con l’attualità.86 Così, una delle categorie esistenziali, la Cura (“Sorge”), è interpretata come la radice del divenire, della realtà come svolgimento continuo, come “irrequietezza”.87 La “Cura” è la tensione etica interna all’”Esserci”, la volontà che conduce l’esistenza a un processo di trascendimento continuo, in analogia con ciò che avviene nel soggetto attuale che si afferma e si svolge in un incessante autotrascendimento. Erano, pertanto, evidenti i riscontri tra le due filosofie, sulla base di una fondamentale concezione della realtà come soggettività (dell’Essere nell’Esserci).88 Qui addirittura Heidegger dipenderebbe dall’attualismo e la sua filosofia sarebbe una versione dello stesso idealismo.89 Questa certa affinità dell’esistenzialismo con l’idealismo costituiva, come rileverà poi il Pareyson, il terreno nel quale lo spiritualismo italiano di matrice attualistica andò impadronendosi di motivi propri della filosofia dell’esistenza per potenziare una prospettiva teoretica incentrata sulla dimensione ontologica della persona.90 Il richiamo alla responsabilità personale e il significato di una filosofia incentrata sulla riflessione sulla finitudine dell’esistenza è stato proposto dai rappresentanti dell’”esistenzialismo positivo”, in modo particolare dall’Abbagnano.91
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E. Grassi, Il problema della metafisica immanente di M. Heidegger, in “Giornale critico della filosofia italiana”, 1930, n. 5, p. 298. 85 Il concetto fondamentale rimaneva quello relativo al reale come soggetto, dunque al superamento del tradizionale concetto ontologico (l’essere come tale). Come rilevava ancora il Grassi: “L’essere fondato nell’esistente come originale attualità non è più né un dato empirico, né un termine trascendente, ma è l’esistente che nella sua attualità originaria è processo di autorealizzazione, nel quale l’essere si fa, si determina, assoluta autodeterminazione trascendentale, che nella sua concreta universalità e necessità si impone come realtà metafisica” (Ib., p. 295). 86 “L’esistenzialità in tutti i suoi possibili momenti è intesa così come la realizzazione medesima dell’esistente nella sua concreta attualità” (E. Grassi, Sviluppo e significato della scuola fenomenologica, in “Rivista di filosofia”, 1929, n. 2., p. 147. 87 “L’esistente concepito come atto personale, come l’essere che sono sempre io stesso, è, nella sua essenza, inquietudine esistenziale, ‘Besorgtheit’, un continuo tendere e sforzarsi, ‘Sorge’, di fronte all’insufficienza dei singoli momenti realizzati” (E. Grassi, Il problema della metafisica, cit., p. 300). 88 “Heidegger senza esitazione risolve immanentisticamente questo problema colla chiara coscienza che l’assoluto valore del processo d’esistenza non è, né può essere un termine, cioè, per quanto procrastinato, un oggetto, - ma il processo di autorealizzazione dell’esistente medesimo” (E. Grassi, Il problema della metafisica, cit., p. 301). 89 Perciò il Grassi vedeva l’aspetto più interessante dell’analitica esistenziale nello sforzo di Heidegger “di dare una interpretazione attualistica ed immanentisticamente ontologica agli essenziali fenomeni dell’esistente” (Ib.). 90 “In Italia non è possibile, n fondo, parlare di vera e propria opposizione fra esistenzialismo e idealismo. Anzi, se ben si guardi, non si sarebbe, in Italia, raccolto tanto interesse alla problematica esistenzialistica se il Gentile non avesse preparato con il suo attualismo, quell’atmosfera nella quale soltanto son potuti germinare temi speculativi riconosciuti in seguito come esistenzialistici. La persistenza di saldi presupposti spiritualistici nell’idealismo italiano non solo non permette che l’interesse esistenzialistico si imposti, da noi, su una base antidealistica, ma, anzi lo prepara e lo accoglie, offrendo la garanzia che il problema dell’esistenzialismo può essere più e meglio discusso nel clima filosofico italiano, ricco dell’esperienza attualistica, non altrove” (L. Pareyson, Studi sull’esistenzialismo, Sansoni, Firenze 1950, p. 290). Per le interpretazioni di Heidegger nel campo dello spiritualismo di derivazione attualistica, cfr.: A. Guzzo, Dopo la filosofia dell’esistenza, in “Archivio di filosofia”, 1939, n. 3, p. 175; F. Battaglia, Il problema morale nell’esistenzialismo, Bologna 1949; L. Stefanini, Il dramma filosofico della Germania, Padova 1948; Id., L’esistenzialismo di Heidegger, Padova 1944. 91 Cfr. N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, Milano 1943; E. Paci, Il significato storico dell’esistenzialismo, in “Studi filosofici”, 1941, n. 2; Id., Il nulla e il problema dell’uomo, Torino 1950.
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Il problema dell’essere, che per Heidegger rimane il tema fondamentale del suo pensiero, viene ricondotto dagli interpreti di tendenza neoscolastica all’alveo del realismo, tanto da potersi parlare di “realismo eistenziale”.92 Però occorre rilevare che per questi itinerari propri della metafisica classica non sembra che si possano avere impostazioni appropriate dei problemi relativi all’interpretazione del pensiero di Heidegger, sia che ci si voglia riferire all’analitica esistenziale, sia che si intenda comprendere il complessivo sviluppo del pensiero heideggeriano. Si trattava, invece, di collocare il punto di vista interpretativo all’interno della stessa problematica “ontologica” che veniva avanzata in uno con l’impianto dell’analitica esistenziale. Era lo stesso Heidegger ad avvertire che la tematica di Essere e tempo si proponeva “una distruzione del contenuto tradizionale dell’ontologia antica”.93
L’esigenza di andare oltre Gentile e Croce. La polemica antidealistica In un grosso fascicolo intitolato Contributo per una nuova cultura, nel 1933, la rivista “Il Saggiatore” pubblicava le opinioni e le proposte dei giovani rappresentanti del mondo filosofico e culturale, in risposta al bilancio tracciato dai “vecchi”, Enzo Paci denunciò, tra l’altro, il vicolo cieco in cui era andato a finire lo storicismo, configurandosi come una riflessione sulla storiografia e perdendo la forza di farsi fattore di nuova indagine e di ricerca storica. Intorno agli anni ’30 già si avvertiva un senso di insoddisfazione per gli esiti e il posto medesimo che le filosofie dominanti, lo storicismo e l’attualismo, assumevano nel quadro della cultura del tempo. Quelle filosofie sembrava che ormai sopravvivessero a se stesse, ormai prive di vitalità, di capacità di sviluppo, di rapporti con la realtà sociale. Chiuse nei loro orizzonti teorici, esse si alimentavano continuamente di un immobile frasario e apparato concettuale, incapaci di rinnovarsi, nonché di spingere la società verso il rinnovamento. L’attualismo subì il colpo più duro nel congresso del maggio ’29, allorché Padre Gemelli ebbe a dichiarare che il pensiero e la concezione del Gentile costituivano una esplicita posizione anticristiana. Molti gentiliani si avviarono allora per strade che in qualche modo potessero mantenere i rapporti con la concezione cristiana dell’uomo. E altri, che avevano elaborato prospettive proprie, accentuarono i motivi spiritualistici, riaffermando, per vie diverse, la necessità di un accordo tra la ragione e la fede. Aliotta e Varisco sono gli esempi più illustri in tal senso. Il congresso del 1933, presieduto dall’Orestano, fu, come scrive il Garin, “un coro mirabile, anzi una specie di banchetto funebre intorno al cadavere dell’idealismo, anarchico e liberale, positivistico e germanico, anticristiano e sovvertitore”.94 L’Ottaviano inaugurava poi la sua polemica antidealistica nel successivo congresso di Padova del ’34. In quegli anni veramente si assiste a una distruzione della filosofia e alla sua sostituzione con l’ideologia fascista. Il congresso del ’37, tenuto a Napoli ancora con la presidenza dell’Orestano, ebbe un carattere più chiaramente anticrociano. Allora il Guzzo e il Carlini obiettarono che non si doveva “né abbandonare né sovvertire” l’estetica del Croce, bensì che era ancora proficuo “riflettere su di essa”. Al congresso di Bologna l’anno dopo si affacciarono alcuni primi segni di ripresa, con l’apertura dello Stafanini verso l’esistenzialismo. Più rappresentativo della gamma degli orientamenti che tendevano a ricostituirsi fu il congresso di Firenze dell’autunno del ’40. Enrico Castelli assicurò allora una linea di più rigorosa riflessione teoretica: così, ad esempio, il Devoto poté approfondire il tema “pensiero e linguaggio” e gran parte venne dedicata alla discussione dell’ontologismo del Carabellese, mentre altri interventi qualificanti erano quelli del Calogero e dell’Abbagnano.
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Cfr. C. Mazzantini, Filosofia perenne e personalità filosofiche, Padova 1942; C. Fabro, Problemi dell’esistenzialismo, Roma 1945. 93 M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it., Milano 1953, p. 47. 94 E. Garin, Cronache, cit., p. 452.
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L’“assoluto realismo” di Vincenzo La Via (Vincenzo La Via, Dall’idealismo all’assoluto realismo, Ristampa ad uso universitario, Edizioni Ferrara, Messina 1954, pp. 208) Vincenzo La Via denunzia l’equivoco dell’idealismo antitetico. Questo equivoco dipende dalla interpretazione dell’immanenza gnoseologica. Il significato autentico della quale immanenza consiste nell’accorgimento di non andare a cercare l’essere fuori del conoscere, in un reale estrinseco proiettato fuori della conoscenza. “L’equivoco che principalmente occorre evitare è quello che consiste nel fare della conoscenza un altro essere che si possa contrapporre all’essere al quale è in assoluta relazione” (p. 53). “Che si dia conoscere e che sia dato essere è una e la stessa cosa esattamente. Questo è il senso rigoroso e pieno dell’immanenza dell’essere al conoscere” (p. 56). Ora questo senso non può identificarsi col significato dell’idealismo: codesta identificazione si dovrebbe convertire “nella pura antitesi o nella totale esclusione dell’affermazione realistica” (p. 59). [Come è evidente, il La Via è alla ricerca di un’alternativa teorica per cui il reale non sia escluso e risolto nell’immanenza gnoseologica, bensì sia riconosciuto con una funzione propria]. “Il reale o l’essere che bisognerebbe poter escludere per evadere dall’affermazione realistica è il contenuto per cui assolutamente c’è conoscere” (p. 60). D’altra parte, l’equivoco del realismo inferiore [ingenuo] consiste nel credere “che per poter porre per sé il reale o l’essere occorra contrapporne il contenuto a quello che si suppone proprio del conoscere”. Così il contenuto di realtà risulta “un particolare oggetto e contenuto di conoscenza”; e questo contenuto non può essere contrapposto al contenuto della realtà, “se non a patto di ridurre al contenuto del nulla il contenuto per cui c’è conoscenza” (p. 62). Una risoluzione dell’essere nel conoscere importerebbe poi la soppressione del contenuto del conoscere. Infatti, “quale puro essere dato di questo essere, come potrebbe il darsi del conoscere esserne la condizione o contrapporsi ad esso per risolverlo in sé?” (p. 65). Da ciò risulta che l’immanenza gnoseologica esprime semplicemente “il fatto che il reale o l’essere a cui può solo riferirsi l’affermazione criticamente giustificabile è il (l’assoluto) dato nel conoscere, e non alcunché di attinto – e non si vede come – in un fantastico salto oltre il conoscere” (p. 76). L’idealismo (nel suo significato originario, platonico) non esclude l’affermazione realistica, ma ne critica l’empiricità e fa valere l’esigenza di una fondazione assoluta di essa. Invece, come critica gnoseologica del realismo naturalistico, viene a falsare il significato autentico dell’immanenza gnoseologica, riducendola nell’ambito della nuda soggettività. Per comprendere la natura dei loro rapporti, non bisogna considerare idealismo e realismo come due posizioni in sé compiute: non nella loro presunta compiutezza, ma proprio nella loro unilateralità e nei loro limiti, idealismo e realismo si combattono e si escludono fra loro; non dunque come soluzioni integrali antitetiche del problema filosofico, bensì come espressioni incomplete, inadeguate dell’esigenza filosofica. Idealismo e realismo, nel loro aspetto antitetico, sono due momenti particolari del filosofare nel suo svolgimento storico. Ma “non è possibile ridurre alle individuazioni storiche del filosofare la filosofia come esigenza” (p. 8). “Si tratta di riconoscere che può esservi realtà storica della filosofia soltanto se v’è nel conoscere un’esigenza fondamentale e costitutiva della teoreticità stessa assolutamente considerata” (p. 12). L’opposizione di idealismo e relasmo sorge “in quanto per un verso ci si sforzi di rappresentarsi l’essere come una presunta realtà indipendente del dato per cui c’è contenuto del conoscere; e, per un altro verso, si guardi all’immaginario conoscere che ci si può rappresentare in astratto come una pretesa pura soggettività”. “Fondamentalmente, dunque, l’opposizione di idealismo e realismo si risolve nell’opposizione tra due concetti o rappresentazioni particolari dell’essere e del conoscere” (p. 17). L’esigenza filosofica, nella sua espressione compiuta, supera quell’antitesi e si configura come problema del realismo assoluto, il quale “non è se non quello di fondare assolutamente il contenuto di realtà o di essere per cui c’è (in atto) contenuto di conoscenza e conoscere: il problema appunto che il realismo inferiore s’illude di poter risolvere – generando così la non meno illusoria antitesi idealistica o il vuoto idealismo antitetico – mercé l’immediata realizzazione del dato in un preteso in sé di esso che non è che il contenuto particolare del dato stesso astrattamente immaginato in un suo presunto essere fuori del conoscere” (p. 24). Idealismo e realismo non devono essere abbandonati nell’immediatezza dell’opposizione assoluta, ma posti invece nella prospettiva del realismo assoluto, il quale non è a sua volta una terza posizione che si contrappone alle altre due, ma rappresenta per così dire il metro, il criterio per valutare le loro esigenze specifiche e per mostrare la intrinseca impossibilità e vanità della loro opposizione. L’idealismo, come
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antitesi del realismo naturalistico, si è voluto profilare come sforzo di superare il senso particolare e determinato che hanno primitivamente i concetti del soggetto e del pensiero: ma “è possibile che l’idealismo disponga del suo contenuto particolare e condizionato (o senza disporre insieme la stessa intera sua sostanza di antitesi dell’affermazione realistica?” (p. 43). Una contrapposizione dell’idealismo al principio assoluto del realismo dovrebbe fondarsi “sulla possibilità che quella soggettività del reale e quell’idealità dell’essere abbiano una determinazione al di fuori di quel contenuto della realtà e dell’essere che non è un dato particolare di conoscenza, ma è il dato universale e, come assolutamente tale, anteriore e superiore a ogni mediazione” (p. 45).
Carabellese, La Via e l’equivoco dell’idealismo L’idealismo risolve il problema relativo a ogni dualismo (tra il pensiero e l’essere), assumendo come oggetto non l’essere (inconoscibile) ma lo stesso conoscere. In tal modo, come ha messo in rilievo il Carabellese, si è delineato l’equivoco della filosofia trascendentale, consistente nella “sostituzione del problema interno col problema oggettivo della filosofia”.95 La radice dell’equivoco sarebbe già nella filosofia di Kant, che ha enfatizzato il ruolo della forma della conoscenza, fino a determinarne la sua identificazione col contenuto. Osserva il Carabellese: “Si conserva con Kant il concetto realistico dell’oggetto come qualcosa che non è soggetto, perché oggetto; e, nell’entusiasmo della scoperta, che pur l’oggettività vera che ci risulta è soltanto quella che ci è data nel soggetto, si conclude, tenendo conto di quel primitivo concetto dell’oggetto, che non v’ha che il Soggetto: il Soggetto è l’Assoluto”.96 La forma del conoscere è inscindibile dal contenuto: anzi i due termini si identificato: questo è il presupposto dell’idealismo. Ed è illusorio ogni tentativo di recuperare l’oggettività del reale nella forma della conoscenza. Il processo del conoscere non si identifica con l’oggetto della conoscenza. L’impostazione critica (trascendentale) riguarda sempre e comunque la forma della conoscenza: e magari attesta che si tratta di conoscenza oggettiva, cioè valida universalmente per tutti i soggetti (come ha rilevato Kant); ma non potrà mai riguardare l’essere (il reale) e non potrà, perciò, mai essere scambiata per una metafisica. Coerentemente la filosofia critica (trascendentale) proclama l’inconoscibilità del reale in sé. La soluzione potrà essere cercata di nuovo in una concezione realistica dell’oggetto (per cui l’oggetto è il reale, che non si risolve nella forma del sapere). “Così l’equivoco storico che abbiamo detto di sostituzione inconsapevole del problema interno al problema oggettivo della filosofia, trova il suo coronamento e il suo presupposto insieme nell’annullamento dell’oggetto. Sono due processi che si condizionano a vicenda, e che hanno la fonte unica del loro errore in un permanere di un motivo di realismo naturalistico nell’indirizzo che tale realismo vuole combattere”.97 Secondo l’analisi del Carabellese, l’idealismo, tendendo a recuperare l’oggetto, il reale, non fa altro che riassumere il reale nella sua accezione naturalistica (sia pure, possiamo dire, dietro la maschera dell’altro dell’Idea, che è il vero contenuto della conoscenza). In realtà, l’origine dell’equivoco risale a Cartesio, che ha identificato il reale con l’oggetto dell’idea (res cogitans e res extensa infatti non sono altro che due idee chiare e distinte, alle quali corrispondono, secondo Cartesio, due distinte sfere della realtà, due realtà sostanziali, che esauriscono il piano del finito; e così Dio stesso è oggetto di un’idea chiara e distinta). Vincenzo La Via ha, in modo analogo, denunciato l’equivoco dell’idealismo antitetico, caratterizzato dalla interpretazione della immanenza gnoseologica. Questa immanenza non fa altro che esprimere l’esigenza per cui il reale non può essere cercato fuori dell’ambito della conoscenza. Essa indica “il fatto che il reale o l’essere a cui può solo riferirsi l’affermazione criticamente giustificabile è il (l’assoluto) dato nel conoscere, e non alcunché di attinto – non si vede come – in un fantastico salto oltre il conoscere”.98 L’idealismo, in questo senso, si configura come una critica gnoseologica del realismo naturalistico (ingenuo). Ma l’immanenza gnoseologica finisce in esso per assumere il significato di risoluzione del contenuto nella forma stessa del conoscere. L’esigenza critica si converte in un’affermazione metafisica. L’immanenza gnoseologica (l’assoluta presenza del conosciuto nel Pantaleo Carabellese, Il problema teologico come filosofia, Roma 1931,cap. I, §§ 3-4. Op. cit., cap. II, § 14. 97 Ib. 98 Vincenzo La Via, Dall’idealismo all’assoluto realismo, Firenze 1941, cap. II. 95 96
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processo della conoscenza) è interpretata come un’immanenza metafisica (del reale nel sapere, in senso assoluto). Il problema autentico dell’idealismo è quello di fondare in modo assoluto il contenuto di conoscenza nel processo gnoseologico, ma non di risolverlo in esso. Esso consiste, cioè, nell’ammettere che non c’è dato conoscitivo reale fuori dell’ambito della conoscenza. Invece il realismo volgare ammette proprio questa esistenza del reale in sé. La prospettiva del realismo assoluto è appunto quella che conserva l’esigenza critica e trascendentale (per cui non c’è dato conoscitivo fuori del processo della conoscenza) e l’esigenza realistica (che, appunto, configura assolutamente il dato reale come contenuto della conoscenza). L’idealismo classico, in realtà, intendendo opporsi al realismo, ha finito per fondare una filosofia del soggetto (per cui il reale si identifica col Soggetto). Il realismo, a sua volta, trascura l’istanza critica e torna a prescindere dalla sfera della conoscenza per affermare il reale dato. Secondo La Via (ah, il maestro!), l’idealismo non riesce a costituirsi come filosofia, in quanto viene a dissolversi nello scetticismo soggettivistico. Invece si tratta di assumere come assoluto il reale che si pone nell’ambito della conoscenza. La metafisica deve assumere una configurazione critica e la gnoseologia una connotazione metafisica. In questa duplice esigenza si pone il problema autentico della filosofia. Per la filosofia, dunque, il problema gnoseologico e quello metafisico vanno impostati insieme, costituiscono, anzi, il medesimo problema. La serie di equivoci che si è determinata nello svolgimento della filosofia moderna (da Cartesio agli idealisti) sarebbe dovuta alla erronea importazione dei due problemi, assunti come separati e indipendenti l’uno dall’altro. Il motivo proprio dell’idealismo (quello che gli deriva dall’impostazione kantiana della filosofia trascendentale) è quello di fondare in senso trascendentale il reale e non quello di risolvere il reale nella struttura trascendentale. Il contenuto reale è quello che è dato sul piano trascendentale: questa è l’affermazione fondamentale dell’idealismo. Si tratta della fondazione gnoseologica del reale e il rilievo che assume il soggetto è limitato al piano trascendentale e riguarda la fondazione della conoscenza, non riguarda, pertanto, la stessa costituzione del reale e non risolve il reale nelle condizioni della struttura trascendentale del soggetto. L’idealismo, invece, si è configurato come una fondazione trascendentale del reale, laddove si trattava di una critica trascendentale dell’empirismo gnoseologico. L’immanenza gnoseologica è stata interpretata come identificazione del contenuto con la forma trascendentale del conoscere. In tal modo è stato attribuito un significato metafisico al processo trascendentale della conoscenza. Non si tratta, pertanto, di posizioni metafisiche (a proposito dell’idealismo e del realismo), bensì di posizioni gnoseologiche. Contrapporre realismo e idealismo, nel senso di posizioni metafisiche, è, pertanto, un controsenso, un equivoco. L’idealismo, in quanto posizione gnoseologica (che non implica nessuna metafisica), dichiara la necessità di considerare il reale nell’ambito trascendentale della fondazione della conoscenza. Ed è questa l’istanza del realismo assoluto, secondo La Via. L’aver voluto fondare una metafisica costituisce l’errore che infine ha fatto precipitare l’edificio così arditamente costruito. Si tratta, dunque, di trasferire sul piano schiettamente trascendentale le istanze poste dall’idealismo sul piano metafisico. Così o l’idealismo si giustifica sul piano trascendentale e cessa di avere una pretesa funzione metafisica oppure si pone come esigenza propriamente metafisica (quella che risolve il reale nel pensiero) e allora abbandona la sfera trascendentale sulla quale pure afferma di essere edificato. Poiché l’istanza trascendentale appare come quella propria dell’idealismo e che va, pertanto, assolutamente conservata, si tratta di considerarla come una istanza critica della conoscenza e non come una istanza metafisica. Secondo La Via, l’errore dell’idealismo consiste nel fatto che, volendosi procedere a una fondazione assoluta del dato conoscitivo (secondo le esigenze della filosofia trascendentale), e tenendo conto che tale fondazione non può ricercarsi realisticamente in un essere astratto dal dato stesso, si è ritenuto di poterla porre nell’esserci stesso del conoscere (nella forma della conoscenza, nella struttura trascendentale pura). In questo modo si ha “la riduzione di ciò che è dato o posto (in quanto c’è conoscenza o conoscere) al suo esser dato o esser posto (in quanto c’è conoscenza e conoscere)”.99 Il reale stesso è così risolto nelle condizioni trascendentali del suo essere posto come dato conoscibile. Il soggetto trascendentale risolve in sé il reale. Ma è chiaro che così quel che resta non è altro (e null’altro) che la struttura trascendentale del soggetto, il soggetto come forma assoluta del sapere. Cartesio, restringendo il dato a un elemento fondamentale, il cogito, ha in realtà aperto la strada all’idealismo. Ma l’edificio dell’idealismo infine è crollato per la messa in luce 99
V. La Via, Dall’idealismo all’assoluto realismo, cit., p. 87.
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delle sue contraddizioni interne. “La storia dell’idealismo (possiamo concludere), lungi dal mostrarci – secondo il classico schema hegeliano – il progresso dell’idealismo, ci mostra viceversa le sue difficoltà interne, le sue contraddizioni latenti, e, in definitiva, quel processo di autodissoluzione e di autocritica, sul quale soprattutto i sopraccitati pensatori italiani (forti della esperienza attualistica) hanno insistito”.100 L’idealismo, secondo questa linea critica, ha finito per svuotare di contenuto reale la filosofia, poiché quel contenuto (l’idea) che si è attribuito al sapere filosofico (sapere assoluto!) risulta veramente illusorio e fittizio, con la conseguenza di una ricaduta nello scetticismo.101 L’idealismo avrebbe, dunque, portato la filosofia a una crisi inquietante, per il cui superamento si fanno svariate proposte ma, in realtà, non si riesce a trovare una impostazione critica adeguata. La prova di queste difficoltà è che ancora si ritiene valido il discorso intorno alla concezione idealistica della realtà e che questa corrente filosofica viene considerata un punto di riferimento essenziale per ogni impostazione critica e problematica. Certo, la reazione antidealistica nel Novecento (specialmente nella seconda metà del secolo, ma già anche prima) è stata massiccia. L’idealismo è stato attaccato da più parti e con motivazioni e sulla base di esigenze diverse. Tuttavia è rimasta almeno latente la domanda se la cultura che pure produceva quelle obbiezioni all’idealismo nascondesse ancora inconsapevolmente motivi propriamente idealistici (o storicistici). La forma più immediata e generale di reazione critica all’idealismo si esprime come un processo di riaffermazione del dato dell’esperienza come l’ineludibile punto di riferimento per la ripresa dello stesso filosofare. Contestualmente tale critica si rivolge all’impianto logico-metafisico dell’idealismo, viziato indubbiamente di logicismo e dunque tale da dovere essere smontato, per fare di nuovo il posto ai dati concreti dell’esperienza (e a quelli delle scienze empiriche). Il Carabellese ha posto l’accento sulle conseguenze negative determinate dall’idealismo per la stessa prosecuzione dell’indagine filosofica. Proponendo una metafisica illusoria, l’idealismo ha riportato la filosofia alla situazione prekantiana, cioè a una specie di scetticismo humiano, che ha trascinato in sé la stessa scienza, nel cui ambito avrebbe provocato una crisi non meno acuta di quella che si è prodotta nella filosofia. In tale situazione, il Carabellese proponeva una inversione di rotta, per la quale fosse possibile riproporre il problema critico del contenuto della conoscenza filosofica, sulla base del presupposto che tale contenuto non può risolversi nella forma della conoscenza bensì deve essere trascendente rispetto ad essa. Quale dovrà essere dunque il contenuto della filosofia? Se non possiamo concepirlo come un oggetto estraneo al processo conoscitivo (secondo la tesi del realismo ingenuo) e neppure (idealisticamente) come la struttura trascendentale del soggetto (considerato come il termine di mediazione fondamentale per cui si costituisce il reale stesso), bisogna necessariamente considerarlo come una oggettività per sé costituita e tale che si dà come dato conoscitivo all’interno della coscienza. Alla luce di queste considerazioni, una restaurazione filosofica è possibile solo attraverso la riaffermazione del carattere trascendente del reale in sé. Il trascendentale si costituisce sulla base del rapporto che s’instaura ad opera del soggetto. Il reale esce dalla sua originaria e assoluta trascendenza e si dà all’interno della coscienza, sul piano del pensiero. Soggetto, coscienza, pensiero instaurano la relazione col reale, per cui questo esce dalla sua trascendenza e si pone in una condizione di rapporto, dunque in uno stato di relatività. E’ questa la condizione illustrata da Spaventa a proposito della massima protagorea dell’homo-mensura. Ma questa non la posizione dell’idealismo, per cui la relazione si risolve in identità e per cui il pensiero fagocita il reale in sé, annullando sì la trascendenza ma annullando altresì il reale stesso. La restaurazione filosofica richiede, pertanto, la restaurazione della trascendenza del reale e la concezione del trascendentale come rapporto, relazione del reale col pensiero, dunque la condizione del reale come oggettività (rapporto col pensiero, realtà che si configura sulla base della forma della conoscenza). Quando si parla di trascendentale si allude al processo conoscitivo e al reale oggettivo configurato nell’ambito della conoscenza. Perciò per il Carabellese si pone daccapo il problema della trascendenza. La trascendenza, però, non indica qui una condizione del reale in sé, indipendentemente da ogni relazione col soggetto, ma anzi proprio questa
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P. Filiasi Carcano, Problematica della filosofia odierna, Milano 1953, p. 135. Come osserva il La Via, in tal modo l’idealismo perviene alla conclusione di un inevitabile annullamento della filosofia, poiché, nell’impossibilità di porre un contenuto effettivo, “il filosofare non potrebbe non essere, per sé considerato, privo di contenuto, cioè non potrebbe esservi punto, come filosofare” (V. La Via, op. cit., p. 115). 101
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relazione, dunque l’intelligibilità, la conoscibilità e l’oggettività del reale.102 Così il reale, che preso per sé e fuori della relazione col pensiero, è trascendente (e tale rimane in quanto rimane fuori di tale relazione), diventa immanente allorché è considerato come un dato del processo conoscitivo (in quanto entra nella mediazione col pensiero). In questo senso ha ragione l’idealista quando afferma che non si dà reale fuori della mediazione del pensiero; ma ciò non vuol dire che il pensiero fonda il reale in sé, ma che costituisce la relazione per cui il reale si fa dato immanente alla coscienza e, in quanto tale, oggetto del conoscere. I filosofi che hanno criticato le conseguenze dissolutorie del percorso della filosofia moderna culminante nell’idealismo sono quelli stessi che hanno tessuto l’elogio più convinto di Cartesio. La scoperta della funzione del pensiero in rapporto alla fondazione del reale in quanto oggetto di conoscenza si deve indubbiamente a questo filosofo che giustamente è considerato come il grande inauguratore del pensiero moderno. Cartesio ha messo in rilievo la funzione fondante del pensiero, dunque la sua costitutiva funzione metafisica. Nello stesso tempo egli ha messo in rilievo l’insopprimibile rapporto del reale con il soggetto come oggetto di ogni esperienza e di ogni conoscenza. Egli ha così posto le condizioni per il definitivo superamento di ogni soggettivismo gnoseologico e di ogni oggettivismo scientifico. La relazione costitutiva del reale con la coscienza è stata quindi messa in rilievo da Husserl, che, in questo senso, si è riferito alla posizione cartesiana. Questa posizione è stata fraintesa ed è stata sviluppata in senso soggettivistico e idealistico. E Kant, che è considerato il grande critico e oppositore di ogni metafisica, in realtà si è opposto alla fondazione della metafisica come scienza, non ha negato l’istanza metafisica come insopprimibile esigenza della ragione. Il dato relativo alla metafisica non può mai essere assimilato all’oggetto della scienza; ma ciò non vuol dire che esso indichi una relazione del reale con la coscienza. Si tratta solo di stabilire e precisare di che tipo di relazione si tratta e a che tipo di conoscenza essa dà luogo. Kant stesso ha detto che il reale così inteso è pensabile e non conoscibile, dunque fornito di un peculiare tipo di intelligibilità (e, al limite, di oggettività). Secondo il Carabellese, la “nuova” metafisica è configurabile come ontologia. Questa implica come oggetto della filosofia l’essere e presuppone che questo sia il dato proprio fondamentale che si offre alla coscienza come area di pensabilità. L’essere è il primo pensabile, il dato reale fondamentale che è condizione e presupposto della pensabilità di ogni ente determinato, dunque della costituzione di ogni oggettività. Heidegger si è spinto ancora più avanti, interpretando la critica kantiana come una specie di ontologia fondamentale.103 Egli ha così visto nell’apriori e nella dimensione trascendentale del soggetto il tentativo di andare verso le condizioni di rivelazione dell’essere, di manifestazione del reale (sia pure nella forma dell’oggettività, messa in rilievo da Cartesio). L’esserci del soggetto, in questo modo, è considerato come la dimensione medesima di aprirsi dell’orizzonte ontologico come fondamentale pensiero dell’essere (nel significato soggettivo e oggettivo di questo genitivo). Perfino l’esistenzialismo, così, può venire inteso come una specie di tentativo di restaurare le condizioni della filosofia e della stessa metafisica, dopo gli esiti soggettivistici dell’idealismo. Del resto, è significativo, a questo proposito, che il motivo da cui Heidegger muove è il problema dell’essere, cioè la questione ontologica (mentre alla base dell’idealismo e della stessa dialettica hegeliana rimane il problema gnoselogico, per cui la domanda di base dell’idealismo è “che cos’è la scienza?” mentre quella dell’esistenzialismo è “che cos’è l’essere?”). In realtà, secondo il Carabellese, la critica idealistica si è indirizzata essenzialmente contro l’empirismo e ha avuto come suo ambito di sviluppo il problema gnoseologico. “L’ontologismo del Carabellese può pertanto caratterizzarsi come un ritrovamento della problematica essenziale del platonismo, attraverso una nuova interpretazione di Cartesio e di Kant, e una critica della deviazione
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Cfr. P. Carabellese, Il problema della filosofia da Kant a Fichte, pp. 15-16; Critica del concreto, Roma 1940, p. 176. La negazione idealistica della trascendenza, osserva il Carabellese, è praticamente impossibile, in quanto “la negazione della trascendenza non è l’immanenza, ma l’esaurimento, cioè la negazione del Principio” e comporta, in quanto negazione, in assoluto, del contenuto reale, l’annullamento della conoscenza medesima (Che cos’è la filosofia?, p. 256). Analogamente La Via osserva che “la fondazione filosofica (assoluta) del dato (del contenuto di conoscenza con esso irrecusabilmente posto) non è (non può essere) se non il riconoscimento della relazione al Trascendente, come ciò in cui si risolve costitutivamente il contenuto di oggettività del dato” (Dall’idealismo al realismo assoluto, p. 27). 103 Cfr., M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, § 45.
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sistematica (gnoseologistica e soggettivistica) della filosofia moderna”.104 Un tale ontologismo non prescinde dall’istanza trascendentale, dunque muove ancora da Cartesio e da Kant, in quanto considera il piano trascendentale del soggetto come quello in cui si pone il dato reale, in primo luogo l’essere come condizione generale di ogni realtà. A questo proposito la questione è stata lucidamente precisata da Heidegger, il quale, appunto, ha osservato che “una problematica ontologica ha così poco a vedere col ‘realismo’ che è Kant precisamente che, ponendo la questione trascendentale, e grazie ad essa, ha potuto fare il primo passo decisivo dopo Platone ed Aristotele verso una fondazione dell’ontologia espressamente voluta”.105 Come è evidente, qui la costituzione trascendentale del soggetto (che è la grande scoperta della filosofia moderna) si carica di una profonda valenza metafisica. E questa valenza è stata (paradossalmente) messa in rilievo non tanto dall’idealismo quanto piuttosto dall’esistenzialismo (o meglio dall’analitica esistenziale, la quale propriamente avrebbe posto in evidenza la struttura metafisica e ontologica dell’esistenza). L’essere, che costituisce il termine di riferimento dell’analitica esistenziale, a differenza dell’assoluto degli idealisti, non si risolve nella condizione del soggetto (che è l’esistenza finita) e pertanto rimane trascendente rispetto ad essa ma è tale da costituire il fondamentale termine di rapporto e l’orizzonte in cui l’essere stesso si manifesta. Il concetto fondamentale della metafisica è, nella prospettiva illustrata dal Carabellese, quello di relazione ontologica. La sfera in cui si stabilisce tale relazione è la costituzione trascendentale del soggetto. E questo non è inteso più nel senso idealistico come il solo principio del pensiero ma è considerato come l’esistenza, l’Esserci. E l’Esserci è considerato come fondamentale rapporto all’essere. La trascendenza stessa è vista come un carattere di tale rapporto. In questo senso, l’esistenza appare impegnata nella sua interezza, nell’orizzonte totale del suo manifestarsi, nella questione dell’essere, nello sforzo di tematizzare tale questione originaria. A differenza della scienza, che rappresenta un aspetto ben definito dell’attività del soggetto, l’ontologia rappresenta una condizione esistenziale, quindi abbraccia ogni aspetto dell’esperienza. Nell’ambito della questione dell’essere si possono avere, dunque, i percorsi più diversi. Si tratta di uno spazio speculativo aperto e multiforme, nel cui ambito la ricerca può assumere i caratteri più vari. La forma rigorosamente logica e speculativa non è quella unica ed esclusiva: e così non si può considerare come propria e caratteristica la via del misticismo o quella dell’arte. Si tratta di sfere possibili, che hanno in comune il carattere di essere sfere ontologiche, fondate sull’originaria e fondamentale struttura dell’esistenza come rapporto all’essere. L’esistenza si qualifica essenzialmente come ricerca del senso dell’essere. In tale situazione la filosofia conserva il suo principale carattere di critica dell’esperienza. Essa ha il compito di esaminare le diverse forme di costituzione dell’ontologia e di metterne in evidenza il carattere di aspetti della questione dell’essere. Tale questione non è appannaggio di una esperienza o di una scienza o di una attività particolare: essa sorge e si sviluppa negli ambiti più diversi e nelle forme più varie. Sta alla filosofia individuarla e riportarla all’ambito del discorso critico.
I caratteri della filosofia italiana contemporanea Sin dalla fine del Settecento la cultura filosofica italiana si è trovata di fronte al problema di rafforzare la propria identità, rivalutando la propria tradizione, da una parte, e dall’altra aprendosi alle correnti della filosofia europea. Da un lato agiva fortemente il senso della tradizione, che collegava la cultura italiana, attraverso Vico, al Rinascimento; dall’altro lato si avvertiva il richiamo della cultura europea moderna, specialmente dopo i nuovi sviluppi postkantiani e romantici. In tale clima, un tentativo di soluzione moderata, che rivalutava il significato moderno delle componenti della cultura italiana, era quello compiuto, 104
P. Filiasi Carcano, op. cit., p. 146. M. Heidegger, Sull’essenza del fondamento, parte I. La nuova ontologia implica il nesso fra problema critico (trascendentale) e problema metafisico. Infatti, come è stato osservato, “a differenza dell’ontologia tradizionale il cui le@gein concerne descrittivamente l’oçn senza penetrarlo e che da Heidegger è ridotta ad ontica, la metafisica inquantoché, di questo lo@gov è l’ontologia di un oçn che si presenta, consistendovi, nel proprio lo@gov l’Essere che fonda l’esserci è la sostanza” (T. Moretti-Costanzi, L’ascetica di Heidegger, pp. 6-7). 105
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ad esempio, dal Cattaneo (sulla via tracciata dagli illuministi italiani, specialmente dal Gioia e dal Romagnosi), che metteva in evidenza l’apporto decisivo che questa cultura, a partire da Galilei, aveva dato allo sviluppo del sistema delle scienze naturali e che, proprio in quei tempi, si adoperava per dare nella fondazione scientifica del diritto, dell’economia, della storia. In questo senso, la cultura italiana appariva inserita nel grande progetto della modernità, rivolto a costruire una civiltà basata sulla conoscenza scientifica della natura e dell’uomo. Vico, infine, appariva come il filosofo che aveva anticipato l’idealismo, mettendo in rilievo i limiti della concezione naturalistica e razionalistica dell’illuminismo; e lo spiritualismo di Cousin, con i suoi riferimenti alla tradizione, da Platone a Hegel, costituiva un punto d’incontro significativo tra le esigenze presenti nella cultura italiana di superamento della ristretta visione illuministica e l’affermazione dell’idealismo. Emergeva, con particolare evidenza, la centralità del pensiero del Vico; e si poteva, così, affermare un certo primato italiano nello sviluppo della filosofia moderna, ricollegando gli esiti idealistici alle radici rinascimentali d’impronta neoplatonica. A questo proposito risulterà efficace lo schema dello Spaventa sulla “circolazione del pensiero europeo”. Come è noto, Bertrando Spaventa riconduce tutto il pensiero europeo moderno al Rinascimento: così la filosofia italiana, dopo aver compiuto un percorso europeo, alimentando il pensiero moderno, avrebbe ritrovato la sua sede originaria dopo Vico e avrebbe effettuato un vero e proprio “ritorno” con gli sviluppi spiritualistici di Gioberti e con quelli neoidealistici della stessa Scuola hegeliana di Napoli. Questa tesi sarebbe destinata a dare importanti frutti specialmente nell’area degli studi storici sul pensiero italiano del Rinascimento da parte, oltre che del Gentile, di studiosi come Saitta e Garin. Così si spiega anche il ruolo assunto in Italia dal pensiero cattolico: questo, infatti, ha espresso più profondamente quelle esigenze di ritorno alla tradizione spiritualistica che appariva come la componente fondamentale della nuova sintesi filosofica e culturale. C’erano motivi della filosofia moderna che andavano rifiutati e perciò s’imponeva un più deciso ritorno alla tradizione. In questo quadro assumeva un rilievo significativo l’universalismo cristiano e medievale, che poteva essere interpretato anche come un antidoto efficace contro gli eccessi dell’individualismo borghese dell’età moderna e dunque come correttivo di alcuni errori della cultura laica (come il razionalismo, l’illuminismo, l’idealismo immanentistico, il positivismo) e di vistose contraddizioni della società industriale. Anche gli indirizzi che, nell’ambito della filosofia italiana, hanno inteso continuare il discorso laico e moderno, come il neoidealismo e il marxismo, si sono trovati d’accordo nel sottolineare l’opportunità di un riaggancio alla grande tradizione rinascimentale: basti pensare a Gramsci e al suo interesse per Machiavelli. Per tale via si è potuta mantenere nella cultura italiana l’idea di una certa superiorità e centralità della filosofia. La filosofia cattolica si è distinta per la difesa dei valori spirituali e religiosi, propri della grande tradizione metafisica, con l’affermazione dell’irriducibilità del mondo spirituale, in polemica con l’orientamento secolarizzante, volto a privilegiare le scienze empiriche e gli sviluppi della civiltà tecnologica. Sul versante opposto, il marxismo ha mantenuto il principio hegeliano della filosofia come visione critica e dialettica della totalità reale, in polemica con le prospettive scientifiche unilaterali che, isolando le componenti della prassi umana e sociale, ne danno un’interpretazione ideologica, subordinata agli interessi della borghesia e del sistema capitalistico. Nell’area laica, la filosofia, per la sua struttura problematica, appariva come lo strumento più idoneo a mantenere vivo l’esercizio della libera critica, contro ogni chiusura dogmatica (sia quella cattolica che quella marxista). Nell’immediato secondo dopoguerra il ritorno alla grande cultura liberale si univa all’esigenza di un’ampia apertura verso le correnti della filosofia europea e mondiale. Il pensiero di Gramsci costituiva già una base notevole di discussione e di sviluppo per la cultura marxista in Italia. Per quanto riguarda l’apertura alle forme di pensiero che si erano sviluppate tra le due guerre, è da notare che si erano avuti alcuni contatti con la filosofia tedesca, con l’acquisizione di spunti (molto limitati) di pensiero alternativo al neoidealismo di Croce e di Gentile. A questo proposito è da ricordare un certo influsso del pensiero di Heidegger. C’erano anche alcuni importanti motivi di sviluppo della filosofia della scienza, per effetto di una certa continuità dell’influenza del positivismo: e qui è notevole l’esempio
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dell’Aliotta. Notevole è stata anche la presenza di sviluppi kantiani, metafisici, spiritualistici e ontologistici (Martinetti, Carabellese). Della tendenza presente nella filosofia italiana a conseguire una sintesi tra le più diverse prospettive filosofiche, un esempio significativo è il tentativo compiuto da Nicola Abbagnano di attuare una sintesi originale intorno a un nucleo problematico che rinvia all’esistenzialismo come filosofia del finito e che intende evitare ogni dogmatismo di carattere metafisico o scientifico o ideologico. La scienza, così, piuttosto che come un sistema fondato su basi teoriche, si profila come uno strumento empirico, da considerare alla luce della teoria pragmatistica e deweyana del sapere come parte del progetto pratico di organizzazione del contesto umano e sociale. Abbagnano, in tal modo, mette in atto una certa sintesi di esistenzialismo, neopositivismo e pragmatismo. Un approfondimento critico di questa prospettiva sintetica è compiuto, in un secondo momento, da Enzo Paci, il quale, nella fase più matura del suo pensiero, si serve della fenomenologia di Husserl come dello strumento più idoneo per gettare le basi di una “enciclepedia fenomenologica”, cioè di una interpretazione unitaria del sistema delle scienze, sulla base dell’idea husserliana del mondo-della-vita come matrice originaria di ogni fondazione significativa corrispondente ai diversi ambiti di esperienza a partire dall’intenzionalità trascendentale. In particolare, Paci privilegia il marxismo nell’ambito sintetico unitario al quale intende dare luogo. Spunti di sintesi tra il marxismo e le importanti correnti del pensiero contemporaneo sono messi in rilievo da altri filosofi italiani. E il punto di riferimento utile per lo sviluppo di nuove sintesi a sfondo marxiano è costituito dal Marx delle opere giovanili, cioè da quello più propriamente dialettico e più direttamente coinvolto nel processo di dissoluzione dell’hegelismo, dunque da collocare sul piano di altri filosofi, come Feuerbach e Kierkegaard. In particolare, questi accostamenti sono stati anticipati da Franco Lombardi, sono stati sviluppati nel senso di una sintesi tra esistenzialismo e marxismo da Uberto Scarpelli e hanno costituito l’itinerario di Cesare Luporini in direzione strutturalistica, mentre altri, come Ludovico Geymonat, hanno individuato significativi riscontri con un nuovo razionalismo costruito sulla base di una interpretazione del neopositivismo come critica generale del linguaggio scientifico. Un’altra forma di correzione critica del marxismo è quella di Lucio Colletti, il quale è partito da un’interpretazione antihegeliana di Marx, considerato specialmente come scienziato che osserva e analizza il capitalismo moderno, cioè come dominato da un interesse epistemologico che trova il suo sbocco costruttivo nella stessa teoria kantiana delle forme trascendentali del sapere obiettivo. Il ritorno alla metafisica ha avuto diversi significati nei vari orientamenti filosofici. Così nell’area cattolica, dove specialmente questo fenomeno ha avuto il suo più ampio sviluppo, si è cercato di operare un recupero della metafisica classica, come recupero della componente oggettivistica, a integrazione del prevalente soggettivismo spiritualistico della tradizione moderna. Questa tematica è presente specialmente nell’università di Padova, con gli studi intorno al pensiero di Aristotele e al significato metafisico e ontologico del plesso platonico-aristotelico. D’altro lato, dall’interpretazione ontologistica dello spiritualismo cattolico, sviluppata specialmente da Augusto Guzzo, è germogliato l’interesse per le valenze ontologiche contenute nel pensiero e nello stesso linguaggio considerato nella sua struttura fondamentale (come “forma” e come “espressione”): il Pareyson ha così tentato di costruire una teoria estetica centrata sul riscontro ontologico dell’ermeneutica. Altri allievi del Guzzo, come Francesco Barone, Umberto Eco e Gianni Vattimo hanno dato sviluppi autonomi al pensiero del loro maestro: il primo mettendo in rilievo le strutture trascendentali della logica e dunque interpretando il pensiero scientifico come espressione di strutture logico-empiriche, il secondo approfondendo gli studi semiologici in rapporto a una considerazione delle valenze espressive del linguaggio in generale, il terzo declinando le istanze heideggeriane ed ermeneutiche nella forma del cosiddetto “pensiero debole”. Invece Emanuele Severino, muovendo dalle esigenze oggettivistiche e ontologistiche della filosofia neoscolastica, presenti specialmente nel pensiero di Gustavo Bontadini, è pervenuto a una formulazione neoeleatica della metafisica di Heidegger, in polemica con la tradizione “nichilistica” del pensiero occidentale. In senso critico si qualifica, invece, il discorso sulla crisi della ragione e sul profilo di una nuova razionalità. Questa, ad esempio, in Gargani si caratterizza come una struttura molteplice, aperta, tale da costituire lo strumento di un sapere critico, non uniformemente costituito sul modello della scienza empirico-positiva,
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bensì ampiamente comprensivo, orientato verso un superamento della stessa contrapposizione tra arte e scienza e, in senso più lato, tra umanesimo letterario e umanesimo tecnico-scientifico. La vocazione sincretistica della filosofia italiana contemporanea si evidenzia anche in certi accostamenti tra i più diversi linguaggi, che oggi vengono compiuti in nome, appunto, di una razionalità il più ampiamente comprensiva. Il campo più fertile per queste operazioni è quello del rapporto tra la fede e la ragione, tra la scienza e la credenza, tra l’arte e la filosofia. Così accade che la filosofia spesso si appropria del linguaggio della teologia e il discorso argomentativo cede il posto a quello romanzesco, in cui i problemi sono esposti in forma di percorsi autobiografici e di esperienze eterogenee d’intonazione vagamente lirica.106
Che cos’è l’esistenzialismo? L’esistenzialismo è una forma aggiornata dell’idealismo. Mentre questo considera il soggetto trascendentale come principio della realtà, l’esistenzialismo considera la struttura trascendentale dell’esistenza, cioè del modo d’essere del soggetto. L’idealismo privilegia il pensiero e muove dalla risoluzione dell’intera realtà nel pensiero. Esso assume, cioè, uno dei termini in cui tradizionalmente si configurava l’articolazione della realtà in senso dualistico e risolve l’intera realtà in questo termine. Il pensiero, così, non ha più il suo oggetto (la realtà) fuori di sé, ma viene a costituirsi come la realtà stessa, in modo che, per conoscere la realtà, non ha che riflettere su se stesso. Ma che legittimità può attribuirsi a quell’atto originario, per cui l’essere viene risolto nel pensiero? In virtù di quale argomentazione il pensiero viene a configurarsi come l’intera sfera della realtà? L’idealismo risponde a un’esigenza culturale di un’epoca storica, quella della cultura romantica, per la quale, appunto, sono superati i limiti entro i quali si chiudeva il soggetto e questo era portato a proiettarsi nell’infinito. Si tratta di un’operazione storica precisa, che ha il suo significato e le sue motivazioni, di carattere esclusivamente storico. L’esistenzialismo, a sua volta, esprime un’esigenza dei tempi, di un’altra epoca storica, che è quella della crisi dell’umanità, della prima metà del Novecento. Nell’epoca romantica, il soggetto raggiunge il culmine del suo sviluppo: il processo del suo compimento ha raggiunto una meta finale. E’ logico che in tale situazione per il soggetto si apra la prospettiva estrema del suo sviluppo: cioè la stessa assimilazione in sé di ogni alterità, il riconoscersi come luogo “dialettico” di ogni processo di produzione reale. Il pensiero è visto come il luogo stesso di formazione di ogni realtà, di sviluppo di ogni forma e di ogni essenza. Abbiamo l’assolutizzazione del soggetto e la prospettiva del “sapere assoluto”. L’esistenzialismo è la fase estrema della crisi e della dissoluzione della concezione idealistica. Si può dire anche che sia il compimento storico dell’interna crisi dell’idealismo, che ha percorso il suo cammino ed è passato attraverso le fasi del suo compimento. Ma questa è un’interpretazione discutibile. Schopenhauer ha per primo messo in rilievo l’illusione idealistica, quella di considerare il soggetto umano come il centro dell’intera realtà. Egli ha posto come principio della realtà un’entità misteriosa, inconoscibile, inintelligibile, irrazionale: la volontà universale, la forza oscura che produce il divenire stesso come continuo processo di nascita e dissoluzione. Proprio Kierkegaard ha poi messo in rilievo l’irriducibilità del soggetto alla sfera della ragione e ha per primo posto le basi dell’esistenzialismo. Il soggetto è in primo luogo “esistenza”, si pone come una condizione storicamente definita, si ritrova costitutivamente legato a un mondo, è inserito in un divenire. L’esistenza ha caratteri determinati, in relazione alle sue strutture costitutive: fa parte di un mondo, vive in determinati modi la tensione temporale, si progetta compiendo determinate scelte, attua una rete di comunicazione, realizza forme di vita sociale, mette a disposizione certe conoscenze, e così via. L’esistenzialismo si configura, in primo luogo, come analitica esistenziale. Esso adotta il metodo trascendentale e considera le forme a priori del soggetto, ma queste investono e riguardano l’esistenza e non il solo pensiero, sono gli a priori esistenziali: l’essere-nel-mondo, il con-essere, l’essere-per-la-morte, la cura, la stessa temporalità e così via (tanto per 106
La letteratura relativa a queste ultime questioni è ormai vastissima. Citiamo solo alcune opere più significative: G. Vattimo, Credere di credere, Milano 1996; Id., Poesia e ontologia, Milano 1967; C. Sini, Il silenzio e la parola, Genova 1989; M. Sgalambro, La morte del sole, Milano 1982; E. Severino, La follia dell’angelo, Milano 1997; F. Rella, L’ultimo uomo, Milano 1996; Id., Le soglie dell’ombra. Riflessioni sul mistero, Milano 1994; M. Perniola, Tiresia, Torino 1968; A. G. Gargani, Lo stupore e il caso, Bari 1986; M. Cacciari, L’Angelo necessario, Milano 1986.
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citare i principali, analizzati da Heidegger). La realtà si dà sempre nell’orizzonte dell’esistenza. E il soggetto si pone il problema della realtà, si chiede (si interroga) che cosa è l’essere e in che esso differisce dal nulla. Ma il soggetto non può porsi queste domande fuori dell’orizzonte dell’esistenza, di quell’esistenza che è egli medesimo. Tale è il campo proprio della filosofia. Il soggetto cerca la realtà oltre di sé; e perciò si trascende; e intende comprendere la realtà che è oltre di sé, quella che si profila attraverso il suo stesso trascendersi. Questa è la tematica filosofica più propria dell’esistenzialismo, quella rispetto a cui l’analitica trascendentale rappresenta l’introduzione, la propedeutica necessaria. Heidegger, però, non scrisse la seconda parte di Essere e tempo, che doveva essere dedicata, appunto, al problema dell’essere. Egli si è arrestato al profilo dell’analitica esistenziale e ha cercato, successivamente, di percorrere altri sentieri, con forme alternative di pensiero, per attuare il suo programma, essenzialmente incentrato su quel problema. Intorno all’essere si hanno diversi indizi, che sono offerti dalle molteplici forme del pensiero umano; e si tratta di tener conto di questi indizi, di questi riferimenti più o meno diretti. L’essere non può essere oggetto, secondo Heidegger, di una metafisica, come espressione di un compatto pensiero logico; può venire, invece, assunto come tema di riflessione, di domanda, d’indagine mediante vie alternative, quali sono, ad esempio, quelle della poesia, dell’arte, della religione. L’essere è un orizzonte che svela e nasconde nello stesso tempo; esso è oggetto, a sua volta, di svelamento e di occultamento; si dà e si ritrae; occorre inseguirlo così nella luce meridiana del pensiero come nelle oscurità misteriose dell’inconscio. L’essere, cioè, si rapporta all’esistenza, che è di per sé così caratterizzata. Questa prospettiva risponde indubbiamente a una precisa concezione dell’uomo: l’uomo riflette in sé l’essere. Tra l’uomo e l’essere si dà un rapporto costitutivo, essenziale, profondo. La filosofia cerca di pensare questo legame, il “rapporto ontologico”; ma a questo pensiero non basta la via dell’argomentazione, occorre specialmente la profondità della domanda, lo spessore dell’interrogazione, la capacità della messa in questione. Si tratta di modi di avvicinamento al problema: la filosofia prende consapevolezza della sua struttura problematica. Per l’esistenzialismo, in primo luogo, l’esistenza stessa è problema, domanda, interrogazione. La “verità” non è una struttura logica definita, bensì essa risiede nella stessa domanda, nel nucleo della questione. L’essere è un mistero che va innanzitutto compreso nelle domande che esso sollecita e verso le quali orienta il pensiero umano. Bisogna chiedere a pensatori, filosofi e poeti, artisti, mistici, scienziati, studiosi di tutte le discipline, quali indizi essi possono indicare intorno al problema dell’essere. E bisogna stare in ascolto: perché indicazioni e indizi possono venire da ogni parte; e specialmente tenere aperte le vie del pensiero, stare, come si dice, sulla strada, rimanere lungo il sentiero. Heidegger chiama il filosofo a questo compito. Il filosofo ha il compito di tenere aperto il problema dell’essere. Questo problema è il senso di ogni manifestazione dell’esistenza, di ogni evento che ci riguardi. Dal modo in cui è presente questo problema si può dire che dipenda ogni modo del nostro essere. Questa è l’eventualità in cui si dispiega l’essere stesso. Noi siamo inseriti in questo orizzonte che comprende e disegna il modo in cui siamo rapportati all’essere. Questo modo dipende, in definitiva, dall’essere stesso. Ma questa convinzione, a sua volta, è un modo del nostro essere, un’espressione della nostra esistenza storica. Si tratta di assumere consapevolezza di questa situazione. La filosofia ha lo scopo di concorrere a questa assunzione di consapevolezza intorno all’eventualità in cui si è inseriti e di cui si è parte. L’esistenzialismo sembra la filosofia più aderente alle istanze dei nostri tempi. Noi viviamo in un’età problematica, di ricerca, di ansiosa tensione verso una situazione di sicurezza, di risoluzione di conflitti e contraddizioni tremende. Noi viviamo specialmente l’insicurezza che deriva dal nostro non sapere, dal nostro dubbio, dalla forma estrema dell’imprevedibile. L’essere è estremamente nascosto. Viviamo tutto il senso tragico della mancanza, dell’assenza di un fondamento. Per una tale epoca sinceramente non può valere una filosofia dell’ottimismo dispiegato, di una rinnovata fiducia nelle umane sorti e progressive. Basta guardare intorno nel mondo per scoprire i segnali della disperazione: questa è la “malattia mortale” dalla quale non siamo guariti e per la quale, anzi, non si hanno, al momento, prospettive di guarigione. Solo un dio può salvarci ha detto Heidegger in uno dei suoi ultimi saggi (che reca lo stesso titolo). Il che vuol dire che dall’essere dipende il nostro stesso destino. L’interrogazione intorno all’essere è interrogazione intorno a noi stessi. E la domanda attuale sull’essere riguarda, come ha precisato lo stesso Heidegger, l’essere come eventualità, cioè come forma della nostra esistenza storica. Fino a che punto la filosofia oggi potrà penetrare all’interno di questa eventualità, per trarre alla luce i possibili rimandi che sono nascosti nelle molteplici forme della nostra cultura? Ogni richiamo può essere, a questo riguardo, significativo: anche ogni dubbio, ogni domanda, purché non sia
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anche presunzione di una risposta. Il compito della filosofia sta principalmente nell’assumere le molteplici domande che emergono dal nostro contesto culturale e riportarle sul piano della piena chiarezza e in tutta la loro portata. Sapere quali sono i nostri dubbi, avere la consapevolezza socratica di quali sono i nostri errori, in quali forme si dispiega la nostra ignoranza: tutto ciò è già sapere qualcosa di noi.
Profilo del Novecento: i pensatori e le correnti. Il carattere principale del Novecento è la globalizzazione: con il concorso degli straordinari mezzi di comunicazione (da quando Marconi sperimentò la radio senza fili al principio del secolo) il mondo è diventato un’unica area globale, visibile e osservabile da qualsiasi punto del pianeta. Ciò che accade in tutte le parti del mondo ci è immediatamente messo davanti agli occhi. Non c’è area del mondo che sfugga a questa possibilità. I mezzi di comunicazione ci informano in tempo reale intorno a tutto ciò che accade; perciò possiamo dire che noi viviamo nell’epoca della comunicazione globale. Il Novecento è anche il secolo dell’esplorazione scientifica della materia: si potrebbe dire anche il secolo dell’atomo. L’analisi della materia è proceduta fino alle particelle infinitesime; e la conoscenza dell’infinitamente piccolo ha avuto le sue importanti ripercussioni nel campo della tecnica, con lo sviluppo dell’elettronica e della telematica. Perciò abbiamo la massima espansione della tecnologia (fino al punto da fare apparire la tecnica come l’imposizione di un sistema generale di condizionamento della vita). L’impressione che si fosse davanti a un’epoca di grandi cambiamenti nel sistema generale dell’esistenza era già forte alla fine dell’Ottocento, quando d’un colpo le tradizionali certezze incominciarono a vacillare e si è aperta una temperie storica caratterizzata da una diffusa inquietudine, da un senso di angoscia per la perdita di una situazione che appariva stabile e sicura e il profilarsi di profonde incertezze. La cultura che si sviluppò a cavallo dei due secoli declina, in modi diversi, il fenomeno della dissoluzione di consolidati schemi, l’irrompere di forme inedite di ricerca. Le avanguardie artistiche dei primi decenni del Novecento testimoniano in modo chiaro (quasi profetico) le grandi trasformazioni e rivoluzioni che avrebbero di lì a poco investito la stessa vita quotidiana, scardinando abitudini e modi di pensare, di scrivere e di comunicare. La simulazione dell’uomo-macchina prelude a queste conquiste, culminate nella robotica. Per le avanguardie storiche del primo Novecento si trattava di una prova sperimentale di riduzione dell’uomo alla struttura della macchina. Si trattava, in primo luogo, dell’acquisizione di nuove dimensioni della velocità. Il linguaggio veniva destrutturato per essere ristrutturato in rapporto alle esigenze espresse da quella simulazione della condizione umana attraverso l’assunzione del modello meccanico. La macchina era l’ossessione del principio del secolo. Il Novecento nacque e mosse i primi passi sotto quell’incubo e quella curiosità. Si trattava di andare fino in fondo nello sviluppo dell’età meccanica. Il Novecento ha realizzato le potenzialità meccaniche fino a certi confini estremi. Si pensò anche di potere compiere un viaggio attraverso le profondità nascoste della psiche umana. Le avanguardie stesse intendevano portare alla luce del sole parti e brandelli di quella profondità oscura. Si rischiarava la notte dell’inconscio; si riportavano alla luce immagini e figure di questa inesplorata regione della mente (o dell’io profondo). Si attribuì alla parola una nuova inedita dimensione rivelativa. La letteratura ebbe sempre meno a che fare con l’esperienza ordinaria. Si cercò di esplorare dimensioni psichiche fino allora trascurate. Pirandello mise in rilievo gli equivoci che si celavano nello svolgimento dell’esperienza comune, che si intendeva accertata dai sensi e dalla ragione. Si vide la relatività di tale esperienza. L’interiorità proiettava sempre di più la sua ombra nell’ambito di ciò che era sembrata l’area della certezza sensibile. L’alterità affermava la sua legittima capacità di espropriazione dell’identità umana e personale. Ciò che fino allora era apparso inequivocabilmente identico appariva come altro. Si riconosceva che era pressoché impossibile comunicare qualcosa di certo. Si comunicavano, piuttosto, allusioni, cenni, indizi; si parlava per metafore, simboli. La realtà si deformava in infiniti modi. I primi decenni del secolo si sono sviluppati all’insegna della destrutturazione. L’immagine tradizionale del mondo si dissolveva, si scomponeva; e coi residui brandelli d’esperienza, di parola, di discorso
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bisognava cercare di ricomporre figure significative. La lettura e l’arte si esercitarono in questo processo di ristrutturazione. La prima guerra mondiale determinò un disperato bisogno di ordine, di chiarezza, di speranza. Si cercò di restaurare la parola nella sua dimensione ottocentesca, tradizionale, perfino classica. Questo bisogno si espresse ancora dopo la seconda guerra. Si trattava di ripartire dalle strutture più tradizionali e antiche, dal focolare domestico, dalla famiglia, dalla casa, dal paese, dagli amici. Questo è il senso della restaurazione neorealistica, promossa e resa possibile specialmente dal cinema. Questo, infatti, aiutava a recuperare gli elementi di una visione di certezze, di cose evidenti, di sentimenti universali. La letteratura aiutava a riscoprire la realtà familiare, quella più adatta per accingersi alla immane opera della ricostruzione. Riprendeva a prevalere coi suoi diritti l’esperienza quotidiana, la realtà familiare, la tradizione popolare. Il popolo era considerato come il grande fattore della conservazione, della memoria, dunque della nuova progettualità storica. Si rimetteva in piedi il sistema industriale del Nord. E a partire da questo si compiva la grande rivoluzione della trasmigrazione interna e della conversione di intere masse di contadini al lavoro industriale e all’inurbamento. Ciò determinava la formazione di una classe media allargata (fino a comprendere gli operai che godevano di un salario fisso): con ciò aumentava il potenziale numero dei fruitori e di lettori. La diffusione del libro venne promossa anche dal sistema delle pubblicazioni a dispense (talvolta anche come inserti di settimanali illustrati). L’istituzione dei premi letterari è stato un altro fattore di incentivazione al consumo librario. Altri fattori sono stati i partiti politici con l’offerta di materiale propagandistico e con la propaganda medesima di libri di narrativa, di storia, di divulgazione scientifica. Si spiega così anche il successo di collane economiche (dei “tascabili”). Ciò è stato un impulso notevole alla lettura. Si diffuse la conoscenza anche dei classici stranieri. Sul versante del pensiero filosofico si assiste a una generale dissoluzione del sistema della ragione. I presupposti del pensiero sono individuati nei processi pratici della vita e della cultura, nella partecipazione dell’uomo al generale vitalismo che domina e anima il tutto, nello sviluppo dell’intuizione e del sentimento, nello “slancio vitale”, insomma. Il sistema delle scienze positive è ricondotto da Croce all’ambito dell’attività pratica; esso comprende solo strategie della programmazione delle operazioni da compiere nel dominio della natura e nell’ordinamento della società. Lo spirito è riconosciuto nel processo inarrestabile del fare. In questo modo, qualsiasi struttura compiuta si dissolve nel movimento stesso del suo costituirsi; non ci sono più entità da contemplare. L’esistenza è la cura dell’uomo per il mondo, il pre-occuparsi, il disporre strategie e piani tecnici per la sopravvivenza. L’essere di Heidegger è un miraggio irraggiungibile: perciò il filosofo rinuncia a continuare la sua ricerca intorno ad esso e si limita a delineare la sua analitica esistenziale. Il mondo è l’utilizzabile e la categoria dell’utilità riassume il senso di ogni manifestazione umana e spirituale. La natura stessa, piuttosto che un ordine regolare di fenomeni, si configura come un processo inarrestabile di produzione imprevedibile, che solo in parte la scienza riesce a interpretare. Vi regna l’indeterminismo piuttosto che il necessario determinismo causale. Renouvier riconduce alla libertà anche i processi fisici. La determinazione causale dei fenomeni è un’operazione della scienza, piuttosto che una condizione della natura. Perciò Husserl denuncia lo schematismo della scienza moderna e rileva il carattere comprensivo e totale dell’esperienza della coscienza, che, nel suo assetto precategoriale, si presenta come un insieme irriducibile a dimensioni unilaterali. La stessa ragione appare molteplice, come uno strumento adatto per particolari operazioni tecniche, incapace di cogliere qualsiasi senso o di indicare un fine nell’ambito della natura o della storia. La ricerca del senso dell’essere ha solo il tono di un richiamo nostalgico, esprime l’istanza utopica di uno sviluppo diverso e alternativo della storia del pensiero. Heidegger mette in questione l’orientamento metafisico del pensiero occidentale e auspica un’inversione di tendenza. Ma la questione dell’essere rimane semplicemente posta e poi sviluppata attraverso un pensiero frammentario, del quale s’intendono rintracciare allusioni e indizi nella complessiva manifestazione della realtà nella parola (specialmente nella parola dei poeti). La realtà non è un ordine o un sistema di entità definite, è piuttosto un campo aperto di operazioni da compiere; coincide, pertanto, con lo stesso sistema della tecnica; e la tecnica è operatività, produzione artificiale, sperimentalismo. Prodotti sempre nuovi escono dalla dimensione naturale e sempre nuove strutture sono programmabili. La natura diventa il progetto dell’uomo. La progettazione è infinita, non ha limiti, avanza a mano a mano che si esplora il dominio dell’infinitesimale. Lo stupore è rivolto ai sempre nuovi ritrovati della tecnologia. Solo le operazioni che inducono la produzione di
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strutture programmate sono vere. La verità riguarda le operazioni umane, non le strutture della natura. Queste sono piuttosto ipotesi che vanno verificate attraverso la tecnica. Lo storico della letteratura rileva la dissoluzione del sistema metrico-poetico ancora elaborato da Carducci e Pascoli (e anche da D’Annunzio) e riconduce a una nuova dimensione diversamente articolata la quasi totalità dei poeti del Novecento.107 La preminenza della tecnica si rispecchia nell’accentuazione dei connotati formali della scrittura. Le teorie del linguaggio di cui è ricco il Novecento si giustificano in rapporto a questa esigenza. La costruzione del testo diventa sempre di più un’impresa di raffinata tecnica combinatoria.108 I contenuti sono per lo più ricondotti alla forma. Così, ad esempio, si attua la più libera e aperta contaminazione tra i generi: opere di narrativa si connotano come geniali saggi critici e viceversa questi si configurano come vere e proprie opere d’arte e di letteratura.109 Il prototipo dei personaggi che popolano le opere di narrativa è Zeno, che fa l’analisi di se stesso, si sdoppia nelle figure del paziente e del medico. In realtà è il romanziere che si proietta nei suoi personaggi.110 Così di fronte alla dissoluzione dell’unico modello di esperienza e di realtà, dilaga il fantastico. Il reale assume dimensioni inedite, quali, ad esempio, quelle che si riscontrano nel sogno.111 Predomina il paradosso, l’esagerato, quasi l’impossibile. E il fantastico si unisce quasi sempre al giocoso, all’umoristico, se non al satirico.112 Peraltro, si mette in discussione il 107
“Per i procedimenti tecnici innovativi nella poesia italiana emergono individui e gruppi: il predadaismo di Palazzeschi (che, riducecendo a insensata onomatopea il linguaggio delle ‘tre corone’ tardottocentesche, liquida di colpo ritmi e significati carducciani, pascoliani e dannunziani) e il prefuturista verso libero di Lucini; i crepuscolari, nei quali una ‘colloquialità’ quasi prosaica mescola e accorda termini preziosi con altri dimessi (Gozzano e Moretti, nonché Corazzini); i futuristi (da Marinetti a Cangiullo, da Covoni a Buzzi, da Altomare a Folgore), che, registrando senza argini il materico, sconfinano dalla poesia alla prosa per ridurre la seconda alla prima; gli espressionisti (Jahier, Sbarbaro, Rebora, i dialettali tessa, Marin Giotti, Noventa), che selezionano i vertici morali ed emotivi con cui incidere la scorza delle impressioni naturalistiche; i neoclassici (Cardarelli), che chiedono aiuto ai più alti modelli ottocenteschi per imprigionare e mitigare l’angoscia che è connotato inalienabile da qualsiasi modernità; gli ermetici (da Quasimodo a Gatto, da Sinisgalli a Parrochi, nonché da Betocchi a De Libero, fino ai maggiori Sereni e Luzi) [che attuano] il più ricco e misterioso laboratorio di poesia erede del simbolismo e del surrealismo; i neorealisti che divennero quasi subito neoespressionisti e neosperimentalisti, che magari avevano cominciato come ermetici (da Pisolini a Roversi, da Fortini a Cattafi, da Erba a Zanzotto, da Giudici a Raboni, da Legnetti a Majorino. Da Risi a Orelli) e che più tardi in molti casi aderiranno alla neoavanguardia (da Pagliarani a Balestrino, da Giuliani a Porta, da Sanguineti a Cacciatore, da Villa a Spatola, da Amelia Rosselli a Giuseppe Guglielmi)” (Walter Pedullà, Diagramma del Novecento, in Storia generale della letteratura italiana, Ed. Motta-L’Espresso, 2004, pp. 55-56). 108 “Sono così fatti, o così disfatti, i romanzi di Tozzi, Savinio e Gadda: lacerti vivissimi di narrazioni che vanno montati, spesso senza sutura, perché la vicenda cammini: o meglio voli per analogie che moltiplicano i significati dei vari episodi” (Op. cit., p. 52). “Chi punta sulla struttura privilegia il montaggio, giustapposizione di blocchi che possono essere congeniali ma che è meglio se sembrano incompatibili: più stridente è allora l’attrito, più bruciante il corto circuito. […] Ne sa qualcosa Gadda […]. Per procedere nella narrazione la iscrive dentro tanti riquadri, quanti sono i capitoli della Meccanica e della Cognizione del dolore e li mette in contrapposizione […]” (Op. cit., pp. 50-51). 109 “Sono connotati della scrittura del Novecento la mescolanza degli stili, l’urto di registri linguistici, l’accordo di parole straniere o di lingua e dialetto, l’epifanizzazione del trascurabile, la metaforizzazione globale, palese o nascosta, la desamantizzazione o svuotamento di senso. Sono connotati caratterizzanti della struttura il montaggio (giustapposizione di dati che fanno attrito), la verticalizzazione (il frammento o i frammenti lirici, la selezione di apici emotivi), lo straniamento (il discorso parla d’altro, l’analogia con qualcosa di opposto), la polifonia (il racconto per punti di vista, la composizione a cubo), l’infrarealismo (il ribaltamento prospettico che ingigantisce il minuscolo e minimizza l’immenso), l’ars combinatoria (o montaggio originale di elementi persistenti)” (Op. cit., p. 53). 110 “Tutti i personaggi sono uno solo: lo stesso autore che prende di volta in volta le sembianze di chi in un determinato momento esce dallo stato originario di onnipotenzialità nella quale non c’è differenza individuale. Il mondo ridotto a un unico personaggio che tutto lo contiene” (Op. cit., p. 49). 111 “Sogna sperando di non svegliarsi Palazzeschi. Per lui tutto il mondo è una sorpresa: l’uomo di fumo che era sceso dal camino per visitare il regno se ne scappa scottato: non c’è nessuno che non gli faccia la sorpresa di comportarsi in odo assurdo. […] Il laico Volponi si ritrova in testa i pensieri di fra Jacopone da Todi. E Calvino scopre che girando come fa un racconto d’oggi l’inseguitore è anche un inseguito” (Op. cit., pp. 48-49). 112 “Pirandello, Savinio, Palazzeschi, Bontempelli, Calvino, Malerba e manganelli scrivono come se il terreno in cui cresconocomicità e fantastico fosse lo stesso” (Op. cit., p. 53).
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concetto stesso di arte e di letteratura artistica, considerandolo piuttosto elitario, dunque proprio di una società divisa in classi piuttosto distinte. Il romanzo non è più l’unica (o predominante) forma di letteratura narrativa: esso si confonde spesso col reportage, col diario, con la corrispondenza giornalistica o la stessa cronaca di avvenimenti, specialmente di quelli sportivi. Tende pertanto a scomparire la differenza tra i generi di scrittura. E’ stato notato che in questa situazione le forme tradizionali dell’arte e della poesia hanno cercato modi, sia pure precari e provvisori, di sopravvivenza.113 La poesia ha cercato di scendere sul campo medesimo dell’esperienza quotidiana, riportando a sé i diversi generi di scrittura. La poesia si fa filosofia.114 In questo stesso senso, la riflessione critica rappresenta uno dei canali più fecondi del rinnovamento letterario. Il sistema letterario si è rivelato come un ordine autonomo di continua elaborazione di contenuti archetipi. Propp ha rilevato che alla base di ogni fiaba c’è “una favola di cui tutte le favole di magia non sarebbero che varianti”. Sono le azioni-tipo gli elementi fondamentali che funzionano in ogni tessuto fantastico: le narrazioni sono varianti di una medesima storia. In questa direzione, si è potuto affermare che l’arte è pura forma.115 Così può accadere che tutte le opere di un autore, come ad esempio Dostoevskij, siano altrettante variazioni di un nucleo narrativo fondamentale. Si potrebbero considerare, così, i diversi romanzi come altrettanti capitolo di un solo romanzo, tanto le tematiche, i problemi, i tratti della visione del mondo si corrispondono e si richiamano reciprocamente. Opere complesse come Il Mulino del Po di Bacchelli si spiegano con la continua proliferazione dell’asse narrativo e la sua dislocazione molteplice in episodi che trovano la loro composizione armonica nell’insieme che intanto si delinea, crescendo con il continuo determinarsi delle variazioni (che sono in gran parte formali, dato che il contenuto rimane sostanzialmente invariato). L’uomo del Novecento ha continuamente a che fare con la nevrosi: finita l’egemonia dell’io razionale, messa in discussione la costituzione del soggetto logico, trionfalmente avviato per i sentieri del progresso e della libertà, l’uomo si riconosce estraneo a se stesso, alienato, affetto da una malattia spirituale che si configura specialmente come angoscia dinanzi al precipitoso volgere del tempo, alla straordinaria accelerazione impressa al divenire. Marx e Freud appaiono i principali interpreti di questa situazione umana, sospesa tra alienazione e nevrosi.116 In realtà, il marxismo appariva 113
“In periodi diversi il poeta ha messo in versi la vergogna di fare poesia dopo che la contestazione aveva rivelato che solo dei fantasmi avrebbero scritto letteratura: si passi dunque all’azione , dissero gli anni di piombo. Astuzia della provvidenza, è possibile fare poesia della vergogna di scrivere versi quando le energie andrebbero incanalate nella politica. La poesia muore di politica e tuttavia di politica riesce a vivere: Majakovskij, Jahier, Sereni, Scotellaro, Pagliarani, Fortini, Pisolini, Roversi, Legnetti, Balestrino, Sanguineti e Delfini” (Op. cit., p. 45). 114 “E’ tornata fondamentale in letteratura la filosofia. Pensiero più musica è la poesia, dice con Scleiermacher, Montale. Il Novecento ha trasformato in poesia ogni materiale intellettuale (Gadda, Bontempelli, Onori, Zanzotto, Amelia Rosselli), persino l’economia e la questione meridionale (Pagliarani in Lezioni di fiisca). Col ritmo spezzato bene (secondo Olson, la poesia si legge con l’orecchio) non c’è pensiero o concetto che non combina una forte emozione intellettuale. Ed è questo per gli artisti l’ossimoro più denso e suggestivo di un secolo che – maestro Pirandello – aspira a commuovere con la riflessione più accanita” (Op. cit., p. 40). 115 L’affermazione è di Victor Sklovskij, l’autore di Teoria della prosa. “Nel saggio Arte come artificio si fa consistere tale forma negli artifici stilistici, nella trama, nella struttura e nelle figure retoriche. E’ la forma-artificio l’autentico contenuto dell’arte. […] Le idee, i sentimenti e i giudizi sono sempre gli stessi: nuova è solo la combinazione delle forme. Meglio se il racconto risulta non rettilineo ma pieno di digressioni, lacunoso e incompiuto. Le sue qualità sono la stranezza, la singolarità, la sorpresa, il sarcasmo, l’irrisione e il sacrilegio. E in quanto ai modelli, saltare i padri e rivolgersi agli zii e ai nonni. Non l’Ottocento dunque, bensì il Settecento illuminista, l’enciclopedia, i generi misti, la memorialistica e ogni letteratura senza soggetto. In termini diversi quella che Ortega y Gasset avrebbe chiamato nel 1926 ‘disumanizzazione dell’arte’: della quale il filosofo spagnolo porta a esempio il teatro di Pirandello” (Op. cit., p. 42). 116 “Aveva officiato il matrimonio fra marxismo e psicanalisi Jean-Paul Sartre, il pensatore che ha pure reso inconsapevoli alleati di Marz la fenomenologia e l’esistenzialismo. Il marxismo, la psicanalisi e la fenomenologia hanno frequentato quella scuola del sospetto che ha smascherato ideologie sociali, coazioni culturali r sublimazioni dei rapporti di forza. Naturalmente, quando finì l’embargo per Nietzsche, imputato di essere il progenitore del nazismo, l’autore di Così parlò Zarathustra parve il più geniale profeta e il più feroce iconoclasta della modernità” (Op. cit., p. 35). “La miscela fra marxismo da una parte e psicanalisi, fenomenologia e strutturalismo dall’altra ha generato
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come la possibile via per sfuggire alla nevrosi, determinata dalla stessa condizione esistenziale dello sradicamento dalla realtà sociale. L’esistenzialismo, a sua volta, era considerato come la più efficace e radicale analisi di quella condizione. La fenomenologia poteva fungere da tramite e intermediario, mettendo in rilievo gli atteggiamenti intenzionali attraverso i quali intervenire per instaurare un equilibrio nello sviluppo dell’umanità. Essa, infatti, riconducendo i comportamenti individuali e sociali alla loro matrice intenzionale, indicava le possibili vie di rimedio alla nevrosi. Il marxismo appariva il rimedio più attuale per una ricomposizione organica della società.
Per un panorama culturale del Novecento (cfr. F. Restaino, in “Storia della lett. It.”, Il Sole-24 Ore”, XVII, 51 sgg.) Nei cento anni che vanno dalla fine dell’età napoleonica e la prima guerra mondiale, in Europa non si erano avuti grandi rivolgimenti e l’equilibrio fondato sul sistema di alcune monarchie stabili aveva sostanzialmente retto, pur con episodici conflitti, dovuti piuttosto all’ottocentesco movimento per la libertà delle nazioni. Con le monarchie resisteva, con alcuni fondamentali privilegi, la classe nobiliare, che esercitava la sua egemonia nelle campagne, mentre nelle città andava crescendo il proletariato industriale. Indubbiamente la borghesia si avviava a occupare il potere politico, dopo essersi impadronita di quello economico. Il sistema delle monarchie cercava di mantenersi saldo e, per alcuni aspetti, di rafforzarsi per via dello sviluppo delle relazioni dinastiche, mediante i matrimoni tra le grandi case principesche. Il proletariato si era organizzato intanto nei grandi partiti e movimenti politici di massa. La borghesia poté, tuttavia, contenere l’urto di quel movimento, ricorrendo, dopo la crisi della guerra, all’instaurazione di regimi autoritari nella maggior parte dei paesi europei (Italia, Germania, Spagna e altrove), mentre i regimi liberali resistevano in altri paesi (Inghilterra, Francia, Olanda, Belgio, Stati Uniti). Agli inizi del Novecento quella società, sostanzialmente stabile e dominata da una grande fiducia nel progresso e nello sviluppo assicurato dai rapidi mutamenti che l’applicazione sistematica della scienza alla tecnologia faceva intravedere, appariva in grado di resistere e consolidarsi. Circolava un clima di profonda soddisfazione, tanto che si chiamò “Belle époche” quell’età di ritrovata armonia tra gli individui e i popoli, propria di una società ancorata a principi morali consolidati e governata da regimi stabili. Ma su quella società si riversò il grande terremoto della guerra, con l’impressionante spettacolo di morte e di distruzione. L’umanità si trovò a vivere la sua più grave crisi, una crisi tale da fare pensare a un fatale declino della stessa civiltà europea, a una fine dell’Occidente come sistema culturale, morale e politico costituito come nucleo e fondamento dello stesso sistema mondiale della civiltà.117 La stessa società europea era colpita irreparabilmente. Crollava, infatti, il sistema di scambi, di relazioni, di reciproci influssi che, attraverso le grandi città (Parigi, Vienna, Berlino, Pietroburgo, Londra, Roma), concorrevano a fare dell’Europa una sola grande area culturale, in cui un pubblico esteso partecipava agli stessi eventi e dovunque emergeva una comune mentalità e un medesimo gusto. In realtà l’Europa costituiva un unico “ambiente”, dove gli intellettuali, i rappresentanti dell’aristocrazia, gli stessi borghesi s’incontravano, sentendosi dovunque come a casa propria. Dopo la guerra, quella realtà si frantuma irreparabilmente, quel sistema si dissolve, tornano a predominare le chiusure nazionali e, al posto del senso di sicurezza, esplodono le inquietudini, le incertezze, le ansie e le paure per il futuro e il vuoto. L’esperienza e l’impressione dominanti sono quelle di una radicale
incongruenze a livello di teoria ma ha figliato opere d’arte ragguardevoli e ha impresso un vigoroso dinamismo alla cultura più sensibile al mutamento e alla ricerca” (Op. cit., p. 39). 117 “Quella guerra costituisce per tutti, gente del popolo, borghesi, intellettuali, un trauma enorme, e opera un profondo cambiamento non solo in chi la combatte, da una parte e dall’altra, non solo in chi ne subisce le conseguenze anche senza combatterla, ma in chi da quella è indotto a interrogarsi sul destino dell’umanità, sulle scelte e sui ‘valori’ che ancora danno, o che più non danno un ‘senso’ alla vita umana. La guerra provoca una crisi della coscienza e della cultura europee di dimensioni e di profondità mai viste. Filosofi, artisti, scrittori, moralisti, intellettuali attenti a osservare e valutare quel che succede intorno, documentano in maniera più o meno drammatica questo nuovo stato di cose, questo ‘disorientamento’ che colpisce strati sociali e intellettuali sempre più vasti” (Restaino, 52; cfr. H. Stuart Hughes, Coscienza e società. Storia delle idee in Europa dal 1890 al 1950, tr. it., Einaudi, Torino 1967; tra gli intellettuali che hanno particolarmente testimoniato la crisi europea: Peguy, Gide, Alain-Fournier, Proust, Spengler, Hesse, Mann, Benda).
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difficoltà a riconoscere i contorni della stessa figura e identità umana. Questo è il clima generale all’interno del quale maturano le nuove esperienze intellettuali, artistiche, filosofiche, che sono proprie dell’età tra le due guerre. In Germania la tradizione di pensiero che aveva dato l’idealismo e poi il nichilismo si trova impegnata nell’interrogazione intorno ai caratteri, al ruolo e alla funzione della stessa filosofia, oltre che alla responsabilità degli intellettuali. Husserl così formula l’idea del filosofo “funzionario dell’umanità”, che, movendo dalla riflessione sulla crisi della cultura scientifica, sia capace di indicare una via per la ripresa e la ricostruzione o ricomposizione del mondo occidentale. Agli inizi del Novecento egli è già il maestro riconosciuto del pensiero europeo.118 La fenomenologia è la filosofia che avrà il più vasto influsso sullo sviluppo dell’intero pensiero del secolo. Husserl col suo indirizzo si propone di portare alle estreme conseguenze la filosofia trascendentale, cioè la ricerca sui processi mentali che fanno capo alla costituzione pura della coscienza. Che cosa, in questo senso, si può dire, allorché si “mette tra parentesi” l’intero mondo culturale che costituisce l’orizzonte della nostra esperienza e del nostro sapere? Che cosa contiene la mente, prima che essa dia corso alla complessa formazione delle sue idee relative ai diversi campi della cultura? Quali sono i principi che presiedono alla formazione dei concetti logici, ad esempio, o dei concetti scientifici o di quelli morali e politici? La filosofia, per Husserl, deve interrogarsi e indagare intorno alla pura condizione trascendentale della coscienza, per esplorare quella zona in cui si avvia ogni processo di attività mentale, di fondazione della cultura e del sapere. La fenomenologia gravita intorno al concetto di “intenzionalità”, termine col quale si indica la disposizione originaria della mente, cioè la struttura trascendentale della coscienza come fonte del pensiero e principio della costruzione dell’intero mondo culturale e umano. La mente umana è dotata di un originario impulso a dare luogo a sfere “oggettive” che corrispondono ai diversi ambiti culturali (il sistema dei concetti scientifici, il complesso delle credenze religiose, i principi della morale e del diritto, e così via). Questa disposizione trascendentale originaria è ciò che Husserl chiama “intenzionalità”, in quanto rappresenta la tendenza della mente (che appartiene al soggetto) a costituire un mondo di valori e dati oggettivi. L’indagine fenomenologica, secondo Husserl, muove, dunque, dalla liberazione della coscienza da ogni contenuto, da ogni oggettività, per potere osservare la mente nella sua costituzione pura, come struttura interamente a priori. In tal modo sarebbero emersi i principi e i processi di fondazione dei concetti relativi alle diverse sfere culturali (scienza, tecnica, morale, religione, diritto e così via). Queste sfere costituiscono, in tal modo, l’oggetto della successiva fase dell’indagine filosofia, rivolta a ricercare la struttura delle diverse “ontologie” relative ai diversi settori dell’esperienza e del mondo. Le ontologie “regionali” comprendono i concetti generali di cui sono costituiti e sui quali si fondano le diverse aree culturali. Il filosofo che ha inteso proseguire sulla via tracciata da Husserl, nel senso, tuttavia, dello sviluppo originale, è Heidegger, la cui opera principale, Essere e tempo, è del 1929, riflette, pertanto, in modo emblematico i caratteri di quell’età di crisi che segue la tragedia della guerra, con la dissoluzione dei valori positivi, morali, politici, culturali. L’esperienza allora si declina in un senso “negativo”, sul versante di ciò che appartiene al nulla piuttosto che all’essere. Questa ipotesi radicale rappresenta in realtà la conseguenza estrema di un pensiero che si sviluppa nel segno della negatività. L’esistenza umana costituisce, del resto, il terreno più proprio e adatto a una simile indagine e riflessione. Che ne è dell’uomo allorché la stessa sfera intenzionale (per cui è fondata ogni idea positiva relativa ai diversi ambiti culturali) è devastata e messa in crisi? Heidegger compie il tentativo radicale di trarre da una tale situazione ancora motivi per potere pensare. Ciò ci convince e ci persuade intorno alla forza del pensiero, come estremo motivo di certezza per la realtà umana, come, cioè, quella “verità” che permane pur dopo la più totale devastazione. Quando la stessa intenzionalità sembra cancellata, riemerge il pensiero, come istanza e struttura atta a produrre nuova intenzionalità, sia pure, in primo luogo, rivolta a individuare gli stessi elementi concettuali sulla cui base si sviluppa il nichilismo. L’idea fondamentale su cui Heidegger riesce a riprendere l’opera filosofica di ricostituzione del mondo della cultura e della storia è quella di finitudine, connessa alla stessa idea di esistenza. La realtà che il pensiero umano (dunque la coscienza o la mente) in primo luogo rivela è quella relativa all’esistenza finita, a quella esistenza per la quale la morte costituisce la stessa possibilità d’essere. 118
Le più significative opere di Edmund Husserl (1859-1938), Ricerche logiche, La filosofia come scienza rigorosa, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia trascendentale, appartengono ai primi decenni del Novecento.
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Heidegger, in un’epoca in cui la forma stessa dell’uomo sembrava dispersa, ricorda che l’uomo è l’ente finto che ha la prerogativa di interrogarsi intorno al proprio “essere” e all’essere in generale. Egli pertanto intende percorrere quel sentiero ancora aperto alla riflessione filosofica e per il quale l’uomo avrebbe potuto trovare una nuova “possibilità” di esistenza autentica, sottratta ai modi della prevalente declinazione di essa nel “mondo” quotidiano della banalità, dello sfruttamento materiale, della chiacchiera, della ricerca del piacere e del “benessere”, secondo un sistema di vita fondato sulla sempre più ampia disponibilità di prodotti di “consumo”. In questo modo la filosofia investiva l’esperienza dell’uomo comune, entrava nell’orizzonte dell’esistenza quotidiana, metteva in discussione tutto ciò che appariva ovvio e inevitabile, riportava l’individuo alla radice delle sue responsabilità etiche. La filosofia si prospettava come il terreno in cui la ragione umana avrebbe potuto ritrovare la sua autonoma capacità di riscoprire ciò che è proprio dell’uomo, sulla base della libera riflessione e recuperando tutti gli elementi culturali e di pensiero che, nel corso della storia, hanno caratterizzato lo sforzo rivolto verso il percorso in cui si manifesta la verità intorno all’uomo, alla sua natura e al suo destino. Come si vede, si trattava di restituire alla filosofia una funzione di ricerca autonoma a partire da una domanda radicale, da un atto profondo di problematizzazione, cioè dal problema che coincide con l’orizzonte dell’esistenza medesima. L’analitica eistenziale di Heidegger mette in rilievo le modalità trascendentali (cioè basate sulle stesse strutture del soggetto) di declinazione dell’esistenza: in primo luogo l’”essere-nel-mondo”, il processo attraverso il quale l’esperienza umana si configura come sistema di rapporti con le cose e con gli altri. Si rileva che generalmente questa modalità della declinazione esistenziale assume i caratteri dell’esperienza pratica basata sul criterio dell’utilizzabile, per cui il mondo stesso si configura come l’orizzonte del reale in quanto è a portata di mano (di tecnica): gli stesi rapporti intersoggettivi si delineano come un sistema basato su un tipo inautentico di comunicazione, secondo cui ogni individuo vede nell’altro il termine di uno sfruttamento possibile in vista dei propri bisogni e desideri. Tutta la civiltà appare viziata da questa forma di esistenza: e gli eventi storici non sono altro che l’espressione e la manifestazione di un modo inautentico di vivere e di sperimentare l’essere proprio. In questo modo la morale, la politica, l’arte e la stessa religione (oltre alla scienza) fanno parte del sistema del mondo come orizzonte generale dell’esistenza dispersiva e sempre più lontana e separata dal suo autentico “essere”. Il soggetto a un certo punto deve essere portato dalla riflessione ad avvertire la propria responsabilità di fronte a tali modalità inautentiche di esperienza umana: egli avverte un senso di profondo smarrimento di fronte al dileguarsi del mondo stesso e all’apparire di un orizzonte di pure possibilità. Bisogna passare per tale esperienza, per potere pervenire a una forma autentica d’esistenza, cioè a un’esperienza esistenziale corrispondente a ciò che è proprio dell’essere umano. Questa modalità che prelude a una specie di liberazione dal mondo comune è l’angoscia, che ripropone il tema kierkegaardiano dell’esistenza come pura possibilità e responsabilità di scelta. Così l’uomo si libera dalla cura per il mondo e si dispone a sviluppare una forma di esistenza basata sulle sue più proprie possibilità. In primo luogo, e principalmente, il soggetto deve vivere l’esperienza dell’esistenza come pura possibilità. Questa fase della ricerca dell’esperienza autentica è ciò che Heidegger chiama “essere-per-la-morte”, poiché la morte è la possibilità che fonda tutte le altre possibilità, il fondamento dell’essere stesso come orizzonte di possibilità. D’altra parte, la morte rimanda alla finitezza, dunque alla temporalità. Heidegger si ferma quando avrebbe dovuto dirci quali possibili sentieri si aprono all’umanità nell’attuale situazione storica e quali forme d’esperienza autentica sono oggi da ricercare per consentire la generale “salvezza” dell’umanità. Giustamente egli ci ricorda che a questo punto il compito della filosofia finisce, dato che non si può attribuire al pensiero razionale la capacità di profetizzare il futuro. Così il posto è ceduto all’esperienza della parola poetica, che, per le sue dimensioni di profondità, è la più adatta a suggerire e a indicare, ad alludere e a far vedere, a manifestare ciò che appartiene alla stessa “verità” dell’essere. Si tratta, comunque, di vivere il più radicalmente possibile l’esperienza della ricerca dell’essere (e del suo essere proprio), fino al punto di affidarsi interamente a questa domanda e a identificarsi con essa. Allora l’esistenza si assimila alla manifestazione dell’essere e l’orizzonte è occupato interamente da questa rivelazione. Tutto ciò che avviene si configura come una forma dell’eventualità temporale come “storia dell’essere”.119
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“La ricerca dell’essere da parte dell’ente ha quindi un carattere non più puramente teoretico, ma investe tutta la persona nei suoi sentimenti e impulsi più profondi” (Restaino, 58).
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Per Jaspers, l’esistenza è essenzialmente trascendenza verso l’essere. La finitudine si esprime essenzialmente in una tensione (che assume tonalità anche tragiche, di estremo struggimento) verso l’infinito. Questa caratteristica connota inevitabilmente l’esistenza. L’uomo, principalmente, è attratto dalla ricerca della “verità”, avverte il limite della mancanza di conoscenza, la situazione di disagio che deriva dall’errore e dall’opinione relativa e provvisoria. L’uomo soffre per essere costretto a vivere nella finitezza dell’esistenza. Perciò l’esistenza si configura come un orizzonte verso il quale costantemente essa è rivolta. Essa si declina a partire da questa tensione. La filosofia ha il compito e la funzione di attuare le forme di più intensa tensione, dunque le forme concrete dell’inserimento negli orizzonti progressivi in cui si va situando la tensione esistenziale verso la verità e l’assoluto. La fenomenologia indaga queste forme dell’esistenza come forme dell’esperienza dell’infinito.120 Per Sartre, invece, il trascendimento dell’esistenza si colloca, piuttosto che nell’essere proprio dell’esistenza, nel rifiuto di ogni situazione da parte dell’esistenza e, dunque, nella continua erosione dell’essere che costituisce l’esistenza medesima. L’esistenza è messa in discussione di ogni forma di essere, processo di annientamento, di annichilimento. Essa ha la sua radice nel nulla piuttosto che nell’essere. Il soggetto reca il carattere e l’impulso del “per-sé”, cioè della realtà che continuamente si svolge e si fa, contrapponendosi a ogni realtà chiusa e solidificata, caratterizzata dalla forma dell’”in -sé”. L’esistenza, in quanto continua tensione e impulso a darsi una realtà, vive l’esperienza radicale e costitutiva della sua libertà. L’uomo si trova sempre a opporsi a qualcosa di inerte, a qualcosa, cioè, che si presenta come un tentativo di annullare la sua libertà. La visione sartriana del mondo è, perciò, drammatica, basata sull’opposizione e sulla resistenza all’azione nientificante che proviene dagli altri e dalle cose. Perciò Sartre iscrive il suo pensiero nella cornice della concezione dialettica della storia. La sua opera che meglio delinea il suo pensiero nella sua complessità, e che si caratterizza come una sintesi organica di esistenzialismo e di marxismo, è la Critica della ragione dialettica (1957-60).121 L’esistenza si configura come struggente ricerca dell’essere (inteso come fondamento assoluto) negli esistenzialisti francesi di orientamento spiritualista, principalmente in Marcel, che in opere significative (Essere e avere, Homo Viator, Il mistero dell’essere, scritti fra il 1935 e il ’51) ha sviluppato il tema di un inevitabile incontro di pensiero ed esperienza religiosa, nella convinzione, appunto, che la ricerca speculativa rimanda al sentimento religioso, che è unicamente in grado di aprire l’esperienza umana alla sfera del “mistero”. Mentre nell’Europa continentale si sviluppava l’indirizzo fenomenologico ed esistenzialistico, nel mondo angloamericano il pensiero filosofico è rappresentato dall’indirizzo logico-matematico-analitico. I
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“Come in Heidegger, anche in Jaspers il singolo individuo nella sua esistenza ‘situata’ si interroga sul mondo e sull’essere di questo, riscontra i limiti delle risposte delle scienze, delle filosofie, delle religioni, e cerca incessantemente una risposta. Jaspers studia a fondo i tentativi di risposta che partono dalla consapevolezza sia della propria libertà di scelta, pur nella ‘situazione’ dell’esistenza, sia del carattere illusorio di tale libertà (non ho scelto io di essere nel mondo, qui ed ora). La ricerca di ‘senso’ della propria esistenza porta, secondo Jaspers, gli spiriti più profondi e conseguenti ad accettare il proprio ‘destino’ (in questa tesi è stato riscontrato un preciso influsso di Nietzsche), vivendolo però non come esperienza comune e ‘ingenua’, ma come esperienza esistenziale con i suoi momenti di drammaticità” (Restaino, 59). 121 “La libertà è per certi aspetti quasi una ‘condanna’, in quanto ci ‘costringe’ a ‘progettare’ ad ogni momento la nostra vita, ad assumerci le ‘responsabilità’ di quanto facciamo; da qui i momenti di angoscia, di paura, di attesa e altre esperienze che l’autore analizza o raffigura con grande maestria. Da questa tesi di fondo Sartre faceva discendere un’altra tesi, destinata ugualmente a una fortuna enorme: quella della necessità dell’’impegno’ da parte dell’intellettuale cosciente della propria irriducibile libertà. L’uso responsabile della libertà, infatti, per Sartre non porta all’anarchia, ai comportamenti egoistici e arbitrari. Pur non essendoci sistemi di valori oggettivi e assoluti, egli ritiene infatti che nell’essere umano consapevole della sua libertà debba prevalere l’impegno, per rendere i rapporti umani più giusti. Di qui l’incontro con il marxismo e con l’esigenza di una nuova società in cui la giustizia prevalga sull’ingiustizia” (Restaino, 60).
