Società di farmacisti e socio di capitali Parere pro veritate
Mi si chiede di rispondere, secondo verità, al seguente QUESITO:
se sia legittimo costituire una società tra professionisti, ai sensi dell’art. 10.3. della l. 183/2011, della quale siano soci persone fisiche già titolari di farmacie e una società partecipante “per finalità d’investimento” (v. art. 10.4.lett.b l. cit.). Qualora la risposta sia negativa, mi si chiede se siano prospettabili tecniche giuridiche alternative per sviluppare legittimamente un’iniziativa collettiva nel settore della gestione di farmacie che associ attività riservata ai farmacisti e apporti di capitale di rischio. 1. L’art. 10.3 della l. 183/2011 legittima esplicitamente l’esercizio in forma societaria delle professioni intellettuali, rimuovendo una risalente refrattarietà delle professioni stesse ad essere esercitate da enti collettivi, con finalità lucrativa o mutualistica. Questa refrattarietà si è alimentata (a) di un antico ed equivoco divieto testuale ricavato dalla l. 1939/1815 (oggi definitivamente abrogato dal comma 11 del citato art. 10 della l. 183/2011), (b) della accentuazione della personalità della prestazione dovuta in forza di un contratto d’opera intellettuale (art. 2232 c.c.) e (c) della riserva di iscrizione alle sole persone fisiche presente in molti albi o elenchi professionali previsti dalla legge. “E' consentita – dispone il citato art. 10.3 - la costituzione di società per l'esercizio di attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico secondo i modelli societari
regolati dai titoli V e VI del libro V del codice civile. Le società cooperative di professionisti sono costituite da un numero di soci non inferiore a tre”. La legge non fissa le condizioni d’uso della locuzione “attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico”, ma è plausibile che alla stessa debba attribuirsi un significato coincidente con quello che si ricava dai commi 1 e 2 dell’art. 2229 c.c., laddove si riserva alla legge la determinazione delle “professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi” e si demanda alle “associazioni professionali … sotto la vigilanza dello stato” “l’accertamento dei requisiti per l’iscrizione agli albi, la tenuta dei medesimi e il potere disciplinare sugli iscritti …” . Sulla base di questo assunto, può senz’altro concedersi che l’attività del farmacista sia, in principio, classificabile (a) come professione intellettuale (b) per l’esercizio della quale è necessaria l’iscrizione in appositi albi. Il che legittimerebbe la costituzione di una società per l’esercizio dell’attività in parola alle condizioni fissate dall’art. 10.3; legittimerebbe cioè la costituzione (i) di una società lucrativa o mutualistica, (ii) l’oggetto sociale della quale sia “l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale da parte dei soci” (comma 4, lett. a), (iii) questi dovendo essere “professionisti iscritti” o “soggetti non professionisti soltanto per prestazioni tecniche o finalità d’investimento”, sempreché (iv) i primi partecipino al rapporto sociale in misura pari o superiore a due terzi (comma 4, lett. b). Se così fosse, anche una società potrebbe partecipare - purché in misura suvvalente come testé precisato (non oltre 1/3 del rapporto sociale) – al sodalizio delineato dalla legge del 2011, purché non intervenga nel ciclo produttivo del servizio professionale e, dunque, contribuisca – come nel caso di cui al quesito – alla sola provvista finanziaria della società tra professionisti partecipata. 2. Si danno, tuttavia, serie ragioni che militano contro la correttezza sistematica della soluzione delineata attingendo agli enunciati legislativi di recente introduzione. Giova, innanzi tutto, sottolineare che tra le attività che – in forza dell’art. 1 della Direttiva 432/85/CE – gli Stati nell’Unione Europea “garantiscono” ai “titolari di un diploma, certificato o altro titolo universitario o di livello riconosciuto equivalente in farmacia”, si annovera
–
tra
