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Il Dialogo per il Dialogo
(Défense de l’Homme,1 10, giugno 1949, pp. 2-3) L’avvenire è assai cupo. Perché? Non c’è nulla da temere, dal momento che oramai abbiamo affrontato il peggio. Non restano dunque che ragioni per sperare – e per lottare. Per cosa? Per la pace. Pacifista incondizionatamente?2 Fino a nuovo ordine, resistente in assoluto – alla guerra ed a tutte le follie che ci vengono proposte. Insomma, come si dice, non siete nel gioco? Non in quello. Non è comodo. No. Ho cercato lealmente di starci. Ho provato a comportarmi da persona seria! Infine mi sono rassegnato: occorre chiamare criminale ciò che è criminale. Faccio un altro gioco. Quello del no assoluto? Quello del si assoluto. Ovviamente, ci sono persone più sagge, che cercano di accomodarsi con l’esistente. Non ho nulla contro di loro. Dunque? Dunque sono per la pluralità di posizioni. Si può fare il partito di coloro che non sono sicuri di avere ragione? Sarebbe il mio. In ogni caso, non insulto coloro che non sono sulle mie posizioni. È la mia sola originalità. Possiamo precisare? Precisiamo pure. I governanti attuali, russi, americani, talvolta europei, sono criminali di guerra, secondo la definizione del Tribunale di Norimberga. Tutti i politici di casa nostra che facciano riferimento a qualunque partito, tutte le chiese, spirituali o no, che non denunciano la mistificazione di cui il mondo è vittima, sono tutti ugualmente colpevoli. Quale mistificazione? Quella che ci vuol far credere che una politica di potenza, quale essa sia, può condurci ad una so cietà migliore in cui la liberazione sociale sarà finalmente realizzata. Politica di potenza significa preparazione alla guerra. La preparazione alla guerra, ed a maggior ragione la guerra stessa, rendono precisamente impossibile la liberazione sociale. Non avete che da guardarvi intorno. La liberazione sociale e la dignità operaia dipendono strettamente dalla creazione di un ordine internazionale. Il vero problema è sapere se vi si arriverà tramite la guerra o tramite la pace. È relativamente a questa scelta che dobbiamo unirci o separarci. Tutte le altre scelte mi appaiono futili. Cosa avete scelto? Scommetto sulla pace. È il mio lato ottimistico. Ma occorre fare qualcosa per essa e sarà difficile. È il mio lato pessimistico. In ogni caso, oggi aderisco unicamente a quei movimenti per la pace che cercano di svilupparsi a livello internazionale. È in mezzo a loro che si trovano i veri realisti. Ed io sono con loro. Avete riflettuto su Monaco? Ci ho pensato. Gli uomini che conosco non accetterebbero la pace a qualsiasi costo. Ma in considerazione dell’infelicità che accompagna ogni preparativo di guerra e dei disastri inimmaginabili che 1 2
Rivista anarchica francese, uscita dal 1948 al 1976, con una spiccata attenzione ai temi della pace e dell’antimilitarismo, diretta inizialmente da Louis Lecoin. La questione in gioco, come sarà chiaro più avanti con la citazione degli accordi di Monaco, è quella dei tentativi compiuti, in buona o cattiva fede, pochi anni prima, per evitare la guerra con la Germania go vernata dal partito nazista, che si risolsero nel rafforzamento della posizione hitleriana. Di fronte alla politica della Russia staliniana, l’accusa classica che veniva rivolta ai movimenti per la pace era quella di favorire di fatto il totalitarismo. L’articolo di Camus cerca soprattutto di rispondere a questo genere di obiezioni ai movimenti pacifisti.
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porterebbe con se una nuova guerra, considero che non si debba rinunciare alla pace senza averne esaurite tutte le possibilità. E poi Monaco è stata già firmata, e per due volte. A Yalta ed a Potsdam. Dagli stessi che oggi vogliono assolutamente distruggerle. Non siamo stati noi a consegnare i democratici, i socialisti e gli anarchici delle democrazie popolari dell’Est ai tribunali sovietici. Non siamo stati noi che abbiamo impiccato Petkov.3 Sono stati i firmatari dei patti che consacrano la spartizione del mondo. Questi stessi uomini vi accusano d’essere un sognatore. Ne prendo atto. Personalmente, preferirei questo ruolo, non avendo la vocazione dell’assassino. Vi si dirà che siete coinvolto anche voi. Là, i candidati non mancano. Uomini forti, sembrerebbe. Dunque, ci si può dividere il lavoro. Questa è non-violenza? In effetti, mi si attribuisce quest’atteggiamento. Ma è per potermi criticare più facilmente. Dunque mi ripeterò. Non credo che si debba rispondere alle percosse con una benedizione. Credo che la violenza sia inevitabile. Me l’hanno insegnato gli anni dell’occupazione. Non direi perciò affatto che occorre eliminare ogni sorta di violenza, la qual cosa sarebbe desiderabile, ma nei fatti utopica. Dico semplicemente che occorre rifiutare ogni legittimazione della violenza. Essa è allo stesso tempo necessaria ed ingiustificabile. Dunque, credo che occorre conservarle il suo carattere eccezionale, alla lettera, e rinchiuderla nei limiti più stretti possibili. Questo significa che non bisogna darle giustificazioni né legali né filosofiche. Non predico dunque la non-violenza, ne so disgraziatamente l’impossibilità, e, come si dice ironicamente, la santità. Mi conosco troppo bene per credere alla virtù assoluta. Ma in un mondo dove ci si ingegna a giustificare il terrore con gli argomenti più diversi, credo che occorra porre un limite alla violenza, rinchiuderla in specifici ambiti impedendole di giungere al massimo del suo furore. Mi fa orrore la violenza comoda. È troppo facile uccidere in nome della legge o della teoria. Ho orrore dei giudici che non finiscono il lavoro in prima persona, come tanti dei nostri buoni intellettuali.4 In conclusione? Gli uomini di cui ho parlato, nello stesso tempo in cui lavorano per la pace, devono far approvare, a livello internazionale, un codice che preciserà questi limiti alla violenza: abolizione della pena di morte, rifiuto dell’ergastolo, della retroattività delle leggi e del sistema concentrazionario. Che altro? Occorrerebbe un altro contesto per precisarlo. Ma se è possibile che fin d’ora questi uomini aderi scano in massa ai movimenti per la pace già esistenti, lavorino per la loro unificazione sul piano internazionale, redigano e diffondano con la parola e con l’esempio il nuovo contratto sociale di cui abbiamo bisogno, credo che si muoveranno nella direzione giusta. Se ne avessi il tempo, direi anche che questi uomini dovrebbero sforzarsi di preservare nella loro vita personale la parte di gioia che non dipende dalla storia. Ci si vuol far credere che il mon do d’oggi necessita di uomini che si identificano totalmente con la loro dottrina, che perseguono dei fini definitivi tramite la sottomissione totale ai loro convincimenti. Credo che questo genere di uomini nello stato attuale del mondo farà più male che bene. Ma ammettendo, cosa che non credo, 3
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Nikolaj Petkov era figlio di Dimităr Petkov, primo ministro del principato di Bulgaria dal 5 novembre 1906 fino al suo assassinio l’anno successivo. Nel 1936 fu eletto deputato del Partito agrario e si batté contro la politica autoritaria di re Boris III e la sua politica favorevole all’alleanza con la Germania nazi sta e l’Italia fascista. Esponente dell’ala sinistra del Partito agrario, fu arrestato nel 1941. Dopo essere stato liberato, fu tra i promotori del Fronte Patriottico, che nel settembre 1944 assunse il potere. Divenne vicepresidente del Consiglio nel primo governo Georgiev e firmò l’armistizio con l’Unione Sovietica. Dopo aver mantenuto la coalizione con i comunisti, finì per rompere con loro e dare le dimissioni. Passò all’opposizione, ma il 6 giugno 1947 fu arrestato e poi processato con l’imputazione di complotto contro lo Stato. Condannato a morte il 15 agosto, si vede respingere l’appello il 18 settembre, nonostante le numerose proteste internazionali. Venne impiccato a Sofia cinque giorni dopo. Si può vedere in questo accenno una nota critica, da un lato, agli eredi di movimenti come il surrealismo che accompagnano a “bombarole” parole di fuoco una prassi di vita borghese, dall’altro, agli intellettuali che alla stessa prassi di vita borghese dei primi accompagnano il plauso alle repressioni ed alle condanne a morte dei regimi totalitari.
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che essi giungano a far trionfare il bene alla fine dei tempi, penso che occorra che esista un altro genere d’uomo, attento a preservare le piccole sfumature, lo stile di vita, la speranza della felicità, l’amore, l’equilibrio di cui i figli di questi stessi uomini hanno bisogno, alla fine, anche se la società perfetta fosse dunque realizzata. In ogni caso, io parlo qui come scrittore. Gli scrittori sono sempre stati al fianco della vita, contro la morte. Dove sarebbe la nobiltà di questo irrisorio mestiere se non fosse fatto giustamente per perorare instancabilmente la causa degli esseri umani e della felicità?