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rappresentanti più importanti di questo indirizzo sono Russell e Moore, insieme all’austriaco Wittgenstein, che fu loro allievo. Secondo costoro, i filosofi continentali, percorrendo sentieri diversi da quelli delle scienze e delle matematiche, si attardavano ancora nell’ambito dell’apparato concettuale della metafisica tradizionale. Russell, che insieme a Witehehead scrisse i “Principia Matematica” (1910-13), propone alla filosofia il compito di enucleare le proposizioni fondamentali espresse intorno al mondo, cioè quelle proposizioni che indicano condizioni generali dell’esperienza e della realtà e che costituiscono qualcosa come gli “atomi” o elementi della realtà. Anche Moore partiva dalle proposizioni fondamentali che compongono le enunciazioni comuni (e scientifiche) intorno alla realtà. In tal modo dimostrava che la filosofia non ha bisogno di un linguaggio tecnico specifico e che si serve di argomentazioni proprie del linguaggio comune. Wittgenstein, nel suo famoso “Trattato logico-filosofico” (1921) metteva in rilievo la corrispondenza tra le strutture linguistiche e le condizioni della realtà, distinguendo tra le verità relative a condizioni di fatto e quelle relative a condizioni puramente logiche. In realtà, egli osservava, però, che, per stabilire la effettiva verità delle proposizioni, sarebbe necessario un punto di vista neutrale rispetto al dualismo di linguaggio e realtà, per cui, mancando un tale soggetto, la realtà si sottraeva alla possibilità di una sua descrizione vera e il linguaggio, da parte sua, si riduceva a una funzione assurda, quella cioè che è chiamata a testimoniare l’indicibilità del reale. La filosofia del Novecento tra disincanto e nostalgia Le filosofie del Novecento si possono, molto approssimativamente e in generale, distinguere in due gruppi di tendenze: uno è quello dei nostalgici della metafisica e le loro filosofie si possono considerare come dei tentativi (sempre interessanti) di ricostituire almeno le condizioni (i presupposti) per la ripresa della metafisica; l’altro è quello dei razionalisti e dei positivisti, critici e avversari di ogni pur debole fuga e sconfinamento del pensiero verso gli spazi incontrollati e “liberi” (per un certo verso) della metafisica. Da una parte si considera definitivamente tramontata l’età della metafisica e dall’altra si sostiene che senza la metafisica non ci sarebbe neppure filosofia e che l’indagine intorno alle regole di costruzione del discorso (e specialmente del discorso scientifico) si configura come una metodologia (metodologia della ricerca, come diceva Paolo Filiasi Carcano, ad esempio). Ma vediamo più dettagliatamente questo panorama di tendenze che, un po’ schematicamente, si può ricondurre alla divaricazione suddetta. I razionalisti e i neopositivisti attribuiscono alla filosofia una funzione eminentemente logica e metodologica. Funzione del pensiero sarebbe quella di controllare e verificare le proposizioni che si enunciano (specialmente in sede scientifica), per verificare la loro rispondenza ai fatti da una parte e la loro congruenza logica dall’altra. Si tratterebbe di verificare la funzionalità di alcune ipotesi interpretative rispetto agli stessi scopi pratici e dunque la possibilità di rispondere a determinate domande che sorgono nel contesto culturale complessivo. In definitiva, la questione filosofica si riduce alla formulazione di ipotesi logico-metodologiche utili agli scopi del progresso della civiltà e dello stesso dominio dei fenomeni. In questo senso l’asse di rotazione del pensiero si configura come un prevalente pragmatismo (o neopragmatismo). Per lo più questo orientamento (sostenuto specialmente intorno agli anni cinquanta da Giulio Preti), l’ideale sarebbe di pervenire a una sintesi funzionale di pragmatismo, neoempirismo e filosofia della prassi (marxismo, gramscianesimo). Il risultato della riflessione dovrebbe avere un carattere metodologico, consentire, cioè, lo sviluppo dei modelli di interpretazione più vantaggiosi per il raggiungimento di determinati scopi (per esempio, per la migliore organizzazione della società oppure per il più vantaggioso modello economico). Non si tratterebbe di conseguire certe “verità”, bensì di disporre l’organizzazione dell’esperienza per il conseguimento di livelli migliori di civiltà. Si potrebbe parlare, a questo proposito, di un neoilluminismo (del quale principale assertore è stato Nicola Abbagnano). La filosofia, come è ovvio, non si propone di fondare discorsi sulla costituzione del reale o sulla “verità” intesa anche come concordanza e accettazione universale, sia pure considerata in prospettiva, cioè in una visione storicistica, della quale la principale categoria è quella del progresso, coincidente con l’affermazione della razionalità. Si può dire che questa tendenza sia uno dei caratteri fondamentali del nostro tempo e che essa risponda all’esigenza del miglioramento delle condizioni
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generali dell’umanità (specialmente se si guarda a quella parte di umanità che ancora vive in condizioni di arretratezza). Si attribuisce alla filosofia un compito eminentemente pratico, congruo con lo sviluppo della tecnica e con l’affermazione della democrazia nel mondo. Questa corrente, è ovvio, dichiara una certa indifferenza rispetto alle credenze che riguardano sfere separate dell’esperienza, come ad esempio la religione o l’arte. Si ritiene che l’atteggiamento razionale non viene generalmente a trovarsi in conflitto con le verità e articoli di fede: Al limite si ritiene che anche il laico e il razionalista possono abbracciare una fede religiosa, che colmi un vuoto lasciato dalla ragione, e che, pertanto, anzi, la tolleranza verso tutte le credenze costituisca una condizione favorevole all’affermazione di modelli universali di comportamento e di civiltà. Un tale atteggiamento risponde in qualche modo ai caratteri della nostra epoca, razionalistica e liberale. Si tende a tenere salda la conquista moderna dei diritti e delle libertà individuali e si considera primario il rispetto della persona umana nella sua identità culturale e nel patrimonio inviolabile dei suoi diritti. Certo, una tale tendenza di pensiero rifiuta ogni dogmatismo della stessa ragione e ammette che ogni verità condivisa non esprime nessuna certezza definitiva e che rappresenta sempre una modalità provvisoria (storicamente fondata) di vedere (e pensare) il mondo. Si può rimproverare ad essa il fondamentale relativismo? No, se si muove dalla convinzione che la stessa ragione è una facoltà umana e che essa non è certo atta a cogliere l’essenza delle cose bensì a stabilire condizioni universali e condivise dell’esperienza. Si parte dalla convinzione che il criterio (della scelta di un modello, della decisione, e così via) è sempre umano, radicato nell’intelligenza, espressione della mente finita. Si deve riconoscere, poi, che questo orientamento risponde allo scopo pratico di stabilire le condizioni per una sempre maggiore comprensione e un dialogo sempre più aperto tra gli individui, i gruppi e i popoli. Possiamo dire che esso abbia contribuito alla diffusione della democrazia, allo sviluppo di una civiltà del dialogo e della tolleranza reciproca. Certo, questa filosofia (se così ancora si può chiamare) ha contribuito all’occultamento (o crisi) dell’atteggiamento metafisico (che pure non è da sottovalutare), alla crisi della “verità”, al consolidamento del relativismo; ma dobbiamo anche dire che ha contribuito alla fine del dogmatismo, alla promozione della libertà, all’espansione della democrazia. Si tratta, in fondo, di disporre le condizioni per lo sviluppo di comunità umane che siano sempre di più in grado di creare valori condivisi universalmente, di adottare sistemi di vita rispettosi dei diritti e delle libertà individuali, di aumentare il volume delle comunicazioni a livello planetario. Gli uomini si riconoscono in quanto ricercano, si pongono domande, si ascoltano reciprocamente e si aiutano nella comprensione dei problemi comuni. Si può dire, questa, una filosofia utilitaristica, commisurata ai vantaggi pratici che può recare agli uomini: ma già questo è un gran merito, perché gli uomini oggi hanno bisogno di condizioni migliori di comunicazione; essi devono essere messi nelle condizioni di comunicare tra loro, di confrontarsi sul terreno dei problemi concreti e attuali, di esprimere anche i loro dubbi e il loro scetticismo. Contro una tale riduzione della filosofia a metodologia insorgono i nostalgici della metafisica. Costoro generalmente ammettono che la metafisica debba rinnovarsi dopo la crisi degli ultimi grandi sistemi, principalmente dell’idealismo. Ammettono che la “nuova” metafisica si pone su un piano diverso, di debolezza del pensiero, di sperimentazione, di ipotesi problematica. Ma continuano a trattare i problemi cruciali per lo sviluppo del pensiero speculativo, e si esercitano nella produzione di vaste analisi teoretiche, di discorsi “astratti”. Non si può dire che il Novecento sia stato avaro in tale produzione speculativa, anzi si deve registrare una fecondità straordinaria, che tuttora è in corso. Cacciari, ad esempio, ci propone una riflessione speculativa di alto livello. Ma abbiamo i grandi nomi di Husserl, di Heidegger, di Sartre, di Marcel, di Gadamer e Ricoeur, oltre che degli italiani Gentile, Sciacca, Pareyson, Paci e così via. Il livello speculativo di tutte queste filosofie non è da meno rispetto a quello, classico, di Descartes o Spinoza o Vico o Hegel. La questione metafisica che affiora prepotentemente all’orizzonte del pensiero speculativo del nOvecento è la questione del senso dell’essere. Heidegger è il filosofo che più esplicitamente ha posto tale questione come quella propria del nostro tempo. Egli ha attribuito il fallimento della metafisica occidentale alla mancata impostazione di tale questione e alla errata e fuorviante concezione tradizionale (storica) dell’essere. L’essere è stato inteso come il reale esistente e l’esistenza è stata intesa come semplice “presenza”. Questa modalità corrisponderebbe però a una modalità di porsi del senso dell’essere. Heidegger intende il senso dell’essere come il modo di manifestarsi del reale (l’essere) e dunque come il modo di rapportarsi di ogni ente a tale senso. Ogni ente è se stesso nella condizione di senso che gli è attribuita dal senso dell’essere
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in generale. Heidegger si è limitato però a tracciare la parte propedeutica della nuova metafisica avente per oggetto il senso dell’essere, mentre ha affidato a sondaggi e tentativi compiuti in un’area più ampia del linguaggio poetante il compito di sopperire alle insufficienze del discorso razionale. Ciò vuol dire che la nuova metafisica va costruita con strumenti di pensiero diversi rispetto a quelli tradizionali della ragione speculativa. La metafisica andrebbe fondata specialmente sul terreno della riscoperta dei significati originari delle parole, dunque attraverso forme inedite di esperienza del linguaggio. I nostalgici dell’essere nel Novecento sono tanti e hanno proposto diverse ipotesi di esperienza metafisica. Il problema non è più tanto quello di individuare gli “oggetti” immutabili ossia le astrazioni concettuali universali (opure è ancora anche questo), bensì quello di tracciare la fenomenologia degli oggetti in rapporto al nostro essere, alla nostra coscienza. E’, ad esempio, quello che fa Bergson col concetto di tempo: non si può dire che cosa sia il tempo, prescindendo dai dati dell’esperienza umana; così si vede che il tempo è essenzialmente “durata”, dimensione interiore, modo di vivere la realtà delle cose stesse. Husserl considera, a sua volta, i processi intenzionali attraverso i quali si costituiscono gli oggetti, la cui realtà appare ovvia. Si risale alla condizione in cui ancora non vi sono oggetti, ma vi è il puro flusso della coscienza come attività intenzionale, rivolta alla comprensione di una realtà molteplice. In effetti noi vediamo poi che tutti gli oggetti, i modi d’essere, gli enti e le loro possibili forme, si riconducono all’attività del soggetto. E questo è un carattere peculiare della nuova metafisica: di essere una indagine trascendentale, di riguardare, cioè, l’attività intenzionale della mente, fondatrice di regioni reali, di ontologie determinate. L’ontologia riguarda gli oggetti (classificati in sfere regionali) prodotti dall’attività mentale sulla base di una fondamentale rivelazione dell’essere. Il mentalismo rimane, spaventianamente, connesso con l’ontologismo. La vita mentale (che è d’altra parte storicamente fondata) produce oggetti; e questi si danno come modalità del senso dell’essere (secondo l’orientamento più attuale e profondo della metafisica). Appare ovvio, in questo modo, che determinati orientamenti si rivolgano alla sfera dei valori morali: questi non sono altro che i termini di una particolare ontologia, alla quale si riservano condizioni privilegiate, di essere cioè collegata a specifiche funzioni (spiritualmente superiori) della mente umana. La fondazione dei valori morali sembra attingere, infatti, a una funzione più universale della soggettività ed è, in tal senso, collegata con le radici stesse della libertà. Condizionamenti temporali e spaziali sembrano scomparire allorché la mente considera la condizione spirituale nella sua purezza e nella sua integrale autonomia. Cioè si giunge a considerare la soggettività stessa come fondamento. Con questi termini e in riferimento a tale esperienza si parla di metafisica della libertà. Sulle orme di Kant, si può dire che ci troviamo nella sfera dell’autonomia spirituale, del tutto indipendente rispetto a ogni realtà data. In tale sfera la forma e il contenuto coincidono: perciò si dice che il contenuto della legge morale coincide totalmente con la forma. E anche qui ci troviamo in una particolare regione dell’ontologia, fenomenologicamente costituita. A questa dimensione si riferiscono principalmente i francesi esponenti della “filosofia dello spirito” (Marcel, Lavelle, Le Senne). Da questi brevi riferimenti emerge il carattere complesso della filosofia contemporanea. La questione fondamentale è la possibilità di una “nuova” metafisica. Lo sbocco è la pluralità dei percorsi possibili: il che dà l’impressione di un labirinto. In realtà i percorsi sono molteplici e difficilmente riconducibili a un unico punto di partenza ( di arrivo). Si ha l’impressione di una molteplicità irriducibile di sentieri. In realtà un motivo unitario sembra, in ultima analisi, possibile. Esso va ricercato nella prospettiva della costituzione trascendentale del problema del senso dell’essere. Il senso dell’essere è la stessa coscienza o, meglio, l’esistenza umana, nella sua dimensione trascendentale, come umanità universale o condizione universale (non semplicemente razionale) dell’umanità. Senso dell’essere, in tale prospettiva, è rapporto e condizione di comunicazione. L’esistenza è comunicazione con l’essere e radicamento del rapporto ontologico. Questa ipotesi metafisica in realtà attraversa i diversi orientamenti e in qualche modo (pertanto) li accomuna. Le diverse metafisiche, in ultima analisi, non rispecchiano altro che questo rapporto fondamentale, non sono, cioè, che modalità diverse d’impostazione dello stesso problema. Anche le filosofie critiche della metafisica finiscono per fare parte di questo orientamento: solo che esse non problematizzano il rapporto ontologico, bensì lo presuppongono e lo assumono come ovvio. Il senso dell’essere, in questi casi, è la realtà storica data, la civiltà della tecnica, l’età della democrazia, e così via. La questione propriamente filosofica è accantonata, in quanto è giudicata astratta, inutile, superflua e irrilevante ai fini dell’organizzazione pratica dell’umanità. Invece i nostalgici dell’essere ritengono ancora fermamente che l’indagine trascendentale sia il
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compito della filosofia e che esso sia la versione attuale del problema metafisico che ritroviamo come una costante dell’intera storia del pensiero. Il rappresentante italiano più notevole della metafisica intesa come esperienza tipica, adesione personale a una problematica, modo totale di confrontarsi con le risorse del pensiero, è lo Sciacca, che ha vissuto contemporaneamente, si può dire, le sollecitazioni spiritualistiche provenienti dall’insegnamento dell’Aliotta e gli sbocchi neoidealistici rappresentati specialmente dal Gentile, insieme alle suggestioni provenienti dalle potenzialità di sviluppo del pensiero neoscolastico cristiano. Queste tre componenti sono confluite in una prospettiva originale, in cui, specialmente, l’immanentismo attualistico risulta temperato da un certo riconoscimento della trascendenza del fondamento. Ne risulta una forma di “spiritualismo critico”, in cui il fondamento è pensato non come assolutamente trascendente ma come un principio che finisce per identificarsi con lo stesso sviluppo spirituale della realtà o del mondo.1 La prospettiva esposta nel saggio Atto e essere, del 1950, è quella di uno spiritualismo attualistico o di un attualismo ontologistico (o ontologismo attualistico). Questa prospettiva viene ulteriormente approfondita e precisata nel saggio interiorità oggettiva, del 1951. Con questo libro si può dire che l’itinerario filosofico dello Sciacca si concluda con l’approdo a una “filosofia dell’integralità”, basata sul riconoscimento della dimensione ontologica dell’interiorità spirituale. L’essere consiste e si rivela nell’interiorità del soggetto umano, il quale è costituito come rapporto con la trascendenza dell’essere. In questo senso il soggetto è sintesi di infinità e di finitezza, di esistenza e di valore permanente. Nella coscienza sono radicati i presupposti di questo autoriconoscimento: questo lume rivelativi che è nella profondità della coscienza proviene dall’essere come rivelazione di sé. In questo senso l’esistenza fa parte del sistema di verità ed è capace di conoscere. Nel libro L’uomo, questo squilibrato, del 1956, Sciacca sviluppa in senso morale ed esistenziale i presupposti metafisici e ontologici delineati in Interiorità oggettiva. La dialettica tra la finitezza dell’atto umano e l’infinità dell’Idea connessa alla rivelazione dell’essere è delineata specialmente in Atto e essere. La condizione “squilibrata” dell’uomo è connessa a questa dialettica, in cui finitezza e infinità s’incontrano, pervenendo a forme di atteggiamento morale dinamiche e aperte (specialmente all’esperienza religiosa). Lo spiritualismo si configura come personalismo ontologico (o ontologismo personalistico) nello Stefanini, la cui prospettiva è significativamente riassunta nel seguente enunciato: “L’essere è personale e tutto ciò che non è persona nell’essere rientra nella produttività della persona, come mezzo di manifestazione e di comunicazione tra le persone” (Personalismo sociale, 1952, p. 11). Stefanini parte dalla constatazione che la coerenza logica risponde alle esigenze della comunicazione, dunque implica la costituzione soggettiva e personale dell’essere. Lo stesso essere implica il riferimento alla sua costituzione personale. Il pensiero, che è la proprietà fondamentale dell’essere, è fondato sulla comunicazione. In quanto l’essere è personale, esso ha la comunicazione come suo carattere fondamentale. Un dato psicologico, qual è, appunto, la coscienza pensante, l’autocoscienza, diventa un atto di “partecipazione metafisica”. Così è delineata una ontologia personalistica. In questo modo è riproposta la tematica del rapporto microcosmo/macrcosmo. L’essere è personale, dunque deve essere pensato come Dio stesso, persona e volontà e pensiero assoluto. E l’uomo è immagine finita di Dio. L’uomo sta principalmente in rapporto con Dio: ed è questo il campo fondamentale della comunicazione; ma questa stessa comunicazione si traduce e si manifesta come comunicazione tra le persone finite. L’esperienza religiosa comprende la totalità dei processi umani come atti di comunicazione. La persona è il luogo ve l’essere si fa parola, afferma emblematicamente lo Stafanini a proposito dell’idea centrale della sua prospettiva filosofica. La stessa consistenza della realtà ha le sue radici della parola, che è l’elemento fondamentale della comunicazione. Il filosofo approda così a un “imaginismo” ontologico (Imaginismo come problema filosofico, 1936). L’arte è parola assoluta, esperienza integrale della comunicazione e della parola (dunque dell’attività immaginifica).1 Ovviamente lo Stefanini privilegia l’arte come via di accesso all’essere e come fattore e via di disvelamento del senso dell’essere, cioè come prospettiva del pensiero metafisico. L’essere è manifestazione. Il senso dell’essere è nel suo manifestarsi e la sede in cui più direttamente e totalmente avviene tale manifestazione è l’esperienza artistica. L’arte diventa mediazione e mezzo di comunicazione. In questo senso si celebra la sua importanza per lo sviluppo dei processi di comunicazione umana (sociale e politica).
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Dalla concezione dell’essere come persona, il cui atto fondamentale è la comunicazione, alla concezione della comunicazione come atto interpretativo, dunque alla stessa considerazione dell’attività spirituale nel suo complesso come interpretazione, il passo è breve: ed è il passo compiuto dal Pareyson. In quanto radicata nella rivelazione dell’essere, dunque poiché si riferisce a questo evento fondamentale, la comunicazione è interpretazione. E’ l’interpretazione che va oltre i significati comuni, oltre l’ambito quotidiano, inautentico (nel senso heideggeriano), ricercando i significati più profondi e più direttamente connessi con la dimensione rivelativa del linguaggio e della comunicazione. In questo senso l’interpretazione coincide con un impegno morale della persona. La fedeltà al senso dell’essere costituisce l’aspetto principale dell’attività interpretativa. Chi intende farsi interprete tende a cogliere i significati connessi alla rivelazione dell’essere, si fa testimone di questa rivelazione. Il tema principale della filosofia del Novecento Si può assumere a epigrafe in fronte a uno studio sulla filosofia del ‘900 il passo del “Sofista” riportato da Heidegger come introduzione alla trattazione di “Essere e tempo”. Per quante ricerche si siano fatte lungo l’intero svolgimento del pensiero, ancora non si è giunti a nessun risultato intorno al problema, già posto ai primordi della storia della filosofia, del senso dell’essere. La filosofia del ‘900 è una riflessione su questo tema. La domanda che emerge con drammaticità è questa: - Perché l’essere e non piuttosto il nulla? – Il tema del nulla insiste (grava) significativamente sul pensiero del ‘900. Il nichilismo è la questione principale con cui si ha a che fare. La dissoluzione dell’ultimo grandioso sistema razionalistico, quello di Hegel, è il fatto fondamentale. Nietzsche ha formulato il grande annuncio dell’età moderna “Dio è morto”. La filosofia si arrovella intorno al venir meno del Fondamento. Sembra, per molti aspetti, che si sia esaurito lo stesso compito del pensiero filosofico. La riflessione si rivolge agli strumenti del pensiero, esamina le questioni relative al “metodo”, piuttosto che elaborare e proporre contenuti. In gran parte, la filosofia si configura come una “metodologia”. Nello stesso tempo si compiono riflessioni sui diversi campi dell’attività umana e spirituale, per verificare la presenza di elementi e motivi filosofici. Un campo privilegiato in questo senso è il linguaggio. Si esplorano le possibili dimensioni metafisiche del linguaggio. Assumono una portata rilevante le filosofie speciali (della politica, della religione, dell’arte, dell’economia, della prassi sociale, e così via). Ma sullo sfondo si può riconoscere la grande questione, giustamente messa in rilievo da Heidegger e assunta come area della propria indagine: il problema del senso dell’essere. Come si configura questo problema dopo alcuni millenni di riflessione? Si può ancora porre la questione nel modo fondamentale in cui l’ha posta Parmenide, come identità di essere e pensiero e come individuazione del senso dell’essere nel pensiero medesimo? E qual è la portata del fenomeno dell’affiorare, sul terreno della dissoluzione di tale problema, della struttura opposta, cioè del “nulla”, come struttura fondamentale della realtà? Una ricognizione su questo terreno non sembra inutile. Ma vediamo le risposte che sono state avanzate attraverso la molteplice attività filosofica del secolo XX. Vediamo le principali correnti. Per il pragmatismo, la filosofia si configura come un’ipotesi di elaborazione progettuale relativa all’organizzazione della prassi umana nel mondo. Lo stesso essere si riconduce al mondo delle azioni e dei programmi storici dell’umanità (anzi delle particolari società). In questo senso non sono estranei i problemi relativi alla struttura della società: per esempio si rilevano i vantaggi della democrazia. Per lo storicismo, l’essere si risolve nello svolgimento dei fatti secondo le grandi categorie dell’etica, della politica, dell’economia: così Croce propone un’ipotesi intorno al senso dell’essere. Tale senso si identifica con la libertà. Si tratta di una versione aggiornata dell’ideologia del progresso, tanto in voga nell’Ottocento e ancora dominante nella riflessione dei positivisti. Per l’attualismo, l’essere si risolve nell’atto del pensiero che comprende l’intera prassi umana. Il senso dell’essere è quello immanente al farsi della storia. Per il problematicismo, il senso dell’essere è l’insieme delle questioni che esso pone e che emergono dagli stessi contesti culturali. Per lo spiritualismo, il senso dell’essere va recuperato attraverso il ripristino dei grandi temi della metafisica classica, incentrata sull’idea della peculiarità della realtà spirituale, di cui principale espressione è l’anima personale. Per l’ontologismo, il senso dell’essere è l’essere stesso, comunque possa essere concepito. Il senso dell’essere è l’essere medesimo, che costituisce
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l’oggetto proprio del pensiero filosofico, poiché caratteristica della mente è principalmente quella di pensare l’essere. Per l’esistenzialismo, il senso dell’essere va ricercato movendo dall’analisi esistenziale, cioè da una riflessione intorno alle categorie della situazione dell’esistenza umana. La conclusione provvisoria alla quale è pervenuto Heidegger è che il senso dell’essere è il tempo. Nella filosofia contemporanea l’essere è concepito specialmente come “relazione”, rapporto ontologico. Il rapporto è in primo luogo tra l’essere e il modo del suo rivelarsi. Il dato principale relativo alla “svolta” che si registra nelle filosofie del ‘900 riguarda la nuova concezione dell’essere. Alla concezione dell’essere come “assoluto” subentra quella dell’essere come “relazione”. La critica di Heidegger al concetto tradizionale dell’essere è significativa anche per questo. Alla ricerca intorno all’essere assoluto subentra quella intorno al “senso dell’essere”. Le particolari ricerche che si sviluppano intorno ai diversi campi dell’esperienza e della vita spirituale hanno tutte una valenza ontologica, fanno parte di disegni relativi a una nuova ontologia, critica e relazionale. Così, ad esempio, la filosofia del linguaggio tocca la questione dell’appartenenza del linguaggio all’essere, come forma generale dell’apertura dell’essere. Il linguaggio è la via di ogni processo rivelativi. Esso appartiene all’essere, in quanto questo è la struttura fondamentale della realtà. Lo sforzo maggiore viene rivolto verso la fondazione di ontologie regionali, relative ai diversi settori della realtà. Il linguaggio è in modo eminente relazione e sistema di relazioni. Esso mette insieme a confronto le diverse ontologie. La rottura rispetto alla metafisica della tradizione concerne la presunta neutralità e indeterminatezza del concetto di essere. Ora, invece, l’essere consiste nella determinatezza del suo senso. L’inadeguatezza del concetto tradizionale di “essere” costituisce il limite della vecchia metafisica. Si può dire che tale critica incomincia proprio con Spaventa. Questo filosofo, infatti, polemizza con la metafisica che prescinde dall’esperienza dell’essere e, dunque, dalla fenomenologia. La metafisica nuova è quella che assume come sua base e suo terreno di sviluppo l’esperienza dell’essere (anzi l’esperienza del senso dell’essere). L’essere diventa il campo medesimo dell’esperienza umana. Esso coincide con lo sviluppo e la manifestazione di un senso. Incominciamo da Bergson. L’esperienza fondamentale riguarda il tempo. Il tempo assoluto è un’astrazione matematica; il tempo dell’esperienza non può essere calcolato, ridotto a quantità, a schema sostante, bensì è variabile, informe, tale da assumere le sue forme dalla coscienza o dall’anima. L’essere per cui valeva il V postulato di Euclide svanisce con la costruzione delle geometrie non euclidee. L’essere diventa un’ipotesi logica, funzionale alla costruzione che intendiamo portare avanti. L’esperienza della morale e della metafisica irrompe in modi originali, al di là di ogni schema logico e categoria. Essa si riporta al dominio della “libertà” oppure del più autentico “sé”, fuori dell’anonimo “si”. Tempo e spazio si contraggono e si dilatano, in virtù della teoria della relatività. L’inconscio può scombussolare i più razionali progetti e le più solide costruzioni della morale. La società, a sua volta, riporta a una base condivisa il flusso delle emozioni. L’essere è processo di oggettivazione, è, si può dire, un sostrato. Per Gramsci vale l’utopia della oggettivazione universale in riferimento a un modello uniforme. Si tratta di creare l’individuo sociale, costituito sulla cultura di un popolo. La cultura popolare concorre a costruire l’umanità razionale. E l’essere si configura come una tale esperienza sociale e politica. Lo stato socialista è espressione dell’essere sociale significativo. Esiste, in questo senso, una linea Spaventa-Labriola-Gramsci? Cfr. R. Bodei, La filosofia del Novecento. Per Heidegger, il carattere della “metafisica occidentale” è il costituirsi del mondo in immagine per opera del soggetto. Prima che con Platone si costituisse la metafisica, il soggetto era immerso nell’orizzonte di autosvelamento dell’essere e non era ancora, come lo sarà dopo, l’autore dell’immagine della realtà (dell’“idea”, che è il modo di darsi del reale al pensiero, cioè il modo in cui il reale è reso “intelligibile”). Nel periodo aureo della vita greca, che si riscopre nel pensiero dei presocratici, quando ancora la metafisica non è nata, “è piuttosto l’uomo ad essere guardato dall’ente. L’uomo greco è in quanto percepisce l’ente; di conseguenza in Grecia il mondo non può divenire immagine. Per contro il fatto che in Platone l’entità dell’ente si definisca come eidos (aspetto, veduta), è il presupposto storico remoto operante una lunga e nascosta mediazione, perché il mondo divenga immagine” (L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, tr. it. 1968, pp. 89-90. Bodei, p. 122). La metafisica è in realtà una fisica, un errare tra gli enti, dimenticando l’essere e la verità, che non è esattezza del rappresentare, calcolo e
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dominio degli enti, come nell’età della tecnica, ma disvelamento (a-letheia) e aprirsi dell’essere attraverso il linguaggio a quell’ente diverso che può comprendere l’essere e che è l’uomo. Noi siamo sempre dentro il linguaggio; avendo a che fare con le cose, abbiamo a che fare con le parole che le designano, e dobbiamo pronunciare queste parole, ogni volta che vogliamo comunicare con gli altri i nostri progetti, i modi secondo i quali pensiamo o stabiliamo rapporti con le cose. I significati consegnati alle parole ci condizionano. Anche per creare qualcosa di nuovo, noi dobbiamo ricorrere alle risorse del linguaggio; dobbiamo, cioè,cercare nuovi significati, dobbiamo scavare nelle parole, per mettere alla luce significati nascosti, coperti dalla patina del tempo, resi irriconoscibili dalle sedimentazioni che la storia umana vi ha depositato. Scavando nel linguaggio, secondo Heidegger, noi andiamo verso il senso dell’essere. Il senso dell’essere, dunque, va cercato nel linguaggio, nei significati più lontani e profondi delle parole. Perciò tra linguaggio e senso dell’essere si stabilisce una corrispondenza e quasi un’identità. Infatti il linguaggio è la “casa dell’essere”: il senso dell’essere dimora nel linguaggio, è custodito da esso. Soltanto che le incrostazioni storiche hanno coperto quei significati più direttamente connessi allo svelamento del senso dell’essere. E si tratta di liberare le parole da queste incrostazioni che ne hanno coperto i significati originari. Ciò specialmente hanno fatto alcuni poeti. Perciò bisogna richiamarci a questi testi, perché in essi consiste la stessa rivelazione del senso dell’essere. Le parole rispecchiano questo disvelamento; esse non sono un prodotto arbitrario dell’uomo. Le parole, dunque, sono un prodotto del senso dell’essere nell’atto del suo svelamento. Noi ci ritroviamo nell’orizzonte di tale svelamento: le parole ci riportano a tale orizzonte. Correnti e protagonisti della filosofia italiana del Novecento Il principale contributo della filosofia italiana al pensiero europeo della prima metà del Novecento è costituito essenzialmente dal pensiero di Croce e Gentile e dall’intenso dibattito che è seguito dal confronto tra quelle prospettive teoriche, e specialmente dagli sviluppi della scuola gentiliana. Gentile era partito con una dettagliata ricostruzione della recente linea di sviluppo della filosofia italiana, per dimostrare la legittimità storica della sua personale posizione teorica, considerata come l’aggiornamento critico dell’idealismo nell’ambito della più ampia tradizione italiana. Egli, a differenza di Bertrando Spaventa, che era partito dal pensiero italiano del Rinascimento, per dimostrare il carattere sostanzialmente legato allo sviluppo del pensiero italiano della grande filosofia tedesca, andava più indietro e rintracciava le origini e i primi sviluppi di quella tradizione nella filosofia scolastica, che era stata prevalentemente italiana o che in Italia aveva avuto i suoi massimi rappresentanti (San Bonaventura e San Tommaso). La teoria del pensiero come principio della realtà trovava, secondo il Gentile, la sua espressione più matura e coerente nell’attualismo, il quale, appunto, postula il carattere attivo del pensiero e, dunque, la realtà nella sua totalità come espressione di tale attività incessante, fondata razionalmente e logicamente e orientata verso un fine. Noi siamo parte di questa realtà e la nostra coscienza costituisce la consapevolezza stessa che lo spirito assume del suo sviluppo e delle sue manifestazioni. La filosofia è la teoria del pensiero nel suo svolgimento attuale. Intorno alle posizioni teoriche di Croce e Gentile si è acceso un dibattito vivace ad opera di allievi e seguaci dell’uno e dell’altro. I due filosofi personalmente chiarivano le loro posizioni e le differenze relative in alcuni articoli apparsi su “La Voce” alla fine del 1913. Il divario tra le due posizioni investiva poi i rispettivi orientamenti politici, attestandosi il Gentile sul piano di una convinta adesione al fascismo e sfociando, invece, in un aperto antifascismo del Croce. Nella primavera del 1923 Gentile pubblicava il “Manifesto degli intellettuali fascisti”, nel quale la storia italiana dal Risorgimento in poi era vista come una progressiva attuazione dello “Stato etico”. Croce rispondeva col “Manifesto degli intellettuali antifascisti”. Gentile promuoveva quindi alcune iniziative culturali di grande portata, come la realizzazione dell’Enciclopedia Italiana (la “Treccani”, dal 1926 al ’36). Un deprecabile caso di degenerazione di quella polemica, e che può rappresentare un esempio del clima d’intolleranza culturale che lo stesso Gentile (forse involontariamente) contribuiva ad alimentare, è stato la chiusura d’autorità del Congresso nazionale di filosofia che si teneva a Milano nel marzo 1926 con la presidenza di Piero Martinetti (uno degli universitari
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che si era rifiutato di prestare giuramento di fedeltà al regime e perciò era stato estromesso dall’insegnamento). Il Martinetti era l’unica voce alternativa a Croce e Gentile e la sua prospettiva presentava uno spessore di tutto rispetto: in particolare il suo pensiero si definiva specialmente come una metafisica della libertà, esposta in opere di profondo spessore teoretico, come Introduzione alla metafisica (1902-04), Il compito della filosofia nell’ora presente (1920), Breviario spirituale (1923), La libertà (1928), Gesù Cristo e il cristianesimo (1934). La sua prospettiva teorica si può caratterizzare come un “idealismo trascendente”, basato sull’idea metafisica di un principio connesso con la nostra spiritualità ed esprimentesi in un fondamentale atteggiamento di sintesi tra razionalità e fede mistica nell’unità e nella fusione che si attua attraverso l’esperienza religiosa. In questo senso, ragione e fede si integrano reciprocamente, in quanto il pensiero razionale è manifestazione del Logo divino; e la religione costituisce un approfondimento del discorso razionale, così come la filosofia costituisce un approfondimento, sul piano dell’unità metafisica, delle diverse scienze empiriche. Il Martinetti coniugava, quindi, armonicamente fede, ragione e libertà umana. La ragione, infatti, rappresenta il piano della libera indagine critica, mentre la fede colma le insufficienze e i limiti della ragione. La religione, in questa prospettiva, esula da ogni dogmatismo e si configura nel senso delineato da Kant nella sua celebre opera La religione nei limiti della ragione. Come si vede, si tratta di una posizione che trovava l’opposizione del mondo ecclesiastico. E in ciò probabilmente è da ravvisare la ragione dell’intervento delle autorità statali in quel Congresso; tanto più che vi partecipava un’altra voce del dissenso religioso, quella del promotore del movimento del “modernismo”, Ernesto Buonaiuti, già sospeso dal sacerdozio e scomunicato nel 1909. Infatti i cattolici plaudirono a quel provvedimento, che era una grave violazione della libertà di pensiero. Si preparavo le condizioni, infatti, per la maggiore e generale affermazione del pensiero neoscolastico, per cui Agostino Gemelli aveva fondato nel 1909 una apposita “Rivista” e nel 1919 l’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano (riconosciuta dal governo italiano). La politica di collaborazione tra il fascismo e il mondo ecclesiastico culminava quindi nel famoso Concordato del 1929. Rimaneva, tuttavia, sul fronte laico, la forte posizione dell’attualismo gentiliano, rigorosamente immanentista. Tra la linea laica, ancora difesa dal Gentile, e una soluzione di compromesso, il fascismo scelse allora questa seconda alternativa, indebolendo la stessa posizione teorica dell’attualismo. Probabilmente il fascismo avvertiva l’opportunità di un accordo e di una collaborazione col mondo cattolico, che specialmente comprendeva la grande maggioranza del popolo italiano, piuttosto incline a non comprendere le ragioni di un persistente conflitto dello Stato con la Chiesa, data la fede millenaria nel cattolicesimo. Il Concordato colpiva anche alcuni punti della riforma scolastica varata dal Gentile nel 1923. Secondo questa riforma, l’insegnamento della religione era limitato alla scuola elementare ed era sostituito nei gradi secondari dall’insegnamento della filosofia, considerata vera scienza superiore. Invece per il Concordato la religione cattolica finiva per essere considerata come il coronamento degli studi di ogni ordine e grado. Al Congresso di filosofia del 1929 (al quale era presente lo stesso Mussolini) Gentile e i suoi allievi (tra i quali Augusto Guzzo, che più tardi passerà a una posizione spiritualistica sostanzialmente orientata verso un riconoscimento delle prerogative della fede cristiana, e Guido Calogero, che si sarebbe presto avvicinato al Croce, in una posizione di filosofia del dialogo) denunciarono le gravi conseguenze alle quali sarebbe stato sottoposto il libero pensiero in rapporto alla politica culturale instaurata dal Concordato. Agostino Gemelli e i neotomisti esultavano, invece, per quel posto egemonico che indirettamente veniva assunto dalla filosofia neoscolastica e dalla cultura cattolica in genere. La conseguenza più immediata e macroscopica di quella egemonia assunta dalla cultura cattolica e dalla filosofia neoscolastica fu allora la diaspora attualistica. I seguaci dell’attualismo più decisamente ancorati a una posizione di rigoroso laicismo e immanentismo si sono orientati verso l’ambito teorico dello storicismo crociano. Essi erano Calogero, Omodeo, De Ruggiero, Lombardo-Radice, Codignola e altri. I sostenitori delle ragioni di quell’accordo approdarono a soluzioni generalmente spiritualistiche, in accordo col cattolicesimo. Erano Guzzo, Battaglia, Sciacca, Carlini e altri, tutti promotori di una ricerca metafisica differente rispetto alla tradizione scolastica. Gentile intanto cercava di estendere e tenere vitale la corrente dell’attualismo, riconoscendo la validità delle interpretazioni diverse alle quale stava per dare luogo. Lo strumento principale della vitalità della
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cultura attualistica era l’Enciclopedia Italiana, con la schiera di numerosi collaboratori. Intanto lo stesso Gentile promuoveva la fondazione di case editrici che operavano in stretta collaborazione con gli intellettuali di orientamento idealistico (Sansoni, Vallecchi, Le Monnier, La Nuova Italia). Roccaforte dell’idealismo attualistico e dello spiritualismo critico era la Scuola Normale di Pisa, diretta per diversi anni dallo stesso Gentile e prestigiosa sede di formazione scientifica, nella quale allora furono chiamati a insegnare intellettuali critici verso il fascismo, come Cantimori, Luporini, Russo, Calogero, Capitini. Il panorama filosofico non era, tuttavia, limitato a questi gruppi. Già nel 1926 a Milano Antonio Banfi, sostenitore di un razionalismo critico, pubblicava i Principi di una teoria della ragione. Alcuni anni dopo, Nicola Abbagnano dava le sue prime anticipazioni dell’esistenzialismo “positivo” nel saggio La struttura dell’esistenza (1939); Ludovico Geymonat introduceva in Italia la corrente del neopositivismo con il saggio La nuova filosofia della natura in Germania (1934); Franco Lombardi introduceva la conoscenza di filosofi poco noti in Italia, come Feuerbach (19359 e Kierkegaard (1936); Galvano Della Volpe si impegnava nella ricerca di interpretazioni alternative di Hegel (Hegel romantico e mistico, 1936) e tracciava le linee per una ricostruzione storiografica dell’empirismo (La filosofia dell’esperienza di Davide Hume, 1933). Notevole era anche l’apporto delle riviste che in quegli anni mantenevano vivo il dibattito filosofico: la “Rivista di filosofia”, diretta dal Martinetti; la “Critica” del Croce; il “Giornale critico della filosofia italiana” dei gentiliani. Il dibattito filosofico in Italia, in qualche modo vivo già nella prima metà del Novecento, per la presenza di diverse correnti, quali quelle neoidealistiche dell’attualismo e dello storicismo, quella neoscolastica e quella dello spiritualismo cattolico, nonché per la presenza di voci autonome sul versante del trascendentalismo e del razionalismo critico, acquista dimensioni notevoli nel secondo dopoguerra, allorché, specialmente, esso potrà arricchirsi degli apporti del marxismo nella sua forma gramsciana e potrà misurarsi con altre correnti, in primo luogo con l’esistenzialismo e poi col neopositivismo e col pragmatismo. Nel 1945 sulla rivista “Primato”, diretta dal fascista Bottai, due interventi di Abbagnano e Paci propongono un confronto con l’esistenzialismo. Ma l’apporto più notevole all’allargamento del dibattito è venuto dal marxismo nella versione gramsciana. Antonio Gramsci, i cui Quaderni del carcere, sono stati pubblicati tra il 1948 e il 1953, si era legato giovanissimo al movimento socialista a Torino (dove aveva frequentato l’Università, senza completare gli studi) e nel 1919 aveva fondato l’”Ordine Nuovo”, partecipando poi nel 1921 alla fondazione del Partito Comunista, del quale divenne il capo riconosciuto nel 1924; ma, arrestato nel ’26, sviluppò in carcere la sua prospettiva di un marxismo critico, sostanzialmente aperto allo storicismo e alla tradizione della cultura italiana (rappresentata ultimamente dal filone idealistico di Spaventa, De Sanctis, Croce, Gentile). Il gramscianesimo costituisce una originale versione del marxismo, capace di confrontarsi con altre correnti su tutte le manifestazioni culturali. Esso, pertanto, ha dato luogo a diversi sviluppi: dalla forma razionalistica e critica di Banfi, a quella scientista di Della Volpe e del suo allievo Colletti (secondo una linea che privilegia l’asse scientifico da Galilei a Cattaneo), a quella epistemologica neopositivista di Geymonat e a quella vicina alle tematiche dell’esistenzialismo di Leporini. Per tale capacità di costituire sintesi particolarmente adatte allo sviluppo di motivi ermeneutici complessi, il marxismo italiano è riuscito ad esercitare un ruolo egemone nella cultura italiana per alcuni decenni. Appunti per una (breve) storia della filosofia italiana del Novecento I caratteri generali. La reazione al nichilismo e i tentativi di recupero della tradizione metafisica. Contro le tendenze nichilistiche e relativistiche e contro il predominio della scienza/tecnica, si cerca di recuperare i “valori” umanistici e metafisici. L’età moderna è vista come l’età della dissoluzione della metafisica incentrata sul riconoscimento dei valori. In Italia è stato compiuto il più grande sforzo di rivalorizzazione dei grandi filosofi classici: Platone, Aristotele, Plotino, S. Agostino, S. Tommaso. Reazione, dunque, al clima di dissoluzione dei valori (primo tra tutti quello della conoscenza). Nell’epoca del “disincanto”, quando cioè era decretata la fine di tutte le “verità” ed era dichiarata l’impossibilità di parlare delle cose stesse in una loro permanente identità, la filosofia italiana cercò di riabilitare la tradizione metafisica incentrata
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sull’affermazione dei valori permanenti (il vero, il bene, il bello, il giusto, e così via). Si tornò ad Hegel, come antidoto al relativismo. Montale emblematicamente dichiarava: posso dire solo “questo non so”, “non chiedermi la parola che squaderni la verità”. Pirandello affermava l’impossibilità di una identità dell’io (“uno, nessuno, centomila”). Quale verità, infatti, posso affermare se io stesso non so chi sia e quali siano le mie credenze e il mondo stesso nel quale vivo? Il principio dell’identità, secondo Hegel rivisto da Croce, è importante; e così per Gentile, col tentativo di rifondazione della dialettica. Contro il bergsonismo, si cerca di dare un senso al tempo. Dunque una serie di correnti che intendevano ristabilire verità già consolidate: la fiducia nella ragione (neorazionalismo), la validità delle scienze empiriche (empiriocirìticismo, neopositivismo), la struttura a priori del soggetto (neokantismo, trascendentalismo), l’apertura del dialogo (secondo l’antica cultura del “dialeghestai”, il senso del reale (neorealismo, realismo critico), il senso del trascendentale (vi è un mondo di valori che si realizzano in modo problematico, ma costituiscono il fine al quale tendere), la nuova analisi del soggetto (fenomenologia, analitica esistenziale): sono tutti motivi che ricorrono nel pensiero del Novecento. La filosofia italiana sviluppò i motivi di positività, pur nelle condizioni problematiche, della consapevolezza dell’impossibilità di una verità assoluta. L’eredità dell’Ottocento. L’800 è stato il secolo positivo della fiducia nelle possibilità umane di progettare il mondo; il secolo del romanticismo come filosofia e concezione dell’infinito sviluppo storico. L’uomo stesso si colloca sulla linea dello sviluppo infinito. Il motivo romantico, dunque, continua e costituisce il grande motivo di fondo dello sviluppo delle varie correnti. Al limite, esso si configura come fiducia nella ragione, problematica affermazione di una graduale conquista della sostanza etica e scientifica. Il senso del limite nell’individuo è senso della problematicità essenziale: dunque umanesimo; senso della capacità umana di procedere sulla via di un trascendimento progressivo e continuo. La fiducia nella ragione. Non a caso Croce esercita la sua egemonia sulla cultura italiana della prima metà del ‘900 e ancora ha un’incidenza notevole sulla seconda metà. Tutto il pensiero italiano è ispirato allo storicismo. Sorge e si sviluppa un nuovo concetto di ragione: la ragione come ipotesi, come possibilità, problematicità, come confronto critico. Teoria e prassi. A un punto di vista speculativo subentra un punto di vista di stretta comunione di teoria e prassi. L’insegnamento viene da Hegel: come riordinare la realtà, come costruire un mondo razionale? Realismo critico. Severino e la polemica contro il nichilismo. Severino è il rappresentante della polemica contro il nichilismo; interpreta lo spirito della filosofia italiana del ‘900. La polemica contro il pensiero moderno (contro il soggettivismo). Il pensiero moderno è basato sulla certezza cartesiana della centralità del soggetto, anzi della autocoscienza del soggetto pensante. Si ha perciò l’età della rappresentazione del mondo e della concezione del mondo come rappresentazione. Si tende a ripristinare il criterio di una oggettività che abbia il suo fondamento sulla certezza del soggetto. Il risultato più notevole è la concezione kantiana e trascendentale del soggetto (contro la concezione psicologistica di Hume). Notizie sui filosofi con cenni alle interpretazioni. La storiografia filosofica. Tutti i filosofi sono anche grandi interpreti di momenti della storia della filosofia (Stefanini > Platone; Carbonara > Plotino; Sciacca > S. Agostino). Storia e speculazione autonoma s’intrecciano. I filosofi s’intendono interpreti e prosecutori dei grandi pensatori antichi e moderni (specialmente antichi). La Neoscolastica come corrente autonoma, emblematica, però, di un intero orientamento di pensiero. Ragione e fede. Filosofi da rivalutare: Attisani, Della Volpe, La Via, Giacon, Filiasi Carcano, Bartolone, Rossi, Paci, Geymonat, Lombardi, Morpurgo Tagliabue, Untersteiner. I centri della ricerca filosofica. Palermo, Messina, Catania, Padova, Roma, Milano, Bologna, Perugina, Torino, Genova, Napoli, Salerno. Le riviste. Rivista di Filosofia, Filosofia, Giornale Critico, Giornale di metafisica, Il Pensiero, Il Pensiero Critico, Sophia, Teoresi. Le correnti di pensiero. (Appunti da Garin, Cronache). Il panorama del pensiero italiano verso la fine del secolo XIX presenta una certa vivacità e testimonia l’influsso del pensiero europeo, in modo, si può dire, che la filosofia italiana sia in qualche modo lo specchio degli orientamenti che si affermavano in Europa, specialmente in coincidenza con le correnti storicisitiche (Dilthey) e neocriticiste (notevole fu l’interesse per Kant e si ebbero alcuni importanti neokantiani). Una corrente considerevole è quella derivata dalla lezione di Spaventa, cioè la scuola degli hegeliani di Napoli, da cui prendono avvio Croce e Gentile. Vera è esponente autorevole dell’ortodossia hegeliana (un pensiero, dunque, che intende reagire a ogni nichilismo e relativismo; che restaura la supremazia della ragione nella costruzione di un sistema che riproduce i caratteri dei grandi sistemi classici). “Ma il vera si era mantenuto nella linea di una stretta osservanza, fortemente incline a ritrovare nella logica
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una teologia destinata a cristallizzare il movimento dialettico in una totalità in cui un mistico dissolvimento risolve ed annulla ogni storia” (Garin, p. 13). De Sanctis rinnova la visione hegeliana della storia come progressiva attuazione dello spirito libero (lo spirito umano libero da autorità esterne). Nello stesso tempo il senso della storia invitava a considerare le istanze del tempo, le concrete e reali condizioni della sintesi di ideale e reale. Per Spaventa l’hegelismo si configura come visione del pensiero storico (il pensiero nelle sue condizioni effettuali, di comprensione del presente e di progetto storico). E ciò nel senso di una specie di riforma dell’hegelismo attraverso Vico: se l’uomo conosce le sue opere e i dinamismi attraverso i quali le fonda, l’indagine va approfondita nella direzione della mente umana, che è lo spirito che fa la storia e produce le opere, i fatti che vanno, quindi, considerati per ciò che sono, come dati obiettivi non però nel senso del realismo classico, ma di un realismo che contiene in sé l’istanza idealistica dell’autoconsapevolezza (la filosofia è conoscenza dei dati storici nella loro genesi, nella loro struttura e nel loro significato). Il campo d’indagine è l’uomo concreto, lo spirito nella sua storicità. “In altri termini – osservava infatti Spaventa – l’uomo è essenzialmente storia; e chi dice storia, dice positivismo, aposteriorismo. L’uomo a priori è l’uomo astratto, non reale: l’uomo senza storia”. In questo senso sembra che Spaventi privilegi la realtà storica concreta, al posto dell’ordine sistematico che è peculiare della riflessione hegeliana. Non, cioè, lo spirito nella sua totalità e nel sistema del suo sviluppo, ma lo spirito che si attua di volta in volta nella storia e diversamente, quindi, atteggia quella sintesi della facoltà creatrice che è la “mente” (sintesi vichiana di sentimento, fantasia e ragione). Veniva così ristabilito lo spirito della filosofia vichiana della storia (che è non filosofia a priori, bensì a posteriori). “Di qui – conclude Garin – quel suo duro, intransigente umanismo” (17). (Devo qui notare qualche affinità con l’assoluto umanismo, che è stato il mio “giovanile errore”?). Significativo dell’attenzione allora rivolta al pensiero europeo e della preoccupazione viva di dar luogo a una filosofia attuale, concretamente impegnata nella comprensione della realtà storica, è il pensiero di Antonio Labriola, che ha sviluppato una delle più feconde e originali interpretazioni critiche del marxismo come concezione materialistica della storia (nel senso di una storia fatta dall’opera dello spirito pratico che affronta specialmente le condizioni materiali e i problemi posti dalla natura e dall’organizzazione della società). Labriola ha avuto il merito di inserire il marxismo nella cultura italiana, contribuendo specialmente allo sviluppo di una nuova prospettiva storicistica, basata sul motivo vichiano del reale come evento storico e della conoscenza come unità di teoria e prassi, sapere storico e progetto umano. In questo modo risaltava tutta la valenza umanistica del marxismo, come teoria della razionalizzazione della prassi, fondata sulla consapevolezza del soggetto storico (inteso non solo come incarnato, hegelianamente, nei grandi protagonisti della storia, ma concretamente configurato come struttura della società, dinamica dei rapporti umani e sociali, dinamica dei gruppi e delle classi sociali). Eppure nei primi decenni del Novecento, nonostante la forte tradizione razionalistica, ravvivata specialmente nella scuola napoletana, in Italia si diffusero i motivi “critici” espressi dal nichilismo e dal relativismo. Perciò giustamente intitola il Garin il secondo capitolo delle sue Cronache “Gli albori del Novecento: irrazionalisti, pragmatisti, mistici”. L’ondata irrazionalistica (propria di una concezione vitalistica e pragmaticistica) venne condotta specialmente da intellettuali come Papini e Prezzolini (con la rivista “Leonardo”, sorta nel 1903) e Corradini (con la rivista “Il Regno”). E a contrastare quell’ondata era l’opera di Croce e di Gentile, che proprio nel 1903 davano inizio alla loro collaborazione sulla rivista “La Critica”, col proposito di rinnovare la cultura idealistica. L’irrazionalismo si richiamava al romanticismo attivistico e mistico, secondo cui il mondo è l’opera magica della parola e del sentimento; e i nomi che maggiormente ricorrevano erano quelli dei romantici tedeschi, di Nietzsche, Kierkegaard, Dostojevskij. E’ superfluo rilevare la corrispondenza tra questa esasperata esaltazione del soggettivismo vitalistico e il clima generale che preludeva al grande conflitto mondiale. La guerra, infine, appariva come l’alternativa possibile per una cultura che aveva disperso ogni capacità progettuale razionalmente fondata. Come osserva il Garin a proposito di Papini: “Perché sentiva che in crisi era tutto l’uomo [un uomo finito, appunto], ogni sua dimensione [perciò non si profilava alcuno spiraglio di salvezza]; perché con quella sua intuizione [dell’uomo per cui l’unica alternativa era ormai la disperazione, il mettere in gioco il tutto per tutto, cioè la medesima condizione umana, il destino stesso dell’uomo], purtroppo non sempre accompagnata da corrispondnete consapevolezza critica, ‘sentiva’ che il pensiero umano era giunto a un limite [al limite dell’impossibilità di pensare e dominare col pensiero la realtà], e non si poteva continuare per la solita
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strada. Il suo divagare dal ‘pragmatismo’ al ‘futurismo’, e così via d’avventura in avventura, fu la sua ricerca di un volto nuovo da dare a un mondo che aveva consumato ogni aspetto conosciuto” (p. 25). Certo, vi era pure un motivo fondato nell’orientamento verso la deriva irrazionalistica: ed era la polemica contro l’astrattezza che ancora gravava sulla speculazione metafisica. “Il sapere concettuale, disdegnoso dell’operosità tecnica, dimenticò di indagare, non solo il contatto continuo fra progresso tecnico e conquista effettiva di verità, ma anche il più grave problema di quell’inserzione della volontà umana nella concreta esperienza per modificarla fin nelle sue profondità” (p. 28). Il motivo pragmatistico prevalente era quello del potere attribuito alla volontà, modellatrice del mondo. Ad esso si univa quello bergsoniano dell’intuizione di dimensioni profonde della realtà, in polemica con la pretesa definizione concettuale del dinamismo dell’esperienza. In definitiva, si profilava come l’unica via progettuale quella indicata da Nietzsche, seguente alla dissoluzione di ogni verità e di ogni fondamento. In realtà quello che si apriva era un sentiero oscuro di distruzione. Ma quelle correnti che riflettevano una situazione segnata da una grave crisi potevano intendersi anche come una reazione al facile e illusorio ottimismo di chi finiva per giustificare, in nome del progresso a qualsiasi costo, gli atti moralmente più riprovevoli. “In realtà, in quella lotta contro un intellettualismo vuoto, in quel senso esasperato d’insoddisfazione di fronte alle troppo facili sistemazioni della realtà, in quel ‘sentimento tragico’ della vita, in quella rivolta contro un troppo facile e superficiale ottimismo, si esprimevano forse le esigenze più profonde della nostra età” (p. 33). Garin presenta come figura emblematica di quella temperie culturale il pensiero e la vita stessa di Carlo Michaelstaedter, a cui Gaetano Chiavacci ha dedicato la sua pressoché intera riflessione. La salvezza dell’uomo era indicata in una rivoluzionaria decisione interiore, in una nuova consapevolezza socratiche, che avrebbe sgombrato il campo da tutte le false credenze e avrebbe finalmente instaurato il dominio dell’etica. “Erano, queste del Michelstaedter, pagine di rara profondità speculativa: ed in esse quanto di vitale esprimerà l’esistenzialismo era detto e dichiarato nei termini di un’esperienza decisiva” (p. 37). Il Croce nel fascicolo di maggio 1908 de “La Critica” pubblicava una dura requisitoria contro tutta quella cultura che gli sembrava come espressione della “grande industria del vuoto”. A coloro che impropriamente si dichiaravano “idealisti” egli così obiettava: “Chi dà il diritto ai signori occultisti e spiritisti d’introdursi nella società di persone che lavorano a tavolini diversi dai loro e che hanno purtroppo in comune con essi la parola spirito, ma allo stesso modo che l’hanno in comune coi venditori d’acquavite?” (cit. p. 42). Un centro di seria ripresa della cultura filosofica fu la “Biblioteca filosofica” di Palermo. Giovanni Gentile, professore in quella Università, lesse proprio presso quella istituzione la sua prima relazione sull’Atto puro. Lì svolsero gran parte del loro lavoro studiosi come Omodeo, De Ruggiero, Fazio-Allmayer, Guastella, Orestano (oltre a Croce e Gentile). La rivista “Logos” di Aliotta divenne l’organo della “Biblioteca”. Il Gentile, inaugurando un ciclo di conferenze, il 26 novembre 1911 dichiarava che la filosofia ha il compito di penetrare nella realtà del tempo e di contribuire a modificare il mondo e costruire la nuova realtà umana. Egli poneva come motivo centrale quel “mondo mentale” che era stato anche l’istanza centrale del pensiero dell’ultimo Spaventa e che indicava il mondo umano che gli uomini si costruiscono con la forza dello spirito. Il “mondo mentale”, secondo quanto chiariva lo stesso Gentile nella sua prolusione a un corso libero di filosofia teoretica a Napoli, era proprio quel mondo storico che in sé comprendeva tutti i motivi della cultura, per vie diverse riconducibili alle varie facoltà della mente, a cominciare dal “senso” e pervenire alla forma del puro pensiero. Anche questa forma mentale, infatti, era da riportare alla concreta vita degli uomini, che si dispiega, appunto, movendo dalle varie e “distinte” facoltà dello spirito. La vita spirituale era intesa nella sua complessità e varietà, secondo un aggiornamento significativo della visione vichiana. Le conferenze palermitane del 1911 costituivano già il sistema gentiliano dell’attualismo (infatti esse erano riunite nella memoria L’atto del pensiero come atto puro). Il pensiero puro, in questa concezione, rappresenta il momento culminante dell’intero processo del reale e la forma del definitivo compimento della realtà dello spirito che si viene sviluppando storicamente. Questa forma del pensiero puro appartiene anch’essa alla mente e rappresenta il senso della realtà stessa nel suo sviluppo storico. La storia ha un senso che si rivela proprio nella sfera del pensiero come atto puro. La prospettiva gentiliana era un tentativo di ricostruzione metafisica, che privilegiava il pensiero e attribuiva l’estremo valore alla filosofia, concepita come momento culminante di ogni cultura e di ogni processo spirituale. Gentile rivendicava a sé il merito di partire dalla concretezza della sintesi vivente e non dai termini astratti e separati l’uno dall’altro e di comprendere in tale
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sintesi tutta la varietà delle categorie mentali e spirituali. Il pensiero non era altro che la sintesi storica nella sua forma di riflessione consapevole; perciò la filosofia si identificava con la stessa storia. All’Omodeo sembrava, però, che in tal modo la storia si dissolvesse in una dimensione senza tempo; e analoghe difficoltà sorgevano per il mantenimento di una autonomia delle scienze positive, a loro volta destinate a dissolversi in quella che De Ruggiero chiamava l’“esperienza assoluta”. Perciò il Guastella nell’“Annuario della Biblioteca filosofica” del 1913 sosteneva “le ragioni del fenomenismo”. Si evidenziava, per l’idealismo, il pericolo di una dissoluzione della concretezza dell’uomo nella storia dello spirito. In questo medesimo senso si colloca la critica crociana della psicologia sperimentale, ricondotta all’ambito dell’indagine naturalistica. Il Villa intendeva l’idealismo nuovo come ambito delle scienze umane, consapevolezza della condizione umana: si trattava, cioè, di inserire le ricerche scientifiche improntate a criteri di obiettività in una cornice filosofica, idonea a dare unità di senso a quelle ricerche e a dare, in definitiva, una immagine della realtà storica concreta. Un campo privilegiato era la psicologia, sui cui sviluppi ancora pesava il dibattito sulla legittimità di una scienza puramente sperimentale e sull’influenza che avrebbe dovuto esercitare ancora la filosofia, al fine di una vera e propria teoria della personalità. Francesco De Sarlo, che diede contributi notevoli a quel dibattito sulla rivista “Psiche”, intendeva la psicologia come filosofia. E a quel dibattito si riferiva principalmente l’Aliotta nel suo studio su La reazione idealistica contro la scienza (Palermo, 1912). Intanto un capitolo di notevole portata è occupato dal dibattito sull’apertura della teologia alle correnti del pensiero moderno. Il modernismo fu il tentativo di inserire nel sistema dogmatico del cattolicesimo fermenti culturali di diversa provenienza, in modo che si avesse una religiosità in accordo coi tempi. Il senso di quell’esperienza è così efficacemente riassunto dal Gentile: “Il cattolico, che vuol rimanere tale trasformando il cattolicesimo, per rimetterlo al passo dello spirito moderno, rappresenta uno sforzo, che è un vero grande esperimento storico. Ma, poiché l’esperimento sia veramente significativo, occorre una volontà irremovibile di restare dentro il cattolicesimo, pur con tutto il progresso dello spirito. Il modernista che oggi s’interessa è Maurizio Blondel” (Il modernismo e i rapporti fra religione e filosofia, Bari 1921, cit. p. 73). L’influsso del problema religioso sulla filosofia è ben visibile nelle prospettive di Piero Martinetti e di Bernardino Varisco: l’una dominata da un certo profetismo universalistico, per cui la religione consiste nell’instaurazione “lenta e sicura di quella chiesa invisibile, che già oggi affratella le anime migliori di tutte le chiese visibili” (una visione che oggi, nell’età del dialogo tra le diverse religioni e della religione come strumento principale del dialogo tra le genti, manifesta una pregnante attualità); l’altra improntata a un estremo rigore etico. Anche l’Acri presenta una rara propensione per le dimensioni profonde della religiosità. Tra gli epigoni del positivismo, Erminio Troilo in una conferenza tenuta presso l’Università di Palermo il 22 novembre 1915 attribuiva alle “metafisiche” e agli “idealismi” la responsabilità della crisi che si era abbattuta sull’Europa e sul mondo. In qualche modo quella era vista anche come la responsabilità per la crisi del liberalismo e della democrazia, del socialismo e dell’internazionalismo, e per l’opposto trionfo dei nazionalismi e degli imperialismi. Egli, tuttavia, finiva per sostenere qualcosa come una super-metafisica, quale appariva quella sintesi finale configurata in un “sistema dell’Essere e del Divenire, del Conoscere e del Fare; filosofia di tutti i Valori – ontologici, logici, estetici, morali, storici – degna del pensiero e degna della Vita” (Realismo assoluto, “Archivio di Filosofia”, I, 1931, p. 78, cit. p. 95). Il che non gli impediva di scagliarsi contro i nemici della scienza, principalmente contro la “vecchia putrefatta metafisica”. Per il Trailo il positivismo era il vero idealismo. “Tutte le altre concezioni, – scriveva – indistintamente idealistiche, pongono quelle idealità oltre la vita; ed il positivismo, invece, solo, nella vita. Sì che questa viene ad acquistare in sé e per sé, la capacità e potenzialità di estendersi ed elevarsi, attuandosi, al limite della massima moralità e spiritualità” (Idee e ideali del positivismo. Roma 1909, cit. p. 97). In questa filosofia gli ideali nascono dal tessuto vivo della situazione storica e indicano la tensione etica per la realizzazione dell’umanità. Il realismo assoluto si configurava come assoluto eticismo. Anche Giovanni Marchesini tendeva a evidenziare il carattere “idealistico” del positivismo. In La crisi del positivismo e il problema filosofico già nel 1898 egli osservava: “Il positivismo ebbe il grande merito di disciplinare il pensiero, combattendo un’aspra battaglia contro gli eccessi del razionalismo puro; né
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l’idolatria del fatto, di cui alcuni positivisti si fecero sacerdoti, tocca il positivismo vero più che il credo quia absurdum non tocchi il razionalismo. Ma dopo Platone ed Hegel, dopo i trionfi delle religiosi, della metafisica e dell’arte, è assurdo voler soffocare e sopprimere per l’amore incomposto del fatto, il senso dell’idealità razionale” (cit. p. 101). “Nel suo ‘positivismo idealistico’, che si poteva – secondo il Marchesini – chiamare anche ‘pragmatismo razionale’, le ‘idealità’ sono ‘finzioni’, e tali rimangono rispetto all’obbiettività dei fatti; e tuttavia sono ‘finzioni’ nel senso di creazioni e produzioni umane capaci di suscitare attività, di trasformarsi in molle dell’azione umana, di farsi operative e produttive” (p. 102). Questa filosofia si accostava alla “filosofia del come se” del Vaihinger, del quale è opportuno riportare questa precisazione sulla differenza fra il pragmatismo e la sua prospettiva, denominata funzionalismo: “Il funzionalismo respinge il principio stesso del pragmatismo per cui un’idea che risulti utile praticamente prova così la propria verità teorica, in modo che la fecondità è canone di verità. Il principio del funzionalismo, al contrario, è che un’idea per il fatto di essere non vera o non corretta, non per questo è priva di efficacia pratica, perché, nonostante la sua inconsistenza teorica, può avere un gran peso pratico” (cit. p. 102). Ma, a differenza del Vaihinger, che sfociava in un fondamentale pessimismo, il Marchesini credeva in un ingenuo ottimismo. La difficoltà, infatti, stava nel modo di trasferire sul piano concreto una dimensione puramente ipotetica e attribuire un valore di realtà (verità e obiettività) a ciò che per principio ne è privo. Ecco, in tal senso, una considerazione che faceva gridare allo scandalo il Gentile: “La natura si è costituita nella mia mente come scienza, peperò è legittima l’obiettivazione del dato scientifico” (cit. p. 104). Anche Giuseppe Tarozzi era convinto della possibilità di una conciliazione di positivismo e idealismo: anche il positivismo, infatti, afferma i grandi ideali che costituiscono l’obiettivo della realizzazione dell’umanità. “La sua problematica si collocò con molta precisione all’incontro tra la concezione scientifica di una natura determinata da leggi rigorose, e la visione dell’opera costruttiva dell’uomo” (p. 109). In tale prospettiva il determinismo naturale era rivolto in contingentiamo ed era decisamente affermata la libertà umana. Una posizione analoga era quella del Limentani. Una posizione originale è quella del Varisco, “anch’egli transfuga, a modo suo, da un positivismo a modo suo; anch’egli impegnato a ritrovare la strada che porta dalla scienza alla metafisica, e a tracciare un faticoso itinerario ‘dall’uomo a Dio’” (p. 113). L’ideale conoscitivo è indicato in una stretta integrazione di scienze positive e filosofia, nel senso che questa ha il compito di dare una visione unitaria alle prospettive settoriali e specialistiche di quelle. Ma il Varisco intese pervenire a una nuova sintesi sistematica intorno ai “massimi problemi” e non tenne, piuttosto, conto del carattere ipotetico di una metafisica che si proponeva di partire dai dati scientifici. “L’assunto di Varisco – osserva il Garin – era legittimo a una condizione: di rimaner fedeli a una ragione come ‘ritmo’ della molteplice e varia esperienza, senza alcuna pretesa sistematica, senza aspirare ad alcuna totalità” (p. 124).122 In conclusione per un tale itinerario non rimaneva che una rinnovata separazione tra la certezza scientifica e la “verità” della fede. 122
Il Varisco pensava che si potesse giungere anche a una specie di sintesi tra positivismo e idealismo (o, meglio, spiritualismo). In ciò, come osserva ancora il Garin, era guidato dalla sua tensione gnoseologica, dall’aspirazione a fondare una scienza della totalità del reale. “Ma fu tradito proprio dall’istanza metafisica del suo preteso positivismo, e dal suo spirito sistematico. E come in una filosofia fondata sulle scienze naturali trovò l’avvio fatale verso una metafisica, così la considerazione della umanità dell’esperienza lo portò, attraverso un primato della gnoseologia, o addirittura attraverso una indebita riduzione della filosofia a gnoseologia, a una metafisica monadistica e, di passo in passo, al teismo finale” (p. 120). In questo senso è anche sviluppata la critica di Giulio Alliney nella sua monografia su Varisco (Milano 1943). Il Varisco era, peraltro, prigioniero di una certa visione dommatica della certezza scientifica, tanto che egli attribuiva un carattere di definitiva scientificià al sistema meccanico della natura. Perciò: “Gentile reagiva contro una metafisica equivoca ed incerta, ma a tinte contingentistiche, che intuiva sotto una pretesa scientifica; e Vailati apertamente accusava Varisco di fraintendere la teoria dei modelli meccanici e di rimanere schiavo di una tradizionale ed ‘antropomorfica’ concezione della ‘causalità’” (p. 124). Eppure è lo stesso Varisco che, a conclusione del suo libro Scienza e opinioni, avvertiva che all’indagine razionale rimane accessibile solo il campo delle “forme” e che alla stessa filosofia spetta il compito di pervenire all’idea di un ordine della realtà, senza pretendere di scoprire l’interna costituzione delle cose: “Il sapere comunicabile non ha per oggetto che delle forme: la materia è tutt’altro che ignota; è anzi assolutamente certa; ma non è soggetto di sapere comunicabile” (Scienza e opinioni, Roma 1901, p. 561, cit. p. 124). “Il che significava, in fondo, tutt’altro che quella pretesa sistematica totale, che fu un chiodo fisso del Varisco, e che finì per portarlo a una strana accozzaglia di nozioni eterogenee; si trattava, invece, di affrontare soltanto
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Non è riconosciuta profondità di pensiero a Francesco Orestano, la cui filosofia passa attraverso alcune correnti, senza che ne sia totalmente coinvolta: positivismo scientifico (con il tentativo di delineare un’etica positiva), pragmatismo (ma piuttosto dannunzianesimo, esaltazione mistica dell’azione; fascismo), spiritualismo (irrazionalistico) sono queste principali correnti, ridotte a posizioni strumentali di una filosofia che si risolve in retorica non esente da contraddizioni logiche. Ad esempio, nel momento in cui Orestano mette in rilievo il carattere positivo e scientifico di quella che chiama morale economica, esalta l’opposta morale ideale, e mentre pone tra i massimi valori la vita, non fa a meno di rivendicare la sacralità del sacrificio della vita per una causa ideale.123 Cultura e filosofia a Napoli tra Otto e Novecento Il Croce, concludendo la sua Storia del Regno di Napoli, rilevava la grande tradizione filosofica napoletana, confrontandola con la scarsa produzione poetica.124 In verità, se consideriamo il periodo dal 1870 al 1920, Napoli presenta un quadro culturale caratterizzato da un fervore speculativo che non aveva pari in nessun altro ambiente nazionale. Indubbiamente una tale vitalità di pensiero attribuiva a questa città un ruolo egemonico in Italia, per ciò che riguardava l’elaborazione di una cultura filosofica capace di dare solidi fondamenti teorici al momento storico dominato dalla realtà del nuovo Stato. Si potrebbe dire che la congiuntura nazionale allora non avrebbe potuto avere una giustificazione teorica più felice e completa. Napoli offriva l’esempio di una sede capace di elaborare una cultura organica, altamente rappresentativa delle aspirazioni e delle potenzialità della “nuova Italia”. Gli intellettuali che diedero luogo a un così straordinario evento culturale erano quegli esuli che a Torino specialmente avevano già concorso a costituire un embrione della futura società italiana e che ritornavano, dopo avere animato la vita culturale cittadina intorno agli anni ’40. Rientravano, infatti, intellettuali come i fratelli Bertrando e Silvio Spaventa, il De Sanctis e il Settembrini, Vera e Imbriani, mentre continuavano a operare a Bologna il Fiorentino e il De Meis. L’Università di Napoli divenne, quindi, il centro deputato a elaborare una filosofia e una cultura adatte a interpretare l’istanza progettuale della società italiana, nel senso del compimento della rivoluzione liberale e moderna. Secondo Bertrando Spaventa, l’idea cardine intorno alla quale sarebbe ruotato il programma di consolidamento delle basi culturali del nuovo Stato era quella della fondamentale connessione della filosofia italiana con l’intero corso del pensiero europeo: la filosofia moderna, iniziata in Italia nell’età del Rinascimento e rappresentata specialmente da Giordano Bruno, aveva continuato il suo svolgimento oltralpe nelle principali correnti europee, aveva dato ancora un grande contributo originale con Vico, aveva raggiunto la sua maturità con l’idealismo tedesco ed era ritornata in Italia con Rosmini e Gioberti e con la rinascita dell’hegelismo. In questo modo era respinta l’ipotesi di un isolamento del pensiero italiano lungo la linea di una tradizione autoctona. Alla cultura italiana era riconosciuto il carattere di espressione della storia della civiltà moderna. Basti pensare che a Galileo spettava il merito di avere inaugurato l’espressione tipica di quella cultura, la scienza sperimentale moderna. E che a Vico spettava l’altro merito di avere posto le basi delle nuove scienze storiche e umane. Il contributo di Spaventa all’interpretazione di Hegel è notevole. In particolare, ricordiamo qui i riferimenti alla fondazione hegeliana dell’idea dello Stato liberale, come vera espressione dello spirito oggettivo e strumento di formazione della “coscienza” civile: tale è, infatti, sul dei concreti problemi di logica delle scienze e della vita morale. L’idea del sistema totale, e della possibilità di iniziare così una discussione circa il soprannaturale, poggiava su presupposti eterogenei, gnoseologici e metafisici, surrettiziamente presupposti” (p. 125). 123 L’Orestano tenne le cattedre di filosofia morale e si storia della filosofia a Palermo dal 1907 al 1924 (era nato nel 1873), fu accademico d’Italia e presidente della Società Filosofica Italiana. La sua opera più notevole è I valori umani (2 voll., Torino 1907); opere indicative del suo orientamento teorico sono Il realismo (in collaborazione con l’Olgiati, Milano 1936) e Il nuovo realismo (Milano 1939). Il realismo gli appariva come l’unica filosofia che potesse sfuggire al soggettivismo e al relativismo. 124 “Napoli non ebbe [nell’intero arco della storia letteraria dal Trecento in poi] se non qualche porta di second’ordine, o anche, se si vuole, produsse bensì una poesia di prim’ordine, ma nella filosofia” (B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1925, pp. 259-60).
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piano politico la coscienza come autoconsapevolezza.125 Lo sviluppo di un nuovo sistema delle scienze umane appariva allora allo Spaventa l’esigenza propria da soddisfare. Nonostante questi elementi di forza e la condizione di effettiva egemonia culturale, l’hegelismo venne in qualche modo ridimensionato o sopraffatto dall’incalzante marea positivista. Come ha osservato il Croce, “a Napoli la resistenza, quantunque tenace, non dimostrò di possedere forza di sconfiggere gli avversari”.126 Verso la fine degli anni ’60, l’hegelismo napoletano si avviava verso una crisi interna, testimoniata dal fatto che gli stessi hegeliani si postavano vero il positivismo o avvertivano l’esigenza di misurarsi con quella filosofia (o corrente di cultura).127 La debolezza teorica del positivismo, tuttavia, non consentì alla nuova filosofia di assumere quel ruolo (di effettiva egemonia culturale) già esercitato dall’idealismo. Salvatore Tommasi, la cui chiamata alla cattedra di clinica medica all’Università di Napoli segna l’ingresso ufficiale del positivismo in quella Università, ammise i limiti della ricerca scientifica, senza negare il carattere proprio della metafisica: “Nelle scienze obiettive – scriveva, infatti – e naturali, la dottrina non può consistere in un a priori, non può sorgere dalle speculazioni metafisiche, non può essere un’intuizione, e molto meno un sentimento, quindi parlar di filosofia in medicina è un controsenso” (S. Tommasi, Il naturalismo moderno, Bari 1913, p. 280). Più che di contestare la validità e la legittimità della ricerca filosofica, si trattava di definire con sufficiente precisione i confini tra la scienza empirica e la riflessione filosofica. “C’era in questa voluta diminuzione della rilevanza conoscitiva del metodo positivista quasi il senso dell’inferiorità speculativa della nuova scuola, che, uscita dal seno dell’idealismo, si accorgeva della sua limitatezza riguardo alla possibilità di interpretare totalmente la realtà”.128 Anche il De Sanctis negli ultimi anni accentuò il suo interesse verso l’estetica naturalistica e realistica, in aderenza all’orientamento generale dello stesso hegelismo (al quale il grande critico aderì). Si può dire un caso a sé anche lo storico Pasquale Villari, che teorizzò l’applicazione del “metodo positivo” alla ricerca storiografica.129 Un altro esempio di questo fenomeno di generale attrazione nell’orbita positivista e naturalista di tutti gli intellettuali di matrice hegeliana è il De Meis, il quale, tuttavia, conservò il fondamentale interesse verso la fondazione di una nuova filosofia della natura, aggiornata agli ultimi sviluppi delle scienze positive.130 Sulla linea del nesso tra teoria e pratica, tra pensiero e azione e filosofia e politica, si mosse Antonio Labriola, uno degli “infedeli scolari” di Spaventa, approdando a una versione critica originale della prospettiva marxiana del materialismo storico.131 Nell’ambito di una concezione sostanzialmente idealistica rimase Vittorio Imbriani, il quale, in particolare, sostenne il primato del momento etico-politico con una intransigenza che poteva apparire perfino reazionaria. E’ stato, poi, principalmente merito del Croce, di avere pensato una nuova forma organica (quasi un sistema) di riflessione filosofica, a conferma della grande tensione etico-politica della tradizione napoletana e spaventiana dell’hegelismo. E’ superfluo dire che Croce si formò a quella scuola e che l’intero suo pensiero è 125
Come scrisse il Fiorentino, allievo di Spaventa, “all’organismo nazionale lo Stato imprime il suggello di una più rigorosa e più profonda unità, l’unità del volere, in cui propriamente consiste la coscienza politica” (F. Fiorentino, Lo stato moderno. Due lettere a S. Spaventa, cit. da G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell’Ottocento, Bari 1973, p. 400). 126 B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1928, p. 136. 127 Lo stesso Bertrando Spaventa dichiarava che “la vera natura, essere, esistere umano, è il fare umano” e che, per tale attenzione ai “fatti” (in quanto espressione di un’attività che fonda e pone “oggettività” diversamente configurate), il positivismo “è la vera espressione dell’esigenza contenuta nel vero idealismo” (B. Spaventa, Esperienza e metafisica, in Opere, Firenze 1972, III, p. 15). 128 Rosario Contarino, in Letteratura italiana. Storia e geografia, Einaudi, Torino 1989, vol. III, p. 656. 129 Il Villari nel celebre saggio del 1866 La filosofia positiva e il metodo storico sostenne l’identità tra il “metodo storico” applicato alle scienze morali e il “metodo sperimentale” proprio delle “scienze naturali”. 130 Nell’opera intitolata Dopo la laurea (1868-69), il De Meis mise in evidenza i limiti dell’indagine naturalistica, indicando nella filosofia la sfera propria in cui può costituirsi un sapere unitario, rivolto a cogliere, specialmente, il senso dello sviluppo della storia umana, orientato verso una forma migliore di umanità. 131 A. Labriola, Lettera a Benedetto Croce del 2 gennaio 1904, in Epistolario, Roma 1983, III, p. 1001.
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il risultato di quella formazione.132 Il progetto di una filosofia italiana, coltivato in tutta la tradizione moderna, trova finalmente la sua pratica e storica attuazione. E anche il pensiero del Gentile “si deve ricondurre alla tradizione speculativa degli hegeliani di Napoli”.133 Il Gentile, in particolare, risentì della lezione di Donato Jaja, scolaro di Spaventa e principale interprete della sua opera rivolta a costruire una “coscienza filosofica” italiana. Il monismo psico-fisico di Filippo Masci Il nucleo centrale del pensiero di Filippo Masci, secondo Alfonso Pietrangeli, è il monismo psico-fisico.1 Si tratta, dunque, di quell’indirizzo di pensiero che gli storici della filosofia inquadrano nel filone più ampio del positivismo evoluzionistico e in quella variante spiritualistica e psicologistica che ha il suo massimo rappresentante in Guglielmo Wundt, uno dei fondatori della psicologia sperimentale. Secondo questo indirizzo, l’evoluzione spirituale è parallela all’evoluzione naturale; e le due serie evolutive non costituiscono due realtà separate ma sono manifestazioni distinte della stessa realtà. In questo senso si individua una base metafisica che si può ricondurre a Spinoza. La concezione di fondo è sostanzialmente monistica. Anzi, secondo Wundt, il dualismo di natura e spirito sarebbe a ricondurre all’attività rappresentativa e al pensiero riflessivo e astraente.1 La realtà unitaria che sta alla base dei due ordini di fenomeni (quelli fisici e quelli spirituali e psichici) può essere in qualche modo colta dall’esperienza immediata, che si può ricondurre alla fondamentale “appercezione trascendentale” di Kant ma che qui assume piuttosto i caratteri dell’atto volontario. In questo senso si può intravedere un fondamentale accesso all’idealismo, con la concezione metafisica di un principio reale coincidente con un atto psichico (che è volontario e rappresentativo insieme). Si può dire, pertanto, che il punto di vista più propriamente filosofico che caratterizza la prospettiva di Wundt sia da individuare in un idealismo spiritualistico. L’esigenza evoluzionistica del positivismo s’incontra con quella spiritualistica dell’idealismo. Lo stesso Wundt ammette che le scienze filosofiche fondamentali sono la teoria della conoscenza (logica e gnoseologia) e la metafisica. Per quanto riguarda le scienze particolari, egli ammette l’applicazione di un metodo unitario, basato sull’organizzazione dei dati empirici mediante il principio di ragion sufficiente. La filosofia ha il compito di unificare i diversi ambiti scientifici sulla base di ipotesi generali sulla realtà nella sua unità e totalità. Wundt stesso intendeva dedurre le grandi ipotesi metafisiche relative al senso del progresso ontologico unitario: quelle di spirito totale (unità di senso di tutte le manifestazioni spirituali della realtà), organismo totale (unità di tutte le determinazioni fisiche) e personalità totale (unità relativa al soggetto umano). Per la fondazione e lo sviluppo del suo monismo psico-fisico, Masci parte dall’istanza kantiana della conoscenza come “sintesi del dato e della forma logica”.1 Egli rileva l’irriducibilità reciproca del senso e dell’intelletto, delle percezioni e delle idee; e quindi affronta la difficoltà che deriva da questa irriducibilità, ovvero il problema della via per la quale questa stessa irriducibilità viene risolta. A questo punto osserva che l’analisi psicologica dimostra la genesi dell’intelligenza dal senso e la sostanziale riduzione degli atti percettivi a processi psico-fisici. In realtà, soltanto sulla base di una sostanziale appartenenza originaria dell’intelligenza al senso è possibile ritenere intelligibili i dati sensibili, nel senso richiesto dalla costruzione del sapere scientifico (che è sapere elaborato dall’intelletto). Le categorie, infatti, non sono altro che la trasposizione sul piano dell’intelletto delle originarie modalità di connessione dei dati sensibili sul piano stesso della sensibilità. Il Masci intende riformare la dottrina kantiana delle categorie e dello schematismo trascendentale. Kant intende la conoscenza come un prodotto dell’applicazione delle categorie ai dati sensibili attraverso gli schemi trascendentali. Questi sarebbero elementi intermedi, in quanto da un lato connessi con le categorie e dall’altro con le intuizioni sensibili. Il Masci avanza una interpretazione nuova e originale della teoria dello schematismo, che s’inquadra nella generale concezione monastica della realtà psico-fisica. In base a questa
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Anche se un tale influsso non è stato riconosciuto dallo stesso Croce. Cfr. a questo proposito: Contributo alla critica di me stesso, Bari 1945, p. 40. 133 R. Contarino, in op. cit., p. 697.
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concezione, non si può intendere la conoscenza come un tutto che risulti dall’apporto di elementi preesistenti (i dati sensibili, le categorie, gli schemi); bisogna invece mettere in rilievo, innanzitutto, la genesi delle categorie da fondamentali dati sensibili (sul piano dei quali, ad esempio, è possibile riscontrare i processi di connessione causale), in modo che si renda inutile il ricorso allo schematismo.1 In questo senso il Masci intende dimostrare, già attraverso il ricorso a un elemento fondamentale della gnoseologia, la fondamentale unità della realtà. Il fine di questo discorso è il superamento del dualismo di spirito e natura, di senso e intelletto, di rappresentazioni e idee. L’unica realtà esistente è concepita come sostanza psico-fisica, il cui carattere fondamentale è l’evoluzione, dunque la trasformazione continua e la creazione di livelli sempre più alti e complessi di organizzazione. Nella sfera spirituale, l’autocoscienza appare come la manifestazione più alta.1 Come ha osservato il Maresca, il Masci è da considerarsi come uno “spiritualista nel senso corretto della parola”.1 Anche la materia, infatti, per il filosofo, è un momento dell’evoluzione dello spirito. Ciò che caratterizza questo spiritualismo è, appunto, la concezione unitaria della realtà: tutte le manifestazioni, materiali e spirituali, della realtà s’inquadrano in un solo processo evolutivo, nel quale non si danno fratture e non instaurano dualismi.1 Così, ad esempio, le idee innate sono intese come funzioni che hanno la loro radice nei processi dell’esperienza. Per comprendere il senso del monismo psico-fisico (che il Masci contrappone, come unica ipotesi metafisica plausibile, al materialismo, allo spiritualismo e al monismo neutro), bisogna rifarsi agli “inizi della vita psichica”, a quello stadio in cui, appunto, il reale si presenta in una forma indifferenziata, come atomo e come monade.1 Il Masci, seguendo il criterio positivistico, intende la conoscenza umana come limitata all’esperienza. Ed entro tali limiti sarebbe racchiusa la sua ipotesi metafisica, della realtà come unica nella sua essenza ma articolata nella duplice manifestazione della natura e dello spirito (nel senso, però, secondo cui la natura stessa è espressione e momento della realtà spirituale). Tale ipotesi, secondo Masci, consente di evitare la “inutile brutalità del materialismo, l’inconcepibilità delle monadologie spiritualistiche che riducono il mondo esterno a un sogno dello spirito, la tenuità ripetitiva dell’idealismo, e il troppo facile fideismo della filosofia dei valori”.1 Per Masci, la filosofia è principalmente gnoseologia (e logica) e metafisica, cioè dottrina della conoscenza e scienza unitaria del reale.1 In quanto, poi, la conoscenza è costruzione della ragione, la filosofia riguarda lo sviluppo della razionalità nell’ordine della realtà intera.1 Nel suo slancio verso la fondazione di una scienza unitaria del reale, la filosofia, secondo Masci, non deve andare oltre i limiti imposti dall’esperienza. La filosofia è ricostruzione razionale e spiegazione dell’esperienza. Il che significa che non è semplice riproduzione dei dati empirici, ma che, invece, è una nuova lettura di essi alla luce della logica e in base all’applicazione dei principi interpretativi che costituiscono le condizioni del sapere scientifico (e di quello specificamente filosofico). Un pensiero puro, in questo senso, è ritenuto privo di senso. Perciò il Masci è contrario al metodo dell’idealismo, secondo il quale la vera scienza del reale è quella fondata sulle leggi (e sui procedimenti) del puro pensiero. Conoscere è considerare e spiegare il reale nella forma del pensiero.1 La filosofia è questa forma di conoscenza. Essa costituisce la forma più alta di elaborazione critica dell’esperienza, la più completa elaborazione razionale della realtà.1 Secondo Masci, Kant non avrebbe superato la difficoltà gnoseologica relativa al radicale dualismo di realtà e pensiero: la realtà in sé rimane qualcosa di inaccessibile e di inintelligibile. Invece di considerare questo dualismo come una condizione invalicabile, si tratta di mutare prospettiva, ponendosi dal punto di vista monastico che è autorizzato dalla stessa esperienza. Si tratta di rimanere aderenti all’esperienza, considerando soggetto e oggetto come due manifestazioni della stessa realtà. In questo modo la conoscenza si configura come “la rivelazione della stessa realtà a se stessa”.1 La conoscenza ha sempre a che fare con la realtà e non ha senso inseguire una presunta realtà indipendente dal pensiero. Si tratta di tenere sempre presente che pensiero e realtà appartengono a un solo ordine reale e che il reale si configura in forme intelligibili, che il pensiero stesso elabora, sulla base dell’esperienza. La conoscenza riguarda la realtà, compenetrata dal pensiero.
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Il Masci rivendica il valore oggettivo delle sensazioni. Le sensazioni alludono a proprietà oggettive, sono segni di esse, sicché valgono come “indici di ricognizione, di classificazione e di uso delle cose”.1 Analogamente avviene per le percezioni, definite come ricognizioni immediate, basate sull’unificazione di sensazioni attuali e rappresentazioni simili (relative a sensazioni precedenti). Le percezioni, secondo Masci, sono un prodotto dell’intelletto, nella sua funzione di adattamento alle intuizioni sensibili. Le sensazioni e le percezioni confluiscono nel pensiero logico. Si tratta di vedere come i dati delle sensazioni e delle percezioni devono essere ordinate per diventare conoscenza mediante il pensiero logico e qual è l’organo della funzione conoscitiva. Le relazioni fondamentali che servono a ordinare i dati sono, per Masci, quelle di sostanza e di qualità e di causa ed effetto. Il pensiero considera la realtà sotto due punti di vista: quello dell’essere e quello del divenire (cui corrispondono le forme del pensiero simultaneo e del pensiero successivo, che comprendono, rispettivamente, i concetti, le definizioni, le classificazioni, da una parte, e, dall’altra parte, il giudizio e il ragionamento). La conoscenza consiste nel progressivo stabilirsi di relazioni, nella direzione di unità comprensive sempre più ampie, secondo il principio per cui “conoscere è vedere l’uno nei molti e riportare i molti all’uno”.1 Il Masci individua, quindi, le forme fondamentali della conoscenza, cioè “le idee madri, che rappresentano le assise più profonde del pensiero, e come la sua orditura primitiva”.1 Per la sensibilità e l’intuizione, queste forme sono “i modi più generali di rappresentazione della realtà sensibile, così interna che esterna”.1 Esse sono le idee di tempo, spazio, movimento. Le idee fondamentali relative al pensiero sono le categorie.1 Masci appare come un neokantiano che adotta un’ipotesi metafisica di tipo spiritualistico (il monismo psico-fisico). La parte più notevole della sua opera è una riforma del kantismo rivestita di un nucleo metafisico spiritualistico e aderente al programma positivistico che assume l’esperienza come ambito fondamentale. Dunque gli ingredienti di questa filosofia sono: il kantismo riformato in senso funzionalistico (il che fa annoverare Masci fra i neokantiani), l’evoluzionismo, il parallelismo psico-fisico, lo spiritualismo, l’esperienza. Si potrebbe chiamare questa prospettiva come propria dell’esperienza assoluta. Certo non si tratta di uno sviluppo della scuola spaventiana. Masci è decisamente antidealista come è antimaterialista. La sua è una metafisica aderente all’esperienza. E la metafisica risponde all’esigenza di una intelligibilità della realtà nella sua totalità. La conoscenza è elaborazione dell’esperienza da parte del pensiero: è riconduzione del molteplice all’unità, del caotico groviglio dei dati empirici a principi e leggi. Sostanzialmente si tratta di una forma di positivismo aggiornata alle esigenze di una cultura progressiva. Concludendo su Masci, sembra che non si possa inserire nella scuola spaventiana. Non sembra che abbia a che fare in qualche modo con l’insegnamento e l’eredità spirituale di Bertrando Spaventa. Se mai, egli parte dalla riforma del kantismo per elaborare una nuova dottrina della conoscenza (gnoseologia). La riforma consisterebbe nel superamento (o accantonamento) della prospettiva dualistica, per cui la conoscenza sarebbe il tentativo da parte del soggetto di raggiungere una realtà a lui completamente estranea. Ha ragione Masci di osservare che il soggetto non è mai estraneo alla realtà che intende conoscere: egli fa parte di questa realtà e ne ha immediata intuizione. In quanto io ho un corpo, partecipo dei fenomeni fisici che intendo studiare e spiegare. La realtà costituisce il campo della mia esperienza immediata e, quindi, quello della mia riflessione e della successiva elaborazione critica dell’esperienza medesima. Questo è il dato di partenza del Masci, che configura la sua prospettiva metafisica come monismo psico-fisico. Il dualismo, dunque, è fuori luogo e costituisce un pregiudizio tradizionale che l’istanza critica dovrebbe contribuire a rimuovere subito. Masci ha il coraggio di questa rimozione. Egli prescinde da ogni dualismo, dalla separazione di realtà e pensiero. Il pensiero è funzione della realtà. Le idee corrispondono a forme della realtà, e non si dà mai una realtà fuori di esse. Ecco dunque i capisaldi del pensiero di Filippo Masci: 1) La conoscenza umana è limitata alle forme di rielaborazione mentale (attraverso il pensiero) dell’esperienza: si hanno, pertanto, le diverse sfere conoscitive, costituite e caratterizzate in rapporto alla maggiore (più approfondita) o minore elaborazione critica e sintetica dei dati sensibili. I più alti livelli conoscitivi sono costituiti dalle scienze positive e dalla filosofia. Questa è caratterizzata dall’esigenza di realizzare una sintesi organica tra tutte le scienze e di fornire una visione (una spiegazione e interpretazione
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unitaria del reale). In questo senso la filosofia è metafisica. Per Masci la metafisica tocca tutti i campi dell’esperienza che costituiscono oggetto delle scienze particolari: così si hanno, ad esempio, le filosofie speciali: del diritto, della religione, dell’arte e così via. Una disciplina filosofica fondamentale è la gnoseologia, che riguarda i processi mentali attraverso i quali il reale viene compreso in quanto intelligibile; connessa con la gnoseologia è la logica, che riguarda le forme dell’intelligibilità. Masci muove dalla convinzione (e questo sembra l’unico residuo idealistico presente nella sua filosofia!) della razionalità del reale. I concetti, le categorie, le idee, pertanto, rappresentano aspetti della realtà. 2) In quanto la filosofia (la metafisica) riguarda gli ambiti dell’esperienza (considerati al livello della più approfondita intelligibilità), il Masci dichiara il suo agnosticismo riguardo alla possibilità di fondare una qualsiasi dottrina dell’assoluto. In questo senso, riguardo alle tematiche che riguardano i modi di pensare l’assoluto si tratta di operare una vera e propria sospensione del giudizio: il filosofo, tuttavia, non deve escludere che vi possano essere vie di accesso all’assoluto diverse da quelle propriamente conoscitive e razionali. Anzi, il filosofo stesso avverte il bisogno di colmare in qualche modo il deficit conoscitivo, avvicinandosi, appunto, a quelle esperienze e risorse spirituali che aprono la via all’assoluto. Non è esclusa, del resto, una componente misticheggiante nello stesso pensiero del Masci. 3) Masci si collega direttamente a Kant per quanto riguarda l’esame critico della struttura trascendentale del soggetto e, pertanto, analizza le forme mentali che concorrono (insieme ai dati sensibili) allo sviluppo della conoscenza, però le considera non alla stregua di principi a priori prefissati (quasi “stampi” o “attitudini mentali preesistenti”) bensì nel senso di funzioni, che vanno profilandosi attraverso lo sviluppo degli stessi processi conoscitivi. 4) Masci intende superare il dualismo tra soggetto e realtà, che ancora pesava sull’impostazione kantiana, profilandosi specialmente come opposizione tra fenomeno e noumeno: il concetto di “cosa in sé” è di per sé contraddittorio e assurdo e ogni prospettiva che muove dalla visione dualistica s’imbatte necessariamente nella difficoltà di una radicale contrapposizione tra il soggetto e la realtà e nell’impossibilità per il primo di raggiungere e comprendere la seconda. Si tratta, allora, di porsi dal punto di vista del monismo, per cui il soggetto e la realtà sono due aspetti di una medesima dimensione reale. Questo è l’unico punto di vista praticabile e non contraddittorio, a partire dal quale la conoscenza si pone all’interno dello stesso svolgimento del reale. 5) Masci accoglie dal positivismo una duplice esigenza: una di natura metafisica e una di carattere gnoseologico. La prima riguarda la fondamentale categoria di “evoluzione”, secondo la quale una delle idee generali sotto cui va assunta la realtà nella sua unità e totalità è appunto quella dell’evoluzione, che comporta il progressivo e inarrestabile avanzamento del reale verso condizioni di sempre maggiore complessità. L’evoluzione, una volta che il processo evolutivo nella natura appare come compiuto, riguarda specialmente la sfera della coscienza e dello spirito. Nell’uomo il processo evolutivo ha raggiunto il suo culmine. Infatti la forma più perfetta di unità della molteplicità è data dalla costituzione del soggetto individuale. Il sistema dell’universo fisico-organico qui si concentra nell’unità psico-fisica del soggetto. Il principio evolutivo si configura, così, come legge dell’individuazione progressiva. Nella prospettiva del Masci, l’evoluzione è intesa non come un processo meccanico, regolato da una legge deterministica, bensì come “spontaneità creatrice, intrinseca alla realtà” o come un una tendenza, uno slancio creativo e formativo (un nisus formativus), che è insieme causale e finale. 6) Questa tendenza fondamentale della realtà verso formazioni spirituali sempre più complesse, che non sono più il risultato di processi deterministici bensì si configurano come espressioni di una fondamentale “libertà”, giustifica l’intera manifestazione del mondo dello spirito. Qui in qualche modo si riproduce il concetto hegeliano dello “spirito libero”. Lo spirito si distingue dalla natura per l’essenziale libertà e finalità che caratterizzano il suo sviluppo e la sua manifestazione complessiva. Con la “sostituzione dei fini alle cause”, l’ordine degli enti si trasfigura in ordine dei valori. La filosofia morale si salda alla teoretica; e una identica visione comprende la natura e la storia. In tale modo l’ipotesi del monismo psico-fisico ha una ulteriore conferma. 7) Il Masci perciò ritorna e insiste sul motivo del monismo. Egli osserva che “il pensiero umano non si potrebbe adattare al dualismo, e intendere a parte i due mondi […]. Il dualismo delle leggi ripugna al pensiero”. L’esigenza di escludere il punto di vista dualistico è vista come intrinseca alle leggi del pensiero,
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alla stessa “logica” (nel senso di legge della realtà stessa e non del solo pensiero, nel senso hegeliano di forma dell’Idea). Il problema gnoseologico e l’equivoco gnoseologistico della filosofia moderna Per me rimane l’equivoco della sostanziale matrice soggettivistica dell’idealismo. Il soggetto è sempre il soggetto della conoscenza ed è un equivoco considerarlo come il soggetto metafisico, principio e sostanza della realtà. Platone esplicitamente dice che le idee sono le realtà immutabili e permanenti, perfettamente intelligibili. Ma le idee degli idealisti sono i termini del pensiero, qualcosa di simile agli “universali” di cui parlavano i medievali, considerandosi come semplici sostanze fittizie poste dal pensiero. L’idealismo è legittimo dal punto di vista gnoseologico, come espressione del problema della conoscenza. Non sembra, invece, legittimo come concezione metafisica della realtà, cioè come concezione della realtà come soggetto. Va bene che il pensiero moderno muove dal “cogito” cartesiano; ma anche questo esprime una verità indubitabile, un principio gnoseologico certo, non vuole indicare una sostanza metafisica. La concezione metafisica delle due sostanze è un derivato, una conseguenza. Ma l’idealismo deriva direttamente dallo sviluppo del “cogito”. E’ vera l’idea in quanto “oggetto” del “cogito”. Ma questa è l’idea corrispondente alla realtà come “oggettività”. Si tratta dunque di un termine gnoseologico. E’ partendo dal problema della conoscenza e nell’ambito di questo problema che si elabora il concetto di oggettività, di realtà oggettiva, di idea. La filosofia moderna non riesce a oltrepassare la linea dell’impostazione del problema della filosofia come problema gnoseologico. Essa è il campo proprio della gnoseologia. Come avverte il Prini (v. Gnoseologia, in “Enciclopedia filosofica”, II, 813-839), l’impostazione moderna del problema del rapporto tra il soggetto e la realtà rappresenta un rovesciamento rispetto a quella classica. Per quest’ultima, la “res” rimane il termine autonomo di riferimento dell’attività conoscitiva. Invece per la prospettiva moderna, “la mente stessa, con i suoi ‘contenuti’ e le sue ‘operazioni’, è l’oggetto diretto della nostra conoscenza, quello che noi abbiamo immediatamente ‘sotto mano’ e sulla certezza e validità del quale ci sarà possibile fondare l’edificio del nostro sapere” (815). Il soggetto non esce fuori di se stesso: considera unicamente i suoi “contenuti”, i dati elaborati ai diversi livelli (dalla sensibilità, dall’intelletto e dalla ragione; a livello intuitivo e logico). Il problema consiste nella teoria gnoseologica che riguarda sempre questi “contenuti” mentali, la loro origine e struttura, il loro valore conoscitivo e così via. L’oggetto della conoscenza non è più il mondo reale bensì la nostra rappresentazione del mondo. “SE ci poniamo il compito di vagliare tutte le verità che la ragione umana può conoscere, cosa che deve fare una volta nella vita chi vuol giungere alla vera conoscenza, troveremo che niente può essere conosciuto prima dell’intelletto stesso, poiché da esso dipende la conoscenza di tutto il resto e non viceversa” (Cartesio, Regulae ad directionem ingenii). Tutta la filosofia moderna si svolge come una riflessione sui contenuti mentali o dati immediati della coscienza o idee. Rimane pertanto eluso il problema della consistenza reale o metafisica dei contenuti della coscienza. Cartesio pensava di avere impostato e risolto questo problema con la dimostrazione dell’esistenza di Dio: Dio, in ultima analisi, è l’autore delle idee poste nella mente ed è il garante della loro verità (intesa anca come corrispondenza dell’idea alla “cosa”). “Tale risoluzione impedì al razionalismo dell’età cartesiana di definire un’autonomia del gnoseologico, per quanto avanzati siano stati in questo senso i tentativi, per esempio, di Leibniz. […] Si sa quanto è stata ed è tuttora controversa tra gli interpreti di Leibniz la questione dei rapporti tra logica e metafisica. Ma è certo che egli ha segnato fin dall’inizio l’ineliminabile vincolo metafisico della sua ricerca logico-gnoseologica, identificando gli elementi assolutamente semplici, verso i quali tende l’analisi, cioè i concetti primi, con gli stessi assoluti attributi di Dio, considerati come cause prime e ragione ultima delle cose, e come tali praticamente in attingibili dalla mente umana” (P. Prini, l. cit., 816). Così il problema gnoseologico riusciva ad attingere una connotazione metafisica passando attraverso il problema teologico. Questa sembra la via obbligata seguita dall’intero sviluppo del razionalismo. In Spinoza, infatti, si viene a determinare una sostanziale coincidenza di tutti questi problemi insieme, in modo che la teoria della conoscenza si identifica con la metafisica dell’unica sostanza avente come suo attributo fondamentale il pensiero e a sua volta coincidente con la teologia (data l’identificazione della sostanza unica con Dio). In
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Leibniz la sostanziale identità di logica e metafisica attraverso la teoria delle monadi o sostanze semplici riesce a legittimarsi sulla base della dottrina della creazione delle monadi da parte di Dio e della riduzione, in Dio, di tutte le verità a verità di ragione. Ed è questa, del resto, la via che conduce all’idealismo, attraverso la svolta soggettivistica operata da Kant. Kant ha ricordato che è impossibile uscire dal soggetto (sulla scia di Hume) e che la trasposizione della gnoseologia (logica) in metafisica avviene sul terreno della soggettività. Una via diversa è quella dell’empirismo. Qui ovviamente è del tutto assente la preoccupazione metafisica relativa al problema di una corrispondenza reale delle idee. Il problema si esaurisce nell’analisi della genesi e della costituzione delle idee. Secondo Hobbes, addirittura, in modo paradossale, la gnoseologia implica una specie di sospensione del giudizio intorno all’esistenza del mondo esterno. Il ritrarsi della filosofia all’interno del soggetto voleva dire il venir meno dello stesso problema della realtà in sé, dell’esistenza stessa del mondo (ma anche di Dio). Berkeley torna all’impostazione del problema teologico: per il mondo ridotto a semplice contenuto della percezione occorre ricercare un fondamento che renda, per così dire, reale tale contenuto (ma ciò è possibile a un ente che abbia il potere di rendere immediatamente reale il contenuto della sua percezione). Ma questa è un’anticipazione, risolta sul piano teologico, dell’idealismo. Come si vede, la gnoseologia non riesce a conseguire una sua autonomia, appunto per la sua limitazione all’ambito soggettivo e per l’impossibilità di passare all’impostazione del problema della realtà. Locke compie un’analisi dettagliata delle idee, ma non perviene a nessuna conclusione in merito alla consistenza reale degli enti a cui esse si riferiscono. Hume risolve l’obiettività “reale” all’interno dei dati della coscienza e ai processi psichici che li elaborano. Per Antonio Labriola Tullio Gregory (“Il Sole-24 Ore” di oggi), in occasione del centenario della morte di Antonio Labriola, ricorda la solenne commemorazione tenuta in parlamento e la raccolta di studi pubblicata a cura di Nicola Siciliani de Cumis, che rimane lo studioso più importante e autorevole dell’opera del primo autorevole rappresentante del marxismo italiano. Fulvio Tessitore, nel suo contributo, sottolinea la valutazione labriolana della funzione dell’università quale centro e luogo di formazione critica della coscienza civile e la connessa interpretazione del materialismo storico come metodo idoneo a consentire la visione organica di tutti i fattori che convergono nello sviluppo dei fatti storici, con particolare riguardo alle componenti economico-sociali. Il Siciliani de Cumis rileva il rigore morale del Labriola, il quale non risparmiava i giudici più drastici su quei filosofi che gli apparivano professare dottrine eterogenee per motivi di circostanza o per riuscire concilianti con le idee più disparate, come, ad esempio, quando espresse l’opinione che non si dovesse “dare ragione a quel cretino del signor Spencer, che facendo della cattiva metafisica senza saperlo (i primi principi!), lui hegeliano, anzi pseudo hegeliano senza genialità, lui inventore di metafisica che vorrebbe parere concetti [?], gracida contro la metafisica”. Labriola, pur considerando il materialismo storico, come uno strumento di interpretazione dei fatti storici nel senso della comprensione della unità organica costituita dalla convergenza di fattori molteplici, rifiuta il concetto di “filosofia della storia”, intesa come una specie di metafisica rivolta a dare ragione del corso storico, con particolare riguardo a una presunta finalità o a un senso specifico dello sviluppo storico. Il marxismo, in questo modo, gli appariva come il punto di vista maggiormente adatto a consentire una valutazione scientifica dei fatti storici (nel senso voluto da Marx di una prospettiva scientifica nella fondazione del socialismo, a differenza dell’utopismo allora dominante). Perciò Labriola polemizzava contro l’assunzione della concezione del materialismo dialettico come categoria filosofica generale in cui inquadrare il materialismo storico. In questo senso gli sembrava necessario sgombrare il campo da qualsiasi visione deterministica della storia. Anche la legge del progresso gli appariva impropria, data l’impossibilità di inquadrare gli avvenimenti in una qualsiasi teleologia. Né bisogna pensare che il fattore economico sia l’unico a caratterizzare i fatti; bisogna considerare, invece, la totalità complessa dei fattori che di volta in volta irrompono nella storia e interagiscono insieme. In particolare, il materialismo storico, come metodo d’intendimento adeguato dei fatti e della situazione storica, è, secondo il Labriola, adatto al punto di vista relativo al progetto di fondazione del socialismo, come generale prassi storica. Il materialismo storico è la prospettiva filosofica (cioè relativa a una comprensione unitaria, al punto di vista dell’unità del sapere) del
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socialismo. Questo, cioè, deve avere un supporto teorico di notevole spessore filosofico e scientifico. Esso, in particolare, si basa su una visione scientifica della storia e si accompagna a una vasta indagine storica, rivolta a mettere in luce la “verità” sulle diverse epoche e sui vari avvenimenti. Il pensiero di Labriola può essere considerato come il contributo più notevole di elaborazione del marxismo nel senso dello sviluppo di una prassi storica rispondente al progetto marxiano della società socialista. Questo pensiero, si può, dunque, indicare come uno storicismo. E in questo senso emergono le connessioni più dirette con la scuola spaventiana. Spaventa ha attribuito notevole importanza (un ruolo quasi centrale) alla filosofia della storia nell’ambito dell’hegelismo. Si può dire che egli non sia pervenuto alla visione di una determinata società come sbocco pratico dell’hegelismo e sia rimasto fedele alla concezione del liberalismo classico (ma adattato all’epoca attuale) come ideologia politico-sociale più rispondente alle esigenze dei tempi. Riteniamo, a questo proposito, legittime le osservazioni critiche di Nicola Caputo nei confronti di una lettura degli scritti politici spaventiani nel senso di un presunto socialismo vicino alla stessa visione marxiana della storia. Ma va riconosciuto che Labriola, nell’elaborazione del suo materialismo storico, sia debitore specialmente all’insegnamento tratto dalla scuola spaventiana. Qui, infatti, echeggiano motivi della tradizione italiana, specialmente risalenti a Vico, intorno alla interpretazione della storia come espressione di una specie di categoria mentale, che orienta l’intera prassi. Indubbiamente, secondo la linea dell’hegelismo visto attraverso Vico, l’attuale fase storica appartiene all’esigenza della ragione, per cui il progetto storico al quale dare pratica attuazione, è quello della trasformazione della società nel senso della fondazione dell’umanità razionale. Io ritengo che Labriola conservi nel suo punto di vista materialistico questo concetto della rivoluzione nel senso della razionalità. Infatti la prospettiva marxiana serve a Labriola a recuperare un criterio scientifico atto a consentire la comprensione unitaria dei fatti storici. Così il punto di vista di Hegel e di Spaventa è quello della scienza della storia (o filosofia della storia). Lbriola ha attinto da Spaventa l’idea che si tratta di elaborare una concezione scientifica della storia (che è quella relativa a una visione filosofica), per dar luogo a una corrispondente prassi (e a una relativa ideologia) storica. Forse si può ammettere che Spaventa fosse a un passo dalla ideologia del socialismo, anche se si deve puntualizzare che quel passo ulteriore egli non l’ha mai fatto. Tale passo l’ha fatto, invece, il Labrola, restando nell’orbita della filosofia hegeliana dello Spaventa. Non vogliamo dire con questo che il materialismo storico del Labriola (diverso da quello di Marx) sia una specie di hegelismo. Ma vogliamo sottolineare i dovuti nessi tra le due filosofie: senza la mediazione di Spaventa, Labriola non sarebbe approdato al materialismo storico. Un elemento (almeno) fondamentale ereditato dalla filosofia dello Spaventa ci sembra essere costituito dal quel continuo insistente richiamo ai “fatti”, alla concretezza del reale, all’esperienza (nella prospettiva real-idealistica). Labriola non ha fatto altro che trarre le conseguenze estreme da questo richiamo. In questo senso la prospettiva del Labriola potrebbe tranquillamente denominarsi come realidealistica. Ma da un punto di vista più generale vanno messi in rilievo i rapporti dell’hegelismo italiano col marxismo. Possiamo citare a questo proposito quanto ha osservato Alberto Asor Rosa: “Hegel rappresenta, dal punto di vista filosofico, lo strumento ideale di elaborazione dei concetti intuiti su questa giovanile ma ben precisa e animosa linea di demarcazione rispetto al positivismo. Tuttavia il punto di passaggio, cui alludevamo, è un altro: è il rapporto con il socialismo e con il marxismo. In realtà, niente si può capire della storia e dei caratteri dell’idealismo italiano senza rifarsi a questo rapporto con Marx. Abbiamo già ricordato l’opinione di Tronti secondo cui ‘per la filosofia italiana Marx è stato il punto di appoggio per arrivare a Hegel; ha funzionato come tratto d’unione, come anello di congiunzione, storicamente determinato e concreto. Marx ha introdotto Hegel in Italia’; e certo di questo rapporto, il massimo mediatore deve essere considerato Antonio Labriola” (Storia d’Italia, Einaudi, IV/2, p. 1115). Che Labriola abbia costituito un impulso verso la riscoperta dell’hegelismo e quindi verso le posizioni neoidealistiche di Croce e Gentile è pacifico. Ma si può dire altrettanto dei primi sviluppi neoidealistici in Italia, cioè specialmente di quello spaventiano? In questo senso gli scritti giovanili di Spaventa sarebbero indicativi. Da che venne principalmente il primo impulso a studiare Hegel? Che significato si deve attribuire all’intero discorso sviluppato dallo Spaventa pubblicista a Torino nei primi anni ’50? Mi sembra questo un aspetto della biografia spaventiana da rivedere con attenzione. Certo Spaventa era interessato maggiormente alla rivoluzione unitaria italiana, piuttosto che a quella sociale più ampiamente europea e in parte attraversata dalle idee socialiste allora dominanti (sia nella corrente dell’utopismo sociale che in quella “scientifica” di Marx ed Engels). Lo Spaventa dovette ben presto
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accostarsi alla linea liberale, specialmente perché essa costituiva l’asse di formazione del nuovo stato ed era condivisa dalla maggioranza degli esuli a Torino, naturalmente favorevoli a una soluzione moderata e monarchica. Quanto di socialmente rivoluzionario vi fosse allora nella posizione ideologica dello Spaventa è difficile dire. Per quanto riguarda la formazione marxiana del Labriola, possiamo rifarci alle considerazioni dello stesso Asor Rosa. In primo luogo possiamo dire che il Labriola allora si ponesse il problema della fondazione (e organizzazione) del socialismo in Italia e della corrispondente cultura socialista che doveva rappresentarne il necessario supporto ideologico. Il Labriola, per tale via, si poneva dapprima la domanda su chi fosse il vero soggetto della storia. Le masse popolari dovevano entrare a far parte almeno di tale soggetto e prepararsi intanto a esercitare un ruolo di egemonia. Il soggetto della storia non era più l’astratto principio della ragione (lo spirito libero di Hegel) bensì era il soggetto reale configurato come realtà psichica dotata di volontà e come gruppo o classe sociale. Non si poteva interpretare la storia ricorrendo solo ai motivi ideali, alle spinte progettuali provenienti dallo spirito; bisognava tenere conto delle condizioni di vita quotidiana, delle spinte “materiali”, dei bisogni e dell’intera organizzazione delle attività umane. Labriola riteneva che la formazione ideologica fosse una condizione fondamentale per un’organizzazione politica rispondente alle esigenze delle masse popolari. La cultura socialista appariva come il principale strumento della lotta politica e sociale. Era necessaria la formazione di una coscienza relativa al ruolo storico della classe lavoratrice. La situazione esterna, “oggettiva”, sarebbe dovuta trasformarsi in motivazione interna, soggettiva e “psicologica”. Era necessaria a questo scopo una cultura ancora essenzialmente idealistica ma che ponesse al centro della prassi storica la classe emergente, capace di esprimere un progetto per il futuro. Perciò Labriola avversava il positivismo. “Il positivismo, infatti, gli si presentava in primo luogo come l’espressione di una fase di decadenza del pensiero borghese; in quanto aveva rinunciato ad un tentativo di interpretazione coerente, interna e globale delle leggi proprie del mondo storico (cioè umano) per ricorrere ad un’interpretazione meccanica, tutta esterna, e quindi in larga misura insoddisfacente, fondata sulle leggi proprie del mondo biologico e naturale” (Asor Rosa, p. 1034). Questo antipositivismo aveva chiare radici spaventiane, del resto. E interamente hegeliano doveva essere il suo marxismo, maturato attraverso un primo accostamento alle posizioni realistiche di Herbart (nella direzione, appunto, di una sintesi di Hegel ed Herbart, di idealismo e realismo). Possiamo concludere con Asor Rosa: “Non arriveremo a dire che all’empirismo della ‘Critica Sociale’ e della cultura socialistico-positivistica egli contrapponga una vera e propria ‘filosofia della storia’; ma certo non possiamo non vedere che lo schema teorico proposto da Labriola recupera per intero, dall’interno dell’involucro marxiano, alcuni dei capisaldi più caratterizzanti dell’hegelismo italiano: la cultura (ossia gli intellettuali, i ‘maestri’) come cervello-nucleo dell’azione; la filosofia come perno della cultura (in quanto madre e tutrice di una metodologia generale delle scienze, che continuano a restare distinte e subordinate); l’organizzazione politica come estrinsecazione e realizzazione della filosofia” (p. 1040). Labriola hegeliano, dunque, e spaventiano? A parte la formazione risalente a questo asse culturale, bisogna dire che molto rimane in lui di quella filosofia “napoletana” che gravitava intorno al magistero di Bertrando Spaventa. Il motivo spiritualistico stesso permane nella forma del riconoscimento della dimensione interna della coscienza e dello spirito come componente fondamentale del soggetto storico. Labriola auspica lo sviluppo di una cultura socialista come strumento della prassi instauratrice di una condizione umana emancipata e libera. E ciò sul fondamento idealistico di una visione dinamica della realtà intesa come sviluppo della storia e della prassi umana. Filosofia e letteratura. La cultura delle riviste (Cfr. La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste. “Leonardo” “Hermes” “Il Regno”, a cura di Delia Castelnuovo Frigessi, Einaudi, Torino 1977, 2 voll.).