l’altro,
ma
per
antonomasia
–
la
“preparazione,
controllo,
immagazzinamento e distribuzione dei medicinali nelle farmacie aperte al pubblico” (comma 2°). Si tratta d’un’attività che manifestamente consiste nell’intermediazione nella circolazione di beni, in un “commercio” nel senso storico e corrente del termine, piuttosto che nella prestazione di servizi intellettuali. Il che non toglie che le speciali caratteristiche
della “merce” nella circolazione della quale il farmacista s’interpone, caratteristiche evidenti nella prospettiva dell’interesse collettivo (dei cittadini) e pubblico (dello Stato) alla salute, raccomandano e giustificano uno statuto di questo commercio al dettaglio a stregua del quale esso sia riservato ad un ceto dotato di conoscenze e competenze adeguate alla prevenzione dei rischi ed al rimedio dei danni per la salute che l’accesso al farmaco (parola della quale è bene, in questo contesto, rievocare il calco etimologico in un lemma del greco antico significante “veleno”) può generare. Ed è proprio “con riguardo … [ai] rischi per la sanità pubblica e per l’equilibrio dei sistemi di sicurezza sociale [che] gli Stati membri possono sottoporre le persone che si occupano della distribuzione dei medicinali al dettaglio a condizioni severe … In particolare essi possono riservare la vendita dei medicinali al dettaglio, in linea di principio, ai soli farmacisti, in considerazione delle garanzie che questi ultimi devono offrire e delle informazioni che essi devono essere in grado di dare al consumatore …” (§ 58). Così leggesi in una sentenza della la Corte di Giustizia europea (Grande Sezione) del 19 maggio 2009 (causa 531/06). In questa prospettiva, non è negabile che nell’attività del farmacista, titolare di farmacia, coesistano opera intellettuale (nel senso che a questa espressioni può attribuirsi nel
diritto
dell’iniziativa
economica
strutturato
dal
codice
civile
sul
binomio
impresa/professione intellettuale) e intermediazione nello scambio e che sarebbe deformante e riduttivo – sia sul piano socio-economico sia su quello giuridico (come la sentenza testé citata attesta) – disconoscerne la complessità, riducendo l’attività di questa figura alla sola produzione di servizi intellettuali, onde legittimare il ricorso alla società tra professionisti della quale alla legge del 2011. Del resto, anche il testo della citata legge “resiste” alla prospettata costituzione di una società tra farmacisti per l’esercizio di farmacie, alla quale partecipi una società che apporti capitale di rischio. Le lettera c) del 4° comma dell’art. 10 della l. 183/2011 esige che l’atto costitutivo della società tra professionisti preveda “criteri e modalità affinché l'esecuzione dell'incarico professionale conferito alla società sia eseguito solo dai soci in possesso dei requisiti per l'esercizio della prestazione professionale richiesta; la designazione del socio professionista sia compiuta dall'utente e, in mancanza di tale designazione, il nominativo debba essere previamente comunicato per iscritto all'utente”; e, in ragione dissociazione così perseguita tra assunzione ed esecuzione dell’obbligazione di prestare i servizi intellettuali propri della professione di appartenenza dei soci (l’obbligazione essendo sociale quanto all’assunzione e personale quanto all’esecuzione),
il medesimo 4° comma impone (lett. c-bis) “la stipula di polizza di assicurazione per la copertura dei rischi derivanti dalla responsabilità civile per i danni causati ai clienti dai singoli soci professionisti nell'esercizio dell'attività professionale”. Orbene è evidente che rispetto ad un’attività di intermediazione nella circolazione di prodotti farmaceutici un congegno di tal fatta non avrebbe né possibilità di funzionare né utilità, nella prospettiva degli interessi mobilitati dall’esercizio dell’attività. 3. E’, conclusivamente, mia opinione, secondo verità, che titolarità ed esercizio di farmacie costituiscano
fenomeno del tutto estraneo all’orbita di applicazione della l.