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L’Europa della Fedeltà
(La Révolution Prolétarienne,5 351, maggio 1951, pp. 15-16) LE DEMOCRAZIE OCCIDENTALI SEMBRANO AVER PRESO L’ABITUDINE DI TRADIRE I LORO AMICI, i regimi orientali si sono creati l’obbligo morale di divorarli. Tra i due, dobbiamo costruire un’Europa che non sarà né quella dei bugiardi né quella degli schiavi. È indubbio che occorre costruire un’Europa, abbiamo il diritto di dirlo al Senato americano. Soltanto, noi non vogliamo un’Europa qualunque essa sia. Accettare di costruire un’Europa con i generali tedeschi criminali ed il generale ribelle Franco, sarebbe accettare l’Europa dei rinnegati. Dopo tutto, se è questa Europa che vogliono le democrazie occidentali, gli era facile ottenerla. Hitler ha tentato di edificarla e ci è quasi riuscito; sarebbe bastato mettersi in ginocchio e l’Europa ideale sarebbe stata innalzata sulle ossa e sulle cene ri degli uomini liberi assassinati. Gli uomini dell’Occidente non hanno voluto tutto questo. Hanno lottato, dal 1936 al 1945, 6 ed a milioni sono morti ed hanno agonizzato nel buio delle prigioni perché l’Europa e la sua cultura continuasse ad essere una speranza e conservasse un senso. Se oggi alcuni hanno dimenticato tutto questo, noi non lo abbiamo fatto. L’Europa è innanzitutto una fedeltà. È per questo che siamo qui stasera.7 Se si dà credito ai giornali franchisti, il maresciallo Pétain 8 chiamava Franco la spada più luminosa d’Europa. Sono cortesie militari, senza grande significato. Parlando però sul serio, noi non desideriamo un’Europa difesa da questo genere di spada. Il servo dei capi nazisti, Serrano Súñer, 9 5
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Rivista anarcosindacalista francese fondata dall’operaio anarchico e leader carismatico del movimento operaio francese Pierre Monatte a Parigi nel gennaio 1925, allo scopo di fare da punto di riferimento per le correnti sindacaliste rivoluzionarie che, dopo un iniziale entusiasmo verso la Rivoluzione Russa, si erano allontanate dagli ulteriori suoi sviluppi, giudicati autoritari e per nulla socialisti. Giornale militante, restato fedele alla “Carta di Amiens” del sindacalismo rivoluzionario francese, pubblica articoli di estremo interesse, sia dal punto di vista strettamente sindacale, sia dal punto di vista teorico: oltre alla questione della critica all’indirizzo autoritario ed antisocialista preso dal governo russo, di notevole importanza nelle sue pagine è il discorso portato contro l’imperialismo in generale ed in particolare quello francese in Africa ed Asia, contribuendo moltissimo alla presa di coscienza anticoloniale del movimento operaio in Francia. Fungendo da centro di resistenza al controllo stalinista sul movimento operaio francese, aggrega intorno a sé, oltre che i sindacalisti di ispirazione anarchica, anche una buona fetta del marxismo critico militante. La rivista cessa le pubblicazioni nel 1939 a causa della guerra prima e del nazifascismo poi, riprendendole nel 1947. La rivista continua ad apparire ancora oggi, anche se non è mai più riuscita ad avere l’influenza che aveva tra le due guerre. Tra gli autori che hanno scritto sulla rivista ci sono stati oltre che Albert Camus, Daniel Guérin, Simone Weil, Michel Collinet, Victor Serge, Jean Maitron, Maurice Paz, Albert Pierre, Memmiet Aubery. Anche i principali fondatori del Partito Comunista Francese, espulsi od allontanatisi per dissenso verso lo stalinismo – Fernand Loriot, Boris Souvarine, Alfred Rosmer, Amédée Dunois – vi scrivono nei primi anni . Camus – in questo non da solo – considera la Guerra di Spagna il vero inizio della Seconda Guerra Mondiale. Sicuramente lo è della resistenza armata internazionale al nazifascismo. L’articolo è assai probabilmente la trascrizione dell’intervento che Camus aveva tenuto il 12 aprile 1951 a Parigi nella Salle Saulnier, in una riunione organizzata da Gli Amici della Repubblica Spagnola). Henri-Philippe-Omer Pétain (Cauchy-à-la-Tour, 24 aprile 1856 – L’Île-d’Yeu, 23 luglio 1951) è stato un generale e politico francese. Acquisì una certa notorietà durante la Prima guerra mondiale, ma il suo nome è legato al fatto che egli fu a capo del governo collaborazionista di Vichy dal 1940 al 1944, in seguito al Secondo armistizio di Compiègne. Dopo la guerra venne condannato a morte, pena poi comminata nell’ergastolo. Ramón Serrano Súñer (Cartagena 12 settembre 1901 – Madrid 1 settembre 2003) è stato un politico spa gnolo, più volte ministro degli interni e degli esteri. La sua carriera politica era cominciata nel 1933, eletto alle Cortes nelle file dei cattolici conservatori; all’inizio del colpo di stato franchista del 1936 aderì da subito alla Falange spagnola. Fu uno dei principali esponenti del regime, caratterizzandosi per il suo di chiarato obiettivo politico di rendere il regime spagnolo quanto più simile al modello nazista. A seconda guerra mondiale iniziata, promosse l’invio della División Azul sul fronte orientale, come unità militare integrata nella Wehrmacht. La sua azione era volta verso un’alleanza della Spagna franchista con il governo nazionalsocialista tedesco, tentativo che culminò nell’incontro di Franco con Adolf Hitler a Hen-
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giunge a scrivere un articolo dove reclama un’Europa aristocratica. Non ho nulla in contrario contro l’aristocrazia. Credo al contrario che il problema che si pone alla civiltà europea è la creazione di nuove élite, essendo state le vecchie disonorate. L’aristocrazia di Súñer però somiglia troppo ai signori hitleriani. È l’aristocrazia di una banda, la nobiltà del crimine, la crudele signoria della mediocrità. Da parte mia non riconosco che due generi di aristocrazie, quella dell’intelligenza e quella del lavoro. Nel mondo di oggi esse sono oppresse, insultate o cinicamente utilizzate da una razza di servi e di funzionari agli ordini del potere. Emancipate e riconciliate, soprattutto riconciliate, esse costruiranno la sola Europa che possa durare: 10 non quella del lavoro forzato e dell’intelligenza asservita all’ideologia, né quella, dove viviamo, dell’ipocrisia e della morale dei mercanti, ma l’Europa vivente delle Comuni e dei Sindacati, 11 che preparerà la rinascita che attendiamo. In questo enorme compito, la mia convinzione è che non possiamo non passare per la Spagna. Infatti l’Europa non è divenuta questa terra disumana in cui tuttavia tutti parlano di umanesimo, questo accampamento di schiavi e questo mondo di ombre e di rovine se non per il fatto che si è spudoratamente abbandonata alle più smisurate12 dottrine, per il fatto che ha sognato di essere una terra di dei e perché ha scelto, per divinizzare l’uomo, di asservire ogni individuo ai fini del potere. I filosofi del nord l’hanno aiutata ed indirizzata in questa bella impresa ed oggi, nell’Europa di Nietzsche, di Hegel e di Marx, raccogliamo i frutti di questa follia. Se l’uomo è divenuto un dio, si è decisamente costretti a dire che è divenuto ben poca cosa: questo dio ha le fattezze di un ilota o di un procuratore. Mai divinità così meschine hanno regnato sul mondo. Chi si stupirà, ve dendole nelle prime pagine dei giornali o sugli schermi dei nostri cinema, che le loro chiese siano innanzitutto delle polizie? L’Europa non è mai stata grande se non nella dialettica che ha saputo introdurre tra i suoi popoli, i suoi valori, le sue dottrine. È in equilibrio su questa dialettica o non esiste affatto. Da quando vi ha rinunciato ed ha scelto di far regnare, con la violenza, l’unità astratta di una dottrina, è deperita, è divenuta questa madre esaurita che non fa nascere altro che creature avare e rancorose. For se è vero che queste creature giungono a lanciarsi le une contro le altre per trovare, finalmente, una pace impossibile in una morte disperata. Il nostro compito – ed il nostro ruolo universale – non è però quello di servire questa terribile giustizia. È quello di ricreare una più modesta giustizia in una rinascente Europa, di rinunciare conseguentemente alle dottrine che pretendono di sacrificare ogni cosa alla Storia, alla ragione ed al potere. Per fare ciò dobbiamo ritrovare la strada del mondo, equilibrare l’uomo con la natura, il male con la bellezza, la giustizia con la compassione. Occorre infine rinascere nella dura tensione vigile che produce le società feconde. È qui che la Spagna ci deve aiutare. In effetti, come fare a meno di questa cultura spagnola dove mai, nemmeno una sola volta, in secoli di storia, la carne ed il lamento dell’uomo sono stati sacrificati all’astratta ideologia, che ha saputo dare al mondo, allo stesso tempo, Don Giovanni e Don Chisciotte, le più elevate rappresentazioni della sensualità e del misticismo, che anche nelle sue creazioni più folli non si separa dal realismo della quotidianità, una cultura completa insomma, che copre con la sua forza creatrice l’intero universo, dal sole alla notte. È questa cultura che può aiutarci a ricostruire un’Europa che daye il 23 ottobre 1940. Con il volgere della guerra a sfavore del nazifascismo, il 3 settembre 1942 fu ri mosso dal governo da Franco che, nel frattempo, aveva iniziato numerosi contatti con le potenze avversarie dell’Asse. Dopo di ciò, abbandonò gradatamente la vita pubblica ma, fino ai suoi ultimi giorni, restò un critico da destra (!) del regime franchista e fu uno dei punti di riferimento ideologici delle forze neonaziste nel suo paese e nel mondo. 10 Ancora una volta, vale la pena ricordare il contesto storico, dominato dall’idea di una possibile terza Guerra Mondiale tra potenze nucleari. 11 Nel finale del suo Uomo in Rivolta – che andava ad uscire proprio nello stesso 1951 – Camus individuava nella Comune libertaria parigina del 1871 e nell’esperienza sindacale gli esempi cui un futuro “pensiero meridiano” doveva rifarsi. Si tenga presente che all’epoca e soprattutto in ambiente francese “Sindacato” aveva il significato di organizzazione anarcosindacalista e/o comunismo libertario, un senso del termine oggi completamente perduto ma che va tenuto presente per comprendere l’argomentazione camusiana. 12 Per il concetto di “misura”, ancora una volta il punto di riferimento è l’argomentazione svolta ne L’Uomo in Rivolta.