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Il quasi contemporaneo sorgere di quattro riviste (Leonardo, La Critica, Il Regno, Hermes) è stato il risultato di una complessa operazione culturale che aveva il suo motivo unitario nel “risveglio filosofico” auspicato da Croce e nella polemica antipositivistica. Gli intellettuali “nati dopo il ‘70”, che diedero luogo alle famose “riviste”, erano animati dalla forte volontà di cambiare il mondo. I giovani del “Leonardo” si dichiaravano “pagani” e “individualisti” nella vita, “idealisti” e “personalisti” nel pensiero. Nell’arte rilevavano specialmente la “trasfigurazione ideale della vita”, in polemica col verismo e col naturalismo, oltre che col positivismo (inteso quale materialismo antispiritualistico). In sintesi essi professavano una serie di inclinazioni culturali e politiche: antipositivismo, antisocialismo, antiborghesismo, superomismo, culto del soggetto fino al solipsismo.1 La prospettiva filosofia di Papini si qualificava come un esasperato individualismo.1 Ogni conoscenza e ogni valutazione delle cose muove dalla coscienza di sé, dalla lucida e disincantata visione di “ciò che siamo e ciò che non siamo”.1 La filosofia così viene a identificarsi con la persona stessa.1 Questo rivoluzionarismo filosofico radicale si articola in due diramazioni. L’una conduce al mito dell’Uomo-Dio, al mito, cioè, dell’uomo onnipotente, capace di dare pratica attuazione ad ogni moto della sua volontà.1 La seconda è quella che conduce al relativismo gnoseologico e ideologico.1 Papini e Prezzolini tendono a confluire nella posizione di Vailati e Calderoni e verso il pragmatismo.1 “In questo modo, Prezzolini e Papini chiudevano il cerchio della loro prima avventura ideologica: il loro relativismo, così concepito, non poteva portare infatti a nessuna importante operazione metodologico-scientifica, ma solo all’esaltazione dell’opinione combinata di volta in volta con la prassi, di cui unico metro di misura risultava, alla fin fine, l’astratto grado di novità raggiunto; dunque, la massima disponibilità teorico-pratica, perché non ..esistessero confini né alle possibilità del rinnovamento né all’imprevedibile direzione della ricerca”.1 Nel manifesto scritto da D’Annunzio e Gargano e pubblicato nel primo numero della rivista “Il Marzocco”, è dichiarato il proposito di “opporsi a quella produzione d’opere letterarie ed artistiche in generale che hanno le loro origini fuori della pura bellezza”. Anche questa rivista partecipò quindi alla polemica antipostivistica.1 Papini e Prezzolini collaborarono al “Regno” di Corradini. C’era analogia tra il “sogno brutale ed equivoco di dominazione degli uomini” di Corradini e l’aspirazione di Papini “all’Impero intellettuale di tutte l’essenze dell’universo”.1 Prezzolini cercò di divulgare in Italia il pensiero di Bergson, nel quale scorgeva, in particolare, le idee di libertà e spontaneità dell’io, della radicale eterogeneità dei fatti psichici più profondi, la negazione di ogni determinismo, l’affermazione della continuità del processo vitale, l’idea dell’intuizione come via privilegiata della conoscenza. I leonardiani aspiravano a una rinascita idealistica; per cui Croce ricordava loro che l’idealismo non rifiuta, anche se supera, il naturalismo e l’empirismo, poiché “la filosofia deve riuscire all’accordo con la vita”. Croce stesso apprezzava in quegli intellettuali il principio dell’autonomia dell’arte. “Non sembra scorgere il ‘rovescio della medaglia’: l’ipostasi dell’io e il soggettivismo, incapace d’uscire dalla prigione solipsistica, il colorito mistico del pensiero bergsoniano, che è metafisico, l’irrazionalismo integrale coltivato sotto le spoglie della libertà e l’attivismo, che ne consegue; soprattutto la negazione di quello spirito che è storia, ‘attuazione della ragione’, di quella filosofia ch’è ricerca di concrete dimensioni umane” (Frigessi, p. 20). L’estetismo, intanto, che aveva avuto il suo centro nel “Convito” di De Bosis, si raccoglieva intorno al “Marzocco”. “Questo dannunzianesimo costituisce il tramite ‘locale’, che conduce i due ‘protagonisti’ del ‘Leonardo’ ad inserirsi nell’ampio moto della coscienza decadentistica europea: rivendicando, con i temi dell’intuizionismo e con la filosofia dell’azione prossima a degenerare, attraverso James, in ‘idealismo magico’ e ‘magia’, la libertà e la creatività dell’uomo, fuori di ogni schema o ‘sistema’ razionalistico” (Frigessi, p. 23). “La crisi del pensiero scientifico ottocentesco aveva contribuito ad infrangere la fiducia in un ordine razionale dell’universo, retto dalle costanti leggi della natura. E i legami di Bergson con la critica allo scientismo furono intuiti e messi a frutto da Papini e da Prezzolino, i quali appunto s’immersero nell’atmosfera che circolava nella ‘Révue de métaphysque et de morale”, dove, accanto alla bergsoniana Introduction à la métaphysique, compaiono scritti di Couturat, Milhaud e Poincaré. Si scioglie pertanto il
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cenacolo eterogeneo degli artisti e dei letterati, che si ritroverà in parte dello ‘Hermes’; a sede di battaglia politica, Gian Falco e Giuliano il Sofista scelgono “Il Regno” corradiniano; nel 1904 il secondo ‘Leonardo’ inizia la sua nuova serie e si accinge a diventare il portavoce del Florence Pragmatist Club, accogliendo il pragmatismo logico di Vailati e Calderoni accanto al pragmatismo magico di Papini e all’idealismo misticheggiante di Prezzolini” (Frigessi, pp. 23.24). Papini è stato il testimone di una crisi profonda che investiva l’uomo privato di ogni certezza (una volta che era caduta la fiducia nelle leggi scientifiche). Dal Vailati egli traeva l’idea della relatività e contraddittorietà della logica tradizionale; e della crisi della filosofia egli trattava nel suo Crepuscolo dei filosofi. Nello stesso tempo considerava il pragmatismo una “collezione di metodi per aumentare la potenza dell’uomo”. Così la filosofia diventa uno strumento creato dall’uomo “per l’appropriazione del mondo”. La concezione strumentale del sapere sfocia nell’“imperialismo filosofico”, che avrebbe dato luogo a “una nuova età plastica del mondo”. “Ricompare il mito dell’uomo-Dio, per giungere al quale Papini propone l’invenzione di un’“Arte del miracolo”: è l’influsso della volontà sulla credenza e sul reale” (Frigessi, p. 26). I libri di Croce, la Logica (del 1905) e la monografia su Hegel sono oggetto della critica papiniana. Croce avrebbe cercato di fondare un “nuovo idealismo monastico e razionale” e avrebbe stilato il manifesto della “minacciata rinascita hegeliana”. Papini rilevava l’incomprensibilità del concetto universale concreto e tentava un’intepretazione pragmatistica della dialettica.1 “Corradini e Papini, Prezzolini e Borghese, avrebbero voluto essere i mentori intellettuali e politici della borghesia italiana, o giolittiana di governo” (Frigessi, p. 58). Ciò che distingue il pensiero di Corradini nel “Regno” è la continua e insistente apologia della nazione, “organo di massima attività e di massima produzione nella storia del mondo”. “Hermes”, diretta da Borghese, apparve tra il gennaio 1904 e il luglio 1906, per dodici numeri. Gli intellettuali che vi collaboravano si dichiaravano “idealisti in filosofia, aristocratici in arte, individualisti nella vita” e si richiamavano a una tradizione poetica e letteraria culminante in D’Annunzio.1 Una dichiarazione programmatica avvertiva intorno alla stretta collaborazione che si stabiliva fra la rivista e le altre due, “Leonardo” e “Il Regno”,1 in modo che esse costituivano un unico progetto, del quale caratteri ed elementi essenziali erano l’orientamento filosofico idealistico, la politica nazionalistica e la poetica dannunziana.1 Giuseppe Antonio Borghese in uno dei primi articoli apparsi sulla rivista metteva in rilievo la decadenza del tempo e lo stato di smarrimento dell’uomo, ormai privato delle sue radici e proiettato in un cammino del quale non si scorge la meta.1 Il rinnovamento della cultura borghese fu, invece, opera specialmente de “La Voce”, fondata da Prezzolini nel 1908 e continuata fino al 1916 con alterne vicende di sopravvivenza: fino al 1914, sotto la direzione dello stesso Prezzolini, divenne la rassegna dell’idealismo, arricchita dalla collaborazione del Croce. Il 1° gennaio 1913 usciva “Lacerba”, diretta da Papini, il quale nel numero del successivo dicembre dichiarava, esprimendo le ragioni della sua adesione al futurismo: “Il Pragmatismo, da me difeso e svolto in Italia, è fondato sul pensiero del futuro e sulla possibilità di modificare e rinnovare il mondo – cioè sull’attesa della creazione del nuovo”.1 Lo stesso Papini spiegava, quindi, i motivi della sua adozione del bergsonismo come filosofia più adatta a interpretare la sua visione delle cose.1 L’ultima trasformazione della “Voce” fu quella impressa da Giuseppe De Robertis nel dicembre 1914, in senso esclusivamente letterario. Questo fu anche l’indirizzo della rivista “La Ronda” fondata nell’aprile 1919 da un gruppo di letterati, tra i quali primeggiavano Cardarelli, Baccelli, Cecchi. Si rivendicava il carattere esclusivamente poetico e letterario della produzione intellettuale, col rifiuto di ogni contaminazione ideologica e politica. “Gli intellettuali – si dichiarava, ad esempio - dovrebbero essere liberi e spediti d’ogni orgoglio e d’ogni interesse di classe”; “siamo uomini d’ordine e di interessi spirituali. E non vogliamo salvare il mondo né proporre nuovi ordini, non appelliamo niente a nessuno”.1 Si era convinti che, del resto, lo Stato e l’ordine politico non avessero bisogno di sostegni estranei alla loro sfera propria. E in ciò si esprimeva la fiducia nello Stato italiano moderno.
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Nel dicembre 1924 Piero Godetti fondava “Il Baretti”, pensato già come supplemento letterario della “Rivoluzione liberale”. L’idea fondamentale appariva quella relativa al programma di una generale restaurazione razionalistica. “Di scoperte metafisiche, di relativismo, - osservava infatti Godetti – di arte applicata ai grandi problemi è rimasto, dopo quattro anni, appena il ricordo”; quelle ”confuse aspettazioni” e quei “messianismi” avevano avuto l’effetto di preparare “una nuova invasione di barbari”, per cui si trattava di “fissare degli ostacoli agli improvvisatori, costruire delle difese per la nostra letteratura rimasta troppo tempo preda apparecchiata ai più immodesti e agili conquistatori”.1 Nel nuovo clima creato dal fascismo, la letteratura appariva come l’estremo baluardo di libertà.1
La scuola dell’attualismo L’attualismo manifesta la sua vitalità nella sua capacità di generare una molteplicità di indirizzi che occupano l’intera prima metà del Novecento e si protendono oltre nella seconda metà. I nomi dei continuatori e dei riformatori dell’attualismo compaiono nel catalogo della collezione “Studi filosofici” diretta dallo stesso Gentile. Questi filosofi sono: Fazio Allmayer (La teoria della libertà nella filosofia di Hegel, Il problema morale come problema della costituzione del soggetto, e altri saggi), G. Saitta (Marsilio Ficino e la filosofia dell’umanesimo), G. Calogero (I fondamenti della logica aristotelica, La conclusione della filosofia del conoscere), F. Battaglia (Marsilio da Padova e la filosofia politica nel Medioevo), G. Della Volpe (Hegel romantico e mistico), U. Spirito (L’idealismo italiano e i suoi critici), F. Lombardi (Il mondo degli uomini), A. Guzzo (Concetto e saggi di storia della filosofia), C. Leporini (Situazione e libertà nell’esistenza umana), G. M. Bertini (Idea di una filosofia della vita), A. Massolo (Introduzione alla politica kantiana), G. Chiavacci (La ragione poetica). Si tratta di nomi che fanno parte, con numerosi altri, della “scuola gentiliana”: una scuola che non si preoccupò di elaborare un sistema chiuso, ma ricercò con piena autonomia di orientamento per ciascuno dei suoi componenti. L’attualismo costituiva come una grande forza maieutica, capace di far partorire le menti filosofiche secondo lo spirito proprio. E’ un esempio unico di proliferazione di un ceppo unico in direzioni diverse e con risultati anche opposti. La storia di questa scuola è ancora da scrivere e rappresenta uno dei capitoli più interessanti della filosofia del Novecento. Per una prima idea del panorama di queste diramazioni, cfr. la voce “attualismo” nell’Enciclopedia Filosofica. Come sappiamo, ognuno di questi filosofi ha dato un’impronta originale al nucleo originario dell’attualismo. Qualcuno ha cercato di rimanere fedele al motivo essenziale dell’attualismo, dando inizio a una specie di “scolastica” ortodossa; ma per lo più si sono avuti esiti diversi, più o meno lontani dal nucleo originario. Chi ha cercato specialmente di considerare il momento del divenire storico dello spirito, riflettendo sulle forme del divenire nel tempo e in rapporto alla struttura finita dell’esistenza; chi, invece, ha guardato di più alla costituzione “eterna” dello spirito e su questo cammino ha incontrato la Trascendenza. Qualcuno ha risolto l’attualismo in un umanismo e in un esistenzialismo; altri ha sottolineato l’essenziale e insuperabile problematicità dello spirito. Qualcuno ha individuato nell’idealismo un’esigenza realistica, diversamente configurata e tale da richiedere sviluppi specifici. Negli approdi di ciascuno non è più riconoscibile lo stesso attualismo; ma la matrice è tuttavia chiaramente individuabile e riconoscibile. In questo senso, Gentile è stato un esempio si può dire unico di maestro di filosofia. Coerentemente con la sua concezione del filosofare come “affare” dell’intera comunità umana e non di spiriti isolati, egli ha generato e alimentato la più grande “famiglia” di filosofi che la storia ricordi. Giustamente il Chiavacci notava nella dedica del suo capolavoro al grande maestro: “Il suo gran cuore è stato fermato dai colpi di furia omicida; ma il suo spirito vive ancora presso di noi e ancora ci ispira serenità e generosità, fede nell’idea e arditezza di speculazione” (La ragione poetica, p. IX). Proprio così: lo spirito di Gentile vive ancora in ogni seria ricerca e riflessione filosofica, qualunque essa sia e qualunque sia l’orientamento di pensiero nel cui ambito essa s’inserisce. Gentile può essere assunto a simbolo della libera ricerca filosofica, accanto a Socrate e a Giordano Bruno. Egli rappresenta lo spirito della filosofia in quanto spirito della verità. E la sua stessa morte assume un carattere simbolico: di simbolo socratico della libertà e dell’autonomia del pensiero. Vera espressione della libertà, la filosofia sorge e si sviluppa e cresce sul terreno della libera riflessione, capace di sottrarsi a ogni condizionamento esterno e di ergersi, perfino, a giudizio sugli errori della storia, anche a costo di mettere in gioco la vita personale per amore della verità.
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Vediamo dunque come si configura il nucleo dell’attualismo nei diversi rappresentanti della “scuola” gentiliana. La riflessione dei discepoli di Gentile si concentrava intorno al problema della esaustività dell’atto spirituale nella sfera dell’interiorità e, dunque, intorno alla possibilità di considerare le forme dell’esteriorità come aspetti dell’interiorità stessa. Gentile intendeva risolvere nell’atto del pensiero l’intera dialettica dello svolgimento reale. Ogni oggettività è posta dall’atto spirituale, è espressione del pensiero pensante. “La nostra dottrina è la teoria dello spirito come atto che pone il suo oggetto in una molteplicità di oggetti, ed insieme risolve la loro molteplicità ed oggettività nell’unità dello stesso soggetto” (Teoria generale dello Spirito come Atto puro, Firenze 1944, c. 16, § 1, p. 230). Tutti gli aspetti della vita e della realtà sono espressioni dell’unico atto spirituale che si compie in una dialettica perenne, all’interno di se stesso. Dio e la natura, la coscienza e la vita, la materia e le forme delle cose, l’attività umana, le opere della civiltà e la storia: tutto è manifestazione dello spirito nella sua attualità. Il pensiero è il farsi continuo dello spirito. L’idealismo si configura come assoluto panlogismo spiritualistico. Lo stesso Gentile, ne La filosofia dell’arte (1931), ha cercato di ricollegare l’atto metafisico con la vita del sentimento, stabilendo una dialettica all’interno della stessa interiorità, in quanto riflesso della molteplice vita del reale. Lo spirito riflette la complessa realtà e la risolve nella dinamica del pensiero. Così era in qualche modo superato ogni residuo intellettualistico dell’oggettività come esteriorità. Il Fazio Allmayer ha seguito più fedelmente il percorso del maestro, pur nella ricerca di salvaguardare il valore della concretezza delle forme e manifestazioni della vita spirituale. Il Saitta è stato più attento alle forme della vita, che si vengono attuando nella storia (La libertà umana e l’esistenza, 1940). L’attualismo si configurava come uno storicismo umanistico. Ugo Spirito, come è noto, risolveva l’atto spirituale in un processo progettuale basato sulla coscienza della propria problematicità (Dall’attualismo al problematicismo, 1948). Chiavacci, come abbiamo visto, riscontrava nella ragione poetica lo strumento più proprio dell’attività spirituale nella sua forma totale di risoluzione di ogni oggettività nel processo del fare umano. Il Battaglia si muoveva sul piano di un rapporto metafisico fondamentale tra concreta attività spirituale e fondazione continua della sfera dei valori (Il valore nella storia, 1948). Sul piano della storia degli uomini si collocava Franco Lombardi, coniugando attualismo ed esistenzialismo dal punto di vista della vita umana come scelta e come progetto (La libertà del volere e l’individuo, 1941). Il Della Volpe, accentuando la dimensione sociale della dinamica storica e spirituale, faceva incontrare l’attualismo col marxismo (La teoria marxista dell’emancipazione umana, 1945). Santino Caramella volgeva lo sviluppo dell’attualismo nel senso di uno spiritualismo classico. In direzioni analoghe sviluppavano l’attualismo i rappresentanti di quella che è stata chiamata la “destra gentiliana”: il Giuliano (Il valore degli ideali, 1946), il Carlini (Lineamenti di una concezione realistica dello spirito umano, 1942), il La Via (Dall’idealismo al realismo assoluto), lo Sciacca (Filosofia e metafisica, 1950), lo Stefanini (Personalismo sociale, 1952), il Guzzo (L’Io e la ragione, 1947). In base agli orientamenti emersi in questi filosofi, la difficoltà dell’attualismo sembra consistere appunto nella tendenza a una intera risoluzione del reale nell’immanenza del pensiero, sicché si avverte l’esigenza di un recupero della trascendenza del reale. “La richiesta idealistica, e prima razionalistica, di una piena trasparenza dell’esistenzialità nella razionalità è ancora operante, ma nell’approfondimento della trascendente garanzia costitutiva dello stesso pensiero configura in termini di precisa esistenzialità quel cogito che l’attualismo aveva dialetticamente assolutizzato” (R. Crippa, in “Enciclopedia Filosofica”, I, 488). La scienza pura della vita spirituale, secondo Croce La logica crociana è stata esposta per la prima volta in una memoria letta all’Accademia Pontaniana di Napoli il 10 aprile e il 1° maggio del 1904 e recante il titolo Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro. L’esposizione in volume (pressappoco con lo stesso titolo) apparve nel 1909. Il concetto ha caratteri peculiari, che lo distinguono dall’intuizione estetica (percezione): esso riguarda l’intelligenza del reale, cioè un tipo di comprensione che si presenta purificata di ogni elemento rappresentativo (ad esempio di tipo simbolico o analogico). In questo senso, il concetto esprime la piena identità con se stesso, la sua
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impossibilità di essere contraddittorio o molteplice. Esso vive di una condizione di totale autonomia rispetto alle rappresentazioni dell’esperienza.134 I concetti puri sono “ultra” e “onnirappresentativi”: essi vanno oltre le particolari rappresentazioni, in quanto non si esauriscono in nessuna di esse e, tuttavia, si ritrovano in ciascuna, comprendendole tutte. Il concetto puro (universale) è adeguato a esprimere l’intelligibilità del reale a cui si riferisce: la condizione reale espressa dal concetto è interamente intelligibile ed esprimibile. Si potrebbe dire, ad esempio, che l’essere è pensabile (traducibile in concetto) ed esprimibile e comunicabile.135 Tutti gli altri concetti, che non pervengono ai caratteri dell’espressività, dell’universalità e della concretezza sono, secondo Croce, in diversi modi spuri: sono, cioè, pseudoconcetti. Tali sono i concetti costituiti da gruppi di rappresentazioni. Ad esempio, il concetto di “casa” sarà sempre legato alla concreta e particolare rappresentazione dell’oggetto. Si tratta, cioè, di concetti che non riusciranno mai ad assumere il carattere dell’universalità. Analogamente non sono veri concetti quelli che non riescono ad avere il carattere della concretezza, come, ad esempio, quelli matematici.136 Croce attribuisce a questi concetti una validità pratica, ma esclude per essi un valore rigorosamente conoscitivo, in quanto non appartengono al campo della vita concettuale.137 Tali “finzioni concettuali” non possono, pertanto, essere valutati col metro della conoscenza, né si può dire che essi si contrappongano alla conoscenza vera e inducano nell’errore, e la loro valutazione spetta unicamente alla sfera pratica, che essi indubbiamente concorrono a promuovere a sviluppare.138 Infatti la vita pratica, per la sua organizzazione e il suo sviluppo, ha bisogno di sostenersi a rappresentazioni che riguardino l’esperienza acquisita e siano efficaci al fine di orientare lo spirito intorno alle più efficaci operazioni che occorre mettere in atto per conseguire determinati scopi. Croce esamina, quindi, la vita del concetto nell’ambito dell’espressione e del discorso. Lo stesso linguaggio, in primo luogo, è costituito in base allo sviluppo dell’area concettuale. Esso è organizzato in relazione al pensiero logico, oltre che in rapporto all’attività rappresentativa e allo sviluppo delle molteplici forme dell’esperienza. In realtà, il concetto vive nella struttura del giudizio: il giudizio è “il concetto stesso nella sua effettualità”. La forma primaria del giudizio logico è la definizione. Nel giudizio definitorio il soggetto e il predicato sono due universali; nel giudizio particolare, invece, il concetto universale si predica 134
“Un concetto vero e proprio, appunto perché non è rappresentazione, non può avere a suo contenuto un singolo elemento rappresentativo, né riferirsi a questa o quella rappresentazione particolare o a questo o a quel gruppo di rappresentazioni; sebbene, d’altra parte, appunto perché universale rispetto all’individuale delle rappresentazioni, si riferisca a tutte e a ciascuna insieme. Si consideri qualsiasi concetto di carattere universale: quello della qualità, per esempio, o dello svolgimento, o della bellezza, o della finalità. Si può mai pensare che un tratto di realtà datoci nella rappresentazione, per ampio che sia, e abbracci pure secoli e secoli della più ricca storia o millenni su millenni di vita cosmica, esaurisca in sé la qualità o lo svolgimento, la bellezza o la finalità, in modo che si possa affermare l’equivalenza tra quei concetti e quel contenuto rappresentativo? E si consideri per converso un frammento quanto si voglia piccolo di vita rappresentabile: si può mai pensare che in esso, per piccolo, per atomico che sia, manchi qualità o svolgimento e bellezza e finalità?” (Logica come scienza del concetto puro, pp. 14-15). 135 “Espressività, universalità, concretezza sono dunque tre caratteri del concetto, il primo dei quali afferma che il concetto è atto conoscitivo ed esclude che sia meramente pratico, come si pretende in vario senso dai mistici e dagli arbitraristi o finzionasti; il secondo, che esso è un atto conoscitivo sui generis, l’atto logico, ed esclude che sia intuizione, come si vuole dagli estetisti, p che sia gruppo d’intuizioni, secondo che è asserito nella dottrina degli arbitraristi e finzionisti; e il terzo, infine, che l’atto logico universale è insieme pensamento della realtà, ed esclude che esso possa essere universale e vuoto, universale e inesistente, secondo che è sostenuto altresì nelle dottrine degli arbitraristi” (Ib., p. 29). 136 “Un triangolo geometrico non c’è mai nella realtà, perché nella realtà non sono linee rette, angoli retti e somme di angoli retti e somme di angoliuguali a due retti. Un moto libero non c’è mai nella realtà, perché ogni moto reale si effettua in condizioni determinate e necessariamente tra ostacoli. Ora un pensiero, che non abbia per oggetto niente di reale, non è pensiero; e perciò quei concetti non sono concetti, ma funzioni concettuali” (Ib., p. 17). 137 “A quest’uopo giova riportare l’attenzione sul loro momento costitutivo, che […] non è teoretico ma pratico; e domandarsi in qual modo e a qual fine lo spirito pratico possa intervenire nelle rappresentazioni e concetti prima prodotti, e manipolarli e farne finzioni concettuali” (Ib.). 138 “L’atto del foggiare finzioni intellettuali non è dunque né di conoscenza né di anticonoscenza; non è logicamente razionale e non è nemmeno illogicamente irrazionale, ma è razionale a suo modo, praticamente” (Ib., p. 21).
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del particolare. Una definizione è la seguente: “la volontà è la forma pratica dello spirito”. Un giudizio particolare è questo: “Paolo è buono”. I concetti puri non vivono su un piano astratto, bensì animano la vita della stessa rappresentazione, si fanno essi stessi nuovamente rappresentazioni, sia a livello di esperienza “estetica” (sensibile) sia a livello di discorso logico. In particolare, i concetti operano sulle rappresentazioni, trasfigurandole e attribuendo ad esse un valore conoscitivo. L’intera attività rappresentativa assume forma logica e viene tradotta nel discorso. “Oltre il giudizio individuale – osserva il Croce – o percezione non vi ha altro atto conoscitivo da conoscere. In esso ultimo e perfettissimo degli atti conoscitivi, il giro della conoscenza si chiude. L’oscura sensibilità, diventata già chiara intuizione, e fattasi dipoi pensamento dell’universale, viene nel giudizio individuale logicamente pensata, ed è ormai conoscenza del fatto o dell’accadimento, ossia della realtà effettuale. Il giudizio individuale adegua pienamente la realtà”.139 L’attività conoscitiva viene a compiersi compitamente nell’articolazione della vita concettuale, quale si viene svolgendo sul piano della formazione dei giudizi individuali (che assurgono sul piano concettuale le rappresentazioni della complessa esperienza). In questo senso la stessa vita logica viene a calarsi nell’articolazione dell’attività rappresentativa. Perciò Croce sostiene l’identità del giudizio definitorio (concetto puro) e del giudizio individuale o percettivo. Infatti il giudizio definitorio è presupposto del giudizio individuale: ad esempio, non posso dire “Pietro è uomo” se non ho la definizione dell’uomo. D’altra parte, la definizione dell’uomo non avrebbe senso se non in riferimento agli uomini particolari. In realtà, dunque, i due giudizi fanno parte di un’unica struttura concettuale che concorre alla comprensione della realtà. Infatti, “se si considera la definizione nella sua concreta realtà, vi si troverà sempre, esaminandola con cura, l’elemento rappresentativo e il giudizio individuale”.140 L’ontologismo di Pantaleo Carabellese Pantaleo Carabellese è il più coerente rappresentante dell’ontologismo contemporaneo, anche perché la sua filosofia si prospetta come un tentativo di superamento della posizione soggettivistica moderna e come una critica delle aporie connesse alla prospettiva gnoseologistica (caratterizzata dall’opposizione fra soggetto e oggetto e giunta al suo culmine nella temperie culturale moderna, dominata dallo straordinario sviluppo della produzione industriale e tecnologica). Egli ha messo bene in rilievo le componenti culturali dell’errore gnoseologistico: il quale (contrapponendo soggetto e oggetto e considerando il soggetto come fondamento di ogni oggettività) ha portato alla concezione dell’oggettività non come la dimensione ontologica fondamentale, cioè come ciò che, costituendola, si manifesta nella soggettività, ma come ciò che rappresenta il correlato dell’attività conoscitiva del soggetto e che, quindi, considerata in senso sostanziale, come qualcosa che ha una propria consistenza indipendentemente dal soggetto, appare come l’assolutamente irriducibile, l’inconoscibile, dunque come la negazione della soggettività. Per il Carabellese, la soluzione idealistica non è che un risultato di questa prospettiva soggettivistica: la filosofia moderna sarebbe attraversata dalla grande difficoltà di risolvere il problema della conoscenza (come è possibile conoscere ciò che assolutamente fuori del soggetto?), una volta stabilita quell’opposizione radicale. In un primo tempo l’oggettività è considerata solo come il polo “oggettivo” della soggettività (i “cogitata” di Cartesio, le “idee”), quindi è dichiarata in conoscibile e risolta nel contenuto del sapere fenomenico (Kant). Nell’idealismo l’oggettività metafisica è concepita come la stessa intrinseca sostanza del pensiero (della 139
Ib., p. 101. “Ammessa la condizionalità individuale e storica di ogni pensamento del concetto ossia di ogni definizione (condizionalità donde si origina il dubbio, il problema, la domanda a cui la definizione risponde), si deve ammettere altresì che la definizione, la quale contiene la risposta e afferma il concetto, nel fare ciò illumini insieme quella condizionalità individuale e storica, quel gruppo di fatti da cui essa sorge. Lo illumina, ossia lo qualifica per quel che è, lo apprende come soggetto dandogli un predicato, lo giudica; e poiché il fatto è sempre individuale, forma un giudizio individuale; ossia ogni definizione è insieme giudizio individuale. […] l’atto logico, il pensamento del concetto puro, è unico, ed è identità di definizione e giudizio individuale” (Ib., p. 138). 140
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logicità, dell’essere/logos). Ma la validità della dialettica idealistica appare legata alla fiducia nella capacità insita al pensiero di dedurre la connessione “reale” (per cui la logica si identifica con la metafisica, secondo il principio della fondamentale coincidenza del reale e del razionale). Quando, poi, questa fiducia è venuta meno (nell’ambito della generale dissoluzione dell’hegelismo), è tornata ad esplodere l’aporia del pensiero moderno, con la riduzione della conoscenza all’empirismo e la messa in discussione di ogni metafisica. Nella filosofia moderna il problema della conoscenza appare importato in modo da risultarne impossibile la soluzione: Il soggetto moderno, infatti, non può concepire un’oggettività che non sia riflesso della sua attività conoscitiva e, dunque, si preclude ogni accesso all’essere in sé. Perciò la formulazione più coerente di quel problema è quella kantiana, cioè l’impostazione critica e trascendentale (rivolta a indagare le condizioni a priori della conoscenza e della costituzione dell’oggettività fenomenica). La conseguenza è l’eliminazione della metafisica oppure la costituzione della metafisica idealistica (per cui all’oggetto o reale in sé non è attribuita altra realtà che quella che il soggetto “deduce”). Fichte intende instaurare l’idealismo come metafisica critica, che identifica il suo oggetto con lo stesso processo del conoscere. In tal modo, osserva il Carabellese, si assume per “oggetto” del conoscere il processo conoscitivo medesimo, considerato nel suo principio (che non è altro che il soggetto): il soggetto, in realtà, diventa anche l’oggetto metafisico. In tal modo si ha una trasposizione equivoca tra termini diversi, cioè tra la forma (trascendentale) e il contenuto (l’essere), cioè “la sostituzione del problema interno col problema oggettivo della filosofia”.141 In realtà, Fichte ha impostato il “problema interno”, cioè il problema critico della possibilità della filosofia (nel senso di metafisica), eliminando ogni oggettività in sé, dunque lo stesso “oggetto” in generale, come “altro” rispetto al processo della conoscenza. Ma una filosofia senza “oggetto” come può legittimarsi? “L’eliminazione del problema oggettivo, che a Fichte pareva rendere possibile la soluzione del problema interno della filosofia, non può invece fare altro che condurre alla eliminazione anche di questo, e quindi al completo annullamento della filosofia”.142 Per Carabellese, è possibile uscire dalla crisi, che si è tornata a profilare col dissolvimento dello stesso problema metafisico, attraverso una impostazione del problema della conoscenza diversa da quella critica. Infatti, “ a furia di dimostrare la possibilità della conoscenza, abbiamo finito forse col dimenticare, o meglio possiamo cominciare a vedere che cosa è questa conoscenza di cui vogliamo dimostrare la possibilità”.143 Si tratta, perciò, di avviare una nuova indagine “sulla essenza dello stesso conoscere”. Se non possiamo più concepire il conoscere “come il preteso raggiungimento realistico di una oggettività estranea alla conoscenza, né come l’idealistica mediazione negativa dell’oggetto”, allora bisogna concepirlo “come consapevolezza della oggettività intrinseca alla coscienza”.144 In tal odo, il Carabellese affronta il problema di una metafisica critica, per la quale l’essere non è l’oggetto realistico da conoscere scientificamente (e solo fenomenicamente, secondo Kant), ma come principio intrinseco alla conoscenza. L’ontologismo è questa metafisica critica, basata sull’idea della piena immanenza dell’essere alla coscienza (ma che non è risoluzione dell’essere in sé nell’essere della coscienza). Il Carabellese pronuncia un giudizio severo su Hegel: “Nell’Enciclopedia di Hegel possiamo e dobbiamo, alla fin fine, vedere la Summa della filosofia che fu moderna, Summa che, a suo modo, conclude questa. Come Summa essa fu empiristica, non ontologica, e quindi non concretamente idealistica. Dobbiamo uscire da quell’empirismo e non dedurre da esso, se veramente sentiamo i limiti in cui l’astratto gnoseologismo ci ha chiusi”.145 Il vero idealismo è, per il Carabellese, quello platonico, allorché si intende il rapporto tra le idee e gli enti reali come rapporto ontologico. La filosofia del Rinascimento ha ereditato questa funzione ontologica dell’idealità, per cui l’essere ideale è visto nella stessa struttura dell’universo e nell’opera dell’uomo. Sicché, 141
Per questa problematica, cfr. P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia, Roma 1931, cap. I, § 3, “Superamento storico della contraddizione: la filosofia trascendentale”, pp. 5-8; § 4, “L’equivoco della filosofia trascendentale”. 142 Op. cit., § 49, p. 131. 143 P. Carabellese, Il problema della filosofia da Kant a Fichte, pp. 15-16. 144
P. Carabellese, L’essenza delle scienze, § 4, in “Atti della XXV Riunione della S.I.P.S., Palermo, 1935, vol. V). P. Carabellese, Originalità storica e attualità speculativa del pensiero filosofico rosminiano, in “Studi rosminiani”, Bocca, Milano 1940, p. 21 dell’estratto. 145
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“la filosofia moderna europea in quanto inaugurata dal cartesianesimo inteso e sviluppato con lo spirito soggettivistico della riforma” segna un regresso rispetto alla metafisica del Rinascimento.146 Infatti, “il cogito di Cartesio, l’io penso di Kant risentono di questa soggettività protestante e per questo rimane non sentita, insoddisfatta l’esigenza dell’oggettività immanente. Il processo spirituale del conoscere rimane un fatto soggettivo da spiegare in questo suo misterioso riferimento a un’altra realtà che non si sustanzia con esso”.147 L’ontologismo del Carabellese può pertanto caratterizzarsi come un ritrovamento della problematica essenziale del platonismo, attraverso una nuova interpretazione di Cartesio e di Kant, e una critica della deviazione sistematica (gnoseologistica e soggettivistica) della filosofia moderna”.148
Confutazione dell’idealismo Dunque ancora l’idealismo! L’idealismo risolve il reale nell’attività del soggetto. Ipotizza il soggetto come Principio e realtà insieme: esso infatti è assoluto monismo. Non può darsi una realtà duplice. Il Principio si esprime specialmente nell’attività del pensiero, nella coscienza. La forma della conoscenza è considerata come la realtà compiuta. Il reale si identifica col pensato e col conosciuto. In questo modo Hegel può dire che il reale è l’Idea. Una espressione particolare dello spirito viene assolutizzata. L’Idea è oggetto della Logica. Il reale è compreso, colto nella sua intelligibilità. Non rimane nessun residuo che sia avvolto nel suo mistero, non compreso, non conosciuto. Tutto è risolto nella rigorosa determinazione dello sviluppo dialettico. Il nostro pensiero ha trovato il piano del suo svolgimento puro; e il reale non ha altro aspetto che quello di questo svolgimento dell’Idea. Che ne è dunque del reale? E che ne è di quanto del reale non è riportato ancora sul piano della comprensione? Come si configura questo mistero che sembra ineliminabile? Che ne è, in una parola, della Trascendenza? L’errore dell’idealismo, l’equivoco fondamentale, consiste nell’annullare la trascendenza del reale. Il pensiero non è che un aspetto del reale; e rispetto ad esso il reale rimane trascendente. L’intero reale non si risolve in una intelligibilità determinata. Per quanto ampia possa essere la sfera del pensiero, essa non esaurirà mai il reale stesso, l’essere. Il pensiero è l’insieme delle relazioni che si riescono a instaurare nell’ambito dell’essere. Ma al di là delle distinzioni poste dal pensiero vi è sempre e rimane una sfera impenetrabile, indistinta e nella quale non possiamo sapere (non sapremo mai) se sarà possibile attuare delle distinzioni. Il pensiero riguarda il dominio del determinabile. Al di là rimane il dominio dell’indeterminato (e forse dell’indeterminabile). Il pensiero è attività particolare. Per sua mercé il reale diventa determinato. Si sviluppa il dominio dell’identità. L’identità riguarda le determinazioni. Dunque attraverso il pensiero l’indeterminato reale si fa determinato e acquista identità. Ma ciò non vuol dire che l’intero reale rientra su questo piano. L’Intelligibile, il Logos, non comprende l’intero reale. Certo il reale determinato ha a che fare con esso. Ma il reale in senso proprio rimane trascendente. La determinazione non lo riguarda interamente. Si tratta, dunque, di distinguere il reale come trascendente e il reale determinato attraverso il pensiero e che si può dire immanente al pensiero. Il reale diventa intelligibile in quanto si fa determinato attraverso il pensiero. Ma tale determinazione non annulla la trascendenza fondamentale. Ci sono aspetti del reale che non passano sul piano dell’intelligibilità e della determinazione comprensibile. Come ha osservato Spinoza, gli attributi dell’essere sono infiniti. Oltre il piano dell’estensione e di quello del pensiero, il reale rimane infinitamente trascendente. Il reale determinato è solo un aspetto del reale. Il processo della determinazione, inoltre, non può diventare oggetto di una deduzione logica a priori. Il reale determinato è quello esistente. Ecco dunque la componente esistenzialistica. Il reale che rientra nell’orizzonte del pensiero e della comprensione è quello concretamente determinato. La Logica riguarda la modalità della determinazione pura, quale si prospetta sul piano del Logos; ma non si può dire che tale processo di determinazione e d’identità riguardi il reale nella sua esistenza concreta. Si può dire, invece, che ogni forma di determinazione esistente concreta ha la forma della deduzione logica. Nulla di determinato che non sia razionale: e in questo senso ha ragione Hegel: il reale è razionale; ma non si può dire l’inverso, in 146
P. Carabellese, L’idealismo italiano, pp. 61, 200. Ib., pp. 58-62. 148 P. Filiasi Carcano, op. cit., pp. 146-47. 147
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quanto non ogni razionale è pervenuto alla determinazione concreta, all’esistenza di fatto. La Logica riguarda il reale come Idea; ma l’Idea non corrisponde totalmente all’esistenza. Questa approssimativa confutazione dell’idealismo non vuole negare i meriti e i vantaggi del punto di vista idealistico. Chi si mette da questo punto di vista afferma in primo luogo la razionalità e l’intelligibilità del reale e considera tale razionalità come la sostanza stessa del reale. Il vantaggio consiste già nella fiducia e nella convinzione che il reale è intelligibile e che vi è una forma di conoscenza che riguarda il reale nella sua costituzione sostanziale. Si tratta della massima fiducia nella filosofia. Niente è irrazionale, incomprensibile, misterioso. Il mistero riguarda ciò che ancora non è riportato sul piano della logica. E la logica è l’esercizio dialettico della contrapposizione degli opposti e della risoluzione dell’opposizione. La dialettica hegeliana ha il vantaggio di costituire una forma efficace di concettualizzazione. Ogni determinazione reale è considerata in rapporto a ciò cui essa si oppone, dunque rispetto a ciò che essa non è; poiché nella risoluzione di tale opposizione consiste la sua realtà o essenza o sostanza intelligibile. Ciò che è opposto, l’estraneo, il diverso concorre a rendere comprensibile (e a costituire) il dato reale. Il giorno occorre che si estranei nella notte perché si costituisce nella sua identità. Questa si afferma in rapporto alla sua opposizione. Si tratta di una forma del comprendere che ha il vantaggio di essere onnicomprensiva, tale da comprendere aspetti diversi della realtà, la quasi totalità delle relazioni in rapporto alle quali appunto la determinazione si attua. Il giorno è compreso meglio se è considerato rispetto alla forma della sua estraniazione, cioè rispetto alla notte. Lo sviluppo sul piano del concetto avviene in questa forma, che, tuttavia, non è l’unica. Averla attuata rimane il grande merito di Hegel. La dialettica costituisce un grande elemento del patrimonio culturale degli ultimi due secoli. E questo patrimonio è ancora attuale. Filosofie che salvano l’istanza realistica e quella trascendentale sono: l’ontologismo di Carabellese (in primo luogo), il realismo assoluto di La Via, il realismo critico di Carbonara, il real-idealismo di Spaventa e Alderisio (esplicitato in particolare da Caputo). L’ontologismo punta sulla fondazione di una metafisica dell’essere. L’essere è essenzialmente trascendente. Esso è fondamento di ogni realtà. Ogni esistenza è relazione all’essere. L’essere contiene in sé l’istanza del pensiero, per cui questo non si costituisce come un principio diverso (in modo da configurare una metafisica dualistica), bensì appartiene originariamente all’essere. L’essere è intelligibile, in virtù del pensiero (Logos) che lo costituisce. La conoscenza è l’attuazione ed esplicitazione della pensabilità e intelligibilità dell’essere. Il pensiero è forza che appartiene all’essere e concorre alla determinazione dell’esistente. L’essere è trascendente ma è anche immanente al pensiero. Il pensiero, infatti, non è altro che una forma dell’essere. Tutto si riconduce all’essere, che non si esaurisce in nessuna forma determinata e neppure nella forma del pensiero. L’essere rimane trascendente al pensiero stesso. Il realismo assoluto si pone dal punto di vista del reale come dato della conoscenza. Dunque ogni prospettiva gnosologica (che considera il reale in quanto dato conoscitivo) si deve porre dal punto di vista di questa concezione filosofica. Né l’idealismo né il realismo ingenuo soddisfano l’istanza gnoseologica. Infatti dal punto di vista del realismo volgare il reale non potrà mai essere raggiunto dalla conoscenza, rimarrà cioè sempre un dato estraneo, irriducibile, con le inevitabili e ben note conseguenze scettiche. Il punto di vista idealistico, a sua volta, conduce all’annullamento del contenuto reale e dunque all’annullamento della stessa filosofia. Il contenuto è risolto nella forma della conoscenza. La filosofia si riduce a considerazione della forma vuota di contenuto. Il realismo critico recupera l’istanza critica kantiana, per cui il reale si dà nell’ambito dell’esperienza. Si tratta di esaminare le condizioni trascendentali di ogni esperienza possibile. In questo senso la critica kantiana va ampliata e configurata come critica dell’esperienza in generale o dell’esperienza pura. Si tratta di una forma di pensiero originale. Il real-idealismo non è altro che idealismo hegeliano, con l’attenzione rivolta agli aspetti empirici, in particolare con quelli propri del processo ascensivo della coscienza (a cominciare dalla dinamica della coscienza sensibile). Dunque appare difficile che esso si possa prospettare come una nuova metafisica. Piuttosto la sua enfatizzazione del momento empirico potrebbe avere la conseguenza di una riduzione dell’idealismo a una specie di critica dell’esperienza e dunque a una forma di empirismo critico e trascendentale. L’analisi dell’esperienza pura del Carbonara può essere assunta come un punto di vista efficace ai fini della fondazione di un realismo critico. Essa si caratterizza essenzialmente come una filosofia trascendentale, impegnata nell’analisi delle strutture trascendentali del soggetto. Tale analisi muove dalla considerazione delle forme dell’esperienza: dunque muove da una fondamentale fenomenologia dell’esperienza. In questo
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senso questa prospettiva recupera interamente l’istanza fenomenologia. Si tratta di risalire, alla maniera di Husserl, alla costituzione della coscienza come ambito di sviluppo dell’esperienza pura. Un tale percorso indica in primo luogo un riportarsi all’orizzonte del precategoriale, alla radice dell’esperienza originariamente vissuta e prima di ogni determinazione categoriale. Questa sarebbe la condizione che potrebbe rendere possibile il recupero dell’esperienza nella sua ricchezza di aspetti e complessità di forme. Il problema è quello di fondare un’analisi trascendentale di questa dimensione della coscienza in rapporto all’articolazione della esperienza pura. E a questo proposito potrebbero intervenire elementi dell’analitica esistenziale di Heidegger. In questo modo si verrebbe ad arricchire e completare il quadro del trascendentale, non più limitato all’ambito del categoriale. Movendo da un tale orizzonte onnicomprensivo del trascendentale (la coscienza in rapporto all’esperienza pura), si può sviluppare il discorso critico relativo alle diverse (e principali) istanze fenomenologiche, connesse ai diversi campi dell’esperienza. In particolare il Carbonara si è interessato dell’esperienza estetica. L’analisi trascendentale dell’esperienza pura costituisce in questo senso uno sviluppo oltremodo interessante della critica kantiana. Nota su Bergson e la metafisica della libertà Bréhier ha messo in rilievo il valore ontologico della libertà, quale emerge nella concezione bergsoniana della realtà. Per Bergson la realtà è essenzialmente processo creativo. Nello sviluppo della realtà agiscono due forze che stanno in equilibrio dialettico: l’impulso creativo, lo “slancio vitale” appunto, una forza che si può qualificare come hormé, e una forza conservatrice, che tende a ritenere e conservare gli stati che via via si vengono a configurare, e che si può qualificare come “memoria”, mnéme. Hormé e mnème sono le grandi forze che agiscono nel processo evolutivo del reale, nell’“evoluzione creatrice”. Dunque nella realtà si produce sempre qualcosa di nuovo; lo stato esistente è sempre messo in discussione; e ciò in quanto nella realtà agisce una fonte creatrice, che si configura come un principio di libertà. Infatti questo principio agisce al di là di ogni determinismo, in modo del tutto imprevedibile e scisso da ogni rigido determinismo causale. Se poi si applica questa concezione all’antropologia, abbiamo una caratteristica concezione dell’uomo dal punto di vista della libertà. E’ evidente, infatti, che il principio creativo della libertà agisce e si manifesta nello sviluppo dell’esperienza umana. La libertà è qualcosa che ha a che fare con la vita quotidiana. Gli uomini agiscono e si comportano in rapporto a quella sorgente creativa che produce ininterrottamente la realtà stessa, indipendentemente da ogni nesso causale. L’uomo si situa alle radici della libertà: ontologicamente appare costituito sulla base del principio attivo del divenire. L’uomo è possibilità, libertà, rischio. Egli sarebbe destinato a non avere neppure una configurazione determinata, se, appunto, non agisse, all’interno dello sviluppo del reale, la forza opposta della conservazione e della memoria. In virtù di questa forza gli uomini creano le istituzioni in base alle quali conservano le forme di esistenza e le tramandano nella storia. Le istituzione si trasformano nel tempo in rapporto allo sviluppo del principio di libertà. E’ chiaro che in alcune società il principio di libertà agisce più profondamente, mentre in altre è notevolmente ridotto in quanto le istituzioni tendono a conservarsi in forme stabili e durature. Nella cultura occidentale il modo tipico dell’esistenza è la storicità, cioè lo sviluppo come trasformazione progressiva e modificazione più o meno profonda delle istituzioni esistenti. “La rivoluzione copernicana in metafisica – osserva Bréhier – venne da E. Bergson, e precisamente a proposito del problema della libertà”.149 Bergson “ha fatto rinascere il problema, sempre così vivo, delle relazioni della libertà all’assoluto”. Infatti, “l’intuizione della libertà ci conduce verso l’origine, nel senso pieno della parola, verso la creazione, verso una realtà che si fa; nell’atto della libertà autentica, l’uomo si trasforma realmente; l’umanità non costituisce, come avviene nel resto del regno animale, una specie fissa; l’uomo tende sempre, mediante la libertà, a oltrepassare i limiti della condizione umana. Noi saremmo già, con la libertà, in piena metafisica; nella continuità interiore che l’intuizione, appoggiata sull’esperienza, ci fa ritrovare, lo slancio vitale è raggiunto mediante un approfondimento della libertà: libertà, slancio vitale,
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E. Bergson, Liberté et métaphysique, in « Revue int. de philosophie, n. 6, 1948.
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esperienza mistica si tengono (tra loro) non già in vista di un sistema preconcetto, ma grazie a un ingrandimento e come a una dilatazione dell’esperienza”.150 L’intuizione (che riguarda la costituzione interna della realtà ed è, pertanto, lo strumento della metafisica) ci riporta all’interno del flusso del divenire, in cui agisce e si esprime lo slancio vitale, che, per l’uomo, vuol dire possibilità, ricostituzione dell’esistenza a partire dall’essenziale radice creativa. L’intuizione consente di andare oltre la dimensione dell’esperienza quotidiana. La dimensione metafisica non riguarda la libertà come scelta nell’ambito della quotidianità, ad esempio di alcune cose al posto di altre, di determinate decisioni che riguardano lo svolgimento della vita comune; non riguarda i rapporti con le istituzioni sociali e con le leggi morali, con i pregiudizi e le opinioni che appartengono a un contesto storico; riguarda bensì la possibilità di realizzare, nell’ambito di un ordine ontologico, dimensioni reali nuove, che incidono, quindi, sullo sviluppo del reale. Si tratta di inserirsi attivamente nel processo creativo del reale. E in questo senso la morale assume una connotazione metafisica, in quanto riguarda, appunto, le possibilità di realizzazione e di trasformazione dell’umanità, il processo creativo lungo il quale scorre il divenire e si compie l’interno destino delle cose. La morale avrà così una funzione metafisica profonda, configurandosi come sforzo di trascendimento, tensione creativa, ascesi come effettivo innalzamento a livelli superiori di spiritualità, perfezionamento interiore, in un senso conforme all’etica spinoziana. La dimensione metafisica della morale riguarda lo stesso “rapporto ontologico”, l’essenziale rapporto all’essere come senso della totalità del reale. Il soggetto si situa nel punto in cui l’essere si rivela nel suo senso, come senso della totalità degli enti e, principalmente, come senso dell’esistenza umana. Tutta la complessità dell’esperienza umana si concentra in questa dimensione che costituisce il soggetto come portatore di senso e fattore di libertà. Diverse correnti che si sono sviluppate nella cultura contemporanea riguardano le forme diverse in cui la realtà dell’uomo è venuta emergendo nell’ambito di questa metafisica (ispirata a Bergson): l’analitica esistenziale, la psicologia analitica, l’antropoanalisi, l’analisi mitologica. Il soggetto che comprende attraverso simboli e che va oltre la superficie della comune razionalità oggettiva è insieme il soggetto di Freud, di Jung, di Kérenyi. Il mondo del soggetto si presenta come estremamente complesso: è il mondo che sta davanti alla coscienza, ma anche “dietro” e “dentro” la coscienza. L’atteggiamento naturalistico è così abbandonato: il mondo non è il termine correlativo di un’esperienza categoriale, ma è il complesso vissuto di una realtà spirituale. La coscienza è concepita come luogo di rivelazione e l’esperienza appare come una “ierofania”, un modo di percepire la totalità “divina” (e sacra) dell’universo. L’ampliamento dell’esperienza, la dilatazione della percezione, la connessione di elementi culturali diversi, tutto ciò rimanda a una critica dell’esperienza naturalisticamente intesa. “Il punto centrale della questione non è già di arricchire l’esperienza di nuovi dati, ma di vedere se l’esperienza ha, per così dire, nuovi piani: se vi sono cioè varie possibilità coscienziali in rapporto alle quali l’esperienza si determina”.151 Un ulteriore elemento di critica radicale dell’esperienza comune, naturalistica, è costituito dalla critica bergsoniana del linguaggio, che ha messo in luce il carattere pratico-utilitario del linguaggio comune e l’esigenza di scoprire e realizzare le dimensioni più profonde del linguaggio stesso, relative allo sviluppo dell’esperienza metafisica.
150 151
Ib., pp. 4-5. P. Filiasi Carcano, Problematica della filosofia odierna, cit., p. 104.
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CAPITOLO XXXII Panorama del Novecento: la storia. L’eredità di Kant. I neokantiani La filosofia di Kant si definisce come criticismo, per cui appare illegittimo ogni tentativo di presentarla come una metafisica (o una introduzione a una nuova metafisica). Tuttavia essa recava in sé, nella sua architettonica generale, l’esigenza di una ricostituzione unitaria delle due sfere così nettamente separate, quella della scienza fenomenica e quella dei “postulati” propri della “metafisica dei costumi”. Come sappiamo, in questa seconda regione, il principio metafisico posto a fondamento dell’intera realtà (compresa la natura) è quello della libertà. In questo senso, si deve riconoscere e ammettere che questa filosofia conteneva un motivo che ne avrebbe presto determinato la trasformazione nell’idealismo. I critici di Kant misero in rilievo la funzione fondamentale del principio sintetico del pensiero (che è il fondamento dell’intero sistema dei principi trascendentali), relativamente alla unificazione del piano empirico e di quello trascendentale e categoriale, cioè al processo medesimo attraverso il quale si costituiscono gli “oggetti” della conoscenza, e, rivalutando l’elemento “reale” (in riferimento al kantiano “noumeno”) dell’oggettività così costituita, aprirono la strada all’idealismo. Kant, nelle due successive Critiche affrontò il problema del superamento della visione deterministica della natura, considerando l’intera realtà dal punto di vista della spontaneità (libertà) del soggetto razionale. Era, perciò, pressoché inevitabile che, in definitiva, il principio dell’attività spontanea (e rivolta verso un fine) si estendesse all’intera sfera del reale. Lo stesso filosofo così disponeva i princìpi teorici per lo sviluppo di una nuova metafisica, che avrebbe compreso il sistema della totalità del reale, considerato come retto da un principio interno autoregolativo e finalistico (quale era quello attestato dalla ragion pratica e dalla facoltà del giudizio riflettente).152 In realtà, gli sviluppi che la problematica kantiana ha trovato nell’idealismo e specialmente in Hegel vanno del tutto al di là dello “schematismo trascendentale” kantiano: ad esempio il tempo diventa elemento dell’eterno compimento dello Spirito nel mondo, mentre Kant aveva concepito Dio come un ideale che serviva da guida per il perfezionamento morale dell’uomo. La dimensione temporale, che per Kant rimane connessa alla finitudine umana, è risolta nella infinità dello Spirito assoluto.153 Paradossalmente il nonstoricista Kant salva la storia più di quanto riesca a fare lo Hegel storicista.154 152
Il Paci osserva che il modello presente nello schematismo kantiano si ritrova in momenti significativi del pensiero contemporaneo, specificamente nel neopositivismo e nella filosofia della scienza, per cui i modelli scientifici “non sono soltanto costruzioni logiche ma anche rappresentazioni, quadri immaginari di strutture relativamente permanenti nel tempo, e cioè schemi” (p. 11). La funzione dello schematismo è anche il motivo al quale si riporta Heidegger, per rilevare l’importanza dell’idea di temporalità in Kant (nel senso della interpretazione dell’essere come temporalità). Per quanto riguarda i neopositivisti, il richiamo alla dottrina di Kant è collegato al problema essenziale che è “quello del rapporto tra dati empirici e strutture logiche, tra discorso fondato sui fatti, dai fatti verificabile, e discorso fondato su regole logiche, verificabile soltanto secondo queste regole” (p. 12). 153 “Quando con Hegel la dialettica diventa storicismo, Hegel conquista la storia, ma il suo processo finisce per essere un processo chiuso. Se nella filosofia kantiana si può pensare un movimento di progressivo avvicinamento all’ideale del conoscere e alla legge etica, nonché un orientamento finalistico nella natura, orientamento in ultima analisi diretto verso il mondo morale e verso la libertà, anche se di fatto la libertà non verrà mai di fatto conquistata, si deve dire che il movimento a cui pensa Kant, che è a suo modo un processo che tende a un limite, è un processo che non si chiude e che resta sempre perfezionabile. Così avviene che lo storicismo hegeliano chiuda in realtà il processo storico mentre il non storicismo kantiano sia tale da poter dar pensare ad un processo sempre aperto della storia” (pp. 14-15). 154 Questo paradosso è rilevato dal Paci. “La risoluzione del tempo in una creazione del tempo stesso da parte dello spirito è il tentativo di eliminare il tempo che invece Kant vuol mantenere nella sua funzione limitatrice per il fatto che ogni realtà è per lui dal tempo condizionata e perché ogni sensibile non può essere intuito che nel tempo, e non può essere ordinato, dalle stesse categorie, che secondo uno schema temporale. Anche da questo punto di vista il non
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L’idea kantiana della natura, ordinata secondo una direzione temporale, in cui il destino etico dell’uomo e l’ordine naturale convergono, rappresenta un significativo superamento del dualismo di natura e spirito, di ordine morale della libertà e ordine naturale della necessità. Inevitabilmente, però, il movimento tra questi due termini assumeva l’aspetto della reciprocità: non solo lo spirito si proiettava sulla natura, ma questa finiva per investire quello di sé, riportandolo sul piano dei processi fisici. Così si spiega il frequente intrecciarsi del “fisico” e dello “psichico” nelle prospettive della seconda metà dell’Ottocento. La volontà di Schopenhauer è l’esempio più eclatante di una realtà che si muove inestricabilmente tra i piani della natura e dello spirito e sfugge alla rappresentazione, mentre alimenta quei processi inconsci che costituiranno, in seguito, il tema proprio della psicanalisi. Spiritualismo, positivismo e neocriticismo. Questa dimensione profonda dell’ordine del tempo che viene scoperta nell’ambito dello schematismo costituisce il punto più direttamente connesso all’intuizione che la natura costituisce qualcosa che va al di là di quell’ordine (della temporalità quale appare nel sistema dello schematismo).155 In questo senso la fonte degli sviluppi filosofici dopo Hegel è da ricercare nello stesso Kant. La volontà di Schopenhauer si avvicina a questa dimensione che Kant scopre come qualcosa che appartiene insieme alla natura e allo spirito e che sfugge alla rappresentazione, in quanto è lontana dalla stessa coscienza, secondo le interpretazioni di Von Hartmann e di Freud.156 In modo analogo Feuerbach ha ricondotto alla realtà umana concreta tutti i processi storici e culturali. E la realtà umana è vista specialmente come una dimensione sociale. Ecco, allora, svilupparsi il marxismo; e non solo, ma anche il positivismo sociale di Saint-Simon, di Proudhon e di Comte. Quest’ultimo ha inteso ricondurre le leggi dell’organizzazione e dello sviluppo della società alle stesse leggi fisiche e ha parlato, in questo senso, di “fisica sociale” (configurata in una “statica” e in una “dinamica” sociale). Lo stesso sviluppo storico dell’umanità è sottoposto a leggi inflessibili, che sono quelle dello sviluppo psichico, dell’evoluzione della mente umana, che dallo stadio “prelogico” (in cui la causa dei fenomeni è attribuita a figure divine) passa a quello “logico-metafisico” (in cui, appunto, le cause sono dedotte per via speculativa) e, infine, a quello “positivo” (in cui il sistema della natura è indagato scientificamente).157 Nell’ambito di una visione storicistica, Marx s’inserisce con la sua teoria intorno ai modi di agire per trasformare il corso della storia. Si tratta di vedere come l’umanità possa organizzare la sua “prassi” per storicista Kant presenta dei punti di vantaggio rispetto ad Hegel per quelle filosofie che non possono pensare il processo storico che come processo temporale e quindi come processo reale ed esistenziale. Il misconoscimento hegeliano della temporalità è all’origine di tutte le critiche che la sinistra hegeliana muove ad Hegel quando lo accusa di ignorare i processi storici conreti ed in modo particolare i processi umani ed economici. Lo stesso misconoscimento è all’origine della critica di Kierkegaard che contrappone all’astratto processo razionale di Hegel la realtà esistenziale dell’uomo legato al finito, e perciò alla propria singolarità e alla morte. L’ultimo atto di questa rivendicazione del tempo contro l’hegelismo è rappresentato dal tentativo dell’esistenzialismo di ricondurre ogni realtà concreta e storica alla sua struttura temporale e finita” (pp. 15-16). 155 “Lo schematismo, il principio sintetico fondamentale, scopre quindi qualcosa di segreto nel profondo dell’anima, qualcosa che non si può completamente tradurre sul piano della coscienza, che rimane nell’inconscio, nella natura, non distaccabile da noi in modo che sia posta chiaramente di fronte a noi” (p. 18). 156 Tale dimensione costituisce anche l’ambito in cui si inoltrerà l’indagine analitica di Merleau-Ponty, la più vicina a un punto di vista in cui appare inseparabile ciò che è fisico e ciò che è psichico. I meccanismi della psiche, infatti, si confondono e si compenetrano nei meccanismi (o dinamiche) fisici: e alla fine sembra che a questi ultimi siano riconducibili i primi (pur osservabili come specifici e irriducibili). Anche Fries ha cercato di ricondurre le base dei processi cognitivi alla psiche. In questo senso, egli ha ricondotto la logica alla psicologia. 157
“Il processo alla filosofia che in Kant appariva come esame dei limiti della ragione viene qui fondato in base ad una filosofia della storia, ad una interpretazione della storia nella quale il processo storico si rivela diretto verso un fine prestabilito, concepito come la scientifizzazione e la tecnicizzazione universali. Questo fine è l’ideale sia del vecchio che del nuovo positivismo” (p. 20).
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migliorare se stessa e le condizioni della vita sociale. Bisogna, allora, sgombrare il campo dalle “ideologie” che hanno lo scopo di impedire la trasformazione dell’ordine sociale stabilito (a vantaggio di alcune classi egemoni): e questo è il compito della filosofia. Marx riproduce lo schema hegeliano della dialettica, risolvendo sul piano del finito l’intero processo della storia. Per Hegel la presenza dello Spirito garantisce il carattere compiuto di ogni epoca storica; per Marx la fine della società borghese e l’avvento della società comunista costituiscono tale compimento.158 Il positivismo ha dato un impulso allo sviluppo delle scienze e, in questo senso, ha cercato anche di rivedere e di adattare al metodo dell’indagine sperimentale anche gli strumenti più propriamente logici. La fondazione di una logica rispondente ai principi metodici delle scienze sperimentali è dovuta specialmente allo Stuart Mill. Secondo questa prospettiva, tutte le categorie della logica hanno un’origine empirica e, dunque, anche un significato storico, dato che ogni esperienza umana si compie in un ambito storico. Spencer, invece, ha inteso ricondurre le leggi dello sviluppo storico a quelle dello sviluppo naturale, indicando, generalmente, come “evoluzione” l’intero processo che comprende entrambi tali sviluppi. Questo tentativo di unificare le leggi della sfera naturale e del mondo umano e storico è presente anche in Ardigò e in Wundt, il quale ha inteso porre il principio dello sviluppo naturale e storico in una forza fondamentale (che si esprime sul piano energetico e su quello volontaristico) che appartiene alla natura e alla psiche. Il Wundt è il fondatore della psicologia sperimentale (liberando definitivamente la psicologia dal tradizionale significato di “scienza dell’anima”). In reazione a questa tendenza, negli ultimi decenni dell’Ottocento si è tornati a una concezione dualistica, rivolta a separare la sfera spirituale da quella naturale. Per Spir l’antinomia riguarda anche i dati dell’esperienza e i principi della logica. Si suppone che il pensiero, in quanto espressione dello spirito e della ragione, abbia un’identità immutabile. Si delinea qui una distinzione tra il piano esistenziale, attraversato da forze contraddittorie, e il piano essenziale della ragione, considerato come fondamento di libertà e autonomia spirituale. L’esigenza dell’unità e dell’identità spirituale è avvertita anche da Piero Martinetti (come vedremo più avanti). Per il Secrétan l’essere è essenzialmente spirito e libertà. L’espressione tipica dell’essere come principio di libertà è l’esistenza. In questo senso si propende verso una concezione soggettivistica dell’essere, anche se s’intende trovare un equilibrio tra soggettivismo della volontà e identità dell’essere. Una soluzione analoga è quella ricercata dagli spiritualisti italiani, come Rosmini e Gioberti. Il Ravaisson ha cercato di trovare un punto di raccordo tra il meccanicismo della natura e la libertà dello spirito. Più radicalmente, il Lachelier ha inteso lo spirito come principio dell’intera realtà, volgendosi, in tal modo, verso posizioni idealistiche. Il Boutroux ha esaminato il rapporto tra natura e spirito e tra determinismo e libertà. Il determinismo in realtà corrisponderebbe a un nostro punto di vista, o, meglio, al punto di vista della scienza, che riporta su un piano astratto il dinamismo naturale. Solo in questo senso le leggi della natura appaiono come necessarie e identiche. Se, invece, si considera il piano concreto dell’esistenza, si scopre che il principio dell’eventualità contingente riguarda anche la sfera della natura. Considerate propriamente, le leggi della natura sono probabilistiche e non deterministiche. Boutroux ha notato che il coefficiente di contingenza cresce a mano a mano che si passa dalla matematica alla fisica, alla chimica, alla biologia, alla psicologia, alla sociologia e alle altre scienze umane.159 La struttura di ogni sistema scientifico dipende, dunque, dal soggetto e 158
“Se Marx di fronte ad Hegel ha avuto il merito di insistere sul fatto che il processo storico non è ideale ma concreto e reale, egli finisce però, come hegel, per concepire il processo in modo tale che esso deve ad un certo momento chiudersi e quindi contraddire se stesso come processo, poiché un processo che non può più procedere non si può considerare tale” (p. 21). In realtà, si deve osservare che la società ipotizzata da Marx non riesce mai a configurarsi come perfetta, poiché la stessa società comunista è una realtà vivente, che comprende un processo per cui perfeziona continuamente se stessa, in rapporto alle stesse spinte di trasformazione che investono le diverse sfere dell’esistenza. 159 In conclusione dell’Idea di legge naturale il Boutroux scrive: “Quelle che noi chiamiamo leggi di natura sono l’insieme di metodi trovati da noi per adattare le cose alla nostra intelligenza e per piegarle al compimento della nostra volontà. Da principio l’uomo vedeva ovunque soltanto arbitrio e caso e perciò la sua libertà non aveva presa su nessuna cosa. La scienza moderna gli ha fatto vedere la legge ovunque e così egli ha creduto che la sua libertà si dissolvesse nel
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dall’applicazione dei principi trascendentali ai dati dell’esperienza. E’ chiaro, infatti, che la matematica è la scienza che dipende in minima parte dall’esperienza e che, invece, risulta fondata sull’attività trascendentale. Si può parlare già, a questo punto, di neocriticismo. La parola d’ordine “Torniamo a Kant” è stata lanciata da Otto Liebmann nel suo saggio giovanile Kant e i suoi epigoni (Stoccarda 1865), aprendo la via a una vasta corrente neokantiana, il cui interesse era rivolto alla ricerca delle condizioni trascendentali della conoscenza scientifica (considerata non esclusivamente limitata alla sfera della natura ma estesa all’uomo, alla cultura e alla società). Nell’ambito del kantismo rientra così la prospettiva di Hermann Helmholtz, il quale ha ipotizzato una fondamentale corrispondenza tra il sistema dei segni impiegato nella rappresentazione dei fatti dell’esperienza e il sistema delle leggi naturali (e “reali” in genere). Alla base di tale corrispondenza vi sarebbe una struttura reale ed obiettiva, per cui le percezioni, che costituiscono il materiale originario dei processi rappresentativi, seguono nella loro articolazione e nel loro svolgimento la regolarità e il ritmo stesso delle cose. Un’unità strutturale simile a quella kantiana dell’“Io penso” è supposta come un processo inconscio, in cui la natura e lo spirito (il pensiero) sono uniti.160 In questo senso, il sistema trascendentale agirebbe a livello inconscio e l’intero processo del pensiero sarebbe configurato a tale livello. Una prospettiva analoga è quella di Alois Riehl. L’idea della rappresentazione come dato fondamentale ritorna nella prospettiva di Charles Renouvier (che ha esposto la sua teoria nel suo Saggio di critica generale) e dal suo discepolo Octave Hamelin (autore del Saggio sugli elementi principali della rappresentazione). La rappresentazione, in quanto processo fondamentale e originario, presuppone la relazione tra due elementi essenziali, il reale che è oggetto della rappresentazione e il soggetto che compie l’atto della rappresentazione. Reali sono propriamente le rappresentazioni, che si costituiscono sulla base della funzione originaria della relazione (che, pertanto, va sostituita al concetto di sostanza). Il mondo fenomenico, in questo senso, è l’unico mondo reale; e il fenomeno è l’unica forma di realtà.161 Il reale, in questo senso, è costituito dalla trama delle relazioni che fondano i modi della rappresentazione. Ogni reale è tale in quanto si relaziona ad altri reali e in tal modo si costituisce come rappresentazione. La rappresentazione, secondo Whitehead, è una “prensione”, un modo secondo cui, si può dire, un reale si occupa di altri, relazionandosi ad essi. La realtà risulta dal complesso delle relazioni, dall’intersezione dei processi rappresentativi. L’aspetto soggettivo della realtà è dato da questo sviluppo dell’attività rappresentativa intorno a nodi relazionali. Ma allo stesso modo in cui si sviluppa la soggettività, avviene lo sviluppo dell’aspetto corrispondente, cioè dell’oggettività. Renouvier chiama la realtà nel suo determinismo universale. Ma una conoscenza precisa delle leggi naturali rende all’uomo la padronanza di se stesso e gli dimostra che la sua libertà può essere efficace nel dirigere i fenomeni” (cit. p. 26). Qui si ipotizza una efficace azione modellatrice dell’uomo sulla natura, proprio in ragione della contingenza delle leggi naturali. “L’universo esiste in funzione dell’uomo: solo perché la natura è contingente l’uomo è libero e può realizzare nel processo naturale un valore etico” (p. 26). 160 In questo senso Emile Meyerson scrive: “L’idea, secondo la quale i processi psichici inconsci che accompagnano in modo indissolubile la percezione visiva sono identici a quelli del pensiero cosciente, è suscettibile di essere estesa all’intero campo della percezione inconscia del mondo esterno. E’ lecito supporre che quest’ultima ponga in atto processo identici a quelli con l’aiuto dei quali il pensiero cosciente si costruisce un’immagine del mondo” (cit. p. 27). 161 “Un punto di vista analogo, ancor più fortemente radicato nelle conclusioni dell’analitica kantiana, si ritrova in Cassirer. Con una prospettiva notevolmente anticipatrice Renouvier traduce il sostanzialismo in relazioniamo. Russell tenta di fare la stessa cosa, concependo la struttura del mondo logico, secondo uno sviluppo la cui prima origine è in Leibniz, come struttura relazionale. Da un punto di vista rigorosamente logico il relazioniamo di Russell è puramente formale. E’ stato sempre un problema grave per Russell quello di riuscire a individuare un mondo reale che corrispondesse alle relazioni. Il primo Russell concepiva tale mondo reale in modo assai simile a quello con il quale Platone affermava la realtà delle idee. All’epoca dei Principia matematica Russell pensò che alle relazioni logiche corrispondesse la realtà degli ‘eventi’, soprattutto per suggestione dell’amico Whitehead. In questi sviluppi estremamente importanti per capire la filosofia contemporanea, le cose in sé tendono sì a trasformarsi in fatti, ma, specialmente con la teoria degli eventi di Whitehead, in fatti non statici ma dinamici o, in altre parole, in processi storici intesi in senso naturalistico. Prospettive di questo tipo sono in qualche modo anticipate da Renouvier. Chi rilegge oggi la sua opera si accorge che il suo fenomenismo concepisce i fenomeni come realtà relazionali e non come costituenti un mondo di mera apparenza” (pp. 29-30).
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insieme “il teatro vivente della rappresentazione”. In questo ambito si costituiscono le scienze, che fissano i complessi relazionali in sistemi uniformi dotati di una identità specifica. La relazione universale è ciò che dà senso ai sistemi particolari. Ogni relazione determinata, infatti, assume nuovi significati allorché diventa parte di altri sistemi. Determinati sistemi, in quanto si relazionano tra loro, vengono a costituire sistemi più complessi: tale è il caso, ad esempio, di sistemi scientifici diversi (ad esempio, uno relativo alle scienze fisiche e un altro relativo alle scienze umane), che danno luogo, venendo in relazione reciproca, a un sistema più comprensivo, per la costituzione e interpretazione del quale occorrono nuovi strumenti metodici. La relazione stessa, per Renouvier, è “la categoria delle categorie” e la “la legge più generale di tutte”. Lo sviluppo delle relazioni non segue leggi determinate ma è piuttosto libero, tanto che ipotizza un punto di vista di interpretazione dei fatti storici, fino a includere un punto di vista secondo il quale tentare una ricostruzione della storia “quale avrebbe potuto essere e non è stata”.162 In queste prospettive neocriticiste le esigenze critiche e trascendentali si congiungono, come nota il Paci, a esigenze spiritualistiche.163 In Germania una tendenza spiritualistica è rappresentata dal Lotze, il quale, per superare il dualismo di natura e spirito, attribuiva una interna tensione teleologica alla natura, riproponendo, in qualche, modo la visione leibniziana dell’universo costituito da centri di energia, disposti secondo un piano organico che si sviluppa e si realizza nel tempo. Il leibnizismo si riproduceva anche nella concezione del fondamento logico delle verità scientifiche. E soprattutto sotto questo aspetto il Lotze può essere considerato il preparatore dell’indirizzo neokantiano della Scuola di Marburgo.164 Una tematica più ampiamente kantiana è quella di L. Brunschwicg, il quale attribuisce un posto privilegiato alla scienza, considerata come l’espressione tipica dello spirito critico mediante il quale l’uomo assume consapevolezza della sua natura e del suo compito costruttivo del processo storico.165 Hermann Cohen, fondatore della Scuola di Marburgo, intende l’attività trascendentale come fondativa dell’oggettività e, dunque, tale da consentire il superamento del soggettivismo empirico. Nell’oggettività, che costituisce la sfera propria del giudizio scientifico, avviene la sintesi delle leggi del conoscere con la realtà in sé (in modo che questa medesima, che per Kant costituiva il limite invalicabile della conoscenza umana, viene superata e compenetrata mediante i principi logici trascendentali). La realtà stessa non assume, in questa prospettiva, una struttura statica e necessaria, bensì si modella sul fondamento della categoria della possibilità. Per Paul Natorp, la funzione trascendentale opera sulla base della categoria della possibilità guidando il processo della conoscenza verso forme di verità sempre più adeguate. In questo senso, le idee platoniche assumono il significato metodologico di limite ideale della conoscenza. La stessa oggettività si configura, così, come una realtà concepita come un dover-essere, un compito per la conoscenza e una meta 162
“Questa tesi di Rnouvier è diretta contro la pretesa hegeliana di identificare nella storia l’essere e il dover essere, i dati di fatto e l’esigenza morale. Considerato di fronte alla finalità etica, il mondo è in stato di caduta o, come oggi si direbbe, di deiezione esistenziale. Il compito dell’uomo nella storia è quello di reintegrare se stesso e il mondo. Questo compito non è garantito e non è garantito il suo successo, come invece penserà Hamelin , perché tutto il processo storico non è posto sotto il segno della necessità ma sotto quello della possibilità” (p. 31). 163 “Ciò è evidente, per esempio, in Renouvier e in Hamelin. In Boutroux lo spiritualismo si presenta come difesa della libertà e dell’azione contro le prospettive deterministiche del positivismo. In Helmholtz ed in Riehl il criticismo tende al realismo e specialmente nel primo aderisce concretamente ai risultati delle ricerche scientifiche del tempo. […] In realtà il ‘ritorno a Kant’ è costituito di varie componenti: quella idealistica, quella spiritualistica, quella metodologica, mentre lo stesso ritorno, per molti aspetti, si collega ai problemi della scienza, come è chiaro, per esempio, in Boutroux” (pp. 31-32). 164 “La scuola di Marburgo si ricollega in un certo senso a Lotze in quanto sviluppa il significato della validità logica in senso rigorosamente metodologico, sempre nettamente distinto dal piano psicologico” (p. 32). 165 “La visione storicistico-critica della scienza di Brunschwicg si oppone alla concezione dialettica di Meyerson il quale sostiene che la ragione non può fare a meno dell’irrazionale così come l’identità non può fare a meno della molteplicità. L’opposizione tra razionalità e irrazionalità dà luogo, per Meyerson, al ‘paradosso epistemologico’, paradosso che Brunschwicg crede superabile in una concezione razionale rigorosamente critica della scienza e della filosofia. Al limite questa prospettiva tende anch’essa a risolvere la filosofia in metodologia pura come avviene appunto nei filosofi della scuola di Marburgo” (p. 33).
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irraggiungibile, ma tale da costituire la linea metodologica di ogni approfondimento del sapere. Il reale stesso appare indisgiungibile dal processo della conoscenza.166 Tuttavia, in questa prospettiva, sembra che si privilegi il lato logico della dimensione oggettiva, in polemica con ogni rivalutazione dei processi psicologici (a partire dalla stessa percezione) nei processi cognitivi. La componente empirica della conoscenza scientifica è, invece, rivalutata dal Cassirer, il quale ripropone lo spirito autentico del kantismo, considerando l’oggettività come prodotto dei dati empirici e delle leggi del pensiero. Le stesse idee metodologiche sono considerate come funzioni che strutturano non solo il corso della storia e l’articolazione del pensiero, ma sono incarnate nello stesso dinamismo naturale. I principi trascendentali traducono queste funzioni che appartengono alla realtà sul piano dell’interpretazione dei dati dell’esperienza. Per questo, il Cassirer ha insistito, nella sua ampia opera di storico del pensiero moderno, sui momenti in cui la tradizionale categoria di sostanza è risultata sottoposta all’analisi critica e trasformata in quella di “funzione”. Le “funzioni” sono, in realtà, possibilità dell’organizzazione dell’esperienza e della costituzione dell’oggettività.167 La loro applicazione sul piano dei processi culturali avviene attraverso il linguaggio, che contribuisce alla costruzione dei grandi modelli della realtà storica nel cui ambito si sviluppano le idee umane, i miti, le storie, le forme dell’arte, le credenze religiose, i costumi, le aggregazioni politiche, i sistemi scientifici. Sul piano della rappresentazione simbolica, cioè del linguaggio, gli uomini progettano la loro realtà in base alla categoria della possibilità, nella prospettiva di nuovi orizzonti e di nuovi modelli di vita.168 Il pensiero italiano partecipò attivamente a questa rinascita kantiana. Vicino alla prospettiva del Cassirer è Giovanni Marchesini, partito dalla concezione positivistica dell’Ardigò. Per il Marchesini, accanto alla sfera dei fatti, indagabile col metodo delle scienze “positive” si pone la sfera dei valori, che costituisce la sfera della progettualità etica e che è indagabile dalla filosofia. I valori sono “funzioni” della vita etica e la loro rappresentazione simbolica è efficace per la loro attuazione. Gli ideali etici costituiscono, in questo modo, qualcosa come norme effettive di condotta, indipendentemente dalle circostanze nelle quali gli uomini si trovano a vivere. Francesco De Sarlo insiste, invece, sulla dimensione teleologica che appartiene anche alla natura; e in tal odo sottolinea l’esigenza dell’accordo tra scienza e filosofia, tra aspetto oggettivo e aspetto normativo della realtà. Un tentativo di superare il determinismo naturale e la prospettiva positivistica è quello di Giuseppe Tarozzi, il quale propendeva per una visione spiritualistica, rivolta a superare, però, il dualismo di natura e spirito, di reale e ideale, di finito e infinito. Erminio Trailo si riportava a Bruno e a Spinosa, per sviluppare una visione monistica della realtà. Cesare Ranzoli sviluppò una forma di relazioniamo, basato sulla concezione di una fondamentale sintesi di soggetto e oggetto, di idealismo e realismo. “Il Realismo puro – nota il Paci – è un’opera che val la pena di riesaminare” (p. 38). Una specie di relazioniamo è anche la filosofia di Cosmo Guastella, per il quale la realtà è data dalla relazione di esperienze con altre esperienze. Questa relazione si configura essenzialmente come temporale (nel senso della successine e dunque nel rapporto di causa ed effetto). I fenomeni costituiscono nel loro
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“Il significato più profondo della trasformazione del criticismo dei marburghiani sta nel tentativo di risolvere qualsiasi aspetto della realtà in possibilità logica e la possibilità logica in possibilità metodologica. Più precisamente qui si assiste alla negazione di ogni realismo in funzione del metodologismo” (p. 34). 167 “Il vero significato del criticismo si riafferma qui come sintesi tra le categorie e l’esperienza. E’ appunto in quanto la categoria non viene separata e isolata sul piano della mera possibilità logica, ma ricondotta alla concretezza della vita empirica naturale e storica, che la categoria si presenta come funzione. Il pensiero di Cassirer diventa allora una critica rigorosa di ogni metafisica della sostanza concepita come qualche cosa di assoluto e di chiuso che non permette nessuno sviluppo e nessun progresso né della conoscenza né della vita” (p. 35). 168 “La caratteristica della vita umana e della storia sta nel fatto che l’uomo non può vivere senza esprimersi in simboli e senza esprimere nei simboli nuove possibilità da raggiungere” (p. 36).
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insieme la realtà percepita (o, meglio, di cui si ha l’esperienza) e, quindi, costituiscono il tessuto stesso della vita psichica.169 Il neocriticismo italiano è rappresentato specialmente da Carlo Cantoni e dal suo discepolo Guido Villa. Costui riconduce l’oggettività scientifica al metodo relativo all’applicazione dei principi logici trascendentali e quindi ne sottolinea la differenza rispetto alla realtà in sé. La dimensione reale di cui si può parlare è la “complessa esperienza totale”, che comprende in sé sintetizzati i principi del soggetto e dell’oggetto. Filippo Masci si riporta più direttamente a Kant e vede nella dottrina dello schematismo la chiave dell’intera prospettiva gnoseologica della filosofia critica. Nello schematismo trovano la loro sintesi organica l’intuizione e il pensiero. Dunque esso rimanda a una fondamentale dimensione reale, caratterizzata come struttura psicofisica, sostanza caratterizzata temporalmente, come “permanenza” e insieme causa di un processo di sviluppo. In tal modo erano recuperati fondamentali motivi metafisici, di una metafisica coerente coi principi del criticismo.170 Erminio Juvalta ha sviluppato il criticismo nel senso della fondazione (nell’ambito della cultura positivistica) di una scienza della morale. Il formalismo morale kantiano si traduceva in un’etica ideale, assoluta e scientificamente determinabile. Le difficoltà risaltavano, poi, di fronte al problema di stabilire una connessione tra una tale etica e la sua applicazione alla situazione storica concreta. In senso antistoricista, Juvalta privilegiava la forma dell’etica scientifica, fondata su un processo logico.171 Una forma di relazioniamo spiritualistico è quello di Bernardino Varisco, per il quale la realtà è costituita da “monadi” posti in relazione originaria sul piano dell’inconscio. L’unità e l’armonia dell’universo sono date dal fatto che in ogni monade (che costituisce un soggetto) è posta l’idea rosminiana dell’essere, per cui in ogni soggetto si sviluppa il pensiero di sé come soggetto universale. Questa concezione ha un risvolto teologico, in quanto Dio è concepito come l’essere stesso la cui idea è presente in ogni monade e in ogni soggetto umano. Il limite di questa prospettiva appare in una certa tendenza ad assolutizzare l’ordine stabilito sulla base dell’idea dell’essere. In tal senso risultano interessanti, per Varisco, i problemi connessi all’irrevocabilità delle situazioni di fatto. Si potrebbe dire che, in questo senso, viene soppressa la distinzione leibniziana tra “verità di ragione” e “verità di fatto”: tutte le verità rimanderebbero a “fatti” irrevocabili, dunque a situazioni necessarie. Il Paci individua l’errore di Varisco nel “confondere la necessità dell’irrevocabile, e cioè l’irreversibilità del processo temporale, con la necessità dell’eassoluto” (p. 44). Infatti, ogni situazione temporale ha il carattere dell’irreversibilità ma non quello della necessità, non può annullare le scelte già compiute e gli eventi che si sono verificati, ma non per questo esclude ogni scelta e ogni problematicità.172 Un’apertura verso l’esperienza è, tuttavia, riscontrabile nel fatto che Varisco tiene conto 169
“La filosofia di Guastella non è facile: si può tuttavia notare che il suo punto fondamentale sta nella concezione che il reale non è una sostanza data e chiusa ma una relazione di fenomeni nel tempo. Al posto di un reale chiuso e ‘sostanzializzato’ si pongono le relazioni temporali ed è in esse che il fenomeno non è apparenza ma esiste nel senso che esiste temporalmente. Guastella risolve la realtà nel tempo e nello spazio e perciò si trova di fronte al problema dell’infinito spaziale e temporale, problema del quale ci ha lasciato delle analisi magistrali” (pp. 38-39). 170 “Si può notare una certa analogia tra il pensiero del Masci e quello di Guastella soprattutto per il temporalismo comune ad entrambi. Del processo temporale e storico il Masci ebbe viva sensibilità ed il processo egli concepiva come progressiva individuazione e come progressiva conquista della libertà” (p. 40). 171 “Manca un rapporto, in Juvalta, tra il processo logico e quello storico, tra l’etica determinata dalla scienza come ideale e la situazione temporale. Manca, in sede etica, la funzione mediatrice dello schema kantiano. […] Il tentativo di Juvalta finisce per perdere la concretezza umana dell’etica e soprattutto non riesce ad inserire l’etica nel processo storico. Juvalta parla di un’etica della simpatia anch’essa fondabile secondo postulati logici. Ma la simpatia non va ridotta a formalizzazione logica quanto piuttosto valutata nella sua concretezza psicologica e umana. La critica al formalismo dell’etica kantiana, non ricondotta a tale concretezza (è il compito che pone Max Scheler), finisce in un nuovo formalismo” (pp. 41-42). Da vedere anche le osservazioni di L. Geymonat nella sua prefazione all’opera di Juvalta, I limiti del razionalismo etico. 172 L’unità assolutizzata non permette un’adeguata comprensione dell’esistenza temporale la quale, se è necessitata in quanto irrevocabile, è però libera in quanto aperta alla possibilità del futuro. La sintesi tra la necessità del passato (che non può essere eliminato e che condiziona il presente) e l’apertura verso il futuro che, pur essendo condizionata, è tuttavia tale da lasciare la possibilità di trasformare il processo, è proprio la sintesi a cui deve tendere una teoria coerente del processo stesso” (pp. 44-45).
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della complessa dimensione temporale e psichica dei processi logici ed esprime la consapevolezza che l’intero processo reale non può ridursi (o risolversi) nell’unità del soggetto e dell’oggetto. In questo senso, egli sembra andare oltre le classiche impostazioni idealistiche e neoidealistiche.173 Il filosofo che ha cercato di interpretare il criticismo come l’introduzione a una nuova metafisica è specialmente il Martinetti. La realtà a cui rimanda il criticismo è quella manifestata dall’unità sintetica originaria, che comprende l’unità dell’intuizione e del pensiero, del dato e della spontaneità spirituale. Questa realtà è, dunque, un prodotto dell’attività spirituale. Da questo processo spirituale non si può uscire. Per Martinetti questa attività fondamentale è alla base dell’intera cultura e della costituzione del mondo. Il criticismo si risolve in spiritualismo. Giovanni Emanuele Barié, discepolo del Martinetti, ha posto l’unità dell’io trascendentale al centro del suo neoidealismo. Adelchi Baratono ha sviluppato il criticismo in senso “estetico”. La forma estetica ci presenta la sintesi di esperienza e valore in modo diretto, prima che riusciamo a riconoscerla e ricostruirla nel giudizio. In questo senso essa assolve una funzione importante per la comprensione di ogni momento in cui si pone il rapporto tra l’esperienza e il valore, tra l’essere e il dover-essere. “Nel gusto e nel piacere estetico si attua la relazione organica di ciò che la scienza distingue analiticamente e cioè la realtà sensibile da un lato e la forma logica, o razionale dall’altro” (p. 43). Antonio Banfi nei Principi di una teoria della ragione (1926) interpreta il criticismo come metodologia storicamente connotata e applicata ai diversi campi della cultura. Si tratta di vedere come la ragione costituisce un’istanza sistematrice rispetto al vasto materiale che l’esperienza offre specialmente come serie di problemi che emergono nei diversi campi della vita spirituale e culturale. “La cultura è il campo nel quale le varie forme dell’esperienza continuamente si inverano guidate dalla legge trascendentale che disegna la fenomenologia delle forme dell’esperienza e della vita” (p. 51). La ragione non dispone di principi fissati una volta per sempre, ma accompagna l’esperienza nel suo prodursi e si inserisce in essa razionalizzandola (nel senso che ne rivela il senso e l’importanza e utilità per la cultura umana, la situazione dell’uomo nel mondo). “La vita contiene in sé la propria possibile direzione razionale: il vero senso della relazione è dunque dato dal fatto che la relazione stessa è relazione tra la vita e la ragione. […] La legge deve attuarsi e vivere nella sua funzione concreta all’interno della vita: non basta definirla distaccandola dal processo nel quale si attua. Tanto meno è possibile dedurre l’esperienza, e quindi la storia, da una definizione della ragione assolutizzata e sostanzializzata. In ogni situazione dell’esperienza è immanente la ragione come tensione dinamica, come potenzialità di integrazione affidata non soltanto al pensiero, ma all’opera e al lavoro dell’uomo” (p. 51). La ragione fornisce le coordinate per lo sviluppo razionale dell’esperienza (del pensiero e dell’attività pratica).174 Il Banfi ha visto nel marxismo la metodologia adatta alla comprensione dei problemi del nostro tempo, in quanto quella idonea a far risaltare le connessioni tra i diversi campi dell’esperienza e a suggerire la visione unitaria nella quale inquadrare un sapere storico come “coscienza dell’autocostruirsi della società umana”.175 173
“Tener conto dell’insegnamento del Varisco significa inserire nell’idealismo la realtà concreta, quella realtà che Croce e gentile si lasciano spesso sfuggire e che Croce cerca di conquistare col suo storicismo e con l’importanza attribuita alla categoria dell’utile o del vitale (che è poi il piano dell’esistenza)” (p. 45). “La ragione – scrive il Banfi – ha sete di esperienza e di vita, anzi essa non è che la forma per cui questa si rivela nella sua totalità e nella sua infinità in ogni suo proprio momento” (Problemi di un’estetica filosofica, 1932). 174 Cfr. Fulvio Papi, Il pensiero di Antonio Banfi, Firenze 1951. 175 Il marxismo rappresenta, per Banfi, la filosofia adatta per la “ricostruzione su nuove basi universalmente umane del mondo degli uomini”. “L’uomo cessa di straniarsi da sé e dal mondo o nell’astratta universalità del pensiero o nella dispersa frammentarietà dell’azione. Egli riconquista, con l’unità di se stesso, l’unità di sé col mondo, unità dinamica di realizzazione e di costruzione, in cui tutta la tradizione umanistica, fondamento della nostra realtà, si concentra e si compie, si invera” (A. Banfi, Saggi sul marxismo, 1970). “Il marxismo risolve in sé il principio del conflitto tra ideologia e filosofia, fra praticità e teoreticità, fra impegno concreto e saggezza. La sua sorgente storica e la coscienza che esso ne ha, coincidono con una potenziale universalità storica, etica, teoretica ed umana. Ma perciò appunto tale universalità non è data dalla forma immediata di una verità assoluta, ma in quella di una lotta, di una ricerca, di un compito, e si sa sempre nella storia e per la storia. Essa è la concretezza, la verità di un umanesimo storicamente
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Forme alternative dell’idealismo. Per Francis Herbert Bradley, rappresentante dell’idealismo in Inghilterra e la cui opera principale è Apparenza e realtà, la molteplice esperienza è apparenza, mentre la realtà è data dall’unità della coscienza. I fatti costituiscono una molteplicità di dati, che la coscienza non riesce a ricondurre ad unità e dei quali, dunque, non dà una soddisfacente spiegazione. Essi rimangono estranei, incomprensibili, irrazionali: perciò non costituiscono la vera realtà, che deve essere attribuita all’unità della coscienza. Il mondo, dunque, come successine di fatti molteplici è apparenza. Tuttavia Bradley intende superare l’opposizione tra apparenza e realtà, tra molteplicità dell’esperienza e unità del pensiero, mediante la categoria di relazione, la cui funzione, che è quella di ricondurre ad unità il molteplice, introduce nel mondo dell’apparenza una gradualità di realtà, che è appunto corrispondente alla progressiva universalità dell’unità che i dati molteplici costituiscono nei loro rapporti. Realtà e verità risultano, allora, dalle modalità della relazione che i dati particolari instaurano di volta in volta tra loro. Bernard Bosanquet mette in rilievo il “negativo” implicito nella condizione degli stati esistenziali, che, come i dati dell’esperienza, si scoprono come irrazionali e, quindi, riescono a stabilire forme limitate di realtà e razionalità, entrando in relazione tra loro. Egli, quindi, scopre nel mondo delle relazioni un fondamento che rimanda all’assoluto, che in sé contiene la radice di ogni relazione e che costituisce il valore ideale verso il quale il mondo finito tende come a suo modello. Questa tensione è il senso della finitezza. In questo filosofo è specialmente sentito questo problema di un mondo contraddittorio e problematiche che tende al progressivo superamento di ogni disarmonia e a diventare il luogo delle relazioni perfette, interamente trasfigurate sul piano dell’armonia e della bellezza (nonché della giustificazione razionale e logica). L’arte occupa un posto privilegiato in questa situazione della realtà non solo perché è il piano rappresentativo più adatto a una tale approssimazione all’ideale, ma anche perché essa medesima riesce a realizzare le forme più significative di armonia tra i fatti e le parti del mondo dell’esperienza. Da parte sua, la filosofia esprime l’esigenza della coerenza organica secondo la quale le relazioni vanno instaurate, in modo che esse diano vita ad unità viventi e non costituiscano solo aggregazioni esteriori e astratte generalizzazioni. “Il fine del pensiero – osserva Bosanquet – non è la generalizzazione ma la costituzione di un mondo”. Per John Mc Taggart, questa tensione verso la costituzione di un mondo che è prefigurato sul piano ideale rappresenta la vera forma di razionalità. L’idea razionale rappresenta la stessa interna tensione dello spirito, impegnato nel suo processo dialettico. Inoltre questa tensione si esprime nell’instaurazione di rapporti di sempre più ampia e profonda armonia. “Il problematicismo di Bradley, attraverso Bosanquet, diventa in Mc Taggart filosofia dell’amore” (p. 62).176 Storicismo e filosofia dei valori. Per Wilhelm Dilthey le categorie interpretative e fondative della conoscenza hanno un carattere storico, sorgono, cioè, dal contesto della vita e della storia. E’ la situazione storica stessa che fornisce il criterio interpretativo per comprendere i fati umani e sociali. La nostra stessa condizione esistenziale e la nostra vita psichica dipendono dalla situazione storica che vive in noi e determina tutte le nostre categorie utili per la comprensione del mondo. Più che una struttura trascendentale, di carattere universale, la nostra coscienza è una formazione storica, legata al suo ambiente e al suo tempo. La filosofia di Dilthey vuol essere, pertanto, una critica della ragione storica. Essa indaga intorno alle categorie (storicamente costituite) che presiedono alla costruttivo diretto a creare, come centro di tutto il travaglio storico, il regno autonomo dell’umanità e gli strumenti del suo aperto sviluppo” (Sull’umanità del marxismo). 176 “Nell’amore io non conosco l’altro ma sono l’altro, il tutto: sono, fin da ora,nel futuro, in quella perfezione verso la quale si muove il tempo. Ma così, in quanto è presente nell’amore, il futuro è già nel presente, nel presente dell’io, degli altri, del tutto. Alla fine di fronte all’amore il tempo si rivela come pura apparenza e permane soltanto come tempo in quanto l’amore non è completo e realizzato. Soltanto nell’amore l’implicita razionalità della mia coscienza si può realizzare e si può identificare all’esistenza” (p. 62).
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fondazione e allo sviluppo dei fatti umani e che, quindi, diventano a loro volta strumenti della loro comprensione. I fatti si comprendono in base alle medesime categorie che concorrono a esprimerli e fondarli. Così, ad esempio, l’esperienza religiosa di un’epoca o di un popolo viene compresa attraverso le medesime categorie che la fondano nella stessa esperienza umana. Perciò, contro ogni separatismo, Dilthey osserva che l’impulso dominante del suo pensiero è quello “che intende di comprendere la vita per mezzo di sé medesima”. Il pensiero ha il compito di interpretare la vita e non quello di imporre un modello astratto al corso della vita e alla concretezza della realtà storica. Esso ha significato in quanto è in funzione della vita, cioè in quanto mette in rilievo il senso del percorso storico, i valori che sono impliciti in esso e che ne configurano lo svolgimento. Per Dilthey la realtà è esperienza storica, fondazione continua del processo storico, continuità e relazionalità di questo processo. “Proprio perché il processo è storico, le categorie, le strutture del pensiero, la stessa logica, nascono dalla vita e dalla storia, e soltanto per questo possono comprendere la vita storica” (p. 88).177 L’uomo è al centro del processo storico; egli interpreta il processo che comprende la permanenza e l’emergenza e può incidere sul suo corso, trasformando le stesse condizioni dello sviluppo temporale. Lo storicismo diventa consapevolezza umana, compito per costruire il divenire, progetto umano nel tempo. E l’uomo muove da una fondamentale comprensione della situazione temporale, che trova la sua espressione prevalente nell’intuizione e nella rappresentazione artistica. L’arte è costituita sulla base di una sintesi di comprensione ed espressione: ed in ciò la concezione estetica di Dilthey è analoga a quella di Croce. L’intuizione riguarda, appunto, il senso del processo storico; essa avviene nella direzione dell’esperienza vissuta (poiché lo stesso flusso vitale è esperienza fondamentale della vita nel tempo).178 La vita psichica, l’esperienza individuale, riproduce il senso del corso della storia nel quale è compresa la “visione del mondo”. L’emergenza del processo storico si colloca nella vita e nell’esperienza degli individui, che, assumendola, la proiettano nel futuro, attraverso i progetti vitali che essi elaborano. I comportamenti umani fanno parte di questo processo.179 I fatti culturali sono funzionali al processo storico: sono espressioni della “visione del mondo” che è alla base del contesto storico. Le categorie non sono modelli logici astratti che s’impongono a qualsiasi situazione, bensì sorgono dal corso dell’esistenza concreta e sono funzionali ai fini e ai valori che indicano la direzione nella quale s’indirizza la storia stessa.180 Gli stessi “oggetti” scientifici, in quanto astratti rispetto all’esperienza storica, non vanno considerati come realtà totale, bensì costituiscono aspetti determinati della totalità concreta e storica. E’ in questa totalità che quegli oggetti assumono, in definitiva, senso e funzione. I sistemi scientifici vanno, perciò, ricondotti all’insieme della situazione storica. Nel contesto storico tutti gli aspetti e tutte le forme dell’esperienza si relazionano tra loro e risaltano nel loro vero significato: come osserva il Paci, “la logica della scienza è funzionale soltanto perché 177
“Nella concezione del processo storico che abbiamo delineato, Dilthey si trova in una posizione analoga a quella di Whitehead, il quale concepisce il processo della natura proprio come Dilthey concepisce il processo della storia. Questo fatto è di grande importanza perché avvicina lo storicismo al naturalismo organicistico di Whitehead” (pp. 8889). 178 Si ripropone qui, modificata, la dottrina kantiana dello schematismo trascendentale. Come è noto, questo attua la sintesi tra il dato empirico e il categoriale mediante l’immaginazione produttiva che è espressione della spontaneità creatrice dell’Io penso. “Dilthey, senza richiamarsi a Kant, costruisce un suo schematismo nel quale la sintesi si attua per mezzo dell’espressione e, infine, attraverso l’arte, attraverso una visione non solo logica ma intuitiva del mondo, arriva alla visione del mondo, alla Wltanschauung. Al posto dello schema Dilthey pone il rapporto vita-espressionecomprensione che è un modo di realizzare in sede storicistica lo schema kantiano. E’ il movimento di pensiero iniziato da Hegel e che, indipendentemente da Dilthey, è presente anche in Croce. L’Erleben di Dilthey è analogo al vitale di Croce. Coerentemente Dilthey vede l’Erleben come processo concreto e relazionato e pone ‘le forme dellospirito’ nella realtà del processo” (p. 89). 179 “Nel processo, e nell’emergenza dell’uomo dal processo, si concretizzano gli atteggiamenti e i comportamenti umani. L’atteggiamento, il Verhalten che sarà decisivo per Heidegger, quello che sarà il ‘comportamento’ di MerleauPonty, è la relazione concreta dell’uomo nella storia ed è direzione verso i fini e i valori che devono trasformare la storia stessa” (p. 90). 180 “Da questo punto di vista la filosofia di Dilthey è una critica anticipata del formalismo neopositivistico. Dilthey non potrebbe accettare né una realtà di dati atomici come dimensione empirica, perché per lui la dimensione empirica è un’esperienza vitale, né un discorso logico separato dall’esperienza. Il problema del rapporto tra l’empirico e il logico, come si porrà nel neopositivismo, è da lui risolto con la teoria del processo storico e della vita come processo” (p. 90).