183/2001 e che a questa non possa, dunque, attingersi il paradigma legittimo per conseguire l’obiettivo di associare attività riservata ai farmacisti ed apporti di capitale di rischio da parte di soggetti (persone od enti) non appartenenti all’ordine professionale. La materia (titolarità ed esercizio di farmacie private) resta, dunque, soggetta alla l. 08/11/1991 n. 362, l’art. 7 della quale dispone: a) che “la titolarità dell'esercizio della farmacia privata è riservata a persone fisiche, in conformità alle disposizioni vigenti, a società di persone ed a società cooperative … ” (comma 1); b) che “le società di cui al comma 1 hanno come oggetto esclusivo la gestione di una farmacia” e che ne “sono soci della società farmacisti iscritti all'albo in possesso del requisito dell'idoneità previsto dall'articolo 12 della legge 2 aprile 1968, n. 475 e successive modificazioni” (comma 2); c) che “la direzione della farmacia gestita dalla società è affidata ad uno dei soci che ne è responsabile” (comma 3); d) che “ciascuna delle società di cui al comma 1 può essere titolare dell'esercizio di non più di quattro farmacie ubicate nella provincia dove ha sede legale” (comma 4-bis). La conclusione che precede è confermata dalla stessa l. 183/2011, laddove questa, al comma 9 dell’art. 3, fa salvi “ … i diversi modelli societari già vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge”. Dato e non concesso, dunque, che un’iniziativa collettiva di esercizio di farmacie, alla quale partecipino farmacisti e una società “finanziatrice”, possa legittimamente svilupparsi secondo il modello della società tra professionisti, la presenza di una legislazione speciale anteriore che “riserva” la titolarità e l’esercizio di farmacie a
“società di persone” (di diritto comune, deve ritenersi nel silenzio del testo di legge) osta all’applicazione della legge generale sopravvenuta, secondo un principio attestato nel diritto c.d. intertemporale (relativo alla successione di leggi nel tempo). 4. Muovendo dalla “riserva” dell’esercizio collettivo di farmacie (private) a società di persone di diritto comune (art. 7, l. 362/1991), l’obiettivo di associare un soggetto (persona o ente) non farmacista alle sorti dell’esercizio collettivo della o delle farmacie (da intendersi come aziende di imprese di intermediazione nello scambio di farmaci) può essere conseguito ricorrendo ad un contratto di associazione in partecipazione tra il soggetto “finanziatore” e la società di persone costituita o costituenda (per esempio una società in nome collettivo) trai farmacisti. Il contratto potrà poi modulare i poteri di controllo ed i contributi decisionali dell’associato alla gestione dell’attività sociale di intermediazione nello scambio, sviluppando l’apertura all’autonomia privata ricavabile dall’art. 2552.2 c.c. A questo proposito (a proposito, dico, delle prerogative che il contratto concedesse all’associato), inclinerei a ritenere non ostativa ad un libero sviluppo dell’autonomia contrattuale (nel senso di estendere i poteri di “ingerenza” dell’associato) la “riserva” di legge alla società di persone tra farmacisti della gestione di farmacie private. Nella prospettiva dell’art. 7 della legge del 1991, l’esigenza di un esercizio dell’attività conforme ai dettami della professione farmaceutica sembra assicurata dalla nomina, trai soci farmacisti, di un “direttore” della o delle farmacie intestate e gestite dalla società, che “ne [della/e azienda/e commerciale/i specializzata/e in farmaci] è responsabile”; di una figura, cioè, che appartiene al diritto dell’impresa e che, nel linguaggio del codice civile, si designerebbe come “institore”, in quanto preposto all’esercizio dell’impresa commerciale (art. 2203 c.c.). Non senza aggiungere che la responsabilità che lo grava per legge – qualunque contenuto normativo si possa ricavare da questa parola – lo rende, diversamente dall’institore di diritto comune, indipendente dalla istruzioni di chi lo ha preposto, nella misura nella quale queste non siano conformi si dettami della sua “arte”. Fermo restando quanto appena detto sul ruolo del “direttore” della farmacia intestata ad una società di persone, non escluderei, infine, che anche operando sui patti sociali si possa dare spazio al contributo decisionale dell’associato; che, per esempio, rispetto a certe decisioni “strategiche” per l’equilibrio economico e per la redditività della farmacia, l’atto costitutivo della società possa validamente prevedere che, nel caso in cui la società associ persone o enti in partecipazione, all’associato siano attribuiti diritti di “consultazione preventiva” o, perfino, poteri di “gradimento”, condizionanti la stessa
efficacia della decisione della compagine sociale. Con la non irrilevante conseguenza di fare della voice dell’associato un presidio del di lui interesse dotato non solo di valore obbligatorio ma reale.
*** Paolo Spada