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non escluda niente del mondo, né mutilerà niente di ciò che è umano. Ancora oggi essa contribuisce a nutrire, in parte, la nostra speranza. Nel momento stesso in cui questa cultura era ridotta al silenzio, in Spagna donava ancora il suo sangue – il migliore – a questa Europa ed a questa speranza. I morti spagnoli nei campi di concentramento tedeschi, di Gliéres, 13 della Divisione Leclerc14 ed i 25.000 assassinati nel deserto libico,15 erano questa cultura e questa Europa. È ad essi che siamo fedeli e, se essi possono in parte rivivere, oggi, nel loro paese, è in mezzo a questi studenti ed a questi operai di Barcellona16 che vengono a dire ad un mondo stupito che la vera Spagna non è morta e che reclama nuovamente il suo ruolo. Se però l’Europa di domani non può fare a meno della Spagna ancora meno può – per le medesime ragioni – farsi con la Spagna di Franco. “Europa“ è un concetto preciso, che non può certo venire a patti con ideologie stupide e quanto basta feroci per proibire ogni altra espressione che non sia la loro. Nello stesso momento in cui, pochi mesi fa, un ministro spagnolo auspicava che i ceti dirigenti di Francia e di Spagna si compenetrassero maggiormente, la sua censura proibiva Anouilh17 e Marcel Aymé.18 Questi scrittori non hanno in nessun momento avuto fama di essere degli implacabili rivoluzionari: si immagini cosa possa penetrare in Spagna di Sartre, 19 di Malraux20 o di 13 Battaglia avvenuta il 26 marzo 1944 tra le truppe naziste e quelle della resistenza francese, nelle cui file militavano anche molti reduci della guerra civile spagnola. 14 La Divisione Leclerc dell’esercito di De Gaulle che partecipò alla guerra antinazista sin dallo sbarco alleato in Africa era composta da numerosi antifascisti spagnoli, reduci della guerra civile, e molti persero la vita nei combattimenti. 15 Camus si riferisce probabilmente ai militanti antifascisti che furono arrestati e/o deportati in Marocco dalle truppe dei golpisti guidati dal generale Franco. 16 Il franchismo, specie ai suoi inizi, vide una notevole resistenza popolare ed operaia, che si accentuò a partire dal 1944 (con un tentativo vero e proprio di “riconquista” del territorio spagnolo) e proseguiva ancora agli inizi degli anni cinquanta. Camus si riferisce all’ondata di scioperi operai e contestazioni studentesche che dall’aprile 1951 ed a partire da Barcellona scossero la Spagna. Vedi MOLINERO, Carme e YSÀS, Pere, “La conflittualità sociale in Spagna durante il franchismo”, in AA. VV., Per una Definizione della Dittatura Franchista, Milano, Angeli, 1990, pp. 105-130. 17 Jean Marie Lucien Pierre Anouilh (Bordeaux, 23 giugno 1910 – Losanna, 3 ottobre 1987) fu un dramma turgo, regista teatrale e sceneggiatore francese, noto per le sue riscritture moderniste di molti classici greci. La sua censura da parte franchista è tanto più notevole in quanto non si trattava affatto di un simpatizzante della sinistra e, durante il Regime di Vichy, aveva mantenuto un atteggiamento ambiguo. Probabilmente la censura franchista non aveva apprezzato la sua riduzione dell’Antigone di Sofocle ed altre opere della drammaturgia greca che, in qualche modo, potevano parere un invito alla rivolta. 18 Marcel Aymé (Joigny, 29 marzo 1902 – Parigi, 14 ottobre 1967) è stato autore di opere di letteratura per ragazzi ed umoristica che avevano molto successo e conoscevano anche riduzioni cinematografiche e televisive. Come Anouilh, anch’egli non era affatto simpatizzante della sinistra e, durante il Regime di Vichy, aveva mantenuto un atteggiamento ambiguo. Era però contrario alla pena di morte ed in alcuni suoi testi si notava un tono agnostico in campo religioso, cosa che bastava al regime franchista per censurarlo. 19 Jean-Paul Charles Aymard Sartre (Parigi, 21 giugno 1905 – Parigi, 15 aprile 1980) è stato un notissimo fi losofo, scrittore, drammaturgo e critico letterario francese, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1964, che però rifiutò. Sartre è stato uno dei massimi esponenti dell’esistenzialismo: nel primo do poguerra, Sartre conobbe un successo enorme e per oltre un decennio dominò il panorama letterario francese. L’organo di diffusione delle sue idee fu soprattutto la rivista Les Temps Modernes, dove iniziò la querelle contro L’Uomo in Rivolta di Camus. Sartre, in effetti, dopo un’iniziale simpatia giovanile per l’anarchismo, aveva aderito al leninismo filosovietico e l’esplicitata posizione libertaria di Albert Camus – l’unico personaggio della cultura francese che all’epoca poteva tenergli testa mediaticamente – era per lui un problema innanzitutto politico. Ironie della storia, dopo aver lungamente polemizzato con Camus in funzione antilibertaria, essere stato per anni un’icona del marxismo-leninismo internazionale, prima in versione sovietica, poi in quella maoista, nell’ultimo quinquennio di vita si riavvicinò all’anarchismo comunista. 20 André Malraux (Parigi, 3 novembre 1901 – Créteil, 23 novembre 1976), scrittore e politico francese. Prese parte alla Resistenza e, pur non essendo di sinistra (era uno dei collaboratori più stretti di De Gaulle, per cui fu anche ministro), era comunque inviso al franchismo per le sue posizioni antifasciste.