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la sua origine si trova nella struttura del processo storico e vitale” (p. 91). Tale connessione è oggetto di considerazione della storiografia. Dilthey afferma che il punto di vista della relazione di tutti i fatti e di tutti gli aspetti dell’esperienza nella totalità storica va applicato nella costruzione di tutte le scienze e in particolare delle scienze umane. A questo proposito nelle sue Idee per una psicologia descrittiva e analitica traccia i principi metodici per lo sviluppo di una psicologia che non consideri i fatti psichici in senso atomistico, bensì li inquadri nell’unità dinamica dell’esperienza storica alla luce della quale i fatti medesimi assumono significato e valore. In questo modo, categorie generalmente escluse dal metodo scientifico, come quella di finalità, ad esempio, non rimangono escluse, ma contribuiscono alla comprensione del senso storico che i fatti assumono. Tra l’altro, bisogna tenere presente che l’esperienza storica è tensione verso la realizzazione di forme nuove d’esistenza. Il passato si protende verso l’avvenire e non è esaurito in se stesso. “Nel processo le strutture tendono ai valori e alla forma, hanno una direzione, un’intenzionalità (il termine era stato usato da Husserl e Husserl lo ritroverà , alla conclusione della sua filosofia, in un senso non lontano da quello di Dilthey” (p. 92).181 L’attività umana è rivolta principalmente a trasformare il mondo: in Dilthey è presente tutta la tensione dell’epoca verso la trasformazione e la creazione di strutture nuove (nuove visioni del mondo e nuove prospettive pratiche di vita). Georg Simmel ha sviluppato lo storicismo nel senso di una filosofia della vita. Per tale prospettiva nulla di ciò che appartiene alla di manica del processo storico e della vita stessa può essere ipostatizzato in categorie e in schemi fissati una volta per sempre. Il sostrato di ogni concetto e di ogni categoria è la vita psichica, la stessa esperienza dell’individuo che si compie in un contesto storico. La società non è un’entità definita nella sua identità, bensì si risolve nella complessa trama dei rapporti tra gli individui e che riflettono la vita stessa nel suo dinamismo incessante. Nessuna forma del tempo può essere assunta come un modello universale di temporalità. Neppure il passato è interamente tale, se continua ad esercitare il suo influsso sul presente. Psicologia sociale e sociologia coincidono: infatti questa considera i processi individuali che si esprimono sul piano intersoggettivo, che, a sua volta, è storicamente configurato. Ciò non impedisce, tuttavia, per Simmel, che la sociologia si configuri come una scienza fornita di un suo statuto autonomo e peculiare e che si avvalga, quindi, di una propria metodologia. E’ importante che il metodo stesso dell’indagine e della sistemazione scientifica abbia una rispondenza nella realtà dell’esperienza storica. La tematica del tempo ha occupato la maggior parte delle riflessioni del Simmel, come è attestato dalle tre edizioni dell’opera fondamentale Problemi della filosofia della storia (1892, 1905, 1907), dal saggio Sul problema del tempo storico (1916) e da quello su La formazione storica (pubblicato postumo nel 1922). In particolare, il filosofo insiste sul relativismo della conoscenza storica: la storia è ricostruzione del passato sulla base delle categorie suggerite dai problemi del proprio tempo. Ogni interpretazione storica tiene conto delle esigenze dello storico e dei tempi in cui egli compie il suo lavoro di indagine e di ricostruzione.182 Una situazione analoga si riproduce nel campo della moralità. Questa, infatti, non può essere disgiunta dai concreti comportamenti e processi di relazione tra gli individui. Nell’Introduzione alla scienza della morale, Simmel si oppone “ad ogni tentativo di ridurre la morale a scienza o, come oggi si direbbe, ad analisi del linguaggio morale” (p. 95).183 La sua Filosofia del denaro (1900) è una dimostrazione dell’importanza attribuita da Simmel a ogni aspetto della vita 181
“Il senso e l’apertura all’avvenire si legano al passato e alle forme oggettive nelle quali si è realizzata l’opera dell’uomo nella storia, a quel mondo di forme che per Hegel faceva parte dello spirito oggettivo. Queste forme sono l’oggetto della scienza storica e nella storia i progetti umani riprendono il passato per portarlo verso nuovi orizzonti secondo varie possibili prospettive, secondo varie possibili scelte e varie concezioni del mondo” (p. 92). Ne deriva l’imperativo che richiede la comprensione del passato e del senso di ciò che è stato realizzato per la costruzione del futuro. 182 Un esempio di interpretazione complessiva del processo storico dell’umanità è costituito dalla famosa “legge dei tre stadi”, formulata da Comte sulla base della sua concezione positivistica. In questo senso, i termini di ogni ricostruzione storica non possono avere che “un valore ipotetico, valido per lo sviluppo del sapere storico, ma non valido definitivamente per la realtà storica stessa” (A. Banfi, Il pensiero filosofico e pedagogico di Simmel). 183 “La critica di Simmel è rivolta al positivismo e, anticipatamente, al neopositivismo. E’ una difesa della spontaneità della vita morale contro la pretesa di tradurre la vita morale nelle categorie e di esaurirla nel linguaggio formale della scienza della morale” (p. 95). Perciò la scienza della morale può avere solo un senso descrittivo e fenomenologico: si tratta, cioè, di interpretare le motivazioni del comportamento attraverso l’osservazione della realtà storica e sociale.
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sociale e dell’impossibilità di astrarre da qualcuno di tali aspetti per la comprensione della totalità della situazione storica. Qui il filosofo “collega la struttura economica a quella sociologica culturale e psicologica” (p. 97).184 Simmel mette in rilievo il significato della “rivoluzione copernicana” di Kant: essa consiste “nel fatto che il mondo, nel suo processo evolutivo, storico e spirituale, deve prima perdere la sua realtà e trasferirla all’io, perché questo si sacrifichi poi per il mondo restituendogli la sua realtà su un piano più alto”. Ma egli vede in Goethe (in Kant e Goethe, del 1917) l’espressione della sintesi tra la realtà e il soggetto, tra la forma e la vita. Il tempo è visto nella sua dimensione creativa, come la vita stessa che si dà continuamente una forma. In un suo saggio su Rembrandt, teorizza una forma estetica che sia espressione del processo dinamico dell’arte. Nell’ultimo Simmel (di cui è documento il Frammento sull’amore), si nota uno spostamento verso la filosofia dei valori.185 Nelle sue ultime opere (Intuizione della vita, 1918; Conflitto della cultura moderna, 1921), “Rimmel sente il pericolo di una concezione che consideri la vita come tale sul piano del valore e di una vita che si contrapponga allo spirito: il termine ‘più che la vita’ indica in realtà il valore. La vita come tale contiene sia la possibilità del conflitto che l’armonia: tra la vita e le forme si pone la scelta umana, la libertà, e la libertà può dirigersi verso il,bene ma anche verso il male. La vita tende non soltanto a spezzare le forme cristallizzate ma anche a sommergere i valori” (p. 100).186 “In tal modo l’uomo, posto tra la natura e il valore, può trovarsi nella ‘terra di nessuno’, nell’angoscia, che può produrre il bene, ma può anche farlo cadere nel male, nel peccato contro il valore stesso della vita” (p. 102). In questo senso, Simmel non solo esprime il sentimento tragico della situazione ambigua e contraddittoria della sua epoca, ma può rappresentare anche un aspetto del nostro tempo attuale.187 La filosofia dei valori è rappresentata specialmente da Wilhelm Windelband e da Heinrich Rickert, i quali muovono proprio dalle idee regolative di Kant, che esprimono, appunto, il senso della realtà in rapporto alle finalità e ai compiti dell’esistenza umana. I valori indicano rapporti possibili dell’uomo col mondo, nella prospettiva di una realtà da fondare, di un ordine al quale dar luogo progressivamente nella storia. “Il senso del mondo – infatti, come osserva Paci – è in una sua perfezione possibile, in un ordine non dato ma da instaurare, un ordine che, in quanto tale, ha in sé una sua necessaria coerenza, come la santità religiosa che è il fondamento del bene, del vero e del bello” (p. 102). L’istanza di un progressivo perfezionamento morale dell’umanità rappresenta il criterio ispiratore di questa filosofia, che riconduce ogni aspetto del reale alla dimensione etica, considera, dunque, le cose sub specie ethicae. Il valore, in questo senso, è reale, anche se indica una direzione, un cammino, e non una perfezione raggiunta. Esso è “la necessità interna al possibile non ancora effettuato” (p. 102). In quanto non dipendono dall’arbitrio della volontà, i valori sono “trascendentali” e appartengono alla ragione nella sua capacità regolativa, appunto di indicare la dimensione ideale del reale. L’idea è la norma della realtà in quanto possibilità: essa indica ciò che il reale deve essere. L’essere, da questo punto di vista, è costitutivamente dover-essere e poter-essere. L’uomo percepisce la distanza tra la realtà e le sue possibilità e la coscienza di questo divario consente l’opera 184
“La tendenza del valore economico a fissarsi in una forma cristallizzata, la moneta, (l’analisi di Simmel richiama l’analisi di Marx del feticismo delle merci, ma sblocca il problema liberandolo dai suoi presupposti dogmatici) è un esempio tipico della dialettica tra la vita e le forme, tra la tendenza della vita a fissarsi in rigidi schemi e l’altra tendenza che la conduce a spezzare gli schemi per rinnovare se stessa” (p. 97). 185 Questa tendenza è stata bene messa in rilievo dal Banfi, il quale ha notato che, per Rimmel, la vita “produce forme ideali di natura conoscitiva e religiosa, artistica e sociale, tecnica e normativa, forme che rappresentano qualcosa di più del semplice processo vitale e di ciò che ad esso serve” (cit. p. 99). “E’ nelle forme che la vita trascende se stessa pur nel pericolo di formalizzarsi e di fossilizzarsi nelle proprie categorie trascendentali o, come direbbe Croce, nelle ‘forme dello spirito’ (si noti l’analogia della dialettica tra il ‘vitale’ e le ‘forme’ con la posizione di Simmel)” (p. 99). 186 Simmel vedeva nell’espressionismo la testimonianza di questa tendenza della vita a porsi come forza distruttiva dei valori: “Il significato dell’espressionismo è questo: l’interna commozione dell’artista si prosegue nell’opera, o, meglio ancora, come opera, del tutto immediatamente così come viene vissuta” (cit. p. 100). “L’aspirazione ad un’arte interamente astratta – osservava inoltre Simmel – nasce dal sentimento che la vita è impossibilità e contraddizione”. E nell’Intuizione della vita scriveva: “L’idea deriva il proprio diritto e il proprio significato dal fatto di essere diversa dalla vita, di rappresentare la liberazione dalla prassi vitale, dalla casualità, dal fluire temporale” (cit. p. 101). 187 Oggi, ad esempio, la situazione conflittuale si pone tra l’imperativo di un “progresso” tecnologico inarrestabile e il difficile mantenimento dell’equilibrio naturale, oppure tra le istanze individualistiche e quelle universalistiche, o ancora tra l’identità e la globalizzazione.
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orientata verso la costruzione del reale nel senso del dover-essere. L’uomo percepisce anche ciò che egli non è riuscito a realizzare (e che avrebbe potuto realizzare); e questa consapevolezza è fonte di angoscia. “Tra le categorie e i fatti dell’esperienza, che esse debbono interpretare ed elaborare, c’è un abisso che non si può mai riempire del tutto”, osserva il Windelband. “La ragione ha una normatività di dovere, è necessaria come dovere: l’esperienza reale è necessariamente costituita come finitezza e insufficienza di fronte alla norma” (pp. 103-104). La coscienza del divario tra il fatto e il valore, tra l’essere e il dover-essere, rappresenta la norma stessa che dirige l’azione: su di essa si fonda la possibilità dell’agire etico. Le scienze morali si basano su questa consapevolezza: esse, perciò, si distinguono dalle scienze fisiche. “Le une – precisa il Windelband – sono scienze della legge, le altre scienze dell’avvenimento; quelle insegnano ciò che è sempre, queste ciò che fu una volta. Il pensiero scientifico è nel primo caso nomotetico, nel secondo idiografico”. D’altra parte, si può dire che anche le scienze fisiche, in quanto fondate dagli uomini nel corso della loro storia, fanno parte del mondo storico e confluiscono nell’azione, attraverso la quale viene costruito il reale in rapporto alla norma, al dover-essere. Rickert approfondisce il concetto di “valore”, osservando che esso appartiene interamente alla sfera del dover-essere. I valori non sono entità reali, sono ipotesi di realtà, produzioni del pensiero, dunque “essenze”. Il pensiero, propriamente, ha come suoi oggetti i valori; e la verità, che è il termine del pensiero, si costituisce come valore. I valori sono sovratemporali, in quanto non appartengono al piano dell’esistenza (che si svolge nel tempo). Tuttavia Rickert s’imbatte nel problema del rapporto dei valori con l’esistenza. E, ovviamente, il punto di questo incontro è l’uomo, il quale, appunto, è insieme esistenza e valore, appartiene all’essere reale e all’essere ideale e si sforza di trasferire l’uno (l’ideale) sul piano dell’altro (del reale). Nella storia i valori diventano realtà (sia pure in forme problematiche e limitate). L’esistenza umana è in gran parte questa vicenda per cui il mondo dei valori si viene attuando sul piano dell’esistenza.188 Da questo punto di vista, la storia si svolge in riferimento a un ideale da realizzare, a un mondo di valori, al quale viene dato corpo attraverso la riflessione (che può sfociare nella filosofia oppure può assumere le forme del mito). In questo senso Dilthey e Max Weber hanno inteso il metodo delle scienze storiche, che si basa su una comprensione dei valori che sottendono agli eventi di un’epoca. Le forme della cultura, tra cui non ultime le religioni, sono modi della comprensione del progetto storico che s’intende realizzare nell’arco di intere epoche (e l’epoca della civiltà occidentale, ad esempio, non è ancora compiuta). Arnold J. Toynbee, in particolare, ha inteso identificare e tracciare i grandi progetti che stanno alla base dello svolgimento di intere civiltà. Per Ernst Troeltsch è la religione la forme di cultura che specialmente sta alla base del progetto storico: la religione, infatti, più di ogni altra forma culturale, ancora l’esistenza a una trascendenza e, in questo modo, acquista la prospettiva di una quasi eternità che si proietta nel tempo. Per Meinecke, invece, questa forma permanente è la dimensione etica, mentre la forma temporale è data dalla politica (la cui espressione tipica è la “ragion di stato”). 189
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Ne L’oggetto della conoscenza (1892), Rickert oppone alla verità considerata come un “dato” oggettivo la verità come valore; nel Sistema di Filosofia (1921) propende a riconoscere nell’esistenza il piano in cui i valori escono dalla loro trascendenza e s’immergono nel flusso della vita e della storia, tuttavia finisce ancora per attribuire ai valori la vera realtà, identificando lo stesso essere con l’istanza etica che lo pone come possibilità; nei Problemi fondamentali della filosofia (1934) ritorna il problema della trasformazione dei valori in realtà; nella Logica dei predicati e il problema dell’ontologia (1930) è attribuito all’uomo il compito etico di trasferire i valori dal piano metafisico dell’essere possibile nella realtà concreta dell’esistenza storica. “L’importanza dell’ultimo Rickert sta appunto nel fatto che egli ha visto nella storia la mediazione fra la natura e la cultura. I valori diventano il possibile senso del processo storico” (p. 107). 189 “Il divino, per l’uomo, è la libertà, condizionata dalla storia ma pur sempre possibile, di trasformare il movimento del passato in nuovi valori” (p. 111). Il modello di Meinecke, in Le origini dello storicismo, è Goethe. “L’implicazione dell’immanenza e della trascendenza, del sensibile e del valore, vive nella stessa natura e la natura stessa è processo storico in quanto è impulso e forma, permanenza e trasformazione, individualità e universalità, in una parola, metamorfosi” (p. 110).
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Pragmatismo e realismo. La nascita del pragmatismo si fa risalire al saggio di Peirce, Come rendere chiare le nostre idee, del 1878. Il pragmatismo è una specie di naturalismo, che pone l’accento sul sistema vitale, concepito come una totalità di funzioni, che tendono a un medesimo scopo, che è quello di soddisfare bisogni e realizzare progetti di vita. “Il pensiero è in funzione della vita, le categorie logiche sono in funzione delle esigenze vitali” (p. 114). Il pensiero, con la sua attività, crea le credenze, le conoscenze, le norme che consentono a un sistema vitale di funzionare. Il pensiero si modella sulla base delle necessità vitali: esso, perciò, non è un sistema chiuso in sé e regolato da leggi proprie. Peirce ammette l’evoluzione creatrice, come Bergson. Il pensiero non è che una funzione o una componente del processo creativo della natura (e nel quale è inserito lo svolgimento della storia). “Il pragmatismo è fin dall’inizio legato al realismo, al naturalismo, al relazioniamo organicistico e biologico” (p. 115). Per William James, “la verità non è un’idea isolata dal processo del mondo [ma] è il risultato di operazioni tecniche e pratiche che avvengono nel mondo” (p. 115). Il pensiero è funzionale al processo vitale e al suo ordinato svolgimento: esso riflette le situazioni problematiche per le quali vanno ipotizzate le soluzioni adatte. La verità è la conformità del pensiero e delle azioni conseguenti a queste istanze di sviluppo. “L’esperienza temporale è costituita di stimoli e di risposte: lo stimolo fa nascere la riflessione e provoca la risposta” (p. 115). Si tratta di un processo che non è configurato in senso deterministico, poiché ogni situazione problematica costituisce una gamma di scelte e di soluzioni possibili. “Il tempo – osserva James in Volontà di credere – è la forma della pluralità”. “La molteplicità nel processo garantisce ai singoli la libertà” (p. 115).190 In questo senso si spiega il carattere attivo dell’uomo, la cui funzione del mondo è, appunto, quella di concorrere con la sua opera al compimento dei processi temporali mediante i quali si viene compiendo il sistema del mondo. Il soggetto non è un ente definito nella sua natura, ma è un centro di attività. In tale situazione sono fondamentali le scelte operative dell’uomo: infatti attraverso di esse viene progettato il futuro. E in questo contesto una funzione importante è svolta dalla fiducia umana nella bontà delle scelte e dei processi pratici che vengono stabiliti. La costruzione di un mondo armonico dipende dalla responsabilità dell’uomo e principalmente dalla sua fede nell’armonia e nella bontà. Ferdinand C. S. Schiller è il rappresentante inglese del pragmatismo umanistico. L’uomo assume un posto centrale nel processo di svolgimento del processo di costituzione del mondo. L’intera realtà che si sviluppa e si compie a partire da esigenze progettuali gravita intorno all’attività umana. L’uomo esprime la fondamentale problematicità del reale e pensa ed agisce per rispondere alle domande e ai bisogno che urgono in esso. In questo senso ogni risposta è, a sua volta problematica, umana, finita: reca, cioè, il carattere dell’esistenza umana.191 Per il pragmatismo religioso di John Henry Newmann, ogni atto conoscitivo è un fatto pratico e implica l’adesione della volontà (dunque si configura come un fatto etico). In questo medesimo senso si è espresso Léon Ollé-Laprune. Ed è questo anche il punto di vista di Maurice Blondel nella sua celebre opera L’azione: saggio di una critica della vita e di una scienza della pratica, pubblicata nel 1893. Il Blondel muove dalla 190
“In Un universo pluralistico (1909) James concepisce Dio stesso come finito, e d’altra parte insiste sul fatto che l’universo non è mai compiuto, mai concluso: Dio e il mondo sono qualcosa che deve ancora compiersi” (pp. 115-116). 191 “La struttura della realtà temporale è quindi una struttura di bisogni che si esprimono nell’uomo, e l’uomo pensa ed agisce per rispondere alla negatività implicita nella struttura temporale. La posizione di Schiller segna teoreticamente la congiunzione tra naturalismo, pragmatismo ed esistenzialismo. La verità è pragmatica in quanto non è teorica, ma risponde e deve rispondere alla richiesta esistenziale inerente alla struttura temporale nella quale si radica l’uomo. La stessa logica formale viene considerata in rapporto alla sua funzione pragmatica e sociale. La verità di una proposizione logica è verificabile funzionalmente” (pp. 117-118). “Concetti, proposizioni e giudizi – scrive infatti Schiller in Logica formale come problema scientifico e sociale – sono funzioni pragmatiche”. La stessa matematica è valida in rapporto alla sua funzione nell’organizzazione dell’attività umana (si pensi oggi alle applicazioni delle matematiche specialistiche all’esplorazione della materia). “L’interpretazione pragmatistica e funzionalistica della matematica, contro il formalismo logico, è stata approfondita dal Ramsay, discepolo di Schiller, nei Fondamenti delle matematiche” (p. 118).
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constatazione della presenza dell’infinito nella volontà umana, la quale è aspirazione a oltrepassare ogni traguardo particolare, ogni orizzonte finito. Nell’atto della volontà, che si configura essenzialmente come “azione”, si dà un costitutivo trascendimento della condizione esistente. Questo trascendimento rimanda all’essere, all’infinito in cui appare inserita l’esistenza umana, che, in tal modo, si configura come una finitudine che aspira all’infinito. La dialettica della volontà e dell’azione si compie sulla base dell’inserzione dell’esistenza nell’infinità dell’essere. Il motivo della dialettica connessa alla presenza dell’infinito nell’esistenza umana è caratteristico del modernismo, il tentativo di adeguamento della dottrina della Chiesa alle istanze dei tempi moderni, condannato nell’enciclica “Pascendi” di Pio X. Per Lucien Laberthonnière la presenza della Trascendenza nell’esistenza umana si esprime, appunto, nella tensione all’infinito che anima la volontà. Un interessante tentativo di conciliare questo motivo dell’immanenza dell’infinito nell’esistenza col motivo bergsoniano dello “slancio vitale” (cioè dell’infinita tensione che anima il processo vitale e lo orienta verso traguardi di forme più complesse e perfette) e con le diverse forme di pragmatismo (filosofie dell’azione) è stato compiuto da Eduard Le Roy, il quale ha rivolto la sua attenzione verso i processi simbolici attraverso i quali troviamo espressa l’esperienza dell’infinito (che è principalmente esperienza religiosa). Interessanti motivi di convergenza tra storicismo, pragmatismo ed esistenzialismo si riscontrano in Miguel de Unamuno e in J. Ortega y Gasset, i quali hanno elaborato una filosofia dell’esistenza storica, mettendo in rilievo specialmente il dramma (rispecchiato nella figura di Don Chisciotte) dell’azione sempre inadeguata rispetto allo scopo perseguito, oppure il carattere fluido e relativo della struttura storica nella quale l’esistenza s’incardina. Hans Vaihinger nella sua Filosofia del come se (1911) ha teorizzato la “finzione” come strumento programmatico dell’azione in vista di scopi pratici. I concetti, in tale prospettiva, hanno un valore puramente pragmatico. In senso analogo i concetti scientifici erano considerati come strumenti pratici ed economici dal Mach e dall’Avenarius (oltre che dallo stesso Croce). In Italia sostenitori del pragmatismo scientifico sono stati il Vailati e il Calderoni, per i quali, appunto, in analogia a quanto sostenuto dal Peirce, il significato delle proposizioni scientifiche è rivelato “dall’esame delle conseguenze che se ne traggono e delle applicazioni”. Papini è giunto a teorizzare la fine della filosofia come teoresi (Il crepuscolo dei filosofi). Per Federico Enriques, soggetto e oggetto acquistano un significato particolare nell’ambito della ricerca scientifica, in quanto l’oggetto indica il prevedibile, ciò che si verifica in base a un’attesa prestabilita e in rapporto a parametri convenzionali. Annibale Pastore ha ipotizzato una logica dinamica, non più basata su categorie e principi statici e tale per cui la relazione tra gli enti si traduca in un potenziamento dell’altro. Il Moore nel saggio La confutazione dell’idealismo (1903) ha inteso affermare la realtà del mondo come indipendente dal pensiero. La polemica contro la risoluzione idealistica della realtà nel pensiero è approfondita dagli autori del volume Il nuovo realismo (1912), Soggetto e oggetto non sono le due facce di una medesima realtà, bensì sono due realtà distinte e separate. E così una realtà indipendente deve essere riconosciuta anche alle idee, che sono costruzioni del pensiero, ma che hanno una consistenza “fuori” del processo logico di cui sono il prodotto. In questo senso una certa realtà dovrebbe essere attribuita, ad esempio, all’isola perfetta citata nel celebre argomento ontologico di sant’Anselmo. I sostenitori del “realismo critico” (Saggi sul realismo critico, 1920) hanno inteso trovare una soluzione di tale difficoltà osservando che gli oggetti di cui siamo coscienti non sono direttamente gli oggetti materiali ma le loro rappresentazioni o idee, per cui si tratta sempre di tenere presente la distinzione tra l’essenza e l’esistenza e la relazione tra questi stessi termini. “Se l’esistenza è empirica ed è possibile un discorso sui dati empirici verificati dall’esperienza, e se il discorso logico è verificato, invece, dalle regole logiche con le quali è costruito, si porrà il problema del rapporto tra la verificazione logica e la verificazione empirica; sarà il problema fondamentale del neopositivismo” (p. 127). Un rappresentante del realismo critico è il Santayana, per il quale le essenze non sono reali e si tratta, pertanto, di verificare la loro incidenza sul piano dell’esistenza. “In conformità della concreta realtà dello spirito le essenze che appaiono nella nostra esperienza da un lato sono connesse all’esistenza materiale e
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dall’altro sono l’espressione di una possibilità non realizzata, ideale” (p. 129). “Santayana non dimentica mai il contrasto tra essenza ed esistenza e vede nella stessa natura la direzione verso l’essenza, senza naturalizzare l’essenza, l’ideale, il possibile, e senza idealizzare la natura o costruirla secondo una direzione predeterminata” (p. 129). “L’ultimo Santayana ci ha lasciato una seducente interpretazione del cristianesimo (specialmente nell’Idea di Cristo nei Vangeli, 1946). In realtà il problema della relazione fra esistenza ed essenza e tra realtà e possibilità è collegato per Santayana alla doppia natura, umana e divina, del Cristo” (pp. 129-30). Antonio Aliotta nel suo saggio La reazione idealistica contro la scienza (1912) ha inteso difendere il sistema le scienze nei confronti dell’idealismo. Bergson, Dewey, Whitehead. Simmel, nel suo Saggio su Bergson, del 1914, ha osservato che Bergson ha rivendicato il valore della concretezza temporale. “Nello schema della fisica – egli scrive – il tempo viene rappresentato logicamente, matematicamente, come se fosse indifferente che un punto si trovi prima o dopo. Invece nel tempo reale un punto è necessariamente prima e dopo un altro” (cit. p. 134). In realtà, Bergson ha messo in rilievo le diverse dimensioni del reale, in rapporto agli strumenti che mettiamo in atto per comprenderli. Come ha osservato il Mathieu nel suo Bergson: “In Bergson abbiamo una molteplicità di livelli di cui i più profondi contengono virtualmente, in modo via via più concentrato, ciò che ai livelli più superficiali appare in una forma oggettivata, articolata, fatta di parti esterne a parti, e abbiamo, grazie al carattere di attualità dinamica dei livelli più profondi, la possibilità di stabilire rapporti positivi tra questi e le forme superficiali” (cit. p. 135). Intelletto e intuizione, così, hanno funzioni conoscitive diverse, in rapporto ai livelli di realtà che sono presi di mira. Il motivo fondamentale della filosofia di Bergson è “il principio della vita che si autocrea nella realtà del tempo” (p. 137): il tempo stesso come sviluppo creativo. “L’anima di Bergson è l’anima della grande, incomparabile civiltà dell’impressionismo che, al tocco magico della memoria, disgela dall’interno ogni forma chiusa, libera il calore del senso, lo illumina della trasparenza del ritmo e lo esprime nel trionfo ‘aperto’, arioso, del colore. Ciò soprattutto se si pensa che per Bergson il processo vitale non è un essere ma una direzione e un compito che, come si è detto, tende a un valore” (p. 140). Il Mathieu ha notato che Bergson non ha respinto l’interpretazione del James della sua filosofia come antintellettualismo: e ciò perché Bergson intendeva per intellettualismo una comprensione statica del reale. La concezione del reale come processo indirizzato verso uno scopo è anche la caratteristica del pensiero del Dewey. Questo si caratterizza come una esplicita filosofia dell’azione e della scienza come strumento dell’azione significativa di valore. Qui appare predominante il problema del significato della scienza per l’attuazione storica e sociale dei valori umani. Questa concezione ispirava l’Enciclopedia della scienza unificata di Chicago, alla quale il Dewey collaborò e per il cui fascicolo introduttivo scrisse il saggio La scienza unificata come problema sociale.192 Si tratta di un “nuovo illuminismo” fondato sulla fiducia nella “possibilità di trasformare la condizione umana per mezzo della ragione e della scienza” (Visalberghi, cit. p. 142). Lo sviluppo della civiltà appare condizionato specialmente dalle possibilità di intervenire con la prassi scientifica nelle sfere della natura per modellarle in rapporto alle esigenze della maggiore felicità degli uomini. La storia è costituita in massima parte come la forma che via via assumono i rapporti dell’uomo con la natura. Questa forma modella l’esperienza storica complessiva, che comprende la consapevolezza degli obiettivi da raggiungere e il possesso degli strumenti adeguati (e dei modi di approntarli). Si stabilisce una unità organica all’interno dell’esperienza storica: e questa unità è espressa dai valori verso la cui attuazione è indirizzata la prassi. Dewey, come osserva il Visalberghi, ha elaborato una logica “naturalistica ed umanistica”: “per essa il pensiero è un prodotto dell’evoluzione, e non può essere inteso fuori della sua matrice biologica, ma è nello stesso tempo un fatto eminentemente collaborativi e sociale, un fatto di 192
Alla stesura di quel fascicolo collaborarono alcuni intellettuali di chiara fama: Carnai, Neurath, Russell, Bohr, Morris. Nel suo saggio il Dewey rilevava come l’unità della scienza consistesse principalmente nell’unità dell’atteggiamento scientifico come contributo alla realizzazione dei fini sociali, specialmente attraverso l’estensione dell’indagine scientifica ai più diversi campi della vita. Ciò che conta principalmente è la direzione etica impressa alla prassi scientifica.
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comunicazione umana che è impossibile considerare fuori della sua matrice culturale” (cit. p. 143). Il pensiero si sviluppa in rapporto ai problemi che emergono nell’esperienza: e i problemi s’impongono allorché gli equilibri esistenti entrano in crisi sotto la spinta di nuovi bisogni. Ogni problema reca in sé l’esigenza di una trasformazione della situazione storica in vista dell’attuazione di nuovi valori. La rottura di equilibri esistenti è conseguente alla natura stessa dell’uomo. L’uomo, per la sua essenziale problematicità e finitezza, è animato da una tensione continua, dall’impulso a realizzare forme d’esperienza nelle quali sia dispiegata più compiutamente la sua natura, siano più adeguatamente espresse le sue possibilità. “L’uomo è proprio il punto nel quale si esprime la rottura e in tal senso è un punto focale. La coscienza è l’espressione di una situazione di crisi esistenziale del processo: è l’espressione di un dubbio […], di un problema, di un bisogno, che richiedono soluzione” (p. 144). Perciò il futuro viene continuamente progettato e costruito, attraverso una dialettica che comprende la formulazione di ipotesi e la loro verifica pratica. La logica ha questa funzione: essa è una teoria di questi processi. Whitehead ha inteso mettere in rilievo la funzione della filosofia come teorizzazione generale che si pone in un rapporto di comprensione rispetto alle concrete e varie situazioni storiche. Il campo delle ipotesi prodotto dalla filosofia speculativa appare, pertanto, coerente a fondamentali principi logici e non dipende da dati dell’osservazione relativi alla realtà storica particolare.193 “La filosofia speculativa – scrive all’inizio di Processo e realtà (1929) – è lo sforzo di costituire un sistema coerente logico e necessario di idee generali nei cui termini si possa interpretare ogni elemento della nostra esperienza” (cit. p. 152). Essa è un mezzo per interpretare l’esperienza; e ciò vuol dire che “ogni cosa di cui siamo coscienti, voluta percepita goduta o pensata, si presenta come esempio concreto dello schema filosofico generale” (cit. p. 152). La filosofia è strumento per interpretare la realtà che rientra nell’orizzonte della nostra comprensione; e a differenza delle scienze particolari che sono interpretazioni di sfere determinate dell’esperienza (così la matematica, ad esempio, è interpretazione dell’ordine numerico dell’universo), essa dispone di schemi generali validi per ogni sfera empirica e per ogni aspetto dell’esperienza umana. In questo senso, la filosofia considera le stesse sfere dell’esperienza come in relazione le une con le altre e l’interpretazione riguarda appunto queste relazioni. Perciò la filosofia non può astrarre dall’unità complessiva dell’esperienza, non può considerare i concetti isolati e separati gli uni dagli altri: essa presuppone sempre che la realtà sia tale “che nessuna entità possa essere astratta in modo assoluto dal sistema dell’universo” (cit. p. 152). “Perciò la realtà non è la concretizzazione dei metodi e delle tecniche delle scienze particolari o dei vari campi; infatti i campi delle scienze presuppongono, per costituirsi, un taglio, una separazione, nella concretezza della realtà. Non bisogna dunque prendere un termine scientifico e considerarlo senz’altro come reale. Per esempio la ‘classe’ o la ‘relazione’ di cui parla la logica matematica sono concetti validi per la tecnica della logica matematica. Ma non si può parlare della realtà della relazione seguitando a pensare la relazione stessa come relazione logico-matematica. Lo stesso valga per il concetto di numero (ciò è stato molto ben chiarito da Whitehead nei Saggi sulla scienza e la filosofia, raccolti nel 1948, un anno dopo la morte). Si tratta della ‘concretezza mal posta’ che deve essere sostituita dalla concretezza ben posta e cioè dalla concretezza della realtà relazionata ed organica che viene colta dalla filosofia. Whitehead non crede, come Bergson, che la ragione non possa cogliere la realtà anche se concepisce la realtà come un processo vitale e confessa tutto ciò che deve, oltre che a James, allo stesso Bergson” (pp. 153-53). Alla base della comprensione logica, per cui l’universo appare come un universo ordinato di eventi, c’è, secondo Whitehead; la comprensione estetica, che è di carattere intuitivo e che riguarda l’ordine armonico (colto dal sentimento) dell’universo. Il linguaggio della filosofia conserva questo aspetto estetico della comprensione unitaria della realtà; anzi si può dire che alla base della comprensione logica c’è quella estetica (in analogia a quanto affermato dal Croce, che l’intuizione artistica è un presupposto per lo sviluppo della filosofia; oppure a quanto sostenuto dal Dilthey, per cui alla base di ogni processo conoscitivo c’è l’intuizione del flusso della vita, cioè attraverso quella comprensione fondamentale che è il riflesso del modo in cui la vita si fa esperienza originaria di se stessa). Whitehead insiste su questa forma di comprensione fondamentale che è di carattere intuitivo ed estetico e che riguarda l’ordine organico dell’universo, la relazione che passa attraverso tutte le cose e tutti gli eventi e fa di essi un sistema unitario. La percezione dell’unità dell’universo è l’evento fondamentale che sorregge l’intera 193
Whitehead è stato anche grande matematico ed è autore, insieme a Russell, dei Principia mathematica (1910-13).
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esperienza nella sua complessa articolazione. “Insisto – scrive in Scopi dell’educazione, del 1929 – sul radicale disordine e sul carattere disorganico dei vari campi di esperienza attuale dai quali parte la scienza” (cit. p. 154). La costruzione della filosofia speculativa è il necessario complemento dello sviluppo scientifico. Whitehead sostiene, pertanto, una stretta connessione tra il sistema delle scienze e la filosofia.194 “La mia convinzione – egli dice – è che questo mondo [quello descritto dalle scienze particolari] è un mondo di idee, che le sue interne relazioni sono relazioni tra concetti astratti, che il problema della chiarificazione della vera connessione tra questo mondo e il sentire dell’esperienza attuale è il problema fondamentale della filosofia della scienza” (cit. pp. 154-55). La fenomenologia. Husserl, Scheler, Hartmann. Husserl ha ereditato da Bernhard Bolzano l’idea di una verità autonomamente strutturata, indipendente da condizioni soggettive e psicologiche (relative alla costituzione dell’io pensante, della coscienza, e ai procedimenti operativi della mente umana). La dimensione della logica, cioè, non coincide con quella trascendentale o con quella psicologica ed è indipendente rispetto ad esse. In ciò consiste l’oggettività dei dati conoscitivi. La conoscenza razionale, cioè, per questo punto di vista, è basata sulle strutture della logica: di questo tipo è la conoscenza matematica. Di tale natura saranno le idee per Husserl: esse riguardano le essenze, il cui valore non consiste in una loro realtà o esistenza di fatto, bensì unicamente nella loro necessità logica. Tuttavia un legame unisce le essenze logiche al soggetto, all’io pensante: e questo legame è costituito dalla radicale e originaria attività dell’io pensante, che è l’intenzionalità. Husserl deriva questo concetto da Franz Brentano. L’intenzionalità logica fonda quegli oggetti che sono le essenze ideali. La natura di questi oggetti appare, pertanto, ambigua: da una parte essi assumono uno stato proprio, che è quello, appunto dell’oggettività ideale, d’altra parte essi dipendono dall’attività del soggetto (e da un particolare atteggiamento intenzionale del soggetto). Così avviene che nella Filosofia dell’aritmetica il numero è considerato come un oggetto ideale, fornito di realtà autonoma (indipendente dalle situazioni di fatto in cui esso compare) e che nelle Ricerche logiche è sostenuta l’indipendenza della sfera logica da quella psicologica. Ma Husserl sostiene anche le essenze ideali hanno bisogno di un rapporto con le situazioni reali che sono oggetto dell’intuizione (io non riuscirò a comprendere il significato del termine “due” se originariamente questo termine non è accompagnato dall’intuizione di due oggetti reali). L’intenzionalità logica consente di comprendere le essenze ideali (ad esempio, il numero due) senza la corrispondente intuizione. “E’ proprio questo il miracolo della coscienza: di porre, di immaginare, di proiettare qualcosa che non è reale, che non è psicologico, che non è naturale. […] La coscienza che proietta delle visioni è, in quanto proiettante, intenzionale. […] la filosofia sarà la scienza delle visioni essenziali e, come tale, sarà fenomenologia delle essenze, distaccate dalla struttura psicologica e naturale, proiettate nel possibile visto, immaginato, raffigurato, dunque, oltre l’esistenza data. Intenzionare significa ‘andare oltre’, vedere qualcosa oltre la realtà vissuta, vedere una possibilità, intuire nelle figure l’essenza e il senso del mondo” (p. 164). Le essenze ideali hanno la loro base nell’intenzionalità logica e la loro prerogativa è la loro possibilità di essere riempite da intuizioni (dall’intuizione di oggetti reali). Tale è la natura della filosofia, che è fondata interamente sull’intenzionalità logica e che tratta unicamente di “concetti”, cioè di oggetti ideali. “Soltanto nella visione di possibilità permanenti, di essenze chiare e distinte, la filosofia può essere una scienza rigorosa: l’essenza è ciò che dà obbiettività alla conoscenza. La conoscenza è fondata su essenze obbiettivamente valide. Fin tanto che non diventa fenomenologia, o scienza delle essenze, la filosofia non solo non ha valore, ma non può esistere come filosofia, come scienza dell’essenziale. Ora l’essenziale non è nel già fatto, in quella realtà che il naturalismo scientifico considera come compiuta e conclusa. Non è nemmeno nell’attività psicologica ma, caso mai, in ciò che viene intenzionato, visto, intuito come permanente nell’intenzionalità proiettante della coscienza. Alla fenomenologia interessa della coscienza solo ciò che la coscienza intenziona in quanto
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Si può dire che ci troviamo qui di fronte a uno dei più pregnanti e significativi esempi di connessione tra le scienze particolari e la filosofia. Spetta a quest’ultima il compito di cogliere il senso del sapere scientifico e di superare, in una visione unitaria dell’universo e della storia umana, le visioni settoriali proprie delle scienze positive.
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obbiettivo. Cogliere nell’attività della coscienza gli oggetti obbiettivati, le essenze, è compiere un’analisi fenomenologica” (pp. 164-65). “In tal modo – scrive Husserl ne La filosofia come scienza rigorosa (1910) – noi incontriamo una scienza, di cui i nostri contemporanei non si rappresentano ancora l’enorme estensione, che se è una scienza della coscienza non per questo è una psicologia ma è, invece, una fenomenologia della coscienza, che si contrappone ad una scienza naturale della coscienza” (cit. p. 165). La filosofia è descrizione delle essenze intenzionate come strutture logiche e ideali, che hanno una consistenza propria e indipendente dall’intuizione degli oggetti reali corrispondenti. La realtà ideale è l’oggetto proprio della filosofia: per la filosofia è irrilevante che un oggetto ideale abbia un’esistenza nel mondo naturale; ad essa interessa solo l’oggetto nella sua essenza ideale. Questa attività intenzionale che produce le essenze si staglia dal processo vitale della coscienza ed è connessa alla dimensione trascendentale della coscienza stessa.195 “La fenomenologia vuol essere una scienza descrittiva degli Erlebnisse trascendentalmente puri” (cit. p. 166).196 “La coscienza in quanto attività proiettante è trascendentale: essa si trascende verso le figure che vede e distacca da sé [le essenze], ma non si perde nella trascendenza delle figure: come attività proiettante è sempre presente, immanente, attuale” (p. 166). Questa attività della coscienza accompagna l’intero suo flusso vitale e, per essere colta, occorre che siano rimosse tutte quelle altre attività che concorrono alla costruzione del mondo oggettivo dell’opinione comune o della scienza. Occorre un processo di liberazione dai pregiudizi: perciò il mondo così come è comunemente inteso deve essere “messo tra parentesi”. Soltanto nella dinamica della coscienza (del soggetto) libera da operazioni di riflessione categoriale, da processi di concettualizzazione, noi riusciamo a cogliere la purezza dell’intenzionalità rivolta alla proiezione di essenze ideali, che siano il risultato di una condizione trascendentale “pura”. In particolare, Husserl intende mettere in guardia rispetto alle astrazioni scientifiche che ci offrono la rappresentazione di un mondo lontano e diverso da quello che costituisce l’oggetto della nostra percezione immediata. Il complesso mondo della nostra esperienza (che comprende intuizioni, emozioni, visioni, analogie simboliche, relazioni e connessioni) è filtrato dai pregiudizi correnti e ridotto ad una povertà e semplicità estrema. Rispetto a una tale condizione, si tratta di recuperare tutta la ricchezza della vita immediata e originaria della coscienza. Le scienze ci presentano un mondo di cose astratte e separate, considerate attraverso gli schemi concettuali che ne consentono la riduzione a processi regolati da leggi inflessibili. Così il nostro atteggiamento nei confronti della realtà è quello riduttivo che i pregiudizi comuni e la visione scientifica hanno determinato. “Per liberarsi da questo atteggiamento bisogna sospendere ogni giudizio, bisogna ritrovare la profonda vita intenzionale della coscienza e cioè la coscienza che è vita. La sospensione di ogni giudizio, l’epoché, è la negazione di ogni falsa realtà esatta e naturale, è il rifiuto di accettare un mondo falsificato, non originario, non autenticamente vissuto e percepito. E’ questo il vero e profondo significato dell’epoché fenomenologia. Essa è il vero e proprio annientamento del mondo separato, astratto, artificiale, ‘naturalistico’, già compiuto, in trascendibile, tale che non può più proiettare forme possibili oltre di sé e che non può più, quindi, vivere. Questo mondo deve essere negato, deve essere posto in dubbio con un dubbio ancora più radicale di quello cartesiano. Rimane allora il residuo fenomenoloigco, non negabile, non dubitabile: la coscienza della vita come intenzionalità, come un atto sempre presente di superamento di sé, come coscienza trascendentale. Dopo il dubbio a Cartesio restava il cogito; a Husserl resta la vita. Epochizzare è l’atto che conduce a ridurre fenomenologicamente tutto ciò che è astratto, a ridurlo alla vita e al suo oltrepassarsi innegabile, attuale, ultimo” (p. 168). Husserl intende recuperare le condizioni di un pensiero totale, che, prescindendo da ogni schematizzazione e collocandosi sul piano originario della vita della coscienza, dia le immagini del reale nella sua ricchezza e complessità.197 Si giunge, così, a cogliere nuclei di essenze relative ai determinati campi 195
La coscienza è trascendentale, in quanto si trascende ma rimane immanente (cfr. § 49 delle Idee). La citazione è dalla prima parte delle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologia (1913). 197 A questo proposito è, però, da osservare che la coscienza ha una dimensione storica e non può attingere mai una condizione atemporale, a suo modo “ideale”. La purificazione dagli “idola” di baconiana memoria ha sempre e comunque una portata storica, riferita a una determinata cultura e a una determinata visione del mondo. In questo senso, l’epoché husserliana potrebbe essere paragonata alla stessa operazione baconiana o all’emendazione dell’intelletto di Spinoza. Liberare la coscienza dalla sua dimensione storica appare, veramente, impossibile. Invece va attentamente considerata l’istanza husserliana di un atteggiamento critico nei riguardi della visione scientifica dell’universo e del recupero di una prospettiva multilaterale che, richiamando tutte le risorse dell’intelligenza, consenta di cogliere le 196
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intenzionali (ad esempio quelli relativi all’intuizione fantastica della natura): e tali nuclei costituiscono le strutture invarianti sulla cui base si configurano le molteplici figure relative alle essenze ideali. Lo studio degli invarianti è compito dell’ontologia. In definitiva, in tal modo si rimanda a forme tipiche dell’essere stesso. La fenomenologia si configura come ontologia. L’intenzionalità che ha la sua radice nel soggetto (considerato nella sua attività trascendentale), nell’io, rappresenta l’oggetto principale della filosofia come ontologia. Husserl considera l’io nella sua costituzione intersoggettiva e nella sua dimensione temporale. E’ perché vive nel tempo che l’io intenzionale produce le essenze ideali e dà luogo alle molteplici forme dell’oggettività. Husserl intende sottolineare il nesso inscindibile che lega il soggetto alle forme di manifestazione della realtà: e ciò evitando l’idealismo. Il problema della realtà in sé qui non ha senso. “L’idealismo, in realtà, è in Husserl il trascendersi della coscienza verso le essenze ideali: ma la coscienza husserliana è vita ed esperienza temporale. Nella Logica formale e trascendentale (1929) si dice chiaramente che l’intenzionalità è intenzionalità dell’esperienza vivente. L’intenzionalità dell’esperienza è il senso del tempo, la sua direzione verso una forma possibile, più organica […]. C’è dunque una possibile forma finale, una direzione verso un’essenza che ha un valore, una direzione teleologica verso una possibile più organica relazione. E’ questa relazione più organica, che indica il senso teleologico del processo della vita, quella che dà un significato, in quanto intuita e vista come mèta, ai termini della relazione che nel tempo si svolge cercando di raggiungere un ideale trascendentale, un’idea limite nel senso kantiano” (p. 173). “Le essenze formano un mondo di relazioni organiche che non è mai conquistato una volta per sempre ma che si pone come meta ideale” (p. 173). Ogni sfera dell’esperienza costituisce un “campo regionale”, determinato da un tipo specifico di intenzionalità (per cui sono prodotti determinati oggetti o essenze ideali). Il compito della filosofia è quello di raggiungere una visione unitaria di tutte le sfere particolari, nel tentativo di dare luogo a un’ontologia generale, di realizzare l’ideale di un “sistema di tutte le ontologie”. “Questa ontologia intenzionale possibile è quella che dà un senso all’essere: è il problema che Heidegger avrebbe dovuto risolvere nella seconda parte di Essere e tempo a che in realtà non ha mai risolto proprio per un’iniziale incomprensione del punto di vista di Husserl. L’ontologia non è per Husserl un fatto compiuto ma una direzione del sapere e della vita che si trascende sempre verso nuovi orizzonti: è soprattutto in questo senso che la fenomenologia è trascendentale. Essa supera sempre ogni dato già realizzato, ogni mondo degli oggetti compiuti, ogni capo concluso e particolare, per aprirsi verso un senso intenzionato e organicamente intuito di tutta la realtà” (p. 174). In questo senso, l’intenzionalità è creazione continua che muove dalla vita della coscienza storica. Essa, al di là delle singole sfere nel cui ambito produce determinati tipi di essenze significative, abbraccia l’intero mondo dell’esperienza, si può dire la totalità dell’essere. Qui l’essere è essenzialmente possibilità, apertura, rivelazione, manifestazione della verità. L’unità organica delle intenzionalità e delle regioni ideali costituisce, così, a sua volta, un ideale, che è anche la progressiva e mai raggiunta conquista del senso del mondo. Una particolare unificazione può essere data dall’idea generale della natura; così come un altro esempio può essere costituito dall’idea generale della storia. L’intenzionalità mette in discusse le essenze già poste, per porne altre, nell’ambito generale della ricerca del senso unitario della vita. La filosofia ha il compito di seguire questo processo, dando una forma concettuale alle essenze che emergono via via nel corso dell’esperienza. Ne La crisi delle scienze europee Husserl critica l’assestamento della cultura europea su forme statiche di comprensione del mondo, con la costituzione di un sistema rigido di scienze esatte. In questo modo, la civiltà europea si precluderebbe l’apertura verso nuovi orizzonti di senso, cioè lo stesso cammino dell’uomo verso la realizzazione della propria natura (o essenza). “La scienza volendo tutto ridurre a dato di fatto o a puro discorso formale impedisce l’intenzionalità, la visione filosofica. Si illude che il significato sia nel dato o nella vuota forma del discorso mentre il significato è sempre davanti a noi, nel fine verso il quale la storia si trascende e verso il quale la storia tende. L’intenzionalità è apertura alla possibilità di un senso teleologico della storia” (p. 180). La filosofia si costituisce in tale situazione culturale come “presa di coscienza teleologico-storica applicata alle origini della molteplici dimensioni del reale e di realizzare ed esprimere le forme più varie e complesse di esperienza. Ha ragione, in questo senso, Husserl quando si riferisce all’abbattimento di ogni confine tra passato, presente e futuro nella proiezione intenzionale delle essenze, anche se risulta impossibile raggiungere una condizione atemporale della coscienza. In realtà, in qualche modo sempre la coscienza si proietta verso il futuro e compie uno sforzo per ri-presentarsi le figure dell’esperienza passata (cfr. le Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo, 1928).
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situazione di crisi nella quale ci troviamo nelle scienze e nella filosofia stessa” (cit. p. 181). Husserl intende lottare per il recupero della funzione “trascendentale” della filosofia, per la riscoperta del senso della storia come compito umano. Egli denuncia l’alienazione della cultura su un piano astratto dal vivo processo intenzionale creatore di senso storico. “Il compito della filosofia è quello di riconoscere alla scienza e alla tecnica la loro funzione ma anche quello di liberare la storia dalla feticizzazione della scienza e della tecnica” (p. 183). Max Scheler ha fondato una fenomenologia come filosofia dei valori, intendendo, appunto, l’intenzionalità come l’attività intuitiva ed emotiva della coscienza che proietta la sua vita in figure ideali che rappresentano valori. La fondamentale vita e attività della coscienza riguarda la costituzione del mondo morale, il quale, pertanto, nella sua struttura a priori, non consiste in un formalismo puro (alla maniera kantiana), bensì si configura concretamente in una sfera emozionale dotata di senso. Nel saggio Formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori (1916), Scheler osserva che c’è “un’eterna e assoluta legittimità dei sentimenti, assoluta come la logica pura, ma non riducibile in nessun modo alla legittimità tipica della attività intellettuale” (cit. p. 184). “Scheler scopre che il sentimento è raffigurabile, può avere delle intuizioni, delle visioni delle essenze: è in quanto vede che è puro. Ciò che il sentimento vede sono le essenze come valori” (p. 184). I valori sono, dunque, oggetto di un’intuizione fondamentale in cui si esprime la vita intenzionale della coscienza. Il soggetto, in quanto vive in stretta relazione col mondo, sente la vita stessa e il mondo secondo modalità positive o negative che si riconducono, in ultima analisi, ai sentimenti dell’amore e dell’odio. La vita intenzionale, che ha la sua radice nel trascendimento della coscienza, si esprime in figure ideali che rappresentano le modalità e le articolazioni più varie di questi sentimenti. In Essenza e forme della simpatia, il filosofo analizza queste diverse forma in cui viene a configurarsi (e a prendere corpo) il sentimento come intuizione prelogica dei valori che orientano l’atteggiamento vitale. La persona umana, il soggetto dell’attività intenzionale, compendia in unità vivente il sentire, il volere e il conoscere. Ne L’eterno nell’uomo (1921) Scheler osserva che Dio compendia tutti i soggetti possibili, rappresenta la soggettività (che fonda l’universo dei valori) “in una pienezza esistenziale infinita”. Nell’Intuizione filosofica del mondo (1928), Dio è visto come l’espressione dell’unità organica e significativa del mondo dei valori. “La mia etica – scrive Scheler – insegna la co-responsabilità fondamentale di ogni persona e concerne la totalità di tutti i regni delle persone (principio di solidarietà). La persona, alla quale viene attribuita la pienezza del valore morale, non è affatto la persona isolata, ma quella che si sa fin dall’inizio legata a Dio, che si sente orientata verso il mondo dell’amore e solidariamente unita alla totalità dello spirito del mondo e dell’umanità” (cit. pp. 186-87). “La persona non deve tuttavia annullarsi in relazioni precostituite e già determinate: la sua funzione è proprio quella di intenzionare nuove e più organiche relazioni, nuovi valori verso i quali deve innalzare se stessa e il mondo degli altri” (p. 187). In Le forme del sapere e la società (1926) Scheler analizza “l’ordine dei fattori di causalità che agiscono nella storia, fattori reali e fattori ideali, e il divenire delle strutture organiche specifiche dell’uomo storico”. Il mondo dei valori nella sua organicità si esprime nella comunità dei soggetti che agiscono solidariamente. “La filosofia della percezione di Scheler è l’inserzione concreta dell’uomo nel mondo che deve essere trasformato per attuare la possibilità del valore” (p. 187). Nicolai Hartmann nella sua Etica ha reagito al sostanziale “idealismo” di Husserl. Fin dai Principi di una metafisica della conoscenza (1921) egli ha richiamato l’attenzione sulla necessità di dar luogo a una metafisica che consentisse il recupero della dimensione “reale” dell’essere. In questo senso egli affermava la necessità di andare oltre il piano eidetico della fenomenologia e di considerare l’essere che è sempre “trascendente” rispetto alla coscienza. La metafisica riguarda il piano del reale che si pone come trascendente e che rimane al di là dello stesso mondo intelligibile. Il reale che è oggetto della metafisica è transintelligibile. “Il piano metafisico è il piano dei problemi e delle domande, […] che possono restare insolubili e privi di risposta” (p. 188). “Le domande - osserva Hartmann nella Filosofia sistematica (1931) – si impongono senza alcun riguardo alla loro solubilità o insolubilità. Se vengono respinte ritornano sotto altra forma. Non lasciano tregua all’uomo. Egli non vi si può sottrarre a suo piacere”. “Si tratta in ultima analisi pur sempre dell’enigma del mondo, e cioè di come esso esiste. Questa enigmaticità non è creata dall’uomo, né può essere tolta da lui. Il mondo così com’è l’uomo non lo può trasformare, deve accettarlo come gli si offre” (cit. p. 188). La condizione metafisica è questa essenziale problematicità del reale, riguarda il reale stesso come problema. Questa dimensione non è assolutamente risolvibile sul piano del pensiero. L’idealismo viene confutato
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mediante questo argomento: che si dà una problematicità irriducibile, che il reale è inintelligibile nella sua essenza. La comprensione del reale comprende momenti che non portano alla risoluzione dei problemi. Questi momenti sono la fenomenologia, l’aporetica e la teoria; e la teoria “non è che una pura trattazione dei fenomeni e deve compiersi sulla base di quello che si è trovato nei fenomeni” (cit. p. 189). “La struttura metafisica è dunque insuperabile: come problema, come richiesta di soluzione, come condizionamento di fatto, come non traducibilità dell’aporetico nel teorico, è presente in ogni trattazione, in ogni sistema” (p. 189). La metafisica è sorta con l’avvertimento della radice o del principio delle cose come problema, intorno al quale sono state formulate le più varie ipotesi, nella consapevolezza di una sua radicale insolubilità. Essa non dà risposte ma accerta il problema: è la coscienza del reale come enigma, dell’esistenza stessa come problema. La teoria è il tentativo di rispondere alla domanda metafisica: essa non supera la domanda, non risponde ad essa. La fenomenologia è la descrizione delle figure sensibili nelle quale appare il reale; la teoria, quindi, si pone come la “visione” delle essenze (di husserliana memoria): ma tale visione on realtà “nasconde” l’essere (per usare una immagine heideggeriana). “A questo punto possiamo chiederci: qual è, per Hartmann, e in che misura c’è, o non c’è, la risposta al problema ‘che cosa è l’essere?’. La risposta può essere tentata attraverso la teoria in quanto visione, ma non in quanto risoluzione, del problema dell’essere. Così considerata la teoria diventa ontologia. Ma deve risultare chiaramente che per Hartmann l’ontologia non è la metafisica. Infatti l’ontologia non può risolvere in sé la metafisica: se così fosse non sarebbe più una teoria (o una visione) ma l’annullamento della domanda sull’essere e quindi la negazione della metafisica. Oppure sarebbe la vecchia metafisica, e cioè la metafisica come risposta definitiva e quindi come risoluzione del problema della conoscenza, il che significherebbe, ancora una volta, per Hartmann, ricadere nell’idealismo” (p. 191). Hartmann pensa di potere “determinare il piano ontologico della metafisica senza ridurre la metafisica ad ontologia” (p. 192). L’ontologia, egli osserva, presuppone diversi strati dell’essere, corrispondenti a diverse modalità di porre il problema stesso dell’essere e di trovare le relative soluzioni ipotetiche. E ciò non è altro che un modo di manifestarsi della metafisica. Se l’ontologia propone soluzioni possibili del problema dell’essere, tali soluzioni non soddisfano la domanda metafisica. In questo senso l’ontologia traduce le modalità secondo cui l’esistenza è più o meno diretta verso l’essenza. Essa, cioè, esprime e rappresenta lo stesso processo di trascendimento dell’esistenza. Ma questo processo è legato al carattere irrevocabile del tempo. “L’irrevocabilità, o l’rreversibilità temporale dell’esistenza, deve essere considerata la scoperta filosofica fondamentale di Hartmann” (p. 195). “L’uomo – osserva Hartmann nell’Etica – vive situazioni, subisce il proprio destino, deve sopportarlo. Questo sperimentare, vivere, subire, sopportare, costituisce veramente la sua forma d’essere dentro la corrente degli eventi. Ma egli esperimenta gli eventi in modo diverso dal conoscere; li esperimenta nella loro irrevocabilità” (cit. p. 195). In tale situazione l’uomo lotta per trasformare la realtà, per realizzare i valori morali: ma egli deve pur sempre tenere presente che il mondo è una realtà enigmatica, sostanzialmente immutabile e irriducibile al progetto dell’esistenza. Intorno a questa problematica, che riguarda il rapporto tra l’impenetrabile struttura metafisica del reale e la tendenza dell’uomo ad agire in un mondo intelligibile, vertono le opere Possibilità e realtà (1938), Il problema dell’essere spirituale (1931), Filosofia della natura (1950), Estetica (scritta nel 1945 ma pubblicata postuma nel 1953). In quest’ultima opera Hartmann cerca di riconoscere nella situazione problematica attestata dalla metafisica una fondamentale tensione verso l’attuazione di un significato (di valori significativi). L’esistenzialismo. L’ontologia. Due motivi husserliani sono fondamentali nella fondazione dell’esistenzialismo: l’idea del “mondo della vita” come situazione temporale e orizzonte complesso e dinamico dell’esistenza; l’idea della filosofia come teleologia, tensione progettuale, ricerca del senso dell’essere attraverso l’idea unitaria del mondo (unificazione di tutte le ontologie particolari). “Il problema fondamentale dell’esistenzialismo è quello della relazione tra l’esistenza e l’unità dell’essere” (p. 198). Il nesso tra l’essere e l’esistenza è il nucleo fondamentale della riflessione di Heidegger. L’essere si manifesta nell’esistenza: l’esistenza appare come quel piano problematico che Hartmann indicava come proprio dell’essere. Il problema dell’essere è l’esistenza medesima. Heidegger concepisce qualcosa come “un essere originario che ha bisogno, per
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diventare cosciente di sé come essere, del mondo, della storia e dell’umanità” (p. 203). “L’uomo è lo strumento di cui l’essere si serve per diventare consapevole di sé. L’uomo soltanto, infatti, può porsi la domanda fondamentale che risuona in tutti gli scritti di Heidegger:198 ‘Perché c’è l’essente piuttosto che il nulla?’” (p. 203). L’essere come domanda radicale intorno a se stesso si radica nell’esistenza umana e attraversa il mondo e la storia. L’intera esistenza umana è atteggiata da tale domanda. Mentre per Heidegger l’essere come problema impone la ricerca di vie inedite di pensiero, per Jaspers conduce al silenzio, cioè al naufragio del discorso filosofico e all’idea della ragione come via della verità. La metafisica è questo naufragio del pensiero, che è attestazione della trascendenza dell’essere. Per Marcel l’essere è essenzialmente piano e sfera di unificazione delle esistenze (per cui ogni ente è un modo di partecipare all’unità dell’essere).199 Altre forme di esistenzialismo spiritualistico sono quelle di René le Senne200 e di Louis Lavelle.201 Forme di esistenzialismo religioso sono quelle di Lev Scestov,202 Nicolaj Berdjaev,203 Karl Barth.204 Enrico Castelli ha denunciato la perdita del problema stesso dell’essere nella filosofia moderna (Il tempo esaurito, 1947). Il tentativo più notevole di elaborare un esistenzialismo positivo è quello di Nicola Abbagnano.205 Neopositivismo. Filosofia della percezione. Nei Principi di matematica (1903), Russell afferma che “la matematica e la logica sono identiche”. A questa tesi si opponevano sia i formalisti (capeggiati da Hilbert) sia gli intuizionisti (capeggiati da Brouwer). Russell, contro il formalismo, afferma la possibilità di applicare la matematica al mondo empirico. Il problema filosofico riguardava la relazione tra la logica e l’esperienza. E la problematicità di questa relazione emergeva una volta che la logica non si poneva più come scienza dei rapporti tra soggetto e predicati (che presupponeva una metafisica della sostanza e delle sue qualità), bensì come scienza delle pure relazioni logiche. Ma, allora, in che consistono queste relazioni? Per i formalisti (Frege, Dedekind, Boole, Schröder, Peano) la logica comprende gruppi di assiomi convenzionali che non hanno nessun riscontro nella realtà o nell’esperienza. Russell intendeva accettare questo principio, ma non intendeva per questo rinunciare al riscontro nella realtà (sia ideale che empirica). Egli ereditava la tradizione realistica ed empiristica della filosofia inglese. In questo senso si pone il problema del rapporto tra entità formali o ideali e dati empirici; ma questo rapporto implica l’intervento dell’intuizione (e in questo caso gli enti matematici, come i numeri, avrebbero un po’ il ruolo che hanno gli schemi trascendentali di Kant, concorrerebbero, cioè, a riempire di contenuti le strutture formali). Questa problematica richiama quella husserliana della intuizione delle essenze e delle relazioni logiche. “La non accettazione da parte di Russell del formalismo indica la consapevolezza di una serie di problemi che non verranno affatto risolti dallo sviluppo che la filosofia legata alla nuova logica avrà, attraverso Wittgenstein, nel neopositivismo. Le preoccupazioni di Russell intorno alla ‘realtà’ sono di natura filosofica. L’interessante tentativo del neopositivismo (o empirismo logico, come meglio dovrebbe essere detto), sarà di risolverli con un taglio del nodo gordiano e cioè con la negazione della filosofia. Il realismo di Russell non è che la resistenza a questa conclusione, resistenza che si esprime anche come polemica contro l’analisi del linguaggio” (p. 237). Russell ha tentato una soluzione ipotizzando 198
Che cos’è la metafisica? (1929), Sull’essenza del fondamento (1929), Introduzione alla metafisica (1935). Di Gabriel Marcel: Diario metafisico (1927), Essere e avere (1935), Homo viator (1945), Dal rifiuto all’invocazione (1940), Il mistero dell’essere (1951). 200 Ostacolo e valore (1934). 201 Dell’essere (1927), Dell’atto (1937), Del tempo e dell’eternità (1945). 202 Per Scestov il peccato di Adamo è la “libido sciendi”, la filosofia. 203 Il destino dell’uomo nel mondo contemporaneo (1936), Cinque meditazioni sull’esistenza (1936). Il peccato originale è l’asservimento dell’uomo all’astrazione logica e alla tecnica (che uccidono la libertà). 204 Per Barth, solo Cristo come parola coincide con l’essere (Lettera ai Romani). 205 La struttura dell’esistenza (1939), Introduzione all’esistenzialismo (1942), Esistenzialismo positivo (1948), Filosofia, religione e scienza (1947), Possibilità e libertà (1956). 199
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una gradualità nelle relazioni logiche, per cui, per evitare il rimando all’infinito dei nessi relazionali (nel senso che in ogni relazione si trova ancora una relazione), si pongono “dati atomici”, proposizioni che non esprimono relazioni. Russell finisce per ipotizzare una realtà che risulta dalla molteplicità dei dati empirici. La logica delle relazioni si applica a questa realtà per sé irrelazionata e atomica. I dati empirici danno luogo a una serie interrelazionale di processi. In Analisi della materia (1921) il dato reale è considerato come un intreccio di eventi e di prospettive. In La conoscenza umana, il suo scopo e i suoi limiti (1948) viene sviluppata un’interpretazione processuale del principio di causa. “La filosofia di La conoscenza umana è decisamente antisostanzialistica: la sostanza si risolve in un gruppo di eventi simili che, in certe condizioni, si dispongono come processi genetici ed organici. La relazione permanenza-emergenza permette una concezione della realtà come processo spazio-temporale relativistico (in senso einsteiniano), antidealistico (perché la realtà non è ridotta alla percezione della realtà) e probabilistico. Relativismo e probabilismo rendono possibile una prospettiva filosofica nella quale le ‘realtà’ si risolvono in serie interrelazionate di processi. In questa realtà probabilistica si inserisce l’attività scientifica umana. L’atomismo iniziale è superato in una sintesi che spiega l’utilità e la funzione del formalismo logico, senza rinunziare alla filosofia, e l’esistenza concreta senza ridurla ad un pensare o ad un operare del soggetto” (p. 239). Le classi corrispondono a forme determinate della interrelazione fra dati elementari. Una corrispondenza viene riscontrata tra la struttura dei fatti e la struttura logica del linguaggio. Nella Sintesi filosofica (1927) Russell così sintetizza il significato della sua riflessione: “La filosofia dovrebbe farci conoscere gli scopi della vita e gli elementi della vita che hanno valore di per se stessi. Amore, bellezza, conoscenza e gioia di vivere: queste cose contengono il loro luminoso fascino per quanto si allarghi il nostro orizzonte. E se la filosofia può aiutarci a sentire il valore di queste cose, essa avrà rappresentato la sua parte nel compito dell’uomo di portare luce in un mondo di oscurità” (cit. p. 242). L’empirismo logico (neopositivismo) è sorto nel 1928 con la costituzione del “Circolo di Vienna”. Le tesi principali di questa corrente sono riassunte da Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (1921): 1) Il mondo (il reale) è costituito dalla totalità dei fatti. 2) I fatti sono principalmente semplici (“fatti atomici”). 3) Il pensiero è la rappresentazione logica dei fatti (rappresentazione speculare del mondo). E’ da osservare che i fatti di cui qui si parla non sono quelli riscontrabili nell’esperienza ma sono il risultato (ipotetico) dell’analisi per opera del pensiero, cioè di un’operazione che si compie al livello della rappresentazione. Wittgenstein non tiene conto dell’esigenza che il pensiero sia rispecchiamento delle condizioni d’esistenza concreta. “Il fatto che Wittgenstein concepisca il mondo come totalità di fatti atomici, e cioè in modo tale da poter essere adoperato dalla logica, può essere un procedimento utile per la logica e per la scienza (per quanto non si possa dire che debba essere l’unico) ma tale procedimento non può venir trasformato in una teoria filosofica dell’esperienza” (p. 244). Per Wittgenstein, gli enunciati molecolari sono funzioni di verità di enunciati atomici e come connessione di enunciati il discorso è logicamente verificabile. Il discorso significativo è quello che si riferisce ai fatti; se non ha riscontro nei fatti e si risolve nella sua pura struttura logica, esso è meramente tautologico (costituito da proposizioni prive di significato, poiché ciò che ha significato è riferito ai fatti). Tautologiche sono, pertanto, le proposizioni metafisiche, in quanto esse non hanno un campo reale di riferimento e sono pure costruzioni logiche. Wittgenstein deve ammettere, infine, che anche il discorso che egli conduce sugli enunciati è di tipo metafisico, in quanto non ha la realtà empirica come suo campo di riferimento (e di termine per la sua verificazione). E la conclusione che egli trae è che “di tutto ciò di cui non si può parlare si deve tacere”: ovvero che il discorso filosofico è di per sé contraddittorio e che propriamente al suo posto dovrebbe aversi il silenzio. “In conclusione Wittgenstein presuppone un concetto artificiale dell’esperienza, non compie l’epoché, direbbe Husserl, e perciò non trova la Lebenswelt. Dimentica il problema dell’intuizione e dello schematismo trascendentale. Non tien conto della logica filosofica e della dialettica della ragione. La polemica contro la filosofia si trasforma, infine, nell’affermazione della mistica. Ora, nonostante tutti i tentativi, l’empirismo logico non riuscirà a superare l’impostazione di Wittgenstein. Il problema della relazione tra l’esperienza e la logica non può essere risolto senza tener presente l’intuizione, senza l’intenzionalità e il significato studiati da Husserl” (pp. 245-46). L’ampio “arco del lavoro di Carnai” (esteso a opere di carattere più strettamente filosofico e a opere di filosofia del linguaggio e di epistemologia) “è segnato non solo dal rifiuto della filosofia e della metafisica e
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dell’ideale della scienza unificata in senso fisicalistico, ma anche, sempre di più, dal problema della probabilità e della modalità” (p. 250).206 V. O. Quine nel suo saggio Da un punto di vista logico (1953, tradotto col titolo Il problema del significato, 1966) riconduce a questi due “dogmi” la ragione della crisi dell’empirismo logico: “1) una presunta discriminazione fra verità che sarebbero analitiche per il fatto di basarsi sul significato dei termini e non sui dati di fatto, e verità che sarebbero sintetiche perché si fonderebbero su dati di fatto; 2) la tesi per cui tutte le proposizioni significanti sarebbero equivalenti a certi costrutti logici dei termini in relazione diretta con l’esperienza immediata, e cioè il riduzionismo” (cit. p. 251). Charles Morris ha dato un esempio della fusione del neopositivismo col pragmatismo americano. Ne la Fondazione della teoria dei segni (1938), egli così sintetizza l’oggetto della scienza fondamentale che identifica con la semiotica: “E’ possibile includere senza residui lo studio della scienza in quello del suo linguaggio in quanto lo studio del linguaggio riguarda non soltanto la sua forma ma anche il rapporto del linguaggio con gli oggetti designati e con le persone che lo usano” (cit. p. 252). Lo studio dei linguaggi formalizzati delle scienze è la sintattica; quello dei rapporti tra il linguaggio e gli oggetti designati è la semantica; quello dei rapporti tra il linguaggio e i soggetti che lo usano è la pragmatica. Nella filosofia analitica di Oxford l’analisi è condotta non già sui linguaggi formalizzati (scientifici) ma sul linguaggio comune e quotidiano. In questo senso si pone un rapporto non esplicito con le tematiche del “mondo della vita” e di altri ambiti fenomenologici. Questo motivo è presente nell’opera di Gilbert Ryle, Il concetto della mente (1949). Sartre e Merleau-Ponty La filosofia di Jean Paul Sartre si qualifica come una fenomenologia, rivolta specialmente all’analisi dei processi della trascendenza all’interno del soggetto (o della coscienza). Ne L’essere e il nulla. Saggio di un’ontologia fenomenologia (1943), l’opera più famosa, seguita agli studi La trascendenza dell’Ego. Schizzo di una descrizione fenomenologia (1936), L’immaginazione (1936) e L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione (1940), il concetto del nulla è derivato dalla funzione “irrealizzante” della coscienza. Sartre dimostra come l’immaginazione costituisce la via principale per la quale la coscienza viene via via erodendo la compattezza dell’essere, per sostituire al reale forme possibili d’esistenza. L’esistenza è, in questo senso, un prodotto dell’immaginazione, che rappresenta il processo principale di trascendimento della coscienza. Questo processo si configura come progressiva nullificazione dell’essere. Il pensiero, che sarebbe rivolto all’accertamento dell’essere dato, si proietta nell’immagine, venendo così coinvolto nel trascendimento verso una visione possibile che si colloca al posto dell’oggetto costituito. La vita della coscienza coincide con questo processo che ha il suo strumento principale nell’immaginazione e che si configura come un continuo trascendere l’oggetto verso una possibilità sempre nuova. Il mondo come oggetto viene continuamente negato e nullificato: il reale si presenta, così, come esistenza possibile, che l’immaginazione richiama a una forma che, tuttavia, è sempre la sede del trascendimento. “La libertà emerge dalla negazione del dato e l’uomo è progetto in quanto si proietta nell’immagine. Posto, ne L’essere e il nulla, un assoluto come l’in sé, l’essere di questo assoluto si nega. L’essere si trascende per essere. Per trascendersi deve negarsi, far entrare in sé il nulla. Questo nulla dell’essere fa emergere il per sé, il soggetto, l’uomo che si presenta come progetto e che in sé continuamente rinnova il nulla dell’essere. Come tale l’uomo è storico. Il nulla non è in lui il nulla in generale ma la negazione di una situazione per superarla: ‘Il per sé non è il nulla in generale ma la privazione di un dato essere che è qui’. L’essere non è più chiuso ma diventa un apparire, un fenomeno” (p. 254). Ecco il processo attraverso il quale si compie l’esistenza stessa come nientificazione dell’essere attraverso l’attività della coscienza. Qui il nesso della coscienza e dell’essere (il nesso ontologico) si presenta 206
Ne La costruzione logica del mondo (1928) Carnai tratta dell’esperienza come flusso di dati vissuti e fa riferimento all’intenzionalità e al significato in termini husserliani. Nella Sintassi logica del linguaggio (1934) fonda il convenzionalismo linguistico su quello che egli chiama il “principio di tolleranza”. Altre opere: Significato e necessità (1947), Semantica e filosofia del linguaggio (1952), I fondamenti logici della fisica (1960), Studi sulla logica induttiva e la probabilità (1971).
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come un’attività fondamentale che produce l’esistenza. Sartre dà luogo a una forma di esistenzialismo umanistico, incentrato sui processi originari attraverso i quali il soggetto umano viene costruendo il suo mondo negando la realtà di un essere dato. L’esistenza è la sostituzione dell’essere possibile all’essere in sé, configurato come necessario. Essa, in questo senso, è la produzione dell’agire libero, della stessa libertà. La costruzione del mondo è un compito per l’uomo. L’analisi che Sartre conduce dell’esistenza, come condizione isolata dell’individuo che non riesce a trovare un senso alla sua continua ricerca e non supera la radicale problematicità nella quale è inserito, in realtà intende essere un invito all’impegno per la costruzione di una forma di esistenza aperta alla comunicazione e alla società. Personalmente egli ha espresso questo impegno sia nella sua molteplice opera letteraria che nei comportamenti politici di appoggio ai movimenti rivoluzionari contro le contraddizioni del mondo borghese. “In realtà in Sartre si fondono marxismo, esistenzialismo e fenomenologia. Il marxismo non deve essere già fatto e già totalizzato, ma deve essere sempre aperto e in corso di totalizzazione. E’ dialettica non conclusa, una dialettica che si sta facendo. La ragione è una ragione che si muove nella realtà storica: non è quella positivistica delle scienze naturali, così come non è analitica: studia gli uomini, i gruppi di uomini, gli insiemi pratici” (p. 256). La filosofia ha senso in quanto è l’espressione di una prassi come totalità dell’esistenza stessa, situazione e progetto degli uomini e dei gruppi sociali. L’analisi rivolta allo studio della dialettica della società (Critica della ragione dialettica, 1960) procede a indagare le condizioni che stanno alla radice dei fatti (e perciò è regressiva), per individuare le autentiche possibilità verso cui tende la carica progettuale che è in essi (dunque è progressiva e riguarda, in particolare, i fatti che recano in sé una tensione rivoluzionaria).207 Sartre è particolarmente attento ai processi di trasformazione che recano in sé la tensione dialettica verso il superamento di situazioni di alienazione e di contraddizione. E la “ragione dialettica” ha specialmente la funzione di dar luogo a una comprensione totale, tale da includere gli orizzonti possibili dell’esistenza. “L’uomo si definisce per il suo progetto”, egli afferma. Nella filosofia di Sartre, perciò, un notevole posto è occupato dall’interpretazione del marxismo. Marx ha messo in rilievo la dialettica connessa all’attività produttiva. Questa dialettica si configura sulla base del rapporto originario tra l’uomo e la natura, tra l’“inerzia” della condizione naturale e la libertà umana. Se, attraverso il lavoro, l’uomo tende a vincere l’inerzia della natura (che si esprime nella serie dei “bisogni”), attraverso i rapporti sociali quell’inerzia finisce per coinvolgere e riguardare gli stessi uomini. Si determina, infatti, l’alienazione, studiata da Marx. Sartre interpreta le situazioni sociali caratterizzate dall’alienazione come situazioni sostanzialmente “inerti” (e che, perciò, esigono una spinta al loro interno e la conseguente produzione di fatti rivoluzionari).208 La filosofia di Merleau-Ponty è particolarmente influenzata dalla psicologia della forma, oltre che dalla fenomenologia. Ne La struttura del comportamento (1942) si rileva come il comportamento umano, basato sulla 207
Sono significativi, ad esempio, alcuni episodi di protesta da parte di gruppi o di singoli. Ecco la sintesi del Paci sulla dialettica della “prassi inerte” che caratterizza il sistema della società capitalistica: “Nell’esteriorizzazione l’uomo diventa altro, diventa oggetto. La serie è il dominio della prassi inerte, non si muove verso il futuro della libertà, verso una dialettica progressiva, ma provoca una controdialettica. Per fare la storia sono necessari i gruppi quando questi sono tali da spezzare l’alienazione del serializzato e il loro stesso elemento negativo, cioè il raggrupparsi di uomini che diventa dialettica alienata della prassi. Nel capitalismo la storia sembra possibile solo con la attività passiva di una produzione che minaccia direttamente gli uomini, e cioè la classe operaia che vive nella generalità inerte. Qui valgono solo il lavoro sfruttato e l’interesse. Si tratta di sintesi passiva della materialità, di pratica cristallizzata, di meccanicismo. – I gruppi sono dei collettivi che possono diventare passivi e possono porsi come ‘pluralità di solitudini’, come una unità seriale. Non si tratta di una vita sentita insieme; ognuno sente per conto suo: è una vita di numero, di un raggruppamento umano non attivo. Il gruppo deve invece diventare impresa storica che rovescia il campo del pratico-inerte. Il gruppo che si organizza deve essere costitutivo della storia e questo può farlo a patto di passare da gruppo in fusione a gruppo organizzato. […] Il gruppo organizzato ‘definisce, dirige, controlla e corregge la praxis comune’. L’individuo organizzato è un individuo organico che tende al futuro. […] – La dialettica dei gru0ppi è la dialettica della storia contemporanea, dei suoi movimenti rivoluzionari e dei suoi pericoli burocratici. […] Appaiono il terrore burocratico e il culto della personalità, come ha rivelato l’esperienza storica del primo tentativo di realizzare una società socialista. – L’esperienza dialettica si ripropone come nuova libertà e nuova totalizzazione nel livello del concreto che è il livello della storia. […] Contro il continuo spezzarsi e riprendersi dei vari movimenti la ragione dialettica deve comprendere i prodotti sintetici di una prassi totalizzante. […] Come si vede Sartre si trova in una crisi e la crisi non è risolta né nella realtà, né, si può dire, nella sua opera” (pp. 257-59). 208
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percezione come comprensione sintetica di una situazione, dà continuamente a se stesso una forma nella situazione ambientale e contestuale. Alla base di tutte le particolari sfere di conoscenza c’è una conoscenza fondamentale che si colloca anteriormente a ogni distinzione logica e che riguarda un orizzonte significativo unitario nel cui ambito si manifestano tutti i dati coi quali veniamo in rapporto. La fenomenologia dovrebbe consentire di cogliere questo orizzonte, cioè quel mondo anteriore alla conoscenza nella sua articolazione particolare (La fenomenologia della percezione, 1945). “La percezione non è una scienza del mondo, non è nemmeno un atto, una presa di posizione deliberata: è il fondo sul quale si distaccano tutti gli atti ed è dagli atti presupposta” (cit. pp. 259-60). Questa comprensione fondamentale, che coincide con la struttura stessa dell’esistenza, riguarda qualcosa come l’“essere nel mondo” di Heidegger o il “mondo della vita” di Husserl. La percezione, in questo senso, attua la “riduzione fenomenologia”, ci mette in contatto non col solo reale attuato bensì col possibile, ci consente di cogliere il senso del futuro, ci proietta oltre la “fatticità”. Così cogliere e comprendere ciò che nella situazione di fatto è inattuato, inespresso, invisibile, diventa un compito per la stessa filosofia fenomenologica. La riflessione di Merleau-Ponty è legata “alla dialettica (modale) di ciò che è e di ciò che può essere” (p. 262). Il marxismo italiano. Quello italiano è stato una forma di marxismo critico, aperto al dialogo con i più diversi orientamenti culturali e non riduttivamente limitato all’analisi della situazione materiale ed economica. In questo senso ha dato contributi notevoli al rinnovamento del metodo storico, allo sviluppo critico delle scienze umane, in particolare della sociologia. Ha incominciato Antonio Labriola (con gli scritti raccolti poi ne La concezione materialistica della storia, 1938) a introdurre un tale metodo nell’interpretazione e nell’applicazione del marxismo. Egli ha sottolineato la complessa struttura della coscienza e la molteplicità degli atteggiamenti umani maturati nel contesto della civiltà; ha, cioè, considerato la totalità del divenire storico, con riguardo alle diverse forme della vita spirituale. In questo senso, Croce deve a Labriola la sua prima formazione storicistica. Dopo aver osservato che sullo sviluppo storico influiscono le diverse forme di vita della coscienza, Labriola conclude: “O, a dirla altrimenti, non c’è fatto della storia che non ripeta la sua origine dalla sottostante struttura economica; ma non c’è parte della storia che non sia preceduta, accompagnata e seguita da determinate forme di coscienza, sia questa superstiziosa o sperimentale, ingenua o riflessa, matura o incognita, impulsiva o ammaestrata, fantastica o ragionata” (cit. p. 282). Croce ha individuato, quindi, le famose quattro forme della vita spirituale: l’economica e l’etica come espressioni dell’attività pratica; la filosofia e l’arte come espressioni dell’attività conoscitiva. Egli ha considerato la sfera dell’utilità come fondamentale per lo sviluppo della vita spirituale: pertanto ha riconosciuto che il modo di atteggiarsi della sfera economica costituisce un fattore fondamentale dello sviluppo storico. L’attività economica rappresenta una parte notevole della storia; e si può comprendere la storia se si fa adeguata attenzione allo sviluppo di questa forma fondamentale dello spirito.209 Per Labriola, il marxismo è strumento di comprensione della realtà storica, dunque la sua “scientificità” (il fatto di essere strumento e metodo di conoscenza storica) è diversa da quella delle scienze fisiche, rigidamente fondate sulla categoria di causa e quindi legate a una concezione deterministica.210 Nel marxismo come modello di interpretazione storica sono presenti i concetti di necessità (determinismo) e di possibilità (libertà, progettualità), “cioè quelle che si possono considerare categorie della dialettica modale” (p. 283). Si tratta di categorie che vanno sempre considerate nel loro significato storico e non vanno assolutizzate: ogni contesto storico deve essere considerato con l’ausilio di categorie riportate al quel medesimo contesto. “Labriola, come farà in altro modo Lukàcs, difende la totalità o l’integralità contro l’astrazione separata delle scienze” (p. 283).211 Così il sistema 209
Il Paci intende, invece, la forma economica “non come spiritualità, ma come esistenzialità” (p. 283). Più recentemente la discussione sul marxismo come “scienza” (ma scienza fornita di una propria configurazione metodica, che costituisce una vera e propria “rottura epistemologica” rispetto al sistema scientifico), è stata ripresa da Althusser. 211 Il Paci stesso si riconosce parte attiva del rinnovamento del marxismo come metodo di comprensione della realtà storica; e in ciò egli ammette di raccogliere l’eredità di Labriola. “A suo modo Labriola – egli scrive – aveva prsentito molti problemi del marxismo che sono ritornati di attualità. Nel marxismo italiano in generale le discussioni non sono 210
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politico auspicato dal marxismo, il comunismo, è proiettato in un processo storico aperto: esso, cioè, non rappresenta un sistema chiuso, identico, adatto per ogni epoca e per ogni società, bensì si configura come un comunismo critico, “sviluppo cooperativo ed integrale di tutte le attitudini” (cit. p. 284). Antonio Gramsci ha raccolto l’eredità di Labriola. Egli ha inteso il marxismo come metodo critico, tale da potere superare il carattere settoriale delle diverse sfere culturali e porsi dal punto di vista della totalità umana. Esso è “filosofia della prassi”, nel senso che traduce l’intera realtà umana e storica in forma di conoscenza concettuale (filosofia). La filosofia, infatti, ha questo di proprio e caratteristico: che essa supera il punto di vista del senso comune, legato a pregiudizi attinenti a sfere diverse. E il marxismo, per Gramsci, è una forma di elevazione al punto di vista razionale, proprio della filosofia. Ma la filosofia della prassi si propone di cambiare il mondo, di progettare la storia: essa, cioè, non è semplicemente teoria e conoscenza, ma è criterio di azione, di organizzazione politica e sociale, di progettualità storica. I filosofi e gli intellettuali in genere hanno il compito di portare avanti una prassi che sia fondata sulla consapevolezza della dialettica del divenire storico. In ciò, in questa funzione di guida, consiste il ruolo “egemone” degli intellettuali, che devono costituirsi come classe politica capace di guidare il rinnovamento politico della società. Gli intellettuali hanno anche il compito di diffondere nel popolo la veduta critica della filosofia, contribuendo a formare una società che sia consapevole delle sue potenzialità e del suo ruolo attivo e non abbia di sé una visione “passiva”, con la mitizzazione dei fattori di guida e di egemonia. “La vita diventa storica se è attività guidata e la filosofia è la vita stessa, o meglio, dovremmo dire, il significato o senso della vita che può trasformare dialetticamente la storia” (p. 286). Nella visione della totalità della vita storica emergono i rapporti dialettici tra le diverse sfere della vita sociale, tra l’economia e la politica, ad esempio, come tra la religione e la scienza, tra l’arte e la società, e così via. “Il centro è il soggetto umano nella natura, nella storia: questo Gramsci lo chiama storicismo assoluto come umanesimo assoluto” (p. 286).212 La Scuola di Francoforte e la critica della società. I rapporti tra il marxismo e la sociologia si estendono attraverso una gamma di articolazioni, che va dallo sviluppo di una sociologia filosofica che intende collocarsi oltre gli schemi della scienza economica e oltre la stessa prospettiva politica della “dittatura del proletariato” alla fondazione di una sociologia configurata come critica del marxismo stesso. L’impostazione del problema di una sociologia filosofica configurata come critica della società risale al Korsch, di cui vanno ricordati Marxismo e filosofia (tr. it. 1965), Karl Marx (1938, in cui la critica investe anche il leninismo, Il materialismo storico, 1929, dove è svolta la critica a Kautsky), oltre che al Lukàcs di Storia e coscienza di classe (1923). Il tentativo di tenere ferma l’autonomia della scienza sociologica rispetto a influssi ideologici, come quelli del marxismo, è specialmente perseguito dai grandi autori della sociologia scientifica, K. Merton e T. Parson. Invece un certo influsso del marxismo si può notare negli sviluppi di sociologia della conoscenza, con particolare riguardo alle caratterizzazioni ideologiche della società: in questo senso è ormai un classico lo studio di Karl Mannheim, Ideologia e utopia (1929). In R. Dahrendorf è sviluppato il motivo della sociologia come critica del marxismo. La linea del marxismo come teoria critica della società è stata sviluppata specialmente dai filosofi della Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse, Habermas). Nel suo saggio L’eclisse della ragione (1947), Horkheimer critica specialmente la razionalità moderna, intesa come strumento deterministico della pianificazione del mondo secondo l’ottica della società borghese, caratterizzata dall’instaurazione e dalla conservazione del potere economico e, dunque anche, dello stesso progresso scientifico e tecnologico. Il filosofo auspica lo sviluppo di una razionalità come strumento della comprensione totale dell’uomo e della situazione storica. In senso dialettico ed hegeliano, la ragione ha il compito e la funzione di mettere in risalto i limiti e le contraddizioni della società: infatti, in quanto
concluse, ma sempre rimangono aperte e secondo noi devono ampliarsi in una enciclopedia scientifica concreta, relazionata, e diretta verso un fine che viene sempre ampliato” (p. 283). 212 Come osserva lo stesso Gramsci: “L’immanentismo hegeliano diventa storicismo, ma è storicismo assoluto solo con la filosofia della praxis, storicismo assoluto e umanesimo assoluto” (cit. p. 286).
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strumento della totalità, la ragione mette in luce il carattere settoriale di un dato sistema sociale e spinge la società stessa verso processi di realizzazione della totalità umana. “Per Horkheimer la società nella situazione attuale impedisce all’uomo di essere uomo e di realizzarsi, perché lo reprime costringendolo ai dati di fatto, al rifiuto dello svolgimento della storia e del fine intorno alla vita umana, fine che deve realizzarsi sia nell’economia che nella psicologia” (p. 299).213 Theodor Adorno nella sua Filosofia della nuova musica (1949) ha visto nei nuovi indirizzi musicali (la musica dodecafonica) il punto più negativo della cultura contemporanea, quello dell’“oggettivismo estraniante di Igor Strawinsky, nel quale l’uomo perde se stesso e la sua umanità sociale” (p. 301).214 Nella Dialettica negativa (1966) confluiscono i motivi principali della cultura contemporanea che accentuano i limiti della situazione storica ed esistenziale e che sono espressione di una società in crisi. In particolare, Adorno esamina le componenti del decadentismo romantico (Mahler), la visione pessimistica che emerge già dall’analisi della condizione “estetica” di Kierkegaard, la visione della vita come angoscia in Heidegger (e già nello stesso Kierkegaard). Il concetto di “praxis” come insieme di conoscenza e di situazione storica, di teoria e di attività, insomma come società concreta nel suo processo storico, avvicina Adorno al marxismo e lo induce perfino a svolgere una critica dell’indirizzo teorizzante e speculativo di Husserl.215 Nella stessa direzione va la critica rivolta al neopositivismo. “Quello che tutta la Scuola di Francoforte rimprovera al neopositivismo, alla linguistica, allo strutturalismo, è la sostituzione della logica alla dialettica. La logica non è trasformazione e salta il negativo. La dialettica è trasformatrice, non isola mai conoscere, ma lo vede e lo sperimenta nella sua concretizzazione e nella vita della società. La riduzione a puro gnoseologismo è il riflesso della negatività della società borghese; è l’estremo limite della dialettica dell’illuminismo che diventa puramente astratto e privo di umanità concreta, trasformandosi in strumento del potere. Così il monopolio e il totalitarismo sono pure tautologie e, in questo senso, sono d’accordo con la logica formale, per quanto, in quanto sono anche logica della scienza, fanno della scienza uno strumento di dominio sull’uomo. Il capitalismo tecnologico progredisce, ma c’è un’entropia della tecnicizzazione per cui il progresso conduce, alla fine, non solo alla distruzione della tecnica e della scienza, ma anche a quella della civiltà. La verità, come il telos di Husserl, appare un limite lontano, è qualcosa che oscilla tra l’utopia e la speranza. Da questo punto di vista la filosofia di Adorno può essere avvicinata alla filosofia della speranza di Ernst Bloch (Il principio della speranza, 1964) e può essere ripresa e acquistare un nuovo significato in tutta intera l’opera di Bloch. La negazione è una modalità dialettica per cui solo negando il presente si può sperare nella sua trasformazione e avere una speranza per l’avvenire. Ma il presente così è sempre qualcosa di negativo e il centro della dialettica è ancora la negatività” (pp. 303-304). Questa nota pessimistica risuona nell’analisi di Marcuse, il quale in Controrivoluzione e rivolta (1972) osserva: “Il capitalismo si riorganizza per fronteggiare la minaccia di una rivoluzione che sarebbe la più radicale della storia, la prima vera rivoluzione storico-mondiale” (cit. p. 305). Marcuse pensa a “una rivoluzione in tutti i sensi dell’interzza umana, erotica, economica, sociale e culturale. Sociale nel senso più pieno della teoria critica della società o, possiamo dire, del senso umano, individuale e intersoggettivo, enciclopedico, non nel significato di una sintesi astratta di più discipline, ma in quello umano di una enciclopedia attiva fenomenologica e marxistica sul piano internazionale” (p. 305). Nella società della cultura (oltre la società dell’economia) sarebbero poste le condizioni per una tale rivoluzione totale. “Nello sviluppo e nella propagazione dei bisogni vitali superflui oltre i bisogni fondamentali, Marz ha visto il livello di sviluppo raggiunto il quale il capitalismo sarebbe maturo per la sua fine” (cit. p. 37). “In questo senso anche il significato di verità e il senso e il telos della storia – e Husserl sarebbe d’accordo – sono bisogni trascendenti e razionali” (p. 307). “La natura deve diventare libera – avverte a sua volta Marcuse nel Saggio sulla liberazione (1969) – e la tecnica potrebbe diventare un’alleata della liberazione” (cit. p. 307).
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Il Paci rileva l’affinità tra Husserl e Horkheimer, per i quali il fine della storia è l’attuazione dell’umanità razionale. 214 La musica contemporanea è necessariamente strumentalizzata e il suo destino è quello di diventare schiava di una società dei consumi” (p. 302). 215 Contro questa interpretazione di Husserl “logico” da parte di Adorno insorge il Paci, il quale ricorda che la ragione di Husserl è quella che affonda le sue radici nel “mondo della vita”.
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CAPITOLO XXXIII Husserl Dal 1897 al 1900 Husserl insegnò all’Università di Halle. In quel periodo la sua riflessione è caratterizzata dalla ricerca di una nuova via che superi le opposte posizioni dello “psicologismo” e del “logicismo” (che dominavano la discussione filosofica alla fine del secolo). Dal punto di vista logicistico, le proposizioni scientifiche hanno una validità obiettiva, in quanto sono indipendenti dal soggetto (psichico e storico): ma non si capisce da dove provenga e in cosa consista tale obiettività (rispondente a un “essere in sé” degli “oggetti” delle proposizioni); e perciò il logicismo presentava un aspetto dogmatico. Dal punto di vista dello psicologismo, le proposizioni scientifiche dipendono dal soggetto che le enuncia e non hanno validità obiettiva: ma in tal modo si finisce per sfociare nello scetticismo. Il problema, dunque, riguardava la possibilità di pervenire a una “scientificità” che evitasse sia il dogmatismo che lo scetticismo. Nel periodo di Halle, Husserl oscilla ancora tra le due posizioni: nel I volume della Filosofia dell’aritmetica prevale la fondazione psicologica; nei Prolegomeni (primo volume delle Ricerche logiche) l’accento cade sulla fondazione logica; nel II volume delle Ricerche logiche l’accento cade di nuovo sulla fondazione psicologica. In realtà, qui Husserl, piuttosto che ricadere nello psicologismo, propone una via nuova: quella di una fenomenologia della “coscienza”, nella quale i due tipi di fondazione si pongono in un rapporto di reciproca implicazione, ovvero di correlazione intenzionale. Il nuovo concetto chiave è, proprio, quello di intenzionalità. Per i filosofi “scolastici” (medievali) l’intentio è l’in-existentia intenzionale (o mentale) di un oggetto nell’anima: è, in particolare, l’immanenza (o presenza) della specie (o dell’universale) nella coscienza (nell’intelletto o nel senso), secondo la tradizione aristotelicotomista. Brentano usa il termine intenzionalità per indicare la “relazione a un contenuto” (o “direzione verso un oggetto”) in cui sta sempre la coscienza (in quanto percepisce, pensa, desidera un qualcosa): perciò dice che ogni coscienza è sempre “coscienza di qualcosa” (e perciò l’intenzionalità caratterizza tutti i fenomeni psichici).1 Per Husserl, l’oggetto intenzionale non è immanente al vissuto psichico (Erlebnis), ma è fuori di esso, come polo di riferimento e “in sé”; dunque il carattere dell’intenzionalità non è proprio di tutti i vissuti psichici, ma è una funzione propria di certi atti di coscienza (che vanno descritti e che si caratterizzano come “atti intenzionali”). In particolare, Husserl si occupa dell’oggetto aritmetico e dell’oggetto logico: invece di dissolvere “psicologisticamente” gli oggetti ideali delle scienze pure (matematica, logica), egli cerca di indagare intorno al tipo di operazioni soggettive corrispondente a un certo tipo di oggetto (oggetto aritmetico e oggetto logico). Secondo questa impostazione metodica, può essere indagato ogni tipo di operazione soggettiva, corrispondente a un tipo di oggetto. Questo metodo, in quanto ha raggiunto un sufficiente livello di autonomia e di generalità, nel II volume delle Ricerche logiche è configurato già come proprio della fenomenologia. Scopo della fenomenologia è descrivere il tipo di operazione soggettiva in rapporto a un tipo di oggetto corrispondente, cioè far risaltare la correlazione tra il tipo di operazione e il tipo di oggetto. Il “fenomeno” della correlazione, infine, è il vero oggetto della fenomenologia. Descrivere questo fenomeno nelle sue diverse forme sarà il proposito di Husserl. In particolare, si tratterà di descrivere i tipi di operazioni relativi alle varie scienze. In generale, si tratterà di scoprire ciò che fonda l’oggetto scientifico come tale, dunque l’a priori universale della scientificità. Nella Filosofia dell’aritmetica (1891) Husserl già intende mostrare come l’intero edificio dell’aritmetica si fonda su concetti generalissimi che coincidono con quelli della logica. In due sensi si parla di fondazione: in senso psicologico (in quanto gli atti della coscienza fondano intenzionalmente quell’oggetto che è l’aritmetica) e in senso logico (in quanto l’oggetto aritmetico è solo determinazione di un’oggettalità più generale, e quindi fondante, che è quella della logica). Così la rappresentazione propria del numero è
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fondata su quella più generale dell’aggregato (analogo a quello di insieme di Cantor), di cui il numero è determinazione. Nel I volume delle Ricerche logiche (Prolegomeni a una logica pura, 1900) Husserl critica le tesi psicologistiche intorno alla logica e al suo oggetto. La logica può essere considerata anche come una scienza pratica (operativa), ma il fondamento della sua possibilità di assolvere a tali funzioni sta nella sua autonomia come scienza teorica, come logica pura (come, ad esempio, il fondamento dell’agrimensura sta nella geometria pura). Qui Husserl considera l’oggetto ideale della logica pura (intesa come scienza della costituzione di una teoria generale della scientificità e quindi di ogni possibile scienza). Egli considera gli oggetti ideali della matematica come i modelli della oggettualità scientifica in generale. Tuttavia, la critica dello psicologismo non cade nell’estremo opposto, cioè nel logicismo. Husserl si dedica d’ora in poi a compiere una serie di indagini su diverse strutture dell’intenzionalità e che si configurano come descrizioni fenomenologiche degli atti di coscienza intenzionali (compresi tra le polarità del soggetto e dell’oggetto, dell’io e del mondo). L’atteggiamento mentale che permette la descrizione fenomenologica può essere caratterizzato come riflessivo, intuitivo, essenziale: a) è riflessivo, perché non considera gli oggetti così come si danno nell’orizzonte “naturale” (dell’esperienza quotidiana), ma le modalità della loro costituzione a partire dall’intenzionalità della coscienza; b) è intuitivo, perché non riprende i giudizi intorno al mondo già costituito (all’oggetto), ma recupera in evidenza intuitiva (“in carne e ossa”) il “fenomeno” del rapporto originario tra la coscienza e il suo oggetto (cioè quel rapporto che è fondante dell’oggettivitià); c) è essenziale, perché considera gli atti della coscienza nella loro intenzionalità, dunque in rapporto a oggetti ideali (possibili). Husserl chiama essenze gli oggetti ideali in quanto possibili costruzioni della coscienza intenzionale (che è nesso di soggettività e oggettività); chiama intuizione eidetica l’atto di comprensione dell’oggetto ideale che si viene a costituire attraverso il “fenomeno” della fondazione intenzionale. In un articolo pubblicato nel 1911 sulla rivista “Logos” (La filosofia come scienza rigorosa), Husserl rileva che la filosofia come fenomenologia è diversa da qualsiasi “visione del mondo” (che ha un carattere ideologico) e si configura coi caratteri della scientificità rigorosa. La fenomenologia è scienza essenziale della soggettività trascendentale (considerata nella sua capacità di fondare oggetti ideali). Essa, pertanto, è la scienza che fonda e coordina tutte le altre. Dal 1901 al 1915 Husserl insegnò a Gottinga. Nel 1913 uscì il I libro delle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica (il solo pubblicato dall’autore). Secondo il piano tracciato dal filosofo, l’opera avrebbe dovuto attuare l’intero progetto della fondazione della filosofia come fenomenologia, e cioè: a) una esauriente esposizione del nuovo metodo filosofico dell’“epoche” (riduzione fenomenologica); b) una nuova critica e teoria della ragione; c) una rifondazione fenomenologica delle scienze; d) una elaborazione dell’idea della filosofia fenomenologica come “filosofia prima”. Ora, il libro I della maggiore opera di Husserl contiene una introduzione generale alla fenomenologia (specialmente una analisi della struttura della coscienza pura); il II libro (punti a e b del programma) fu rielaborato più volte, ma fu pubblicato solo nel 1952, insieme al III libro; il IV libro, sulla fenomenologia come “filosofia prima”, non fu mai scritto e si può ritenere che la sua materia confluisca nelle lezioni tenute alla Sorbona (febbraio 1929) e intitolate Meditazioni cartesiane e, infine, nell’ultima opera incompiuta La crisi delle scienze europee. Già nel II volume delle Ricerche logiche Husserl ha considerato il rapporto intenzionale tra gli atti di coscienza e gli oggetti corrispondenti. Tali atti e contenuti sono di qualsiasi tipo (non solo pensieri e “pensati”, ma anche sensazioni e “sentiti”, volizioni e “voluti”, fantasie e “fantasmi”, valutazioni e “valori”, e così via); tuttavia egli si è soffermato a considerare l’oggetto logico (il “qualcosa in generale”, ciò che ha in generale un senso, l’oggettualità formale e vuota). Nelle successive lezioni sulla coscienza interna del tempo e sulla costituzione della cosa spaziale, Husserl considera altri oggetti come correlati intenzionali di certi atti di coscienza, e precisamente l’ente fisico e l’oggetto temporale. Nelle Idee, col termine noema è indicata ogni oggettualità in quanto data entro la relazione intenzionale (entro le parentesi della riduzione fenomenologia), mentre col termine noesi si indicano i correlati atti di coscienza. La considerazione della correlazione noesi/noema è indicata come analisi noetico-noematica delle strutture della coscienza e della soggettività trascendentale (i dell’intenzionalità, o della ragione).
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La parte più importante del I libro delle Idee è quella che illustra il metodo della riduzione fenomenologicotrascendentale, articolata in due momenti: uno negativo, quello dell’epoché, e uno positivo, quello della riduzione. L’epoché fenomenologia è una sospensione della tesi generale del mondo (o della credenza nell’esserci o non esserci del mondo). Essa pone tra parentesi il mondo già dato e il rapporto ad esso; perciò consente al fenomenologo di volgersi complessivamente all’atto di costituzione della oggettività, all’intenzionalità della coscienza, alla struttura poetico-noematica. La dimensione trascendentale alla quale il fenomenologo si riporta ha una una struttura poeticonoematica, e quindi non comporta soltanto un a priori formale e funzionale, ma anche un a priori oggettuale e materiale, che comporta, dunque, non soltanto una analisi logico-formale dell’essere, bensì una ontologia fenomenologico-trascendentale, articolata in “regioni” (corrispondenti ai diversi tipi di intenzionalità e, dunque, alle diverse sfere dell’oggettività). Le fondamentali ontologie fenomenologiche a priori sono: quella della natura materiale, con le specificazioni della geometria pura, della fisica pura, della cronometria a priori, ecc.; quella della natura animale, con le sue sotto-ontologie (stomatologia, antropologia razionale, psicologia, ecc.; quelle dello spirito, con le specificazioni delle ontologie della persona, dell’essere sociale, della storia, dell’assiologia, dell’etica, della teologia, ecc. Il campo della coscienza trascendentale è, dunque, un vero e proprio campo di dati e di conoscenze costituite da intuizione di “essenze”. Il fenomenologo indaga sui contenuti, gli strati, le componenti, le strutture essenziali (formali e materiali) che emergono attraverso l’analisi della “ragione” intenzionale. Il suo compito è di mettere in rilievo come tutte le realtà del mondo, logico, naturale, culturale, si costituiscono nell’ambito della “coscienza pura” e della “soggettività trascendentale”. Tra il 1904 e il 1908 Husserl compie gli studi (che accompagnano lo sviluppo del disegno tracciato nelle Idee) sulla coscienza interna del tempo e sulla costituzione della cosa. Questi studi esaminano: a) la percezione “interna” e il corrispondente oggetto temporale (il presente col suo alone di passato e futuro; l’atto percettivo col suo alone di ricordi e anticipazioni); b) la percezione “esterna” e il corrispondente oggetto spaziale (la cosa fisica col suo orizzonte interno, che è il corpo fisico e senziente, e il suo orizzonte esterno, che è la totalità del mondo materiale e animale). All’interno della dimensione del mondo si sviluppa, poi, il motivo dell’intersoggettività, dunque il mondo della cultura e dello spirito, inteso in senso statico (sincronico). Sulla base della coscienza pura trascendentale e della temporalità dell’io trascendentale, si sviluppa il tema della temporalizzazione e della costituzione originaria dell’io trascendentale stesso (l’intersoggettività trascendentale e il suo correlato, cioè il mondo della storia, che è il mondo della cultura nel suo aspetto diacronico). Questi motivi sono ripresi nelle Idee, dove: il I libro pone al centro del campo fenomenologico infinito della coscienza un io trascendentale o “cogito”, che ha la struttura della temporalità; il II libro sviluppa i temi relativi alla struttura trascendentale del mondo; il III chiarisce i rapporti tra la fenomenologia generale della coscienza pura o soggettività trascendentale, le diverse ontologie eidetico-fenomenologiche, le scienze empiriche. Infatti nella fenomenologia della coscienza pura è incluso il momento noematico; e nel noema è dato il mondo intenzionato col suo senso obiettivo e, quindi, la possibilità di ontologie regionali, corrispondenti ai vari tipi di oggettività. A ciascuna di queste regioni può corrispondere una scienza empirica (costituita con metodo “ingenuo”, descrittivo o sperimentale). La fenomenologia si trova davanti a due direzioni di analisi: l’una verso il mondo e le regioni dell’ente (statica) e l’altra verso il fenomeno della fondazione intenzionale da parte della coscienza pura e verso l’autocostituzione del tempo (il tempo consiste nella autocostituzione temporale della coscienza). Queste due direzioni occupano l’attenzione di Husserl specialmente nel periodo di Friburgo (1916-28). In particolare, l’analisi di Husserl è rivolta ai diversi strati dell’io trascendentale (l’io corporeo, il soggetto degli atti psichici, l’io delle abitualità quotidiane, l’io della cultura, l’io come monade in tutta la sua ricchezza attuale e possibile), in corrispondenza ai rispettivi strati del mondo. D’altra parte, l’analisi indaga nel senso della temporalità originaria, che è la base e la condizione di ogni dimensione storica e la cui proiezione esterna è il mondo come realtà che ha uno svolgimento secondo un senso, una direzione, un telos. Il mondo che corrisponde alla temporalità originaria è, secondo Husserl, il mondo-della-vita, che comprende il senso della stessa storia dell’umanità e costituisce ogni dimensione storica in rapporto a tale senso fondamentale. Il
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senso del mondo è racchiuso nel senso originario del tempo. La fenomenologia, così, è intesa da Husserl come indagine intorno alla costituzione originaria di senso di ogni prassi, di ogni scienza e, in definitiva, di ogni oggetto. Essa rappresenta il piano in cui l’umanità accede alla sua auto-comprensione. Per Husserl, l’esistenza dell’uomo, nell’attuale punto di sviluppo storico, è priva di una autentica forma di autocomprensione; essa si assume come mera attualità e coralità. E ciò in conseguenza dello sviluppo moderno della scientificità: infatti il mondo moderno è caratterizzato dallo sviluppo di una scientificità obiettivistica e “positiva”, che si limita alla attualità costituita ed evita di affrontare il problema del proprio fondamento nel senso del progetto storico. Così è perduto il senso originario della temporalità e si ha, assieme alla perdita del senso del proprio passato, anche l’impotenza a progettarsi autenticamente (in rapporto al senso originario, implicito nella temporalità essenziale). Però Husserl intende rintracciare il senso originario della storicità propria della umanità europea e, dunque, recuperare il problema del telos della storia e del futuro come orizzonte di progetto rispondente al senso originario. La filosofia oggi deve impegnarsi in questo sforzo di autocomprensione e di autoprogettazione. Ne La crisi delle scienze europee Husserl rileva che il modello scientifico delle scienze della natura (affermatosi con Galilei e Cartesio), per sé validissimo, è stato assunto dogmaticamente e trasformato in una concezione universale della razionalità. L’obiettività fisico-matematica ha finito per costituire il modello di ogni obiettività e, in particolare, è stata estesa all’interpretazione dei fatti psichici e spirituali. Per recuperare la possibilità di autocomprensione dell’uomo, occorre liberare dalla sua impalcatura obiettivistica il mondo-della-vita. La fenomenologia intende conseguire questo scopo, mettendo tra parentesi l’intero mondo “obiettivo” costruito col metodo delle scienze moderne. Quindi si tratta di scoprire, per mezzo dell’analisi trascendentale, l’a priori specifico del mondo-della-vita (che è anche l’a priori della storicità, del senso proprio della storia). Questo a priori della storicità (temporalità) è, per Husserl, più originario di quello della natura (della considerazione obiettivistica del mondo).
L’Io trascendentale in Husserl La fenomenologia torna a porre il problema della possibilità di una scienza “trascendentale”, cioè che prescinda dal mondo “empirico”. Essa, in primo luogo, muove dal presupposto dell’epoché, della messa tra parentesi del mondo empirico: questo è il mondo dell’ingenuo dogmatismo e della “concretezza mal posta”; invece c’è un mondo costitutivo della coscienza, dell’io, che è “anteriore” a ogni esperienza, a ogni “contenuto” empirico: è il “mondo originario” della coscienza o Lebenswelt, “mondo della vita”, struttura trascendentale, e in base al quale e a partire dal quale si organizza ogni aspetto del mondo dell’esperienza, in quanto in base ad esso si definisce ogni esperienza. Secondo Husserl, la scienza di questo mondo “trascendentale” ha i caratteri della rigorosità, della coerenza razionale, della precisione formale: si tratta di una scienza costituita secondo le pure leggi della “logica”. Le scienze empiriche sono, invece, inquinate da fattori ed elementi psicologici, empirici, mutevoli e relativi (secondo l’antico concetto della “opinione, alla quale si contrappone la vera “scienza”). Esse risultano dalla connessione di “fatti”, cioè di “esperienze”; e non possono, pertanto, raggiungere un grado soddisfacente di esattezza; esse rimangono legate alla sfera del contingente, dell’empirico, del relativo. Un primo passo verso la scienza rigorosa dell’io è costituito dalla fondazione di una psicologia “eidetica”, diversa dalla psicologia empirica: di una psicologia, cioè, che riguardi non i “fatti”, ma le “essenze” degli atti psichici. Gli atti psichici, infatti, hanno il loro fondamento nella costituzione trascendentale del soggetto. Il soggetto stesso ha la capacità di “cogliere” intuitivamente tali “essenze”. Ma, al di là di questa psicologia “eidetica”, occorre fondare la vera scienza dell’io, la fenomenologia trascendentale, la vera scienza rigorosa della soggettività pura (quale si esprime nell’attività logica). Il mondo empirico non è che il risultato di una complessa attività che si articola in base alla costituzione trascendentale dell’io: esso è un insieme di “oggetti”, la cui “oggettività” non è che il “correlato” oggettivo dell’io stesso. Si tratta di risalire alla costituzione “soggettiva” che fonda ogni “oggettività”: ogni oggettività, infatti, riceve senso e costituzione dall’attività soggettiva. La fenomenologia intende cogliere i “significati”
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che il soggetto produce come fondamento degli “oggetti”: sono tali significati che danno “forma” agli oggetti stessi, fanno sì, pertanto, che gli oggetti si configurino in determinati modi. Gli oggetti, cioè, vanno visti non tanto nelle forme apparenti in cui essi si danno empiricamente, bensì nelle forme “essenziali”, che precedono quelle altre e che, perciò, rappresentano la vera “fenomenicità”, i veri “fenomeni”. Sono questi significati che fanno “apparire” le cose: essi, perciò, sono i veri “fenomeni”, forme eidetiche che il pensiero coglie per via trascendentale, indipendentemente dall’esperienza. Nel mondo empirico, infatti, quelle “essenze” si presentano come “oggetti” empirici. Le scienze empiriche riguardano tali oggetti: esse considerano con le “essenze” che “fanno apparire” gli oggetti, ma le “apparenze” che quelle essenze diventano nel mondo empirico. In realtà, la “pensabilità” dell’oggetto è possibile in base all’essenza che lo costituisce. L’essenza è il puro “cogitatum”: ogni “cogitatio” si ricostituisce a partire da tale “cogitatum” originario, che è il correlato “ideale” della “cogitatio”. L’oggetto, cioè, si configura, in primo luogo, come oggetto “ideale”, semplice correlato ideale della “cogitatio”. Ad esempio, il tavolo empirico, cioè “questo” tavolo, che io vedo qui e ora, è un “fatto” o “oggetto” che rientra nel campo dell’esperienza: appartiene al mondo empirico. Ora, io devo pormi il problema di come sia possibile che io intuisca questo oggetto, il tavolo che mi trovo davanti; io devo possedere già alcune “idee” in base alle quali riconoscere questo oggetto: ad esempio, devo avere le idee relative all’“oggetto” in generale, alla “realtà” (come relativa a qualcosa che “esiste”, alla “forma”, all’“uso”, alla “materia”, alla “qualità” e così via, devo cioè poter “ricostruire” l’oggetto che mi sta davanti in base ad alcuni elementi concettuali che devo già possedere. Sono tali elementi che concorrono alla costituzione dell’oggetto come “oggetto ideale”. Così io mi formo l’idea di questo oggetto e solo in base a questo “riconosco” l’oggetto empirico. La fenomenologia ricerca proprio questi elementi che precedono l’intuizione dell’oggetto empirico e ne costituiscono il presupposto. Così, ad esempio, nel caso citato, io ho già le idee di “forma”, “qualità”, “oggetto” ecc.; e si tratta di idee che non si riferiscono a oggetti empirici e che hanno una consistenza interamente “ideale”. La fenomenologia considera solo queste “idee”, che, rispetto all’oggetto empirico, costituiscono componenti essenziali “ideali”. Gli oggetti empirici sono il risultato di un processo di costruzione da parte del pensiero. La fenomenologia tende a cogliere gli elementi “ideali” attraverso i quali avviene quella costruzione. La nostra esperienza è il risultato del pensiero; e non viceversa. Gli oggetti empirici sono il correlato di oggetti ideali. Alle origini e alla base di ogni esperienza si pone l’intenzionalità della coscienza, la possibilità trascendentale dell’io di esprimere una attività significativa (un’attività che è essenzialmente pensiero, “cogitatio”). Ogni oggetto si qualifica e si definisce in rapporto a tale intenzionalità. L’atto intenzionale è sempre una “cogitatio”; e una tale “cogitatio” contiene, implicito ad essa, un “cogitatum”, un significato, un contenuto ideale. E’ a partire da tale “cogitattum” che si costituisce, quindi, l’oggetto dell’esperienza. Ad esempio, io intendo esprimere un comportamento “giusto”; tale comportamento è l’oggetto o “fatto empirico”, ciò che si riscontra sul piano dell’esperienza. Tale “fatto” è il risultato di un precedente atto di pensiero, l’atto in virtù del quale io penso di esprimere quel “fatto”, quel comportamento dotato di un significato preciso (di essere “giusto”). Il mio atto di pensiero è tale che esso contiene l’idea di “giustizia”; ed esso, perciò, è possibile sulla base di un’intenzionalità definita secondo quel senso, anzi tale da definirsi in quel significato. Il determinato “cogitatum” (l’idea di giustizia) è possibile come correlato oggettivo ideale dell’atto di pensiero intenzionalmente orientato verso quel senso. L’io trascendentale è il soggetto che contiene in sé l’insieme delle intenzionalità in base a cui si definiscono tutti i “cogitata”. E’ chiaro che si tratta di un’intenzionalità come “funzione” e non certo come sistema di “idee” già definite. L’intenzionalità è la struttura che fonda ogni “cogitatum”. Ogni atto umano è sempre intenzionalmente caratterizzato: esso è il risultato “fattuale”, empirico, positivo e mondano, di un atto di pensiero, di una “cogitatio”; ed è corrispondente, sul piano empirico, al “cogitatum” ideale come correlato originario della “cogitatio”. La fenomenologia considera l’io come “coscienza di”, cioè come soggetto intenzionalmente orientato, in rapporto alla costituzione di determinati significati e, dunque, in rapporto allo sviluppo di determinate forme d’esperienza. O si tratti di esperienza conoscitiva o di esperienza morale o politica o artistica o
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religiosa, e così via, sempre si ha a che fare con significati che sono “idee”, “essenze”, significati in cui si esprime l’attività intenzionale. In rapporto ai “tipi” di intenzionalità si costituiscono le varie sfere “ontologiche”, cioè i vari ambiti di oggettività: si costituiscono così gli oggetti scientifici, quelli morali, quelli politici, quelli religiosi, quelli artistici, e così via. Si tratta di ambiti di significati, di “categorie” generali dell’intenzionalità; ogni “oggetto” o “fatto” dell’esperienza, del mondo empirico, si definisce in rapporto a qualcuno di questi ambiti, si presenta, cioè, o come un fatto scientifico o morale o artistico o religioso o tecnico, ecc. E’ a partire dal flusso dinamico del mondo intenzionale che si viene articolando il mondo dell’esperienza. Il “mondo della vita”, l’orizzonte di produzione dei significati, ha una sua dinamica, un suo sviluppo: esso è un’unità vivente, in cui ogni atto è connesso a ogni altro, ogni intenzionalità è legata a ogni altra, in un processo di produzione continua, secondo una direzione teleologicamente orientata. Perciò l’esperienza è sempre “significativa”: essa è caratterizzata dall’orientamento teleologico, dunque da una connessione di momenti, da uno sviluppo “logico”. E’ questa dinamica della coscienza intenzionale che si esprime e si rispecchia nel mondo empirico, nell’articolazione dei “fatti” e delle “cose”. E’ chiaro, d’altra parte, che in Husserl il termine “cogitatio” non indica l’atto del pensiero in senso stretto (cioè quello proprio del pensiero logico), ma comprende ogni atto intenzionale, significativamente e teleologicamente definito. Il “cogito” è l’espressione dell’io in senso ampio; “cogitatio” è l’intenzionalità in atto, la struttura del soggetto stesso in quanto fondante un’oggettività. “Cogitatio” è un termine, perciò, che riguarda e comprende ogni tipo di intenzionalità. L’atto della coscienza, in quanto intenzionalmente definito e caratterizzato, contiene un momento “soggettivo”, la “noesis”, e un momento oggettivo, il “noema”. Quest’ultimo è l’oggetto ideale, l’“essenza”, il contenuto, definito e configurato in rapporto al tipo di intenzionalità: così, ad esempio, un contenuto scientifico è definito dall’intenzionalità scientifica, cioè dalla capacità della coscienza di produrre significati in rapporto all’idea di “verità” o di “rappresentazione” o di “conoscenza”. Il “mondo” non è che l’insieme di significati, organicamente connessi, che la coscienza produce: è l’orizzonte entro cui si produce e si sviluppa ogni atto intenzionale, ogni produzione di significati. G. Brand (in “Introduzione” a Mondo, Io e Tempo, Milano 1960) ha messo in rilievo che l’intenzionalità ha un carattere dinamico: essa esprime lo stesso carattere “progettuale” della coscienza. La coscienza è sempre un “progettarsi”: essa tende continuamente a produrre il mondo dell’esperienza, dirigendosi verso un orizzonte significativamente configurato. Tale è l’intenzionalità fungente, che si iscrive dinamicamente nell’orizzonte del mondo. Il mondo, che è il risultato dell’attività intenzionale e comprende l’insieme di significati, è l’orizzonte in cui s’iscrive l’intenzionalità nel suo processo dinamico, storicamente determinato. Qui è possibile cogliere un importante motivo della valenza metodologica della fenomenologia. Questa, infatti, considera proprio questo carattere dinamico, teleologicamente orientato, dell’intenzionalità fungente. Essa, così, non intende costituirsi in relazione a un mondo di fatti, bensì a un mondo nella dinamica del suo prodursi, a partire dall’attività significativa della coscienza umana e storica. Così, per la fenomenologia, decade ogni contrapposizione tra giudizi di fatto e giudizi di valore, tra essere e dover-essere, tra scienza descrittiva e scienza nomotetica (o normativa). L’attività intenzionale è attività progettuale: essa è significativamente orientata verso un mondo, ma nello stesso tempo si iscrive in un orizzonte di significati che ha il suo correlativo nello stesso mondo dell’esperienza. Il momento descrittivo, empirico, quello proprio delle scienze positive, s’incontra e si salda col mondo normativo, ideale, proprio del sapere normativo. La fenomenologia riguarda proprio questa saldatura, la connessione dinamica e funzionale tra i due momenti. Il mondo empirico, del resto, riceve continuamente il suo senso dall’attività intenzionale. La stessa scienza positiva trae sviluppo dalla intenzionalità scientifica, che, a sua volta, ha significato solo in rapporto alla progettualità intrinseca all’intenzionalità fungente e fondante. Il sapere empirico fa parte di un orizzonte progettuale: esso stesso è l’attuazione di un progetto. La fenomenologia riguarda la vita della coscienza come vita intenzionale. La dinamica dell’intenzionalità comprende lo stesso dato di fatto nella sua costituzione significativa: non, dunque, ad esempio un oggetto o un fatto nella loro “datiti” naturale, oggettivamente neutra, ma l’attività intenzionalmente orientata che ha dato luogo a quell’oggetto o a quel fatto, e quella in cui avviene, in modi sempre nuovi, la percezione di essi.
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Non l’oggetto, dunque, ma la percezione significativa dell’oggetto: e tale percezione, in quanto iscritta in un orizzonte, cioè in quanto intenzionalmente significativa. L’apertura del mondo è, in realtà, l’apertura dell’intenzionalità, connessa al continuo trascendersi della coscienza, al suo continuo progettarsi. Così si mette in rilievo l’unilateralità di una posizione che contrapponga, ad esempio, idealismo e realismo: non si ha mai un essere senza soggetto, un mondo senza coscienza, come, analogamente, non potrà aversi un soggetto senza mondo, una coscienza senza oggetto, un io senza essere. Il punto di vista delle scienze empiriche è legittimo: l’essere, il reale nella sua oggettività, deve essere indagato e descritto; ma tenendo, tuttavia, presente, a un livello superiore, che esso è il correlato di un’attività intenzionale dell’io. “L’essere del mondo è […] necessariamente trascendente la coscienza, anche nell’evidenza originaria, e le resta necessariamente trascendente. Ma ciò non cambia nulla al fatto che ogni trascendenza si costituisce unicamente nella vita della coscienza, come inseparabilmente connessa a questa vita, la quale – presa nella particolare accezione di coscienza del mondo – porta in se stessa l’unità di senso costitutiva di questo ‘mondo’, come pure quella di ‘questo mondo realmente esistente’” (Meditazioni cartesiane, § 28). L’intenzionalità si ritrova nel “mondo”; e questo è tale in quanto costituito dall’attività intenzionale. La fenomenologia ritrova e identifica questa attività nella costituzione dei fatti e oggetti che costituiscono il mondo. Essa muove sempre dall’idea della correlazione tra io e mondo. Soggettività e oggettività non possono essere concepite separatamente: esse si costituiscono a partire dall’intenzionalità. Ed è proprio questa costituzione dialettica del nesso soggetto/oggetto, che è l’ambito di riflessione della fenomenologia. Dal punto di vista fenomenologico ogni oggetto è riportato all’orizzonte progettuale: ciò che conta è lo sviluppo dell’attività intenzionale, che procede a fondare un mondo. E’ evidente che l’attività intenzionale ha come sua struttura o dimensione fondamentale la temporalità: infatti l’intenzionalità implica un protendersi verso un’oggettività da fondare e uno sguardo retrospettivo verso un insieme di atti che hanno dato luogo al mondo storico. Il mondo stesso ha una struttura e una costituzione temporale, in quanto esso è il correlato dell’intenzionalità. Il mondo storico è l’orizzonte dell’attività progettuale. La fenomenologia considera il mondo come orizzonte di significatività in cui s’iscrive l’attività del soggetto. Il problema del senso dell’essere nella storia del pensiero e in particolare nella filosofia del Novecento Si può assumere il problema dell’essere (o, meglio, del senso dell’essere, come rileva Heidegger) come il tema fondamentale dell’intera storia del pensiero occidentale. Nei primi filosofi, l’essere è il fondamento della struttura unitaria della realtà: il reale è essenzialmente uno e identico a se stesso. Niente può essere posto fuori dell’essere e tutto, invece, appartiene ad esso. L’essere è il reale nella sua unità e totalità: non generato da altro né tale da generare altro che se stesso. L’intera vicenda del reale si svolge, dunque, all’interno dell’essere e come una modificazione dell’essere. Il tema della ricerca filosofica è, dunque, il senso del reale nella sua totalità. Questo problema attraversa l’intero svolgimento del pensiero; ed è ancora il motivo di fondo di ogni riflessione. Perciò la filosofia si è configurata in primo luogo come una metafisica. Lo sforzo maggiore è stato sempre rivolto alla comprensione dell’unità e della totalità del reale. Il senso, infatti, può emergere solo da un tale ambito unitario. Nell’età moderna, in cui il sapere scientifico assume una identità specifica, si ha la separazione tra fisica, come scienza esatta dei fenomeni, e metafisica, come scienza del senso dell’essere. Kant osserva che la metafisica, riguardando l’essere in sé, risulta impossibile da fondare da parte di un soggetto, la cui capacità conoscitiva si estende solo all’ambito fenomenico. Ma la questione metafisica riprende prepotentemente nell’idealismo e torna a costituire il grande tema dell’intero dibattito filosofico. Lo stesso nichilismo si configura come un aspetto di quel dibattito, come l’aspetto metafisico che assume la negazione della metafisica. Il problema che permane è più o meno lo stesso: per quale via e in quali modi può essere perseguita la ricerca intorno al senso dell’essere anche nell’età del nichilismo, in cui lo stesso concetto di “essere” sembra naufragato in modo irreparabile? Nietzsche, che annuncia la fine della metafisica e l’avvento del nichilismo,
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propone il divenire originario come senso dell’essere. Tale senso sarebbe stato cercato nella storia, nel progresso, nella vicenda dell’umanità; invece esso andrebbe cercato nell’eterno ritorno dell’identità dell’essere. Contro il nichilismo si tende a recuperare la dimensione della metafisica dell’essere. Tanta parte della filosofia del Novecento è dedicata alla riflessione intorno all’essere. Ontologisti, neoidealisti, realisti, spiritualisti, neoscolastici e altri ancora si soffermano sulla dibattuta questione del senso dell’essere. I neopositivisti hanno riproposto il tema della rigorosa verifica sperimentale dei dati cognitivi e pertanto hanno denunciato ancora una volta l’illegittimità logica della metafisica. La metafisica è, in primo luogo, riproposta dai neoidealisti. Lo storicismo di Croce poggia sull’impianto metafisico dei “distinti”, che sono le categorie “eterne” attraverso le quali si svolge la vicenda della storia dello spirito. Che funzione può avere in un tale contesto la proposta real-idealistica che si può fare risalire a Spaventa e alla scuola spaventiana? Qui l’esperienza è assunta come struttura fondamentale per la stessa fondazione della metafisica. Rimane comunque che la metafisica va oltre il dominio dei dati empirici e delle nozioni scientifiche, di carattere sperimentale. Lo sviluppo dell’esperienza nelle sue diverse forme, e in particolare di quella propria del sapere scientifico, accompagna e stimola (orienta) lo sviluppo della metafisica. Questa non è certo più la colomba kantiana che presume volare meglio in assenza della resistenza dell’aria, è consapevole, invece, che è proprio questo mezzo che le consente di “volare”. La metafisica si sviluppa nel contesto dei diversi saperi e tiene conto della complessa articolazione dell’esperienza. Essa potrà avere ancora una funzione regolativa, secondo la proposta kantiana, cioè orientativa e giocare così il ruolo di ipotesi intorno al senso unitario dell’intero quadro culturale di un determinato momento storico. Senza pretendere alla verità assoluta, tenendo conto delle riserve critiche del pensiero, rimandando ai limiti di ogni conoscenza, la metafisica si propone, dunque, oggi come uno strumento della sintesi culturale, in atteggiamento di dialogo continuo con le diverse forme di conoscenza e con le molteplici esperienze spirituali. La molteplicità dei punti di vista non è esclusa, anzi è richiesta e sollecitata. La metafisica ha anche la funzione di tenere desta la coscienza problematizzante. Si tratta di considerare che ogni ipotesi di soluzione è un nuovo problema e che ogni risposta è ancora una domanda. Compito della filosofia è, appunto, quello di cogliere e formulare queste domande, di individuare e precisare i problemi. E ciò rimanendo vigile e attenta riguardo alla formulazione delle risposte da parte dei vari settori scientifici. Non si nega il principio di verificabilità di Popper, ma si rileva che quello delle proposizioni verificabili non è l’unico campo della conoscenza. Il termine “esperienza”, infatti, si riferisce a una molteplicità di atteggiamenti umani e spirituali; esso indica una pluralità di forme e si strutture del pensiero e della prassi. Spetta alla filosofia valutare, di volta in volta, la funzione e l’efficacia delle proposte “empiriche” e dire che cosa significano rispetto al problema generale dell’esistenza. Il problema generale, poi, al quale ogni specifica ipotesi di spiegazione va ricondotta, riguarda il senso dell’essere, la dialettica unitaria in cui è compreso ogni termine della realtà e dell’esperienza. In tale modo si confuta quella tendenza nichilistica che vorrebbe finita non solo la vicenda della metafisica ma quella dell’intera filosofia. La filosofia vive e si sviluppa a partire dal contesto culturale nella quale viene a trovarsi, non ha cioè un dominio autonomo, quasi un celestiale empireo, immune dall’influenza terrestre e mondana; vero è invece che essa è troppo terrestre e mondana e che si alimenta degli sviluppi, delle contraddizioni, dei limiti dell’esperienza storica. Le vicende del pensiero nel corso del Novecento sono, a questo proposito, una eloquente testimonianza. Non più la linea di una ragione eterna, immutabile, costantemente uguale nella sua necessità, bensì il quadro mutevole degli eventi, il destino anche tragico di conflitti e orrori: la filosofia si è dovuta confrontare con episodi inediti, con la tragedia di due guerre mondiali, con le contraddizioni più aspre e i limiti e gli errori più devastanti. E’ riuscita la filosofia a dire qualcosa a quest’umanità afflitta e turbata? Ci sembra onestamente che i filosofi di fronte agli scenari di morte, quando tutto sembrava richiamare i fantasmi del nulla, non sia siano tirati indietro, per cercare rifugio in possibili residue torri d’avorio, e che, anzi, essi si siano mescolati ai simulacri di quella tragedia per cercare ancora in essi i segni dell’umanità ancora possibile. La più grande filosofia del Novecento è l’esistenzialismo, la filosofia dell’uomo più profonda e suggestiva che sia stata sviluppata nel tempo. Il senso dell’essere è il tempo: questa provvisoria conclusione di Heidegger riassume efficacemente la ricerca di una via per il pensiero dell’uomo. Il tempo è il luogo dell’eventualità e della progettualità, dove l’esistenza decide intorno a se
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stessa e dove si gioca la partita dell’autenticità e dell’inautenticità, della verità e dell’errore, della “caduta” e della “salvezza”. In un’epoca ancora carica di limiti e di tensioni, incalzata dalla velocità, in cui la dimensione temporale sembra soggetta alle più svariate modificazioni, la filosofia può costituire un utile antidoto a quella malattia che genericamente può essere indicata come “nichilismo” e che ancora proietta la sua ombra su un percorso in cui sarebbe opportuno ristabilire il dominio della ragione. Husserl e l’Europa come guida per l’umanità. Gli interrogativi del filosofo che ha pensato l’Europa come idea dell’umanità razionale. L’idea dell’Europa come modello e progetto storico dell’umanità razionale emerge con grande chiarezza nelle prime pagine del libro più famoso di Husserl, “La crisi delle scienze europee”, dove il filosofo richiama specialmente la responsabilità degli intellettuali moderni nella dispersione dell’idea relativa al senso della storia come attuazione di tale disegno, già delineato nel mondo greco con la nascita della filosofia. Ora la pubblicazione di una serie di saggi su questo argomento, scritti da Husserl tra il 1923 e il 1924 e pubblicati su una rivista giapponese, ci permettono di seguire lo sviluppo di questo nucleo di pensiero del grande fondatore della fenomenologia e di individuarne anche la matrice ideologica e contestuale. In realtà, si tratta di scritti che, oltre a risultare coerenti con la stessa gestazione e precisazione del disegno fenomenologico, intendono reagire a una certa tendenza che si insinuava nella cultura europea in seguito alla catastrofe della prima guerra mondiale e che aveva avuto la sua espressione più eloquente nell’altrettanto celebre libro di Oswald Spengler, “Il tramonto dell’Occidente”. Husserl reagì allora con tutta la forza del suo pensiero a quella tendenza che del resto interpretava il diffuso senso di smarrimento dell’intera coscienza occidentale e coniugò mirabilmente la volontà di un rinnovamento della coscienza europea col “metodo della ricerca di essenza” che doveva portarlo alla definizione dell’essenza dell’uomo come razionalità critica. In questo senso, il pensiero europeo costituisce la sede in cui l’umanità scopre continuamente la sua essenza; e la forma dell’umanità così definita “deve essere considerata quella suprema dal punto di vista assiologico, e che permette all’umanità di raggiungere lo stadio più elevato che le è richiesto”. Di fronte all’evidenza del decadimento di quei valori e dell’oscuramento della stessa coscienza razionale, Husserl riafferma la possibilità di una ripresa, nella convinzione che l’avvenire può essere posto solo nel lucido possesso di un’idea. Sottolineare l’attualità di questo pensiero suonerebbe superfluo, tanto oggi appare vivo e urgente il ritorno alla ragione, come metodo e via di soluzione dei tragici problemi che con inaspettata e irrazionale virulenza si sono insediati nel cuore dell’Europa. Il dubbio oggi è se veramente questo nucleo antico dell’Occidente possa essere assunto a simbolo della razionalità. E. Husserl, “L’idea d’Europa”, Cortina, Roma 1999, pp. 176, L. 28.000.
Husserl e l’autofondazione della filosofia (come “sapere assoluto”) Il merito di Husserl è quello di avere cercato di fondare un’analitica trascendentale estesa all’intera area della coscienza, indipendentemente da specifici settori categoriali o campi d’esperienza. La filosofia ha il compito di compiere una riduzione trascendentale totale e radicale, in modo che la coscienza si presenti nella sua costituzione originaria, non caratterizzata da determinai contenuti e strutture. Si tratta perciò di “mettere tra parentesi” ogni sfera culturale e ogni dato conoscitivo del “mondo”. Per Husserl, l’analitica trascendentale messa in atto da Kant è limitata, relativa al sistema scientifico matematico-sperimentale, che implica una ben precisa ipotesi di costituzione della natura. Perciò viene messo in rilievo il complesso delle operazioni che stanno alla base di questo metodo. Una analitica radicale si spinge fino al “mondo della vita” della coscienza, cioè raggiunge la sfera dell’intenzionalità, che è presupposto di ogni specifico articolarsi del mondo umano. Kant aveva inteso giustificare il sistema scientifico moderno; la sua scoperta riguardava i fenomeni in quanto misurabili e ridotti a dimensioni quantitative. Husserl intende cogliere l’a priori di ogni esperienza. Dunque si tratta di cogliere (o mostrare) la coscienza nella sua attività originaria, nel suo prodursi come attività pensante e rappresentativa. Infatti l’io pensante pensa sempre qualcosa: e si tratta di mettere in evidenza i contenuti originari del pensiero e della rappresentazione. I contenuti del pensiero (e in generale dell’attività della coscienza) sono “pensabili”, idee, figure della rappresentazione immutabili e permanenti, relativi a determinati stati
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della coscienza. L’esperienza ordinaria fa capo a un dipanarsi dei contenuti della coscienza in quanto corrispondenti dell’attività soggettiva. E’ a partire da questa che si sviluppa l’esperienza. Ogni sviluppo del soggetto muove dal patrimonio strutturale della coscienza. Così avviene che prendano forma ambiti culturali diversi, facenti capo a differenti ambiti intenzionali. La scienza obiettiva, la matematica, la geometria, la simbolica artistica, la tecnica, la religione, la politica e la morale fanno capo a determinati ambiti dell’intenzionalità e a specifiche sfere della pensabilità. Il pensiero è alla base di ogni costruzione del reale. Il mondo è il risultato di una complessa attività della coscienza. La fenomenologia intende considerare questa complessa attività e costruzione del mondo nei suoi diversi momenti o fasi. Bisogna, quindi, distinguere le operazioni psichiche dall’attività trascendentale. Solo quest’ultima è oggetto di scienza filosofica. La fenomenologia riconduce tutti gli aspetti del mondo a forme dell’attività del soggetto e distingue i contenuti in rapporto alla sfera di intenzionalità a cui originariamente appartengono e agli sviluppi che i contenuti a priori trovano nel corso dell’esperienza. Questa è sempre caratterizzata da una direzione di senso, cioè da uno specifico significato. I significati sono immanenti all’intenzionalità e si sviluppano attraverso l’esperienza medesima. Sul piano fenomenologico, la filosofia assume i caratteri della complessa analisi culturale, in collaborazione con le varie manifestazioni spirituali, Dunque la fenomenologia rappresenta il metodo filosofico maggiormente aperto alle più diverse applicazioni nelle diverse aree della cultura e della stesa vita quotidiana. La fenomenologia indaga i significati più profondi e originari che stanno alla base di ogni atto di pensiero. Si può dire che a tale base vi sia sempre un progetto di mondo, dunque una intenzione significativa. Si tratta di mettere in evidenza questi processi e queste strutture nascoste. Il metodo dell’analisi fenomenologica rivela quel mondo che sostiene ogni pur semplice atto della coscienza. Nulla di ovvio e di scontato vi è nello svolgimento della nostra esperienza. Tutto ha un significato e tende a uno scopo. I diversi piani, quello intenzionale e quello dell’esperienza, si corrispondono e dunque producono un terzo piano, che è quello dei significati (e dei simboli). La fenomenologia riguarda questi diversi piani e la loro connessione e interdipendenza reciproca. E ciò vale sia per l’esperienza personale sia per la sfera culturale, intersoggettiva. La coscienza collettiva progetta mondi significativi che si tratta di mettere in evidenza. Husserl ha richiamato più volte il progetto della coscienza europea, come realtà storica fornita di una struttura significativa. Il mondo, dunque, non comprende “cose” inerti, bensì significati e progetti. E le cose devono essere guardate sotto il profilo dei significati ai quali corrispondono. La fenomenologia insegna a modificare lo sguardo verso il mondo e verso le cose. Husserl chiama sguardo naturalistico quello che attribuisce una realtà indipendente alle cose; chiama “antropologico” quello che considera l’uomo come un animale fornito di ragione, la quale opera con altrettanta determinazione di quanta è quella che condiziona i processi naturali (poniamo la maturazione dei frutti col calore del sole). Husserl distingue l’atteggiamento fenomenologico rispetto a quello naturalistico e a quello psicologistico. La fenomenologia riguarda la struttura (e dimensione) trascendentale del soggetto. IL soggetto (la coscienza) è l’oggetto dell’indagine. La considerazione naturalistica tratta il soggetto come ente tra gli enti della natura; quella psicologistica riduce il soggetto alle operazioni psichiche. La fenomenologia è la scienza filosofica e la sfera verso la quale si rivolge è quella trascendentale. Un altro modo di considerare il soggetto è quello “logicistico”, per cui l’oggetto è la logica formale tradizionale. Husserl rileva che Kant limita l’analisi trascendentale alla struttura del soggetto corrispondente alla sfera della logica formale. In realtà Kant scrive un capitolo della logica e non raggiunge la sfera propriamente trascendentale. Husserl assume la realtà come una costruzione (un prodotto) dell’attività trascendentale del soggetto. Egli intende cogliere l’”oggettività” corrispondente alla pura soggettività trascendentale, prima che si dia mano alla costruzione di un mondo fornito di significato. Qual è, egli si chiede, l’oggetto proprio dell’io trascendentale, considerato nella sua purezza e originarietà? Come si configura il puro “pensato” come oggetto del mero atto del pensare (senza pensare a questo o a quello)? Infatti l’atteggiamento fenomenologico prescinde da ogni contenuto determinato di pensiero, mette il mondo (l’oggetto di tutte le rappresentazioni) tra parentesi. L’atteggiamento fenomenologico corrisponde all’epoché degli scettici antichi. Il fenomenologo si pone di fronte al soggetto trascendentale puro e dunque anche di fronte a una oggettività pura, in cui non si distingue più nessun oggetto. Il fenomenologo si pone alla base dell’attività del soggetto e osserva come il soggetto opera a partire dal patrimonio spirituale di cui per sé dispone, prima che abbia attinto contenuti dal mondo. Il soggetto balza come fondatore di esperienze possibili. Noi non sappiamo come, ad esempio, si muoverà, verso quali attività si volgerà, quali saranno gli oggetti di pensiero che via via porrà; ma siamo certi che “qualcosa” egli farà e che ad alcuni contenuti darà luogo con la propria mente. Allora il nostro interesse sarà rivolto a quei contenuti possibili, a quei significati e oggetti pensati.
Il filosofo prescinde dall’esistenza delle cose: egli considera le essenze in quanto “pensabili”, possibili oggetti o contenuti del pensiero. Questo è il significato dell’”epoché”: che si prescinde da
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contenuti determinati. La filosofia prescinde da ogni rappresentazione. Mentre l’atteggiamento naturale considera gli oggetti in connessione con qualche rappresentazione, quello fenomenologico si riferisce al puro pensiero, prescindendo da qualsiasi intuizione rappresentativa. Io vedo quest’acqua, qui, in questa situazione, cioè l’acqua che scorre, che sta ferma in uno stagno, che si solidifica o che diventa vapore; il filosofo considera l’acqua come qualcosa che rimane sempre se stessa in ogni situazione particolare. Nelle “Ricerche logiche” Husserl ha proceduto a separare la logica dalla psicologia e la fenomenologia da entrambe; nelle “Idee” ha definito la produzione dei contenuti attraverso l’attività trascendentale; nelle “Meditazioni cartesiane” ha rilevato il carattere eidetico (ideale) dei contenuti del pensiero. In tal modo la fenomenologia si configurava come una specie di enciclopedia filosofica, comprendente la totalità delle sfere regionali relative alle diverse forme di attività della coscienza e ai diversi modi di declinarsi del “mondo della vita” precategoriale. Husserl si è proposto di riportare l’attività trascendentale alla sfera precategoriale, in modo che essa potesse essere riferita a qualsiasi contenuto possibile e non solo al mondo scientifico (ad esempio). Egli si muove nell’ambito dell’orizzonte del soggetto.
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CAPITOLO XXXIV Il marxismo La critica della società. La crisi del soggetto nella società globale I processi culturali propri di una società “totale” (in cui, cioè, tutte le manifestazioni dell’esistenza passano attraverso il filtro della vita sociale, diventando, perciò, anonime, alienate, inesorabilmente segnate da un destino di generale mercificazione) sono stati esaminati da quell’indirizzo sociologico che si è venuto sviluppando, a partire dal secondo dopoguerra, ad opera dei rappresentanti della Scuola di Francoforte, principalmente da Max Horkheimer, Theodor Adorno, Jürgen Habermas, Herbert Marcuse.216 Attraverso lo sviluppo di una “teoria critica della società”, questi filosofi hanno cercato di mettere in evidenza l’inevitabile declino del soggetto nella società globale e di indicare le possibili vie di recupero di motivi propri dell’esistenza autentica. I punti di riferimento sono principalmente Marx e Freud, il primo per la sua analisi delle condizioni di alienazione nel contesto della società industriale, dominata dai processi di produzione e di consumo di una quantità sempre maggiore di merci, il secondo per l’interpretazione del soggetto come depositario di una energia vitale in gran parte repressa e principalmente indirizzata verso canali determinati dalle forme dell’organizzazione sociale. Nella società industriale avanzata, tutte le manifestazioni della vita individuale sono controllate dal sistema di produzione, in vista del mantenimento e del potenziamento di esso, che, nello stesso tempo in cui viene ad esercitare una sempre più forte e generale egemonia, mostra il suo volto disumano, di una totale trasformazione dell’aspetto del mondo in un immenso mercato dove tutto reca i caratteri della generale mercificazione. L’analisi sociologica di indirizzo critico si rivolge a questi aspetti di un mondo disumanizzato, per cogliere le possibili condizioni dialettiche, eventualmente cariche di contraddizioni tali che, attraverso la loro esplosione, si mutino in fattori di liberazione. Lo strumento fondamentale, in questo senso, consiste nel sistema di contraddizioni, che una opportuna prassi critica possa trasformare in senso positivo. La razionalità della quale è rivestito il sistema sociale esistente è, infatti, soltanto apparente e fittizia: sotto di essa si cela una sostanziale irrazionalità, che la caratterizza come una “totalità contraddittoria”, esposta, pertanto, a quella “potenza del negativo” di hegeliana memoria e destinata ad essere superata in una nuova condizione d’esistenza. In questo senso va criticata la teoria della “razionalità sociale” che impronta la sociologia di Max Weber, sostanzialmente statica e incapace di cogliere le intrinseche forze dialettiche che costituiscono ogni prassi sociale. La critica dei rappresentanti della Scuola di Francoforte si connota come un “pensiero negativo”, che mette in luce le contraddizioni della società industriale avanzata e si fa, infine, strumento della prassi rivoluzionaria. I movimenti di contestazione che si sono sviluppati specialmente intorno al 1968 fanno capo a questo indirizzo. Coniugando insieme Marx e Freud, essi hanno elaborato una utopia della liberazione, basata sulla eventualità di una liberazione dell’uomo (considerato come soggetto capace di creare da sé il suo progetto d’esistenza) e della fine del generale assoggettamento al sistema del mondo deificato. Al centro della prassi rivoluzionaria si pone l’attività degli intellettuali, incaricati di elaborare gli strumenti teorici che dovranno tradursi, in virtù del principio della connessione o identità tra teoria e pratica, in liberazione e trasformazione della società. La stessa attività culturale viene, perciò, posta al centro dell’attenzione, come leva di questo processo.217 216
L’”Istituto per la ricerca sociale” fu fondato nel 1922 a Francoforte, ma svolse la sua attività principalmente nel secondo dopoguerra. L’espressione più significativa del lavoro dei “Francofortesi” è lo sviluppo di una “teoria critica della società”. 217 Nell’età attuale una funzione primaria stanno assumendo i sistemi della comunicazione mediatica, la cui valutazione, nel senso di strumenti efficaci della disposizione della società globale, è variamente intesa: mentre alcuni, in nome di un umanesimo tradizionale, considerano i “media” come fattori di alienazione, altri mettono in rilievo che essi contribuiscono allo sviluppo di processi di comunicazione intesi a diffondere gli elementi critici destinati a promuovere la trasformazione sociale. A proposito dell’arte, poi, Adorno ha espresso l’opinione che essa può
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“Dialettica dell’illuminismo” di Horkheimer e Adorno. L’assoggettamento totale dell’uomo al sistema sociale L’illuminismo rappresenta, nell’ambito della “teoria critica” di Horkheimer e Adorno, il sistema culturale caratterizzato come generale organizzazione del dominio dell’intero sviluppo della civiltà umana, configurata nel senso di una inarrestabile macchina disposta per lo sfruttamento delle risorse naturali, la costruzione di un mondo in cui ogni cosa ha un valore connesso alla sua “utilità”, in cui insomma la scienza e la tecnica, l’ordine politico e la stessa intera articolazione della vita spirituale sono orientati verso una razionalità intesa come razionalizzazione dell’esistente e strumento fondamentale del padroneggiamento tecnico di ogni problematica esistenziale e storica. L’illuminismo, come è noto, intendeva liberare l’umanità dai limiti costituiti dall’ignoranza, dalle false credenze, dalla continua presenza delle forze negative, dall’imprevedibile e dall’inspiegabile. Esso, perciò, rappresenta il simbolo di una condizione interamente comprensibile e accessibile alla scienza e alla prassi umana. Le grandi figure mitiche della tradizione occidentale, Prometeo o Ulisse ad esempio, sono i simboli di questa umanità che si fa strumento della pianificazione del mondo mediante la tecnica e l’intelligenza, che, in particolare, si mostra idonea a fronteggiare tutte le difficoltà e a superare e evitare tutti i pericoli e gli inganni nascosti nelle pieghe stesse dell’ordine naturale. Ulisse fronteggia il pericolo rappresentato dal canto ammaliante delle sirene, intervenendo sulla struttura stessa della sensibilità umana (rendendo i suoi compagni sordi) e rendendosi a sua volta completamente impossibilitato a disporre delle sue facoltà, interamente privato della libertà. Tale appare la condizione dell’uomo nell’ambito della società attuale: una condizione in cui l’uomo è alienato rispetto alla struttura dell’esistenza, interamente trasformato dalla volontà di padroneggiare il mondo, comunque disumanizzato. L’illuminismo contraddistingue l’intero sviluppo della civiltà occidentale: esso inizia con la lotta contro la mitologia antica e ora, pervenuto al suo estremo sviluppo, inevitabilmente sta per rovesciarsi nel suo opposto, cioè diventa esso medesimo una nuova mitologia. Horkheimer e Adorno vedono i contorni di questa mitologia già nella moderna esaltazione del soggetto, posto dal pensiero moderno (rappresentato specialmente da Kant) al centro della realtà. L’onnipotenza dell’uomo è, dunque, l’oggetto della nuova mitologia, che cancella ogni aspetto di autonoma esistenza delle cose e ammette solo l’opera trasformatrice della tecnica. Alla fine, l’uomo si trova davanti alla figura di una generale signoria configurata impersonalmente come la sola realtà oggettiva. Tutta la realtà si presenta come una sola energia che gli strumenti tecnici modellano nelle forme dell’attuale produzione, conformemente all’originario principio di una sola materia universalmente traducibile in elemento della civiltà.218 La società occidentale assume come criterio di unificazione del reale la struttura matematica, l’essere quantitativo. L’unità è il concetto che riassume l’intera logica di questa cultura, capace, come diceva Eraclito, di mutare tutte le cose nei loro equivalenti, le merci in denaro, il denaro in merci. Questo concetto domina l’intero svolgimento del pensiero, da Parmenide a Russell. Gli dèi così sono stati trasformati negli elementi naturali, che trapassano gli uni negli altri, sulla base di un identico essere.219 Il limite dell’illuminismo è la sua incapacità a considerare e comprendere le cose se non nella loro dimensione quantitativa, nell’universale mercificazione, nel dominio contribuire alla costruzione di una società nuova, in quanto si sottrae al fenomeno della mercificazione: pertanto ha visto in alcune avanguardie i processi di rottura capaci di favorire la trasformazione della società. 218 L’illuminismo riconosce come essere e accadere soltanto ciò che si lascia ridurre a unità. Il suo ideale è il sistema, da cui si deduce tutto e ogni cosa. La molteplicità delle figure è ridotta alla posizione e all’ordinamento, la storia al fatto, le cose a materia. La logica formale è stata la grande scuola dell’unificazione e ha fornito all’illuminismo lo schema della calcolabilità dell’universo” (P. Vranicki, Storia del marxismo, cit., II, p. 334). “L’equiparazione di sapore mitologico delle idee ai numeri negli ultimi scritti di Platone esprime l’anelito di ogni demitizzazione: il numero diventa il canone dell’illuminismo” (Dialettica dell’illuminismo, p.14). 219 “Il mito trapassa nell’illuminismo e la natura in pura oggettività. Gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere con la estraniazione da ciò su cui lo esercitano. L’illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore agli uomini: che conosce in quanto è in grado di manipolarli. Lo scienziato conosce le cose in quanto è in grado di farle” (Ib., p. 17).
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assoluto riconosciuto allo scambio. Ciò che ha consentito gli straordinari risultati nell’analisi della materia costituisce, per i critici della società industriale, il fattore ideologico che tuttora concorre a configurare il concetto dell’universale dominio. E così il soggetto è a sua volta ridotto all’unica dimensione della razionalità analitica e unificante. Il soggetto è divenuto incapace di cogliere il meraviglioso dispiegarsi delle qualità, irriducibili le une alle altre e parlanti, ognuna, un proprio linguaggio specifico. Il mondo è ricondotto a un univoco “logos”, al discorso sull’unica sostanza. Così si è pervenuti all’estrema reificazione dello spirito. Questa condizione si proietta nella vita quotidiana, ove il soggetto si piega alle modalità di un sistema anonimo di atteggiamenti, senza anima e senza vita autonoma, dunque senza libertà. I singoli sono portatori inconsapevoli di atteggiamenti indotti dal sistema dell’universale interscambiabilità. E’ il sistema dello scambio a determinare la dinamica dei comportamenti. Prima ancora che si presenti il quadro delle determinazioni sensibili, il soggetto già interpreta la situazione che viene a dispiegarsi davanti a lui come una parte del disegno generale già programmato e disposto. In un tale contesto culturale non rimane posto per l’autonomia personale, per il gusto, per l’autenticamente soggettivo. La pianificazione dispone tutto come qualcosa che è a portata di mano e che non lascia possibilità di scelta. Le merci e il loro consumo sono imposti dalla stessa dinamica della produzione. In un’età in cui la cultura è configurata come industria le spinte più propriamente creative e originali vengono represse e, in sostanza, ciò che si propone, sul piano dell’arte, non è altro che la riproduzione dell’eguale, in un processo indefinito di duplicazione e riproduzione continua. In questo senso rivestono un ruolo positivo le avanguardie, che basano i loro procedimenti sulle operazioni di scomposizione, di disarticolazione dell’uguale, di orientamento verso soluzioni utopiche, che lasciano intravedere l’insoddisfazione per ciò che si dà sul piano dell’industria culturale e l’aspirazione a un mondo segnato dalla presenza dell’irriducibile vita spirituale.
“Eclissi della ragione” di Max Horkheimer Horkheimer ha pubblicato l’altro suo saggio più famoso, Eclissi della ragione, nello stesso anno (1947). In questo scritto egli segue specialmente lo sviluppo del concetto di “ragione” e “razionalità” dal contesto antico e medievale, caratterizzato dalla tendenza a conoscere un mondo obiettivo, l’essere medesimo, a quello moderno, indirizzato a esaltare la potenza del soggetto e a instaurare il dominio dell’uomo sulla natura. Nella tradizione, dunque, la ragione indica uno strumento che ha la funzione di concorrere a sviluppare un discorso che rifletta i caratteri del mondo obiettivo: essa ha una funzione essenzialmente conoscitiva, mentre nel mondo moderno assume la connotazione di strumento della generale pianificazione della realtà. La ragione, in questo caso, ha il compito di disporre un sistema di mezzi e apparati concettuali in vista del conseguimento di determinati scopi. Sganciata da situazioni oggettive, la ragione è sottoposta a un processo di formalizzazione. Ad essa non competono più funzioni relative alla significazione dei contenuti in rapporto alla loro verità, bensì competono funzioni di controllo della coerenza formale.
La critica della società industriale: Marcuse. L’utopia rivoluzionaria del nostro tempo Marcuse ha meglio di tutti interpretato le istanze utopistiche della seconda età del Novecento, attraverso una sintesi di hegelismo, marxismo, psicanalisi. In Ragione e rivoluzione, del 1941, ha efficacemente indicato nella filosofia hegeliana lo strumento dialettico per comprendere le esigenze e le spinte rivoluzionarie
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presenti in determinati contesti storici e sociali e rivolte alla costruzione di situazioni più razionali, attraverso l’eliminazione e il superamento di residue contraddizioni.220 In Eros e civiltà, del 1955, ha inserito nella sua ipotesi interpretativa la componente freudiana, individuando nel “principio del piacere”, sistematicamente negato dalle società repressive, l’insopprimibile molla di ogni sviluppo creativo dell’esistenza, dunque il motivo al quale fare riferimento in una possibile azione rivoluzionaria mirante alla attuazione di un progetto idoneo a superare le pratiche alienanti messe in atto da una società altamente repressiva qual è, appunto, quella che intende investire nel lavoro produttivo ogni energia umana, convertendo, dunque, l’intera pulsione primaria in attività socialmente significativa.221 Marcuse pensa alla costruzione di una società che ponga al centro l’individuo con la sua energia creativa, proiettato verso forme di esistenza culturalmente significative e nelle quali principalmente trovino soddisfazione le esigenze estetiche, secondo il principio già esaltato nell’età romantica (specialmente da Schiller) della vita come libero sviluppo della personale spiritualità, dunque come gioco e costruzione di modelli armonici di esistenza. Egli individua nella società industriale avanzata, dominata dalla tecnica e dall’attività produttiva, il fattore di una generale alienazione e reificazione dell’uomo. In questo senso, la proposta di Marcuse è apparsa, piuttosto che come una ideologia radicalmente rivoluzionaria, come l’indicazione di una progressiva introduzione di motivi di riforma all’interno della società attuale, nel senso di un sempre minore investimento dell’energia pulsionale in lavoro e di un maggiore sviluppo delle attività libere, rispondenti alle personali esigenze e inclinazioni.222 Ne L’uomo a una dimensione, del 1964, Marcuse è ritornato sul tema della trasformazione della società industriale, ritenuta responsabile di quella alienazione che priva l’uomo delle sue prerogative più proprie, e sottolinea, pertanto, l’istanza rivoluzionaria, come via insostituibile della liberazione dell’uomo dai sistemi repressivi. In particolare, il filosofo rileva i processi sociali per cui gli individui sono ricondotti ad accettare come unica alternativa esistenziale la situazione di fatto, intentendola come unicamente razionale.223 A questo proposito, si rivalutano le forze che in qualunque modo esprimono istanze di rottura, di contestazione, di rifiuto. E’ questa l’epoca in cui Marcuse è visto come il corifeo delle grandi manifestazioni 220
Per questa visione dialettica, i fatti storici sono espressione della complessiva situazione e questa si ritrova intera in ogni fatto. “La dialettica considera i fatti come elementi di una certa totalità storica, dalla quale essi non possono venir isolati” (Ragione e rivoluzione, p. 369). 221 La forma tipica di “lavoro”, secondo quanto chiarito dallo stesso Marx, osserva opportunamente Marcuse, è quella propria del sistema industriale capitalistico, cioè “quell’attività che produce il plusvalore nella produzione delle merci, oppure, in altri termini, che ‘produce il capitalista’” (Ragione e rivoluzione, tr. it., p. 327). “Altri tipi di attività non costituiscono ‘lavoro produttivo’ e quindi non sono lavoro in senso proprio. Lavoro significa dunque che all’individuo che lavora è negato un libero e universale sviluppo; ed è chiaro che n questo stato di cose la liberazione dell’inidivuo comporta anzitutto la negazione del lavoro” (Ib., p.327). 222 “Poiché la durata della giornata lavorativa costituisce essa stessa uno dei principali fattori repressivi imposti dal principio della realtà al principio del piacere, la riduzione di questa durata fino al limite in cui il puro tempo lavorativo non blocchi più lo sviluppo umano è la prima delle condizioni preliminari della libertà” (Eros e civiltà, tr. it., Einaudi, Torino 1964, p. 164). 223 In realtà, osserva Marcuse, un sistema totalitario si instaura su basi culturali ed economiche. “Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio politico produce il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un ‘pluralismo’ di partiti, di giornali, di ‘poteri controbilanciati’, ecc.” (L’uomo a una dimensione, tr. it., Einaudi, Torino 1967, p. 23). Una società basata sulla disponibilità di beni di consumo finisce per dare l’illusione di un essenziale benessere, che impedisce e blocca ogni aspirazione a una condizione di autentica felicità (che implica lo sviluppo delle disposizioni più proprie). “I prodotti indottrinano e manipolano, promuovono una falsa coscienza che è immune dalla propria felicità. E a mano a mano che questi prodotti benefici sono messi alla portata di un numero crescente di individui in un maggior numero di classi sociali, l’indottrinamento di cui essi sono veicolo cessa di essere pubblicità; diventa un modo di vivere. E’ un buon modo di vivere – assai migliore di un tempo – e come tale milita contro un mutamento qualitativo. Per tale via emergono forme di pensiero e di comportamento ad una dimensione in cui idee, aspirazioni e obiettivi, che trascendono come contenuto l’universo costituito del discorso e dell’azione, vengono o respinti o ridotti ai termini di detto universo. Essi sono definiti in modo nuovo ad opera della razionalità del sistema in atto e della sua estensione quantitativa” (Ib., p.32).
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di protesta e di contestazione dei sistemi (culturale, sociale, politico, economico) dominanti.224 Interpretando a sua volta il suo stesso ruolo nel processo di trasformazione della società, egli si è fatto promotore di un nuovo movimento (una specie di “nuova sinistra” rivoluzionaria) rivolto a porre le strategie (culturali e politiche) per dare al mondo un volto più armonico e umano. L’attenzione del filosofo verso l’arte, attestata specialmente ne La dimensione estetica (1977), rientra in questo programma che sostanzialmente racchiude la forma più significativa dell’utopia umanistica del nostro tempo.
Marxismo e psicanalisi. Fromm: storicità della psiche e costituzione secondo le categorie di “essere” e “avere”. Erich Fromm ha cercato di conseguire una sintesi di marxismo e psicanalisi sulla base dell’idea che la psiche non è una struttura immodificabile, inerte, e che, invece, ha una costituzione reattiva, capace di interagire con le componenti del mondo circostante, dunque coi fattori storici, culturali, sociali, economici e pratici coi quali essa viene via via a confronto. In questo senso una teoria critica della società ha il compito di indagare intorno alla dialettica che si stabilisce tra la psiche (con le sue inclinazioni e le sue potenzialità) e il mondo storico, al fine di individuare le possibili vie attraverso le quali il mondo può diventare un fattore sempre più significativo di sviluppo delle autentiche aspirazioni della psiche (come forma della personalità). Fromm considera l’attuale configurazione di questa dialettica e osserva che essa risulta generalmente orientata e declinata secondo la categoria del “possesso”: il rapporto del soggetto col mondo è quello di chi vede nel mondo il campo nel quale si esplica la sua volontà di dominio. La realtà è vista come ciò che è a disponibilità dell’uomo, ciò che può diventare oggetto di uso e di manipolazione. Ma in tal modo è la stessa psiche ad assumere la forma relativa alla semplice categoria dell’avere. I soggetti umani si riconoscono come semplici manipolatori delle cose, come macchine che consumano, trasformano, rendono il reale oggetto di una generale pratica produttiva. Il mondo deve essere ridotto sempre più sotto la categoria dell’avere; esso deve perciò diventare sempre maggiormente manipolabile e piegato all’utilità per l’uomo. Fromm denuncia le radici ideologiche di tale atteggiamento che caratterizza specialmente la civiltà moderna. Indubbiamente alla origine di tale cultura dobbiamo collocare la scienza moderna. Ma specialmente viene condannato il sistema capitalistico, che rivolge a sfruttamento, conflitto di classe, rivalità economica ciò che invece dovrebbe essere occasione di libero sviluppo della personalità. L’uomo, infatti, traduce in disagio, angoscia e nevrosi le condizioni che costituiscono fattori di repressione delle inclinazioni individuali; egli si adatta, sì, a ogni modello di cultura, ma quando avverte che si trova dinnanzi a forze ostili perde il suo equilibrio emotivo, si rifugia in una realtà immaginaria, ma diventa anche violento e cerca, infine, di cambiare le condizioni di fatto. Fromm esamina le caratteristiche dell’esistenza umana, con particolare riguardo alle differenze con la vita istintiva, osservando, in primo luogo, che l’uomo “si trova in uno stato di costante e inevitabile squilibrio”.225 Da qui l’impulso a ricercare le condizioni ambientali più favorevoli, partendo dalla consapevolezza della sua finitudine e della sua indefinitezza.226 Dunque la comprensione delle dinamiche
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Marcuse così giustifica il suo atteggiamento di “grande rifiuto” verso ogni sistema che in realtà, pur sotto l’apparenza di un “progresso” materiale, nasconde il volto del dominio totalitario. “No, non si può essere felici, non si può realizzare la propria vocazione umana, e neanche un’attività realmente umana, quando si sia sudditi di un sistema di potere sugli uomini istituzionalizzato totalitariamente. L’opposizione studentesca è uno degli elementi decisivi del mondo odierno. […] Il proletariato intellettuale deve trovare un comune denominatore spirituale d’azione con l proletariato industriale. Deve restituire alla classe operaia la fiducia in se stessa come classe rivoluzionaria. In caso contrario, non sarà possibile realizzare a pieno il socialismo, come emancipazione integrale, culturale, economica e politica dell’uomo” (L’opposizione studentesca e la rivoluzione, cit. da P. Vranicki, Storia del marxismo, cit., II, p. 370). 225 E. Fromm, Psicanalisi della società contemporanea, Milano 1971, p. 31. 226 “Quando l’uomo nasce, sia come specie sia come individuo, estromesso da una situazione che era definita, definita come gli istinti, e immesso in una situazione che è indefinita, incerta e sconfinata. Esiste certezza soltanto riguardo al passato […]. La necessità di trovare sempre nuove soluzioni alle contraddizioni della sua esistenza, di trovare sempre
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psichiche umane implica l’analisi dei bisogni dell’uomo che sono costitutivi dell’esistenza. A differenza di Freud, che individua le basi della vita psichica nell’organizzazione della psiche, Fromm considera i modi in cui l’uomo sviluppa i suoi rapporti col mondo, con la natura, con gli altri e con se stesso. La comprensione dei fondamentali comportamenti umani (e, si può dire, della totalità della fenomenologia della psiche) muove dall’analisi della condizione “manchevole” dell’uomo, dunque dai modi in cui si manifestano i bisogni vitali e si dispongono i percorsi operativi del loro soddisfacimento. La natura umana comprende gli schemi relativi a questa fenomenologia e che modellano il suo comportamento, dando luogo alle forme più complesse dell’organizzazione culturale nelle diverse sfere della vita pratica e spirituale.227 Ma tali schemi assumono forme relative allo sviluppo della civiltà e a loro volta agiscono sul contesto sociale e culturale e concorrono alla sua trasformazione. Infatti costituiva dell’uomo è la facoltà di elaborare in modo originale gli stessi impulsi, sulla base della costituzione personale dell’individuo. La tendenza a sviluppare le capacità di pensare e di agire in modo creativo, dunque il desiderio di libertà, è il principale fattore della stessa trasformazione della società nel tempo. Fromm ritiene che l’impulso alla libertà sia la fondamentale dimensione ontologica dell’uomo.228 In particolare, egli intende dimostrare come un tale impulso essenziale come la libertà subisca l’influsso della situazione storica e riporta l’esempio della società moderna, allorché coi processi di emancipazione si è accompagnato un sentimento di isolamento, che ha provocato, per reazione, una “fuga dalla libertà”, cioè la tendenza a trovare rimedio in “una nuova sottomissione e un’attività ossessiva e irrazionale”. Così si sono prodotti i fenomeni connessi allo sviluppo dei “meccanismi di fuga”.229 In questo senso Fromm interpreta quello che Freud indicava come “istinto di morte”, la tendenza all’autodistruzione (e alla distruzione degli altri). Quando l’impulso vitale si scontra con fattori che lo limitano, esso si converte nel suo opposto, cioè in una energia distruttiva. Perciò è tanto più opportuno e necessario che l’impulso vitale sfoci sempre in forme significative di realizzazione del soggetto, in modi di affermazione della vita. Fa parte, poi, degli stessi “meccanismi di fuga” la tendenza dell’individuo a rifugiarsi in atteggiamenti di “conformismo da automi”, cioè ad assumere modelli culturali imposti dall’esterno, in modo da superare motivi di paura che potrebbero derivare dalla solitudine e dall’insicurezza. La civiltà occidentale, secondo Fromm, ha disposto modelli di questo tipo, appunto per dare agli individui un senso di sicurezza e l’illusione di una certa potenza, dunque l’idea di una libertà immaginaria, con il conseguente rischio, per il soggetto, di cercare surrogati di una esistenza significativa e di una identità autentica, sicché “la nazione, la classe e la professione servono a dare un senso di identità”.230 Si tratta, per Fromm, di fattori che hanno concorso, nel secolo scorso, all’affermazione di ideologie autoritarie e di regimi negatori della libertà: l’insicurezza e il senso di impotenza hanno spinto l’uomo medio a sottomettersi a nuove autorità che avessero la funzione di procurare sicurezza e superamento del dubbio.231 più alte forme di unità con la natura, con i suoi siili, con se stesso, è all’origine di tutte le energie psichiche che determinano l’uomo e di tutte le sue passioni, affetti e preoccupazioni” (Ib., pp. 32-33). 227 “Nella natura umana esistono fattori che sono fissi e immutabili: la necessità di soddisfare gli impulsi e la necessità di evitare l’isolamento e la solitudine morale” (Fuga dalla libertà, Milano 1970, pp. 28-29) 228 “L’esistenza umana comincia quando al di là di un certo punto gli istinti non sono in grado di determinare l’azione; quando l’adattamento alla natura perde il suo carattere coercitivo; quando il modo di agire non è più fissato da meccanismi ereditari. In altre parole sin dall’inizio l’esistenza umana e la libertà sono inseparabili. Il termine libertà viene usato qui non nel senso positivo di ‘libertà di’, ma nel senso negativo di ‘libertà da’, e cioè di libertà del determinismo istintivo dei suoi atti” (Ib., p. 37). “In tal senso la libertà può essere definita non come ‘azione nella coscienza della necessità’, ma come azione sulla base della coscienza delle alternative e delle loro conseguenze”. 229 Uno di questi consiste nella “tendenza a rinunciare all’indipendenza del proprio essere individuale, e a fondersi con qualcuno o qualcosa al di fuori di sé stessi per acquistare la forza che manca al proprio essere. Ovvero, per dirla in altre parole, a cercare nuovi ‘legami secondari’, in sostituzione dei legami primari perduti. Le forme più chiare di questo meccanismo si riscontrano nella brama di sottomissione e di dominio, o, come forse è preferibile dire, nelle tendenze masochistiche e sadiche che esistono in vari gradi tanto nell’individuo normale che in quello nevrotico” (Ib., p.127). 230 Ib., p. 67. 231 “La funzione di una ideologia e di una prassi autoritarie può essere paragonata alla funzione dei sistemi nevrotici. Tali sintomi sorgono da condizioni psicologiche intollerabili, e nello stesso tempo offrono una soluzione che rende possibile la vita. Tuttavia non si tratta di una soluzione che porti alla felicità, o consenta lo sviluppo della personalità.
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Fromm pensa a una società e a una situazione storica in cui le componenti culturali, politiche ed economiche siano in armonia con le tendenze originarie della natura umana e la cui realizzazione produce una condizione di libertà, di creatività e di felicità. Perciò la sua critica è rivolta contro le ideologie e i sistemi politici e pratici che si risolvono in contesti alienanti, dominati dalla logica del consumo. Una tale critica colpisce sia la società capitalistica sia quella del socialismo burocratico: entrambe, infatti, corrispondono a un modello, il cui nucleo è l’idea del soggetto passivo che si sottomette a un’autorità e a una forza estranee, repressive, contrarie alla naturale inclinazione alla libertà. La malattia di cui soffre la nostra società è ancora quella provocata dalla signoria delle merci e dalla pianificazione dei comportamenti sociali in rapporto a tale forma di predominio.232 L’attuale economia pianifica contrasta con la libera attività degli uomini, che ricercano la felicità proprio nel modo di vivere la propria vita, nello sviluppo delle loro attitudini, nel portare alla perfezione le proprie potenzialità spirituali. Perciò si tratta di adottare modelli flessibili di attività produttiva, in modo che essi siano rispondenti allo sviluppo di una prassi gioiosa e significativa. Lo stesso sistema del lavoro automatizzato moltiplica i fattori dell’alienazione, in quanto, alla fine, non vi sarà differenza tra la macchina e l’uomo: quanto più, infatti, si costruiranno macchine somiglianti all’uomo, altrettanto l’uomo si comporterà come le macchine.233 Fromm, infine, scopre nell’amore l’impulso umano originario capace di consentire lo sviluppo di una società armonica.234 Egli, in realtà, dimostra di rappresentare, con le sue analisi e i suoi discorsi attuali, il più significativo rappresentante dell’indirizzo che, coniugando Freud e Marx, si propone di fondare un’antropologia filosofica, intesa come interpretazione della situazione dell’uomo nel contesto storico della società dei consumi. Il discorso antropologico così sviluppato rimanda alle basi naturali dell’esistenza e alle modalità della loro configurazione in rapporto ai processi di adattamento alle dinamiche della prassi sociale. In questo modo esso si pone come uno degli strumenti più efficaci per l’individuazione della malattia di cui soffre la nostra civiltà e dei possibili rimedi che oggi possano costituire un antidoto alle pratiche alienanti di
Essi lasciano immutate le condizioni che rendono necessaria la soluzione nevrotica. Il dinamismo della natura umana è un fattore importante, che tende a cercare soluzioni più soddisfacenti, solo che ci sia la possibilità di raggiungerle. La solitudine e l’impotenza dell’individuo, la sua aspirazione a realizzare le possibilità che si sono sviluppate in lui, la realtà obiettiva della crescente capacità produttiva dell’industria moderna, sono fattori dinamici che costituiscono la base di una crescente ricerca di libertà e di felicità” (Ib., p. 206). 232 Fromm sottolinea come l’atteggiamento alienato verso il sistema del consumo oggi si estenda a tutte le manifestazioni della vita, ad esempio all’uso del tempo libero. “Se un uomo lavora senza un rapporto genuino con quel che fa, - egli osserva – se egli compra e consuma merci in modo astratto e alienato, come potrebbe far uso del suo tempo libero in un modo attivo e significante? Egli resta sempre il consumatore passivo e alienato. ‘Consuma’ partite di calcio, film, giornali e riviste, libri, conferenze, paesaggi, assemblee sociali, nello stesso modo alienato e astrattizzato con cui consuma le merci che ha acquistato. […] In effetti, egli non è libero di godere del ‘suo’ svago; il consumo del suo tempo libero è determinato dall’industria come lo sono le merci che compra” (Psicanalisi della società contemporanea, Milano 1971, p. 136). 233 Ib., p. 345. 234 Al problema dell’amore Fromm ha dedicato un saggio, di cui riportiamo le considerazioni conclusive: “La macchina economica deve servire all’uomo, anziché lui servire ad essa. Egli deve essere in grado di partecipare all’esperienza e al lavoro, anziché ai profitti. La società deve essere organizzata in modo tale che la natura sociale e amante dell’uomo non sia separata dalla sua esistenza sociale, ma divenga un’unica cosa con essa. Se è vero, come ho cercato di spiegare, che l’amore è l’unica soluzione valida al problema dell’esperienza umana, allora qualunque società che escluda lo sviluppo dell’amore deve, a lungo andare, perire per le proprie contraddizioni con le fondamentali necessità della natura umana. Un realtà, parlare di amore non significa ‘predicare’, per la semplice ragione che significa parlare dell’unico vero bisogno di ogni essere umano. Che questo bisogno sia stato oscurato non significa che non esista. Analizzare la natura dell’amore significa scoprire la sua attuale assenza totale e criticare le conclusioni sociali che sono la causa di tale assenza. Avere fede nelle possibilità dell’amore come fenomeno sociale, oltre che individuale, è fede razionale che si fonda sull’essenza intima dell’uomo” (L’arte di amare, Milano 1971, pp. 165-66).
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cui ancora avvertiamo di essere esposti, in un ambito dominato dalla paura e dall’incertezza, dunque caratterizzato da una perdita e assenza delle prerogative più propriamente umane.235
Il problema della fondazione di un’antropologia marxista in Robert Kalivoda Robert Kalivoda si è proposto il tema di una “interpretazione critica della psicanalisi dal punto di vista della filosofia marxista dell’uomo”, dunque di sviluppare un’antropologia marxista attraverso l’integrazione coi principi della psicanalisi.236 L’apporto principale della psicanalisi a una antropologia legata a una concezione materialistica della storia consiste nella particolare attenzione rivolta alle componenti naturali (“primarie”) dell’esistenza, dunque alla costituzione generale dell’uomo. Tali elementi, infatti, emergono storicamente nell’età in cui i legami di classe, le condizioni relative a uno stato culturale piuttosto rigido, i modelli sociali (e così via) sono divenuti discutibili e sono entrati in una logica di trasformazione. E’ indubbio che le strutture storiche dell’epoca industriale e capitalistica risultano soggette a critica; e che, in tale contesto, vanno emergendo nuove strutture, la cui base e il cui fondamento appartengono alla “natura umana” originaria. In realtà neppure Marx ed Engels hanno del tutto messo da parte l’uomo “naturale”, pur privilegiando, nella considerazione dell’uomo, gli aspetti storici e culturali e specialmente quelli relativi alla sfera sociale ed economica. Si tratta, dunque, di rivalutare quegli elementi marxiani più direttamente riferiti a una concezione antropologica. Secondo i Manoscritti del 1844, l’uomo è definito “ente naturale”, fornito di “forze naturali”, che hanno il carattere di “impulsi”, e, nello stesso tempo, limitato, in quanto legato alla realizzazione di tali disposizioni sensibili, dunque agli “oggetti” che sono necessari al compimento dell’esistenza.237 Insomma vi è una base naturale delle espressioni storiche e culturali dell’uomo. L’antropologia riguarda questa costituzione umana naturale; la storia riguarda le forme sociali secondo cui tale costituzione si è venuta concretamente articolando.238 Questa caratterizzazione della natura umana, dell’esistenza in generale, si può direttamente allacciare alla teoria freudiana delle pulsioni naturali239 e dei principi fondamentali che sono all’origine dei modellamenti storici della psiche, quello del piacere e quello della realtà.
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“Erich Fromm è, nell’ambito del marxismo, un grande pensatore umanista, che cerca di accertare se le determinazioni della natura umana sono o no in contrasto con quelle intenzioni umane in cui Marx, come molti altri umanisti e socialisti, vede il presupposto per la soluzione delle contraddizioni storiche e dell’assurdità del nostro tempo. […] Molte sue tesi sono discutibili, ma è pur vero che in esse sono contenuti spunti e premesse per approfondire la problematica dell’uomo e della storia” (P. Vranicki, Storia del marxismo, cit., II, p. 381). 236 Robert Kalivoda ha studiato filosofia a Praga e ha lavorato come ricercatore scientifico presso l’Istituto di Filosofia dell’Accademia delle Scienze cecoslovacca fino al 1969. 237 “In sostanza la stessa visuale di interpretazione si può ritrovare nella specifica concezione di Freud delle pulsioni e nel principio fondamentale freudiano della ‘necessità vitale’, in quel conflitto fondamentale, accertato da Freud, tra l’uomo e la realtà, tra il principio del piacere ed il principio della realtà” (R. Kalivoda, La realtà spirituale moderna e il marxismo, Einaudi, Torino 1971, pp. 89-90). 238 Questo richiamo alle forze originarie della psiche umana è presente anche nei surrealisti, che proprio ad esse intendevano riportare l’intero loro mondo espressivo. Cfr. Karel Teige: “La rivolta poetica si svolge sotto l’egida della libertà umana e dell’amore umano, è dunque un richiamo ai segni primordiali, a quell’’eternamente umano’, a quella esistenza umana presociale che ‘con la carne e il sangue e con un cervello appartiene alla natura’ (Engels); è la tendenza a sviluppare, nella loro integrità, i desideri di questo uomo eterno, modellato, coltivato ed al medesimo tempo deformato e mutilato dall’evoluzione storica della società, e quindi anche la tendenza a distruggere gli ostacoli materiali ed ideologici che insegnano all’uomo a sottomettersi ai potenti di questo mondo, a rinunciare al piacere e a rimandare il giorno della riscossa” (cfr. Kalivoda, p. 88). 239 “L’enorme significato della teoria freudiana delle pulsioni per la teoria generale dell’uomo è data soprattutto dal fatto che le pulsioni – principalmente nella fase avanzata della dottrina di Freud – non hanno nulla in comune con i semplici istinti fisiologici” (Ib., p. 90). “La sostanza del materialismo psicanalitico consiste però nel fatto che lo strato primario della psiche, lo strato delle pulsioni non è vincolato ad alcun organo fisico, ma ha la sua fonte materiale in tutte
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Dall’integrazione di Marx e Freud deriva la distinzione (e il rapporto) tra la dimensione biopsichica e quella storico-sociale. Nella teoria freudiana, l’articolazione della sfera biopsichica nei livelli dell’Io (che rappresenta il fattore autoregolativo) e del Super-io (che rappresenta la sfera sociale) rappresenta la base antropologica per la comprensione della costituzione storica dell’uomo.240 In Marx troviamo l’analisi delle modalità di articolazione della natura umana in rapporto alle forme in cui l’Io e il Sper-io si determinano storicamente, dando luogo a modelli dell’organizzazione sociale. L’Io diventa coscienza (e coscienza di classe), principio della consapevolezza intorno ai limiti imposti dalla realtà e alle necessità dei processi di trasformazione della società in rapporto a nuove forme del rapporto fra i principi del piacere e della realtà. Il Super-io diventa il principio che ha la facoltà di disporre i modelli dell’organizzazione sociale in base ai livelli ritenuti più soddisfacenti nello sviluppo del rapporto tra i principi della realtà e del piacere. L’analisi marxiana è condotta attraverso l’esame di modelli storici definiti; e riguarda, in particolar modo, la situazione propria del modello industriale e capitalistico. La psicanalisi consente di considerare tale analisi in rapporto alle costanti antropologiche, soddisfacendo a quelle impostazioni problematiche a cui lo stesso Marx faceva cenno specialmente nelle opere giovanili. Psicanalisi e antropologia filosofica in tal modo si integrano in una efficace sintesi, in cui i caratteri dell’uomo storico sono compresi alla luce della realtà antropologica e questa viene considerata come l’effettivo presupposto di ogni eventualità storica. Marx ha scoperto che la base pulsionale dell’uomo assume una forma peculiare allorché essa ha determinato l’attività sociale del lavoro e ha dato luogo, sulla base dell’organizzazione del lavoro, alle forme dell’organizzazione politica, con le figure relative al potere, all’autorità, al governo civile.241 In particolare, Marx e Freud s’incontrano nella valutazione della situazione conflittuale e dialettica che si determina attraverso il rapporto del Super-Io (l’ordine della vita sociale) con la realtà storica. Mentre il rapporto tra l’uomo e la natura è regolato dall’Io, quello con la società è regolato dal Super-Io. Per Freud, il Super-Io che rappresenta il mondo della società e della cultura, operando nei confronti della sfera pulsionale, esercita un’azione repressiva, determinando situazioni di nevrosi che occorre superare, e che lo stesso SperIo concorre a superare attraverso processi di sublimazione dell’energia psichica. Si ha così la sfera spirituale.242 Una teoria che riesca a sintetizzare le prospettive di Marx e Freud in una antropologia che sia anche strumento di emancipazione dell’uomo dovrà, alla luce di questi rilievi, considerare la base pulsionale umana come area in cui convergono le tendenze, le aspirazioni e i bisogni dell’esistenza. Le potenzialità umane fanno capo a tale sfera, i cui impulsi vanno liberati per potere essere riconosciuti come componenti della identità dell’uomo. L’adeguata valutazione del “principio di realtà” dovrà fornire elementi utili alla comprensione delle possibilità storiche della realizzazione delle tendenze umane, con particolare riguardo le zone fisiche. Allo stesso tempo però esso è irriducibile all’organizzazione fisica dell’uomo, poiché ha una sua propria vita psichica” (Ib., p. 91). 240 “L’uomo però al tempo stesso si differenzia dall’animale già nella sua sfera pulsionale primaria. E’ la variabilità dell’energia pulsionale umana, è la sua dinamicità conflittuale, è la sua capacità di metamorfosi che differenzia la pulsione vitale umana dagli istinti animali. La psicanalisi, e Freud in particolare, ha un enorme merito nel progresso qualitativo della conoscenza dell’uomo, appunto per aver analizzato concretamente la mobilità e la capacità di trasformazione dell’energia pulsionale dell’uomo, particolarmente della sessualità” (Ib.). 241 “Determinate forme storico-culturali di civiltà dell’esistenza umana esistono dall’origine dell’uomo, così che l’Io, che fino ad ora abbiamo considerato soltanto in rapporto alla sfera materiale dell’uomo, diviene contemporaneamente portatore e mediatore delle necessità e delle reazioni culturali e di civiltà che compongono la sfera secondaria dell’eistenza sociale umana. In tal modo sorge contemporaneamente all’Io il terzo fattore della struttura sociopsichica dell’uomo, fattore denominato da Freud Super-Io. Tale Sper-Io è anch’esso una componente costante e necessaria della struttura umana dell’uomo. La sfera del Super-Io nell’uomo è quella che nella regolamentazione dell’energia pulsionale fa valere i bisogni della società umana” (Ib., p. 99). 242 “Questa è la sostanza della concezione psicanalitica della sublimazione. Qualora non trovi il suo oggetto nella realtà, rispettivamente qualora la regolamentazione sociale (cioè il principio del Super-Io) le tolga questo oggetto, qualora la regolamentazione sociale (Super-Io) le impedisca un immediato soddisfacimento spontaneo, l’energia pulsionale elementare si trapianta, si trasferisce, si trasforma, trova un soddisfacimento supplementare, si crea essa stessa una nuova realtà, cioè una nuova sfera ideale del proprio soddisfacimento, trova in essa una compensazione e dà vita così alla realtà spirituale. Così nasce lo strato secondario dell’esistenza umana” (Ib., p. 101).
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alla libertà come espressione del carattere creativo dell’esistenza. In realtà le attività prodotte attraverso i processi di sublimazione sono necessarie per lo sviluppo della cultura e della vita sociale; e verso di esse va indirizzata la maggior parte dell’energia pulsionale. Proprio la liberazione di tale energia per gli scopi spirituali costituisce il principale fattore dell’emancipazione. Il nodo rimane l’organizzazione della società, che rappresenta l’aspetto fondamentale della configurazione del Super-Io. In gran parte, questa organizzazione si è palesata storicamente come una pratica repressiva. Invece essa dovrà riuscire a operare una liberazione delle pulsioni positive. Ciò comporta una trasformazione radicale del lavoro produttivo, nel senso che i processi di attività libera dovranno interessare in primo luogo i sistemi economici, che costituiscono ancora i principali fattori di una dialettica configurata come rapporto di dominio e di assoggettamento. Oggi il soggetto di tale dialettica è pensato da alcuni come la tecnica, in quanto attività che, in forma alienata, riproduce la prassi umana e sociale. Da qui l’esigenza di altre analisi, che autorevoli pensatori hanno affrontato, pervenendo a risultati interpretativi che prospettano non solo le più adeguate metodologie d’impostazione problematica ma i possibili motivi soluzione critica.243
Il marxismo nella filosofia italiana del Novecento Gramsci è il rappresentante tipico della filosofia militante, che considera il pensiero come strumento di lotta politica per l’amancipazione umana. La sua attività si svolse sul piano intellettuale ed è stata rivolta a porre le condizioni per una rivoluzione sociale attraverso l’elaborazione di una cultura che avesse il significato di assunzione di consapevolezza della classe storicamente deputata a diventare il nuovo soggetto della storia. I suoi contributi sono, infatti, consegnati all’elaborazione di una teoria marxista significativa per la situazione italiana. La filosofia italiana già con Croce e Gentile avvertì l’esigenza di fare i conti col marxismo: gli studi del primo sull’incidenza dell’organizzazione della vita pratica e delle strutture economiche sulla vita sociale e sulla complessiva vicenda storica sono stati pubblicati già nel 1900 nel volume Materialismo storico ed economia marxista;244 e il Gentile aveva già pubblicato l’anno prima La filosofia di Marx,245 dove aveva 243
Ci riferiamo specialmente ai recenti saggi di Umberto Galimberti, esaminati sommariamente in altra parte di questo lavoro. 244 Croce prendeva spunto dal fondamentale saggio del Labriola sul materialismo storico, osservando, tra l’altro, che quello scritto gli appariva come “la più ampia e profonda trattazione dell’argomento: scevra di pedanterie e di piccinerie erudite, eppure recante in ogni rigo i segni della conoscenza perfetta che l’autore ha di quanto si è scritto sul proposito” (p. 1). Egli rilevava in primo luogo che il materialismo storico, così come emergeva dalla trattazione del Labriola, non poteva considerarsi una filosofia della storia e che anzi concorreva a demolire ogni residua impalcatura metafisica nel campo di quella che poteva identificarsi come una “istorica”. A questo proposito ricordava: “La reazione filosofica dello spirito critico gettò a terra le costruzioni innalzate dalla teologia e dall’arbitrarismo metafisico, che aduggiavano il capo della storiografia” (p. 2); e precisava, poi, la distinzione tra una filosofia della storia vera e propria e un filosofare sulla storia, cioè riflettere in margine al corso delle vicende umane, senza la pretesa di riportarlo sul piano del concetto. “L’antica filosofia della storia – osservava Croce – teneva possibile un’elaborazione concettuale della storia, o perché, facendo intervenire l‘idea di Dio e della Provvidenza, leggeva nei fatti le intenzioni dell’intelletto divino, o perché trattava il concetto formale dello sviluppo come includente in sé in modo logico le sue determinazioni contingenti” (p. 3). In questo discorso erano presenti i segni della polemica crociana contro coloro che, invece, presentavano il materialismo storico come una vera e propria riduzione del corso storico ai concetti connessi alla visione rivoluzionaria della storia e, nelle loro interpretazioni di Marx ed Engels, lasciavano trasparire i termini di una determinata serie di accadimenti (come l’organizzazione internazionale del proletariato, la lotta di classe, l’avvento del comunismo, e così via). I contenuti della storia, in tal modo, venivano annunciati (come profetizzati) come veri e reali. Croce metteva in rilievo la congruenza della interpretazione labriolana del marxismo, osservando che in essa non troviamo nessun cenno a leggi generali dello sviluppo storico: la stessa idea di “progresso” “è resa priva della dignità di legge e ridotta a significato assai particolare”, considerata, cioè, come una condizione “non solo empirica, ma sempre circostanziale e perciò limitata”, poiché il progresso “non istà sul corso delle cose umane come un destino od un fato, né qual comando
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esaminato il posto dell’economia da un punto di vista idealistico, identificandola con un aspetto fondamentale del fare umano, concepito come una forma dell’attività spirituale. Il successivo predominio esercitato dai due filosofi sulla cultura italiana della prima metà del Novecento ha impedito qualsiasi sviluppo del marxismo in Italia fino al secondo dopoguerra, allorché, sulla base dell’opera prodigata dal Gramsci nella solitudine del carcere. I Quaderni del carcere furono pubblicati tra il 1948 e il ’51. Il primo era dedicato alla discussione generale della prospettiva con la quale il marxismo si era dapprima confrontato con la cultura italiana (attraverso Labriola e poi Croce e Gentile): perciò era significativamente intitolato Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce. Gramsci inseriva il marxismo nell’ampio filone dello storicismo e, rispetto a Croce, intendeva attuare un “rovesciamento” simile a quello attuato da Marx rispetto a Hegel: come, infatti, Marx aveva riportato la dialettica sul piano concreto della storia e, in particolare, dell’esistenza materiale degli uomini, liberando la concezione della storia dall’impalcatura speculativa (la storia come svolgimento dello Spirito) e considerando la prassi sociale nella sua struttura dialettica. Il lavoro di revisione dello storicismo rappresenta, pertanto, il compito principale del pensiero critico, in rapporto all’elaborazione di una teoria adatta a interpretare le istanze di cambiamento e di trasformazione della società. Il conseguimento di una adeguata consapevolezza teorica, attraverso lo sviluppo delle tesi marxiane, costituisce, per Gramsci, il compito della classe sociale destinata a costruire la società nuova. Così era delineato il programma della “filosofia della prassi”, di un pensiero, cioè, che non si sviluppa e si conclude sul piano speculativo e astrattamente concettuale, ma che, invece, si alimenta delle problematiche della realtà concreta, relativa alla situazione dell’umanità e, in particolare, alla dinamica dei rapporti sociali indotti dall’organizzazione dell’economia (del lavoro, della produzione e del consumo). In questo senso l’atteggiamento critico si rivolgeva contro l’idealismo nelle forme in cui esso si configurava in quel tempo, cioè come storicismo e attualismo, l’uno e l’altro forme di una concezione spiritualistica della realtà. Lo sviluppo di una tale prospettiva teorica costituisce, secondo Gramsci, la condizione indispensabile per
di legge” (espressioni dello stesso Labriola). Li materialismo storico pertanto doveva essere considerato in nessun modo come una dottrina generale della storia e neppure come l’enunciazione di un complesso di principi metodici per la storiografia; doveva essere assunto come l’indicazione di una serie di dati storici come nuovo campo di indagine per la storiografia e dunque come tale da gettare luce sulla genesi e sullo sviluppo dei fatti umani nella loro generalità e complessità. Infatti la storiografia che si ispirava ai principi del materialismo storico consentiva di gettare uno sguardo su aspetti e settori della vita sociale fino allora trascurati e di considerare sotto una luce nuova le connessioni tra i diversi fatti e le diverse espressioni della civiltà, tra i fatti economici, ad esempio, e quelli più propriamente culturali, i costumi, il diritto, la morale e la stessa religiosità. Per tali motivi, il Croce proponeva che, anziché di “materialismo storico” (denominazione relativa a una dottrina o concezione filosofica), si parlasse di una “concezione realistica della storia”. 245 Il Gentile aveva cercato di mettere in rilievo alcune contraddizioni e incongruenze presenti nel materialismo storico come concezione generale della realtà e della storia. Ad esempio, egli rilevava che una “filosofia della prassi”, qual era il marxismo, escludeva la riduzione materialistica della realtà, in quanto, appunto, poneva il principio dell’attività e dello sviluppo come elemento fondamentale, tale da annullare il concetto di “materia” come principio unitario del reale. La prassi, infatti, è l’attività dell’uomo; ma, se s’intende questa attività come tale che si caratterizza esclusivamente come “attività sensitiva umana”, se, cioè, la si vuole intendere e spiegare in rapporto all’ambito materialistico in cui si svolge (dato che non esiste altro ambito che quello della materia), non si riesce a superare la contraddizione di fondo per cui si attribuisce un carattere dinamico, attivo, perfino creativo, a una semplice manifestazione naturalistica, riconducibile allo svolgimento della natura. “Posiamo definire la filosofia della prassi – scriveva il Gentile – dal Marx delineata nei frammenti del 1845 come un monismo materialistico, che si distingue da ogni altro sistema simile per concetto della prassi applicato alla materia. Ma come intende Marx la sua materia? Come prassi, si risponde; donde materialismo storico. Vale a dire sistema che non concepisce la materia come fissa e stabile; ma in continuo farsi, in continuo divenire. Ma dove il principio dell’attività? La prassi è sinonimo in Marx di attività sensitiva umana. Dunque l’attività della materia risiede nell’uomo. La sensibilità è appunto l’attività pratica; l’attività umano-sensitiva. Hegel diceva che l’idea, lo spirito è operoso; e che il suo sviluppo dialettico è la ragione del divenire della realtà. Marx non fa altro che sostituire allo spirito il corpo, all’idea il senso; e ai prodotti dello spirito, in cui consisteva per Hegel la realtà (e che per Marx diventano ideologie), i fatti economici, che sono i prodotti dell’attività sensitiva umana, nella ricerca della soddisfazione di tutti quei bisogni materiali, cui Feuerbach aveva ridotto l’essenza dell’uomo; ma conserva tutto il resto della concezione hegeliana” (pp. 156-57).
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intraprendere un’azione politica rivolta a rovesciare l’attuale egemonia di una classe e instaurare un ordine nuovo (quello del socialismo). Gramsci attribuisce un ruolo fondamentale all’affermazione di una cultura marxista, sulla base del presupposto che l’egemonia culturale rappresenta la condizione per instaurare un’egemonia politica. Le condizioni della rivoluzione dovranno essere poste sul piano della cultura, attraverso lo sviluppo di una concezione del mondo idonea a interpretare le istanze rivoluzionarie del tempo. Perciò è importante l’elaborazione di una teoria di tipo materialistico (di uno storicismo materialistico). Lo sviluppo di una filosofia della prassi rappresenta il presupposto fondamentale per lo stesso avvio del processo rivoluzionario nell’ordine della società.246 Gramsci interpretava la filosofia della prassi come uno strumento di pensiero idoneo a fare comprendere la complessità della situazione storica, nell’intento di rendere possibile l’identificazione dei fattori attuali della rivoluzione sociale. Quali, dunque, erano le incidenze dei molteplici avvenimenti storici e delle attuali strutture ideologiche e culturali? Che cosa avevano significato (e significavano ancora) fatti come la rivoluzione francese, l’avvento della borghesia, il liberismo economico, la tecnologia, e così via? La filosofia della prassi è l’esame della situazione storica sotto il profilo del suo sviluppo possibile: essa, in particolare, valuta la portata rivoluzionaria degli eventi, il modo, dunque, per esempio, in cui la Riforma protestante o la Rivoluzione industriale contengono motivi utili per lo sviluppo del progetto pratico attuale. In questo senso Gramsci rileva la grande importanza, sul piano speculativo, del pensiero di Hegel, che ha sviluppato una concezione dialettica della realtà e della storia e ha insegnato, in particolare, a riconoscere e a cogliere il senso delle contraddizioni, al fine di porre le condizioni per una società più razionale, progressivamente libera dai motivi di subordinazione a motivi alienanti e deificanti. La filosofia della prassi è definita come uno “storicismo assoluto o umanesimo assoluto”, cioè come “risultato e coronamento di tutta la storia precedente”, come risultato di un faticoso cammino verso l’autoconsapevolezza da parte dell’uomo della sua situazione storica e delle prospettive del suo sviluppo verso forme di vita più razionali. Gramsci, tuttavia, è consapevole che si tratta di un prodotto storico e che essa risponde alla condizione attuale, dunque che è destinata a essere supertata da altre concezioni in situazioni storiche diverse. La filosofia della prassi ha senso solo in quanto esprime e rappresenta la consapevolezza piena intorno alla situazione storica; essa esaurisce il suo compito e la sua validità in rapporto all’instaurarsi di altre condizioni, Perciò assume la caratteristica di “storicismo assoluto”. Essa risulta significativa in rapporto a ciò che l’uomo deve fare, come agire, come pensare, come vivere in società, come organizzare la sua attività economica e produttiva, e così via: Perciò è umanesimo assoluto. Gramsci rilevava la differenza della filosofia della prassi rispetto alla filosofia di Croce, che era allora dominante nel panorama del pensiero italiano (insieme all’attualismo). Il principale motivo di novità rispetto a Croce era individuato nella liberazione da ogni residuo astrattamente speculativo e nella completa risoluzione di motivi trascendentistici nell’immanenza dei dati storici concreti.247 Comunque, Gramsci rileva la forte connessione tra crocianesimo e filosofia della prassi sulla base dello storicismo, che, appunto, nella tradizione del marxismo, viene considerato come la via per comprendere i fatti e le situazioni concrete nella totalità dei loro aspetti e nell’unità dei loro significati per lo svolgimento della vita degli uomini (cioè, in
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“Fino alla filosofia classica tedesca, – osserva Gramsci richiamando i termini fondamentali dello sviluppo storico della filosofia della prassi a partire da Hegel e Marx – la filosofia fu concepita come conoscenza di un meccanismo obiettivamente funzionante all’infuori dell’uomo. La filosofia classica tedesca introdusse il concetto di ‘creatività’ del pensiero, ma in senso idealistico e speculativo. Pare che solo la filosofia della prassi abbia fatto fare un passo avanti al pensiero, sulla base della filosofia classica tedesca, evitando ogni tendenza al solipsismo, storicizzando il pensiero in quanto lo assume come concezione del mondo, come ‘buon senso’ diffuso nel gran numero (e tale diffusione non sarebbe appunto possibile senza la razionalità o storicità) e diffuso in modo tale da convertirsi in norma attiva di condotta” (Il materialismo storico, p. 26). 247 “La filosofia del Croce rimane una filosofia ‘speculativa’ e in ciò non è solo una traccia di trascendenza e di teologia, ma è tutta la trascendenza e la teologia, appena liberate dalla più grossolana scorza mitologica. […] La filosofia della prassi è la concezione storicistica della realtà, che si è liberata da ogni residuo di trascendenza e di teologia anche nella loro ultima incarnazione speculativa; lo storicismo crociano rimane ancora nella fase teologicospeculativa” (Ib., pp. 226-27).
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sintesi, nella loro “dialettica”), mentre da Croce sarebbe rivestito della vecchia impalcatura metafisica, di impronta astrattamente concettuale e speculativa.248 Sulla base di questi presupposti teorici, Gramsci affrontava la questione della formazione di una classe lavoratrice consapevole del suo ruolo storico; e poiché in Italia tale classe non poteva prescindere dal mondo contadino (data la particolare composizione della popolazione), egli rilevava l’importanza che veniva ad assumere la questione meridionale. In Italia la lotta rivoluzionaria sarebbe dovuta essere diretta dagli intellettuali, che, in primo luogo, sarebbero dovuti diventare i rappresentanti delle masse contadine del Mezzogiorno. Intanto si trattava, secondo Gramsci, di lavorare per convincere il ceto intellettuale ad assumersi il compito proprio, che era quello di concorrere alla formazione di masse proletarie consapevoli del loro ruolo storico. Al partito organizzato egli attribuiva l’identità dell’intellettuale collettivo, cioè di guida del processo rivoluzionario. Nella prospettiva gramsciana vi era già in qualche modo la debolezza propria di una visione che, attribuendo un peso essenziale al ruolo degli intellettuali e pensando che la questione politica e sociale potesse in gran parte risolversi sul piano dell’elaborazione teorica, in realtà svuotava di efficacia rivoluzionaria la filosofia della prassi. Ma questo sembrava il cammino proprio di questa filosofia in Occidente, cioè di uno strumento fecondo sul piano dell’elaborazione culturale ma praticamente insufficiente per la delineazione (e lo sviluppo, sul piano dell’organizzazione) di strategie pratiche rivoluzionarie. La stessa forza del partito si espresse, pertanto, quasi interamente nello sviluppo e nell’espansione di un ruolo egemonico del marxismo nella cultura della seconda metà del Novecento. Tale egemonia si è attuata specialmente in campi specifici, principalmente nell’ambito della critica storica e letteraria e in quello dell’incontro con teorie significative, come la psicanalisi (e, per certi aspetti, l’epistemologia). Il marxismo in Italia si pose in un atteggiamento di dialogo con la tradizione culturale razionalistica e storicistica e in tal modo poté più facilmente estendere la sua influenza e diventare il perno stesso della vita culturale italiana a partire dal secondo dopoguerra. Tipica, a questo riguardo e come esempio di tale orientamento, è la figura di Antonio Banfi, professore di storia della filosofia a Milano dal 1932 al ’56. In un saggio apparso sulla rivista da lui stesso fondata e diretta, “Sudi filosofici” nel 1947 e intitolato Verità e umanità nel pensiero contemporaneo, Banfi esaminava il complesso panorama filosofico attuale e proponeva il marxismo come la corrente idonea a interpretare le istanze dei tempi, improntate a un’esigenza di rinnovamento critico e di apertura verso la società e la vita politica, che, dopo l’esperienza della guerra, appariva bisognosa di un’ampia partecipazione popolare.249 Il marxismo, in quanto filosofia della prassi, costitutiva il punto di arrivo del processo filosofico moderno basato sulla rivalutazione del soggetto, insieme protagonista del divenire storico e dell’avventura del pensiero e della scienza attraverso le pieghe della realtà e dell’esperienza.250 La maggior parte delle correnti filosofiche del tempo apparivano al Banfi come espressioni di una generale tendenza a rifugiarsi in un terreno astrattamente speculativo e di eludere, così, i problemi dell’organizzazione della società e della stessa sopravvivenza dell’umanità. Gli stessi motivi che avevano improntato la prima fase della riflessione del filosofo, identificata come “razionalismo critico”, erano dichiarate ora superate dalla nuova prospettiva del realismo marxista, cioè interamente liberate “da 248
“A me pare che sotto la forma e il linguaggio speculativo sia possibile rintracciare più di un elemento della filosofia della prassi nella concezione di Croce. Si potrebbe forse dire di più e questa ricerca sarebbe di immenso significato storico e intellettuale nell’epoca presente e cioè: che come la filosofia della prassi è stata la traduzione dell’hegelismo in linguaggio storicistico, così la filosofia del Croce è in una misura notevolissima una ritraduzione in linguaggio speculativo dello storicismo realistico della filosofia della prassi” (Ib., p. 236). 249 Il Banfi stesso aveva partecipato alla Liberazione, militando nel “Fronte della gioventù per l’indipendenza nazionale e la libertà”, fondato nel 1943 insieme a Eugenio Curiel. 250 “La verità del marxismo è una sola cosa con questa sua realtà e praticità storica e nulla ha a che fare con una verità astrattamente dogmatica di un’ideologia tradizionale. […] Da un lato, il marxismo dà luogo a una teoria dell’operare storico, a una teoria cioè dell’azione politica o piuttosto a un metodo realistico. […] Ma, dall’altro lato, il marxismo si va universalizzando in un metodo d’indagine storica che ha la sua particolarità in questo, di accettare la natura stessa del sapere storico, il suo essere e sapersi nella storia” (Cfr. A. Banfi, L’uomo copernicano, Il Saggiatore, Milano 1950, pp. 63-64).
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ogni residuo metafisico coscienzialistico”. Qui la critica si rivolgeva specialmente contro le correnti spiritualistiche e idealistiche, considerate, appunto, filosofie incapaci di affrontare le questioni concrete e attuali dell’uomo contemporaneo.251 Banfi pensava al marxismo come alla concezione più rispondente alle istanze di un’epoca che si annunciava come significativa per l’attuazione di forme di emancipazione dell’uomo. In questo senso non abbandonava certo lo spirito del razionalismo critico, anzi intendeva meglio interpretarlo mediante una filosofia che insieme sembrava comprendere la chiave per la soluzione insieme teorica e pratica della crisi della società borghese. Il marxismo gli appariva come lo strumento metodico per lo sviluppo di una cultura umanistica che non soltanto fosse in grado di sviluppare un discorso sull’uomo ma specialmente potesse contribuire alla trasformazione dell’umanità sociale. In questo senso Banfi pensava a una funzione universale del marxismo. Erano, infatti, i tempi in cui il socialismo si espandeva, rinnovando la società in diversi paesi del mondo. L’idea di una generale emancipazione dell’umanità si manifestava come un principio-guida posto al centro di una prassi rivoluzionaria, tesa ad attuare proprio il progetto dell’”uomo copernicano” proposto da Banfi. Questo è l’uomo che costruisce se stesso e si serve di una concezione teorica per rischiarare via via lo sviluppo di tale progetto, come ricerca della migliore forma di vita nel mondo e migliore disegno di civiltà. In questa visione c’era, ovviamente, una carica utopica corrispondente alle attese dei tempi.252 Ma era una visione che drammaticamente strideva già con i limiti dello sviluppo del socialismo nello stalinismo e nello stesso maoismo. Alla questione del rapporto e della dipendenza Hegel-Marx, nonché alla elaborazione di un’organica teoria estetica marxista, ha dedicato i suoi studi Galvano Della Volpe, professore di storia della filosofia e di estetica a Messina e a Roma, già allievo di Gentile e interprete dell’attualismo. Il Della Volpe ha messo in rilievo la profonda diversità dei due filosofi, mettendo in rilievo come la filosofia del secondo sia improntata a un fondamentale aristotelismo, rispetto alla matrice idealistica e platonica del primo. Marx, in tutto lo sviluppo del suo pensiero, muove dall’osservazione della realtà storica concreta, mentre Hegel muove dalla metafisica, identificata con la logica, per dedurre il sistema della realtà (supposta come espressione della stessa ragione metafisica, simile al platonico “mondo delle idee”). Marx appartiene, in questo senso, alla grande tradizione del pensiero logico-scientifico, che privilegia il metodo sperimentale adatto alla fondazione del sapere scientifico.253 Questa interpretazione è applicata, in particolare, alla fondazione di 251
Per Banfi, lo spiritualismo è “l’indirizzo che è espressione della più caratteristica pigrizia speculativa, del più greve dogmatismo, della più accentuata assenza di senso problematico e dialettico, e insieme della più adusata retorica moralistica aperta a tutti i compromessi e gli istinti reazionari” (Ib., pp. 101-2). L’attualismo gentiliano, a sua volta, si conclude “in aperta esaltazione della situazione di fatto”, poiché dal punto di vista dell’assoluto immanentismo, tutto tende a confondersi in un’unità reale e spirituale indistinta: “l’oggetto è riassorbito nel soggetto e il soggetto nella medesimezza astratta del suo atto, che, proprio per questa astrattezza dogmatica, per questa vuotezza d’ogni contenuto e relazione, è assunto come l’Assoluto” (Ib., pp. 108-9). 252 “L’’uomo copernicano’ di Banfi è l’uomo per il quale non esiste una provvidenza metafisica e che, come parte della natura, ma operando in essa storicamente, perviene all’universalità della coscienza e alla razionalità del sapere, da cui è resa possibile la sua attività pratico-storica” (Predrag Vranicki, Storia del marxismo, tr. it., Ed. Riuniti, Roma 1973, vol. II, p. 451). 253 In realtà Della Volpe, attraverso la sua interpretazione di Marx, si è proposto di elaborare una vera e propria filosofia scientifica, basata su una logica propedeutica, intesa come “scienza positiva”. Per dare un’idea del progetto del filosofo, riportiamo alcune enunciazioni contenute nella “prefazione” alla prima edizione (pubblicata presso D’Anna, Messina-Firenze, nel 1956) dell’opera Logica come scienza storica (Ed. Riuniti, Roma 1969): “Con la presente ricerca l’autore perviene a quella filosofia-scienza di cui i primi fondamenti metodologici sono stati posti da Marx nella sua critica dei processi viziosi dell’idealismo hegeliano nonché di quelli della ‘metafisica‘ dell’economia politica. La coscienza della portata generale di tale critica, che si ricollega, infatti, tanto alla critica filosofica mossa da Aristotele alla dialettica metafisica di Platone quanto alla critica scientifica galileiana dei ‘discorsi apriori’ dei fisici scolastici, tale coscienza ha condotto chi scrive fino all’estrema conclusione coerente: al concetto tenuto fermo da Lenin (contro qualche incertezza engelsiana) della storicità-scientificità della stessa logica filosofica o gnoseologia” (p. 15). Pertanto si tratterebbe di vedere in quale misura la logica, che è scienza filosofica propedeutica allo stesso discorso scientifico, possa ora staccarsi dalla filosofia, come hanno fatto in epoche diverse le scienze positive, e darsi una costituzione di scienza autonoma. A tale fondazione mira il Della Volpe. E tale operazione non perde di vista la critica alla logica
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un’estetica marxista. L’arte è riportata sul piano medesimo del discorso scientifico: in essa le immagini e i simboli hanno altrettanto valore conoscitivo di quanto ne hanno i concetti scientifici. Né l’arte significa una fuga dal reale, dalla concretezza dei fatti; anzi essa si avvicina a tale dimensione concreta e coglie l’interna vita di essi, la dialettica che li anima e di cui sono termini e aspetti. Il marxismo, perciò, rappresenta un’efficace strumento di comprensione e interpretazione dell’opera artistica e poetica. Della Volpe polemizza specialmente con l’estetica romantica (di cui quella crociana è l’ultima espressione), per la quale le immagini sono rappresentazione simbolica di sentimenti e intuizioni soggettive, di stati d’animo e situazioni vissute interiormente. Il mondo dell’arte è, invece, un mondo comune, in cui si stabiliscono condizioni universali di cultura, di conoscenza e di comunicazione. Solo in quanto sono universali, alla stessa stregua dei concetti scientifici, le immagini sono compresi universalmente. Si tratta, pertanto, di considerare gli aspetti formali per i quali l’opera d’arte si distingue e si dà un’identità propria: si tratta, cioè, di rilevare le forme specifiche dei diversi linguaggi e, dunque, i diversi valori semantici che sono propri delle varie arti.254 Un altro rappresentante del marxismo italiano, Cesare Luporini, ha recato nella sua interpretazione la sua precedente esperienza di riflessione nell’ambito dell’esistenzialismo e l’intero bagaglio della sua cultura umanistica: in particolare ha colto l’aspetto prevalentemente orientato in senso “scientifico” delle analisi del Della Volpe, che, allontanando Marx da Hegel, ha finito per perdere di vista la visione essenzialmente dialettica (ereditata da Hegel) del marxismo. Invece si tratterebbe di rivalutare la dimensione storica dell’uomo, considerato come inididuo concreto e parte di strutture sociali in un rapporto di reciproca connessione, mettendo in rilievo gli aspetti contraddittori che possono essere rilevati solo attraverso l’adeguata comprensione della situazione dialettica, per il cui sviluppo si pone l’esigenza di una teoria (dunque di uno sviluppo del marxismo) storicamente aggiornata. La prospettiva del Della Volpe, come anche quella strutturalistica di Althusser, invece, irrigidirebbe il marxismo in una intelaiatura concettuale piuttosto statica e in sé chiusa, incapace di vita e d’esistenza storica, non dunque adeguata a interpretare le esigenze di individui concreti, ma solo rivolta a costituire, se mai, un campo utile per l’approfondimento di questioni teoriche astratte.255 hegeliana, costituita sul processo inverso, cioè quello di riportare sempre di più la logica sul piano della filosofia, fino a farla coincidere con la metafisica, che è la scienza speculativa del reale, cioè pretta filosofia, pura teoria. Una analoga operazione il filosofo tenterà anche di portare a compimento nel campo dell’estetica, liberando questa disciplina dalle impalcature teoriche e riportandola sul piano della scientificità. L’estetica marxista si configurerà, dunque, come una scienza del gusto estetico e delle sue manifestazioni nelle forme dell’arte. 254 Dopo avere analizzato alcuni testi poetici, il Della Volpe trae alcune conclusioni. “1. Che la verità o valore conoscitivo della poesia in quanto discorso fa capo (come per ogni altro discorso) a immagini-concetti ossia a complessi logico-intuitivi, secondo quanto ci ha confermato la presenza – indispensabile – di una struttura (intellettualità) ossia di un significato in ogni prodotto o ‘fantasma’ poetico. 2. Che, di conseguenza, rinviandoci ogni significato direttamente o indirettamente alla esperienza e storicità e quindi a un quid sociologico, così, e solo così, è resa possibile la fondazione materialistico-storica della poesia – la sola criticamente accettabile per il suo carattere scientifico, antidogmatico, antimetafisico. 3. Che, tuttavia, solo l’analisi (finora rimandata, della componente semantica (verbale) della poesia ci permetterà di mostrare anche la peculiarità e specificità di questa, e in che senso diverga il discorso poetico da quello scientifico, e quindi di precisare formule come quelle usate sopra: di pathos oggettivo e storico eccetera” (Critica del gusto, Feltrinelli, Milano 1960, pp. 46-47). In particolare, per la poesia, il Della Volpe osserva che la specificità semantica consiste nella funzione polisensa del linguaggio a fronte di quella univoca del linguaggio scientifico (cfr. op. cit., p. 77). Questa polisemia del discorso poetico si manifesta nelle metafore, nei simboli, nei diversi aspetti tecnici che distinguono tale genere d’arte. I diversi generi si distinguono per l’uso di tecniche espressive specifiche. Della Volpe, così, rivaluta gli aspetti tecnici e formali dell’espressione artistica. 255 Il Luporini accusava il Della Volpe di ridurre il marxismo a una metodologia della scienza, dunque a rilevarne l’incidenza sul piano gnoseologico, appunto in rapporto alla distinzione tra filosofia e scienza e alle istanze metodiche e alle categorie che consentono il passaggio dalla filosofia (che è principalmente scienza dell’universale, dunque non ancora idonea a cogliere il particolare e a fissarlo nella sua identità) alla scienza (che consente di comprendere i fenomeni, i processi concreti) (Cfr. Dialettica e materialismo, Roma 1974). Umberto Curi allora, considerando la lettura del marxismo in senso epistemologico, osservava che ciò non voleva dire riduzione del marxismo a scienza (cfr. Sulla scientificità del marxismo, Milano 1975). Tuttavia le analisi di Marx nel Capitale apparivano evidenti saggi di interpretazione scientifica dei fatti economici.