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Gide.21 Quanto a noi, lasciamo volentieri la libertà di leggere Benavente. 22 Sono i suoi libri che non si lasciano leggere: questa è la verità. Recenti articoli franchisti pretendevano che la censura fosse stata ammorbidita. Dopo un esame delle norme, possiamo tranquillizzarci. L’ammorbidimento consiste tutto nell’affermare che tutto è permesso – tranne ciò che è proibito. Franco, che si rifà volentieri ad uno dei nostri maggiori scrittori, cioè Joseph Proudhomme, 23 ha dichiarato che “la Spagna dell’Alcazar di Toledo è legata alla Chiesa di San Pietro.” Censura però lo stesso Papa quando questi difende la libertà di stampa. In quella che è la nostra Europa, il Papa ha diritto di parlare, così come quelli che pensano che il Papa usi male questo diritto. L’Europa che noi vogliamo è anche un ordine. Quando tutti possono imprigionare tutti, quando la delazione viene incoraggiata, quando le donne incinte sono generosamente dispensate dal lavoro – ma solo al nono mese – allora siamo nel disordine e Franco prova al mondo intero di essere un anarchico molto più pericoloso e che i nostri amici della CNT 24 – loro – vogliono un ordine. Il disordine raggiunge il suo massimo, almeno per me, in questa ripugnante confusione dove la religione è mescolata alle esecuzioni e dove il prete si trova alle spalle del carnefice. Gli ordini delle ese cuzioni terminano, nella Spagna franchista, con questo devoto augurio indirizzato al direttore della prigione: “Che Dio vi assicuri una lunga vita“. Si obbliga inoltre i detenuti ad abbonarsi al setti manale Redenzione. Questa Europa, in cui Dio è riservato come privilegio dei direttori delle prigioni, è la civiltà per la quale dobbiamo combattere e morire? No! Esiste, per fortuna, una redenzione alla quale non ci si abbona e che risiede nel giudizio degli uomini liberi. Se esiste un Cristo in Spagna, si trova infatti nelle galere, gettato negli angoli delle celle, si trova con i cattolici che rifiu tano la comunione perché il prete-carnefice l’ha resa obbligatoria in alcune prigioni. Questi sono i nostri fratelli ed i figli dell’Europa libera.25 La nostra Europa è anche quella della vera cultura e, mi dispiace doverlo dire, non vedo alcun segno di cultura nella Spagna di Franco. Ho letto di recente la personale filosofia della storia del caudillo.26 Essa si riassume in questo – e cito: “la massoneria nascosta nel cavallo di Troia dell’Enciclopedia è stata introdotta in Spagna dai Borboni.” Ho letto allo stesso tempo che un pellegrino cattolico americano, ricevuto da Franco, l’aveva trovato “straordinariamente intelligente.“ Un pellegrino è sempre entusiasta. Non vuole essere turbato da nulla. Alla fine, però, trovo la frase di Franco e del pellegrino leggermente incompatibili. La mia convinzione è che la cultura e la Spagna uffi21 André Gide (Parigi, 22 novembre 1869 – Parigi, 19 febbraio 1951) è stato uno scrittore francese, premio Nobel per la letteratura nel 1947. Nei suoi testi è centrale la critica ai valori morali repressivi, particolarmente in campo sessuale. È stato, nonostante la sua ritrosia, un punto di riferimento intellettuale – oltre che della cultura omosessuale – per la sinistra intellettuale francese, specialmente quella antistalinista. 22 Jacinto Benavente (Galapagar, 12 agosto 1866 – Galapagar, 14 luglio 1954), drammaturgo e scrittore, premio Nobel per la letteratura nel 1922, fu uno degli intellettuali che si schierarono con il franchismo. 23 In realtà si tratta di un personaggio letterario, creato da Henry-Bonaventure Monnier (Parigi, 7 giugno 1799 – Parigi, 3 marzo 1877), drammaturgo, illustratore ed attore teatrale francese. È l’incarnazione del tipico borghese parigino senza opinioni e particolarmente banale, ai limiti del lapalissiano – “È la mia opinione, ed io la condivido.” (Henri Monnier, Memorie di Joseph Prudhomme, 1857). Di qui l’ironia camusiana. 24 Confederación Nacional del Trabajo, sindacato di ispirazione anarchica fondato nel 1910 che fu maggioritario nel proletariato spagnolo durante la prima metà del XIX secolo (giunse a radunare milioni di lavoratori sotto le sue fila). Fu il protagonista di innumerevoli lotte per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori iberici e, per questo, venne ferocemente represso dalle autorità: il primo scritto edito di Camus, ancora iscritto al partito comunista, Rivolta nelle Asturie, parla proprio di una rivolta cenetista. Fu il protagonista principale della resistenza al franchismo durante la “guerra civile” e di numerosissimi ed ampi esperimenti di comunismo libertario durante la stessa, descritti da George Orwell nel suo Omaggio alla Catalogna. Costretto alla clandestinità dopo la vittoria franchista, subì una feroce repressione. Come vedremo, Camus parteciperà nel secondo dopoguerra a numerose iniziative di solidarietà nei confronti dei militanti cenetisti imprigionati e/o condannati a morte per la loro attività sindacale e/o antifascista, stringendo altresì forti legami d’amicizia con i militanti della CNT in esilio. 25 Anche qui è evidente il senso dell’“europeismo” di Camus che si inscrive dentro le idealità del movi mento operaio socialista e libertario. 26 Termine con cui nel franchismo si indicava il “generalissimo”, in altre parole lo stesso Francisco Franco.
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ciale non hanno che rapporti formali, se afferma quanto leggo: “Franco deve troncare con la sua spada i nodi gordiani di secolari problemi la cui soluzione è riservata al suo genio” o, ancora, che “sembra che Dio abbia posto il destino di Franco sotto il segno di queste folgoranti apparizioni storiche distaccando questa testa aureolata sull’orizzonte del nostro tempo.” No, l’idolatria non è cultura. La cultura, almeno lei, muore a causa del ridicolo. Franco, infine, esigendo il suo posto nella comunità internazionale e reclamando il diritto – che reclamiamo insieme a lui – per la Spagna di avere il governo che desidera, riassume la sua dottrina in questa formula, sulla quale come capire te non smetto di riflettere: “Non è che noi andiamo in una direzione differente (...) il fatto è che noi ci andiamo più rapidamente degli altri e che ci ritroviamo già sulla strada del ritorno quando gli altri camminano ancora verso la meta.“ Questa ardita metafora, in effetti, è sufficiente a spiegare e giustificare completamente perché, per la nostra cultura, preferiamo l’Europa di Unamuno 27 a quella del Signor Rocamora.28 La nostra Europa infine – e questo è la sintesi di tutto – non può fare a meno della pace. La Spagna di Franco, essa, vive e sopravvive solo perché la guerra ci minaccia, mentre la Repubblica Spagnola si rinforza ogni volta che la pace vede aumentare le sue possibilità. Se l’Europa, per esistere, deve passare per la guerra, sarà l’Europa delle polizie e delle rovine. Si comprende allora perché Franco sia giudicato indispensabile, vista la malaugurata assenza di Hitler e di Mussolini. È esattamente così che sono stati giudicati coloro che si fanno dell’Europa un’idea che fa orrore. 29 Franco è stato giudicato negativamente sino al momento in cui ci si è accorti che aveva trenta divisioni. In quel momento allora egli è entrato nel giusto. Si è rifatto a suo uso il detto di Pascal, che è diventato “errore fino alla trentesima divisione, verità di là in poi.“ Dati questi assunti, perché fare guerra alla Russia? Essa è ancora di più nel giusto poiché possiede centosettantacinque divisioni. Essa, però, è il nemico ed ogni cosa è morale purché gli sia contro. Per trionfare occorre innanzitutto tradire la verità. Ebbene, è giunto il momento di dire che l’Europa che vogliamo non sarà mai quella dove la validità di una causa si giudica in base al numero dei suoi cannoni. C’è già la stupidità di calcolare la forza di un esercito in base al numero dei suoi ufficiali. In base a questo calcolo l’esercito spagnolo risulta essere, in effetti, il più forte del mondo – esso, però, è anche il più debole. Oc corre essere un pensatore del Dipartimento di Stato americano per immaginare che il popolo spagnolo possa battersi in nome di una libertà che gli si nega. La stupidità, però, è il meno: quello che è più grave è il tradimento di una causa sacra, quella della sola Europa che vogliamo. Firmando la ripresa delle relazioni con Franco,30 l’America ufficiale ha firmato la rottura con quella che è la no27 Miguel de Unamuno y Jugo (Bilbao, 29 settembre 1864 – Salamanca, 31 dicembre 1936), filosofo, poeta, scrittore, drammaturgo e politico spagnolo. Fu dal 1931 al 1933 al Congresso dei Deputati, la camera bassa spagnola, eletto nella circoscrizione di Salamanca per un raggruppamento repubblicano-socialista. Pur avendo inizialmente aderito alla sollevazione franchista – di cui non aveva capito gli intenti – se ne distaccò quasi subito con forza e coraggio: in un discorso tenuto all’Università di Salamanca nell’ottobre del 1936, in occasione di una Festa della Razza, in reazione alle parole di José Millán-Astray, fondatore e primo comandante della Legione spagnola, con i militanti di questa presenti in gran numero, disse “Vincerete perché avete forza bruta in abbondanza, ma non convincerete. Per convincere bisogna persuadere e per persuadere avreste bisogno di qualcosa che vi manca: ragione e diritto nella lotta.” Dopo di che finì gli ultimi due mesi della sua vita agli arresti domiciliari e la sua morte è risultata sospetta a molti. 28 Probabilmente si tratta del Visconte di Rocamora, esponente del regime franchista oggi forse maggiormente noto per il fatto che gli fu affidata l’educazione del giovane Juan Carlos di Borbone. 29 La frecciata di Camus alle democrazie occidentali è duplice: da un lato si ricorda come i nazifascismi furono a dir poco corteggiati dai leader liberal-democratici del periodo tra le due guerre in funzione antiproletaria, dall’altro come quelle odierne continuino la stessa politica appoggiando il regime franchista. 30 Nel dopoguerra, le potenze occidentali assunsero un atteggiamento ambiguo nei confronti della Spagna franchista: da una parte ne impedirono l’adesione agli organismi internazionali ma, allo stesso tempo, si astennero dall’adottare una qualunque misura che potesse provocare o quantomeno facilitare la caduta della dittatura. Si giunse poi ad un progressivo allentamento dell’isolamento ed alla ripresa di normali relazioni (dapprima commerciali e successivamente diplomatiche) soprattutto su impulso del governo degli Stati Uniti, che teneva particolarmente ai vantaggi strategici offerti dalla Spagna all’interno del quadro delineatosi con la Guerra Fredda: la Spagna franchista venne così di fatto inclusa – benché non ufficialmente – nel sistema difensivo occidentale.