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In questo modo il marxismo italiano si proiettava sull’organizzazione del partito politico di cui era (ed è tuttora) lo strumento teorico, con una diversa (ora più articolata ora con qualche difficoltà) capacità di aderire alle esigenze dello sviluppo pratico, comunque in modo da alimentare una reciproca influenza, di cui interprete e protagonista è stato principalmente Palmiro Togliatti, attento ad assicurare al dibattito culturale una profondità adeguata, sulla linea della tradizione speculativa italiana e in un’apertura intelligente di dialogo con le componenti e le espressioni molteplici del panorama intellettuale.256
Il problema del marxismo come “scienza” secondo la prospettiva di Galvano Della Volpe Si potrebbe esaminare il problema riguardante i confini tra scienza e filosofia in Galvano Della Volpe, con riguardo al progetto di fondazione di una scienza d’impianto marxista (cioè nell’ambito del materialismo storico). Lo strumento per la fondazione di una tale disciplina su un terreno che si colloca tra scienza e filosofia è la logica come scienza positiva, che, appunto, è l’opera che segna il passaggio del Della Volpe al marxismo “scientifico” dopo la fase del marxismo “ideologico”, essenzialmente filosofico. Della Volpe intende dare al marxismo la veste della ricerca scientifica, condotta col metodo sperimentale galileiano e sulla base dell’antica impostazione empiristica di derivazione aristotelica. Aristotele ha insegnato come pervenire a concetti universali (scientifici) movendo dall’osservazione, cioè da dati empirici. Si parte, cioè, dal presupposto che ogni conoscenza deriva dall’esperienza, anche se è il risultato di una elaborazione (a diversi livelli) dei contenuti dell’esperienza. Per Aristotele, il concetto (per cui si stabilisce e si fissa l’identità del reale) è l’elemento che segna il passaggio dalla non-conoscenza alla scienza. La scienza, poi, dipende dalla connessione di concetti: però da una connessione che trova sempre riscontro (e verifica) nell’esperienza. La connessione avviene, cioè, sul piano logico, presupponendo le regole logiche (per cui, ad esempio, di qualcosa di cui si ha il concetto si predica qualcos’altro, con lo scopo di precisarlo ulteriormente e di definirlo, con un progressivo aumento della conoscenza). Così Aristotele ha precisato i modi secondo cui si sviluppa la conoscenza unendo concetti diversi sulla base del rapporto tra soggetto e predicato; e ha parlato delle categorie, che sono, appunto, i modi generali della predicazione. Così ad esempio, se io mi propongo di conoscere l’acqua, devo cercare di vedere la complessa serie dei fenomeni in cui essa si trova; devo, perciò, attraversare l’intero campo dell’esperienza, per esaminare in quali circostanze l’acqua compare e di quali processi fisici è, per così dire, protagonista o nei quali in diversa misura è coinvolta; devo quindi riportarmi sul piano concettuale e trasferire i rapporti tra i dati empirici in rapporti tra concetti. In questo senso io uso il metodo sperimentale galileiano, cioè cerco di riprodurre i dati dell’esperienza in laboratorio, stabilendo i dati quantitativi esatti, in modo che la connessione concettuali riguardi dati “esatti” (sulla base della lettura matematica e quantitativa della natura). Ciò che avviene, per così dire, sul piano sperimentale trova la sua esatta corrispondenza in ciò che è definito sul piano concettuale: la scienza risulta da questa corrispondenza. Infatti si parla di scienza allorché si dispone di dati conoscitivi verificabili e in modo che, in qualsiasi momento e a qualsiasi punto della “costruzione” scientifica si può intervenire operando in modo 256
Damo qui un rapido cenno alla storia del marxismo. Gli scritti di Marx ebbero subito grande diffusione, in rapporto con l’accendersi di un vivace dibattito incentrato specialmente sulla questione della via pratica per l’inserimento della classe operaia nel sistema politico, sulla base della organizzazione dei primi movimenti socialisti, specialmente del Partito Socialdemocratico tedesco, fortemente diviso tra i moderati seguaci di Lassalle e i radicali sostenitori della via rivoluzionaria della lotta di classe. Nel periodo della II Internazionale (1889-1914) marxisti ortodossi furono K. Kautsky, il Plechanov, Rosa Luxemburg, mentre “revisionisti” erano Bernstein e i marxisti della scuola austriaca (Hilferding). In seguito alla evoluzione russa, il marxismo è stato rielaborato nel senso di teoria rivoluzionaria della presa e dell’organizzazione del potere operaio da Lenin, tanto da potersi parlare di “marxleninismo”, con aspetti di vera e propria ortodossia non esente da un’impalcatura dogmatica. A questa forma di marxismo scolastico si sono opposte interpretazioni più libere, come quella di Lukács e quella dello stesso Gramsci. Una forma di marxismo critico è stato elaborato anche dai rappresentanti della Scuola di Francoforte, che in particolare hanno rielaborato la materia relativa ai processi di reificazione nella società industriale avanzata e, dunque, hanno considerato le modalità in cui si pone nella nuova situazione storica il soggetto rivoluzionario (non solo corrispondente a una connotazione di classe).
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analitico o in direzione sintetica, separando i dati prima uniti o viceversa procedere a ulteriori connessioni (secondo la regola cartesiana dell’analisi e della sintesi). Si ha scienza allorché si ha un tale campo in cui operare con procedimenti univocamente definiti. Si può fare qualcosa di simile coi dati dell’ambito concettuale del marxismo? Della Volpe si preoccupa che tale ambito non finisca per essere semplicemente ideologico e filosofico, cioè semplicemente teorico. In tal caso il marxismo non avrebbe niente di più (sul piano della conoscenza) di qualsiasi altra metafisica: il marxismo sarebbe solo una teoria dell’uomo della storia o solo dell’economia, come altre teorie potrebbero riguardare la morale, l’arte e così via. Ma che tipo di scienza è (potrebbe essere) il marxismo? Quali ambiti di fatti o fenomeni esso comprende? Dunque, scienza di che cosa? Bisogna a questo punto vedere quali sono i campi d’indagine e di riflessione di Marx e del marxismo. E’ chiaro che si tratta, in primo luogo, di una riflessione sull’uomo storicamente situato e configurato attraverso una serie di attività, di cui al centro sembra collocarsi l’economia. Marx esamina il sistema dell’economia capitalistica come un ambito reale che ha le sue proprie leggi, dunque, al modo in cui gli scienziati della natura procedono nei loro campi d’indagine, stabilendo i nessi tra i diversi dati empirici e trasferendo tali connessioni sul piano concettuale. Sembra che, a questo proposito, l’analisi di Marx rispetti in generale i procedimenti scientifici in base al modello sperimentale galileiano. Termini come “lavoro”, “profitto”, “plusvalore” e così via sono esattamente definiti in modo univoco e sono riportati anche sul piano quantitativo e matematico (sia pure di quella matematica che oggi si configura come “statistica”). Ciò sarebbe sufficiente già a poter dire che il marxismo è una scienza, o, meglio, si propone di essere una scienza. Ma il marxismo non vuole essere una semplice scienza economica. Esso riguarda una valutazione generale della condizione dell’uomo nella società industriale in cui l’organizzazione dell’attività produttiva è di modello capitalistico. Si può a questo proposito costruire un discorso scientifico in tale ambito generale? In primo luogo si tratta di vedere se è possibile una scienza della situazione storica in generale. Infatti il marxismo non intende elaborare una concezione filosofica (metafisica) generale dell’uomo e del mondo (dell’esistenza umana in genere), bensì intende esaminare la condizione umana in una determinata contingenza storica (nell’età di sviluppo dell’economia capitalistica) e in rapporto a precisi caratteri storici (l’alienazione economica e sociale, la reificazione e così via). La scientificità che in tale ambito si presume di realizzare e conseguire appare di tipo particolare, precisamente del tipo delle scienze umane e storiche in generale. Il marxismo farebbe parte, in questo senso, del tentativo, proprio degli ultimi decenni del secolo XIX, di fissare i criteri metodologici delle scienze umane. L’interpretazione del marxismo come scienza impone che la “filosofia” di Marx sia compresa nel capitolo riguardante lo sviluppo delle scienze storiche. In realtà il marxismo ha avuto poi i suoi più fecondi sviluppi nel campo della revisione dei criteri della ricerca e ricostruzione storiografica. E ciò potrebbe essere un significativo contributo di carattere “scientifico” allo sviluppo della conoscenza in genere e delle scienze umane in particolare. La storiografia d’impronta marxista fa parte del patrimonio scientifico delle scienze storiche: e ciò sembra un indubbio risultato del carattere “scientifico” del marxismo. Si può dire, dunque, che un primo fondamentale contributo scientifico del marxismo sia quello che si registra nel rinnovamento della metodologia della ricerca storiografica. Rimane il discorso che riguarda specialmente l’antropologia filosofica, che pure costituisce il tema fondamentale delle riflessioni e delle analisi marxiane. Marx ha elaborato una consistente teoria del soggetto. Innanzitutto il soggetto è storicamente determinato e si pone in un rapporto dinamico con l’ambiente e con la realtà in generale. L’insieme dell’attività del soggetto umano si indica in generale come prassi. La concezione marxiana della realtà si riporta alla celebre proposizione di Protagora che l’uomo à misura di tutte le cose e che le cose, in questo senso, sono i termini e i prodotti dell’attività umana, che non sono condizioni naturali, bensì fanno parte della situazione storica. Le cose sono in quanto termini dell’attività del soggetto storico. Al centro dell’antropologia marxiana si pone, quindi, il concetto dell’uomo come soggetto libero, che dispone un progetto di sé e agisce (dispone una “prassi”) per attuarlo. Il soggetto organizza la sua prassi. E a questo punto il carattere “scientifico” del marxismo consiste nell’analisi delle procedure attraverso cui si dispone un progetto storico e si mettono in atto le strategie per attuarlo. A questo proposito Marx ha esaminato specialmente le condizioni rivoluzionarie insite al sistema economico capitalistico. Come sappiamo, egli era del parere che la rivoluzione fosse quasi una necessità dialettica connessa alla
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maturazione (all’estremo sviluppo) della società industriale. In questo senso si sono ravvisati caratteri propri della scienza deterministica della natura nella stessa situazione storica; e per tale via si sono stabiliti punti di raccordo tra materialismo storico e materialismo dialettico. Opportunamente si rileva che la costituzione del marxismo a sistema scientifico comprende entrambi gli aspetti della concezione materialistica. Si può dire che già Lenin ha tentato la costituzione del marxismo come una sintesi unitaria di materialismo storico e dialettico, con esisti discutibili, per il determinismo fisico entro il quale vengono a trovarsi aspetti più propri dell’esistenza umana e per i problemi che vengono a profilarsi in merito allo sviluppo di un’etica marxista. Lo stesso Della Volpe ha parlato di “libertà comunista”, con riferimento all’etica, appunto, che il marxismo pone in evidenza in rapporto ai processi di superamento delle condizioni alienanti e reificanti della società capitalistica. Non sembra, infatti, un’etica della libertà quella proposta in un sistema sociale caratterizzato da rapporti di subordinazione e di sfruttamento. Come ha rilevato efficacemente Kant, non si può sviluppare un’etica che presupponga una condizione dell’uomo come strumento e non esclusivamente come fine. In realtà, sembra improbabile attribuire al marxismo il carattere di “scienza”, allorché esso si profila come una teoria generale del soggetto storico, dunque anche come un’etica, una politica, una estetica, un’antropologia, se non addirittura una filosofia della storia, insomma come una specie di sistema delle scienze filosofiche. Più agevole, pertanto, risulta considerare il marxismo un tale sistema, in cui le diverse parti assumono connotati che si situano al confine tra scienza e filosofia, con sbilanciamenti dall’uso e dall’altro versante: sono indubbi, ad esempi, i caratteri scientifici delle analisi marxiane sul terreno dell’economia politica, mentre più propriamente filosofici sono i temi relativi alla concezione del soggetto e ai caratteri dell’esistenza storica.
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CAPITOLO XXXV Heidegger Sintesi bio-bibliografica Martin Heidegger nacque a Messkirch (Baden tedesco) nel 1889 e si laureò in filosofia a Friburgo nel 1914 con una tesi su La dottrina del giudizio nello psicologismo. Contributo critico-positivo alla logica. La sua biografia coincide quindi con la sua carriera di professore universitario e, quindi, con gli studi storiografici e l’intensa riflessione teorica. I corsi tenuti a Friburgo sotto la direzione di Husserl, poi a Marburgo (dal 1923 al’28) e quindi di nuovo a Friburgo come successore del suo maestro, riguardano i presocratici, Aristotele, Platone, le altre correnti della filosofia antica, il neoplatonismo, Agostino, l’ontologia e la mistica medievale, Cartesio, Leibniz, Kant, Schiller, Hölderlin, Fichte, Schelling, Hegel, Rickert, Natorp, Husserl. La pubblicazione di Essere e tempo nel 1927 lo rese famoso in tutto il mondo. Nel 1933 accettò la carica di rettore dell’Università di Friburgo, pronunciando un discorso carico di sentimenti riecheggianti i motivi nazionalistici romantici (particolarmente accentuati nel famosi Discorsi alla nazione tedesca di Fichte); ma lasciò quell’ufficio solo dopo pochi mesi per dedicarsi interamente agli studi e all’insegnamento. Lo studio La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, del 1916, è la sua tesi di docenza. Dopo Essere e tempo, Hidegger ha principalmente rivolto i suoi studi alla messa in rilievo del carattere “ontico” e metafisico dell’intero pensiero occidentale. Tappe fondamentali in questo senso, oltre ai suoi corsi universitari, dal 1929 al 1962, sono i suoi studi più significativi: il corso di lezioni del 1935 Introduzione alla metafisica, le famose conferenze (tenute a Friburgo nel 1929, la seconda nel 1930) Che cos’è la metafisica? e L’essenza della verità, la Lettera sull’umanesimo (a J. Beaufret, 1947), i saggi raccolti in Sentieri interrotti (1950, tr. it. 1968), l’opera su Nietzsche (1961), i saggi raccolti nel volume Segnavia (tr. it.). Lo studio sulle categorie come modalità dell’essere in Duns Scoto Nello studio su Duns Scoto, Heidegger individua nella corrispondenza tra la sfera logica e le altre sfere della realtà un riferimento alle diverse modalità d’essere, che hanno il loro fondamento nel senso dell’essere in generale. Ad esempio, l’oggetto, quando è considerato nel suo essere conosciuto subisce una diminutio rispetto al suo essere reale, storico o metafisico. E accade che nel giudizio, che esprime la situazione conoscitiva, un oggetto è determinato, quanto al suo essere, da un altro contenuto: così se dico “la Terra è un pianeta”, io circoscrivo l’essere della Terra al fatto del suo essere un pianeta, cioè alla sua consistenza astronomica e la conoscenza che ne ho risulta, a sua volta, circoscritta al campo dell’astronomia. L’oggetto di cui parlo risulta così intenzionalmente “ridotto” alle determinazioni dell’essere astronomico. Ma c’è un modo della conoscenza che riguarda le determinazioni generali dell’essere: di ogni oggetto si dice che è (e in questo caso si esprime la sua determinazione fondamentale, relativa all’essere in generale nel senso di “esistere”), che è se stesso (e così si esprime la sua identità, che è anch’essa una determinazione dell’essere in generale), che è vero (e così si indica la sua intelligibilità e conoscibilità), che è “buono” (nel senso che gli si può attribuire un valore in relazione al suo essere in relazione al mondo o a noi stessi), e così via. Nella dottrina di Duns Scoto, questi predicati massimi sono “trascendenti” rispetto a ogni oggetto, anzi sono categorie dell’essere in quanto sono impliciti in ogni oggetto; inoltre sono convertibili. “La convertibilità – spiega Heidegger – non vuol dire una distinzione assoluta di due oggetti, ma solo una diversa modalità di possibile considerazione, una diversa determinazione del contenuto uno”. L’essere dell’ente così assume una configurazione diversa: di volta in volta può essere determinato in rapporto all’esistenza, alla conoscibilità, alla bontà, e così via. Le categorie non sono oggetto di conoscenza, ma sono “condizioni della possibilità della conoscenza di oggetti in genere” e a un tempo condizioni della possibilità degli oggetti stessi. Esse hanno a che fare col senso dell’essere in generale.
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Tra questi “trascendenti”, l’attenzione di Heidegger si rivolge specialmente al verum. La filosofia dovrebbe considerare il concetto di verum trascendens, cioè del “vero” come modalità del senso dell’essere. Il “vero”, in questo senso, fonda la conoscibilità delle cose; queste sono conoscibili in quanto la verità fa parte del loro “essere”. Il “vero” può suggerire l’idea di verità, che non si può più considerare nel senso della “corrispondenza” tra la cosa, l’immagine, il concetto, il giudizio, il discorso (è questo il piano logico, che riguarda modalità di rappresentazione: io posso dire che questo disegno riproduce con sufficiente verosimiglianza questo edificio, senza dire nulla intorno all’essere dell’oggetto, ad esempio rimarcando la differenza tra l’essere cosa e l’essere disegno). In realtà, il “vero” non si riduce a questa funzione logica: è qualcosa che appartiene all’ente. Il “modus essendi”, il “modus intelligenti”, il “modus significandi” sono modalità dell’essere dell’ente e hanno la loro radice nel senso dell’essere in generale. Heidegger rileva che queste modalità vanno al di là della contrapposizione, accentuata dal pensiero moderno, tra il soggetto e l’oggetto; e che esse rimandano all’essere. Tra le funzioni soggettive del pensiero e le determinazioni oggettive si stabilisce un nesso fondamentale (per cui solo in virtù delle prime si configurano le seconde e solo in rapporto a queste si delineano quelle); inoltre la dimensione poetico-noematica risulta strettamente unita a quella linguistica, poiché in questa si ha lo sviluppo del giudizio. Tra categorie come modalità oggettive della determinazione, funzioni del pensiero e atti di giudicare esiste un legame profondo e costitutivo. Gli “oggetti” sono tali in quanto “conosciuti” (“intelligibili”) e la conoscenza è tale in quanto espressa nel giudizio; e il linguaggio si orienta sulla conoscenza e questa si orienta sull’essere. Alla base di tutto ciò sta il senso dell’essere in generale. Essere e tempo Il problema del senso dell’essere, secondo alcune indicazioni autobiografiche fornite dallo stesso Heidegger, entrò in una nuova fase nel primo dopoguerra e giunse a una “prima chiarezza” in Essere e tempo. In particolare, questo risultato è stato possibile in virtù dell’acquisizione di tre elementi. Il primo è costituito dall’esperienza diretta del metodo fenomenologico attraverso il contatto quotidiano con Husserl a Friburgo. Heidegger in realtà ha inteso in modo diverso il metodo fenomenologico, cioè come “lasciare vedere ciò che si mostra”, partendo dalla descrizione di ciò che è dato “innanzitutto e per lo più” nella “quotidianità media” (mentre Husserl partiva dall’epoché, come “messa fuori azione” del mondo della quotidianità). Heidegger non ritiene che l’epoché husserliana sia in realtà praticabile, poiché noi ci troviamo sempre in una situazione ermeneutica, ossia abbiamo sempre una pre-comprensione di ciò su cui ci poniamo domande (e questo circolo è un fatto). Egli non condivide la fiducia di Husserl di poter giungere a descrivere le modalità essenziali del darsi degli oggetti nel rapporto intenzionale costitutivo, cioè sul piano trascendentale, mettendo tra parentesi il pensiero speculativo, la metafisica, le costruzioni ontologiche e quelle scientificopositive. Husserl ha inteso la fenomenologia come indagine intorno alla “correlazione intenzionale” della “coscienza pura”, partendo dal presupposto di una soggettività trascendentale. Secondo Heidegger si tratta, invece, di mettere in questione tale soggettività, cioè l’intenzionalità alla quale Husserl riconduce tutte le forme e i modi e i sensi d’essere: si tratta, in ultima analisi, di chiedersi quale sia il senso d’essere di tale intenzionalità. Il problema ora riguarda i sensi d’essere che sono connessi alle modalità di sviluppo dell’intenzionalità facente capo alla coscienza (soggettività) trascendentale. Infatti tutte queste modalità hanno il loro fondamento e la loro radice nel senso dell’essere in generale, cioè sono in realtà modificazioni e determinazioni di tale senso. Così Heidegger inserisce nel contesto della fenomenologia il suo problema del senso dell’essere. E’ questo problema che, secondo lui, va rintracciato in ogni concezione del mondo, alla base di ogni impostazione dei problemi filosofici e scientifici: perciò l’indagine fenomenologia è rivolta al significato di ogni dato di comprensione in rapporto al problema del senso dell’essere in generale. Di ogni dato storico, così, vanno messi in luce la sua origine di senso, il progetto essenziale di cui è espressione. In particolare, qui Heidegger riprende il concetto diltheyano della comprensione storica, come modo di rivivere gli eventi, le idee, i problemi del passato, e lo collega a quello husserliano della intuizione dei fenomeni essenziali, come modo di cogliere gli oggetti culturali alla radice intenzionale che li costituisce.
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Questo orientamento guida anche la riflessione di Heidegger su alcuni nodi storiografici: già nei suoi studi giovanili egli manifesta l’appassionata ricerca delle tracce di quel problema che domina il suo interesse, cioè dei modi in cui è stato impostato e interpretato dai grandi filosofi del passato il problema del senso dell’essere. Lo scopo della fenomenologia ermeneutica, infatti, è quello di scoprire il modo in cui questo problema si trova alla radice di ogni determinata forma di comprensione. In tal modo Heidegger intende recuperare il senso autentico di ogni situazione problematica, cioè, in particolare, di ogni momento della storia della filosofia. Tutta la storia del pensiero rappresenta un’occasione per pensare quel problema fondamentale. Ne risulta un particolare modo di intendere l’indagine storiografica: si tratta non più di registrare i vari contesti concettuali come dottrine chiuse o come sistemi, caratterizzati, ognuno, da un complesso di idee e concezioni fondamentali (il rapporto tra l’intelligibile e il sensibile, la dottrina dell’atto, la metafisica monadologia e così via), ma di collocarsi all’interno delle varie problematiche, per impossessarsi del nucleo vitale che tuttora richiede l’intervento della riflessione e per sviluppare il discorso intorno a ciò che non è stato espresso interamente e che costituisce per noi un’autentica possibilità di pensiero. Il secondo elemento è costituito dalla scoperta del legame inscindibile tra il problema dell’essere e quello della verità. A tale scoperta Heidegger perviene attraverso una “rivisitazione” di Aristotele (specialmente del IX libro della Metafisica e del VI libro dell’Etica Nicomachea) e della concezione greca della verità (aletheia). Heidegger scopre che l’“intuizione eidetica” husserliana, o “visone delle essenze”, adempie quello che era già un obiettivo dell’ontologia ontica, ossia pernette un’autentica “dottrina delle categorie” (che sono strutture dell’essere), sottratta alle ipoteche del soggetto moderno e a quelle ontiche dell’essere reificato. In Husserl, infatti, tutte le categorie sono modalità d’essere, “oggetti ideali” e non funzioni trascendentali soggettive. Fino al 1929 Heidegger tenne corsi e seminari su Aristotele, Kant, Hegel, Husserl, tendenti a far emergere in questi filosofi il problema del senso dell’essere (che coincide col problema della verità). Secondo un luogo comune tradizionale, Aristotele avrebbe considerato la verità come la “correttezza” del giudizio (dovuta alla sua formulazione logica o al “nesso necessario” dei concetti tra loro), indipendentemente dall’oggetto di riferimento. Heidegger rileva che se tradizionalmente si ammettono criteri formali della correttezza del giudizio è perché tali criteri corrispondono alla struttura di ogni materia o oggetto cui ci si può riferire in generale. Dunque tutti i criteri di verità presuppongono sempre un rapporto fondamentale veritativo col mondo (con l’essere). La “verità” è prima di ogni giudizio: essa fonda ogni conoscere, ogni rapporto tra idee e tra idee e cose o fatti. Heidegger perviene al superamento del concetto di verità come correttezza o “adeguazione”, attraverso lo sviluppo della teoria scolastica (ma già presente in Platone e Aristotele) della “verità trascendentale” (riconducibile anche, ad esempio nell’assunzione vichiana del principio scolastico “verum et factum convertuntur seu reciprocantur”, o nella formula hegeliana “ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale”) e l’assunzione della della centralità husserliana della “correlazione intenzionale”, interpretata come “ontologia fondamentale”. Il terzo elemento è costituito da un nuovo modo di problematizzare il senso dell’essere dell’ente. Heidegger rileva che la concezione tradizionale dell’essere dell’ente, l’ousìa, fa perno sulla presenzialità, ossia sulla modalità temporale della presenza: il modello dell’essere dell’ente è stato individuato nell’ente mondano come “semplice presenza”; solo che delle due principali concezioni metafisiche, quella “realistica” ha inteso ricondurre l’“essentia” all’“existentia”, quella idealistica l’“existentia” all’“essentia”. Avendo rilevato che questa concezione dell’essere dell’ente come “semplice presenza” (come “cosa presente”) presuppone un’intuizione temporale, in cui nella temporalità è privilegiato il “presente”, Heidegger comprende quindi di poterla problematizzare (e superare) considerando la temporalità nella totalità delle seue dimensioni. In tal modo il problema del senso dell’essere si collega al problema del tempo. Heidegger affronta il problema del tempo ispirandosi a Dilhey e a Husserl. L’ultimo Dilthey, infatti, riconduce esplicitamente le categorie e le strutture della psiche e del mondo storico alle tre dimensioni della temporalità (presente, passato, futuro); e così Husserl pone la coscienza interna del tempo come una delle condizioni della fondazione intenzionale (che dà luogo alle ontologie regionali). In Essere e tempo (1927) Heidegger si propone di recuperare le condizioni e i termini concettuali necessari per la comprensione del problema del senso dell’essere, e, quindi, di elaborare quell’interpretazione
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“temporale” che consente di mettere in discussione (e superare) la concezione tradizionale dell’essere fondata sul privilegio della “presenza”. Hiedegger considera, in primo luogo, la modalità stessa della domanda intorno al senso dell’essere in generale: egli rileva che questa domanda parte da un ente privilegiato capace d’interrogarsi, di “porsi il problema”, cioè L’uomo, che, perciò, ha la struttura dell’Esserci. Un primo modo di affrontare il problema è, dunque, quello di esaminare la natura del domandare stesso, il fatto storico-antropologico di questa domanda circa il senso dell’essere. E poiché il domandare è tipico dell’uomo, si tratta di “analizzare l’esserci” dell’uomo. Di fatto, onticamente, come ente empirico, l’Esserci è tale “per cui nel suo essere ne va sempre di questo essere stesso”; ossia, l’Esserci si rapporta sempre al proprio essere, si comprende e si sceglie, è onto-logico (esercita il “logos” nei riguardi dell’essere della sua propria entità, e quindi anche di quella delle cose). L’essere ontologico è, per l’Esserci, innanzitutto, una determinazione ontica (di fatto). L’Esserci, di fatto, si comprende e comprende ogni altro ente a partire dalla propria possibilità (dalla modalità del rapportarsi al proprio essere): e questa è la comprensione “esistentiva” (mentre la considerazione teorica di questa condizione è di tipo ontologico-esistenziale). Il problema che Heidegger intende affrontare è quello di applicare la fenomenologia al piano di una messa in luce dell’impostazione ontologico-esistenziale a proposito dell’Esserci e, dunque, di superare il piano “ontico”, connesso all’interpretazione dell’essere come semplice “presenza” e caratterizzato dal darsi dell’Esserci medesimo nelle modalità quotidiane in autentiche. Si tratta, però, di partire proprio da queste modalità e, via via, procedere, fenomenologicamente, a smascherarle, per mettere in evidenza la dimensione ontologica che esse celano; nello stesso tempo si tratta di mettere in luce le conseguenze che si hanno sul piano dell’interpretazione filosofica da questa considerazione generale dell’Esserci a partire dal punto di vista dell’essere come “semplice presenza”: e a questo proposito Heidegger compie ampie escursioni nella storia del pensiero, sulla base della convinzione che l’intera storia della filosofia è caratterizzata dal pregiudizio “metafisico” dell’essere come “semplice presenza” e, dunque, da un’inadeguata comprensione (in quanto la dimensione ontologica è rimasta nascosta, obliata) dell’Esserci e del tempo. L’autentica dimensione dell’Esserci (quella ontologica) si scopre, infatti, insieme all’autentica dimensione del tempo (quando, cioè, nella considerazione del tempo non sarà più solamente rilevata la dimensione del “presente” ma saranno messe in luce tutte le dimensioni connesse al senso dell’essere in generale). Si tratta di un piano organico e nettamente delineato nelle sue fasi teoriche. Heidegger intende articolare la sua trattazione in due momenti: 1) sviluppare una analitica esistenziale, cioè applicare il metodo fenomenologico a esaminare gli elementi che caratterizzano la comprensione dell’Esserci dal punto di vista “ontico” (sulla base della comprensione della temporalità come “presenza” dell’ente intramondano), per far risaltare la dimensione ontologica; 2) recuperare il punto di vista ontologico per mettere in rilievo la dimensione ontologica della temporalità e potere analizzare il senso dell’essere a partire da questa nuova considerazione della temporalità dal punto di vista ontologico (e non più ontico e metafisico). L’intera trattazione, secondo il piano dell’opera, avrebbe dovuto occupare due volumi, ognuno articolato in tre sezioni. In realtà, Heidegger scrisse solo le prime due sezioni del primo volume. Nella I sezione Heidegger procede a un esame preliminare dell’Esserci (esistenza umana), per recuperare una prima dimensione “ontologica”, attraverso la messa in luce di componenti esistenziali generalmente “coperti” dalla prevalente impostazione “ontica” e “metafisica” dell’essere come “semplice presenza”. L’applicazione del metodo fenomenologico è rivolta a mettere in luce come le modalità ontiche ordinarie nascondono, in realtà, dimensioni ontologiche che l’analisi fenomenologia è in grado di “mostrare”, sia pure parzialmente e provvisoriamente. Così emerge una prima dimensione ontologica generale dell’Esserci. Tale dimensione è chiamata da Heidegger modalità della cura. Il carattere generale che emerge come distintivo dell’esistenza è l’essere “impegnato” in una serie di rapporti con gli enti del mondo. A questo livello il problema del senso dell’essere è interamente trascurato. Nella II sezione Heidegger tenta il recupero della prospettiva ontologica rispetto alla comprensione del tempo. Si tratta della problematica più rilevante, dato che l’inadeguata impostazione del problema del senso dell’essere è dovuta, secondo Heidegger, all’inadeguata interpretazione del tempo, cioè alla concezione del tempo come modalità dell’essere presenti degli enti, cioè alla riduzione della temporalità alla semplice
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presenzialità. Una prima definizione del senso dell’essere dell’Esserci è quella che caratterizza questo senso come temporalità. La III sezione avrebbe dovuto sviluppare il tema della temporalità come senso dell’essere in generale: perciò essa avrebbe dovuto assumere il titolo di “Tempo ed Essere”. Si tratta, dunque, dapprima di individuare le fondamentali strutture ontologiche dell’Esserci, partendo dall’analisi fenomenologia della modalità ordinaria di darsi dell’Esserci medesimo. Queste strutture sono trascendentali e costituiscono modalità d’essere generali dell’Esserci (dunque sono dimensioni ontologiche che fondano e condizionano ogni modalità “ontica”). La prima fondamentale modalità trascendentale dell’Esserci, che caratterizza la struttura dell’Esserci stesso, è l’essere-nel-mondo. Essa si articola in tre esistenziali cooriginari (nel senso che si rispecchiano l’uno nell’altro) che sono la mondità, il chi? e l’in-essere. Questi presentano, a loro volta, articolazioni più particolari. La mondità è l’orizzonte generale che comprende l’insieme degli enti di cui l’Esserci si prende cura. Questi enti si presentano (si manifestano) in primo luogo nella modalità (rivelativi) dell’utilizzabilità. Heidegger mette in rilievo che l’uomo, in primo luogo, scopre se stesso e le cose in un orizzonte dominato dalla prassi connessa al “servirsi”, al “manipolare”, all’agire sotto la spinta di “bisogni”. In qualche modo si ammette che l’aspetto originario in cui si manifesta l’umanità è quello della “tecnica”: il mondo si presenta come un orizzonte in cui si dispiega l’attività pratica orientata dall’utilizzabilità generale. Ogni rapporto originario con gli enti intramondani si configura come una espressione di questa modalità dell’utilizzabilità. Il mondo stesso appare come un contesto di “rimandi” riferiti a questa modalità esistenziale: così le “cose” hanno senso in quanto sono “mezzi”, strumenti della fondamentale prassi umana; si stabiliscono nessi essenziali tra mezzi e fini da raggiungere; si sviluppano le conoscenze relative al migliore uso delle cose; si stabiliscono rapporti organici e funzionali tra gli enti. Fenomeni come la sorpresa, la meraviglia, l’impertinenza sono dovuti al fatto che ancora la dimensione dell’utilizzabilità non appare chiaramente nel contesto intramondano. Il mondo, in questo modo, non è una “realtà” che ha una consistenza in sé, bensì è una struttura fondamentale dell’Esserci umano, funzionale al dispiegamento della sua attività. Heidegger indica come convenienza la modalità del reciproco stare insieme degli enti in rapporto alla loro utilizzabilità da parte dell’uomo e come significatività il modo generale in cui il sistema degli enti intramondani è compreso e fatto oggetto di rappresentazione (e di discorso). Si parla, in realtà, solo di ciò che ha un significato e ogni discorso riguarda il significato delle cose. Ogni significato, nell’orizzonte del mondo, si articola a partire dalla dimensione dell’utilizzabilità: le cose hanno senso in quanto sono mezzi della prassi umana e consentono di conseguire uno scopo. L’analisi del chi? dell’Esserci è analoga a quella della mondità: si può dire che essa considera l’altra faccia della medesima struttura, il lato corrispondente al soggetto, all’io, alla coscienza, alla persona o allo spirito. Il soggetto umano si presenta, innanzitutto, come un ente di tipo particolare, dato che ha la struttura dell’Esserci (essere-nel-mondo). Tale struttura consente, secondo Heidegger, il riconoscimento di una condizione comune che già originariamente fa uscire il soggetto da una situazione di isolamento e lo colloca in una situazione di con-essere. L’isolamento individuale sarebbe, in questa prospettiva, una conseguenza, un caso limite, della situazione comunitaria originaria e fondamentale. L’Esserci stabilisce, dunque, una modalità originaria di condivisione della condizione intramondana. L’essere-nel-mondo appartiene alla struttura comune dell’Esserci. Questa concezione può apparire suggestiva e interessante, tanto che ogni fuga individualistica, solipsistica, solitaria viene a configurarsi come l’abbandono della condizione originaria della partecipazione a un essere condiviso. Il con-essere è, dunque, originario e il mondo dell’Esserci è un mondo comune. Questo mondo configura e orienta tutto lo sviluppo dei rapporti intramondani tra i soggetti. La struttura che modella i soggetti è quell’orizzonte mondano che si configura come “cultura” e i soggetti non sono altro che espressioni di essa. I caratteri della cultura si ritrovano in ogni soggetto, nei suoi atteggiamenti, nel suo linguaggio, nei suoi rapporti con gli altri e con le cose. I rapporti con le cose, in particolare, si iscrivono in questo orizzonte e si modellano e articolano a partire da esso. La stessa comprensione della specificità soggettiva da parte dell’io è un derivato della fondamentale condizione del con-esserci: a partire dalla significatività del mondo, io riconosco me stesso. Del resto, io cerco di affermare la mia individualità in rapporto a quella degli altri e dunque, sempre, nell’ambito del con-esserci come dato
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insuperabile. La modalità quotidiana del con-esserci si configura come sviluppo di atteggiamenti comuni che caratterizzano la quotidianità. Normalmente ognuno di noi si riconosce in modi di pensare, di fare, di essere comuni, cioè nei modi del si dice, si crede, si pensa, si fa e così via. In tale ambito si sviluppa quella modalità di comunicazione che è la chiacchiera, uno scambio di luoghi comuni, a cui si riduce comunemente il discorso intersoggettivo. Un terzo elemento esistenziale dell’essere-nel-mondo è l’in-essere. L’Esserci presuppone una dimensione spaziale del suo trovarsi e svilupparsi. Il “ci” dell’Esserci indica già questa spazialità originaria e costitutiva: l’Esserci è qui, là, in diversi punti del mondo; esso è vicino o lontano rispetto ad altri enti. L’in-essere caratterizza l’Esserci dal punto di vista spaziale e temporale: lo spazio riguarda l’ambito di delimitazione di ciò che l’Esserci riconosce come “proprio”, ambito di appartenenza della sua espansione vitale e culturale; il tempo indica il declinarsi della vita stessa in rapporto al presente, al passato e al futuro. Nell’in-essere, dunque, vengono a confluire aspetti fondamentali dell’Esserci. L’intero declinarsi dell’esistenza avviene in questo ambito esistenziale. In primo luogo pensiamo allo sviluppo della vita “estetica” (nel senso etimologico di ambito relativo allo sviluppo dell’attività sensitiva) e quindi a quello connesso alla temporalità (i ricordi, le anticipazioni del futuro). Perciò Heidegger in questo ambito tematico tratta di fenomeni esistenziali come la situazione affettiva, la compresnione, il discorso, oppure come il sentimento, l’intelletto, la volontà. Questi esistenziali, osserva Heidegger, sono “co-originari” e “convertibili”: tra di essi, cioè, non si stabilisce nessuna gerarchia e nessuna differenza di valore; essi appartengono in uguale misura all’essere dell’Esserci e si connotano reciprocamente. Così non si dà tonalità affettiva che non sia anche modalità della comprensione, né si dà intelligenza che non sia anche situazione emotiva. Tutte queste componenti esistenziali concorrono a costituire il circolo ermeneutica, che è l’espressione della modalità di comprensione del senso dell’essere da parte dell’Esserci. Il giudizio, in cui sfocia la comprensione, si sviluppa nell’ambito di questo circolo. Esso presuppone il discorso, che, a sua volta, presuppone il linguaggio, a sua volta correlato strettamente al circolo ermeneutica. E’ in quanto capace di comprendere che l’Esserci è fornito di linguaggio ed in quanto parlante che è capace di giudicare. Nella modalità ordinaria, l’Esserci si costituisce come soggetto, la comprensione si configura come conoscenza, il giudizio è l’ambito in cui la conoscenza si esprime. Heidegger si sofferma anche a considerare le modalità quotidiane inautentiche in cui prendono forma questi esistenziali in cui si articola l’in-essere. Queste modalità sono: la chiacchiera, come modalità del discorso; la curiosità, come modalità della comprensione; l’equivoco (ambiguità, falsificazione di sé), come modalità della situazione affettiva. Si tratta di modalità che evitano il problema del senso dell’essere dell’Esserci. L’esistenza si trascina a questo livello in una condizione di generale scadimento. L’Esserci che si pone, quindi, il problema del suo essere si trova in una situazione singolare, di particolare smarrimento, dovuto alla crisi delle categorie esistenziali secondo cui si sviluppa l’essere-nel-mondo della quotidianità. L’Esserci si trova d’un tratto spiazzato, proiettato in una situazione di estrema problematicità. E’ la cura come modalità generale dell’essere-nel-mondo che viene messa in discussione. Tuttavia l’Esserci cerca quella modalità che possa consentire un accesso al senso del suo esserci. Questa modalità esistenziale è l’angoscia, preludio della ricerca da parte dell’Esserci del senso del suo essere. In virtù di questa tonalità affettiva, lo stesso significato connesso all’essere-nel-mondo della quotidianità viene meno; l’orizzonte intramondano svanisce; la totalità delle cose con cui quotidianamente si ha a che fare (nel senso generale della cura) si allontana e sprofonda nel nulla. Il mondo stesso assume la forma del nulla. L’Esserci si scopre come una pura possibilità d’essere. La II sezione di Essere e tempo riguarda il senso dell’essere dell’Esserci. Heidegger tenta, quindi, un primo approccio ontologico all’esistenza, nella prospettiva di potere affrontare, successivamente, il problema del senso dell’essere in generale. Il primo passo verso l’ontologia dell’esistenza è costituito dal recupero delle dimensioni temporali, oltre quella prevalentemente “ontica” della “presenzialità”. Si tratta, in particolare, di recuperare la dimensione del futuro, dato che il carattere essenziale dell’Esserci è il suo avere-da-essere, la sua possibilità di essere, il progetto di se stesso. Heidegger ora si propone di trattare gli “esistenziali” relativi a questa dimensione temporale. Questo recupero della temporalità come dimensione unitaria di presente, passato e futuro esige l’impostazione del problema della temporalità come un tutto. L’Esserci stesso deve, dunque, essere
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considerato, ora, come una totalità, a partire dall’insieme delle sue possibilità d’essere. A questo punto Heidegger introduce il tema della morte che, in quanto estrema possibilità dell’Esserci, concorre significativamente a definire l’Esserci come totalità esistenziale. In quanto possibilità estrema, la morte è la condizione di ogni altra possibilità: essa fonda l’esistenza come possibilità d’essere. Il tema della temporalità come precorrimento del futuro, cioè come una dimensione dell’esistenza, trova un successivo sviluppo nella trattazione delle modalità soggettive dell’anticipazione del futuro. A questo riguardo troviamo la chiamata della coscienza e la risolutezza. Il futuro è fondato in massima parte dalla decisione del soggetto, è connesso, dunque, allo sviluppo delle strutture dell’esistenza. “Rivenendo su se stessa e presentando a partire dall’ad-venire, la risolutezza si porta in situazione”. Dunque nel recupero della temporalità totale sta la chiave della attuazione dell’esistenza nel senso più proprio del suo essere. In realtà, la temporalità totale è il senso dell’essere dell’Esserci. Questa è la conclusione (provvisoria) di Essere e tempo. La “svolta” del pensiero oltre la metafisica I problemi che attirano l’attenzione di Heidegger dopo la pubblicazione delle prime due sezioni di Essere e tempo riguardano gli ambiti propri entro i quali, secondo il filosofo, sono possibili quelle operazioni di “ripensamento” che consentono di superare l’impostazione “ontica” della metafisica e continuare, invece, la trattazione “ontologica” già avviata nella prima opera. La metafisica, ovviamente, riguarda il problema della realtà e nell’ambito di questa appare ovvia la distinzione tra il piano dell’essere (che trascende gli enti) e il piano dell’ente. L’avvio all’approfondimento del problema metafisico riguarda appunto la differenza tra queste due sfere della realtà. In particolare, una questione Heidegger vedeva affiorare in margine a questa differenza ontologica: che ne è dell’ente sulla base della sua differenza dall’essere? che tipo di essere compete all’ente? sul piano dell’ente non si sfiora piuttosto il rischio di ammettere il nulla al posto dell’essere? Nei tre scritti di maggior rilievo dopo Essere e tempo (Che cos’è la metafisica, del 1929; Sull’essenza del fondamento, dello stesso anno; Sull’essenza della verità, 1930), Heidegger affronta tre problemi strettamente connessi: il problema della differenza ontologica e del “nulla”; il problema del fondamento; il problema della verità. Il tema della differenza ontologica è dominante nel saggio sull’essenza del fondamento. L’essere si distingue dall’ente e lo trascende; esso è il fondamento che dà consistenza e luce all’ente medesimo. L’ente, dunque, precipita nella sua condizione di non essere fondamento di se stesso, di essere possibilità di non essere. Così viene a profilarsi il problema del nulla. La ragione per cui l’ente “è” al posto del nulla non ha nulla di necessario e richiama, piuttosto, il leibniziano “principio di ragion sufficiente”. Ciò che fonda l’ente non è un principio di causalità che connetta costitutivamente il “fondante” al “fondato”, bensì è un principio che dichiara l’assoluta “contingenza” di questo rispetto a quello. Intorno alla “ragion sufficiente” che giustifica l’ente ruota ora l’intera problematica della metafisica. Il problema “perché l’ente e non piuttosto il nulla” è, secondo Heidegger, costitutivo della metafisica. Ogni metafisica si connota in base all’impostazione e alla soluzione di questo problema. In realtà, l’ente, nella impostazione leibniziana della domanda, sottende un rapporto originario dell’ente prima all’essere e quindi al nulla (come possibilità). Così l’essere è tematizzato come “fondamento” dell’ente. Tuttavia, mettere in questione l’essere dell’ente vuol dire porre il problema del nulla; e questo problema appare una componente della metafisica, incentrata sul problema dell’essere dell’ente e su quello del senso dell’essere in generale. Il problema del nulla entra a far parte della problematica metafisica. Heidegger pronunciò la prolusione Che cos’è la metafisica, a Friburgo nel 1928, succedendo a Husserl. In questo saggio il problema del nesso tra l’essere e il nulla è esplicitamente posto come problema fondamentale della metafisica. Già il tema dell’angoscia in Essere e tempo costituisce un primo approccio al problema del nulla. Questa “situazione affettiva fondamentale” si configura come esperienza della dissoluzione del mondo ontico nei suoi significati e nelle modalità del suo dispiegamento. Che cos’è, infatti, questo “qualcosa” che contiene in sé la possibilità di dileguare e di “manifestare” la sua stessa dissoluzione? Ovviamente è l’ente nella sua totalità che cede il posto al nulla. Ma tutto ciò avviene nell’orizzonte dell’Esserci; il nulla appare come una modalità dell’essere dell’Esserci. Heidegger mette così in rilievo la
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connessione del problema del nulla con lo stesso problema dell’essere in generale. Attraverso l’approccio al nulla l’Esserci scopre l’essere dell’ente. Perciò Heidegger osserva: “Il nulla è la condizione che fa possibile la rivelazione dell’ente come tale per l’essere esistenziale dell’uomo. Il nulla non dà soltanto il concetto opposto a quello di ente, ma appartiene originariamente all’essenza dell’essere stesso”.257 In questo senso il filosofo può dire che il problema del nulla è il problema centrale della metafisica e costituisce la condizione essenziale per il superamento della metafisica “ontica” (basata sulla concezione dell’essere come “semplice presenza”) e l’impostazione di una metafisica “ontologica” (basata sulla questione del senso dell’essere in generale e su quella del senso dell’essere dell’ente). L’assioma della vecchia metafisica: ex nihilo nihil fit, dal nulla non viene nulla, viene rovesciato: dal nulla viene ogni ente in quanto ente. E’ chiaro che qui si allude all’ente nella sua dimensiona ontologica e non nel suo essere nel modo della “realtà” come “semplice presenza”. Heidegger vuol dire che si tratta di una comprensione da parte dell’Esserci: è questo che, nella sua tensione verso la totalità della sua esistenza, scopre il nulla come il termine idoneo a manifestare la totalità del suo essere e, dunque, a configurarlo come l’ente che progetta se stesso e assume se stesso come possibilità d’essere. Si può dire che Heidegger rimane ancora nell’ambito dell’analitica esistenziale. In particolare, viene approfondito e sviluppato il tema dell’esistenza come “progetto”. Solo in rapporto a questa struttura dell’Esserci si può avere il superamento della prospettiva ontica in quella ontologica. Heidegger ritiene che in questo modo e per tale via si possa procedere a costruire la metafisica mediante un pensiero che accolga in sé i motivi di disvelamento che provengono dall’essere stesso attraverso la messa in luce (in questione) del rapporto con l’Esserci (e di questo con l’ente).
Il linguaggio nuovo della filosofia nell’esistenzialismo P. Prini, Storia dell’esistenzialismo, Studium, 1989, pp. 336 (Il Sole, 19.11.89). L’esistenzialismo ha considerato, riportandola all’ambito della riflessione, l’’immane potenza del negativo’. l’esistenza come dato irriducibile al concetto, la realtà come problematicità essenziale. Hegel aveva prospettato la riduzione di ogni aspetto del reale alla dimensione del concetto, alla trasparenza della comprensione razionale. Heidegger, Jaspers , Marcel e altri hanno compiuto il tentativo di teorizzare l’esistenza, di riportarla al senso dell’essere. Se tradizionalmente il pensiero e l’essere coincidono, con l’esistenzialismo l’essere si rapporta all’esistenza (che è termine irriducibile al pensiero). E’ possibile, dunque, pensare l’essere dal punto di vista dell’esistenza? Heidegger ha cercato di riuscire a ciò; ma è ripiegato sulla ricerca di vie alternative di pensiero. Insufficiente, dunque, appare il nostro modo di considerare il pensiero, cioè il modo dominante nella tradizione “logica” occidentale (o meglio di coincidenza di metafisica e logica, sostanzialmente hegeliano). Si tratta, perciò, di introdurre categorie nuove, di attivare un modo nuovo di filosofare, dove questo non consiste tanto in un argomentare chiaro e consequenziale, bensì piuttosto si esercita in un gioco di scoprimento nell’ambito delle parole stesse (del linguaggio). L’esistenza stessa è chiamata a rivelare le sue dimensioni nascoste. Ecco, dunque, emergere il diario, lo scavo interiore, il proprio personale rapporto con la parola. Il linguaggio filosofico si rinnova radicalmente. Perciò l’esistenzialismo è infine sfociato nell’ermeneutica. La filosofia si configura come un ricerca al limite della comprensibilità. L’esistenzialismo richiede e reclama un linguaggio filosofico nuovo, alla cui costruzione Heidegger (ma anche filosofi come Sciacca, Pareyson, Castelli) ha contribuito notevolmente. L’essere si trova nella forma più personale dell’esistenza, nell’esperienza più unica e irripetibile. Heidegger. La storia dell’Occidente come storia della metafisica. Le epoche della comprensione dell’essere e il ruolo della filosofia Heidegger intende come metafisica quasi l’intero dispiegarsi della concezione dell’essere nel pensiero occidentale (almeno da Platone a Nietzsche) e considera il sistema scientifico-tecnologico come l’estrema e 257
M. Heidegger, Che cos’è la metafisica?, tr. di A. Carlini, Firenze 1952, p. 24.
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compiuta espressione della comprensione dell’essere nel senso di totalità dell’essente, rispetto a cui si esercita la “volontà di potenza” dell’uomo. Egli considera Nietzsche l’ultimo grande rappresentante della concezione metafisica dell’essere (in quanto filosofo della “volontà di potenza”) e, insieme, il primo critico del razionalismo sul quale quella concezione si basa (in quanto oppone al dominio della razionalità l’equilibrato contemperamento di “spirito apollineo” e “spirito dionisiaco”). Perciò nel suo Nietzsche “accoglie gradualmente il messianismo dionisiaco in quell’operazione che mira a varcare la soglia verso il pensiero post-moderno lungo la via di un oltrepassamento della metafisica dal suo interno” (J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, tr. it., Laterza, Bari 1987, p. 138). Secondo Heidegger, ogni epoca storica è fondamentalente segnata segnata dalle modalità di dispiegamento della comprensione dell’essere; e poiché è il pensiero filosofico che specialmente si fa interprete di questo dispiegamento, esso assume un ruolo indubbiamente privilegiato nello sviluppo della coscienza cui perviene la storicità stessa. La filosofia, così, riassume quasi quella posizione dominante che le era stata riconosciuta da Hegel. In qualche modo, il filosofo coglie e delinea quella “fenomenologia dello spirito” che è data dallo sviluppo della fondamentale comprensione dell’essere che impronta di sé ogni epoca storica. In base a questa prospettiva, infatti, i caratteri (e, dunque, il senso, la direzione progettuale, il peso della tradizione, e così via) di una data temperie culturale sono iscritti in quella “precomprensione” che comprende effettivamente le modalità di articolazione della vita umana nel mondo. Questa “precomprensione ontologica” racchiude i concetti fondamentali che confluiscono, quindi, nell’elaborazione filosofica e scientifica e improntano di sé la stessa vita quotidiana in tutti i suoi aspetti. “Comunque possa venir interpretato l’essente – come spirito nel senso dello spiritualismo, o come materia ed energia nel senso del materialismo, o come divenire e vita, come volontà, come sostanza o soggetto, o come energheia, o come Eterno Ritorno dell’identico – in ogni caso l’essente in quanto essente si mostra alla luce dell’Essere” (Introduzione a Che cos’è la metafisica?). La tipica “precomprensione” che ha dominato l’intero sviluppo dell’Occidente è, secondo Heidegger, appunto la metafisica, caratterizzata, da un lato, dalla concezione dell’essere come totalità dell’essente e, d’altro lato, da quella del reale come razionale. Metafisica e razionalismo, in questo senso, sono le componenti dominanti della tradizione occidentale. I diversi momenti epocali di questa comprensione dell’essere si rispecchiano nelle varie fasi della storia del pensiero come storia della metafisica. Si può vedere in ciò la proposizione di una nuova filosofia della storia, la cui chiave è data, come già per Hegel, dalla storia della filosofia. Per Heidegger, attraverso l’esame della storia della metafisica, il filosofo recupera l’apparato concettuale che riflette la fondamentale comprensione dell’essere, dalla quale ogni epoca riceve la propria luce. L’analisi heideggeriana della tradizione metafisica assume una particolare pregnanza nella critica della modernità tecnologica. “L’età che noi chiamiamo tempo moderno […] si determina in quanto l’uomo diviene misura e centro dell’essente. L’uomo è ciò che sta alla base di tutto l’essente, cioè, modernamente, di ogni oggettivazione e rappresentabilità, il subjectum” (Nietzsche, 1961, II, p. 61). L’apporto originale di Heidegger consiste specialmente nell’aver rilevato il ruolo dominante del soggetto nello sviluppo della metafisica moderna. Descartes è, come è noto, il primo grande interprete della soggettività come struttura fondamentale di un orizzonte del reale che tende a configurarsi come “oggettività”. Egli concepisce la soggettività (che si manifesta dapprima nell’autocoscienza) come una struttura autonoma (la res cogitans), che è il fondamento assolutamente certo di quel rappresentare, che è condizione dell’oggettività reale: così l’essente nel suo complesso assume la forma del mondo degli “oggetti”, la cui “realtà” è data principalmente dalla rappresentazione. Heidegger fa della critica del soggettivismo cartesiano il nucleo del suo discorso sulla modernità. Con Cartesio, egli avverte, entriamo in una nuova fase della concezione della razionalità, che ora viene incardinata nella struttura del soggetto. Heidegger forse un po’ arbitrariamente riporta alla ragione così configurata fenomeni e aspetti diversi della modernità: la coscienza dell’umanità universale e i diritti dell’individuo, lo spirito positivo e lo storicismo, così come i princìpi particolaristici dell’autoaffermazione che hanno ispirato il razzismo e il nazionalismo. In realtà, come rileva Habermas, “non importa se le idee moderne si presentano nel nome della ragione o della distruzione della ragione: il prisma della
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comprensione moderna dell’Essere scompone tutti gli orientamenti normativi in pretese di potere di una soggettività ossessionata dall’autopotenziamento” (pp. 137-38). Heidegger rileva che già Holderlin (con la particolare facoltà anticipatoria – per non dire divinatoria – che è propria dei poeti) ha elaborato la figura concettuale del destino dell’Occidente come destino della metafisica, con la metafora della fuga della divinità, e ha auspicato l’avvento di un’epoca nuova (un “altro inizio”) col ritorno presagito del dio assente. L’assenza del dio fuggito è metafora, come è evidente, dell’oblìo dell’Essere. Heidegger distingue l’Essere dall’essere dell’essente e dall’essente medesimo. Solamente l’Essere, concepito in un orizzonte di oltrepassamento della metafisica, può assumere il ruolo di Dioniso (il dio ritornato). Heidegger, tuttavia, tende ad “esperire la mancanza del non-nascondimento dell’Essere come un evento dell’Essere stesso” (Nietzsche, II, p. 367).
L’analitica esistenziale Heidegger ha continuamente sottolineato la funzione propedeutica della sua “analitica esistenziale”, per cui l’intero discorso sull’”Esserci” (l’esistente per eccellenza, l’uomo) è stato sviluppato unicamente in funzione del problema del senso dell’Essere. Così tutto il pensiero del secondo Heidegger segue il piano già delineato con la stesura di Essere e tempo. L’analitica esistenziale intende attuare quel superamento della prospettiva moderna intorno alla soggettività che costituisce il presupposto per il discorso sull’Essere. Heidegger riconosce i limiti della filosofia trascendentale, in quanto espressione matura della scoperta della soggettività, e si trova di fronte al problema di andare oltre il concetto della soggettività trascendentale; ma, nello stesso tempo, riconosce l’inevitabile punto di partenza che è proprio quell’orizzonte di precomprensione dell’essere che coincide con l’esistenza storica dell’Esserci umano. Del resto, egli non può dimenticare di essere stato allievo di Husserl e di essersi formato alla scuola fenomenologica. La svolta neoontologica consiste specialmente nell’adozione di una terminologia depurata dalle tracce della soggettività trascendentale. Nel capitolo introduttivo di Essere e tempo, Heidegger traccia le linee direttive di quello sviluppo di pensiero che dovrà attuare il programma di una ontologia fondamentale. In primo luogo, si tratta di attribuire un senso ontologico alla problematica trascendentale, fino allora incentrata sull’analisi della coscienza (in senso soggettivistico). Al filosofo sembra che la questione ontologica sia l’unica che possa interessare al pensiero. Le scienze positive si occupano, come è noto, di questioni ontiche, degli aspetti del mondo “dato”, formulano enunciati sull’universo fisico e sugli aspetti della realtà stoica e sociale. L’analisi trascendentale delle condizioni a priori di questi settori ontici di conoscenza concorre a chiarire la costituzione categoriale di tali ambiti, con riferimento al tipo di comprensione dell’essere che in essa viene stratificandosi. Così, ad esempio, per Heidegger, la Cririca della ragion pura di Kant, piuttosto che una teoria della conoscenza, può essere interpretata come una “logica a priori dei fatti propri di quell’abito dell’essere che è la natura”. Il richiamo è a quei “mondi della vita” che costituiscono il presupposto fenomenologico per accedere all’orizzonte di comprensione dell’essere, che, a sua volta, racchiude una impostazione ontologica. Le scienze stesse, del resto, non sono pure costruzioni logiche, ma dipendono da una radice originaria di comprensione e muovono i loro passi dagli ambiti ontologici non ancora tematizzati dal pensiero: “Le scienze sono modi d’essere dell’esserci”, avverte Heidegger, richiamando ciò che Husserl aveva già indicato come il processo di fondazione delle scienze del mondo della vita. L’esistenza situata in un determinato contesto storico possiede quella sia pur vaga comprensione di un mondo, dal cui orizzonte emerge dapprima il senso dell’essente, che poi viene oggettivato dalle scienze. L’analisi preliminare coglie quelle strutture del mondo della vita o dell’”essere nel mondo”, che Heidegger chiama “esistenziali”. Questi sono preordinati alle categorie dell’essente in generale e, in particolare, di quelle regioni verso le quali si dirige l’attività oggettivante degli scienziati. L’analitica esistenziale dell’”essere-nel-mondo” si costituisce, perciò, come un’ontologia fondamentale. Questa, in realtà, esplicita i fondamenti del mondo della vita (gli esistenziali), cioè i presupposti delle ontologire
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regionali, delle quali l’analisi trascendentale enuclea, a sua volta, le forme categoriali. L’intento di Heidegger è, dunque, di andare oltre l’ambito trascendentale-categoriale, verso quello ontologico-precategoriale. Successivamente, Heidegger assume il metodo fenomenologico a strumento fondamentale dell’ermeneutica ontologica. La fenomenologia si propone di esplicitare ciò che in tutte le manifestazioni culturali riguarda il senso dell’essere. Infatti, il manifestarsi è proprio dell’essere e avviene nell’orizzonte dell’esistenza umana. Perciò l’ermeneutica ontologica si configura, in primo luogo, come una analitica esistenziale. Il nucleo del metodo fenomenologico non è più, come in Husserl, l’intuizione che coglie il senso degli atti di coscienza a un livello precategoriale, bensì la comprensione ermeneutica di un testo particolarmente significativo. In realtà, Heidegger ritiene che ciò che va disoccultato è il senso profondo che si cela nelle parole. Infine, Heidegger collega l’analitica esistenziale a una teoria dell’esistenza autentica. L’Esserci umano si comprende a partire dalla possibilità di progettare il suo essere. Perciò si trova di fronte all’alternativa di decidere intorno a ciò che intende essere oppure di accettare una forma d’esistenza che risulta “data” dalle circostanze del mondo. Esistenza “autentica” è quella che risulta da uno sforzo di autocomprensione; “inautentica” è, invece, quella già decisa e anonima. In questo modo, lo sforzo ermeneutico, rivolto a cogliere il senso dell’essere sul quale l’esistenza si fonda, assume un significato progettuale. Si stabilisce una specie di circolo, per cui l’analitica esistenziale porta al problema dell’esistenza autentica e questo, a sua volta, alimenta l’ermeneutica ontologica. L’emergere delle possibilità esistenziali del “più autentico poter essere” dell’Esserci dipende dal venire alla luce del senso dell’essere attraverso lo sforzo ermeneutico. L’uomo è inserito nell’orizzonte di manifestazione del senso dell’essere: è, costitutivamente, un ente ontologico, al quale la questione dell’Essere appartiene in modo essenziale. Perciò, “l’elaborazione del problema dell’Essere diviene nient’altro che la radicalizzazione di una tendenza dell’Essere appartenente in linea essenziale allo stesso Esserci” (Essere e tempo, p. 25). Dunque, dall’analitica esistenziale si va all’ermeneutica del senso dell’essere e da questa si torna alla questione dell’esistenza, configurata essenzialmente come progetto. Poiché l’essere dell’Esserci è essenzialmente riferito alla comprensione dell’Essere, e l’Essere si manifesta nell’orizzonte dell’Esserci umano, l’ontologia fondamentale va oltre la prospettiva gnoseologistica, che privilegia il rapporto soggetto/oggetto, e si costituisce come una radicalizzazione della prospettiva trascendentale, in senso fenomenologico. Husserl attuava la riduzione trascendentale privilegiando il polo del soggetto e in tal modo non conseguiva il punto di vista ontologico, rimanendo nell’ambito della costituzione trascendentale del soggetto. L’analisi fenomenologica serve, secondo Heidegger, a mettere in evidenza i significati che emergono nell’ambito della comprensione preontologica dell’Essere, e quindi “i contesti di senso, nei quali l’esistenza quotidiana si trova già sempre”. Le strutture trascendentali dell’esserenel-mondo subentrano al posto delle condizioni dell’oggettività dell’esperienza e acquistano anche un significato pratico, in relazione al tema dell’esistenza autentica. L’orizzonte di rivelazione coincide, in primo luogo, col “mondo”. Il mondo costituisce l’orizzonte che dischiude il senso entro il quale l’Essere nello stesso tempo si cela e si rivela all’Esserci esistenziale che si prende cura del suo essere. Il mondo è già sempre anteriore al soggetto: infatti, non è il soggetto che entra in relazione con qualcosa nel mondo, ma è il mondo il contesto originario a partire dalla cui precomprensione l’Esserci comprende se stesso. In virtù di questa comprensione preontologica dell’Essere, gli “esistenziali” che sono propri dell’esserenel-mondo costituiscono i contesti di senso nel cui ambito si sviluppano le attività conoscitive e pratiche dell’uomo. E’ a partire dall’essere-nel-mondo dell’Esserci che il mondo nella totalità dei suoi aspetti costituisce l’orizzonte in cui si dischiude il senso dell’Essere. Il Da del Dasein è il luogo nel quale si are la “radura” dell’Essere. “Il conoscere – scrive Heidegger – non instaura un rapporto estrinseco fra un soggetto e un mondo (oggetti rappresentabili o manipolabili), né sorge da un’azione del mondo su un soggetto. Il conoscere è un modo dell’Esserci fondato nell’essere-nel-mondo” (Essere e tempo, p. 75). In questa prospettiva, non c’è piùun soggetto che si contrappone al mondo oggettivo (inteso come l’insieme delle realtà esistenti), bensì vi sono atti del conoscere e dell’agire che sono espressioni del modo in cui si articola l’essere-nel-mondo. Heidegger caratterizza questi modi dell’in-essere nel mondo come altrettanti modi dell’aver-cura, come: “aver a che fare con qualche cosa, riparare qualcosa, ordinare o curare qualcosa,
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impiegare qualcosa, scoraggiarsi e desistere da qualcosa, intraprendere, riuscire, osare, interrogare, considerare, discutere, determinare, ecc.” ( p. 59). Il mondo è, innanzitutto, l’ambito delle relazioni sociali. Nonostante una tendenza a privilegiare l’Esserci come singolo, Heidegger non trascura gli aspetti del mondo in quanto progetto del Con-Esserci. Successivamente, Heidegger riconoscerà il fallimento del suo tentativo di andare oltre l’ambito della filosofia del soggetto. Ma l’Altro, a cui egli si riferisce, è, comunque, l’Essere: solo che il dispiegamento del rapporto ontologico non è più affidato allo sforzo dell’Esserci, bensì è considerato come un modo del “darsi” dell’Essere stesso. L’Esserci è concepito come l’”evento dell’Essere”. E questo evento può venire soltanto fedelmente recepito ed esposto narrativamente, ma non può essere spiegato argomentativamente. Heidegger abbandona, perciò, il concetto esistenzial-ontologico della libertà. L’Esserci non è più considerato come l’autore del progetto del mondo, poiché tutto avviene nell’orizzonte di senso in cui l’Essere si dischiude. Il mondo e l’uomo appartengono all’Essere. L’Esserci si affida al senso dell’Essere e abbandona la volontà di autoaffermazione, considerata un residuo del soggettivismo. Heidegger, infine, rifiuta il fondamentalismo del pensiero che risale a un Primo, e, perciò, sia la metafisica tradizionale, sia la filosofia trascendentale da Kant fino a Husserl. Il “Primo”, in quanto non è più considerato come l’”intelligibile” di cui si occupa la filosofia, e viene restituito all’Essere, nel processo del suo dischiudersi e celarsi, viene temporalizzato. L’Essere viene in qualche modo sganciato dal “logos”, liberato, cioè, da ogni impalcatura razionale e riportato alla sfera del “sacro”: come tale, l’Essere è descritto, narrato, annunciato dalla parola dei poeti. In questo senso, Heidegger riprende la critica radicale della ragione di Nietzsche e mette in rilievo l’unilateralità del punto di vista razionalistico e i limiti del pensiero discorsivo.258 Heidegger interpreta il
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La temporalizzazione dell’Essere, in realtà, è una conseguenza della conclusione provvisoria di Essere e tempo, secondo la quale il senso dell’Essere si identifica con la temporalità. Tutta l’analitica esistenziale tende a questa conclusione. Il senso dell’Essere può essere indagato all’interno di quell’orizzonte di comprensione che è l’Esserci, l’uomo nella sua costituzione ontologicamente temporale. L’analitica esistenziale indaga tale orizzonte, in quanto proprio del disvelamento/nascondimento dell’Essere, dunque anche come ambito storico della verità (a-letheia, non-nascondimento) e dell’errore. L’Esserci è originariamente e costitutivamente orizzonte di precomprensione dell’Essere; esso, comunque, trova la sua consistenza in un fenomeno originario di svelamento/occultamento del senso della realtà. Tale fenomeno si manifesta nella dimensione della ricerca, dell’interrogare, cioè in quella dimensione che già Eraclito, Platone e Aristotele (e, si può dire, tutti i filosofi antichi) avevano individuato come il luogo originario in cui s’installa il desiderio di sapere, l’impulso a conoscere. L’uomo, perciò, riconosce, in primo luogo, la sua natura di essere interrogante: egli, cioè, si muove originariamente nell’ambito del problema del senso dell’Essere, dunque della ricerca e dell’interrogazione intorno a tale problema, che investe costitutivamente l’esistenza. Per il fatto che il senso dell’Essere si dà nella forma del suo manifestarsi/occultarsi sul piano dell’Esserci umano, temporale e storico, la temporalità e la storicità appartengono già costitutivamente al senso dell’Essere. Se Essere e tempo sviluppa l’analisi dell’Esserci nelle sue strutture fenomenologiche, il pensiero della “svolta” intende percorrere le vie possibili di esplicitazione del senso dell’Essere come temporalità. In questo senso, la messa in rilievo della temporalità come struttura fondamentale dell’Essere implica l’enucleazione (ermeneutica) dei livelli di linguaggio (orizzonti di svelamento/occultamento) in cui l’Essere si dà nella condizione (storica) dell’uomo. Il filosofo assume il ruolo di interprete dei significati relativi al senso dell’Essere e quali sono consegnati all’articolazione poetica del linguaggio (che è quella in cui lo stesso senso dell’Essere si affida alla parola): le vicende del linguaggio, con lo sviluppo e l’esplicitazione dei significati originari, costituiscono l’articolazione epocale della storia dell’Essere, cioè, in definitiva, del destino temporale dell’Essere medesimo. I termini essenziali dell’orizzonte di precomprensione del senso dell’Essere sono quelli elaborati dal linguaggio attraverso la storia della poesia e dell’ermeneutica filosofica. Poesia e filosofia costituiscono, da questo punto di vista, i termini strutturali fondamentali del disvelamento del senso dell’Essere: nella poesia si compie il destino del linguaggio come veicolo significativo e comunicativo; la filosofia ha il compito di mettere in rilievo e portare alla luce il carattere disvelante/occultante del linguaggio stesso in relazione al senso dell’Essere. Heidegger interpreta il senso di una tradizione culturale basata essenzialmente sulla parola. Che cosa abbia significato (e che cosa tuttora significhi) la parola per la costituzione di una civiltà che oggi ancora pretende di porsi al centro epocale della storia dell’umanità, è compito della filosofia esplicitare. Il nucleo del pensiero di Heidegger va cercato, dunque, nelle riflessioni sul linguaggio e sulla poesia.
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senso di una tradizione culturale basata essenzialmente sulla parola. Che cosa abbia significato (e che cosa tuttora significhi) la parola per la costituzione di una civiltà che oggi ancora pretende di porsi al centro epocale della storia dell’umanità, è compito della filosofia esplicitare. Il nucleo del pensiero di Heidegger va cercato, dunque, nelle riflessioni sul linguaggio e sulla poesia. In una direzione più ampia, oggi l’attenzione dei filosofi è rivolta verso la costituzione dei diversi discorsi. Infatti, lo sviluppo storico è consegnato agli universi linguistici nei quali l’articolazione dell’esperienza e della compresnione della realtà è rappresentata. Il destino storico dell’umanità è consegnato ai significati che trovano articolazione nell’ambito di tali universi. Fondamentalmente, la realtà è quella che noi riusciamo a comprendere e rappresentarci, cioè quella che ritroviamo nei significati delle parole.
In una direzione più ampia, oggi l’attenzione dei filosofi è rivolta verso la costituzione dei diversi discorsi. Infatti, lo sviluppo storico è consegnato agli universi linguistici nei quali l’articolazione dell’esperienza e della compresnione della realtà è rappresentata. Il destino storico dell’umanità è consegnato ai significati che trovano articolazione nell’ambito di tali universi. Fondamentalmente, la realtà è quella che noi riusciamo a comprendere e rappresentarci, cioè quella che ritroviamo nei significati delle parole.
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CONCLUSIONE Fine della filosofia? Orientamenti e problematiche attuali. Quale filosofia oggi? Cfr. “Il Sole”. 10.12.89. Richard Rorty, La filosofia dopo la filosofia, Laterza 1989, pp. 265 (rec. di M. Ferraris). Il libro può essere interessante in quanto affronta la questione attuale della presunta “fine della filosofia” (di cui ha parlato, ad esempio, Lucio Colletti su “MicrOmega”). La filosofia è morta? Ovviamente no; si deve dire, piuttosto, che si è trasformata, ha abbandonato i problemi classici, come quello dell’essere, e ha ripiegato su problemi più modesti, relativi a questioni attinenti le forme della conoscenza umana. Lo stesso problema dell’essere riguarda la dimensione del pensiero e la proiezione di essa nel linguaggio (o nel sistema dei concetti). Osserva Ferraris: “Nel momento in cui non ci sono più verità fondamentali da accettare, il compito del filosofo (che si trova a convergere con il letterato) è di collaborare alla conformazione del vocabolario attualmente in uso, in quanto la ‘realtà’ non consiste in proposizioni valide rispetto ai fatti, bensì in modi via via differenti di rivalutare la nostra condizione. Non si tratta di confutare o di argomentare, ma di arricchire le modalità degli uomini di stare al mondo, aumentando le parole utili per intenderci r archiviando le parole obsolete”. Non si tratta, dunque, di abolire ipso facto la metafisica, ma di porre il problema della metafisica in termini attuali, nuovi e corrispondenti alla cultura del nostro tempo. La filosofia deve compiere questo lavoro di adeguamento. Le forme del pensiero oggi sono diverse rispetto a quelle antiche, medievali e anche moderne. Già Spaventa rilevava la necessità di rivedere il termine “metafisica” e di considerarlo in rapporto all’esperienza, conformemente ai tempi del positivismo dominante e del grande sviluppo del pensiero scientifico. Heideger sembra che abbia (almeno in parte) compiuto (ma non portato a termine) l’opera di revisione del concetto di “essere” nell’epoca post-metafisica. L’essere è visto in rapporto all’esistenza, anzi come la condizione del rapporto (o della struttura) esistenziale. L’essere si connette alla situazione problematica dell’esistenza. Invece tradizionalmente esso indica l’immutabile, l’assoluto. Che ne è dell’essere, se esso è considerato come rapporto all’esistenza e viene a caricarsi di tutti i termini corrispondenti alla situazione dlel’essere-nel-mondo, della cura, e così via? La classica distinzione parmenidea di “essere” ed “ente” viene a cadere. Il reale è visto (e non può essere visto altrimenti) che come “questione dell’essere”, che si pone nell’ambito del rapporto ontologico, cioè del rapporto esistenziale. E’ destino dell’essere la stessa finitudine. La condizione umana è invalicabile. Viene a cadere ogni trascendenza. Il reale stesso viene a cadere nell’orizzonte del rapporto esistenziale; e nulla trascende questo orizzonte.
Il dialogo e i discorsi Gli orientamenti teologici del Novecento Il Novecento è il secolo in cui si è venuto compiendo il processo di secolarizzazione ed è anche quello del massimo fiorire della critica teologica. Era naturale, infatti, che i teologi cercassero di porre rimedio alla crisi della fede e cercassero di elaborare una teologia “moderna”, rispondente ai problemi del tempo e in grado di recepire gli elementi di aggiornamento che si rendessero utili a contenere e in qualche modo contrastare la diffusione dell’ateismo dilagante specialmente nella cultura occidentale. I tentativi di elaborare forme nuove di teologia sono, pertanto, degni di rilievo e di attenzione. Il tema principale che costituisce il fulcro di tutte le teologie elaborate nel Novecento è quello relativo al rapporto tra Dio e l’uomo. Il principio di ogni fede muove dalla coscienza dell’insuperabile finitezza della condizione umana. Allorché l’uomo si interroga sulla essenziale finitezza della sua natura, si domanda, ad esempio, perché egli vive nel tempo, immediatamente si pone il problema religioso del rapporto con Dio. Barth si riconduce a Kierkegaard. Il riscatto dalla finitezza, al quale l’uomo aspira, può avvenire solo per un atto di grazia. L’esperienza religiosa è lo sviluppo di questa aspirazione alla salvezza (dalla finitezza), sorretta dalla fede che Dio risponderà e che, pertanto, l’infinito e l’eterno in qualche modo scendono nella temporalità e s’inseriscono in essa, riscattandola. La tutto
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ciò riguarda l’esistenza della persona umana (o anche una intera società di credenti). Barth conferma il concetto cardine della religiosità protestante, che la grazia è l’unica condizione della salvezza. Secondo Bultmann, altro rappresentante della teologia protestante della prima metà del Novecento, l’ammodernamento della teologia passa attraverso un processo di demitizzazione. Tutti gli aspetti “oggettivi” della fede vanno, pertanto, rimossi, affinché l’esperienza religiosa si risolva interamente nella coscienza e nella storia di essa. E’ in questa storia che s’inserisce l’intervento salvifico di Dio. Si tratta specialmente di vivere l’esperienza dell’evento fondamentale della grazia, l’incarnazione in Cristo. In virtù di questo evento il tempo e la storia sono attraversati dall’eternità, acquistano cioè un significato che li trascende. La figura di Cristo conserva qui il suo ruolo centrale, che gli è generalmente riconosciuto dalla teologia protestante. Per il Tillich, rappresentante della teologia protestante della seconda metà del Novecento, tra fede dell’uomo e rivelazione di Dio vi è una relazione strutturale (per cui l’una implica l’altra). Per Bonhoeffer (ucciso dai nazisti nel 1944) la teologia deve operare una purificazione del concetto di Dio. La critica della teologia tradizionale diventa così la condizione essenziale per il rinnovamento della teologia. La stessa condizione attuale dell’assenza o del silenzio di Dio è considerata come un elemento dello sviluppo di una teologia ammodernata e riportata ai caratteri del nostro tempo. Hamilton e Altizer hanno così parlato di una teologia della morte di Dio. Il problema dell’ammodernamento del discorso teologico è stato affrontato anche nel campo del cattolicesimo. L’innovazione più significativa è quella introdotta dal Rahner (maestro di Ratzinger) e caratterizzata come “svolta antropologica”. Si tratta di applicare il punto di vista trascendentale alla teologia. Quali sono, cioè, le condizioni trascendentali della struttura della coscienza umana che presiedono all’apertura della coscienza stessa al Trascendente (a Dio)? La struttura della soggettività umana è la condizione della Rivelazione: Dio si rivela in quanto l’uomo è aperto alla sua parola. Cristo (Logos) è il luogo proprio della continua Rivelazione di Dio (dell’essere). Balthasar ha approfondito l’indagine intorno al rapporto della teologia con l’estetica. La Rivelazione costituisce una fonte inesauribile di espressività. La teologia della speranza (rappresentata da Moltmann, Pannenberg, Schillebeekx) rifiuta il concetto del Dio immutabile e sottolinea il carattere “sempre nuovo” di Dio. Dio non è tanto l’eterno presente, quanto piuttosto il futuro dell’umanità, la certezza del rinnovamento, la speranza che si attua nella storia. La teologia diventa dibattito intorno alle possibilità dell’uomo. Scillebeekx avverte che il cristiano non deve “guardare indietro alla Bibbia, ma guardare avanti con la Bibbia, verso il futuro che è stato affidato a noi perché lo realizziamo”. In questo senso Metz ha rilevato il carattere “politico” del cristianesimo. All’inizio del Novecento era dominante in Germania la tendenza di filosofia della religione chiamata dagli storici “teologia liberale”. Questa tendenza costituisce il punto d’approdo di quella interpretazione romantica del cristianesimo che era stata rappresentata specialmente dallo Schleiermacher. La religione, secondo questo indirizzo, costituisce una manifestazione dello spirito, che ha le sue radici in una regione o sfera specifica della spiritualità. La critica di Derrida al pensiero antropocentrico Il problema della crisi del pensiero antropocentrico è posto da Heidegger nella Lettera sull’umanesimo. Derrida riprende criticamente questo importante motivo heideggeriano e lo sviluppa in modo originale. Poiché in Heidegger il residuo elemento antropocentrico è costituito dal linguaggio, considerato come ciò che fonda la coappartenenza reciproca dell’Essere e dell’uomo, la critica investe, principalmente, questo nucleo ontologico/esistenziale. Derrida, nell’ambito scientifico dello strutturalismo di Saussure, sviluppa un aspetto inedito della linguistica, per condurre in porto la critica della metafisica antropocentrica. La grammatologia costituisce il nuovo strumento per la critica della metafisica: essa mette in rilievo l’equivoco logocentrico, in base al quale un universo di strutture fonetiche e grammaticali (l’universo del discorso parlato) è stato assunto e interpretato come l’impalcatura razionale del reale (in termini teologici, come una specie di imitazione della Parola divina). Derrida intende dimostrare che la scrittura fonetica, riprodotta in base ai suoni, cioè secondo la misura del discorso parlato, è coestensiva al pensiero metafisico, dunque “ambito della grande avventura metafisica, scientifica, tecnica ed economica dell’Occidente”, è limitata nel tempo e praticamente ha
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raggiunto il suo estremo sviluppo e, perciò anche, la sua crisi, nel nostro tempo (De la grammatologie, Paris 1967, p. 21; tr. it., Milano 1969, p. 14). Derrida conduce la sua esplorazione come una ricerca grammatologica, che risale verso le condizioni originarie e i presupposti strutturali della scrittura fonetica. Egli ricerca ciò che sta dietro ogni scrittura, che, quale semplice fissazione di forme vocali, rimane affidata all’articolazione del discorso parlato. La grammatologia, invece, si propone di spiegare perché l’essenziale del linguaggio deve essere concepito secondo il modello della scrittura in sé.259 Poiché il logos è l’elemento strutturante del discorso parlato, Derrida conduce la sua critica radicale al logocentrismo dell’Occidente, considerato come radice della metafisica antropocentrica. Il logocentrismo non è altro che la subordinazione della scrittura, alla quale deve ricondursi ogni metafisica, al discorso umano. Per spiegare la sua tesi, Derrida fa ricorso alla metafora del “libro della natura” o “libro del mondo”, che rinvia all’originario “manoscritto di Dio”, difficile da leggere, ma decifrabile in parte. Egli cita un detto di Jaspers: “il mondo è il manoscritto di un altro mondo, mai del tutto leggibile; soltanto l’esistenza lo decifra”. Ma osserva che questo libro, scritto nella grafia divina, rappresenta un’ipotesi inverosimile: perciò si deve supporre che esistano solo le tracce di una scrittura originaria. La ricerca di queste tracce è, secondo Derrida, un carattere della cultura moderna, nella quale ormai le risorse del discorso sono esaurite. La modernità sta ricercando le tracce di una scrittura che non rimanda, come il Libro della Natura o la Sacra Scrittura, a un altro contesto di totalità originaria di senso. Derrida pensa a una condizione di primato della scrittura: la forma scritta libera il discorso dagli elementi accidentali e soggettivi; essa conferisce al testo una piena autonomia rispetto a tutti i fattori secondari; cancella, infatti, i riferimenti particolari a singoli soggetti e a situazioni determinate. La scrittura garantisce che un testo possa essere letto sempre di nuovo in contesti diversi. Si profila così la condizione di una leggibilità assoluta. La scrittura si profila come il dato originario, al quale ogni “logos” risulta subordinato. In tal modo, Derrida compie un passo avanti verso la dissoluzione della filosofia del soggetto, i cui residui si ritrovano nell’analitica esistenziale di Heidegger, il quale ancora riconduce la costituzione del mondo al progetto dell’Esserci. Si tratta ora di vedere se la prospettiva grammatologica sfugge a quell’obbiezione, che Heidegger ha elevato contro Nietzsche e che ricade su se stesso: “che lo smembramento introdotto da Nietzsche rimane dogmatico e, come tutti i (semplici) rovesciamenti, prigioniero dell’edificio metafisico che esso pretende di abbattere” (De la grammatologie, tr. it., p. 23). In definitiva, sembra che anche Derrida non riesca a svincolarsi dai legami del paradigma della filosofia del soggetto. Derrida è convinto che nella tradizione occidentale alla forma fonica è riconosciuto un indiscutibile primato e che ciò sia da riferire essenzialmente a una precomprensione della realtà basata sull’autocomprensione del primato del soggetto parlante. La scrittura, in realtà, mette in qualche modo fuori giuoco il soggetto, anzi ne implica l’assenza: essa, dunque, rappresenta la condizione dell’intelligibilità in assenza del soggetto intelligente. Fino a Husserl (e allo stesso Heidegger) la metafisica ha pensato l’essere come presenza dell’ente nella coscienza del soggetto; e il soggetto è stato inteso come colui che intuisce e parla, cioè, essenzialmente, come il parlante (secondo la stessa concezione heideggeriana dell’uomo); l’uomo abita il linguaggio, cioè si colloca entro la dimensione del parlare (o del dire), considerata come la condizione strutturante che dà l’essere all’uomo. Secondo Derrida, si tratta, pertanto, di mettere in luce la differenza tra la scrittura e il discorso, cioè di liberare la prima dall’egemonia del secondo, al quale si riporta comunemente ogni fondamento di senso. La storia della metafisica culmina, infatti, in un intuizionismo fenomenologico, il quale annulla quella differenza originaria tra senso e parola che lo esprime (o semplicemente lo “pronuncia”). Derrida assimila le parole “différence” e “différance”. La struttura segnica che indica il possibile ripetersi dell’esperienza relativa a un determinato significato si collega con il processo temporale del “differire”, del rimandare per un tempo indeterminato il compimento stesso del processo significante. Il senso è affidato 259
“La razionalità, che comanda la scrittura in tal modo estesa e radicalizzata, non è più uscita da un logos ed inaugura la distruzione, non la demolizione ma la desimentazione, la de-costruzione di tutte le significazioni che hanno la loro origine in quella del logos. In modo particolare la significazione di verità. Tutte le determinazioni metafisiche della verità, ed anche quella cui si richiama Heidegger, al di là dell’ontologia metafisica sono più o meno immediatamente inseparabili dall’istanza del logos” (De la grammatologie, ib.).
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all’attività del parlante, praticamente rinviato nel tempo, affidato all’accidentalità delle circostanze storiche. In questo modo, viene messo in rilievo il limite intrinseco al tentativo di Husserl, rivolto a elaborare il senso ideale di significati “in sé”. Solo la scrittura può essere considerata come l’ambito di segni assolutamente originario, liberato da tutti i riferimenti pragmatici della comunicazione, divenuto indipendente dai soggetti che parlano. Questa scrittura, che non è la trascrizione (sempre differita) di forme foniche, ma è la “scrittura originaria” (“assoluta”, si può dire, che non rimanda a nessuna sua trasposizione sul piano della parola parlata), rende possibile le differenziazioni che si dischiudono fra i significati intelligibili e gli elementi empirici che si interpongono fra il mondo originariamente fissato nella scrittura e il corso intramondano delle cose. Così Derrida intende rovesciare la prospettiva husserliana, dando, in qualche modo, una svolta strutturalistica alla fenomenologia, per cui il posto lasciato libero dalla condizione originariamente trascendentale del soggetto, che produce significati e testimonia questa attività attraverso la parola, è occupato dalla produttività anonima della scrittura che, attraverso la sua differenza, fonda la storia. In questa storia, la scrittura rincorre continuamente se stessa, attraverso il giuoco speculare di vecchi testi, che rinviano sempre a testi ancora più antichi, senza che sia mai raggiunto il luogo della scrittura originaria. Nota e appendice. Vediamo alcune tappe di questo sviluppo della concezione metafisica che domina la storia dell’Occidente, secondo la critica che si è venuta dispiegando da Nietzsche a oggi. Già nei primi filosofi l’esigenza di cogliere il “principio” (l’”arché”) del divenire naturale contiene in nuce l’intero sviluppo della scienza della natura come dominio umano dei fenomeni. L’”arché” è il principio pensabile e indica il piano concettuale (rappresentativo) attraverso il quale la natura nel suo complesso è compresa e dominata dal soggetto. L’intelletto, che pensa tale principio, è lo strumento mediante il quale s’impone la storia del soggetto, in modo che ormai il dispiegamento del reale si pone in indissolubile connessione con lo sviluppo della sua rappresentazione concettuale. Lo sviluppo dell’”epistéme” condiziona ormai lo sviluppo della realtà, configurato come ambito del dispiegamento conoscitivo del soggetto. Ciò che importa è il modo in cui si svolge la storia della conoscenza umana. La filosofia diventa l’ambito di tale dispiegamento: essa ingloba l’intero sapere e, a poco a poco, delegittima le forme alternative di sapienza, come il mito o la poesia o la stessa credenza religiosa. L’indissolubile connessione di pensiero e realtà costituisce il carattere peculiare della metafisica: di ciò possiamo vedere un momento culminante in Platone, il quale considera, come è noto, l’articolazione delle “idee” come la struttura del reale in quanto fondamento immutabile del divenire. La filosofia è intesa come la scienza che indaga tale struttura: essa riguarda il “logos” come ragion d’essere di tutte le determinazioni reali ed è radice della stessa rappresentazione concettuale delle “idee”. La metafisica qui riguarda l’intelligibile immutabile, che, tuttavia, si dispiega nel divenire mutevole. Questo, però, è considerato come il piano di un sapere “errante”, incerto, problematico, e in cui l’esistenza dell’uomo è esposta al rischio dell’infelicità. Perciò la filosofia si pone come dottrina della salvezza e della felicità, strumento possibile di una trasposizione della vita umana sul piano di un ordinamento il più possibile emancipato dalla accidentalità del divenire e modellato sulla realtà ideale. L’”ideale” rappresenta il punto di riferimento di ogni istituzione umana attuata nel mondo. Questo motivo attraversa specialmente le filosofie di Platone e di Plotino; ma può essere individuato anche nella riflessione meno radicali e più moderati, come lo stesso Aristotele, per il quale la ragione è criterio immutabile di fondazione del divenire secondo una norma che assicura l’attuazione della natura propria dell’uomo. Il soggetto è, comunque, vincolato a un “logos” che è fondamentale e al quale esso deve adeguarsi e riferirsi. La metafisica riguarda tale “logos” come fondamento dell’uomo e dell’intero universo. La svolta “soggettivistica” del pensiero moderno, se può dirsi già prefigurata nella metafisica come concezione della unità fondamentale di “essere” e “logos”, rappresenta indubbiamente una deviazione rispetto alla “epistéme” antica. Ora il problema di un oltrepassamento della visione moderna coinvolge l’intera storia della metafisica, non solo, perciò, il decadimento proprio nell’età moderna, ma lo spirito stesso di una concezione della realtà quasi inevitabilmete destinata agli esisti soggettivistici della modernità.
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In discussione è, dunque, lo stesso destino del soggetto come razionalità: così, se Heidegger interpreta specialmente l’esigenza dell’oltrepassamento del soggettivismo, Bataille pone il problema del superamento dell’esperienza storica del soggetto razionale che è in stretta connessione con un reale anch’esso fondamentalmente razionale (in quanto espressione del “logos”). Il recupero del reale, al di là dell’impostazione metafisica che si è dispiegata fin dalle origini del pensiero filosofico, muove di pari passo col recupero di una natura più originaria del soggetto, di una totalità vitale e spirituale, che appare estremamente “ridotta” dall’esaltazione della ragione come unica via cognitiva e come indiscusso strumento di “potere”. Bataille lascia intravedere le altre molteplici vie attraverso le quali si attua e si esprime il potere del soggetto: si tratterebbe, anzi, di vie che oltrepassano quei limiti che il potere razionale sperimenta e che, al di là delle forme dell’esperienza oggettivante e mercificante posta in atto dalla ragione, si allineano con le dimensioni più profonde del reale e con le istanze più autentiche del soggetto, dunque con orientamenti di senso che accomunano il soggetto e la realtà, l’uomo e la natura. In questo senso si può parlare di una riscoperta del “sacro”. In particolare, per Bataille, l’oltrepassamento della modernità sfrutta quelle esperienze alternative che, in una civiltà dominata dalla pianificazione totale, si collocano in una posizione marginale, di rifiuto da parte del “potere” razionale. Le “diversità” sono, se non altro, indicative di forme d’esperienza che sfuggono ai caratteri di una pianificazione globale e che si presentano con caratteri propri e irriducibili. E’ ovvio che, a questo proposito, assumono rilievo quelle forme culturali che non si lasciano inquadrare nella storia della razionalità: forme artistiche irregolari, riflessioni marginali, esperienze rifiutate dal “senso comune”. “Per via dell’accumulazione delle ricchezze allo scopo di una produzione industriale di dimensioni crescenti, la società borghese è la società delle cose. In confronto con l’immagine della società feudale, essa non è una società delle persone […]. L’oggetto convertibile in denaro vale più che il soggetto, il quale, da quando è in dipendenza degli oggetti (in quanto li possiede), non esiste più per se stesso e non ha più alcuna reale dignità” (“La Souveraineté”, in “Monde nouveau”, nn. 101-103, 1956, p. 26). Bataille trova paradigmaticamente rappresentato nel sacrificio rituale umano il prezzo richiesto dalla natura. Questo rito appare come un atto riparatore rispetto alla violenza dell’uomo sulla natura e, dunque, come una via attraverso la quale s’intende rimediare alla perdita di uno stato di originaria conciliazione. La colpa dell’uomo è un atto originario di violenza e riguarda le ferite inflitte alle cose innocenti dal lavoro umano. Ecco la lettura che Bataille dà della cacciata dell’uomo dal paradiso terrestre: “Tramite l’introduzione del lavoro al posto dell’intimità, della profondità della brama e del suo libero scatenamento, subentrò fin da principio la concatenazione razionale, nella quale non si tratta più della verità del momento, bensì del risultato finale delle operazioni […]. Dalla posizione [attraverso il lavoro] del mondo delle cose l’uomo stesso divenne una delle cose di questo mondo, per lo meno per il tempo in cui egli lavora. A questo destino l’uomo cercò in tutti i tempi di sfuggire. Nei suoi miti peculiari, nei suoi riti crudeli l’uomo è da allora alla ricerca della sua intimità perduta […]. Sempre si tratta di sottrarre qualche cosa all’ordine reale, alla miseria delle cose, e di ridare all’ordine divino qualche cosa” (Ibid.). Si può individuare nella cultura medievale una condizione di ambivalenza del soggetto, nel senso perseguito da Bataille: il soggetto, da una parte, è saldamente ancorato al disegno razionale e scientifico di un sapere dimostrativo, per il quale anche le verità dogmatiche sono sottoposte ad analisi e rese intelligibili; ma, d’altra parte, si riconoscono i limiti della ragione e, pertanto, si privilegiano l’esperienza mistica e quelle vie per le quali si attua un estraniamento del soggetto. Il soggetto medievale vive questa ambiguità costitutiva: esso è lacerato da una contraddizione interna ed è esposto, nello stesso tempo, a una duplice possibilità: l’esperienza della ragione, per cui anche Dio si rivela come una realtà razionale (fondamentalmente “il Logos”, la mente divina che, tra l’altro, comprende le idee come archetipi della creazione), e l’esperienza trascendente la ragione e per la quale saltano tutti i calcoli della scienza oggettivante. Se la ragione riguarda un mondo armonicamente costituito, retto da leggi matematiche, oggetto di una geometria di corrispondenze esatte, l’immaginazione si avventura in un campo di forme sfuggenti, misteriose, indecifrabili. Tali forme possono essere considerate come un prodotto di quell’eccesso vitale che la ragione non riesce a dominare. Nell’età moderna, eliminato il mistero dalla natura, la ragione calcolante ha la possibilità di estendere un dominio totale sul mondo delle forme. Nella cultura medievale troviamo una molteplicità di espressioni dell’immaginario che sta a contatto con un principio vitale che si incarna in figure eccessive, difformi, mostruose, irregolari. Tale principio è addirittura identificato con l’Altro nel senso sacrale, cioè col Demonio e col Male. Non è a caso che questo
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principio è connesso con le forze terrestri, con la terrestrità medesima: si tratta, chiaramente, di una versione dell’antico principio del caos e del disordine, contrapposto al principio uranico della legge e dell’ordine cosmico. Per la stessa ragione, si considera la vita sessuale come particolarmente connessa con questa sfera e tale, pertanto, da dovere essere massimamente controllata e sublimata. L’amore divino costituisce la grande metafora in cui l’erotismo viene trasfigurato, cioè radicalmente estraniato, allontanato dalla sua matrice terrestre e collocato, si potrebbe dire, “in grembo a Venere celeste”. Quanto e come abbia agito questa trasfigurazione sull’esperienza culturale si può vedere attraverso la storia della poesia medievale, il cui momento culminante rimane, come è noto, lo stilnovismo. Petrarca rappresenta l’estrema attuazione di questa esperienza erotica interamente spiritualizzata e quasi capovolta nel suo altro o nel contrario di Sé. Se, infatti, l’erotismo è celebrazione dell’eccesso vitale, la poesia petrarchesca nasce dall’esperienza della dissoluzione di tale eccesso e della sua trasformazione nel suo opposto, cioè nella pura (si potrebbe dire, celestiale) spiritualità. Kant ha individuato sul piano della “ragion pratica” una via d’uscita dall’oggettivazione alla quale non sfugge il soggetto sul piano di fondazione (organizzazione) del mondo fenomenico. Dal punto di vista fenomenico, il soggetto è un ente intramondano, che è soggetto alle leggi naturali e quindi è inserito in un processo di produzione causale. Invece, sul piano della moralità, il soggetto si costituisce solo come fine e mai come mezzo; esso, cioè, si pone al di là del processo di oggettivazione, fuori dell’area di dominio della ragione oggettivante. Anche qui si tratta di una dimensione che non può diventare oggetto di scienza e che, pertanto, si colloca fuori degli oggetti della riflessione. D’altra parte, si ritrovano le tracce della concezione antica del soggetto come dimensione intersoggettiva e metafisica, che trascende i limiti della soggettività individuale. Il soggetto morale fa parte, per Kant, di un universale regno dei fini che comprende la storia di quella soggettività trascendentale che è caratterizzata dall’autonomia e della quale gli individui fanno parte. Solo per la costruzione di un mondo fondato sulla libertà, ha senso l’agire del soggetto, non certo per l’organizzazione di un mondo oggettivo fondato su leggi causali. La comunicazione, in questa prospettiva kantiana, rappresenta un elemento costitutivo del soggetto libero. Qui il problema riguarda il modo in cui il mondo orale, per sé costituito in una dimensione trascendentale extramondana, si interseca col mondo fenomenico e finisce per esplicarsi in esso. Cioè, si tratta di vedere come il regno dei fini si temporalizza. Kant riconosce la finitezza del soggetto morale. La temporalità, da questo punto di vista, può costituire la tipica conseguenza della finitezza del soggetto morale, che si trova a dover attuare la libertà nei limiti del divenire storico e temporale. La moralità e la libertà sono temporali in quanto sono finite, cioè assumono sempre i caratteri della problematicità e della possibilità. Ciò che ha una costituzione trascendentale, dunque non determinata concretamente, trapassa sul piano del finito (che è il mondo fenomenico): Ma la peculiare dialettica finito/infinito caratterizza il soggetto morale e libero. L’azione morale oltrepassa l’oggettivazione: essa caratterizza il soggetto libero (sia pure finito), non oggettivabile, non reificabile. D’altra parte, il soggetto, in quanto appartiene al mondo fenomenico, non può sfuggire ai processi di reificazione. Si tratta, perciò, di riscattare quei processi attraverso la libertà propria dell’agire morale. E questo ha senso nell’ambito di una comunicazione totale che si estende all’intero “regno dei fini”, cioè alla comunità di tutti i soggetti spirituali, per i quali vale il postulato dell’immaterialità e immortalità. Il “regno dei fini”, poi, è garantito sul piano di una fondazione assoluta, attraverso il postulato dell’esistenza di Dio come “sommo Bene”. L’assolutizzazione del mondo morale come come fine dell’intera realtà temporale, cioè come la vera e fondamentale dimensione trascendentale, prelude già alla concezione idealistica. Ed è da esaminare se si tratta di un’estrema espressione della filosofia del soggetto. La legge morale, in questo caso, costituisce il dato fondamentale, in virtù del quale si spiega la costituzione del reale (nell’ipotesi del “reale in sé”, sottratto alla causalità propria dell’universo fenomenico). Riguardo alla questione del soggettivismo, si può osservare che la funzione di fondamento non è attribuita al soggetto che opera nella storia, bensì all’insieme delle strutture trascendentali che fanno capo al “sommo Bene” e che si articolano principalmente nella legge morale e nel “regno dei fini” come totalità inscindibile dei soggetti spirituali. Da questo punto di vista, la situazione intramondana appare subordinata, ed è considerata, innanzitutto, in tutta la sua problematicità. Infatti, si tratta dell’esistenza finita del soggetto storico. Il soggetto si trova di fronte al problema del fondamento trascendentale, che esige l’agire morale; e si tratta di vedere le condizioni secondo cui egli soddisfa tale esigenza in un ambito fenomenico. La questione sta nel rapporto con il fondamento trascendentale, e, in particolare, dal punto di vista della comunicazione, si tratta di vedere in che senso la comunità dei soggeti spirituali viene riprodotta in una dimensione finita e temporale. L’agire morale,
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insomma, implica il riferimento a una dimensione trascendentale di comunicazione totale, per cui si può dire “morale” l’azione che coinvolge il “regno dei fini” nel suo complesso. Indubbiamente il problema del rapporto tra il soggetto storico, intramondano, e il fondamento trascendentale, domina l’intera problematica dell’idealismo. Habermas ha già ricordato come Hegel, Schelling e Holderlin abbiano avvertito i limiti della filosofia della riflessione, con la contrapposizione di fede e sapere, di finito e infinito, con la separazione di spirito e natura, intelletto e sensibilità, dovere e inclinazione, e come essi abbiano seguito le tracce di questa estraniazione di una ragione soggettivamente scissa tra le esigenze di una eticità assoluta e i limiti della quotidianità politica e privata. Hegel aveva cercato nella filosofia il superamento di tutte le scissioni e l’accesso a una totalità che comprendesse in sé la ragione soggettiva e il suo “altro”. I “giovani hegeliani” hanno, poi, ristabilito le condizioni della ragione storica, carica di finitezza e incapace di operare una mediazione assoluta. Così i soggetti sono emersi come gli unici protagonisti, impegnati nell’attuazione di una prassi sociale storicamente rivolta a mediare le esigenze soggettive degli individui con la natura oggettivata attraverso il lavoro. “Questa prassi sociale - osserva Habermas – è il luogo in cui la ragione storicamente situata, corporeamente incarnata, messa a confronto con la natura esterna, si media concretamente con il suo Altro. Se questa prassi mediatrice riesce, dipende dalla sua costituzione interna, dal grado della scissione e della conciliabilità del contesto di vita socialmente istituzionalizzato” (Op. cit., p. 306). Ciò che in Schiller o in Hegel si configurava come sistema dell’egoismo o dell’eticità scissa, si trasforma in Marx in una società divisa in classi: in ogni caso, i limiti del contesto comunicativo sono superati se la ragione incorporata nella prassi sociale si accorda con la natura e con la storia. Il problema del rapporto tra la situazione storica, finita, del soggetto e la dimensione fondante, trascendentale, è risolto da Hegel nel senso di una totale risoluzione del finito nell’infinito. I limiti e le contraddizioni, pur rivelati dettagliatamente attraverso l’analisi dialettica, si configurano, in definitiva, come momenti della ragione che procede nella sua attività di mediazione infinita. In realtà, essi appaiono come elementi della ragione stesa, che si attua attraverso il processo di mediazione che essa medesima mette in atto. I soggetti individuali s’inseriscono in questo processo come protagonisti secondari, attori (o portatori) di un disegno storico che appartiene allo Spirito oggettivo. Del resto, questa caratterizzazione oggettivistica esprime significativamente il processo della reificazione (anche se qui l’oggettività indica una connotazione spirituale, corrispondente a un preciso momento dello sviluppo dello Spirito assoluto). I soggetti finiti, in definitiva, sono consegnati a un’oggettività che finisce per presentarsi come una realtà estranea, opposta alla soggettività individuale e concreta. La soggettività si dissolve, in virtù di un processo autonomo, nel suo altro. I “giovani hegeliani” hanno riportato sul piano del finito la ragione stessa, considerata come una ragione storica, cioè come una componente della prassi razionale. Lo sviluppo della prassi, cioè della fondamentale attività attraverso la quale l’uomo entra in rapporto con la natura e, nello stesso tempo, attua la trama dei rapporti intersoggettivi, è, ovviamente, problematico, limitato, tale da esigere aggiustamenti progressivi. I rapporti, in particolare, assumono un carattere conflittuale, di opposizione e di contraddizione. L’intervento razionale si qualifica come tale da rimuovere, di volta in volta, le condizioni della conflittualità e dell’opposizione. E poiché tali condizioni sono un prodotto della prassi, si tratta di razionalizzare progressivamente la prassi medesima, in modo che essa produca rapporti non conflittuali. Generalmente, si dà alla morale la connotazione della non-conflittualità: infatti, la morale corrisponde a princìpi universali della prassi, e appare, pertanto, come una prassi interamente razionale (sia pure di una razionalità finita). La morale, inoltre, si presenta come la sfera propria in cui il soggetto non corre i rischi dell’oggettivazione: essa è possibile, infatti, come espressione del soggetto libero, né si può dire morale una prassi che proviene, per le modalità del suo sviluppo, da un mondo oggettivato. La situazione nella quale oggi ci troviamo presenta i prevalenti caratteri dell’oggettività: essa, infatti, appare come lo stadio avanzato della modernità. Il mondo moderno è caratterizzato, come abbiamo visto, dal particolare sviluppo del soggetto nel senso del rovesciamento nella produzione oggettiva di sé. Si tratta del mondo dell’”organizzazione” e del “sistema”, derivante dalla “oggettivazione” del soggetto medesimo. Si può discutere se tale mondo avesse già una configurazione essenziale alle origini della filosofia, come sostiene Severino, oppure se esso sia una produzione peculiare del soggetto moderno. Ma i caratteri che lo distinguono sono quelli che lo stesso Severino ha efficacemente messo in luce in più d’uno dei suoi studi (cfr.,
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ad esempio, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano 1988) e che si sintetizzano nel dominio dell’”apparato scientifico-tecnologico” come essenza stessa del divenire oggettivato. Il linguaggio fa parte della contestualizzazione sociale del soggetto; esso, cioè, è riferito al comportamento sociale e ha la funzione di rendere comunicabili le esperienze socialmente significative. Il linguaggio vive nell’orizzonte degli atti di comunicazione: esso non è un oggetto neutro, che possa essere considerato indipendentemente dal suo impiego nei processi di comunicazione. Ed è il contesto culturale e “politico” che attribuisce al linguaggio determinate connotazioni funzionali: ad esempio, nell’ambito del contesto scientifico si esige un’uniformità di significati, mentre al livello dell’espressione artistica si richiede un’originalità semantica che fa del linguaggio il campo aperto di continui interventi creativi da parte del parlante. Il linguaggio vive nel discorso e in rapporto alle funzioni che adempie. Sono note le osservazioni di Gorgia sul potere della parola nel discorso retorico, dove il linguaggio ha la funzione di determinare i comportamenti e di plasmare gli animi. Nell’età moderna, il linguaggio, estremamente formalizzato nella sua funzione simbolica e rappresentativa, costituisce lo strumento fondamentale dei processi di oggettivazione. Sappiamo, così, del potere rimemorativo, evocativo, profetico, attribuito al linguaggio nel contesto sapienziale arcaico. In molti casi la parola e la cosa assumevano una funzione reciprocamente scambievole. Ed è nota la riduzione moderna alla essenziale funzione rappresentativa nel contesto dell’oggettivazione. Un aspetto del superamento della modernità consiste, allora, nella possibilità di recuperare al linguaggio la molteplicità di funzioni di cui esso è stato caricato, di volta in volta, nei diversi contesti. Si tratta, peraltro, di un’operazione che le correnti artistiche del nostro secolo hanno compiuto (e tuttora compiono) ampiamente, con risonanze ed effetti diversi. Sul piano filosofico, i tentativi di Heidegger di mutuare significati dalla poesia s’inseriscono in questa operazione di recupero semantico. L’intenzione rammemorativa sul piano del pensiero corrisponde a un’esigenza di ampliamento dell’orizzonte della ragione (se per ragione s’intende, nel senso più ampio, il veicolo del discorso: pertanto si tratta della ragione molteplice che è capace di sperimentare le diverse funzioni del linguaggio). Poesia e filosofia, in questa direzione, sono strettamente congiunte: se la poesia sperimenta le vie del pensiero, alla filosofia spetta anche il compito di verificare la grande portata teorica del linguaggio poetico. E ciò non attraverso un atto di riflessione su un oggetto esterno, bensì attraverso l’assunzione interna di quel linguaggio, cioè attraverso un atto di appropriazione (anche se, poi, di impiego riflessivo). La filosofia, infatti, mantiene la sua identità, anche quando usa il linguaggio della poesia. Analogamente, ciò che distingue la poesia è l’atteggiamento non riflessivo, bensì immediatamente espressivo. In tal modo abbiamo individuato uno dei caratteri distintivi della post-modernità: il superamento dell’atteggiamneto oggettivante come esclusivo (in quanto proprio della ragione escludente) e il recupero della funzione plastica e molteplice della ragione. L’età moderna tende all’universalità, quella post-moderna privilegia la pluralità. Discorsi diversi si accostano, si cercano, trapassano l’uno nell’altro. Non a caso l’atteggiamento dominante ora è quello ermeneutico. La storia del discorso vero (fondato sul “logos” universale) è, in effetti, la storia della scoperta e dello sviluppo della validità assertoria del discorso, fondata sulla corrispondenza tra l’enunciato (la proposizione) e l’esistenza di fatti uniformemente constatati. I primi filosofi hanno inteso la “verità” come enunciazione di proposizioni valide per qualsiasi contesto di esperienza: così, dicendo che “il principio è l’acqua”, Talete ha inteso enunciare una proposizione di validità metaempirica: in ogni fenomeno constatato si supponeva l’”esistenza” di acqua, con lo sviluppo di processi propri di tale sostanza. La scienza incomincia con la formulazione di proposizioni di questo tipo. Così si distingue l’”epistéme” dalla “doxa”, la quale rimane legata, invece, ai determinati contesti d’esperienza. Il riconoscimento delle “doxai”, d’altra parte, implica l’ammissione dei diversi significati linguistici, che, in un contesto di agire comunicativo, si riconoscono reciprocamente. Abbiamo qui una significativa confluenza di teoria e prassi. La teoria si presenta come una comprensione fondamentale affidata al potere creativo del linguaggio; la prassi è la trasposizione della teoria sul piano intramondano e sociale. In definitiva, i due processi si integrano, poiché la teoria dipende da atti di volontà e da processi che modificano gli orizzonti linguistici a partire dai quali si profila una comprensione del mondo propria di un mondo della vita.
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Ciò che, dunque, si tratta di riscoprire è la ragione polivalente, che rende possibile la comunicazione tra i linguaggi e le esperienze, tra i diversi orizzonte di comprensione del mondo o tra i molteplici mondi della vita. La ragione è, innanzitutto, capacità di giustificazione e di legittimazione; essa penetra i vari linguaggi in quanto orizzonti di fondazione di senso, mette in luce le direzioni di senso implicite in ogni orizzonte, riporta sul piano concettuale (e di una relativa uniformità semantica) i vari significati, mettendo in rilievo gli stati intenzionali che stanno alla base di essi. La ragione è, in una parola essenzialmente ermeneutica. Si può dire, pertanto, che l’intera storia del soggetto (e della ragione) converge verso lo sviluppo della ragione ermeneutica. Noi ci siamo proposti di evidenziare come questa funzione appartiene già alla razionalità antica. La prima radice è nella ragione propria della sapienza greca: è, infatti, la ragione che interpreta la parola originaria, il linguaggio come sapere. Una linea fondamentale unisce il sapere simbolico, il mito, il mistero religioso, il sapere filosofico e la stessa scienza empirica degli antichi: e ciò sulla base di una molteplice funzione e attività della ragione. Il mondo antico è caratterizzato da una profonda unità tra le diverse vie della conoscenza: le facce del sapere (e della prassi mondana, essenzialmente politica) si rispecchiano l’una nell’altra, in una fondamentale rispondenza simbolica.
Bataille: il soggetto verso i confini di se stesso Bataille, come Heidegger, pone il problema della crisi della modernità, in cui il soggetto si è imposto con la sua potenza reificante, facendo del mondo una totalità di oggetti disponibili e utilizzabili.260 Ma la critica che tende a cogliere il male alle radici assume un orientamento diverso. Heidegger, criticando la metafisica, concorre a far precipitare i fondamenti della soggettività trascendentale; invece, a Bataille interessa l’abolizione dei loro confini. L’oltrepassamento dei confini dell’esistenza, verso l’Essere e il Sacro, non significa la rinuncia a se stessa da parte della soggettività, bensì la sua liberazione e la piena attuazione di sé.261 260
Il discorso sui processi di reificazione è stato sviluppato, dapprima e con particolare riferimento all’ambito della storia delle condizioni materiali dell’uomo, da Marx. Si può dire che il significato filosofico (e non più propriamente ideologico) del pensiero di Marx è affidato a questo ambito di riflessione, che investe la condizione del soggetto moderno in generale. La “reificazione” è un processo che il soggetto compie nell’ambito di se stesso e sulla base di quella “potenza” rilevata dal Bataille: il soggetto, cioè, manipola se stesso e lo assimila al mondo delle cose inerti. Ciò che avviene sul piano del sistema economico di produzione non è altro, in realtà, che un aspetto della più generale condizione del soggetto, la cui concezione, direbbe Heidegger, risulta interamente sganciata dal problema del senso dell’Essere. L’umanesimo, criticato dallo stesso Heidegger, è da identificare, in modo particolare, con questa concezione moderna del soggetto, mentre la prospettiva ontologica intende restituire il soggetto a una dimensione che lo trascende e nella quale va ricercato il senso della sua realtà e del suo destino storico. La critica di Marx può essere considerata, da questo punto di vista, come una interessante anticipazione della critica della modernità come epoca incentrata sulla prospettiva della “potenza” (o, quasi si potrebbe dire, “onnipotenza”) del soggetto. 261 Le riflessioni di Heidegger e di Bataille sul destino del soggetto nella modernità e sull’oltrepassamento di questa sono significative per un ripensamento del senso unitario dello sviluppo della filosofia come pensiero sui poteri e sui limiti del soggetto. La filosofia sorge come riflessione sulla capacità del soggetto di conoscere la realtà e di estendere il suo dominio su di essa. La tensione cognitiva appartiene essenzialmente all’antichità, la tensione attiva appartiene, invece, alla modernità; ma i due aspetti dell’autovalutazione (autoesaltazione) del soggetto costituiscono le due facce di una stessa prospettiva fondamentale. Già alle origini del pensiero filosofico, il soggetto è visto come espressione del “logos”; e la realtà stessa è considerata come dispiegamento del “logos” medesimo. Questi elementi si trovano mirabilmente esplicitati in Parmenide e in Eraclito, col concetto della identità di “essere” e “pensiero”, in quanto entrambi espressioni del “logos”. Il “logos” è l’”originario”, il fondamento: esso è il reale in quanto si pone anche come “ragion d’essere” di se stesso. Il soggetto si scopre come portatore del pensiero originario, e nello stesso tempo l’essere si dispiega attraverso la storia del pensiero. La storia della filosofia può essere considerata come la storia di questo dispiegamento. Il reale è considerato indissolubilmente connesso con le modalità del suo sviluppo nell’ambito del pensiero. La filosofia, in quanto sviluppo dell’autorappresentazione del “logos”, cioè della “ragion d’essere” del reale, riguarda le modalità in cui il soggetto umano interpreta, sul piano della consapevolezza concettuale, la fondamentale razionalità del reale. La “ragione”, da questo punto
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di vista, costituisce lo strumento della autocomprensione del “logos” nella forma del concetto; essa, tuttavia, non rappresenta l’unico livello o ambito in cui il “logos” originario perviene alla autoconsapevolezza. Si può dire che questa tipica forma di autoconsapevolezza caratterizza la storia della cultura occidentale. E’ ovvio, d’altra parte, che, di volta in volta, nel corso di questa storia sono emersi motivi riguardanti i limiti della ragione, i pericoli connessi a un orientamento del complesso delle attività del soggetto interamente diretto dall’istanza della comprensione concettuale, e, in qualche modo, le vie alternative attraverso le quali il soggetto può attingere il senso della realtà. Le vicende del pensiero attuale rappresentano un esempio eloquente di questo fenomeno culturale: così la polemica heideggeriana contro la ragione oggettivante coglie indubbiamente l’aspetto più sintomatico di un orientamento per cui la comprensione razionale è decaduta al rango di mezzo della pianificazione tecnica del mondo. La metafisica, originariamente sorta come sapere contemplativo del “logos” (il senso manifestato) dell’essere, si è configurata nell’età moderna come giustificazione del potere del soggetto su un ambito desacralizzato (l’essere come “natura”). I tentativi di risacralizzazione, di cui notiamo ne tracce in Heidegger e nello stesso Bataille, sono l’espressione più significativa dell’esigenza di uscire fuori (oltrepassandola) della dimensione storica della modernità, caratterizzata dallo sviluppo di una mentalità soggettivistica. La desacralizzazione coincide col dispiegamento del potere del soggetto, assunto a principio fondante. La storia della filosofia moderna, in quanto centrata sulla giustificazione del soggetto come “fondamento”, rappresenta, come è noto, un capitolo della storia della metafisica, configurata essenzialmente come teoria dell’essere/”logos”. Il pensiero moderno, a partire da Descartes, ha posto il soggetto a fondamento della conoscenza certa della natura, e con Francesco Bacone ha gettato le basi della civiltà tecnologica. Oggi gli interventi sulla natura sono pressoché illimitati; l’analisi della materia, compiuta con gli strumenti matematici più sofisticati, consente la progettazione di piani straordinari nel campo dell’utilizzazione delle risorse naturali per il cambiamento della stessa vita quotidiana. Si può dire che lo sviluppo dell’”epistéme” condiziona ormai lo sviluppo della realtà, configurato come ambito del dispiegamento conoscitivo del soggetto. Ciò che importa è il modo in cui si svolge la storia della conoscenza umana. La filosofia diventa l’ambito di tale dispiegamento: essa ingloba l’intero sapere e, a poco a poco, delegittima le forme alternative di sapienza, come il mito o la poesia o la stessa credenza religiosa. L’indissolubile connessione di pensiero e realtà costituisce il carattere peculiare della metafisica: di ciò possiamo vedere un momento culminante in Platone, il quale considera, come è noto, l’articolazione delle “idee” come la struttura del reale in quanto fondamento immutabile del divenire. La filosofia è intesa come la scienza che indaga tale struttura: essa riguarda il “logos” come ragion d’essere di tutte le determinazioni reali ed è radice della stessa rappresentazione concettuale delle “idee”. La metafisica qui riguarda l’intelligibile immutabile, che, tuttavia, si dispiega nel divenire mutevole. Questo, però, è considerato come il piano di un sapere “errante”, incerto, problematico, e in cui l’esistenza dell’uomo è esposta al rischio dell’infelicità. Perciò la filosofia si pone come dottrina della salvezza e della felicità, strumento possibile di una trasposizione della vita umana sul piano di un ordinamento il più possibile emancipato dalla accidentalità del divenire e modellato sulla realtà ideale. L’”ideale” rappresenta il punto di riferimento di ogni istituzione umana attuata nel mondo. Questo motivo attraversa specialmente le filosofie di Platone e di Plotino; ma può essere individuato anche nella riflessione meno radicali e più moderati, come lo stesso Aristotele, per il quale la ragione è criterio immutabile di fondazione del divenire secondo una norma che assicura l’attuazione della natura propria dell’uomo. Il soggetto è, comunque, vincolato a un “logos” che è fondamentale e al quale esso deve adeguarsi e riferirsi. La metafisica riguarda tale “logos” come fondamento dell’uomo e dell’intero universo. La svolta “soggettivistica” del pensiero moderno, se può dirsi già prefigurata nella metafisica come concezione della unità fondamentale di “essere” e “logos”, rappresenta indubbiamente una deviazione rispetto alla “epistéme” antica. Ora il problema di un oltrepassamento della visione moderna coinvolge l’intera storia della metafisica, non solo, perciò, il decadimento proprio nell’età moderna, ma lo spirito stesso di una concezione della realtà quasi inevitabilmente destinata agli esisti soggettivistici della modernità. In discussione è, dunque, lo stesso destino del soggetto come razionalità: così, se Heidegger interpreta specialmente l’esigenza dell’oltrepassamento del soggettivismo, Bataille pone il problema del superamento dell’esperienza storica del soggetto razionale che è in stretta connessione con un reale anch’esso fondamentalmente razionale (in quanto espressione del “logos”). Il recupero del reale, al di là dell’impostazione metafisica che si è dispiegata fin dalle origini del pensiero filosofico, muove di pari passo col recupero di una natura più originaria del soggetto, di una totalità vitale e spirituale, che appare estremamente “ridotta” dall’esaltazione della ragione come unica via cognitiva e come indiscusso strumento di “potere”. Bataille lascia intravedere le altre molteplici vie attraverso le quali si attua e si esprime il potere del soggetto: si tratterebbe, anzi, di vie che oltrepassano quei limiti che il potere razionale sperimenta e che, al di là delle forme dell’esperienza oggettivante e mercificante posta in atto dalla ragione, si allineano con le dimensioni più profonde del reale e con le istanze più autentiche del soggetto, dunque con orientamenti di senso che accomunano il soggetto e la realtà, l’uomo e la natura. In questo senso si può parlare di una riscoperta del “sacro”. In particolare, per Bataille, l’oltrepassamento della modernità sfrutta quelle esperienze alternative che, in una civiltà dominata dalla pianificazione
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Per Bataille, non è la consapevolezza dei poteri del soggetto (in rapporto alle sue spinte vitali, alle sue aspirazioni) che si è venuta acquistando storicamente, bensì, piuttosto, è la progressiva omologazione della soggettività ai livelli “oggettivi” della produzione che si è venuta delineando in questa fase della modernità. E’ la dura logica del lavoro che si è imposta in modo da invadere la totalità della sfera umana. La storia dell’Occidente non è altro che un susseguirsi di limitazioni, di “regole”, di restrizioni intorno all’area originaria del soggetto; e gli aspetti estremi di una prassi razionale che ha finito per ridurre il soggetto a “cosa” sono quelli della odierna società tecnologica, in cui il soggetto è interamente confluito nel mondo “programmato”. Per Bataille, la modernità è inserita in questa storia della prassi razionale, che va dai primordi arcaici della società sacrale fino al nostro mondo totalmente reificato dal potere economico. Nella società capitalistica, il lavoro, astrattamente misurato in tempo e denaro, è l’elemento omogeneizzante, che la scienza e la tecnica mettono a disposizione della produzione. L’uomo è modellato, in rapporto ai suoi bisogni e alle sue spinte vitale, dal sistema produttivo. Le modalità e i livelli della produzione trascendono i livelli di riappropriazione di quei valori d’uso, in cui si oggettivizza il lavoro.262 Il soggetto è divenuto prigioniero del feticismo della merce: siamo, come si vede, al punto estremo del processo di reificazione dell’uomo e della società.263 Ciò che emerge dalla riflessione di Bataille è l’esigenza di un recupero, la richiesta di una riforma esistenziale, la restituzione di un ordine delle cose che possa essere ritenuto sacro, la possibilità di un’esperienza totale, dunque, in sintesi, la riconquista della dionisiaca unità col tutto. Si tratta di vedere come sia possibile il recupero (o l’attuazione) di una forma di sovranità che sia purificata dalle forme di potere fondato sulle differenze di rango indotte dallo sviluppo della vita sociale e dal lavoro. Bataille cerca di individuare la via per la quale, pur nel contesto della razionalità storica, si profili l’attesa “escatologica” che la reificazione venga ribaltata in libertà. L’impegno del filosofo è rivolto a questo ambizioso traguardo di riforma umana e sociale. Bataille pensa a una società per la quale diventa normale il consumo di beni superflui. Le nuove forme di lavoro, divenute universali, metteranno a disposizione beni nuovi e in quantità eccedenti i bisogni, in modo che si potranno immaginare modi diversi (trasgressivi rispetto alla norma) di consumo. Bataille pensa, cioè, all’avvenire di una società libertaria, che libera la sua ricchezza per lo spreco collettivo, nel senso dell’autosuperamento dei soggetti, dell’abolizione dei confini della soggettività in generale. Ma egli riconosce di non riuscire a spiegare scientificamente il processo attraverso il quale è interamente rovesciato il soggetto razionale che si è costituito come “limite” dello sviluppo vitale esuberante. Tale rovesciamento può costituire un evento imprevedibile e inspiegabile: più totale, si collocano in una posizione marginale, di rifiuto da parte del “potere” razionale. Le “diversità” sono, se non altro, indicative di forme d’esperienza che sfuggono ai caratteri di una pianificazione globale e che si presentano con caratteri propri e irriducibili. E’ ovvio che, a questo proposito, assumono rilievo quelle forme culturali che non si lasciano inquadrare nella storia della razionalità: forme artistiche irregolari, riflessioni marginali, esperienze rifiutate dal “senso comune”. 262 “Per via dell’accumulazione delle ricchezze allo scopo di una produzione industriale di dimensioni crescenti, la società borghese è la società delle cose. In confronto con l’immagine della società feudale, essa non è una società delle persone […]. L’oggetto convertibile in denaro vale più che il soggetto, il quale, da quando è in dipendenza degli oggetti (in quanto li possiede), non esiste più per se stesso e non ha più alcuna reale dignità” (“La Souveraineté”, in “Monde nouveau”, nn. 101-103, 1956, p. 26). 263 Bataille trova paradigmaticamente rappresentato nel sacrificio rituale umano il prezzo richiesto dalla natura. Questo rito appare come un atto riparatore rispetto alla violenza dell’uomo sulla natura e, dunque, come una via attraverso la quale s’intende rimediare alla perdita di uno stato di originaria conciliazione. La colpa dell’uomo è un atto originario di violenza e riguarda le ferite inflitte alle cose innocenti dal lavoro umano. Ecco la lettura che Bataille dà della cacciata dell’uomo dal paradiso terrestre: “Tramite l’introduzione del lavoro al posto dell’intimità, della profondità della brama e del suo libero scatenamento, subentrò fin da principio la concatenazione razionale, nella quale non si tratta più della verità del momento, bensì del risultato finale delle operazioni […]. Dalla posizione [attraverso il lavoro] del mondo delle cose l’uomo stesso divenne una delle cose di questo mondo, per lo meno per il tempo in cui egli lavora. A questo destino l’uomo cercò in tutti i tempi di sfuggire. Nei suoi miti epculiari, nei suoi riti criìudeli l’uomo è da allora alla ricerca della sua intimità perduta […]. Sempre si tratta di sottrarre qualche cosa all’ordine reale, alla miseria delle cose, e di ridare all’ordine divino qualche cosa” (Ibid.).
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che di una argomentazione filosofica, esso può essere descritto o “narrato” sul piano dell’immaginario. In questo modo, Bataille dà il suo contributo a una critica filosofica che non si avvale dei soli strumenti della teoria razionale ma ricorre alle risorse del linguaggio narrativo.264
Foucault: la critica delle scienze umane come aspetti del sistema moderno della ragione Foucault legge lo sviluppo delle scienze umane in chiave di critica della modernità. Nel suo primo libro importante, la Storia della follia nell’età classica (1961), egli viole mostrare come, a partire dalla fine del XVIII secolo, il fenomeno della follia venga studiato sistematicamente e come quest’attenzione si possa intendere come l’espressione di un orientamento culturale incardinato sul sistema della ragione. La ragione, divenuta monologica e assoluta, considera la follia come il nemico da neutralizzare, tenendolo a distanza dal corpo sociale, divenuto qualcosa come un “oggetto” purificato della soggettività razionale. Foucault analizza il processo di clinizzazione della malattia mentale, assimilandolo a quei processi di emarginazione, proscrizione ed estromissione, di cui, per molti altri elementi della società, si possono seguire le tracce nella storia della razionalità occidentale.i La cultura moderna tende alla separazione di tutto ciò che non si lascia ridurre a una “normalità” sulla quale si intende esercitare un potere completo. Tutto è assimilato alle inflessibili leggi della natura. Foucault segue lo sviluppo moderno di una concezione del soggetto finito che trascende nell’infinito. Mentre il pensiero del Rinascimento è ancora incentrato su una visione cosmologica, per la quale le cose del mondo sono ordinate e accostate in base a relazioni di “somiglianza”, secondo il disegno simbolico del grande libro della natura, il razionalismo del XVII secolo ordina le cose secondo un criterio nuovo e diverso. Per Descartes, Hobbes e Leibniz, la natura si trasforma nel sistema delle relazioni che si stabiliscono tra gli elementi semplici, e quindi nello stesso sistema di segni mediante i quali le relazioni sono rappresentate. Perciò acquista una primaria importanza il sistema simbolico approntato dalla logica. Questo non è più fondato in un ordine precedente delle cose stesse, bensì rappresenta solo un modello tassonomico di carattere
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Si può individuare nella cultura medievale una condizione di ambivalenza del soggetto, nel senso perseguito da Bataille: il soggetto, da una parte, è saldamente ancorato al disegno razionale e scientifico di un sapere dimostrativo, per il quale anche le verità dogmatiche sono sottoposte ad analisi e rese intelligibili; ma, d’altra parte, si riconoscono i limiti della ragione e, pertanto, si privilegiano l’esperienza mistica e quelle vie per le quali si attua un estraniamento del soggetto. Il soggetto medievale vive questa ambiguità costitutiva: esso è lacerato da una contraddizione interna ed è esposto, nello stesso tempo, a una duplice possibilità: l’esperienza della ragione, per cui anche Dio si rivela come una realtà razionale (fondamentalmente “il Logos”, la mente divina che, tra l’altro, comprende le idee come archetipi della creazione), e l’esperienza trascendente la ragione e per la quale saltano tutti i calcoli della scienza oggettivante. Se la ragione riguarda un mondo armonicamente costituito, retto da leggi matematiche, oggetto di una geometria di corrispondenze esatte, l’immaginazione si avventura in un campo di forme sfuggenti, misteriose, indecifrabili. Tali forme possono essere considerate come un prodotto di quell’eccesso vitale che la ragione non riesce a dominare. Nell’età moderna, eliminato il mistero dalla natura, la ragione calcolante ha la possibilità di estendere un dominio totale sul mondo delle forme. Nella cultura medievale troviamo una molteplicità di espressioni dell’immaginario che sta a contatto con un principio vitale che si incarna in figure eccessive, difformi, mostruose, irregolari. Tale principio è addirittura identificato con l’Altro nel senso sacrale, cioè col Demonio e col Male. Non è a caso che questo principio è connesso con le forze terrestri, con la terrestrità medesima: si tratta, chiaramente, di una versione dell’antico principio del caos e del disordine, contrapposto al principio uranico della legge e dell’ordine cosmico. Per la stessa ragione, si considera la vita sessuale come particolarmente connessa con questa sfera e tale, pertanto, da dovere essere massimamente controllata e sublimata. L’amore divino costituisce la grande metafora in cui l’erotismo viene trasfigurato, cioè radicalmente estraniato, allontanato dalla sua matrice terrestre e collocato, si potrebbe dire, “in grembo a Venere celeste”. Quanto e come abbia agito questa trasfigurazione sull’esperienza culturale si può vedere attraverso la storia della poesia medievale, il cui momento culminante rimane, come è noto, lo stilnovismo. Petrarca rappresenta l’estrema attuazione di questa esperienza erotica interamente spiritualizzata e quasi capovolta nel suo altro o nel contrario di Sé. Se, infatti, l’erotismo è celebrazione dell’eccesso vitale, la poesia petrarchesca nasce dall’esperienza della dissoluzione di tale eccesso e della sua trasformazione nel suo opposto, cioè nella pura (si porebbe dire, celestiale) spiritualità.
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convenzionale: si tratta solo di riuscire a rappresentare nel modo più preciso ed efficace il nuovo ipotetico sistema della natura. Con Kant, secondo Foucault, esplode il problema della soggettività moderna. Infatti, con la fine dell’ultimo residuo metafisico, rappresentato dalla credenza nell’esistenza di un rapporto tra pensiero e mondo, la funzione di rappresentazione diventa essa stessa un problema: il soggetto rappresentante deve divenire oggetto di riflessione. Così emerge il motivo dell’autoriflessione, e il rapporto del soggetto con se stesso diventa l’unico fondamento. L’idealismo è la forma radicalizzata di questa riflessione costituita come rinnovata certezza metafisica. Ma così l’uomo si è venuto a trovare nella condizione aporetica di un soggetto conoscente finito che deve adempiere a un compito che richiede l’esistenza di un soggetto infinito. Foucault traccia, in un grande arco, che va da Kant e Fichte fino a Husserl e Heidegger, il suo concetto dominante, che la modernità è contrassegnata dalla forma contraddittoria e antropocentrica di un soggetto consapevole della sua finitezza ma animato dalla tendenza strutturale a trascendere nell’infinito. La filosofia del soggetto si trova attraversata da questa contraddizione, costretta, quindi, a seguire due opposte strategie concettuali, in base alle quali il soggetto stesso è sdoppiato e considerato sotto due aspetti contrari, incompatibili tra loro. Così si spiega lo sviluppo di filosofie opposte, che da una parte esaltano il potere dell’uomo e dall’altra denunciano l’illusorietà di ogni ottimistica fiducia nella scienza e nella tecnica. Foucault scopre, tuttavia, una specie di dialettica unitaria nell’atto della riflessione mediante la quale l’io assume consapevolezza di sé. Da Hegel attraverso Freud fino a Husserl, si sviluppa questa dialettica mediante la quale, sulla base del principio hegeliano della mediazione razionale, ciò che dapprima si presenta come un che di estraneo alla coscienza, come il corpo, i bisogni materiali, la natura, il lavoro, gli impulsi irrazionali, viene riportato alla riflessione e reso familiare alla ragione. Freud stabilisce il principio secondo cui dall’Es sorge e si sviluppa l’Io; Husserl attribuisce alla fenomenologia lo scopo di mettere in luce e sotto la consapevole egemonia della coscienza tutto ciò che è implicito, non ancora espresso e non ancora neppure pensato, ciò che è antipredicativo, sedimentato nella vita del soggetto, in una parola il fondamento impensato e nascosto della soggettività. A questa idea antropocentrica messa in moto da Kant è connesso, secondo Foucault, anche lo sviluppo delle scienze umane. Queste analizzano l’uomo come l’essere che si rapporta alle oggettivazioni da lui prodotte, in modo tale da non riuscire a oltrepassare la prospettiva che è propria di una condizione reificata. Al di fuori di tali processi l’uomo rimane un enigma: e a questo proposito si giustificano le forme utopiche che più o meno direttamente si riconducono al mito dell’avventura neodionisiaca. Habermas: la ragione comunicativa contro la ragione soggettocentrica Habermas propone il modello dell’agire comunicativo come via di superamento della prospettiva soggettocentrica. Se si adotta questo modello, non è più privilegiato quell’atteggiamento oggettivante, per cui il soggetto si riporta a se stesso come a semplice ente intramondano. Il soggetto, cioè, si riconosce essenzialmente come “ego” e “alter”, cioè in una relazione, in un atto comunicativo fondamentale. Questo atteggiamento di appartenenza ad un’interazione linguistica rende possibile una viisone del soggetto diversa da quella oggettivante, qual è quella di un osservatore di fronte alle entità incontrate nel mondo. Di fronte alla posizione extramondana dell’io trascendentale e quella intramondana dell’io empirico, Habermas pone il primato dell’intersoggettività costituita linguisticamente. Il soggetto sta in una relazione interpersonale, in cui è contemporaneamente “ego” e “alter”, in quanto, insieme, produce un atto linguistico e si pone di fronte ad esso. Dialéghein, dunque, come atto comunicativo fondamentale, in cui s’impianta ogni soggetto parlante. Ciò che caratterizza il soggetto umano, infatti, è il parlare: l’uomo è il “parlante” per definizione. Così, la riflessione che si sviluppa dal punto di vista del “dialogante” sfugge a quel processo di oggettivazione, che è inevitabile dalla prospettiva del semplice osservatore. Il soggetto trascendentale si contrapponeva al soggetto empirico, al punto in cui questo appariva come un ente tra gli altri. E così, l’analisi intuitiva dell’autocoscienza era possibile prescindendo dal “mondo”, cioè dalla stessa condizione relazionale del soggetto. Invece, il nuovo punto di vista non si riferisce a un regno
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dell’intelligibile al di là dei fenomeni, bensì a quelle procedure effettivamente praticate, che costituiscono il presupposto di ogni operazione conoscitiva. In questo modo la separazione ontologica fra trascendentale ed empirico viene a cadere. “In quanto parlante e uditore si intendono su qualche cosa in un mondo, si muovono all’interno dell’orizzonte del loro comune mondo della vita” (Il discorso filosofico della modernità, p. 301). I soggetti, cioè, si collocano in una situazione linguistica che corrisponde a quella sezione di un mondo della vita, che è impegnata a produrre prassi sulla base di un contesto comunicativo preriflessivo. I partecipanti all’interazione non si presentano più come gli autori liberi, che decidono e agiscono, bensì come i rappresentanti di processi solidaristici, nei quali s’inseriscono responsabilmente e dai cui ambiti traggono significati per i loro comportamenti. In realtà, è il mondo sociale che in tal modo si riproduce, e sono i processi di socializzazione che si ripropongono, secondo modelli di integrazione via via rispondenti alle esigenze culturali e pratiche dell’organizzazione sociale.265 265
Kant ha individuato sul piano della “ragion pratica” una via d’uscita dall’oggettivazione alla quale non sfugge il soggetto sul piano di fondazione (organizzazione) del mondo fenomenico. Dal punto di vista fenomenico, il soggetto è un ente intramondano, che è soggetto alle leggi naturali e quindi è inserito in un processo di produzione causale. Invece, sul piano della moralità, il soggetto si costituisce solo come fine e mai come mezzo; esso, cioè, si pone al di là del processo di oggettivazione, fuori dell’area di dominio della ragione oggettivante. Anche qui si tratta di una dimensione che non può diventare oggetto di scienza e che, pertanto, si colloca fuori degli oggetti della riflessione. D’altra parte, si ritrovano le tracce della concezione antica del soggetto come dimensione intersoggettiva e metafisica, che trascende i limiti della soggettività individuale. Il soggetto morale fa parte, per Kant, di un universale regno dei fini che comprende la storia di quella soggettività trascendentale che è caratterizzata dall’autonomia e della quale gli individui fanno parte. Solo per la costruzione di un mondo fondato sulla libertà, ha senso l’agire del soggetto, non certo per l’organizzazione di un mondo oggettivo fondato su leggi causali. La comunicazione, in questa prospettiva kantiana, rappresenta un elemento costitutivo del soggetto libero. Qui il problema riguarda il modo in cui il mondo orale, per sé costituito in una dimensione trascendentale extramondana, si interseca col mondo fenomenico e finisce per esplicarsi in esso. Cioè, si tratta di vedere come il regno dei fini si temporalizza. Kant riconosce la finitezza del soggetto morale. La temporalità, da questo punto di vista, può costituire la tipica conseguenza della finitezza del soggetto morale, che si trova a dover attuare la libertà nei limiti del divenire storico e temporale. La moralità e la libertà sono temporali in quanto sono finite, cioè assumono sempre i caratteri della problematicità e della possibilità. Ciò che ha una costituzione trascendnetale, dunque non determinata concretamente, trapassa sul piano del finito (che è il mondo fenomenico): Ma la peculiare dialettica finito/infinito caratterizza il soggetto morale e libero. L’azione morale oltrepassa l’oggettivazione: essa caratterizza il soggetto libero (sia pure finito), non oggettivabile, non reificabile. D’altra parte, il soggetto, in quanto appartiene al mondo fenomenico, non può sfuggire ai processi di reificazione. Si tratta, perciò, di riscattare quei processi attraverso la libertà propria dell’agire morale. E questo ha senso nell’ambito di una comunicazione totale che si estende all’intero “regno dei fini”, cioè alla comunità di tutti i soggetti spirituali, per i quali vale il postulato dell’immaterialità e immortalità. Il “regno dei fini”, poi, è garantito sul piano di una fondazione assoluta, attraverso il postulato dell’esistenza di Dio come “sommo Bene”. L’assolutizzazione del mondo morale come fine dell’intera realtà temporale, cioè come la vera e fondamentale dimensione trascendentale, prelude già alla concezione idealistica. Ed è da esaminare se si tratta di un’estrema espressione della filosofia del soggetto. La legge morale, in questo caso, costituisce il dato fondamentale, in virtù del quale si spiega la costituzione del reale (nell’ipotesi del “reale in sé”, sottratto alla causalità propria dell’universo fenomenico). Riguardo alla questione del soggettivismo, si può osservare che la funzione di fondamento non è attribuita al soggetto che opera nella storia, bensì all’insieme delle strutture trascendentali che fanno capo al “sommo Bene” e che si articolano principalmente nella legge morale e nel “regno dei fini” come totalità inscindibile dei soggetti spirituali. Da questo punto di vista, la situazione intramondana appare subordinata, ed è considerata, innanzitutto, in tutta la sua problematicità. Infatti, si tratta dell’esistenza finita del soggetto storico. Il soggetto si trova di fronte al problema del fondamento trascendentale, che esige l’agire morale; e si tratta di vedere le condizioni secondo cui egli soddisfa tale esigenza in un ambito fenomenico. La questione sta nel rapporto con il fondamento trascendentale, e, in particolare, dal punto di vista della comunicazione, si tratta di vedere in che senso la comunità dei soggetti spirituali viene riprodotta in una dimensione finita e temporale. L’agire morale, insomma, implica il riferimento a una dimensione trascendentale di comunicazione totale, per cui si può dire “morale” l’azione che coinvolge il “regno dei fini” nel suo complesso. Indubbiamente il problema del rapporto tra il soggetto storico, intramondano, e il fondamento trascendentale, domina l’intera problematica dell’idealismo. Habermas ha già ricordato come Hegel, Schelling e Holderlin abbiano avvertito i limiti della filosofia della riflessione, con la contrapposizione di fede e sapere, di finito e infinito, con la separazione di
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La ragione, perciò, deve farsi criticare nelle sue figure storiche dalla prospettiva dell’altro, da essa escluso; ed è ciò che avviene in filosofi come Heidegger, Derrida, Foucault. Ma, secondo Habernas, il lavoro della decostruzione consegue un risultato tangibile soltanto quando il paradigma dell’autocoscienza viene sostituito dal “paradigma dell’intesa, cioè della relazione intersoggettiva di individui socializzati comunicativamente e reciprocamente riconoscentesi”. Così la critica al pensiero della ragione soggettocentrica si presenta come una critica al “logocentrismo” (denunciato specialmente da Derrida) occidentale. “Fin tanto che l’autocomprensione occidentale vede l’uomo nel suo rapporto con il mondo contraddistinto dal monopolio di incontrare l’essente, di conoscere oggetti e trattarli, di fare enunciati e di realizzare intenzioni, la ragione rimane limitata ontologicamente, gnoseologicamente o linguisticoanaliticamente ad una sola delle sue dimensioni. Il rapporto dell’uomo col mondo vi viene ridotto cognitivisticamente, e cioè ontologicamente, al mondo dell’essente in complesso (come la totalità degli
spirito e natura, intelletto e sensibilità, dovere e inclinazione, e come essi abbiano seguito le tracce di questa estraniazione di una ragione soggettivamente scissa tra le esigenze di una eticità assoluta e i limiti della quotidianità politica e privata. Hegel aveva cercato nella filosofia il superamento di tutte le scissioni e l’accesso a una totalità che comprendesse in sé la ragione soggettiva e il suo “altro”. I “giovani hegeliani” hanno, poi, ristabilito le condizioni della ragione storica, carica di finitezza e incapace di operare una mediazione assoluta. Così i soggetti sono emersi come gli unici protagonisti, impegnati nell’attuazione di una prassi sociale storicamente rivolta a mediare le esigenze soggettive degli individui con la natura oggettivata attraverso il lavoro. “Questa prassi sociale - osserva Habermas – è il luogo in cui la ragione storicamente situata, corporeamente incarnata, messa a confronto con la natura esterna, si media concretamente con il suo Altro. Se questa prassi mediatrice riesce, dipende dalla sua costituzione interna, dal grado della scissione e della conciliabilità del contesto di vita socialmente istituzionalizzato” (Op. cit., p. 306). Ciò che in Schiller o in Hegel si configurava come sistema dell’egoismo o delleticità scissa, si trasforma in Marx in una società divisa in classi: in ogni caso, i limiti del contesto comunicativo sono superati se la ragione incorporata nella prassi sociale si accorda con la natura e con la storia. Il problema del rapporto tra la situazione storica, finita, del soggetto e la dimensione fondante, trascendentale, è risolto da Hegel nel senso di una totale risoluzione del finito nell’infinito. I limiti e le contraddizioni, pur rivelati dettagliatamente attraverso l’analisi dialettica, si configurano, in definitiva, come momenti della ragione che procede nella sua attività di mediazione infinita. In realtà, essi appaiono come elementi della ragione stesa, che si attua attraverso il processo di mediazione che essa medesima mette in atto. I soggetti individuali s’inseriscono in questo processo come protagonisti secondari, attori (o portatori)di un disegno storico che appartiene allo Spirito oggettivo. Del resto, questa caratterizzazione oggettivistica esprime significativamente il processo della reificazione (anche se qui l’oggettività indica una connotazione spirituale, corrispondente a un preciso momento dello sviluppo dello Spirito assoluto). I soggetti finiti, in definitiva, sono consegnati a un’oggettività che finisce per presentarsi come una realtà estranea, opposta alla soggettività individuale e concreta. La soggettività si dissolve, in virtù di un processo autonomo, nel suo altro. I “giovani hegeliani” hanno riportato sul piano del finito la ragione stessa, considerata come una ragione storica, cioè come una componente della prassi razionale. Lo sviluppo della prassi, cioè della fondamentale attività attraverso la quale l’uomo entra in rapporto con la natura e, nello stesso tempo, attua la trama dei rapporti intersoggettivi, è, ovviamente, problematico, limitato, tale da esigere aggiustamenti progressivi. I rapporti, in particolare, assumono un carattere conflittuale, di opposizione e di contraddizione. L’intervento razionale si qualifica come tale da rimuovere, di volta in volta, le condizioni della conflittualità e dell’opposizione. E poiché tali condizioni sono un prodotto della prassi, si tratta di razionalizzare progressivamente la prassi medesima, in modo che essa produca rapporti non conflittuali. Generalmente, si dà alla morale la connotazione della non-conflittualità: infatti, la morale corrisponde a princìpi universali della prassi, e appare, pertanto, come una prassi interamente razionale (sia pure di una razionalità finita). La morale, inoltre, si presenta come la sfera propria in cui il soggetto non corre i rischi dell’oggettivazione: essa è possibile, infatti, come espressione del soggetto libero, né si può dire morale una prassi che proviene, per le modalità del suo sviluppo, da un mondo oggettivato. La situazione nella quale oggi ci troviamo presenta i prevalenti caratteri dell’oggettività: essa, infatti, appare come lo stadio avanzato della modernità. Il mondo moderno è caratterizzato, come abbiamo visto, dal particolare sviluppo del soggetto nel senso del rovesciamento nella produzione oggettiva di sé. Si tratta del mondo dell’”organizzazione” e del “sistema”, derivante dalla “oggettivazione” del soggetto medesimo. Si può discutere se tale mondo avesse già una configurazione essenziale alle origini della filosofia, come sostiene Severino, oppure se esso sia una produzione peculiare del soggetto moderno. Ma i caratteri che lo distinguono sono quelli che lo stesso Severino ha efficacemente messo in luce in più d’uno dei suoi studi (cfr., ad esempio, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Milano 1988) e che si sintetizzano nel dominio dell’”apparato scientifico-tecnologico” come essenza stessa del divenire oggettivato.
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oggetti rappresentabili e dei dati di fatto esistenti), gnoseologicamente alla facoltà di conoscere o di produrre in modo conforme allo scopo dati di fatto esistenti; e semanticamente al discorso che constata fatti, in cui vengono impiegate proposizioni assertorie – e non è ammessa nessuna pretesa di validità oltre quella della verità proposizionale disponibile al foro interno” (Op. cit., pp. 312-313).266 E ancora: “Fin tanto che i concetti fondamentali della filosofia della coscienza costringono a concepire il sapere esclusivamente come sapere di qualche cosa nel mondo oggettivo, la razionalità si commisura al modo in cui i soggetto solitario si orienta verso i contenuti delle sue rappresentazioni e dei suoi enunciati. Noi appena invece noi concepiamo il sapere come mediato comunicativamente, la razionalità si commisura alla capacità di responsabili partecipanti all’interazione di orientarsi verso pretese di validità che sono fondate sul riconoscimento intersoggettivo. La ragione comunicativa si esprime in una concezione decentrata del mondo” (pp. 315-316). Secondo questa prospettiva, sia la messa a disposizione cognitivo-strumentale di una natura (e società) oggettivata, sia l’autonomia narcisistica del soggetto sono momenti derivati, conseguenti a operazioni di autonomizzazione
9) Il linguaggio fa parte della contestualizzazione sociale del soggetto; esso, cioè, è riferito al comportamento sociale e ha la funzione di rendere comunicabili le esperienze socialmente significative. Il linguaggio vive nell’orizzonte degli atti di comunicazione: esso non è un oggetto neutro, che possa essere considerato indipendentemente dal suo impiego nei processi di comunicazione. Ed è il contesto culturale e “politico” che attribuisce al linguaggio determinate connotazioni funzionali: ad esempio, nell’ambito del contesto scientifico si esige un’uniformità di significati, mentre al livello dell’espressione artistica si richiede un’originalità semantica che fa del linguaggio il campo aperto di continui interventi creativi da parte del parlante. Il linguaggio vive nel discorso e in rapporto alle funzioni che adempie. Sono note le osservazioni di Gorgia sul potere della parola nel discorso retorico, dove il linguaggio ha la funzione di determinare i comportamenti e di plasmare gli animi. Nell’età moderna, il linguaggio, estremamente formalizzato nella sua funzione simbolica e rappresentativa, costituisce lo strumento fondamentale dei processi di oggettivazione. Sappiamo, così, del potere rimemorativo, evocativo, profetico, attribuito al linguaggio nel contesto sapienziale arcaico. In molti casi la parola e la cosa assumevano una funzione reciprocamente scambievole. Ed è nota la riduzione moderna alla essenziale funzione rappresnetativa nel contesto dell’oggettivazione. Un aspetto del superamento della modernità consiste, allora, nella possibilità di recuperare al linguaggio la molteplicità di funzioni di cui esso è stato caricato, di volta in volta, nei diversi contesti. Si tratta, peraltro, di un’operazione che le correnti artistiche del nostro secolo hanno compiuto (e tuttora compiono) ampiamente, con risonanze ed effetti diversi. Sul piano filosofico, i tentativi di Heidegger di mutuare significati dalla poesia s’inseriscono in questa operazione di recupero semantico. L’intenzione rammemorativa sul piano del pensiero corrisponde a un’esigenza di ampliamento dell’orizzonte della ragione (se per ragione s’intende, nel senso più ampio, il veicolo del discorso: pertanto si tratta della ragione molteplice che è capace di sperimentare le diverse funzioni del linguaggio). Poesia e filosofia, in questa direzione, sono strettamente congiunte: se la poesia sperimenta le vie del pensiero, alla filosofia spetta anche il compito di verificare la grande portata teorica del linguaggio poetico. E ciò non attraverso un atto di riflessione su un oggetto esterno, bensì attraverso l’assunzione interna di quel linguaggio, cioè attraverso un atto di appropriazione (anche se, poi, di impiego riflessivo). La filosofia, infatti, antiene la sua identità, anche quando usa il linguaggio della poesia. Analogamente, ciò che distingue la poesia è l’atteggiamento non riflessivo, bensì immediatamente espressivo. In tal modo abbiamo individuato uno dei caratteri distintivi della post-modernità: il superamento dell’atteggiamneto oggettivante come esclusivo (in quanto proprio della ragione escludente) e il recupero della funzione plastica e molteplice della ragione. L’età moderna tende all’universalità, quella post-moderna privilegia la pluralità. Discorsi diversi si accostano, si cercano, trapassano l’uno nell’altro. Non a caso l’atteggiamento dominante ora è quello ermeneutico. La storia del discorso vero (fondato sul “logos” universale) è, in effetti, la storia della scoperta e dello sviluppo della validità assertoria del discorso, fondata sulla corrispondenza tra l’enunciato (la proposizione) e l’esistenza di fatti uniformemente constatati. I primi filosofi hanno inteso la “verità” come enunciazione di proposizioni valide per qualsiasi contesto di esperienza: così, dicendo che “il principio è l’acqua”, Talete ha inteso enunciare una proposizione di validità metaempirica: in ogni fenomeno constatato si supponeva l’”esistenza” di acqua, con lo sviluppo di processi propri di tale sostanza. La scienza incomincia con la formulazione di proposizioni di questo tipo. Così si distingue l’”epistéme” dalla “doxa”, la quale rimane legata, invece, ai determinati contesti d’esperienza. Il riconoscimento delle “doxai”, d’altra parte, implica l’ammissione dei diversi significati linguistici, che, in un contesto di agire comunicativo, si riconoscono reciprocamente.
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rispetto alle strutture comunicative del mondo della vita. La ragione soggettocentrica è “prodotto di una scissione e usurpazione” (p. 316). Nella teoria dell’agire comunicativo emerge, in particolare, quel processo circolare che intreccia tra loro mondo della vita e prassi quotidiana comunicativa e che svolge anche quella funzione di mediazione che il marxismo riservava alla prassi sociale. Servendosi dei mezzi concettuali fenomenologico-antropologici, infatti, la filosofia marxiana della prassi ricorre di nuovo ai concetti fondamentali della filosofia del soggetto: così la storia viene progettata e data da soggetti, che, d’altra parte, si trovano nel processo storico come “gettati” e determinati in un modo che sfugge a ogni mediazione razionale, sicché questa filosofia finisce per dovere rinunciare all’idea della prassi come evento mediatore strutturato razionalmente. La società appare come una rete oggettiva di relazioni, che oviene imposta come ordine normativo al soggetto (Schutz), oppure viene prodotta dagli stessi soggetti con i caratteri strumentali di un ordinamento che sia capace di contrapporsi a un’altra oggettivazione (Kojève); e il soggetto si trova o incardinato centricamente nel suo corpo vivente (Merleau-Ponty), oppure si rapporta al suo corpo eccentricamente come ad un oggetto (Plessner). Il pensiero legato alla filosofia del soggetto non può superare, secondo Habermas, queste dicotomie. E questa oscillazione dicotomica si riproduce sul piano della concezione del linguaggio. Infatti, i soggetti parlanti sono considerati o “signori” o “pastori” del loro sistema linguistico: essi si servono del linguaggio come creatore di senso, e con esso si dischiudono innovativamente il loro mondo, oppure si muovono sempre già in un orizzonte linguistico che si trasforma a partire da un originario dischiudimento del mondo procurato dal linguaggio stesso. Abbiamo così l’idea del linguaggio come medium di una prassi creativa (Castoriadas), oppure quella dell’evento “differente” inserito nel giuoco dello svelamento/occultamento dell’Essere (Heidegger, Derrida). A questo proposito, Habermas rileva la funzione innovativa della prima prospettiva, che trova la sua più efficace espressione nella “teoria dell’istituzione immaginaria” del Castoriadis. Si tratta di una versione della filosofia della prassi che restituisce alla prassi sociale una forza rivoluzionaria radicale e un alto livello normativo/utopico: Castoriadis, infatti, non concepisce più l’agire in modo poietico-demiurgico, come un processo di creazione di figure assolutamente nuove e uniche, capaci di aprire sempre nuovi orizzonti di senso. L’immaginario sociale, fondatore di senso, ha la sua radice nel fenomeno linguistico, dove avviene la sempre continua e mutevole trasformazione dell’immagine del mondo. La creazione ontologica di totalità di senso sempre nuove e diverse avviene nell’ambito dell’originario svelamento dell’essere; ma ciò che è interessante, dal punto di vista della filosofia della prassi, è il modo in cui questa demiurgica ricostituzione linguistica del mondo possa venire trasferita sul piano del progetto rivoluzionario da parte di soggetti consapevolmente agenti. Castoriadis mutua la sua concezione del linguaggio dall’ermeneutica e dallo strutturalismo. Anch’egli (come Heidegger, Derrida e Foucault) parte dalla constatazione che fra il linguaggio e le cose a cui si riferisce, fra la funzione linguistica costituente il mondo (come universo di significati) e l’inramondaneità costituita (i significati stessi) sussiste una differenza ontologica. L’immagine linguistica del mondo è, secondo Castoriadis, un apriori concreto e storico, che produce prospettive d’interpretazione variabili, fornite di un notevole significato progettuale.267 Castoriadis, tuttavia, affida il contenuto razionale della prassi innovativa a una specie di “demiurgo” creatore di senso, che appare installato nel linguaggio come orizzonte originario dischiudente (rispetto al senso dell’essere). Habermas rileva, a questo proposito, l’efficacia del modello ermeneutico rappresentato dall’agire comunicativo: è in virtù di questa struttura che noi riconosciamo e stabiliamo interdipendenze fra sistemi linguistici che dischiudono il mondo e processi intramondani d’intervento pratico. Non vi è nessuna ragione pura, in questo senso, che in seguito assuma l’aspetto e la struttura di un sistema linguistico. La ragione appartiene a contesti dell’agire comunicativo e a strutture del mondo della vita. Sono questi contesti che rendono possibile il riconoscimento intersoggettivo
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Abbiamo qui una significativa confluenza di teoria e prassi. La teoria si presenta come una comprensione fondamentale affidata al potere creativo del linguaggio; la prassi è la trasposizione della teoria sul piano intramondano e sociale. In definitiva, i due processi si integrano, poiché la teoria dipende da atti di volontà e da processi che modificano gli orizzonti linguistici a partire dai quali si profila una comprensione del mondo propria di un mondo della vita.
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di significati che hanno una validità normativa ed enunciativa di contenuti (di “verità” o semplici “doxai”).268 Il problema di fronte al quale si trova Foucault è quello di scrivere una storia della nascita della follìa come malattia psichica, cio è un capitolo di storia della scienza, dal punto di vista della storia della ragione e seguendo il metodo proprio della ragione oggettivante. In realtà, è questa ragione il fattore di nascita del concetto di follìa come malattia mentale. Ma, se si usa ancora tale ragione come strumento di analisi del fenomeno così prodotto, come si possono trarre lumi intorno al fenomeno e, insieme, intorno al ruolo dello strumento che si adopera nella produzione del fenomeno esaminato? La ragione dovrebbe potere scorgere se stessa al di là di ciò che essa effettivamente è diventata, per poter avere determinato il fenomeno in questione: cosa che appare improbabile, se non impossibile. Ma, al di là dell’aspetto metodologico, ciò che qui interessa è il discorso sul soggetto. Il soggetto moderno ha, ovviamente, relegato il corpo nella sfera dell’estensione materiale, del semplice meccanismo fisico; e ciò gli ha consentito di proclamare più decisamente e totalmente la sua sovranità. La follìa, così, è considerata non come qualcosa che dipende da un influsso del corpo sulla psiche, bensì come un deficit di ragione nella sfera psichica, cioè come un inadeguato dominio della ragione in quella sfera che essa è chiamata costitutivamente a controllare. La vita psichica è essenzialmente vista come vita della ragione (in una prospettiva evidentemente riduttiva). Nello sviluppo di ogni attività psichica (la percezione, l’immaginazione, l’affettività, il discorso) si ritiene che, comunque, la ragione abbia la funzione primaria che consiste nel disporre le fondamentali coordinate mentali per uno sviluppo coerente dell’attività stessa. L’immaginazione, ad esempio, segue una sua logica: coordina, cioè, elementi, in modo da produrre figure che abbiano un senso. La follìa coincide, generalmente, con la perdita di questa capacità di produzione coerente: l’immaginazione, allora, si esplica in forme senza senso, oppure in forme delle quali il normale corso della vita psichica non riesce a cogliere il senso, e che, pertanto, sono catalogate come anomale. La ragione, tuttavia, sembra esercitare una funzione delimitativa rispetto all’energia psichica che è una forma dell’energia vitale: essa disciplina l’uso e l’impiego di questa energia per le diverse esigenze della vita psichica. La follìa appare legata a uno squilibrio o a una insufficienza nello sviluppo di tale ruolo attribuito alla ragione, intesa biologicamente e antropologicamente come lo strumento regolatore dell’impiego e della trasformazione dell’energia vitale in rapporto alle diverse funzioni psichiche (la conoscenza, la vita pratica, la società). Modalità abnormi di regolazione e di impiego dell’energia psichica possono essere assimilate alla follìa. E in tal senso si può considerare, erasmianamente, la follìa come una componente essenziale della nostra cultura e della stessa vita quotidiana. Motivi di “deregolazione” si trovano ovunque, in tutti gli aspetti del nostro comportamento. Ora, indubbiamente, la considerazione della follìa come malattia mentale è connessa alla esaltazione della ragione come nucleo del soggetto oggettivante, ossia di quel soggetto, tipicamente moderno, il cui ruolo e la cui funzione appaiono quelli di dar luogo a un mondo in cui l’impiego di ogni energia è tecnicamente programmato. L’uomo moderno fa parte dello stesso mondo oggettivato che egli ha contribuito a produrre: egli stesso, dunque, è sottoposto alle regole economiche che presiedono allo sviluppo e all’impiego delle risorse (comprese, in primo luogo, le energie psichiche, che sono indirizzate, in misura prevalente, alle attività produttive di beni materiali, cioè al lavoro). Il lavoro costituisce la grande questione nel cui ambito si risolve il destino del soggetto moderno. Bataille ha indicato una certa via per la liberazione dell’uomo dalla ragione
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Ciò che, dunque, si tratta di riscoprire è la ragione polivalente, che rende possibile la comunicazione tra i linguaggi e le esperienze, tra i diversi orizzonte di comprensione del mondo o tra i molteplici mondi della vita. La ragione è, innanzitutto, capacità di giustificazione e di legittimazione; essa penetra i vari linguaggi in quanto orizzonti di fondazione di senso, mette in luce le direzioni di senso implicite in ogni orizzonte, riporta sul piano concettuale (e di una relativa uniformità semantica) i vari significati, mettendo in rilievo gli stati intenzionali che stanno alla base di essi. La ragione è, in una parola essenzialmente ermeneutica. Si può dire, pertanto, che l’intera storia del soggetto (e della ragione) converge verso lo sviluppo della ragione ermeneutica. Noi ci siamo proposti di evidenziare come questa funzione appartiene già alla razionalità antica. La prima radice è nella ragione propria della sapienza greca: è, infatti, la ragione che interpreta la parola originaria, il linguaggio come sapere. Una linea fondamentale unisce il sapere simbolico, il mito, il mistero religioso, il sapere filosofico e la stessa scienza empirica degli antichi: e ciò sulla base di una molteplice funzione e attività della ragione. Il mondo antico è caratterizzato da una profonda unità tra le diverse vie della conoscenza: le facce del sapere (e della prassi mondana, essenzialmente politica) si rispecchiano l’una nell’altra, in una fondamentale rispondenza simbolica.
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oggettivante e, dunque, per un dispiegamento dell’energia psichica in forme implicanti l’esaltazione del soggetto al di là della sua funzione connessa alla fondazione del mondo oggettivo. Da questo punto di vista, anche la follìa fa parte del processo oggettivante in cui si risolve l’attività del soggetto moderno: essa appare come un aspetto dell’oggettivazione, della reificazione generale. Ciò che emerge per il destino del soggetto è la generale oggettivazione delle manifestazioni del soggetto stesso. Oggi tutto è risolto nell’ambito scientifico. La stessa ricerca di Foucault rientra nel programma generale di estensione del campo delle scienze umane. Sintomaticamente, il programma di Foucault consiste nel dare corpo e consistenza scientifica al “tema della scomparsa del soggetto” (come Foucault ebbe ad ammettere: cfr. P. Caruso, Conversazioni con Lévi-Strauss, Foucault, Lacan, Milano 1969, p. 120). Il soggetto scompare nell’area della sua oggettivazione e reificazione. La reificazione del soggetto appare, dunque, come il compimento della modernità dal punto di vista del destino del soggetto umano. In realtà, Heidegger, Bataille, Foucault e altri, criticando il soggetto moderno e mettendone in rilievo gli approdi estremi nella sua dissoluzione, hanno posto le premesse per un discorso ricostruttivo. Heidegger ha messo in rilievo il soggetto come dimensione in cui si ricerca e si scopre (ma insieme si cela) il senso dell’essere. Ovviamente tale ricerca implica una rinuncia al processo di oggettivazione. Rimane il problema dell’ambito culturale in cui può esplicarsi una tale questione (in ambiti linguistici significativi). Da questo punto di vista, possono apparire utili le indicazioni di Derrida intorno ai processi di destrutturazione linguistica attraverso il riferimento a una dimensione più originaria dello stesso linguaggio. Il senso dell’essere appartiene, del resto, all’essere come scrittura e simbolo di se stesso. Bataille ha esaminato la funzione limitante della ragione (nella sua funzione oggettivante), alludendo a quella regione che comprende le complesse modalità di impiego dell’energia psichica per lo sviluppo creativo di una civiltà fondata, piuttosto che sulla regolamentazione, sull’uso eccessivo dell’energia vitale. Si tratta di indicazioni significative sul piano metafisico, su quello linguistico-simbolico e su quello politico ed economico (poiché si tratta di approdare a un nuovo concetto di sovranità del soggetto e di potere regolante). Con ciò non si vuol dire di avere già gli elementi necessari per lo sviluppo di un discorso sul destino del soggetto nella post-modernità. Il problema del senso dell’essere nella storia del pensiero e in particolare nella filosofia del Novecento Si può assumere il problema dell’essere (o, meglio, del senso dell’essere, come rileva Heidegger) come il tema fondamentale dell’intera storia del pensiero occidentale. Nei primi filosofi, l’essere è il fondamento della struttura unitaria della realtà: il reale è essenzialmente uno e identico a se stesso. Niente può essere posto fuori dell’essere e tutto, invece, appartiene ad esso. L’essere è il reale nella sua unità e totalità: non generato da altro né tale da generare altro che se stesso. L’intera vicenda del reale si svolge, dunque, all’interno dell’essere e come una modificazione dell’essere. Il tema della ricerca filosofica è, dunque, il senso del reale nella sua totalità. Questo problema attraversa l’intero svolgimento del pensiero; ed è ancora il motivo di fondo di ogni riflessione. Perciò la filosofia si è configurata in primo luogo come una metafisica. Lo sforzo maggiore è stato sempre rivolto alla comprensione dell’unità e della totalità del reale. Il senso, infatti, può emergere solo da un tale ambito unitario. Nell’età moderna, in cui il sapere scientifico assume una identità specifica, si ha la separazione tra fisica, come scienza esatta dei fenomeni, e metafisica, come scienza del senso dell’essere. Kant osserva che la metafisica, riguardando l’essere in sé, risulta impossibile da fondare da parte di un soggetto, la cui capacità conoscitiva si estende solo all’ambito fenomenico. Ma la questione metafisica riprende prepotentemente nell’idealismo e torna a costituire il grande tema dell’intero dibattito filosofico. Lo stesso nichilismo si configura come un aspetto di quel dibattito, come l’aspetto metafisico che assume la negazione della metafisica. Il problema che permane è più o meno lo stesso: per quale via e in quali modi può essere perseguita la ricerca intorno al senso dell’essere anche nell’età del nichilismo, in cui lo stesso concetto di “essere” sembra naufragato in modo irreparabile? Nietzsche, che annuncia la fine della metafisica e l’avvento del nichilismo, propone il divenire originario come senso dell’essere. Tale senso sarebbe stato cercato nella storia, nel progresso, nella vicenda dell’umanità; invece esso andrebbe cercato nell’eterno ritorno dell’identità dell’essere.
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Contro il nichilismo si tende a recuperare la dimensione della metafisica dell’essere. Tanta parte della filosofia del Novecento è dedicata alla riflessione intorno all’essere. Ontologisti, neoidealisti, realisti, spiritualisti, neoscolastici e altri ancora si soffermano sulla dibattuta questione del senso dell’essere. I neopositivisti hanno riproposto il tema della rigorosa verifica sperimentale dei dati cognitivi e pertanto hanno denunciato ancora una volta l’illegittimità logica della metafisica. La metafisica è, in primo luogo, riproposta dai neoidealisti. Lo storicismo di Croce poggia sull’impianto metafisico dei “distinti”, che sono le categorie “eterne” attraverso le quali si svolge la vicenda della storia dello spirito. Che funzione può avere in un tale contesto la proposta real-idealistica che si può fare risalire a Spaventa e alla scuola spaventiana? Qui l’esperienza è assunta come struttura fondamentale per la stessa fondazione della metafisica. Rimane comunque che la metafisica va oltre il dominio dei dati empirici e delle nozioni scientifiche, di carattere sperimentale. Lo sviluppo dell’esperienza nelle sue diverse forme, e in particolare di quella propria del sapere scientifico, accompagna e stimola (orienta) lo sviluppo della metafisica. Questa non è certo più la colomba kantiana che presume volare meglio in assenza della resistenza dell’aria, è consapevole, invece, che è proprio questo mezzo che le consente di “volare”. La metafisica si sviluppa nel contesto dei diversi saperi e tiene conto della complessa articolazione dell’esperienza. Essa potrà avere ancora una funzione regolativa, secondo la proposta kantiana, cioè orientativa e giocare così il ruolo di ipotesi intorno al senso unitario dell’intero quadro culturale di un determinato momento storico. Senza pretendere alla verità assoluta, tenendo conto delle riserve critiche del pensiero, rimandando ai limiti di ogni conoscenza, la metafisica si propone, dunque, oggi come uno strumento della sintesi culturale, in atteggiamento di dialogo continuo con le diverse forme di conoscenza e con le molteplici esperienze spirituali. La molteplicità dei punti di vista non è esclusa, anzi è richiesta e sollecitata. La metafisica ha anche la funzione di tenere desta la coscienza problematizzante. Si tratta di considerare che ogni ipotesi di soluzione è un nuovo problema e che ogni risposta è ancora una domanda. Compito della filosofia è, appunto, quello di cogliere e formulare queste domande, di individuare e precisare i problemi. E ciò rimanendo vigile e attenta riguardo alla formulazione delle risposte da parte dei vari settori scientifici. Non si nega il principio di verificabilità di Popper, ma si rileva che quello delle proposizioni verificabili non è l’unico campo della conoscenza. Il termine “esperienza”, infatti, si riferisce a una molteplicità di atteggiamenti umani e spirituali; esso indica una pluralità di forme e si strutture del pensiero e della prassi. Spetta alla filosofia valutare, di volta in volta, la funzione e l’efficacia delle proposte “empiriche” e dire che cosa significano rispetto al problema generale dell’esistenza. Il problema generale, poi, al quale ogni specifica ipotesi di spiegazione va ricondotta, riguarda il senso dell’essere, la dialettica unitaria in cui è compreso ogni termine della realtà e dell’esperienza. In tale modo si confuta quella tendenza nichilistica che vorrebbe finita non solo la vicenda della metafisica ma quella dell’intera filosofia. La filosofia vive e si sviluppa a partire dal contesto culturale nella quale viene a trovarsi, non ha cioè un dominio autonomo, quasi un celestiale empireo, immune dall’influenza terrestre e mondana; vero è invece che essa è troppo terrestre e mondana e che si alimenta degli sviluppi, delle contraddizioni, dei limiti dell’esperienza storica. Le vicende del pensiero nel corso del Novecento sono, a questo proposito, una eloquente testimonianza. Non più la linea di una ragione eterna, immutabile, costantemente uguale nella sua necessità, bensì il quadro mutevole degli eventi, il destino anche tragico di conflitti e orrori: la filosofia si è dovuta confrontare con episodi inediti, con la tragedia di due guerre mondiali, con le contraddizioni più aspre e i limiti e gli errori più devastanti. E’ riuscita la filosofia a dire qualcosa a quest’umanità afflitta e turbata? Ci sembra onestamente che i filosofi di fronte agli scenari di morte, quando tutto sembrava richiamare i fantasmi del nulla, non sia siano tirati indietro, per cercare rifugio in possibili residue torri d’avorio, e che, anzi, essi si siano mescolati ai simulacri di quella tragedia per cercare ancora in essi i segni dell’umanità ancora possibile. La più grande filosofia del Novecento è l’esistenzialismo, la filosofia dell’uomo più profonda e suggestiva che sia stata sviluppata nel tempo. Il senso dell’essere è il tempo: questa provvisoria conclusione di Heidegger riassume efficacemente la ricerca di una via per il pensiero dell’uomo. Il tempo è il luogo dell’eventualità e della progettualità, dove l’esistenza decide intorno a se stessa e dove si gioca la partita dell’autenticità e dell’inautenticità, della verità e dell’errore, della “caduta” e della “salvezza”. In un’epoca ancora carica di limiti e di tensioni, incalzata dalla velocità, in cui la dimensione temporale sembra soggetta alle più svariate modificazioni, la filosofia può costituire un utile
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antidoto a quella malattia che genericamente può essere indicata come “nichilismo” e che ancora proietta la sua ombra su un percorso in cui sarebbe opportuno ristabilire il dominio della ragione. Filosofia, esistenza e verità in Jaspers Il problema fondamentale intorno al quale si è sviluppata la riflessione di Jaspers è quello del senso e della configurazione della filosofia nella cultura del nostro tempo. Nell’età del prodigioso sviluppo della scienza e della tecnica, in rapporto all’articolarsi delle scienze umane e anche in riferimento alla situazione mondiale della cultura e della civiltà, nonché in relazione alla tradizione storica nel cui ambito sono maturate convinzioni, credenze, istituzioni, qual è la struttura e la funzione del sapere filosofico? Jaspers ricerca una risposta che possa andare oltre alcuni limiti che gli sembrano propri delle più importanti prospettive maturate nella cultura tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Egli non è soddisfatto, ad esempio, delle soluzioni husserliana e diltheyana, che gli sembrano riduttive, inadatte a consentire una comprensione il più possibile “totale” e ancora rientranti nella prospettiva dell’oggettività e del rapporto gnoseologico, per cui ogni sapere riguarda un “oggetto” determinato. Invece la filosofia, per Jaspers, riguarda la stessa condizione del soggetto che indaga: essa è espressione della problematicità in cui consiste l’esistenza. Io mi trovo ad essere soggetto e oggetto insieme del filosofare, che è, pertanto, non semplice teoria o considerazione di un’oggettività stabilità, bensì è anche prassi e considerazione di una realtà che si fa e si rivela contestualmente al suo mettersi in questione attraverso la domanda filosofica.1 E che cosa la filosofia considera e rivela? Non altro che l’esistenza singolare che è impegnata nella ricerca; e ovviamente ciò che essa considera e rivela è il senso definitivo dell’esistenza medesima, il suo fondamentale rapporto all’essere, il suo consistere in un fondamento. La filosofia considera, innanzitutto, quell’essere che è possibilità, cioè l’essere dell’esistenza.1 La domanda fondamentale della filosofia riguarda la realtà umana. L’uomo, infatti, costituisce il nesso e la relazione tra tutti gli enti e tutti gli aspetti della realtà. Ogni cosa si costituisce e si rivela in relazione all’uomo. E tutte le cose sono in relazione tra loro, in quanto si rapportano all’uomo, allo sviluppo delle forme dell’esistenza umana.1 La filosofia avverte, dunque, intorno ai limiti del sapere scientifico.1 Essa pone in rilievo come le conoscenze scientifiche, in realtà, sono ritenute valide in quanto non si pone il problema della verità, cioè in quanto tale problema rimane indifferente per la ricerca intorno al senso dell’esistenza, al fondamento in un’alterità trascendente. In realtà, il sapere scientifico si basa sull’esistenza come possibilità: esso va attribuito alla fondamentale libertà umana. Da un punto di vista pratico e strumentale, la scienza concorre a definire l’essere possibile dell’uomo. La comprensione esistenziale è possibilità di comunicazione: solo sulla base della comprensione l’esistenza si rivela e si comunica. Si instaura così la comunità delle esistenze.1 E la verità viene a delinearsi come un orizzonte plurincomprensivo e trascendentale, il cui contenuto non è dato da oggetti particolari, bensì dallo stesso tendere oltre e oltrepassarsi continuo attraverso la riflessione e la ricerca.1 In questo senso la storia della filosofia, che è la storia della verità nel suo progressivo rivelarsi e che comprende le molteplici forme di tale rivelazione, costituisce un’unità spirituale che, di volta in volta, rifluisce in ciascuna riflessione, nel lavoro di ognuno che di nuovo decida di impegnarsi nella ricerca della verità.1 L’essere onnicomprensivo come orizzonte trascendentale di ogni “verità” coincide, dunque, con l’orizzonte della verità considerato nella sua costituzione trascendentale, cioè come infinito oltrepassarsi di sé.1 In questo senso ogni mondo ha significato in relazione al suo essere possibilità e cioè alle sue prospettive di oltrepassamento in altri mondi e in altri orizzonti o situazioni esistenziali. La verità e l’essere stesso si pongono in relazione alle forme dell’esistenza, che in realtà attuano le stesse modalità di comprensione e di oltrepassamento. L’uomo è espressione di questa situazione esistenziale riferita a una onnicomprensività che si giustifica sulla base di una trascendenza, che costituisce il senso totale dell’esistenza stessa.1 L’esistenzialismo di Jaspers implica il fondamento dell’esistenza come trascendente rispetto alle situazioni determinate. L’esistenza appare come l’attuazione di una possibilità che ha il suo fondamento nell’essere. Tutto ciò determina anche il limite dell’esistenza, che si configura principalmente, dal punto di vista della verità e della conoscenza, come scacco, naufragio.1 Il sapere si risolve paradossalmente in non-sapere, l’essere
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in non-essere, la verità in errore. E il senso totale appare sempre in una forma cifrata, come allusione, indicazione simbolica, indizio.1 Per Jaspers la funzione della filosofia è quella di indicare queste condizioni della verità e dell’essere nell’orizzonte dell’esistenza. Poiché l’esistenza ha il suo piano concreto di attuazione nel mondo, la filosofia ha la funzione di sostenere l’orientamento nel mondo. La filosofia del Novecento tra disincanto e nostalgia Le filosofie del Novecento si possono, molto approssimativamente e in generale, distinguere in due gruppi di tendenze: uno è quello dei nostalgici della metafisica e le loro filosofie si possono considerare come dei tentativi (sempre interessanti) di ricostituire almeno le condizioni (i presupposti) per la ripresa della metafisica; l’altro è quello dei razionalisti e dei positivisti, critici e avversari di ogni pur debole fuga e sconfinamento del pensiero verso gli spazi incontrollati e “liberi” (per un certo verso) della metafisica. Da una parte si considera definitivamente tramontata l’età della metafisica e dall’altra si sostiene che senza la metafisica non ci sarebbe neppure filosofia e che l’indagine intorno alle regole di costruzione del discorso (e specialmente del discorso scientifico) si configura come una metodologia (metodologia della ricerca, come diceva Paolo Filiasi Carcano, ad esempio). Ma vediamo più dettagliatamente questo panorama di tendenze che, un po’ schematicamente, si può ricondurre alla divaricazione suddetta. I razionalisti e i neopositivisti attribuiscono alla filosofia una funzione eminentemente logica e metodologica. Funzione del pensiero sarebbe quella di controllare e verificare le proposizioni che si enunciano (specialmente in sede scientifica), per verificare la loro rispondenza ai fatti da una parte e la loro congruenza logica dall’altra. Si tratterebbe di verificare la funzionalità di alcune ipotesi interpretative rispetto agli stessi scopi pratici e dunque la possibilità di rispondere a determinate domande che sorgono nel contesto culturale complessivo. In definitiva, la questione filosofica si riduce alla formulazione di ipotesi logico-metodologiche utili agli scopi del progresso della civiltà e dello stesso dominio dei fenomeni. In questo senso l’asse di rotazione del pensiero si configura come un prevalente pragmatismo (o neopragmatismo). Per lo più questo orientamento (sostenuto specialmente intorno agli anni cinquanta da Giulio Preti), l’ideale sarebbe di pervenire a una sintesi funzionale di pragmatismo, neoempirismo e filosofia della prassi (marxismo, gramscianesimo). Il risultato della riflessione dovrebbe avere un carattere metodologico, consentire, cioè, lo sviluppo dei modelli di interpretazione più vantaggiosi per il raggiungimento di determinati scopi (per esempio, per la migliore organizzazione della società oppure per il più vantaggioso modello economico). Non si tratterebbe di conseguire certe “verità”, bensì di disporre l’organizzazione dell’esperienza per il conseguimento di livelli migliori di civiltà. Si potrebbe parlare, a questo proposito, di un neoilluminismo (del quale principale assertore è stato Nicola Abbagnano). La filosofia, come è ovvio, non si propone di fondare discorsi sulla costituzione del reale o sulla “verità” intesa anche come concordanza e accettazione universale, sia pure considerata in prospettiva, cioè in una visione storicistica, della quale la principale categoria è quella del progresso, coincidente con l’affermazione della razionalità. Si può dire che questa tendenza sia uno dei caratteri fondamentali del nostro tempo e che essa risponda all’esigenza del miglioramento delle condizioni generali dell’umanità (specialmente se si guarda a quella parte di umanità che ancora vive in condizioni di arretratezza). Si attribuisce alla filosofia un compito eminentemente pratico, congruo con lo sviluppo della tecnica e con l’affermazione della democrazia nel mondo. Questa corrente, è ovvio, dichiara una certa indifferenza rispetto alle credenze che riguardano sfere separate dell’esperienza, come ad esempio la religione o l’arte. Si ritiene che l’atteggiamento razionale non viene generalmente a trovarsi in conflitto con le verità e articoli di fede: Al limite si ritiene che anche il laico e il razionalista possono abbracciare una fede religiosa, che colmi un vuoto lasciato dalla ragione, e che, pertanto, anzi, la tolleranza verso tutte le credenze costituisca una condizione favorevole all’affermazione di modelli universali di comportamento e di civiltà. Un tale atteggiamento risponde in qualche modo ai caratteri della nostra epoca, razionalistica e liberale. Si tende a tenere salda la conquista moderna dei diritti e delle libertà individuali e si considera primario il rispetto della persona umana nella sua identità culturale e nel patrimonio inviolabile dei suoi diritti. Certo, una tale tendenza di pensiero rifiuta ogni dogmatismo della stessa ragione e ammette che ogni verità
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condivisa non esprime nessuna certezza definitiva e che rappresenta sempre una modalità provvisoria (storicamente fondata) di vedere (e pensare) il mondo. Si può rimproverare ad essa il fondamentale relativismo? No, se si muove dalla convinzione che la stessa ragione è una facoltà umana e che essa non è certo atta a cogliere l’essenza delle cose bensì a stabilire condizioni universali e condivise dell’esperienza. Si parte dalla convinzione che il criterio (della scelta di un modello, della decisione, e così via) è sempre umano, radicato nell’intelligenza, espressione della mente finita. Si deve riconoscere, poi, che questo orientamento risponde allo scopo pratico di stabilire le condizioni per una sempre maggiore comprensione e un dialogo sempre più aperto tra gli individui, i gruppi e i popoli. Possiamo dire che esso abbia contribuito alla diffusione della democrazia, allo sviluppo di una civiltà del dialogo e della tolleranza reciproca. Certo, questa filosofia (se così ancora si può chiamare) ha contribuito all’occultamento (o crisi) dell’atteggiamento metafisico (che pure non è da sottovalutare), alla crisi della “verità”, al consolidamento del relativismo; ma dobbiamo anche dire che ha contribuito alla fine del dogmatismo, alla promozione della libertà, all’espansione della democrazia. Si tratta, in fondo, di disporre le condizioni per lo sviluppo di comunità umane che siano sempre di più in grado di creare valori condivisi universalmente, di adottare sistemi di vita rispettosi dei diritti e delle libertà individuali, di aumentare il volume delle comunicazioni a livello planetario. Gli uomini si riconoscono in quanto ricercano, si pongono domande, si ascoltano reciprocamente e si aiutano nella comprensione dei problemi comuni. Si può dire, questa, una filosofia utilitaristica, commisurata ai vantaggi pratici che può recare agli uomini: ma già questo è un gran merito, perché gli uomini oggi hanno bisogno di condizioni migliori di comunicazione; essi devono essere messi nelle condizioni di comunicare tra loro, di confrontarsi sul terreno dei problemi concreti e attuali, di esprimere anche i loro dubbi e il loro scetticismo. Contro una tale riduzione della filosofia a metodologia insorgono i nostalgici della metafisica. Costoro generalmente ammettono che la metafisica debba rinnovarsi dopo la crisi degli ultimi grandi sistemi, principalmente dell’idealismo. Ammettono che la “nuova” metafisica si pone su un piano diverso, di debolezza del pensiero, di sperimentazione, di ipotesi problematica. Ma continuano a trattare i problemi cruciali per lo sviluppo del pensiero speculativo, e si esercitano nella produzione di vaste analisi teoretiche, di discorsi “astratti”. Non si può dire che il Novecento sia stato avaro in tale produzione speculativa, anzi si deve registrare una fecondità straordinaria, che tuttora è in corso. Cacciari, ad esempio, ci propone una riflessione speculativa di alto livello. Ma abbiamo i grandi nomi di Husserl, di Heidegger, di Sartre, di Marcel, di Gadamer e Ricoeur, oltre che degli italiani Gentile, Sciacca, Pareyson, Paci e così via. Il livello speculativo di tutte queste filosofie non è da meno rispetto a quello, classico, di Descartes o Spinoza o Vico o Hegel. La questione metafisica che affiora prepotentemente all’orizzonte del pensiero speculativo del nOvecento è la questione del senso dell’essere. Heidegger è il filosofo che più esplicitamente ha posto tale questione come quella propria del nostro tempo. Egli ha attribuito il fallimento della metafisica occidentale alla mancata impostazione di tale questione e alla errata e fuorviante concezione tradizionale (storica) dell’essere. L’essere è stato inteso come il reale esistente e l’esistenza è stata intesa come semplice “presenza”. Questa modalità corrisponderebbe però a una modalità di porsi del senso dell’essere. Heidegger intende il senso dell’essere come il modo di manifestarsi del reale (l’essere) e dunque come il modo di rapportarsi di ogni ente a tale senso. Ogni ente è se stesso nella condizione di senso che gli è attribuita dal senso dell’essere in generale. Heidegger si è limitato però a tracciare la parte propedeutica della nuova metafisica avente per oggetto il senso dell’essere, mentre ha affidato a sondaggi e tentativi compiuti in un’area più ampia del linguaggio poetante il compito di sopperire alle insufficienze del discorso razionale. Ciò vuol dire che la nuova metafisica va costruita con strumenti di pensiero diversi rispetto a quelli tradizionali della ragione speculativa. La metafisica andrebbe fondata specialmente sul terreno della riscoperta dei significati originari delle parole, dunque attraverso forme inedite di esperienza del linguaggio. I nostalgici dell’essere nel Novecento sono tanti e hanno proposto diverse ipotesi di esperienza metafisica. Il problema non è più tanto quello di individuare gli “oggetti” immutabili ossia le astrazioni concettuali universali (opure è ancora anche questo), bensì quello di tracciare la fenomenologia degli oggetti in rapporto al nostro essere, alla nostra coscienza. E’, ad esempio, quello che fa Bergson col concetto di tempo: non si può dire che cosa sia il tempo, prescindendo dai dati dell’esperienza umana; così si vede che il tempo è essenzialmente “durata”, dimensione interiore, modo di vivere la realtà delle cose stesse. Husserl considera, a sua volta, i processi
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intenzionali attraverso i quali si costituiscono gli oggetti, la cui realtà appare ovvia. Si risale alla condizione in cui ancora non vi sono oggetti, ma vi è il puro flusso della coscienza come attività intenzionale, rivolta alla comprensione di una realtà molteplice. In effetti noi vediamo poi che tutti gli oggetti, i modi d’essere, gli enti e le loro possibili forme, si riconducono all’attività del soggetto. E questo è un carattere peculiare della nuova metafisica: di essere una indagine trascendentale, di riguardare, cioè, l’attività intenzionale della mente, fondatrice di regioni reali, di ontologie determinate. L’ontologia riguarda gli oggetti (classificati in sfere regionali) prodotti dall’attività mentale sulla base di una fondamentale rivelazione dell’essere. Il mentalismo rimane, spaventianamente, connesso con l’ontologismo. La vita mentale (che è d’altra parte storicamente fondata) produce oggetti; e questi si danno come modalità del senso dell’essere (secondo l’orientamento più attuale e profondo della metafisica). Appare ovvio, in questo modo, che determinati orientamenti si rivolgano alla sfera dei valori morali: questi non sono altro che i termini di una particolare ontologia, alla quale si riservano condizioni privilegiate, di essere cioè collegata a specifiche funzioni (spiritualmente superiori) della mente umana. La fondazione dei valori morali sembra attingere, infatti, a una funzione più universale della soggettività ed è, in tal senso, collegata con le radici stesse della libertà. Condizionamenti temporali e spaziali sembrano scomparire allorché la mente considera la condizione spirituale nella sua purezza e nella sua integrale autonomia. Cioè si giunge a considerare la soggettività stessa come fondamento. Con questi termini e in riferimento a tale esperienza si parla di metafisica della libertà. Sulle orme di Kant, si può dire che ci troviamo nella sfera dell’autonomia spirituale, del tutto indipendente rispetto a ogni realtà data. In tale sfera la forma e il contenuto coincidono: perciò si dice che il contenuto della legge morale coincide totalmente con la forma. E anche qui ci troviamo in una particolare regione dell’ontologia, fenomenologicamente costituita. A questa dimensione si riferiscono principalmente i francesi esponenti della “filosofia dello spirito” (Marcel, Lavelle, Le Senne). Da questi brevi riferimenti emerge il carattere complesso della filosofia contemporanea. La questione fondamentale è la possibilità di una “nuova” metafisica. Lo sbocco è la pluralità dei percorsi possibili: il che dà l’impressione di un labirinto. In realtà i percorsi sono molteplici e difficilmente riconducibili a un unico punto di partenza ( di arrivo). Si ha l’impressione di una molteplicità irriducibile di sentieri. In realtà un motivo unitario sembra, in ultima analisi, possibile. Esso va ricercato nella prospettiva della costituzione trascendentale del problema del senso dell’essere. Il senso dell’essere è la stessa coscienza o, meglio, l’esistenza umana, nella sua dimensione trascendentale, come umanità universale o condizione universale (non semplicemente razionale) dell’umanità. Senso dell’essere, in tale prospettiva, è rapporto e condizione di comunicazione. L’esistenza è comunicazione con l’essere e radicamento del rapporto ontologico. Questa ipotesi metafisica in realtà attraversa i diversi orientamenti e in qualche modo (pertanto) li accomuna. Le diverse metafisiche, in ultima analisi, non rispecchiano altro che questo rapporto fondamentale, non sono, cioè, che modalità diverse d’impostazione dello stesso problema. Anche le filosofie critiche della metafisica finiscono per fare parte di questo orientamento: solo che esse non problematizzano il rapporto ontologico, bensì lo presuppongono e lo assumono come ovvio. Il senso dell’essere, in questi casi, è la realtà storica data, la civiltà della tecnica, l’età della democrazia, e così via. La questione propriamente filosofica è accantonata, in quanto è giudicata astratta, inutile, superflua e irrilevante ai fini dell’organizzazione pratica dell’umanità. Invece i nostalgici dell’essere ritengono ancora fermamente che l’indagine trascendentale sia il compito della filosofia e che esso sia la versione attuale del problema metafisico che ritroviamo come una costante dell’intera storia del pensiero. Il rappresentante italiano più notevole della metafisica intesa come esperienza tipica, adesione personale a una problematica, modo totale di confrontarsi con le risorse del pensiero, è lo Sciacca, che ha vissuto contemporaneamente, si può dire, le sollecitazioni spiritualistiche provenienti dall’insegnamento dell’Aliotta e gli sbocchi neoidealistici rappresentati specialmente dal Gentile, insieme alle suggestioni provenienti dalle potenzialità di sviluppo del pensiero neoscolastico cristiano. Queste tre componenti sono confluite in una prospettiva originale, in cui, specialmente, l’immanentismo attualistico risulta temperato da un certo riconoscimento della trascendenza del fondamento. Ne risulta una forma di “spiritualismo critico”, in cui il fondamento è pensato non come assolutamente trascendente ma come un principio che finisce per identificarsi con lo stesso sviluppo spirituale della realtà o del mondo.1 La prospettiva esposta nel saggio
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Atto e essere, del 1950, è quella di uno spiritualismo attualistico o di un attualismo ontologistico (o ontologismo attualistico). Questa prospettiva viene ulteriormente approfondita e precisata nel saggio interiorità oggettiva, del 1951. Con questo libro si può dire che l’itinerario filosofico dello Sciacca si concluda con l’approdo a una “filosofia dell’integralità”, basata sul riconoscimento della dimensione ontologica dell’interiorità spirituale. L’essere consiste e si rivela nell’interiorità del soggetto umano, il quale è costituito come rapporto con la trascendenza dell’essere. In questo senso il soggetto è sintesi di infinità e di finitezza, di esistenza e di valore permanente. Nella coscienza sono radicati i presupposti di questo autoriconoscimento: questo lume rivelativi che è nella profondità della coscienza proviene dall’essere come rivelazione di sé. In questo senso l’esistenza fa parte del sistema di verità ed è capace di conoscere. Nel libro L’uomo, questo squilibrato, del 1956, Sciacca sviluppa in senso morale ed esistenziale i presupposti metafisici e ontologici delineati in Interiorità oggettiva. La dialettica tra la finitezza dell’atto umano e l’infinità dell’Idea connessa alla rivelazione dell’essere è delineata specialmente in Atto e essere. La condizione “squilibrata” dell’uomo è connessa a questa dialettica, in cui finitezza e infinità s’incontrano, pervenendo a forme di atteggiamento morale dinamiche e aperte (specialmente all’esperienza religiosa). Lo spiritualismo si configura come personalismo ontologico (o ontologismo personalistico) nello Stefanini, la cui prospettiva è significativamente riassunta nel seguente enunciato: “L’essere è personale e tutto ciò che non è persona nell’essere rientra nella produttività della persona, come mezzo di manifestazione e di comunicazione tra le persone” (Personalismo sociale, 1952, p. 11). Stefanini parte dalla constatazione che la coerenza logica risponde alle esigenze della comunicazione, dunque implica la costituzione soggettiva e personale dell’essere. Lo stesso essere implica il riferimento alla sua costituzione personale. Il pensiero, che è la proprietà fondamentale dell’essere, è fondato sulla comunicazione. In quanto l’essere è personale, esso ha la comunicazione come suo carattere fondamentale. Un dato psicologico, qual è, appunto, la coscienza pensante, l’autocoscienza, diventa un atto di “partecipazione metafisica”. Così è delineata una ontologia personalistica. In questo modo è riproposta la tematica del rapporto microcosmo/macrcosmo. L’essere è personale, dunque deve essere pensato come Dio stesso, persona e volontà e pensiero assoluto. E l’uomo è immagine finita di Dio. L’uomo sta principalmente in rapporto con Dio: ed è questo il campo fondamentale della comunicazione; ma questa stessa comunicazione si traduce e si manifesta come comunicazione tra le persone finite. L’esperienza religiosa comprende la totalità dei processi umani come atti di comunicazione. La persona è il luogo ve l’essere si fa parola, afferma emblematicamente lo Stafanini a proposito dell’idea centrale della sua prospettiva filosofica. La stessa consistenza della realtà ha le sue radici della parola, che è l’elemento fondamentale della comunicazione. Il filosofo approda così a un “imaginismo” ontologico (Imaginismo come problema filosofico, 1936). L’arte è parola assoluta, esperienza integrale della comunicazione e della parola (dunque dell’attività immaginifica).1 Ovviamente lo Stefanini privilegia l’arte come via di accesso all’essere e come fattore e via di disvelamento del senso dell’essere, cioè come prospettiva del pensiero metafisico. L’essere è manifestazione. Il senso dell’essere è nel suo manifestarsi e la sede in cui più direttamente e totalmente avviene tale manifestazione è l’esperienza artistica. L’arte diventa mediazione e mezzo di comunicazione. In questo senso si celebra la sua importanza per lo sviluppo dei processi di comunicazione umana (sociale e politica). Dalla concezione dell’essere come persona, il cui atto fondamentale è la comunicazione, alla concezione della comunicazione come atto interpretativo, dunque alla stessa considerazione dell’attività spirituale nel suo complesso come interpretazione, il passo è breve: ed è il passo compiuto dal Pareyson. In quanto radicata nella rivelazione dell’essere, dunque poiché si riferisce a questo evento fondamentale, la comunicazione è interpretazione. E’ l’interpretazione che va oltre i significati comuni, oltre l’ambito quotidiano, inautentico (nel senso heideggeriano), ricercando i significati più profondi e più direttamente connessi con la dimensione rivelativa del linguaggio e della comunicazione. In questo senso l’interpretazione coincide con un impegno morale della persona. La fedeltà al senso dell’essere costituisce l’aspetto principale dell’attività interpretativa. Chi intende farsi interprete tende a cogliere i significati connessi alla rivelazione dell’essere, si fa testimone di questa rivelazione.
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“La presenza totale” di Lavelle Il Lavelle nel suo saggio La presenza totale, cercando di risalire fino alla radice dell’errore che avrebbe pesato sullo sviluppo della nostra concezione del mondo, ha individuato questa origine nella nostra rappresentazione del tempo, cioè nella concezione lineare del tempo, propria del cristianesimo (per il quale appunto il tempo scorre in una direzione, dal suo principio, coevo alla creazione, sino alla sua fine), che ha sostituito quella circolare, propria della cultura antica. Il tempo lineare è la dimensione in cui si snoda l’esistenza del mondo e che ha i caratteri della separatezza rispetto all’eternità, non partecipa per nulla di essa, si configura dunque come una specie di luogo dell’esilio. Soltanto la fine del tempo determinerà l’assimilazione del mondo nell’eternità. Dunque l’intera esistenza nel tempo corrisponde a una condizione di separazione dall’essere, a una specie di stato di sospensione e d’attesa. Così il tempo, in quanto forma della coscienza, ci impedisce una qualsiasi partecipazione all’essere, che non sia quella della tensione e del desiderio. L’uomo è abbandonato “all’infelicità lucida della sua esistenza separata”, cioè a una situazione che si tramuta inevitabilmente in angoscia, dovuta alla coscienza di appartenere più al nulla che all’essere. Si può operare una rivoluzione in questa esperienza del tempo? La ricerca del Lavelle è rivolta a questa domanda, alla possibilità, per noi, di recuperare la concezione circolare del tempo e rendere possibile l’esperienza della partecipazione all’essere. Tale sarebbe la “presenza ritrovata”. La nuova dimensione temporale sarebbe segnata dal ruolo svolto dall’istante, coincidente con la stessa eternità, con l’eterno presente. Il Lavelle ha messo in rilievo le difficoltà che, nell’orizzonte della cultura occidentale caratterizzata dalla concezione cristiana del tempo, si oppongono allo sviluppo di una esperienza costituita sulla partecipazione all’essere nell’ambito della dimensione temporale dell’eterno presente. La coscienza europea è intimamente pervasa dalla cultura dello sviluppo progressivo: essa medesima risulta come una dimensione che si svolge nel tempo, impegnata a progettarsi nel futuro e attratta dal richiamo del passato. Si potrebbe vivere come se il passato e il futuro non esistessero e il tempo fosse interamente concentrato nel presente? Il Lavelle ha cercato anche di dimostrare che il modello temporale basato sulla “presenza” si rivela concorde con l’autentico spirito del cristianesimo e che esso non corre il rischio di una caduta nel panteismo. Si tratta, piuttosto, di recuperare il senso della realtà e di uscire dal fenomenismo che ci riporta a una illusione di realtà e ci fa vivere in una condizione sospesa sul nulla. Il Lavelle si pone su una linea omologa a quella in cui troviamo Heidegger e Carabellese, che hanno criticato la prospettiva gnoseologistica per cui all’essere si sostituisce l’oggettività apparente, elaborata dal soggetto che si trova nella privazione di essere, di fronte a un reale che è soltanto un surrogato ideale dell’essere, una rappresentazione razionale ma comunque soggettivo.