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stra Europa, che noi continueremo a difendere e servire tutti insieme. Non potremo poi servirla se non distinguendoci nettamente da tutti coloro che hanno perso ogni diritto morale a servirla, da coloro che, col favore di una provocazione poliziesca, lasciano torturare da noi dei militanti irreprensibili della CNT, come José Peirats, 31 da coloro che lasciano truccare le elezioni algerine, 32 nonché da coloro che si lavano le mani del sangue dei fucilati di Praga 33 e che insultano i prigionieri dei campi di concentramento russi. Questi hanno perso il diritto di parlare d’Europa e di denunciare Franco. Chi parlerà allora? Chi lo denuncerà? Amici spagnoli, la risposta è semplice: la tranquilla voce della fedeltà. La fedeltà è però sola? No, siamo, sparsi nel mondo, milioni di fedeli che prepariamo il giorno della riunione. Trecentomila barcellonesi vengono ad urlarvelo. 34 Tocca a noi riunirci, non far nulla che possa separarci. Si, dobbiamo solo unirci – ed allora facciamolo, vi prego. La Spagna dell’esilio ha in questo la sua ragion d’essere, in questa unione alla fine realizzata, in questa lotta paziente ed inflessibile. Verrà un giorno in cui l’Europa trionferà sulle sue miserie e suoi suoi crimini, in cui tornerà finalmente a vivere. Questo giorno sarà però esattamente lo stesso – ecco cosa ho voluto dire – di quello in cui la Spagna della fedeltà, proveniente da tutti gli angoli del mondo, si raggrupperà in cima ai Pirenei e vedrà stendersi davanti a lei l’antica terra fertile che tanti tra voi hanno atteso invano e che vi attende in silenzio – dopo così tanto tempo. Quel giorno noi altri europei ritroveremo con voi una patria in più.
31 José Peirats Valls (15 marzo 1908 La Vall d’Uixó - 20 agosto 1989), operaio, è stato un anarchico spagnolo, militante sia della CNT sia della FAI iberiche, giornalista e storico del movimento operaio. Costretto all’esilio a Parigi dal 1939, venne ripetutamente arrestato dalla polizia francese, su istigazione di quella spagnola, per il suo appoggio alla resistenza antifranchista che continuava a svolgersi in quel paese. In alcune occasioni, per usare un eufemismo, la polizia francese usò la “mano forte” ed è a questo che si ri ferisce Camus. 32 Nel dopoguerra la Francia inserì il territorio algerino come parte integrante del territorio metropolitano e venne istituita un’assemblea algerina, con il diritto di inviare deputati all’Assemblea nazionale. Il diritto di rappresentanza era però concesso “alla pari” alla maggioranza africana ed alla minoranza di origine francese e, ad ogni buon conto, a quest’ultima era riservata di fatto la gestione delle elezioni, con le ovvie conseguenze rimarcate da Camus. 33 Nel febbraio 1948 la Cecoslovacchia fu dichiarata “democrazia popolare” e fu introdotto il centralismo burocratico sotto la direzione del Partito Comunista: la Cecoslovacchia divenne uno stato satellite dell’URSS. Il presidente Beneš rifiutò di firmare la Costituzione del 1948 e si dimise. Di lì all’epoca della scrittura dell’articolo di Camus le purghe erano all’ordine del giorno. 34 Vedi nota 16.
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Risposta a Gaston Leval35
(Le Libertaire,36 318, 5 giugno 1952, p. 2) Nota del traduttore. Albert Camus, pur giungendo ne L’Uomo in Rivolta ad una sorta di fondazione filosofica dell’anarchismo comunista e sociale (nei suo termini, il “pensiero meridiano”), aveva però individuato alcuni elementi nichilistici anche in alcuni autori cari alla tradizione libertaria del socialismo: Stirner e Ba kunin. Gaston Leval, in un articolo in quattro puntate 37 opera una difesa di Bakunin dalle accuse camusiane. Sintetizziamo qui brevemente l’articolo di Leval ai fini di una migliore comprensione dell’articolo di Camus: • Leval esordisce affermando che Camus pare non conoscere Bakunin per lettura diretta, ma solo per il tramite di commentatori, presumibilmente quelli ostili. Prova ne è, ad esempio, la confusione che opera tra il Catechismo Rivoluzionario di Bakunin ed il Catechismo del Rivoluzionario di Nečaev.38 • Camus poi, mettendo a confronto testi scritti in periodi diversissimi, non sembra tenere nel giusto conto il fatto che il grande rivoluzionario russo è divenuto anarchico solo negli ultimi anni della sua vita. Infatti, il Bakunin apologista della distruzione nichilista appartiene tutto alla fase autoritaria e non anarchica del suo pensiero. Ancora negli Statuti della Fratellanza Internazionale (scritti tra il 1864 ed il 1867) Bakunin è in un momento di transizione tra il socialismo autoritario della gioventù e quello libertario degli ultimi anni; gli accenti “leninisti” che troviamo in quest’opera per ciò che concerne l’organizzazione politica dei militanti rivoluzionari saranno poi superati dal Bakunin pienamente anarchico. Quanto poi alla Confessione – una richiesta di grazia allo Zar da parte di Bakunin condannato all’ergastolo – il suo carattere particolare imporrebbe di non considerarla in al cun modo espressione dell’autentico pensiero di Bakunin, in qualunque periodo della sua evoluzione politica. È solo con il Catechismo Rivoluzionario che Bakunin giunge con piena coerenza all’anarchismo e, da questo momento in poi, spariscono del tutto le dichiarazioni nichiliste e la sua attività 35 Gaston Leval era lo pseudonimo di Pierre Robert Piller. Figlio di un comunardo parigino, nasce a SaintDenis nel 1885 e si avvicina prestissimo all’ideale anarchico. Nel 1915 diserta la chiamata alle armi per la Grande Guerra e ripara in Spagna, dove entra nella cerchia degli anarcosindacalisti che hanno come punto di riferimento la CNT. Nel 1921 è delegato a Mosca al congresso dell’Internazionale Sindacale Rossa, dove è protagonista della rottura definitiva fra gli anarcosindacalisti ed i bolscevichi. Con la dit tatura di Primo de Rivera nel 1924, Gaston Leval fugge in Argentina, dove diviene militante della Fede ración Obrera Regional Argentina (F.O.R.A). Ritorna in Spagna nel 1934. Durante la Guerra di Spagna è fra gli organizzatori delle comunità libertarie che sorgono spontaneamente nel mondo operaio e contadino. Nel 1938, rientra in Francia ma viene immediatamente fermato per insubordinazione e condannato a 4 anni e mezzo di prigione. Il 14 agosto 1940 evade della prigione di Clairvaux; inizia da allora la sua la militanza nella Fédération Anarchiste e, nel dopoguerra, darà un contributo notevole alla stampa libertaria. Durante le giornate del Maggio 1968 partecipa attivamente ai dibattiti universitari, difende le posizioni dell’anarchismo comunista e sociale e mantiene contatti con gli esuli anarchici spagnoli. Muo re l’8 aprile 1978 a Saint-Cloud. 36 Rivista anarchica francese, che dopo alcuni numeri clandestini o comunque irregolari, assume la sua forma settimanale dall’aprile del 1946. La rivista vedrà collaborazioni prestigiose: Georges Brassens – che sarà addirittura nella redazione permanente del giornale – Léo Ferré, André Breton, Armand Robin e, appunto, Albert Camus. Dal 1953 è edita dalla Federazione Comunista Libertaria (FCL), che, gravata da pesanti multe comminategli dai tribunali francesi per l’attività antimilitarista durante il periodo della guerra d’Algeria, è costretta a chiudere il settimanale nell’estate del 1956. In qualche modo ne è erede l’attuale settimanale Le Monde Libertaire gestito dall’attuale Federazione Anarchica di lingua francofona. 37 LEVAL, Gaston, “Bakounine et L’Homme révolté d’Albert Camus, in Le Libertaire, 308, 28 marzo 1952, p. 3 (I); 309, 4 aprile 1952, p. 3 (II); 310, 11 aprile 1952, p. 2 (III); 311, 18 aprile 1952, p. 3 (IV). 38 Sergej Gennadievič Nečaev è stato il maggior esponente del movimento rivoluzionario nichilista russo, almeno dal punto di vista della radicalità immoralista delle sue posizioni politiche. L’incontro con Bakunin avvenne nel 1869 e, dopo un breve periodo di collaborazione, giunse ad una radicale e clamorosa rottura. La questione cui accenna Leval è il fatto che alcuni commentatori (anche in tempi successivi alla polemica Leval/Camus: cfr. CONFINO, Michael, Il Catechismo del Rivoluzionario. Bakunin e l’affare Nečaev, Milano, Adelphi, 1976) hanno ritenuto Bakunin coautore del testo chiave della tradizione nichilista, alimentando la polemica politico-storiografica.
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sarà rivolta principalmente alla costruzione di quelle organizzazioni sindacali libertarie che Camus mostra di ammirare nella sua opera. Leval contesta poi a Camus di aver inserito Bakunin, all’interno de L’Uomo in Rivolta, nel capitolo su “Il Terrorismo Individuale”: tutto si può dire di Bakunin salvo il fatto che egli sia mai stato, in nessun momento della sua vita, un individualista e porta a sostegno della sua tesi numerosi passaggi bakuniniani di critica all’individualismo. Le accuse camusiane di “immoralismo teorico” rivolte al rivoluzionario russo derivano, ancora una volta, dalla confusione tra i due “Catechismi”; nemmeno, dice Leval, si può parlare di introduzione da parte di Bakunin del “doppio gioco” nella politica rivoluzionaria facendo riferimento a frasi contenute in una domanda di grazia. Leval mostra poi come Camus abbia confuso il rifiuto – tipicamente anarchico – della posizione di matrice platonica che vorrebbe concedere agli scienziati il potere politico con una critica alla scienza tout court. Camus poi ha visto nelle posizioni panslaviste di Bakunin una sorta di antecedente dell’imperialismo staliniano. Ma, ancora una volta, dice Leval, non bisogna confondere il giovane Bakunin che ha parte attiva nei movimenti slavi di metà Ottocento (e che comunque rifiuta esplicitamente il panslavi smo) con il Bakunin anarchico ed internazionalista. Dopo lunghe citazioni del Bakunin anarchico in cui il rivoluzionario russo opera una sorta di fonda zione etica del socialismo libertario, Leval così conclude il suo articolo: “Perciò affermo, Albert Ca mus, che se voi conosceste veramente il pensiero di Bakunin, vi accorgereste che siete, in gran parte, Bakuniniano senza saperlo”. Parigi, 27 maggio 1952
Signor Caporedattore,39 GASTON LEVAL , lo farò nella maniera più breve possibile. D’altronde, la conclusione del saggio di Leval me ne ha restituito la voglia che il suo inizio m’aveva tolto. Lo farò però senza alcuna intenzione polemica. Rendo assolutamente giustizia alle intenzioni di Leval e dico che ha ragione su molti punti. Se lui vorrà allora a sua volta esaminare spassionatamente i miei argomenti, capirà come possa dire che a grandi linee sono d’accordo con la sostanza dei suoi articoli. Questi mi hanno, alla fine, più istruito che contraddetto. Innanzitutto tenete presente che il mio passaggio su Bakunin occupa quattro pagine e mezza di un libro che ne comporta quasi quattrocento. Ciò è sufficiente per dire che non mi si poteva attribuire l’intenzione di scrivere uno studio completo su Bakunin, ma solamente di scegliere in lui, come in tanti altri, un riferimento in relazione al ragionamento che perseguivo. Il mio obiettivo ne L’Uomo in Rivolta è stato costante: studiare una contraddizione interna al pensiero della rivolta e cercarne il superamento. Per ciò che concerne Bakunin, ho solamente evidenziato in lui i segni di questa contraddizione, così come ho fatto nel corso della mia opera per i più diversi pensatori. La questione è dunque tutta nel sapere se questa contraddizione possa trovarsi in Bakunin. Resto convinto che vi si trovi. Leval può pensare che non ho messo sufficientemente in evidenza l’aspetto positivo del pensiero di Bakunin (dovrebbe però nuovamente notare, per comprendere meglio la questione, che non gli sono occorse meno di una cinquantina di pagine per apportare anche solo un piccolo numero di precisazioni sull’argomento). Ciononostante non ha nemmeno pensato di negare che i testi strettamente nichilisti ed immoralisti esistono. Che li trovi all’inizio o nel mezzo della vita di Bakunin prova solo che si tratta di una tentazione costante nel nostro autore. Non cre do che si possa dire come fa Leval che queste riflessioni avrebbero avuto soltanto il senso di una sorta di esercizio letterario. Considero come un fatto assodato la filiazione del bolscevismo da POICHÉ MI PROPONETE DI RISPONDERE AGLI ARTICOLI DI
39 Si tratta di Maurice Joyeux (1910/1991) attivista e pensatore anarchico, figura chiave dell’anarchismo francese ed amico personale di Albert Camus. Oltre che nell’anarchismo è stato un notevole attivista in campo sindacale (Segretario del Sindacato dei Disoccupati negli anni trenta, protagonista dell’occupazione delle fabbriche nel 1936, militante e dirigente della CGT-FO nel dopoguerra e fino alla morte). Nel 1954 passerà alla rivista che sarà l’erede de Le Libertaire: Le Monde Libertaire.
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Nečaev40 e, altrettanto, considero un fatto la collaborazione di Bakunin e Nečaev che Leval d’altronde non nega. Ma questo non significa nulla e devo qui protestare contro l’interpretazione di Leval, secondo la quale io presento Bakunin come uno dei padri del comunismo russo. Al contrario ho detto, nettamente e due volte in sole quattro pagine, che Bakunin si era opposto in ogni circostanza al socialismo autoritario. Ho messo in evidenza i fatti di cui parlo solo per sottolineare ancora una volta la tentazione nichilista interna ad ogni coscienza della rivolta. Perciò, quando Leval mi cita lungamente i pensieri positivi e fecondi di Bakunin, lo approvo completamente: Bakunin è uno dei due o tre uomini che l’autentica rivolta possa opporre a Marx nel XIX secolo. Ritengo soltanto che, con le sue citazioni, Leval vada nella mia direzione, rendendo più stridente la contraddizione che mi interessa in Bakunin come in altri. Cerchiamo ora di spingerci oltre. Il nichilismo che si può scorgere in Bakunin ed in altri ha avu to un’utilità temporanea. Oggi però, e voi libertari del 1950 lo sapete bene, non possiamo più attribuirgli alcun valore positivo. Dove mai lo troveremmo? La morale borghese ci indigna per la sua ipocrisia e la sua mediocre crudeltà. Il cinismo politico che regna su gran parte del movimento rivoluzionario ci ripugna. Quanto alla sinistra cosiddetta indipendente – in realtà fascinata dalla potenza del comunismo ed invischiata in un marxismo che ha vergogna di se stesso – ha già smobilitato. Dobbiamo allora trovare in noi stessi, nel profondo della nostra esperienza, in altre parole all’interno del pensiero della rivolta, i valori di cui abbiamo bisogno. Se non li troveremo, il mondo crollerà e ciò non potrà che essere giustizia, ma noi saremo crollati insieme a lui e ciò non sarà che infamia. Non abbiamo allora altro compito che studiare la contraddizione in cui si è dibattuto il pensiero della rivolta, tra il nichilismo e l’aspirazione ad un ordine vivente, e sorpassarlo mantenendo ciò che ha di positivo. Non ho messo l’accento con tanta insistenza sull’aspetto negativo di questo pensiero se non nella speranza che così possiamo guarirne, sempre avendo in vista il buon uso della malattia. Si comprende ora che sono stato tentato, per ciò che concerne Bakunin, di calcare l’accento sulle sue dichiarazioni nichiliste. Non è che mi manchi l’ammirazione per questo prodigioso personaggio. Me ne manca talmente poca che la conclusione del mio libro si riferisce proprio alle federazioni francese, del Jura e spagnola della Prima Internazionale che erano in parte bakuniniane. Me ne manca talmente poca che sono persuaso che il suo pensiero può utilmente fecondare un rinnovato pensiero libertario ed incarnarsi fin d’ora41 in un movimento del quale le masse della CNT 42 e del sindacalismo libertario, in Francia ed in Italia, attestano sia la permanenza sia il vigore. È proprio però a causa di questo avvenire la cui importanza è incalcolabile, è proprio perché Bakunin vive in me come nei nostri tempi che non ho esitato a mettere in primo piano i pregiudizi nichilisti che condivideva con la sua epoca. Mi sembra che così facendo, malgrado l’opinione di Leval, ho alla fine reso un servizio alla corrente di pensiero di cui Bakunin è il maggiore rappresentante. Questo stesso instancabile rivoluzionario sapeva che la vera riflessione va avanti senza tregua e che muore nel fermarsi, che sia in una poltrona, in un movimento od in una chiesa. Sapeva che non dobbiamo mai riferirci che al meglio di coloro che ci hanno preceduti. Il più grande onore, infatti, che possiamo rendergli è nel proseguirli e non nel consacrarli: è a causa della deificazione di Marx che il marxismo è morto. Il pensiero libertario, a mio giudizio, non corre questo rischio. Possiede infatti un’immediata fecondità, a condizione di distaccarsi senza ambiguità da tutto ciò che, in se stesso ed ancora oggi, resta legato ad un romanticismo nichilista che non può portare da nessuna parte. È questo romanticismo che ho criticato, è vero, e continuerò a criticare, ma è questa fecondità che così facendo ho voluto servire. 40 Lenin lesse con estremo interesse e condivisione il Catechismo del Rivoluzionario: la teoria del partito leninista ed in particolare la tesi del rivoluzionario di professione mostrano il rapporto cui Camus fa riferimento. Cfr., p. e., BESANCON, Alain, Le Origini Intellettuali del Leninismo, Firenze, Sansoni, 1979. 41 Corsivo nell’originale. 42 Vedi nota 24. Il riferimento immediatamente successivo all’Italia fa capo agli allora numerosi militanti anarchici nella CGIL – i quali avevano scelto di non riformare l’anarcosindacalista Unione Sindacale Italiana in nome dell’unità del proletariato – ed a quelli che, in alcune regioni d'Italia, dopo la rottura dell’unità sindacale nel 1950, avevano tentato di ridare vita a questa stessa struttura con un certo radicamento nelle regioni del centro-nord della penisola.