Il problema del senso dell’essere nella storia del pensiero e in particolare nella filosofia del Novecento Si può assumere il problema dell’essere (o, meglio, del senso dell’essere, come rileva Heidegger) come il tema fondamentale dell’intera storia del pensiero occidentale. Nei primi filosofi, l’essere è il fondamento della struttura unitaria della realtà: il reale è essenzialmente uno e identico a se stesso. Niente può essere posto fuori dell’essere e tutto, invece, appartiene ad esso. L’essere è il reale nella sua unità e totalità: non generato da altro né tale da generare altro che se stesso. L’intera vicenda del reale si svolge, dunque, all’interno dell’essere e come una modificazione dell’essere. Il tema della ricerca filosofica è, dunque, il senso del reale nella sua totalità. Questo problema attraversa l’intero svolgimento del pensiero; ed è ancora il motivo di fondo di ogni riflessione. Perciò la filosofia si è configurata in primo luogo come una metafisica. Lo sforzo maggiore è stato sempre rivolto alla comprensione dell’unità e della totalità del reale. Il senso, infatti, può emergere solo da un tale ambito unitario. Nell’età moderna, in cui il sapere scientifico assume una identità specifica, si ha la separazione tra fisica, come scienza esatta dei fenomeni, e metafisica, come scienza del senso dell’essere. Kant osserva che la metafisica, riguardando l’essere in sé, risulta impossibile da fondare da parte di un soggetto, la cui capacità
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conoscitiva si estende solo all’ambito fenomenico. Ma la questione metafisica riprende prepotentemente nell’idealismo e torna a costituire il grande tema dell’intero dibattito filosofico. Lo stesso nichilismo si configura come un aspetto di quel dibattito, come l’aspetto metafisico che assume la negazione della metafisica. Il problema che permane è più o meno lo stesso: per quale via e in quali modi può essere perseguita la ricerca intorno al senso dell’essere anche nell’età del nichilismo, in cui lo stesso concetto di “essere” sembra naufragato in modo irreparabile? Nietzsche, che annuncia la fine della metafisica e l’avvento del nichilismo, propone il divenire originario come senso dell’essere. Tale senso sarebbe stato cercato nella storia, nel progresso, nella vicenda dell’umanità; invece esso andrebbe cercato nell’eterno ritorno dell’identità dell’essere. Contro il nichilismo si tende a recuperare la dimensione della metafisica dell’essere. Tanta parte della filosofia del Novecento è dedicata alla riflessione intorno all’essere. Ontologisti, neoidealisti, realisti, spiritualisti, neoscolastici e altri ancora si soffermano sulla dibattuta questione del senso dell’essere. I neopositivisti hanno riproposto il tema della rigorosa verifica sperimentale dei dati cognitivi e pertanto hanno denunciato ancora una volta l’illegittimità logica della metafisica. La metafisica è, in primo luogo, riproposta dai neoidealisti. Lo storicismo di Croce poggia sull’impianto metafisico dei “distinti”, che sono le categorie “eterne” attraverso le quali si svolge la vicenda della storia dello spirito. Che funzione può avere in un tale contesto la proposta real-idealistica che si può fare risalire a Spaventa e alla scuola spaventiana? Qui l’esperienza è assunta come struttura fondamentale per la stessa fondazione della metafisica. Rimane comunque che la metafisica va oltre il dominio dei dati empirici e delle nozioni scientifiche, di carattere sperimentale. Lo sviluppo dell’esperienza nelle sue diverse forme, e in particolare di quella propria del sapere scientifico, accompagna e stimola (orienta) lo sviluppo della metafisica. Questa non è certo più la colomba kantiana che presume volare meglio in assenza della resistenza dell’aria, è consapevole, invece, che è proprio questo mezzo che le consente di “volare”. La metafisica si sviluppa nel contesto dei diversi saperi e tiene conto della complessa articolazione dell’esperienza. Essa potrà avere ancora una funzione regolativa, secondo la proposta kantiana, cioè orientativa e giocare così il ruolo di ipotesi intorno al senso unitario dell’intero quadro culturale di un determinato momento storico. Senza pretendere alla verità assoluta, tenendo conto delle riserve critiche del pensiero, rimandando ai limiti di ogni conoscenza, la metafisica si propone, dunque, oggi come uno strumento della sintesi culturale, in atteggiamento di dialogo continuo con le diverse forme di conoscenza e con le molteplici esperienze spirituali. La molteplicità dei punti di vista non è esclusa, anzi è richiesta e sollecitata. La metafisica ha anche la funzione di tenere desta la coscienza problematizzante. Si tratta di considerare che ogni ipotesi di soluzione è un nuovo problema e che ogni risposta è ancora una domanda. Compito della filosofia è, appunto, quello di cogliere e formulare queste domande, di individuare e precisare i problemi. E ciò rimanendo vigile e attenta riguardo alla formulazione delle risposte da parte dei vari settori scientifici. Non si nega il principio di verificabilità di Popper, ma si rileva che quello delle proposizioni verificabili non è l’unico campo della conoscenza. Il termine “esperienza”, infatti, si riferisce a una molteplicità di atteggiamenti umani e spirituali; esso indica una pluralità di forme e si strutture del pensiero e della prassi. Spetta alla filosofia valutare, di volta in volta, la funzione e l’efficacia delle proposte “empiriche” e dire che cosa significano rispetto al problema generale dell’esistenza. Il problema generale, poi, al quale ogni specifica ipotesi di spiegazione va ricondotta, riguarda il senso dell’essere, la dialettica unitaria in cui è compreso ogni termine della realtà e dell’esperienza. In tale modo si confuta quella tendenza nichilistica che vorrebbe finita non solo la vicenda della metafisica ma quella dell’intera filosofia. La filosofia vive e si sviluppa a partire dal contesto culturale nella quale viene a trovarsi, non ha cioè un dominio autonomo, quasi un celestiale empireo, immune dall’influenza terrestre e mondana; vero è invece che essa è troppo terrestre e mondana e che si alimenta degli sviluppi, delle contraddizioni, dei limiti dell’esperienza storica. Le vicende del pensiero nel corso del Novecento sono, a questo proposito, una eloquente testimonianza. Non più la linea di una ragione eterna, immutabile, costantemente uguale nella sua necessità, bensì il quadro mutevole degli eventi, il destino anche tragico di conflitti e orrori: la filosofia si è dovuta confrontare con episodi inediti, con la tragedia di due guerre mondiali, con le contraddizioni più
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aspre e i limiti e gli errori più devastanti. E’ riuscita la filosofia a dire qualcosa a quest’umanità afflitta e turbata? Ci sembra onestamente che i filosofi di fronte agli scenari di morte, quando tutto sembrava richiamare i fantasmi del nulla, non sia siano tirati indietro, per cercare rifugio in possibili residue torri d’avorio, e che, anzi, essi si siano mescolati ai simulacri di quella tragedia per cercare ancora in essi i segni dell’umanità ancora possibile. La più grande filosofia del Novecento è l’esistenzialismo, la filosofia dell’uomo più profonda e suggestiva che sia stata sviluppata nel tempo. Il senso dell’essere è il tempo: questa provvisoria conclusione di Heidegger riassume efficacemente la ricerca di una via per il pensiero dell’uomo. Il tempo è il luogo dell’eventualità e della progettualità, dove l’esistenza decide intorno a se stessa e dove si gioca la partita dell’autenticità e dell’inautenticità, della verità e dell’errore, della “caduta” e della “salvezza”. In un’epoca ancora carica di limiti e di tensioni, incalzata dalla velocità, in cui la dimensione temporale sembra soggetta alle più svariate modificazioni, la filosofia può costituire un utile antidoto a quella malattia che genericamente può essere indicata come “nichilismo” e che ancora proietta la sua ombra su un percorso in cui sarebbe opportuno ristabilire il dominio della ragione. Filosofia, esistenza e verità in Jaspers Il problema fondamentale intorno al quale si è sviluppata la riflessione di Jaspers è quello del senso e della configurazione della filosofia nella cultura del nostro tempo. Nell’età del prodigioso sviluppo della scienza e della tecnica, in rapporto all’articolarsi delle scienze umane e anche in riferimento alla situazione mondiale della cultura e della civiltà, nonché in relazione alla tradizione storica nel cui ambito sono maturate convinzioni, credenze, istituzioni, qual è la struttura e la funzione del sapere filosofico? Jaspers ricerca una risposta che possa andare oltre alcuni limiti che gli sembrano propri delle più importanti prospettive maturate nella cultura tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Egli non è soddisfatto, ad esempio, delle soluzioni husserliana e diltheyana, che gli sembrano riduttive, inadatte a consentire una comprensione il più possibile “totale” e ancora rientranti nella prospettiva dell’oggettività e del rapporto gnoseologico, per cui ogni sapere riguarda un “oggetto” determinato. Invece la filosofia, per Jaspers, riguarda la stessa condizione del soggetto che indaga: essa è espressione della problematicità in cui consiste l’esistenza. Io mi trovo ad essere soggetto e oggetto insieme del filosofare, che è, pertanto, non semplice teoria o considerazione di un’oggettività stabilità, bensì è anche prassi e considerazione di una realtà che si fa e si rivela contestualmente al suo mettersi in questione attraverso la domanda filosofica.i E che cosa la filosofia considera e rivela? Non altro che l’esistenza singolare che è impegnata nella ricerca; e ovviamente ciò che essa considera e rivela è il senso definitivo dell’esistenza medesima, il suo fondamentale rapporto all’essere, il suo consistere in un fondamento. La filosofia considera, innanzitutto, quell’essere che è possibilità, cioè l’essere dell’esistenza.i La domanda fondamentale della filosofia riguarda la realtà umana. L’uomo, infatti, costituisce il nesso e la relazione tra tutti gli enti e tutti gli aspetti della realtà. Ogni cosa si costituisce e si rivela in relazione all’uomo. E tutte le cose sono in relazione tra loro, in quanto si rapportano all’uomo, allo sviluppo delle forme dell’esistenza umana.i La filosofia avverte, dunque, intorno ai limiti del sapere scientifico.i Essa pone in rilievo come le conoscenze scientifiche, in realtà, sono ritenute valide in quanto non si pone il problema della verità, cioè in quanto tale problema rimane indifferente per la ricerca intorno al senso dell’esistenza, al fondamento in un’alterità trascendente. In realtà, il sapere scientifico si basa sull’esistenza come possibilità: esso va attribuito alla fondamentale libertà umana. Da un punto di vista pratico e strumentale, la scienza concorre a definire l’essere possibile dell’uomo. La comprensione esistenziale è possibilità di comunicazione: solo sulla base della comprensione l’esistenza si rivela e si comunica. Si instaura così la comunità delle esistenze.i E la verità viene a delinearsi come un orizzonte plurincomprensivo e trascendentale, il cui contenuto non è dato da oggetti particolari, bensì dallo stesso tendere oltre e oltrepassarsi continuo attraverso la riflessione e la ricerca.i In questo senso la storia della filosofia, che è la storia della verità nel suo progressivo rivelarsi e che comprende le molteplici forme di
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tale rivelazione, costituisce un’unità spirituale che, di volta in volta, rifluisce in ciascuna riflessione, nel lavoro di ognuno che di nuovo decida di impegnarsi nella ricerca della verità.i L’essere onnicomprensivo come orizzonte trascendentale di ogni “verità” coincide, dunque, con l’orizzonte della verità considerato nella sua costituzione trascendentale, cioè come infinito oltrepassarsi di sé.i In questo senso ogni mondo ha significato in relazione al suo essere possibilità e cioè alle sue prospettive di oltrepassamento in altri mondi e in altri orizzonti o situazioni esistenziali. La verità e l’essere stesso si pongono in relazione alle forme dell’esistenza, che in realtà attuano le stesse modalità di comprensione e di oltrepassamento. L’uomo è espressione di questa situazione esistenziale riferita a una onnicomprensività che si giustifica sulla base di una trascendenza, che costituisce il senso totale dell’esistenza stessa.i L’esistenzialismo di Jaspers implica il fondamento dell’esistenza come trascendente rispetto alle situazioni determinate. L’esistenza appare come l’attuazione di una possibilità che ha il suo fondamento nell’essere. Tutto ciò determina anche il limite dell’esistenza, che si configura principalmente, dal punto di vista della verità e della conoscenza, come scacco, naufragio.i Il sapere si risolve paradossalmente in non-sapere, l’essere in non-essere, la verità in errore. E il senso totale appare sempre in una forma cifrata, come allusione, indicazione simbolica, indizio.i Per Jaspers la funzione della filosofia è quella di indicare queste condizioni della verità e dell’essere nell’orizzonte dell’esistenza. Poiché l’esistenza ha il suo piano concreto di attuazione nel mondo, la filosofia ha la funzione di sostenere l’orientamento nel mondo. La filosofia del Novecento tra disincanto e nostalgia Le filosofie del Novecento si possono, molto approssimativamente e in generale, distinguere in due gruppi di tendenze: uno è quello dei nostalgici della metafisica e le loro filosofie si possono considerare come dei tentativi (sempre interessanti) di ricostituire almeno le condizioni (i presupposti) per la ripresa della metafisica; l’altro è quello dei razionalisti e dei positivisti, critici e avversari di ogni pur debole fuga e sconfinamento del pensiero verso gli spazi incontrollati e “liberi” (per un certo verso) della metafisica. Da una parte si considera definitivamente tramontata l’età della metafisica e dall’altra si sostiene che senza la metafisica non ci sarebbe neppure filosofia e che l’indagine intorno alle regole di costruzione del discorso (e specialmente del discorso scientifico) si configura come una metodologia (metodologia della ricerca, come diceva Paolo Filiasi Carcano, ad esempio). Ma vediamo più dettagliatamente questo panorama di tendenze che, un po’ schematicamente, si può ricondurre alla divaricazione suddetta. I razionalisti e i neopositivisti attribuiscono alla filosofia una funzione eminentemente logica e metodologica. Funzione del pensiero sarebbe quella di controllare e verificare le proposizioni che si enunciano (specialmente in sede scientifica), per verificare la loro rispondenza ai fatti da una parte e la loro congruenza logica dall’altra. Si tratterebbe di verificare la funzionalità di alcune ipotesi interpretative rispetto agli stessi scopi pratici e dunque la possibilità di rispondere a determinate domande che sorgono nel contesto culturale complessivo. In definitiva, la questione filosofica si riduce alla formulazione di ipotesi logico-metodologiche utili agli scopi del progresso della civiltà e dello stesso dominio dei fenomeni. In questo senso l’asse di rotazione del pensiero si configura come un prevalente pragmatismo (o neopragmatismo). Per lo più questo orientamento (sostenuto specialmente intorno agli anni cinquanta da Giulio Preti), l’ideale sarebbe di pervenire a una sintesi funzionale di pragmatismo, neoempirismo e filosofia della prassi (marxismo, gramscianesimo). Il risultato della riflessione dovrebbe avere un carattere metodologico, consentire, cioè, lo sviluppo dei modelli di interpretazione più vantaggiosi per il raggiungimento di determinati scopi (per esempio, per la migliore organizzazione della società oppure per il più vantaggioso modello economico). Non si tratterebbe di conseguire certe “verità”, bensì di disporre l’organizzazione dell’esperienza per il conseguimento di livelli migliori di civiltà. Si potrebbe parlare, a questo proposito, di un neoilluminismo (del quale principale assertore è stato Nicola Abbagnano). La filosofia, come è ovvio, non si propone di fondare discorsi sulla costituzione del reale o sulla “verità” intesa anche come concordanza e accettazione universale, sia pure
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considerata in prospettiva, cioè in una visione storicistica, della quale la principale categoria è quella del progresso, coincidente con l’affermazione della razionalità. Si può dire che questa tendenza sia uno dei caratteri fondamentali del nostro tempo e che essa risponda all’esigenza del miglioramento delle condizioni generali dell’umanità (specialmente se si guarda a quella parte di umanità che ancora vive in condizioni di arretratezza). Si attribuisce alla filosofia un compito eminentemente pratico, congruo con lo sviluppo della tecnica e con l’affermazione della democrazia nel mondo. Questa corrente, è ovvio, dichiara una certa indifferenza rispetto alle credenze che riguardano sfere separate dell’esperienza, come ad esempio la religione o l’arte. Si ritiene che l’atteggiamento razionale non viene generalmente a trovarsi in conflitto con le verità e articoli di fede: Al limite si ritiene che anche il laico e il razionalista possono abbracciare una fede religiosa, che colmi un vuoto lasciato dalla ragione, e che, pertanto, anzi, la tolleranza verso tutte le credenze costituisca una condizione favorevole all’affermazione di modelli universali di comportamento e di civiltà. Un tale atteggiamento risponde in qualche modo ai caratteri della nostra epoca, razionalistica e liberale. Si tende a tenere salda la conquista moderna dei diritti e delle libertà individuali e si considera primario il rispetto della persona umana nella sua identità culturale e nel patrimonio inviolabile dei suoi diritti. Certo, una tale tendenza di pensiero rifiuta ogni dogmatismo della stessa ragione e ammette che ogni verità condivisa non esprime nessuna certezza definitiva e che rappresenta sempre una modalità provvisoria (storicamente fondata) di vedere (e pensare) il mondo. Si può rimproverare ad essa il fondamentale relativismo? No, se si muove dalla convinzione che la stessa ragione è una facoltà umana e che essa non è certo atta a cogliere l’essenza delle cose bensì a stabilire condizioni universali e condivise dell’esperienza. Si parte dalla convinzione che il criterio (della scelta di un modello, della decisione, e così via) è sempre umano, radicato nell’intelligenza, espressione della mente finita. Si deve riconoscere, poi, che questo orientamento risponde allo scopo pratico di stabilire le condizioni per una sempre maggiore comprensione e un dialogo sempre più aperto tra gli individui, i gruppi e i popoli. Possiamo dire che esso abbia contribuito alla diffusione della democrazia, allo sviluppo di una civiltà del dialogo e della tolleranza reciproca. Certo, questa filosofia (se così ancora si può chiamare) ha contribuito all’occultamento (o crisi) dell’atteggiamento metafisico (che pure non è da sottovalutare), alla crisi della “verità”, al consolidamento del relativismo; ma dobbiamo anche dire che ha contribuito alla fine del dogmatismo, alla promozione della libertà, all’espansione della democrazia. Si tratta, in fondo, di disporre le condizioni per lo sviluppo di comunità umane che siano sempre di più in grado di creare valori condivisi universalmente, di adottare sistemi di vita rispettosi dei diritti e delle libertà individuali, di aumentare il volume delle comunicazioni a livello planetario. Gli uomini si riconoscono in quanto ricercano, si pongono domande, si ascoltano reciprocamente e si aiutano nella comprensione dei problemi comuni. Si può dire, questa, una filosofia utilitaristica, commisurata ai vantaggi pratici che può recare agli uomini: ma già questo è un gran merito, perché gli uomini oggi hanno bisogno di condizioni migliori di comunicazione; essi devono essere messi nelle condizioni di comunicare tra loro, di confrontarsi sul terreno dei problemi concreti e attuali, di esprimere anche i loro dubbi e il loro scetticismo. Contro una tale riduzione della filosofia a metodologia insorgono i nostalgici della metafisica. Costoro generalmente ammettono che la metafisica debba rinnovarsi dopo la crisi degli ultimi grandi sistemi, principalmente dell’idealismo. Ammettono che la “nuova” metafisica si pone su un piano diverso, di debolezza del pensiero, di sperimentazione, di ipotesi problematica. Ma continuano a trattare i problemi cruciali per lo sviluppo del pensiero speculativo, e si esercitano nella produzione di vaste analisi teoretiche, di discorsi “astratti”. Non si può dire che il Novecento sia stato avaro in tale produzione speculativa, anzi si deve registrare una fecondità straordinaria, che tuttora è in corso. Cacciari, ad esempio, ci propone una riflessione speculativa di alto livello. Ma abbiamo i grandi nomi di Husserl, di Heidegger, di Sartre, di Marcel, di Gadamer e Ricoeur, oltre che degli italiani Gentile, Sciacca, Pareyson, Paci e così via. Il livello speculativo di tutte queste filosofie non è da meno rispetto a quello, classico, di Descartes o Spinoza o Vico o Hegel. La questione metafisica che affiora prepotentemente all’orizzonte del pensiero speculativo del nOvecento è la questione del senso dell’essere. Heidegger è il filosofo che più esplicitamente ha posto tale questione come quella propria del nostro tempo. Egli ha attribuito il fallimento della metafisica occidentale alla mancata impostazione di tale questione e alla errata e fuorviante concezione tradizionale (storica)
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dell’essere. L’essere è stato inteso come il reale esistente e l’esistenza è stata intesa come semplice “presenza”. Questa modalità corrisponderebbe però a una modalità di porsi del senso dell’essere. Heidegger intende il senso dell’essere come il modo di manifestarsi del reale (l’essere) e dunque come il modo di rapportarsi di ogni ente a tale senso. Ogni ente è se stesso nella condizione di senso che gli è attribuita dal senso dell’essere in generale. Heidegger si è limitato però a tracciare la parte propedeutica della nuova metafisica avente per oggetto il senso dell’essere, mentre ha affidato a sondaggi e tentativi compiuti in un’area più ampia del linguaggio poetante il compito di sopperire alle insufficienze del discorso razionale. Ciò vuol dire che la nuova metafisica va costruita con strumenti di pensiero diversi rispetto a quelli tradizionali della ragione speculativa. La metafisica andrebbe fondata specialmente sul terreno della riscoperta dei significati originari delle parole, dunque attraverso forme inedite di esperienza del linguaggio. I nostalgici dell’essere nel Novecento sono tanti e hanno proposto diverse ipotesi di esperienza metafisica. Il problema non è più tanto quello di individuare gli “oggetti” immutabili ossia le astrazioni concettuali universali (opure è ancora anche questo), bensì quello di tracciare la fenomenologia degli oggetti in rapporto al nostro essere, alla nostra coscienza. E’, ad esempio, quello che fa Bergson col concetto di tempo: non si può dire che cosa sia il tempo, prescindendo dai dati dell’esperienza umana; così si vede che il tempo è essenzialmente “durata”, dimensione interiore, modo di vivere la realtà delle cose stesse. Husserl considera, a sua volta, i processi intenzionali attraverso i quali si costituiscono gli oggetti, la cui realtà appare ovvia. Si risale alla condizione in cui ancora non vi sono oggetti, ma vi è il puro flusso della coscienza come attività intenzionale, rivolta alla comprensione di una realtà molteplice. In effetti noi vediamo poi che tutti gli oggetti, i modi d’essere, gli enti e le loro possibili forme, si riconducono all’attività del soggetto. E questo è un carattere peculiare della nuova metafisica: di essere una indagine trascendentale, di riguardare, cioè, l’attività intenzionale della mente, fondatrice di regioni reali, di ontologie determinate. L’ontologia riguarda gli oggetti (classificati in sfere regionali) prodotti dall’attività mentale sulla base di una fondamentale rivelazione dell’essere. Il mentalismo rimane, spaventianamente, connesso con l’ontologismo. La vita mentale (che è d’altra parte storicamente fondata) produce oggetti; e questi si danno come modalità del senso dell’essere (secondo l’orientamento più attuale e profondo della metafisica). Appare ovvio, in questo modo, che determinati orientamenti si rivolgano alla sfera dei valori morali: questi non sono altro che i termini di una particolare ontologia, alla quale si riservano condizioni privilegiate, di essere cioè collegata a specifiche funzioni (spiritualmente superiori) della mente umana. La fondazione dei valori morali sembra attingere, infatti, a una funzione più universale della soggettività ed è, in tal senso, collegata con le radici stesse della libertà. Condizionamenti temporali e spaziali sembrano scomparire allorché la mente considera la condizione spirituale nella sua purezza e nella sua integrale autonomia. Cioè si giunge a considerare la soggettività stessa come fondamento. Con questi termini e in riferimento a tale esperienza si parla di metafisica della libertà. Sulle orme di Kant, si può dire che ci troviamo nella sfera dell’autonomia spirituale, del tutto indipendente rispetto a ogni realtà data. In tale sfera la forma e il contenuto coincidono: perciò si dice che il contenuto della legge morale coincide totalmente con la forma. E anche qui ci troviamo in una particolare regione dell’ontologia, fenomenologicamente costituita. A questa dimensione si riferiscono principalmente i francesi esponenti della “filosofia dello spirito” (Marcel, Lavelle, Le Senne). Da questi brevi riferimenti emerge il carattere complesso della filosofia contemporanea. La questione fondamentale è la possibilità di una “nuova” metafisica. Lo sbocco è la pluralità dei percorsi possibili: il che dà l’impressione di un labirinto. In realtà i percorsi sono molteplici e difficilmente riconducibili a un unico punto di partenza ( di arrivo). Si ha l’impressione di una molteplicità irriducibile di sentieri. In realtà un motivo unitario sembra, in ultima analisi, possibile. Esso va ricercato nella prospettiva della costituzione trascendentale del problema del senso dell’essere. Il senso dell’essere è la stessa coscienza o, meglio, l’esistenza umana, nella sua dimensione trascendentale, come umanità universale o condizione universale (non semplicemente razionale) dell’umanità. Senso dell’essere, in tale prospettiva, è rapporto e condizione di comunicazione. L’esistenza è comunicazione con l’essere e radicamento del rapporto ontologico. Questa ipotesi metafisica in realtà attraversa i diversi orientamenti e in qualche modo (pertanto) li accomuna. Le diverse metafisiche, in ultima analisi, non rispecchiano altro che questo rapporto fondamentale, non sono, cioè, che modalità diverse d’impostazione dello stesso problema. Anche le filosofie critiche della metafisica
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finiscono per fare parte di questo orientamento: solo che esse non problematizzano il rapporto ontologico, bensì lo presuppongono e lo assumono come ovvio. Il senso dell’essere, in questi casi, è la realtà storica data, la civiltà della tecnica, l’età della democrazia, e così via. La questione propriamente filosofica è accantonata, in quanto è giudicata astratta, inutile, superflua e irrilevante ai fini dell’organizzazione pratica dell’umanità. Invece i nostalgici dell’essere ritengono ancora fermamente che l’indagine trascendentale sia il compito della filosofia e che esso sia la versione attuale del problema metafisico che ritroviamo come una costante dell’intera storia del pensiero. Il rappresentante italiano più notevole della metafisica intesa come esperienza tipica, adesione personale a una problematica, modo totale di confrontarsi con le risorse del pensiero, è lo Sciacca, che ha vissuto contemporaneamente, si può dire, le sollecitazioni spiritualistiche provenienti dall’insegnamento dell’Aliotta e gli sbocchi neoidealistici rappresentati specialmente dal Gentile, insieme alle suggestioni provenienti dalle potenzialità di sviluppo del pensiero neoscolastico cristiano. Queste tre componenti sono confluite in una prospettiva originale, in cui, specialmente, l’immanentismo attualistico risulta temperato da un certo riconoscimento della trascendenza del fondamento. Ne risulta una forma di “spiritualismo critico”, in cui il fondamento è pensato non come assolutamente trascendente ma come un principio che finisce per identificarsi con lo stesso sviluppo spirituale della realtà o del mondo.i La prospettiva esposta nel saggio Atto e essere, del 1950, è quella di uno spiritualismo attualistico o di un attualismo ontologistico (o ontologismo attualistico). Questa prospettiva viene ulteriormente approfondita e precisata nel saggio interiorità oggettiva, del 1951. Con questo libro si può dire che l’itinerario filosofico dello Sciacca si concluda con l’approdo a una “filosofia dell’integralità”, basata sul riconoscimento della dimensione ontologica dell’interiorità spirituale. L’essere consiste e si rivela nell’interiorità del soggetto umano, il quale è costituito come rapporto con la trascendenza dell’essere. In questo senso il soggetto è sintesi di infinità e di finitezza, di esistenza e di valore permanente. Nella coscienza sono radicati i presupposti di questo autoriconoscimento: questo lume rivelativi che è nella profondità della coscienza proviene dall’essere come rivelazione di sé. In questo senso l’esistenza fa parte del sistema di verità ed è capace di conoscere. Nel libro L’uomo, questo squilibrato, del 1956, Sciacca sviluppa in senso morale ed esistenziale i presupposti metafisici e ontologici delineati in Interiorità oggettiva. La dialettica tra la finitezza dell’atto umano e l’infinità dell’Idea connessa alla rivelazione dell’essere è delineata specialmente in Atto e essere. La condizione “squilibrata” dell’uomo è connessa a questa dialettica, in cui finitezza e infinità s’incontrano, pervenendo a forme di atteggiamento morale dinamiche e aperte (specialmente all’esperienza religiosa). Lo spiritualismo si configura come personalismo ontologico (o ontologismo personalistico) nello Stefanini, la cui prospettiva è significativamente riassunta nel seguente enunciato: “L’essere è personale e tutto ciò che non è persona nell’essere rientra nella produttività della persona, come mezzo di manifestazione e di comunicazione tra le persone” (Personalismo sociale, 1952, p. 11). Stefanini parte dalla constatazione che la coerenza logica risponde alle esigenze della comunicazione, dunque implica la costituzione soggettiva e personale dell’essere. Lo stesso essere implica il riferimento alla sua costituzione personale. Il pensiero, che è la proprietà fondamentale dell’essere, è fondato sulla comunicazione. In quanto l’essere è personale, esso ha la comunicazione come suo carattere fondamentale. Un dato psicologico, qual è, appunto, la coscienza pensante, l’autocoscienza, diventa un atto di “partecipazione metafisica”. Così è delineata una ontologia personalistica. In questo modo è riproposta la tematica del rapporto microcosmo/macrcosmo. L’essere è personale, dunque deve essere pensato come Dio stesso, persona e volontà e pensiero assoluto. E l’uomo è immagine finita di Dio. L’uomo sta principalmente in rapporto con Dio: ed è questo il campo fondamentale della comunicazione; ma questa stessa comunicazione si traduce e si manifesta come comunicazione tra le persone finite. L’esperienza religiosa comprende la totalità dei processi umani come atti di comunicazione. La persona è il luogo ve l’essere si fa parola, afferma emblematicamente lo Stafanini a proposito dell’idea centrale della sua prospettiva filosofica. La stessa consistenza della realtà ha le sue radici della parola, che è l’elemento fondamentale della comunicazione. Il filosofo approda così a un “imaginismo” ontologico
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(Imaginismo come problema filosofico, 1936). L’arte è parola assoluta, esperienza integrale della comunicazione e della parola (dunque dell’attività immaginifica).i Ovviamente lo Stefanini privilegia l’arte come via di accesso all’essere e come fattore e via di disvelamento del senso dell’essere, cioè come prospettiva del pensiero metafisico. L’essere è manifestazione. Il senso dell’essere è nel suo manifestarsi e la sede in cui più direttamente e totalmente avviene tale manifestazione è l’esperienza artistica. L’arte diventa mediazione e mezzo di comunicazione. In questo senso si celebra la sua importanza per lo sviluppo dei processi di comunicazione umana (sociale e politica). Dalla concezione dell’essere come persona, il cui atto fondamentale è la comunicazione, alla concezione della comunicazione come atto interpretativo, dunque alla stessa considerazione dell’attività spirituale nel suo complesso come interpretazione, il passo è breve: ed è il passo compiuto dal Pareyson. In quanto radicata nella rivelazione dell’essere, dunque poiché si riferisce a questo evento fondamentale, la comunicazione è interpretazione. E’ l’interpretazione che va oltre i significati comuni, oltre l’ambito quotidiano, inautentico (nel senso heideggeriano), ricercando i significati più profondi e più direttamente connessi con la dimensione rivelativa del linguaggio e della comunicazione. In questo senso l’interpretazione coincide con un impegno morale della persona. La fedeltà al senso dell’essere costituisce l’aspetto principale dell’attività interpretativa. Chi intende farsi interprete tende a cogliere i significati connessi alla rivelazione dell’essere, si fa testimone di questa rivelazione. “La presenza totale” di Lavelle Il Lavelle nel suo saggio La presenza totale, cercando di risalire fino alla radice dell’errore che avrebbe pesato sullo sviluppo della nostra concezione del mondo, ha individuato questa origine nella nostra rappresentazione del tempo, cioè nella concezione lineare del tempo, propria del cristianesimo (per il quale appunto il tempo scorre in una direzione, dal suo principio, coevo alla creazione, sino alla sua fine), che ha sostituito quella circolare, propria della cultura antica. Il tempo lineare è la dimensione in cui si snoda l’esistenza del mondo e che ha i caratteri della separatezza rispetto all’eternità, non partecipa per nulla di essa, si configura dunque come una specie di luogo dell’esilio. Soltanto la fine del tempo determinerà l’assimilazione del mondo nell’eternità. Dunque l’intera esistenza nel tempo corrisponde a una condizione di separazione dall’essere, a una specie di stato di sospensione e d’attesa. Così il tempo, in quanto forma della coscienza, ci impedisce una qualsiasi partecipazione all’essere, che non sia quella della tensione e del desiderio. L’uomo è abbandonato “all’infelicità lucida della sua esistenza separata”, cioè a una situazione che si tramuta inevitabilmente in angoscia, dovuta alla coscienza di appartenere più al nulla che all’essere. Si può operare una rivoluzione in questa esperienza del tempo? La ricerca del Lavelle è rivolta a questa domanda, alla possibilità, per noi, di recuperare la concezione circolare del tempo e rendere possibile l’esperienza della partecipazione all’essere. Tale sarebbe la “presenza ritrovata”. La nuova dimensione temporale sarebbe segnata dal ruolo svolto dall’istante, coincidente con la stessa eternità, con l’eterno presente. Il Lavelle ha messo in rilievo le difficoltà che, nell’orizzonte della cultura occidentale caratterizzata dalla concezione cristiana del tempo, si oppongono allo sviluppo di una esperienza costituita sulla partecipazione all’essere nell’ambito della dimensione temporale dell’eterno presente. La coscienza europea è intimamente pervasa dalla cultura dello sviluppo progressivo: essa medesima risulta come una dimensione che si svolge nel tempo, impegnata a progettarsi nel futuro e attratta dal richiamo del passato. Si potrebbe vivere come se il passato e il futuro non esistessero e il tempo fosse interamente concentrato nel presente? Il Lavelle ha cercato anche di dimostrare che il modello temporale basato sulla “presenza” si rivela concorde con l’autentico spirito del cristianesimo e che esso non corre il rischio di una caduta nel panteismo. Si tratta, piuttosto, di recuperare il senso della realtà e di uscire dal fenomenismo che ci riporta a una illusione di realtà e ci fa vivere in una condizione sospesa sul nulla. Il Lavelle si pone su una linea omologa a quella in cui troviamo Heidegger e Carabellese, che hanno criticato la prospettiva gnoseologistica per cui all’essere si sostituisce l’oggettività apparente, elaborata dal soggetto che si trova nella privazione di essere,
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di fronte a un reale che è soltanto un surrogato ideale dell’essere, una rappresentazione razionale ma comunque soggettivo.
Tematiche del nostro tempo (di ieri e di oggi) I processi di reificazione nella società tecnologica L’uomo e la macchina: Simmel e altri Sulla felicità La felicità, “eudaimonia”, è, per i Greci antichi, la vita trascorsa con l’assistenza di un “buon demone”, dunque la vita serena, possibilmente gioiosa, rispondente alle aspirazioni personali, soddisfacente sul piano dei rapporti familiari e sociali. La felicità, per l’uomo, consiste, dunque, in uno stato di equilibrata e armonica soddisfazione dei desideri, delle aspirazioni, degli scopi verso i quali tende l’animo di ognuno. Dunque ad ognuno corrisponde un tipo di vita, il cui raggiungimento segna una condizione di esistenza felice. Diverse e molteplici, infatti, sono le aspirazioni umane: come hanno osservato i poeti antichi, a uno si addicono le imprese militari, a un altro le opere civili e pacifiche, a uno le attività contemplative della scienza e della filosofia, a un altro quelle pratiche dell’industria e del commercio (cfr. la prima ode di Orazio). Ciò che può essere motivo di felicità per un individuo, non lo è, invece, per altri. La felicità consiste nel conseguimento e nello sviluppo del tipo di vita corrispondente alla personalità di ognuno. Ciò vuol dire che le aspirazioni personali sono soddisfatte, cioè che il soggetto consegue la sua umanità propria. Infatti la felicità consiste nella compiuta realizzazione delle potenzialità umane del soggetto. Finché le personali aspirazioni non sono soddisfatte si può dire che non si è ancora raggiunta la felicità: tuttavia è da rilevare che questa può anche consistere nell’attendere a una occupazione che sia qualcosa come una promessa di felicità futura. La vita dell’uomo è sempre (si può dire) caratterizzata da una specie di dinamismo, da un’attività che mira a uno scopo; e attendere a tale attività, dare un senso alla vita, tendere a un fine, tutto ciò è già motivo di felicità. Nella concezione greca, in generale, la felicità è coniugata sempre con la virtù, cioè con la legge morale, che, in particolare, stabilisce il valore e il significato dell’esistenza nell’ambito della comunità. La vita di ognuno deve essere significativa per la società di cui l’individuo fa parte. In tal modo la felicità di ognuno è significativa per l’intera comunità. Chi vive secondo virtù, d’altra parte, vive felice, consegue la felicità. L’etica del piacere viene generalmente superata e sostituita dall’etica della virtù. Si può dire che tra questi due poli, tra il piacere e la virtù, si svolga l’intera storia del concetto di “felicità”. La felicità, in primo luogo, è una condizione di benessere e di armonia personale, dunque corrisponde a uno stato corrispondente a quello che gli epicurei chiamavano “piacere catastematico”, cioè un piacere calmo e disteso, ormai liberato dai motivi di tensione, di sofferta insoddisfazione. Nello stesso tempo, si rileva che il piacere non deve consistere in una situazione di egoistica affermazione di sé che non tenga conto degli equilibri sociali. Nella concezione politica antica il motivo della solidarietà sociale è accentuato: infatti, come è noto, per gli antichi l’individuo si realizza nella comunità e nello stato. Il cristianesimo ha, poi, rivalutato questa componente della felicità attraverso il grande rilievo dato alla carità come virtù fondata sull’amore del prossimo e sulla considerazione degli altri come “fratelli”. Il motivo della universale fratellanza degli uomini ha dato un’impronta nuova allo stesso concetto di “felicità”. Vera felicità è quella che si traduce in una condizione comune, di cui almeno coloro che fanno parte di una comunità debbano far parte. La virtù del cristiano si esprime nella promozione degli altri, nell’essere fattore di felicità per il prossimo. Il cristiano è felice perfino se sacrifica la vita per gli altri. Infatti in tal modo realizza quella “imitazione” di Cristo alla quale tende e verso di cui essenzialmente aspira. La felicità consiste nell’attuazione del modello di vita cristiana: e tale modello è offerto principalmente da Cristo
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crocifisso che muore per la salvezza degli uomini. Questa condizione finisce per coincidere con l’ascetismo, cioè con la tendenza a un tipo di vita essenzialmente spirituale, basato sulla rinuncia alle soddisfazioni materiali. Il Rinascimento ha inteso restaurare la concezione antica basata sulla realizzazione dell’ideale dell’umanità perfetta, consistente specialmente in una condizione di equilibrio tra le aspirazioni personali e le istanze della comunità pubblica. Torna, in tale contesto, anche la tematica del piacere, considerato come una componente della vita felice. Ma la felicità si fa consistere nel conseguimento di livelli sempre più alti di umanità, che rappresentino un progressivo avvicinamento all’ideale di perfezione, significativamente rappresentato da Leonardo nella sua famosa tavola della “umana proporzione”. Questo modello, infatti, ispira ogni opera umana, principalmente ogni costruzione architettonica e ogni raffigurazione della forma umana. La felicità, in questo senso, coincide con tutte le esperienze che in qualche modo hanno a che fare con questa tensione che esprime il tentativo di avvicinarsi all’ideale di perfezione umana e civile. Nel mondo moderno i due piani della felicità mondana e della carità cristiana sono accostati con la convinzione che essi rappresentino due modi, autonomi ma complementari, della condizione umana. Le opere di carità si moltiplicano e assumono i caratteri di istituzioni sociali vere e proprie, che, però, non escludono il perseguimento del successo individuale e sociale nello svolgimento delle attività civili, economiche, produttive. Per i calvinisti (ma lo spirito del calvinismo permea quasi tutta la civiltà occidentale moderna), la carità cristiana si esprime nel lavoro, nell’opera concreta che si traduce in fattore di ricchezza e di successo per una comunità. L’attività con la quale si trasforma la natura e si attuano progetti di utilizzazione delle risorse naturali è intesa come un dovere per i cristiani, che, si afferma, hanno ricevuto questo compito da Dio, quello di prendere possesso del mondo e di modellare le cose in rapporto ai propri bisogni e alle proprie esigenze spirituali e materiali. I valori della cultura e della civiltà laica sono affermati in misura uguale a quelli della spiritualità cristiana. Il piano soprannaturale viene separato da quello naturale; e per questo valgono i parametri di valutazione che già la cultura antica ha messo in rilievo. L’etica della modernità è specialmente utilitaristica, basata sulla rivalutazione dell’economia, della produzione, dello stesso profitto. Un tale tipo di etica è uno dei fattori principali dell’affermazione della civiltà capitalistica. L’etica borghese giustifica i valori economici, cioè quelli del guadagno, dell’investimento, dell’accumulo capitalistico. Le leggi scientifiche sono applicate alla dinamica economica. Le opere alle quali si attende con successo sono quelle che promuovono lo sviluppo dell’attività economica, dunque, principalmente, le “fabbriche”, le costruzioni industriali che diventano il nuovo carattere dell’architettura urbana e suburbana. Si creano problemi nuovi: principalmente quelli che riguardano la felicità da raggiungere nella situazione connessa con lo sviluppo dell’industria e con la nuova organizzazione del lavoro. La condizione della classe operaia appare subito come un carattere contraddittorio della società, in quanto chiaramente contrario al conseguimento di pur minime condizioni di felicità. Nello stesso tempo, lo stesso sviluppo industriale e il coinvolgimento delle grandi potenze nella corsa all’accaparramento dei mercati e delle materie prime, dunque il nuovo legame che si stabilito tra politica ed economia, ha creato un problema ancora più grave, che ha avuto le sue manifestazioni negli eventi tragici della prima metà del Novecento. E’ accaduto che il potere statale, sotto la spinta dei grandi gruppi economici, ha imposto un vero e proprio potere tirannico sulla società, pretendendo il sacrificio di milioni di uomini. Si può dire che a questo livello le condizioni della felicità hanno raggiunto il punto più basso della loro fenomenologia. Praticamente tali condizioni sono state annullate. Si è dovuto attendere molto tempo perché la questione della felicità potesse essere riproposta. Ciò è avvenuto nella seconda metà del Novecento, intorno agli anni ’60. Marcuse è stato il filosofo che ha principalmente riproposto tale questione, mettendo in rilievo, sulle basi delle riflessioni e delle ricerche di Marx e Freud, l’esigenza di porre la questione stessa come un compito primario per la stessa organizzazione della società. Si trattava di mettere la società in condizione di recuperare la consapevolezza intorno alle potenzialità umane da attuare. Così è tornato il problema dell’uomo e della sua felicità nei termini in cui era stato già impostato dai filosofi antichi. Solo la consapevolezza da parte dell’uomo delle sue possibilità può ora consentire il dibattito sulla felicità.
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Il dibattito attuale. Il problema appare innanzitutto proponibile nel contesto della filosofia morale come specifica trattazione intorno a ciò che è bene per l’uomo. Si tratta, in primo luogo, dunque, di affrontare il problema sul piano teorico, che è quello del concetto universale. In questo senso un concetto come quello di “felicità” sembra che possa trovare luogo e inquadramento in un concetto generale, come, appunto, quello di “bene”. Ernst Tugendhat si è posto la domanda: “Che cosa significa dire di un’azione che è cattiva (e senza aggiungere altro, non in vista di questo o quello scopo)? Che cosa intendiamo, quando diciamo che si ha il dovere di agire in un certo modo, e che lo si deve necessariamente fare, ovvero che non è lecito agire così (solo e semplicemente, e non in considerazione di una determinata intenzione)?” (Problemi di etica, tr. it., Einaudi, Torino 1987, p. IX). “Questi problemi fondamentali – osservava poi questo autore – per la convivenza umana sono stati problemi fondamentali della filosofia da quando c’è filosofia: con essi è in certo qual modo nata la filosofia. Negli ultimi trent’anni ci si è di nuovo occupati di essi con particolare intensità, negli ultimi quindici anni anche in Germania, nuovamente. Tuttavia finora non sono state conseguite risposte convincenti”. In realtà, negli ultimi decenni è maturata la convinzione che questi problemi trovano possibili risposte sul piano concreto della situazione storica, in rapporto al contesto culturale e al sistema concettuale di cui si dispone. Marcuse vedeva nello sviluppo della società industriale avanzata la condizione per una nuova etica del piacere, basata sul principio della non-repressione della “libido” che costituisce la fonte del desiderio e anche dell’aspirazione umana alla piena espressione spirituale. Ciò, tuttavia, con l’avvertenza, appunto, che le forme di liberazione dell’energia pulsionale risultano sempre commisurate a una condizione storica (all’attuale dinamica dell’organizzazione del lavoro, del tempo libero, del consumo, e così via). In questo senso, la questione morale, entro il cui orizzonte si pone quella della felicità, assume una connotazione di indagine concreta, qualcosa come un’esplorazione attraverso condizioni empiriche. Ci si può domandare: come si prospetta oggi il problema intorno al bene? In che cosa oggi si fa consistere il bene? Si tratta, infatti, di definire e riuscire a identificare che cosa oggi può costituire un fattore di sviluppo di forme proprie dell’umanità, qual è lo scopo verso cui tendiamo, quali modelli di organizzazione sociale possono riuscire più adatti alle esigenze (ad esempio) di più ampia comunicazione (globalizzazione) tra gli individui e i gruppi. In questo senso si identificano fattori che possono essere riconosciuti come un “bene”. Quindi si può porre la questione della felicità. E ciò sembra che non debba porre particolari difficoltà, se il “bene” non può che essere assunto come fattore di felicità. Nessun uomo, infatti, che sia ragionevole, considera il bene come fattore di infelicità. Si potrebbe obiettare, tuttavia, che il bene non è condizione sufficiente per una vita felice. Ancora una volta si tratta di tornare alla situazione storica attuale e impostare nuovamente il problema tenendo conto di altri fattori più concretamente intessuti nella quotidianità dei soggetti. Il tema del piacere può essere ripreso, a questo proposito, in una prospettiva nuova e attuale. Sorge allora la domanda: in che misura oggi l’organizzazione della società riesce fattore di soddisfazione delle aspirazioni individuali? Le risposte dei singoli potranno costituire una prima “misura” per la definizione del problema; l’analisi di altri fattori potrà concorrere a meglio inquadrare il problema in una ipotesi di soluzione. Al fine di andare oltre un relativismo spinto, si tratta di ricorrere a una nuova sistematica delle virtù.
I termini della cultura attuale. Le questioni della filosofia odierna. Libertà, liberazione, liberalismo, libertario, libertino. La libertà è la principale caratteristica dell’uomo. Solo l’uomo ha il privilegio del “libero arbitrio”, che è la facoltà di decidere intorno alla propria esistenza e di scegliere comportamenti e azioni tra tante possibilità. Il mondo si dispiega come una serie di possibilità proprio in rapporto a questa facoltà umana. Così non solo abbiamo l’individuo libero, ma abbiamo contestualmente il mondo possibile. La realtà non costituisce più una determinazione univoca, stabilita una volta per sempre, bensì si presenta come un orizzonte aperto che riceve determinazione e forma dalle scelte e dalle azioni dei soggetti. La libertà, così, concorre alla configurazione del mondo reale; e spesso gli individui entrano in conflitto per assicurarsi il potere di incidere sulla determinazione degli aspetti della realtà.
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E’ chiaro che il criterio della decisione e della scelta deve fare capo a un’altra facoltà, che sembra, in effetti, strettamente collegata con la libertà, e che comprende l’autoconsapevolezza umana, la capacità dell’uomo di conoscere se stesso e ciò che è bene per lui. Solo in presenza di tale consapevolezza la libertà può essere positiva ed efficace. Altrimenti potrebbe tramutarsi in fonte di errore, di scelta dannosa, di possibilità negativa. Ragione e libero arbitrio devono coniugarsi insieme e costituire, anzi, un plesso unitario, in generale qualora come ciò che indicato col termine di “virtù”. Coscienza, ragione, libertà formano un insieme in cui nessuno dei termini può essere disgiunto dagli altri. Si può dire che in questo modo si ottiene il comportamento morale, che è proprio dell’uomo e che implica l’esercizio contemporaneo e convergente di queste fondamentali facoltà. In questo modo la libertà è fattore di felicità, di compiuta umanità. Perché ci sia autentica libertà, devono esserci insieme autoconsapevolezza e razionalità. Quest’ultima è connessa alla rappresentazione (e comprensione) concettuale, cioè veramente universale, condivisa da tutti i soggetti pensanti. Il pensiero razionale è, dunque, condizione e fattore di libertà. Esso caratterizza l’uomo, nella stessa misura in cui lo caratterizzano la coscienza e la libertà. Spinoza diceva che l’intelletto (la mente in generale) va purificato di tutte le rappresentazioni fallaci, che sono per lo più determinate dalle passioni, cioè da impulsi e disposizioni generalmente determinati da condizioni di ricerca dell’utile individuale (generalmente supposto come tale sulla base di impressioni approssimative). Si tratta, come dimostra Hegel, di riportare ogni rappresentazione alla trasparenza del concetto. Attraverso il concetto il reale è compreso pienamente, è fatto interamente intelligibile (in modo che nessun residuo di esso rimane oscuro e non compreso chiaramente). Perciò Cartesio indica come condizione della conoscenza il raggiungimento di concetti chiari e distinti. Su tale articolazione concettuale va condotta la conoscenza di sé come autoconsapevolezza. Si tratta, a un certo punto, di sapere chiaramente ciò che è libertà, ciò che è l’essere dell’uomo, ciò che è virtù. La libertà, propriamente, connota l’assenza di fattori costrittivi esterni (ed estranei) nella determinazione della volontà, dunque l’autodeterminazione, l’esercizio della spontanea facoltà di volere e decidere, di scegliere in un ventaglio di possibilità. L’uomo ha questo privilegio: di poter, per capacità propria, esprimere comportamenti significativi, orientati verso uno scopo e basati sulla consapevolezza relativa alle loro motivazioni e alle loro conseguenze. E’ chiaro che la libertà in questo senso ristretto non è sufficiente a configurare il suo stesso concetto. Abbiamo visto, infatti, che il libero arbitrio può essere fonte di errori. E dobbiamo riconoscere che gran parte (o tutti) degli errori commessi dall’umanità nel corso della sua storia è da attribuire al cattivo uso della libertà come capacità di autodeterminazione. D’altra parte, se si rimuove o si annulla tale condizione, si annulla la libertà stessa. La libertà è tale principalmente perché essa riporta l’individuo a una condizione di sovranità su se stesso, per cui le sue scelte sono affidate unicamente alla sua responsabilità. Non c’è qui un dio che dice all’uomo “ecco che devi fare, come devi comportarti; ecco ciò che è bene ed ecco ciò che è male, ciò che determina la tua grandezza e la tua felicità e ciò che, invece, arreca la tua derelizione e la tua miseria”. Kant osservava che l’uomo dell’età dei “Lumi” era l’uomo divenuto finalmente maggiorenne, capace di andare avanti da solo, senza la guida di un’autorità esterna. Ma l’uomo è stato sempre maggiorenne, è apparso sulla terra già dotato di questa connotazione di maggiorità. E’ da osservare, peraltro, che la libertà si esercita nell’ambito della finitezza, dunque entro confini delimitati e riguarda solo le cose umane. L’uomo non può cambiare il corso delle cose in rapporto alle leggi della natura; può però decidere intorno alla conservazione dell’equilibrio ambientale e naturale. La sua costituzione fisica rientra nell’ambito della condizione naturale che è, in generale, immodificabile. E’ vero, come avvertiva Hobbes, che l’uomo è mosso da due impulsi fondamentali che determinano il suo comportamento, che, cioè, egli ricerca ciò che giova alla sua vita ed è fattore di affermazione della sua individualità, mentre rifugge da tutto ciò che gli è dannoso e contrasta con tutte le sue forze ciò che diventa oggetto del suo odio. Ma è da dire che ciò non annulla la libertà, che si esercita rispetto a ciò che di volta in volta è scelto e deciso e rientra nell’ambito delle diverse possibilità. La libertà riguarda la sfera del possibile, non certamente il necessario. Certo, anche l’uomo rientra, per certi aspetti (che non sono secondari), nella sfera della necessità: egli, ad esempio, non può decidere intorno alla sua finitezza, ma ha il potere di gestire
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la sua condizione finita e limitata in modi diversi (che dipendono dalla sua educazione e dalla sua cultura), praticamente liberi. La libertà riguarda la facoltà dell’individuo di scegliere determinati modi di azione e di comportamento. Essa non riguarda la definizione del contenuto, cioè l’oggetto della decisione e della scelta. Che cosa fare o non fare, quale contenuto dare alla volontà, come agire, tutto ciò dipende in gran parte dal giudizio, cioè dalla facoltà intellettuale di discernere, ragionare, argomentare. Il contenuto della scelta è generalmente il risultato di un ragionamento, sia pure rapido e quasi istantaneo. Ogni decisione è la risposta a una domanda; alla radice di ogni scelta vi è un tempo (anche limitatissimo) di riflessione, durante il quale, cioè, si esaminano i termini del problema che si presenta. Il soggetto esamina la questione, assume consapevolezza della sua portata, si prefigura le scelte possibili e si orienta verso la migliore di esse, quindi (finalmente) sceglie, lasciando che si esprima la sua volontà. Perciò diciamo che l’atto libero si riconduce alla autonoma capacità del soggetto di esaminare e giudicare intorno al comportamento più opportuno e appropriato al disegno che ciascuno ha di se stesso, dei suoi scopi, dei modi in cui declinare la propria esistenza. E’ chiaro, infatti, che ogni scelta s’inserisce in un progetto organico, fa parte di uno sviluppo coerente della personalità. Ognuno sceglie in base allo stile che caratterizza la sua persona, difficilmente si esprime in modi imprevedibili e del tutto inediti o, peggio, in difformità con il suo comportamento abituale. Tutto ciò concorre alla definizione della scelta. La conoscenza della questione è un presupposto essenziale per l’esercizio della libertà di scelta, ma essa non necessariamente esige lo sviluppo di un ragionamento, può essere la conseguenza di un’intuizione immediata, come osservava Platone, criticando il rigido “intellettualismo” socratico, per cui la conoscenza del bene conduce automaticamente al bene agire. La disputa tra “intellettualismi” e “volontaristi” riguarda piuttosto la concezione dell’idea sulla cui base (o modello) Dio crea il mondo: se si pensa che tale idea sia di natura essenzialmente intellettuale (ad esempio l’idea del mondo migliore possibile), si subordina la volontà (l’atto libero della creazione) al contenuto (intellettuale) dell’idea medesima; invece se si assume l’atto come del tutto incondizionato (non subordinato all’idea), si rileva il carattere interamente libero dell’atto medesimo. I volontaristi (come Duns Scoto e Occam) partivano dalla convinzione che Dio non può ritenersi condizionato da qualcosa, sia pure dalle idee del suo intelletto, e che lo stesso creato dipende da ciò che Dio continuamente decide che sia. Dio non è determinato dall’essere, bensì, viceversa, l’essere dipende da lui. Dio è essenzialmente amore dell’essere e questo fa (è sufficiente perché) l’essere sia. Per Leibniz, Dio non potrebbe cambiare le verità matematiche¸per i volontaristi, invece, anche le verità ragionali dipendono dalla volontà di Dio, il quale, appunto, decide e stabilisce che cosa sia “razionale” e che in che consista la ragione medesima. In questo senso, la volontà si pone come il fondamento stesso dell’essere: e perciò si parla di ontologia della libertà.i E, poiché l’essere in quanto libertà è Dio, si deve attere che solo sul piano teologico si può una tale ontologia. La libertà si riporta, più che all’essere reale determinato, all’essere come possibilità. Dio è la possibilità di se stesso; e tale è il reale, l’essere. In questo modo, l’uomo, in quanto possibilità e dover-essere, riflette l’essenza del reale. Secondo la famosa tesi di Pico della Mirandola, l’uomo è l’ente che decide intorno al suo essere, tanto che non possiede una natura definita bensì si riporta a una possibilità che diventa oggetto della sua scelta. Per Heidegger, l’esistenza è la scelta della sua possibilità più propria. Per Bergson, la libertà è essenzialmente creazione, dunque è facoltà propria di chi ha il potere di agire creativamente, ponendo qualcosa di assolutamente nuovo e inedito nel corso della realtà. Il piano del possibile, infatti, consente l’attuazione di qualcosa che per la prima volta irrompe sul piano dell’esistenza e della realtà. Ciò è appunto quel che è più proprio dell’uomo, l’apertura della possibilità, ciò che sussiste sempre come possibile. Ma questa possibilità va intesa nel senso di realtà più propria ed essenziale, come ciò che è rapporto con l’essere, che, cioè, consiste nel suo stare nell’essere suo proprio. In questo senso si può dire che lo spirito è veramente libero. Perciò si è negata la libertà nella sfera della natura. Questa non deroga minimamente dalle sue leggi, che appaiono fisse e definitive, inflessibili. Invece ciò che si produce nell’ambito della realtà spirituale è nuovo e imprevedibile. L’uomo crea continuamente la sua rappresentazione delle cose, la riplasma in rapporto agli
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elementi d’esperienza che sopraggiungono; egli crea i suoi miti, i suoi contenuti significativi, tutto ciò che appartiene alla sfera della cultura. Il mondo spirituale dei greci è stato creato nel corso di una determinata civiltà. Il sistema della scienza moderna è una realtà che corrisponde a un processo creativo proprio di un’epoca. E così si può dire dei sistemi della morale e della politica. Il cristianesimo è forse la più grandiosa creazione spirituale dell’umanità. Nessuna di queste creazioni sarebbe stata possibile senza la libertà. Noi avremmo un patrimonio culturale fisso e definito una volta per sempre, senza nessuna possibilità di modificarlo, arricchirlo, migliorarlo. Si può immaginare una tale forma d’esistenza umana? Chi potrebbe immaginare un’umanità senza inventiva, senza creatività? Noi tanto più apprezziamo la nostra opera quanto la riteniamo nuova e originale e pensiamo sempre che stiamo intraprendendo qualcosa non è apparsa prima e non è venuta ancora al mondo. Nel mito platonico di Er, le anime che si accingono a ritornare sulla terra per ripercorrere un nuovo ciclo vitale scelgono generalmente tipi di vita che non siano stati già percorsi, appunto perché sono attratte dalla novità, anche se questa comporta una diminuzione della qualità dell’esistenza (come fa l’eroe che preferisce l’umile vita dello schiavo). L’esercizio migliore della libertà consiste, pertanto, nello sviluppo di una vita “nuova”, originale, improntata alla vicenda dei propri sentimenti, che non sia tanto la riproduzione di modelli inerti bensì si configuri come l’espressione di un’esperienza spirituale personalmente vissuta. La privazione della libertà è la schiavitù. Questa consiste nell’annullamento della sfera delle possibilità e nella riduzione dell’esistenza a una condizione data e immodificabile, alla si è consegnati, irrimediabilmente. La stessa soggettività spontanea è annullata, una forza oscura decide per noi. La liberazione è la restituzione allo stato di libertà. La presenza di fattori che limitano o impediscono la libertà assume una fenomenologia complessa. Il mito parla di una originaria condizione di colpa dovuta a un atto di sfida dell’uomo verso la divinità e, dunque, di una espiazione ad opera dell’azione tragica che implica la rovina e la morte dell’eroe rappresentativo della comunità sulla quale incombe la punizione. Questa generalmente si configura, appunto, come caduta in uno stato di destino, cioè in una condizione in cui l’intero corso della vita e dell’esperienza è predeterminato, con la conseguente mancanza di libertà. L’azione tragica concorre alla liberazione, a restituire alla comunità la facoltà di decidere. Tra i fattori che si sono rivelati negativi per lo sviluppo della libertà nell’età antica, la schiavitù è senz’altro il principale, quello che agisce e s’impone fin dalla nascita e riguarda il modo d’essere parte della società. La società non solo rende schiavi alcuni uomini ma li assume come tali per un’oscura necessità, allo stesso modo in cui assume, per esempio, le greggi. Gli schiavi fanno parte dei beni materiali che ogni uomo libero possiede ed eredita. Si potrebbe dire che tale condizione non sopprime la facoltà di pensare e di agire liberamente, secondo una convinzione personale. In realtà la schiavitù non annulla la spiritualità, il demone della persona, l’ethos che, secondo Eraclito, costituisce la profonda inclinazione dell’anima. Pur con una limitazione così radicale, la personalità è, si può dire, salva. Il soggetto rimane responsabile delle sue azioni, sebbene la massima parte dei suoi comportamenti e dell’intera sua vita si svolge in forma costrittiva, secondo una destinazione immodificabile. Lo schiavo dipende dal padrone anche per gran parte della vita volontaria: ad esempio dipende dalle decisioni di costui se egli contrae matrimonio e dispone di una famiglia propria. Finché c’è un barlume di coscienza, si può dire che c’è anche una traccia (per quanto debole) di libertà. Ma è da rilevare che di libertà vera e propria si può parlare in relazione alla possibilità del soggetto di disporre autonomamente della propria umanità. La libertà riguarda la decisione intorno al proprio modo d’essere, la possibilità che ciascuno possiede di costruire il suo essere uomo, seguendo le proprie inclinazioni più profonde. Nell’età moderna i limiti più significativi all’esercizio della libertà sono specialmente connessi ad alcuni processi innescati nell’ambito della vita sociale. Marx ha messo in rilievo con grande efficacia e chiarezza i processi di alienazione e di reificazione determinati dall’organizzazione del lavoro e dalla dinamica della attività produttiva. Il lavoratore è, innanzi tutto, costretto, dalla struttura della società, a ridursi alla condizione di semplice forza-lavoro da impiegare in modo anonimo e con lo scopo di assicurarsi gli essenziali mezzi di sopravvivenza. L’uomo è così espropriato dell’umanità, dell’essenza che gli è propria ed
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è assimilato sul piano dell’esistenza materiale delle cose. L’intera vita sociale si sviluppa nella forma di questa generale estraniazione o reificazione. La libertà si presenta in questo caso come un bisogno di liberazione, di riappropriazione dell’essenza umana alienata. La liberazione si pone come un compito storico, un processo della cui attuazione si fa carico la società stessa, una volta che ha assunto forme corrispondenti di organizzazione. Come è noto, per Marx, questa assume la forma della lotta di classe, dato che lo scopo da perseguire consiste nell’instaurazione di una società non più fondata sulla distinzione di classe. Oggi i processi di alienazione, estraniazione e reificazione assumono forme diverse e risultano connessi a fattori eterogenei, che agiscono specialmente in presenza di eccessiva massificazione. Si tratta, cioè, di processi collegati con i fenomeni di anonimia che investono le popolazioni di intere città. I ritmi della vita impongono la ripetizione quotidiana (protratta all’infinto) di atti socialmente senza significato, del tutto svuotati dei valori di comunicazione e di dialogo. Il generale consumismo riduce a sua volta la sfera delle decisioni personali e riconduce i soggetti a condizioni di automatismo comportamentale. Si deve dire, pertanto, che sono le condizioni della libertà a essere notevolmente ridimensionate nella società odierna. Più propriamente emergono di gusti, le tendenze, le mode, per cui la libertà si esprime piuttosto ai livelli dei gruppi organizzati. I modi di pensare risultano omologati: sono i gruppi che decidono e scelgono come “insiemi” soggettivi, al posto degli individui. In questo senso i processi di liberazione risultano ancora più difficili e inattuabili. Oggi la libertà appare, dunque, piuttosto come un bene e un valore da recuperare. Ma le vie attraverso le quali ciò potrà avvenire sono ignorate, nascoste o inesistenti. Quando la libertà è intesa come affermazione dell’arbitrio indisciplinato, legato all’inclinazione del momento, dunque indirizzato a ottenere l’appagamento del desiderio e il conseguimento del piacere istantaneo, si ha la condizione o l’esperienza del libertino. Il libertino si caratterizza specialmente per l’assenza (o il rifiuto) di regole precise, la negazione delle norme morali, l’affermazione che non esistono valori universali e che non si possono fissare modelli di comportamento universalmente riconosciuti. Ciò riguarda anche la valutazione della sfera conoscitiva: si ammette, cioè, che non esistono verità che possano essere riconosciute da tutti, che l’unica misura è costituita dal piacere e dal gusto individuale, per cui si dice che ciò che piace in un dato momento è bene. L’estrema figura del libertino è il Don Giovanni. Oggi questa forma di libertà è diventata un aspetto del comportamento sociale di gruppi che intendono adottare i principi dell’edonismo, del puro piacere fisico, come unico criterio di vita e di costume. La critica del materialismo si rivolge a questa forma di etica sociale, che, esaltando momenti effimeri della vita, in definitiva non fa che diffondere e accentuare il generale senso di frustrazione che è dovuto alla ricerca inarrestabile di nuovi piaceri. Come è stato rilevato già dai filosofi antichi, il piacere è basato sul movimento e, come tale, non riesce a produrre condizioni di soddisfacimento stabile e duraturo. In questo modo risulta pressoché impossibile, per l’uomo, conseguire la felicità, come condizione di equilibrio durevole, di armonia e di soddisfacimento. Solo la creazione di qualcosa di significativo dà all’uomo il senso dell’appagamento. Solo la proiezione dell’attività su un piano finalistico di forme che riproducono e rappresentano l’uomo stesso può consentire il superamento di quella specie di insoddisfazione continua che è collegata al soddisfacimento di puri desideri materiali. L’uomo, come osserva Platone nel Convito, tende all’immortalità e intende conseguirla in qualche modo prima di tutto attraverso la generazione, quindi produce opere che vanno al di là dei limiti dell’esistenza individuale. Una vita consumata interamente nel movimento vitale lascia un senso di vuoto, di totale inappagamento. Che rapporto vi è tra tutto ciò e la libertà? Abbiamo visto che la libertà è in primo luogo il costituirsi di uno spazio di autonomia, dove s’impongono e si dispiegano principi propri e dove non valgono, pertanto, regole imposte da sfere estranee. Si può intendere in questo senso quella forma di piacere che, come osservavano i filosofi antichi, ha la sua consistenza nel movimento? Appare subito che una tale etica non riesce a trovare sul piano dell’autonomia i suoi principi e che, invece, appartiene interamente a una forma del dinamismo naturale. Il piacere fisico ha senso etico e ha in qualche modo a che fare con la libertà nella misura in cui è il risultato e l’oggetto di una libera scelta; ma si può dire che chi sceglie l’etica del piacere in realtà si adatta ad accettare come principi del comportamento leggi estranee alla sfera della libertà stessa.
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Chi vive secondo il principio del piacere sceglie l’eteronomia e si mette nella condizione di fuggire dalle possibilità più propriamente umane, per accostarsi, come osservava Pico della Mirandola, alla vita dei bruti, interamente naturale e risolta nell’ambito del movimento. La libertà è specialmente l’esaltazione dell’autonomia e della possibilità: è la condizione per stabilire spazi di creatività spirituale e culturale. Lo spirito si muove in questo spazio della libertà: esso trae da se stesso le forme della sua attività. L’uomo, così, vive la sua esistenza storica. E crea opere in cui si proietta la sua aspirazione all’immortalità. Questa tendenza a vincere la morte è, si può dire, l’estrema, ma anche la fondamentale, manifestazione della libertà. Le divinità create dallo spirito greco ancora vivono e parlano, col senso intero della civiltà alla quale appartengono: sono creazioni spirituali e significative per ogni epoca. E così accade per i principi del diritto romano o per le verità del cristianesimo. La libertà stessa fonda questo spazio dell’autonomia e della creazione. Essa ha il potere di evocare, si potrebbe quasi dire, dal nulla figure e forme destinate a durare nel tempo. In tal modo la sua sfera reale è costituita da essa medesima e non è data dall’esterno. Lo spazio della libertà non appartiene alla natura, non è un dato reale preesistente all’attività libera dello spirito. E l’umanità che non si riconosce in questo spazio mette tra parentesi se stessa, si allontana dalla sua forma propria, perde, infine, la sua identità. Le forme dell’alienazione di cui si è parlato specialmente nella filosofia di derivazione feuerbachiana e marxiana si riconducono a questa generale perdita della condizione di libertà in rapporto allo sviluppo di dinamiche proprie della vita materiale. La vita economica è la sede del soddisfacimento dei bisogni elementari ed è chiaro che, allorché si è ridotti nella condizione di dovere lottare per il riconoscimento di diritti primordiali connessi alla stessa sfera della sopravvivenza, vengono a mancare i presupposti essenziali per lo sviluppo di qualsiasi forma di libertà e di attività spirituale. Marx ha posto il problema della lotta sociale per il ripristino delle condizioni di libertà nell’ambito della struttura della società. Allorché l’umanità è alienata e reificata, essa diventa sottomessa a meccanismi estranei, che assumono perfino gli aspetti della dura necessità naturale. Il sistema del lavoro salariato nella società dominata dall’espansione della borghesia imprenditoriale costituisce un fattore chiaramente negativo di estraniazione e di alienazione umana, in quanto alla sua base vi è la persona ridotta a forza-lavoro, cioè a merce qualsiasi. Si tratta di una concezione materialistica della condizione umana, per il cui superamento si tratta di disporre di una ipotesi diversa di organizzazione della vita materiale. Non si può superare una condizione materiale limitata se non attraverso una condizione materiale alternativa e tale da profilarsi come fattore di superamento e di liberazione. Marcuse ha ripreso l’analisi marxiana con riferimento alla condizione che si è determinata nell’epoca a noi più vicina della società industriale avanzata. Egli è partito dal presupposto che si tratta, in primo luogo, di mettere in evidenza i fattori e le forme della vita materiale che corrisponde alla situazione umana. In questo senso, la costituzione materiale dell’uomo appare come un sistema di energia pulsionale che si esprime al livello del bisogno e del desiderio, per cui si tratta di rimuovere, in primo luogo, i fattori di repressione e di procedere alla liberazione di tale sistema, perché esso si tramuti in condizione di libertà, cioè in attività creativa dominata specialmente dal valore estetico come criterio fondamentale. Infatti, in un’epoca in cui la libertà è ridotta e attaccata da diversi fronti, s’impone una generale liberazione. Marcuse ricerca, dunque, una sfera che, innanzitutto, sia sottratta ai diversi condizionamenti ideologici e sociali e si presenti come un fattore di rottura rispetto a ogni prassi che, sotto camuffamenti politici, esercita in realtà un’azione repressiva. Egli individua tale ambito nella “dimensione estetica”, cioè nell’arte come veicolo di verità, in grado di smascherare le componenti ideologiche e pratiche, che, in nome di presunti processi di liberazione, in realtà perpetuano le pratiche alienanti, già, in altre forme e modi, diffuse e dominanti. L’arte avrebbe i caratteri della libertà per la sua costituzione stessa, anzi essa disporrebbe dei caratteri della libertà come verità e prassi di liberazione. Solo la verità avrebbe il potere di liberare l’uomo dalle molteplici forme di alienazione. Non avrebbero, infatti, tale facoltà le espressioni ideologiche del potere repressivo, comunque configurate. L’arte, in virtù della sua stessa struttura, dunque attraverso la pura forma, costituisce la via maestra per l’affermazione e il potenziamento della libertà.i In questo senso, forse ogni forma di ordine politico e sociale non sfugge (almeno) al pericolo dell’alienazione, dovuta alla conversione ideologica della fondamentale esigenza del potere che contraddistingue ogni società (e ne è, si può dire, il vizio d’origine, probabilmente insopprimibile e solo
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ideologicamente variabile). E, allora, l’arte, secondo le osservazioni di Marcuse, assume le funzioni di terapia contro una malattia incurabile, che può avere effetti consolatori (se non illusori), raggiungibili attraverso il trasferimento (ideale e fantastico) in una realtà la cui caratteristica (e la totale struttura) è la “dimensione estetica”, cioè un tipo di realtà consistente nella pura forma e indifferente ai contenuti della prassi sociale. Questa è, si può dire, la funzione che l’arte ha sempre rivestito nelle varie epoche e che ha svolto in modi diversi, comunque sovrapponendo alla realtà data ed esistente una realtà ideale, formalmente perfetta e oggettivamente veritiera. Il particolare connubio dell’arte e della religione, con il ruolo universalmente assunto dall’arte di rappresentazione del divino, è l’espressione tipica di questo fenomeno (nel senso fenomenologico). Si tratta, tuttavia, dell’espressione più autentica dell’autonomia della volontà.
Sull’anima “Anima” è il principio dell’individualità umana, ciò per cui viene ad esistere l’individuo umano. In qualche modo essa racchiude lo stesso “destino” dell’individuo: lo plasma nei suoi caratteri, nella sua fisionomia, nei suoi tratti fisici, dunque, ne fa un’unità psico-fisica. Essa, dunque, ne determina la struttura profonda, in base alla quale si configurano gli atteggiamenti esteriori, gli umori, i modi d’essere, le passioni, i comportamenti. Ogni individuo sostanzialmente altro non è che la sua “anima”. All’anima spetta determinare ciò che l’individuo è. Da essa dipendono i comportamenti, le azioni, le decisioni, i pensieri, i sentimenti. L’anima, come dice Platone, può avere una dose più o meno ampia di razionalità. Così c’è l’anima impulsiva e c’è quella razionale: c’è l’individuo che agisce quasi d’istinto (d’impulso) e quello che agisce riflettendo e meditando, facendo dipendere ogni decisione da argomentazioni e ragionamenti. L’anima è lo specchio dell’intera personalità. Dai comportamenti esteriori si conosce il tipo di anima che fonda la personalità. Gli antichi filosofi si domandarono quale fosse la sostanza di cui è costituita l’anima. Essi la intesero come una corrente vitale, cioè come una sostanza particolarmente fluida, come un “soffio”, tale da potere compenetrare il corpo e diffondersi per esso. Dunque la intesero come un’energia attiva. Eraclito, ad esempio, la concepì come un fuoco vivo, come una corrente di calore, una specie di energia attiva. E disse che noi conosciamo le manifestazioni esterne dell’anima, ma non ne conosciamo la struttura, tanto che non riusciamo a sondarne la profondità. In questo senso, l’anima non si può fare coincidere con la coscienza, che è solo una manifestazione di essa oppure una parte o un’attività particolare. Molte forme dell’attività dell’anima rimangono oscure, non pervengono alla coscienza, sono tali per cui noi non ne abbiamo la consapevolezza. La struttura dell’anima ci è in massima parte nascosta. Tanto difficile è conoscere l’anima che Platone la rappresenta con un mito: il famoso mito del cocchio guidato dall’auriga e trainato dai due cavalli, quello docile (della volontà) e quello indocile (dell’impulso vitale). Questo mito è, ovviamente, un’approssimazione alla verità. Noi possiamo semplicemente farci un’idea approssimativa della natura dell’anima. Essa rimane uno degli oggetti più misteriosi e oscuri. Indagare noi stessi rimane la cosa più difficile. Ognuno deve, tuttavia, cercare di esercitare questa indagine, deve cercare di conoscere se stesso. Questo è il grande insegnamento di Socrate, che, in questo senso, attua la grande rivoluzione interiore, la svolta dell’indagine filosofica dal campo dei fenomeni fisici (dalla Physis) a quello delle manifestazioni psichiche (alla Psyke). L’uomo deve conoscere se stesso per potere edificare meglio lo stato. Così Platone intese delineare lo stato ideale in rapporto alla costituzione dell’anima. Il nucleo centrale dell’anima consiste nella razionalità. La conoscenza razionale riguarda le essenze reali, le cose in ciò che veramente sono. La conoscenza di sé si proietta nell’indagine intorno all’essenza delle cose. Conoscere se stessi vuol dire misurare la capacità conoscitiva di sé, dunque attuare la razionalità come strumento di conoscenza delle cose. Il riconoscimento dell’uomo come anima razionale costituisce la grande scoperta di Socrate. Del resto, questa costituzione razionale è già prefigurata nella rappresentazione mitologica dell’apollineo come dimensione dell’uomo. La prima intuizione della struttura dell’anima è, infatti, quella espressa dalla
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mitologia. Le figure delle divinità sono aspetti dell’anima dell’uomo. A quest’anima appartengono sensibilità, intelligenza, capacità tecnica, razionalità. L’altro aspetto della rappresentazione mitologica riguarda il dionisiaco, cioè la profonda radice che lega l’anima alla totalità dell’essere. L’anima, individualizzata nella persona, in realtà fa parte di una forza cosmica che mantiene l’universo. Essa vibra con la totalità delle cose. L’anima non è mai del tutto separata, indipendente: essa agisce come frammento della totalità universale. I filosofi hanno concepito un’anima del mondo (teorizzata specialmente da Platone nel “Timeo”). Platone ha ipotizzato (sulla base della concezione pitagorica) la struttura armonica dell’anima, la costituzione matematica fondata su rapporti numerici determinati. Per la concezione cristiana, l’anima è infusa direttamente da Dio al momento del concepimento dell’individuo umano. Dio infonde una parte di sé medesimo alla persona. Ciò che caratterizza l’individuo come persona umana è quest’anima che è parte stessa della natura divina. La partecipazione dell’anima alla struttura cosmica permette, quindi, di ipotizzare le più varie e complesse forme di collegamento dell’anima con le svariate sostanze e strutture dell’universo. Questi aspetti sono specialmente indagate dalla cultura rinascimentale, che ha cercato di mettere in rilievo le complesse connessioni tra il “macrocosmo” e il “microcosmo”, le forme del rispecchiamento dell’universo nell’anima umana. In particolare, per questa via, si è cercato di individuare le forme o i tipi di energia dell’anima e le modalità attraverso le quali l’anima può recepire e accogliere le forme dell’energia dell’anima cosmica ed esprimerle ed esercitarle attraverso una sapiente attività “magica”. La magia si basa su questa connessione, sulla capacità di utilizzare le energie cosmiche attraverso lo sviluppo delle facoltà dell’anima individuale. Più recentemente Jung ha ripreso questa tematica, risalendo alle forme “archetipe” comuni all’anima cosmica e a quella dell’individuo umano. A una tale concezione dell’anima sono collegate anche le esercitazioni diffuse nelle culture orientali, di disciplinamento delle energie psichiche allo scopo dell’elevazione spirituale, cioè del raggiungimento di forme di armonia coincidenti anche con forme di felicità e serenità personale. Liberare l’anima dalle passioni è stato anche un intento delle filosofie occidentali (si pensi, ad esempio, a Spinoza). Tale liberazione, in ultima analisi, avviene attraverso l’instaurazione del dominio esclusivo della ragione. Razionalizzare l’anima, in questo senso, appare come lo scopo essenziale. E ciò vuol dire razionalizzare l’umanità, giungere al modello dell’umanità razionale. Ma ciò non dovrebbe significare una riduzione unidimensionale della complessità dell’anima. L’anima è estremamente complessa e molteplice. Per quanto noi cerchiamo di ridurla, essa riemerge in forme varie e con manifestazioni anche imprevedibili e nuove. Noi non ne riusciremo mai a chiarire il mistero, a comprendere la dimensione profonda. Anima e Persona. Un percorso attraverso il riconoscimento della persona umana. “Anima” è il principio dell’individualità umana, ciò per cui viene ad esistere l’individuo umano. In qualche modo essa racchiude lo stesso “destino” dell’individuo: lo plasma nei suoi caratteri, nella sua fisionomia, nei suoi tratti fisici, dunque, ne fa un’unità psico-fisica. Essa, dunque, ne determina la struttura profonda, in base alla quale si configurano gli atteggiamenti esteriori, gli umori, i modi d’essere, le passioni, i comportamenti. Ogni individuo sostanzialmente altro non è che la sua “anima”. All’anima spetta determinare ciò che l’individuo è. Da essa dipendono i comportamenti, le azioni, le decisioni, i pensieri, i sentimenti. L’anima, come dice Platone, può avere una dose più o meno ampia di razionalità. Così c’è l’anima impulsiva e c’è quella razionale: c’è l’individuo che agisce quasi d’istinto (d’impulso) e quello che agisce riflettendo e meditando, facendo dipendere ogni decisione da argomentazioni e ragionamenti. L’anima è lo specchio dell’intera personalità. Dai comportamenti esteriori si conosce il tipo di anima che fonda la personalità. Gli antichi filosofi si domandarono quale fosse la sostanza di cui è costituita l’anima. Essi la intesero come una corrente vitale, cioè come una sostanza particolarmente fluida, come un “soffio”, tale da potere compenetrare il corpo e diffondersi per esso. Dunque la intesero come un’energia attiva. Eraclito, ad esempio, la concepì come un fuoco vivo, come una corrente di calore, una specie di energia attiva. E disse che noi conosciamo le manifestazioni esterne dell’anima, ma non ne conosciamo la struttura, tanto che non riusciamo a sondarne la profondità. In questo senso, l’anima non si può fare coincidere con la coscienza, che è solo una manifestazione di essa oppure una parte o un’attività particolare. Molte forme
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dell’attività dell’anima rimangono oscure, non pervengono alla coscienza, sono tali per cui noi non ne abbiamo la consapevolezza. La struttura dell’anima ci è in massima parte nascosta. Tanto difficile è conoscere l’anima che Platone la rappresenta con un mito: il famoso mito del cocchio guidato dall’auriga e trainato dai due cavalli, quello docile (della volontà) e quello indocile (dell’impulso vitale). Questo mito è, ovviamente, un’approssimazione alla verità. Noi possiamo semplicemente farci un’idea approssimativa della natura dell’anima. Essa rimane uno degli oggetti più misteriosi e oscuri. Indagare noi stessi rimane la cosa più difficile. Ognuno deve, tuttavia, cercare di esercitare questa indagine, deve cercare di conoscere se stesso. Questo è il grande insegnamento di Socrate, che, in questo senso, attua la grande rivoluzione interiore, la svolta dell’indagine filosofica dal campo dei fenomeni fisici (dalla Physis) a quello delle manifestazioni psichiche (alla Psyke). L’uomo deve conoscere se stesso per potere edificare meglio lo stato. Così Platone intese delineare lo stato ideale in rapporto alla costituzione dell’anima. Il nucleo centrale dell’anima consiste nella razionalità. La conoscenza razionale riguarda le essenze reali, le cose in ciò che veramente sono. La conoscenza di sé si proietta nell’indagine intorno all’essenza delle cose. Conoscere se stessi vuol dire misurare la capacità conoscitiva di sé, dunque attuare la razionalità come strumento di conoscenza delle cose. Il riconoscimento dell’uomo come anima razionale costituisce la grande scoperta di Socrate. Del resto, questa costituzione razionale è già prefigurata nella rappresentazione mitologica dell’apollineo come dimensione dell’uomo. La prima intuizione della struttura dell’anima è, infatti, quella espressa dalla mitologia. Le figure delle divinità sono aspetti dell’anima dell’uomo. A quest’anima appartengono sensibilità, intelligenza, capacità tecnica, razionalità. L’altro aspetto della rappresentazione mitologica riguarda il dionisiaco, cioè la profonda radice che lega l’anima alla totalità dell’essere. L’anima, individualizzata nella persona, in realtà fa parte di una forza cosmica che mantiene l’universo. Essa vibra con la totalità delle cose. L’anima non è mai del tutto separata, indipendente: essa agisce come frammento della totalità universale. I filosofi hanno concepito un’anima del mondo (teorizzata specialmente da Platone nel “Timeo”). Platone ha ipotizzato (sulla base della concezione pitagorica) la struttura armonica dell’anima, la costituzione matematica fondata su rapporti numerici determinati. Per la concezione cristiana, l’anima è infusa direttamente da Dio al momento del concepimento dell’individuo umano. Dio infonde una parte di sé medesimo alla persona. Ciò che caratterizza l’individuo come persona umana è quest’anima che è parte stessa della natura divina. La partecipazione dell’anima alla struttura cosmica permette, quindi, di ipotizzare le più varie e complesse forme di collegamento dell’anima con le svariate sostanze e strutture dell’universo. Questi aspetti sono specialmente indagate dalla cultura rinascimentale, che ha cercato di mettere in rilievo le complesse connessioni tra il “macrocosmo” e il “microcosmo”, le forme del rispecchiamento dell’universo nell’anima umana. In particolare, per questa via, si è cercato di individuare le forme o i tipi di energia dell’anima e le modalità attraverso le quali l’anima può recepire e accogliere le forme dell’energia dell’anima cosmica ed esprimerle ed esercitarle attraverso una sapiente attività “magica”. La magia si basa su questa connessione, sulla capacità di utilizzare le energie cosmiche attraverso lo sviluppo delle facoltà dell’anima individuale. Più recentemente Jung ha ripreso questa tematica, risalendo alle forme “archetipe” comuni all’anima cosmica e a quella dell’individuo umano. A una tale concezione dell’anima sono collegate anche le esercitazioni diffuse nelle culture orientali, di disciplinamento delle energie psichiche allo scopo dell’elevazione spirituale, cioè del raggiungimento di forme di armonia coincidenti anche con forme di felicità e serenità personale. Liberare l’anima dalle passioni è stato anche un intento delle filosofie occidentali (si pensi, ad esempio, a Spinoza). Tale liberazione, in ultima analisi, avviene attraverso l’instaurazione del dominio esclusivo della ragione. Razionalizzare l’anima, in questo senso, appare come lo scopo essenziale. E ciò vuol dire razionalizzare l’umanità, giungere al modello dell’umanità razionale. Ma ciò non dovrebbe significare una riduzione unidimensionale della complessità dell’anima. L’anima è estremamente complessa e molteplice. Per quanto noi cerchiamo di ridurla, essa riemerge in forme varie e con manifestazioni anche imprevedibili e nuove. Noi non ne riusciremo mai a chiarire il mistero, a comprendere la dimensione profonda.
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Prospettive dell’unificazione del sapere Uno dei fattori (forse il principale) dello straordinario sviluppo scientifico (delle scienze sperimentali) negli ultimi due secoli è indubbiamente costituito dalla collaborazione tra l’elaborazione teorica di modelli d’interpretazione dei processi fisici e lo sviluppo della ricerca sperimentale. In questo processo un ruolo non secondario e trascurabile è stato svolto dalla filosofia della natura, con i suoi tentativi di interpretazione unitaria dei fenomeni relativi ai diversi campi d’indagine. La progressiva assimilazione della chimica, ad esempio, all’area della fisica rappresenta un esempio di questa reciproca integrazione di campi diversi sotto un denominatore comune. Sappiamo della notevole unificazione dei campi relativi alla meccanica, all’elettromagnetismo, alla chimica. E sappiamo quali grandi contributi ha recato l’elettromagnetismo alla conoscenza delle trasformazioni registrate nello studio dell’evoluzione dell’universo e nell’elaborazione di modelli relativi alla formazione dell’universo stesso. La relatività generale rappresenta l’esempio più significativo di unificazione relativa a famiglie di fenomeni apparentemente eterogenei. Si va, dunque, verso una visione unitaria dei processi fisici? Se è così, la filosofia della natura potrà avere ancora un posto nel sistema scientifico attuale. Spetterà a tale disciplina elaborare modelli unitari di spiegazione dei fenomeni. Non solo scienze come la fisica e la chimica sono destinate a costituire, forse in tempi non lunghi, una sola area disciplinare, ma lo sono anche le cosiddette scienze umane e sociali, come l’antropologia, la sociologia, la psicologia. Spetterà comunque alla filosofia il compito di disporre domande e questioni lungo questo cammino e a mano a mano che le singole scienze perverranno a sintesi unitarie. Che cosa vuol dire, ad esempio, che il tempo non è una grandezza (o dimensione) univoca e che non vo è neppure un univoco spazio, ma che esistono diversi modelli spaziali, propri delle diverse geometrie? La filosofia non ha lo scopo di mettere in rilievo i caratteri dello spazio in generale, di quello spazio, cioè, che non è proprio di una determinata geometria ma che tutte le comprende? Comunque sia, si tratta di una questione filosofica (mentre la specifica scienza geometrica ha a che fare con una specifica determinazione (o figura) dello spazio in generale). Eraclito, il sapere unitario e il sapere enciclopedico, il linguaggio della filosofia. Eraclito polemizzava con i pitagorici che apparivano come i sostenitori di un sapere molteplice, enciclopedico, mentre egli si ergeva come il vero filosofo, autore di un pensiero come espressione dell’unico logos. In realtà anche i pitagorici andavano verso l’interna costituzione delle cose e superavano il piano della semplice empiria, attestante l’esistenza delle cose e limitata alla loro descrizione estrinseca. Eraclito era più radicale. I sensi non ci danno la costituzione delle cose e specialmente non ci consentono di comprendere la dialettica, per cui i contrari formano strutture unitarie nel loro sviluppo. E’ ancora possibile una “concezione del mondo”? Come è noto, la cultura del Novecento è caratterizzata in modo preminente dall’eccessiva (o alta) specializzazione delle discipline in cui si articola il sistema delle conoscenze. La specializzazione raggiunge tali livelli e in manifesta in tali modalità, per cui risulta difficile, spesso, un confronto (o un dialogo) tra le diverse sfere del sapere, in quanto ciascuna di queste si serve di un linguaggio incomprensibile per le altre e costituito come un sistema simbolico di elementi cognitivi specifici. La costituzione di linguaggi altamente specializzati oggi sancisca, in realtà, quella “divisione” del sapere che, per i livelli raggiunti, impedisce ormai di sperare in una possibile riunificazione. L’unità del sapere rappresenta ormai un mito del passato. Ma a che è dovuta l’estrema parcellizzazione del conoscere? Soprattutto a motivi intrinseci alla metodologia della ricerca scientifica. I progressivi livelli verso i quali questa è spinta determina l’uso di modelli sofisticati, distinti da un notevole tasso di elaborazione teorica. I modelli sono stati disposti come approfondimenti teorici in ambiti specifici, al di fuori di ogni problematica relativa a una ipotetica “unificazione delle scienze”. In tale situazione, il problema di una possibile unità del sapere implica il progressivo superamento dei modelli settoriali attraverso la messa in rilievo dei termini comuni. Il superamento non può avvenire a livello metodologico, bensì può riguardare, ad esempio, quei caratteri che oggi investono tutte le scienze (anche sul piano della funzione delle scienze nella società). Si tratta di uscire dallo specialismo puramente
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metodologico e di guardare agli aspetti più generalmente culturali e significativi. Si vedrà allora che le diverse scienze concorrono a uno scopo comune, che è la progressiva liberazione dell’uomo dai processi di alienazione e reificazione, dai (ancora forti) residui conflittuali, dalle inadeguatezze politiche e così via. Le scienze stesse hanno il compito di rispondere a queste esigenze, oltre a quelle che sono direttamente connesse con l’autonomo sviluppo disciplinare (con i conseguenti risultati di allargamento del sapere). L’unità del sapere riguarda, quindi, in primo luogo lo scopo comune verso il quale è indirizzata ogni ricerca e ogni conoscenza scientifica. E tale scopo è il miglioramento delle condizioni generali del mondo, la fondazione dell’umanità libera, la costituzione della comunità planetaria, l’arricchimento spirituale degli individui e dei popoli. Enzo Paci, in Idee per una enciclopedia fenomenologica, avanza alcune proposte per rispondere all’esigenza attuale di unificazione del sapere. Questo problema ha il suo esatto rispecchiamento nell’altro, oggi preminente, che riguarda il dialogo fra le culture e i popoli. In entrambi i casi, si tratta di considerare (e gestire) la questione col massimo spirito di apertura. Si tratta specialmente di ascoltare e capire le ragioni degli altri, di non partire col proposito (più o meno manifesto) di imporre la propria egemonia. Si tratta, per ognuno, piuttosto di recare i contributi della propria specificità all’arricchimento del patrimonio mondiale di sapere, di consapevolezza, di capacità progettuale dell’umanità. In questo senso va salvaguardata la specificità dei contributi e degli ambiti nei quali questi vengono recati. Ogni “unificazione” o “totalizzazione” va considerata provvisoria e interamente calata nella situazione storica. Qui entra in giuoco la dialettica del rapporto tra totalità e parti: ogni parte contiene la totalità e questa trascende le singole parti e promuove e indirizza il loro incontro, la loro sintesi.i In questo senso, l’unificazione sarà tanto più possibile in quanto le più diverse sfere disciplinari saranno in grado di confluire insieme nella elaborazione di proposte sintetiche di soluzione dei problemi. Il senso di verità è connesso con la maggiore assunzione di consapevolezza: gli uomini, cioè, via via imparano a impostare meglio i problemi e a risolverli. Non si danno verità per sé, che siano definitive ed esclusive. Come già osservava il sofista Protagora, vi sono discorsi “migliori” e discorsi “peggiori”: i primi sono quelli che mettono pace e armonia tra gli uomini, aiutano, quindi, le città a vivere e crescere nell’ordine; gli altri, invece, accrescono e acuiscono le controversie in quanto parlano in nome di “concezioni del mondo” e di “verità” generali e rivendicano a sé il possesso della vera scienza. I buoni discorsi sono quelli che sollecitano il concorso degli altri e non respingono forme proficue di collaborazione. Generalmente i discorsi migliori sono quelli maggiormente ragionevoli. Insieme si cammina verso forme più vere di discorso umano. Il che vuol dire che, se le attuali forme di discorso sono piuttosto chiuse e refrattarie al confronto, esse hanno la probabilità che in altri contesti possano migliorare e da “peggiori” diventare “migliori”. Migliorare i propri discorsi e rendere più ragionevoli le proprie proposte e le proprie idee deve essere l’imperativo etico di ogni soggetto che vive in società. Per l’uomo, infatti, nulla è definitivo, nessuna “verità”è assoluta. Perfino Hegel riconosceva, in definitiva, che il proprio “sistema” potesse essere aggiornato in rapporto allo sviluppo spirituale dell’umanità. La stessa dialettica ha un carattere storico. I termini che concorrono in determinate sintesi non sono sempre gli stessi. E ciò che per un’epoca storica è “sintesi”, per un’altra epoca è “tesi” o “antitesi”. Si tratta di termini, infatti, ai quali appartiene una certa ragionevolezza, una modalità variabile d’essere razionali. Paci, perciò, osservava che “l’unificazione del sapere è in funzione del significato di verità e cioè di un orizzonte teleologico al quale tendono tutte le scienze e tutte le forme della cultura” (p. 469). D’altra parte, è da tenere presente che ogni scienza è il risultato di operazioni mentali che hanno alla loro base qualcosa di comune, sebbene, con la progressiva assunzione dei caratteri di operazioni specialissime, tendono a separare i propri campi di sviluppo. Alla base di tutte le operazioni scientifiche vi è l’uomo intero, così come alla base di ogni scopo che l’uomo stesso si prefigga. Perciò il sapere, per quanto parcellizzato, separato, ha alla base della sua costituzione strutture unitarie che riguardano l’esistenza umana.i La fenomenologia riguarda le strutture fondanti essenziali, le “essenze” proprie, si potrebbe dire, di ogni sfera culturale, dunque le “logiche” che presiedono alle diverse operazioni mentali e i criteri metodologici che via via vengono a precisarsi. Si parte da strutture semplici e generali per approdare a strutture specialissime e particolarissime. La fenomenologia, che riguarda le strutture di base e, ancora più a fondo, la base comune di tutte le strutture operative, è già di per sé una disciplina dell’unificazione e dell’unità. Può accadere che tale base comune, piuttosto che oggetto
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di analisi razionale, si riveli come la sfera del mito, della leggenda, dell’intuizione poetica. Questi “testi” (o “logoi”) parlano di ciò che è comune (l’idios logos di Eraclito), dunque di matematica che è anche teologia, di scienza e di opinione.i Vico pensava a una “sapienza” come unificazione del sapere, articolato nelle diverse “discipline”. E queste sono modalità di atteggiamenti della mente, atteggiamenti e disposizioni mentali e spirituali.i Discipline sono le varie scienze particolari, sapienza è la metafisica, che riguarda i principi comuni delle cose. Qui è posto il problema dell’unità del sapere. La scienza che svela il significato di ogni sapere riguarda la struttura e l’articolazione della mente. Essa è l’autoconsapevolezza di cui l’uomo è dotato: è, cioè, la scienza stessa in quanto sapere dell’uomo, che, appunto, sa se stesso, pensa e conosce il proprio essere. L’uomo conosce se stesso in quanto ente unitario, unità di “mente e animo”, “intelletto e volontà”. Vico ricorda che la mente è l’intelletto e che l’animo è la volontà, ma intende rilevare che tali facoltà concorrono all’unità organica dell’individuo umano. Vico, altresì, colloca le “arti” sul piano stesso della conoscenza, in quanto esse concorrono a costituire l’umanità. La volontà, illuminata dalla conoscenza, diventa strumento dell’operare. Ma tutte le discipline e tutte le arti (attività pratiche, tecniche) sono sottoposte al governo esercitato dall’intelletto, dalla ragione. Vico, in questo senso, pensava a una “paideia” che ugualmente concorresse a formare l’intelletto e la volontà. La sapienza sovrintende a ogni operazione intellettuale e conoscitiva e a ogni iniziativa pratica. Di tale natura è, secondo Vico, la sapienza poetica. Dalla sapienza dei poeti teologi dell’antichità derivavano tutti gli indirizzi della vita civile: gli ordinamenti delle comunità, le opere, i discorsi, il fare quotidiano. Una struttura comune sta, dunque, alla base delle diverse attività umane. I rudimenti delle scienze, della matematica e dell’astronomia, della fisica e della geografia, e così via, provengono dagli stessi rami, sono frutti dell’unico e medesimo albero. Si tratta, per tutte, di aspetti dell’umano conoscere, che, a sua volta, non che il fare profondamente unitario. In questo senso il vero coincide col bene. Vico polemizza contro la “logica degli addottrinati”, cioè contro lo scadere delle scienze a discorsi astratti, eccessivamente tecnici e chiusi nei loro specialismi. Gli eruditi coltivano le scienze per se stesse, non badano al loro significato per l’umano incivilimento.i Ciò che dà senso a tutte le conoscenze, a qualsiasi branca appartengano, è l’unità del sapere. Vico ricorda che le parole “poiein” (fare), “poiesis” (poesia, linguaggio, parola) hanno la stessa radice: dire, parlare, e fare, agire si riconducono a una sola espressione dell’uomo, all’atto per cui l’uomo fonda via via se stesso. La sapienza poetica è principalmente mito, rappresentazione delle forme del fare (e dell’essere) umano. Gli uomini conoscono nel momento stesso in cui agiscono. Abbiamo qui la più stretta unità di teoria e prassi: i miti sono figure e verità da contemplare, in quanto rappresentano le forme costanti del mondo e dell’uomo; ma sono, insieme, modi dell’agire, simboli esemplari che si traducono nell’agire quotidiano. Il mondo come “rappresentazione” è il risultato dell’estrema scissione di attività teoretica e attività pratica, cioè del sapere come “giudicare” e “riflettere”. Husserl opportunamente cerca di ricondurre la riflessione filosofica a quella condizione che precede il giudicare secondo categorie generali: il “precategoriale” non è altro che l’unità di conoscenza e azione di cui parlava Vico. Il maggiore filosofo italiano del Settecento ci riporta molto indietro, all’età del “senso”, allorché la grammatica non era stata ancora definita nel suo carattere di “critica” dell’attività del parlare. Ovviamente gli uomini parlavano senza conoscere la grammatica. Ciò era possibile in quell’età, allorché l’attività del parlare faceva tutt’uno con l’agire pratico.i L’età della ragione costituisce, pertanto, l’estremo sviluppo della facoltà di distinguere, di separare, di identificare. Questa facoltà era altamente sviluppata come fondamento della cultura greca (dello “spirito apollineo”). Il segno caratteristico di questa facoltà è la grammatica come sistema della lingua costituita da esatte funzioni attribuite alle parole. Il mondo della ragione comprende un mondo di enti identificati come modi dell’essere, cioè come entità forniti di esistenza propria, indipendente dall’attività umana. Nell’età del senso le cose sono i termini dell’attività dell’uomo, del “sentire”: esse sono in quanto “sentite”, in quanto sono termini dell’attività del sentire. In un mondo siffatto si riconoscono strutture e forme universali dell’essere. Le cose sono universalmente riconosciute per ciò che esse sono indicate nei termini linguistici corrispondenti: nessuno può negare che un tavolo sia quello che tutti intendono per tale. L’attività sensibile, sia pure anch’essa dotata di caratteri comuni, riconosciuti da tutti, si svolge su un piano essenzialmente soggettivo, variabile da individuo a individuo.
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La fenomenologia si propone di stabilire le corrispondenze tra i diversi livelli dell’attività mentale, principalmente tra il senso (e la fantasia) e la ragione. Il “ritorno” all’unità (propria dell’età del senso) si rende necessario allorché s’intende lo svolgimento della storia umana come processo di perfezionamento, per cui il fine della storia è la formazione dell’umanità “completa” (“compiuta”, secondo il termine usato da Vico). Ora, secondo Vico, ogni avanzamento implica il ritorno all’origine e alle fasi primitive secondo lo schema dei “ricorsi storici”. Si tratta di un “ritorno” che non implica il meccanico ricostituirsi della condizione di “barbarie”, ma che si presenta come un particolare modo di rivivere (o di “rimemorare”) quel passato lontano senza perdere i risultati del più recente incivilimento. In tale visione, le scienze non vanno dissolte ma permangono a costituire le strutture interne del sapere unificato (ricostituito secondo l’identità di teoria e prassi). Sappiamo, d’altra parte, che la sfera economica conserva, più di ogni altra i caratteri dell’unità di teoria e prassi: essa è principalmente “prassi”, attività produttiva, che si riproduce (come ha rilevato Marx) nella dinamica dei rapporti sociali.
Fare i conti con Dio: il pensiero moderno e il problema dell’ateismo All’uomo è data la libertà di credere in Dio. Il bisogno di tale credenza appartiene alla costituzione finita dell’esistenza. L’uomo, riconoscendosi limitato, provvisorio, mortale, tende a superare, in qualche modo, tale situazione, pensando di accedere all’infinità, all’eternità, all’immortalità per via di partecipazione. Nasce così la fiducia in un’altra forma di esistenza, che costituisca un riscatto di quella limitata, angusta e problematica che è data dalla natura. Si delinea l’idea di un “regno di Dio”, eternamente glorioso, al quale si è ammessi dopo l’esperienza del duro itinerario terreno. Indubbiamente Dio rappresenta una risposta radicale ai molteplici dubbi, agli interrogativi che provengono dall’esistenza. Ma molteplici sono state le obbiezioni sollevate nei riguardi di questa fondamentale credenza. Già Platone ne dava un elenco essenziale, avvertendo che una prima forma di ateismo è il naturalismo materialistico, che esclude che l’universo faccia capo a un‘intelligenza creatrice e ordinatrice, mentre atei sono anche coloro che sostengono che la divinità non si occupa del mondo e dell’uomo e viva in una beatitudine assolutamente separata dall’universo, e neppure si elevano al concetto di Dio coloro che lo ritengono dispensatore di favori e tale da gradire doni e preghiere dagli uomini.i In questi casi, tuttavia, bisognerebbe parlare di inadeguate rappresentazioni e concezioni della divinità. Come sappiamo, per Platone la divinità si identifica col principio o fondamento de reale, col Bene socratico, intelligenza che costituisce e fonda l’ordine ideale sul cui modello è strutturato l’universo sensibile. In base alla distinzione platonica, forme di ateismo sono anche lo scetticismo e il panteismo, il primo in quanto dichiara l’incomprensibilità del concetto della divinità come forma di individualità costituita in difformità di tutti gli esseri viventi e intelligenti, che dunque non sia quella degli uomini e degli enti finiti e mortali,i il secondo in quanto fa coincidere Dio con la natura e non è disposto a riconoscergli una forma e una realtà autonoma. Al panteismo si può accostare la concezione che fa coincidere Dio con l’ordine morale del mondo.i Schopenhauer ha invece fondato l’ateismo sul pessimismo. Su una concezione pessimistica e tragica dell’esistenza si basa l’ateismo di Sartre, per cui “se Dio esiste, l’uomo è nulla”.i Per Nietzsche, Dio è un’invenzione umana, con la quale s’intende esorcizzare la verità tragica intorno alla finitudine dell’uomo e del mondo, per cui la “morte di Dio” si configura come la condizione per la costruzione del superuomo (il quale non vive più di illusioni, ma considera la realtà nella sua vera essenza, come divenire senza scopo e senza senso).i Per Feuerbach e Marx, l’ateismo è il presupposto per restituire all’uomo alienato la sua piena realtà. Per i neopositivisti, lo stesso concetto di Dio risulta privo di significato, poiché sfugge a tutti i procedimenti di verifica logica ed empirica. Si può dire che l’ateismo costituisce il termine generale di confronto di tutte le correnti e gli atteggiamenti culturali e spirituali dell’età moderna e specialmente della contemporaneità. Augusto Del Noce, in un saggio che presto è divenuto il punto di riferimento per ogni riflessione e indagine sulla determinata questione che era affrontata, metteva in rilievo come il concetto di ateismo costituisse quasi una via obbligatoria per comprendere il carattere fondamentale dell’epoca moderna
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(configurata come compimento della modernità).i Questa, infatti, si presenta come l’età in cui si è compiuto (ed è stato portato, dunque, alle sue estreme conseguenze) il processo di secolarizzazione, che ormai ha toccato tutti i campi della cultura, della società, della politica, straripando in modo inarrestabile dall’alveo più proprio, cioè quello della vita e dell’esperienza religiosa. Un evento che avrebbe dovuto riguardare essenzialmente i modi di coniugazione della fede si è rivelato di una portata generale, tanto da investire lo stesso stile di vita dei nostri tempi. Opportunamente il Del Noce osservava che il problema dell’ateismo doveva essere fatto oggetto di riflessione nel campo della filosofia (come teoresi) e della storia del pensiero. In primo luogo, infatti, l’ateismo si presenta come l’affermazione di concezioni filosofiche (o di ideologie) che intendono fare a meno (e dunque di eliminare dal proprio contesto) dello stesso problema di Dio, della sua esistenza e del suo ruolo per il significato del mondo. Neppure, dunque, ormai, si ritiene opportuno o necessario procedere a dimostrare l’inesistenza di Dio, secondo i modelli che attraversano la stessa cultura moderna; la negazione di Dio è assunta come un fatto, dunque come qualcosa di connaturato alla cultura propria dei nostri tempi e di cui non occorre neppure discutere. Nel vecchio senso dell’ateismo, la negazione di Dio comportava un peso e una responsabilità, era vissuta con un senso tragico che si ripercuoteva sulla coniugazione dell’esistenza. L’ateo, in questo senso, viveva nella sua esperienza l’evento della “morte di Dio” e la rimozione del problema teologico (pur quando fosse il risultato di un’operazione culturale di un certo rilievo) comportava una situazione problematica di notevole spessore. Oggi, invece, l’assenza di Dio dal contesto della nostra cultura e della nostra vita non è sentita come un problema; è assunta come un dato di fatto che non comporta conseguenze rilevanti per la nostra condizione umana. L’ateismo tradizionale si alimentava dalla continua operazione per cui s’intendeva continuamente e insistentemente dimostrare l’inesistenza di Dio. Il marxismo, l’immanentismo, il liberalismo, il nichilismo in tanto significavano modelli di vita e d’esistenza in quanto assumevano come loro principio (nell’ambito della generale concezione del mondo) la rimozione del concetto di Dio, dunque la fondazione (all’interno del loro sistema culturale) dell’ateismo, come componente ideologica fondamentale. Nel contesto odierno non si pone nessuna esigenza di negazione o di dimostrazione: l’assenza di Dio è certificata ora come un dato puramente storico e “pratico”. La civiltà stessa sembra arrivata a un punto per cui non si rende più necessaria nessuna istanza religiosa, nonché ateistica. Bisogna, pertanto, andare alla radice di tale situazione, verificare a che cosa, a quali fattori, è da attribuire questa eventualità storica. Indubbiamente si può risalire alle conseguenze del generale processo di secolarizzazione. Questo processo si è verificato come una progressiva rimozione della presenza di Dio dal contesto culturale, politico, sociale. In parte, si può risalire anche all’affermazione di concezioni del mondo relativistiche, antimetafisiche, pragmatistiche. La crisi dei “valori” e del “fondamento” ha indubbiamente la sua parte di responsabilità nella determinazione di un orizzonte ateistico. In tale situazione, caratterizzata da un generale indifferentismo teoretico o anche semplicemente ideologico, la cosa da fare, nel senso della responsabilità della filosofia, in quanto ricerca e interrogazione sul senso della nostra condizione storica, cioè sulla consistenza dell’attuale eventualità, sarebbe di riproporre la questione sul piano della indagine, della domanda, della problematicità. Il filosofo ha il compito di esaminare il senso della situazione culturale in cui si trova e della quale fa parte. Perciò si tratta, in primo luogo, di fare in modo che nel contesto della nostra cultura emerga con la dovuta forza la questione dell’ateismo. Il filosofo ha il compito di riportare all’evidenza dell’esame e della discussione (anche del confronto leale e del dialogo) problemi apparentemente nascosti o rimossi, anche per evitare il pericolo che tali questioni improvvisamente emergano in forma problematica tale da comportare processi di crisi o situazioni contraddittorie da cui risulta difficile uscire e tali da apparire pressoché insuperabili. La questione non è, infatti, di quelle deboli o secondarie. Il Del Noce richiamava al coraggio della filosofia di farsi carico di tale questione. La filosofia, egli osservava, è divenuta debole e rinunciataria, specialmente non è capace di valutare la portata “pratica” di alcune posizioni teoretiche pur emergenti. La scissione di teoria e prassi sembra dunque uno dei motivi per cui una questione così importante e decisiva non viene affrontata. Il Del Noce auspicava, dunque, una offensiva filosofica, sul piano della teoresi (ma una teoresi riagganciata alla prassi), rivolta a riportare la questione dell’ateismo sul piano del dibattito, della argomentazione e della dimostrazione. Egli riconosceva che il marxismo era la filosofia da richiamare alla sua funzione storica di punto di riferimento delle ideologie ateistiche; ed era convinto che sul piano di una
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rigorosa dialettica esso avrebbe evidenziato i suoi limiti, le sue contraddizioni, il “deficit” metafisico non indifferente rispetto alle stesse risposte che, sul piano dell’esperienza religiosa, sono state reclamate, come la tradizione storica dimostra, quasi continuamente, per cui la modernità razionalistica rappresenta un’eccezione, una deviazione rispetto alla linea sempre riproposta con rinnovata vitalità. L’ateismo è ricondotto alla radice del razionalismo moderno e, in modo particolare, agli esiti che questo ha avuto nel marxismo e nell’umanesimo di Feuerbach. In queste posizioni il razionalismo celebra il suo risultato estremo, con l’idea dell’emancipazione umana e la reintegrazione della natura umana alienata attraverso la religione e la credenza in Dio. Si tratta di portare alle estreme conseguenze il processo di superamento dell’alienazione attraverso la religione, in modo da lasciare esplodere i limiti e le contraddizioni di un’umanità senza Dio e ridotta alla condizione di sostituire Dio stesso. Le contraddizioni tra il finito e l’infinito, tra l’esistenza limitata che appartiene all’uomo e l’essenziale infinità di Dio sono destinate a esplodere, prima o dopo, inevitabilmente. Del Noce, così, intende dimostrare che il ritorno a Dio (o il ritorno di Dio) è una necessaria conseguenza dello stesso processo storico e culturale che sta alla base dello sviluppo della modernità. Il superamento dell’ateismo sarà, così, una logica conseguenza dello sviluppo estremo delle tesi ateistiche. Del resto, il processo di secolarizzazione che attraversa la modernità si è dovuto continuamente confrontare con le istanze religiose via via emerse. Basti pensare a personalità come Pascal, Malebranche, Vico, Rosmini. Cornelio Fabro, a sua volta, ha individuato la radice dell’ateismo moderno nella eliminazione nella filosofia moderna del principio di trascendenza e nella generale adozione dell’immanentismo.i Il principio d’immanenza sarebbe stato introdotto da Cartesio, con la sua pretesa di assumere l’io pensante, la coscienza o la mente umana, come il fondamento di ogni certezza. Cartesio avrebbe veramente già attuato la rivoluzione idealistica, che pone come fondamento della realtà l’io e risolve ogni reale nell’oggetto del pensiero. Dio stesso avrebbe, in questo senso, la sua base nella coscienza umana, poiché in essa trova la sua dimostrazione. Lungo la linea di sviluppo del soggettivismo moderno, Hegel rappresenta, secondo Fabro, il culmine dell’immanentismo, l’esaltazione estrema della storia umana, “la proclamazione più radicale e intensa del regnum hominis inteso come esclusione di Dio”, dunque la forma più radicale di ateismo. Il marxismo avrebbe ulteriormente umanizzato il mondo, escludendo ogni traccia di fondamento metafisico e assumendo come reale il finito, l’esistenza nelle sue forme concrete e nella sua dialettica storica. Il Fabro considera l’ateismo come l’essenza stessa del pensiero moderno, come la “verità” più o meno esplicita che lo attraversa e che lo configura come una riflessione sull’attività della coscienza e sulle possibilità dell’uomo di essere il suo mondo stesso. Come riconosce lo stesso Fabro, nel mondo moderno (ma anche nelle epoche precedenti) l’ateismo ha finito per connotare polemicamente correnti e atteggiamenti spirituali che propriamente sono ben lontani da questa prospettiva o visione della realtà. Sono stati accusati di ateismo Bruno e Spinoza, in quanto panteisti, Hobbes materialista, Hume, in quanto scettico e relativista, Fichte e Hegel immanentisti. E così atei sono stati considerati gli Epicurei e gli Stoici, e, andando indietro, anche Socrate (che fu anche processato) e Platone. Sulla base del principio di trascendenza diventano atee anche molte forme di religiosità, come le religioni e le filosofie orientali, l’animismo dei primitivi, e finanche alcuni filosofi appartenenti alla tradizione cristiana medievale, come Scoto Eriugena, Duns Scoto e Occam. Anche in rapporto a queste difficoltà che si presentano allorché si passa a esaminare il concetto di “ateismo”, alcuni hanno considerato l’ateismo come un atteggiamento culturale positivo e vantaggioso per gli uomini. Un filosofo di Oxford, Richard Robinson, ha inteso dimostrare che tutti i valori che quasi universalmente gli uomini riconoscono come i grandi criteri di valutazione del mondo, come la verità, la conoscenza, l’amicizia, la bellezza, la moralità, la libertà, la fratellanza umana, la tolleranza, la giustizia, la pace e la solidarietà, prescindono dalla fede religiosa e da qualsiasi prova dell’esistenza di Dio, sono cioè indifferenti nei riguardi della fede e costituiscono i fondamenti di ogni società.i La fede in un senso della vita e dell’esistenza non necessariamente scaturisce da una fede religiosa ma si riporta a un atteggiamento autonomo dell’uomo che è capace di scegliere e decidere, riconoscendo ciò che è bene per lui. Il che è dimostrato dal fatto che la distinzione tra “atei” e “credenti” ha scarsa incidenza sullo sviluppo della convivenza umana e sullo svolgimento di una armonica vita sociale.
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Invece filosofi come Fabro e Del Noce ritengono che l’ateismo, in quanto atteggiamento pratico e non solo modo di credere e di pensare relativamente all’esistenza di Dio, abbia un’incidenza rispetto all’impostazione e alla valutazione di problemi di un certo rilievo, che investono la stessa vita sociale. Il credente assume alcune posizioni che, invece, sono respinte dall’ateo (che ne assume altre decisamente diverse e opposte). Notevolmente diverse sono, poi, le risorse di tipo esistenziale per chi ha fiducia in una provvidenziale disposizione degli eventi e per chi rifiuta ogni segno o manifestazione di sacralità (salvo a rifugiarsi in forme pseudoreligiose di fede liberamente espressa). Il nesso di ateismo e marxismo, enfatizzato da Del Noce, rappresenta indubbiamente un dato storico ineludibile, che riguarda la realtà di molta parte del mondo contemporaneo. La rivoluzione sociale è stata intesa e realizzata presupponendo che la “liberazione” dovesse avvenire sul piano della coscienza, prima ancora che nel campo delle istituzioni politiche. In ciò è poggiato ogni equivoco, che ha reso difficile il dispiegamento di liberi rapporti sociali e l’esercizio della stessa libertà personale in determinati ambienti e nell’ambito di determinati “regimi”. Ovviamente, la pretesa conquista da parte dell’uomo della sua piena libertà, riguardando la complessità della situazione esistenziale, non può dipendere da un fattore storico ben delimitato e, per altri versi, costrittivo e lesivo della libertà. E se da una parte è vero che il soggettivismo moderno ha incoraggiato (se non determinato) l’ateismo, è anche vero che questo per lo più è stato il risultato di una libera scelta. Non si impone l’ateismo con la legge. Sulla questione della credenza in Dio si misura, in definiva, la consistenza della nostra libertà. Noi così possiamo vedere in quali forme ed entro quali confini si dispiega l’autonomia della coscienza. Riconoscere la libertà di credere, oggi, è diventato il principale imperativo col quale, tuttavia, ancora si scontra gran parte del mondo civile. Lottare per questo riconoscimento è un compito della filosofia: infatti si tratta di una battaglia per il libero pensiero. In questo senso si può dire ancora che la divinità ci fa liberi. Non avrebbe senso, del resto, la questione dell’esistenza di Dio, se essa non avesse un senso fondamentale per capire e conoscere il destino dell’uomo. Perciò si deve dire che Dio, piuttosto che sottrarre umanità, l’accresce e consolida, rivelandola a se stessa. In questo senso, la questione dell’ateismo rappresenta un banco di prova per lo sviluppo di una riflessione finalmente sistematica che riguardi ed esamini i molteplici aspetti del problema, con l’avvertenza che ora non si tratta di costituire domini chiusi del pensiero, bensì di instaurare le forme più aperte di dialogo.
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