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Aggiungerò soltanto che ho fatto ciò con piena coscienza di causa. La sola frase di Leval che, provenendo da un libertario, rischiava di amareggiarmi, in effetti, è quella dove scrive che mi ergo a censore universale. Tuttavia, se L’Uomo in Rivolta giudica qualcuno, è innanzitutto il suo autore. Tutti coloro i quali per cui i problemi sollevati in questo libro non sono esercitazioni retoriche hanno compreso che analizzavo una contraddizione che era stata dapprima mia. 43 Le idee di cui parlo mi hanno nutrito ed ho voluto continuarle sbarazzandole da ciò che, a mio giudizio, in loro stesse, le impedivano di avanzare. Non sono un filosofo, infatti, e non so parlare che di ciò che ho vissuto. Ho vissuto il nichilismo, la contraddizione, la violenza e la vertigine della distruzione. Ma allo stesso tempo ho acclamato il potere della creazione e l’onore di vivere. Nulla mi autorizza a giudicare da un piedistallo un’epoca nella quale sono completamente immerso. La giudico dall’interno, confondendomi con essa. Mi riservo però il diritto di dire ciò che oramai conosco su di me e sugli altri, alla sola condizione che ciò non serva ad aggravare l’insopportabile dolore del mondo, ma solo per individuare, nelle oscure mura nelle quali brancoliamo, i luoghi non ancora visibili dove si apriranno delle porte.44 Si, mi riservo il diritto di dire ciò che so – e lo dirò. Il mio solo interesse è la rinascita. La sola passione che anima L’Uomo in Rivolta è esattamente quella della rinascita. Per ciò che vi concerne, serbate pure il diritto di pensare, e dire, che ho fallito nel mio intento e, in particolare, che non ho servito il pensiero libertario del quale tuttavia credo che la società di domani non potrà fare a meno. Ho in ogni caso la certezza che, quando si sarà spento l’inutile rumore che si fa intor no a questo libro, si riconoscerà che ha contribuito, nonostante i suoi difetti, a rendere più efficace questo pensiero e, allo stesso tempo, ad affermare la speranza, e la possibilità, degli ultimi uomini liberi. P. S. – Per ciò che concerne la scienza, Leval ha ragione, Non è specificamente contro la scienza che Bakunin si erge con tanta perspicacia, ma contro il governo dei sapienti. Avrei dovuto specificare questa importante sfumatura e lo farò nella prossima edizione.45
43 Vedi l’Introduzione a questi scritti camusiani. Aggiungiamo qui che la cosa può essere evidenziata anche mettendo a confronto i due testi teoretici maggiori di Camus: Il Mito di Sisifo (dove la matrice del “nietzscheano di sinistra” è ancora in qualche modo presente) con L’Uomo in Rivolta (che abbraccia una posizione morale che oggi diremmo “fondazionalista”, “forte”). 44 È impossibile non notare l’assonanza – non solo di questo passaggio ma dell’intera argomentazione camusiana – con il finale de Le Città Invisibili di Italo Calvino (pubblicato vent’anni dopo): “L’atlante del Gran Kan contiene anche le carte delle terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoperte o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole, Oceana, Tamoé, Armonia, New-Lanark, Icaria. Chiese a Marco Kublai: – Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quali di questi futuri ci spingono i venti propizi. – Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di li metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto. Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte della città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia,Yahoo, Butua, Brave New World. Dice: – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente. E Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” (CALVINO, Italo, Le Città Invisibili, Milano, Mondadori, 1993, pp. 163/164) 45 Camus manterrà la promessa sin dalla successiva edizione del suo testo maggiore: anche la traduzione italiana corrente è stata condotta sul testo con la correzione in questione.
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Franco, Difensore della Cultura46 (La Révolution Prolétarienne, 364, luglio 1952, p. 23) Parigi, 12 giugno 1952 Signor Direttore Generale,47 30 MAGGIO L’UNESCO MI HA ESPRESSAMENTE RICHIESTO DI COLLABORARE ad una inchiesta che sta attuando su un problema concernente la cultura e l’educazione. Pregandovi di comunicare espressamente le mie ragioni agli organi direttivi dell'Istituzione, vorrei dirvi brevemente perché non posso consentire a questa collaborazione per tutto il tempo in cui si porrà la questione di fare entrare la Spagna franchista all’UNESCO. Ho appreso, infatti, questa notizia con indignazione. Dubito che ciò sia dovuto all’interesse che l’UNESCO può portare alle realizzazioni culturali del governo di Madrid né all’ammirazione che l’UNESCO ha potuto concepire per le leggi che regolano l’insegnamento secondario e primario in Spagna (in particolare le leggi del 20 settembre 1938 e del 17 luglio 1945, che i vostri uffici potranno consultare con profitto). Dubito ancora di più che essa si spieghi con l’entusiasmo con il quale il suddetto governo accoglie i principi cui l’UNESCO pretende ispirarsi. Infatti la Spagna franchista – che censura ogni libera espressione – censura anche le vostre pubblicazioni. Pongo, ad esempio, come sfida ai vostri uffici di organizzare a Madrid una delle Esposizioni dei Diritti dell’Uomo che hanno permesso di farli conoscere in molti paesi. Se già l’adesione della Spagna alle Nazioni Unite solleva pesanti problemi che per la maggior parte concernono la decenza, la sua entrata all’UNESCO – come d’altronde quella di ogni governo totalitario – violerà per sovrappiù la logica più elementare. Aggiungo che dopo le recenti e ciniche esecuzioni di attivisti sindacali in Spagna e nel momento in cui si apprestano nuovi processi, questa decisione risulterà particolarmente scandalosa. La raccomandazione del vostro Consiglio Esecutivo non può dunque spiegarsi che con ragioni che nulla hanno a che vedere con gli scopi riconosciuti dell’UNESCO e che, in ogni caso, non sono quelli degli scrittori e degli intellettuali dei quali potete sollecitare la simpatia o la collaborazione. È per questa ragione, anche se so che questa decisione sia in se poco importante, che mi sento comunque obbligato a rifiutare, per ciò che mi riguarda, ogni contatto con la vostra organizzazione, sino al momento in cui ritornerà sulla sua decisione, e di denunciare fino ad allora l’inaccettabile ambiguità della sua azione. Mi dispiace anche di dover rendere pubblica questa lettera dopo che l’avrete ricevuta. Lo farò per la sola speranza che persone di maggiore importanza della mia e, in generale, gli artisti e gli intellettuali, quali che siano, condividano la mia opinione e vi comunichino direttamente che sono decisi anche loro a boicottare un’organizzazione che sta per rinnegare pubblicamente ogni suo comportamento tenuto finora. Insieme al mio personale dispiacere, vi prego di credere, Signor Direttore Generale, ai miei più sinceri sentimenti. CON UNA LETTERA DEL
46 Il 17 novembre 1952 il Consiglio Economico e Sociale dell’ONU ammetterà la Spagna franchista nell’ UNESCO, con gli unici voti contrari del Messico, dell’URSS, dei paesi del Patto di Varsavia e con l’astensione della Svezia. Tutti gli altri paesi del Blocco Occidentale votarono a favore. Il testo camusiano in questione era stato redatto prima dell’evento, che si preannunciava; nel novembre le dimissioni diverranno irrevocabili. 47 Jaime Torres Bodet (17 aprile 1902 – 13 maggio 1974), politico e scrittore messicano. È stato direttore generale dell’UNESCO dal 1948 al 1952.
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Calendario della Libertà
(Témoins,48 5, primavera 1954, pp. 1-10)
19 Luglio 193649 IL 19 LUGLIO 1936 È INIZIATA IN SPAGNA LA SECONDA GUERRA MONDIALE . Oggi commemoriamo questo evento.50 Questa guerra è ovunque terminata – tranne proprio in terra spagnola. Il pretesto per non farla terminare è l’obbligo di prepararsi alla Terza Guerra Mondiale. Questo riassume la tragedia della Spagna repubblicana, che ieri si è vista imporre da alcuni capi militari ribelli una guerra civile con interferenze straniere e che, oggi, si vede imporre quegli stessi capi in nome di una guerra a lei estranea. Per quindici anni, una delle cause più giuste che un uomo possa abbrac ciare nella propria vita si è trovata costantemente deformata e, se era il caso, tradita, in nome degli interessi più vasti di un mondo consegnato alle lotte di potenza. 51 La causa della Repubblica si è trovata e continuamente si trova identificata con quella della pace – e questa, senza dubbio, è la sua forza. Disgraziatamente, il mondo non ha smesso di essere in guerra dopo il 19 luglio 1936 e la Repubblica Spagnola, di conseguenza, non ha smesso di essere tradita o cinicamente utilizzata. Per questo, forse, è inutile riferirsi, come abbiamo spesso fatto, allo spirito di giustizia e libertà nella coscienza dei governi. Un governo, per definizione, non ha coscienza. Ha, talvolta, una politica; e questo è tutto. Forse il modo più efficace di agire a favore della Repubblica Spagnola non è più quello di dire che è indegno per una democrazia uccidere una seconda volta coloro che si sono bat tuti e sono morti per la libertà di noi tutti. Questo è il linguaggio della verità, che perciò risuona nel deserto. Il modo efficace sarà piuttosto quello di dire che, se il mantenimento di Franco non si giu stifica in altro modo che con la necessità di assicurare la difesa dell’Occidente, allora non è per nul la giustificata. Questa difesa dell’Occidente, occorre che lo si sappia, perderà le sue ragioni ed i suoi migliori militanti se essa comporta la prosecuzione di un regime usurpatore e tirannico. Poiché i governi occidentali hanno deciso di attenersi ad uno stretto realismo, occorre dir loro che, tuttavia, i convincimenti di tutta una parte dell’Europa fanno anch’essi parte della realtà e che 48 Rivista teorica trimestrale della sinistra rivoluzionaria antistalinista di lingua francese, edita in Svizzera ma diffusa anche in Francia, molto interessata alle tematiche pacifiste e caratterizzata dal marcato indirizzo anarchico della maggioranza dei suoi redattori. Apparve dal 1953 al 1967 per 37 numeri. 49 Il 18 luglio 1936 un sollevamento militare insorse contro la repubblica spagnola: pochi mesi prima libere elezioni avevano portato al governo le forze della sinistra. Il giorno seguente la popolazione spagnola – organizzata nella sua maggioranza nella CNT (la centrale anarcosindacalista, vedi nota 24), nella FAI (Federación Anarquista Iberica, l’organizzazione dei gruppi anarcocomunisti specifici) ed in parte nel POUM (Partido Obrero de Unificación Marxista, partito a cavallo tra il trotzkismo ed una interpretazione libertaria del marxismo) – insorse contro i golpisti del generale Francisco Franco. Il 19 luglio 1936 segna perciò la data d’inizio di quella che nella tradizione libertaria è la rivoluzione spagnola, termine che questa tradizione contrappone al più generico “guerra civile”. La rivoluzione spagnola (luglio 1936-aprile 1939) vide in campo due fronti contrapposti: da una parte i reazionari nazionalisti di Francisco Franco (poi appoggiati anche da Hitler e Mussolini) e dall’altra il variegato fronte repubblicano (anarchici, trotzkysti, stalinisti, socialdemocratici e democratici liberali), nell’ambito dei quali gli anarchici ebbero una grande influenza e sostegno popolare, anche se dovettero confrontarsi soprattutto con il violento ostracismo dei marxisti filosovietici. Dopo tre anni di battaglie giunse la sconfitta dei repubblicani, tuttavia la rivoluzione libertaria spagnola è considerato il momento storico più importante dell’intera storia dell’anarchismo e ancora oggi rappresenta il maggior e più significativo esempio di realizzazione del comunismo anarchico, anzi del comunismo in assoluto quando è inteso nel senso originario del termine. 50 Come si potrà notare facilmente in seguito, l’articolo in questione è la trascrizione di vari interventi pubblici in occasione di meeting politici: specie nel caso spagnolo, questi sono avvenuti di fronte anche ad esponenti della resistenza antifranchista in esilio. 51 “Aux luttes de la puissance”. Oltre che con le dinamiche della guerra fredda, è evidente l’assonanza con la nietzscheana volontà di potenza che, dopo la riflessione de L’Uomo in Rivolta, ora gli appare come un meccanismo ideologico volto alla giustificazione del dominio dell’uomo sull’uomo a fondamento di entrambe le parti in lotta. Vedi l’Introduzione ai testi.
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alla fine non sarà possibile negarle. I governi del XX secolo hanno una deprecabile tendenza a credere che l’opinione pubblica e le coscienze possano venire governate come le forze del mondo materiale. Se è vero che le tecniche della propaganda o del terrore sono giunte a conferire alle opinioni ed alle coscienze una costernante elasticità, ciononostante v’è un limite ad ogni cosa, in particolare alla flessibilità dell’opinione. Si è potuta mistificare la coscienza rivoluzionaria al punto tale da farle esaltare le miserabili imprese della tirannia. Ciononostante, gli stessi eccessi di questa tirannia rendono questa mistificazione evidente ed ecco che, alla metà del secolo, la coscienza rivoluzionaria si risveglia e ritorna verso le sue origini. D’altro lato, si è potuto mistificare l’ideale della libertà per il quale popoli ed individui hanno saputo battersi nello stesso momento in cui i loro governi capitolavano. Si è potuto rendere pazienti questi popoli, portarli a compromessi sempre più pesanti. Oramai però un limite è stato raggiunto e bisogna dire chiaramente che, se viene oltrepassato, non sarà più possibile strumentalizzare le coscienze libere: si sarà invece costretti a combattere anche contro di loro. Questo limite, per noialtri europei che abbiamo preso coscienza del nostro destino e della verità il 19 luglio 1936, è la Spagna e la sua libertà. Il più grande errore che possono commettere i governi occidentali sarebbe ignorare la realtà di un tale limite. La nostra più grande debolezza sarebbe non farglielo notare. Ho letto negli assai singolari articoli che un giornale – il quale ci ha abituati ad una neutralità portata all’eccesso – consacra a quello che chiama il problema spagnolo, che i capi repubblicani spagnoli non credono più davvero alla repubblica. Se ciò fosse vero, questo giustificherebbe le peggiori azioni contro una tale repubblica. L’autore di questi articoli, M. Creach, 52 parlando dei capi repubblicani, aggiunge però “quelli almeno che vivono in Spagna”. Purtroppo per M. Creach e fortunatamente per la libertà dell’Europa, i capi repubblicani non vivono in Spagna. Oppure, se vi risiedono, M. Creach non può incontrarli nei ministeri e nei salotti madrileni. Quelli che conosce e che dice essere repubblicani, in effetti, hanno cessato di credere alla repubblica. Hanno però cessato di credervi nel momento in cui hanno accettato di sottometterla una seconda volta ai suoi carnefici. I veri, i soli capi repubblicani che vivono in Spagna hanno un’opinione così radicale che temo non possa piacere a M. Creach né a coloro che, per servire Franco, non smettono di rifarsi al rischio della guerra ed alla necessità del la difesa dell’Occidente.53 Questa è l’opinione dei combattenti in clandestinità, opinione che occorre conoscere perché, essa sola, ci può indicare il limite sul quale tutti noi dobbiamo tenerci e, per ciò che ci riguarda, non lasceremo superare. Poiché vorrei che la mia voce fosse molto più forte di quanto non sia e che giunga direttamente a coloro i quali hanno il ruolo di definire la politica occidentale in vista della concretezza, riporto allora per loro le chiare posizioni del più potente movimento clandestino spagnolo. Queste posizioni, di cui garantisco l’origine e l’autenticità, sono brevi. Eccole: “Per costumi, cultura, civiltà apparteniamo al mondo occidentale e siamo contro il mondo orientale. Restando però Franco al potere, faremo ciò che occorre per far sì che nessun uomo combatta da noi a favore del blocco occidentale. Ci siamo organizzati per questo.” 54 Questa è una realtà che i realisti d’Occidente farebbero bene a considerare – e non solo per ciò che concerne la Spagna. Perché il combattente che qui parla 55 e la cui vita, oggi, è in continuo peri52 La stessa rete non conserva memoria di un giornalista di questo nome attivo negli anni cinquanta del XX secolo: questo intervento polemico di Camus sembra essere stato il suo unico viatico per la posterità. Difficile individuare anche il periodico su cui scriveva i suoi articoli, data l’estrema allusività di Camus in merito. 53 In effetti, gli antifascisti spagnoli restati nella loro terra, lungi dall’aderire o quantomeno pacificarsi con il franchismo, lo avevano fatto per condurre una lotta armata contro di esso, che durò fino alla caduta del regime e che conobbe momenti di enorme intensità, giungendo anche a vere e proprie insurrezioni volte alla riconquista dell’intera Spagna. 54 Posizioni del genere derivano dall’attacco feroce che lo stalinismo, durante la guerra civile spagnola, fece alle collettività comuniste anarchiche. In altri termini, i combattenti clandestini spagnoli dicono che loro non si sentono per nulla parte del blocco sedicente socialista, ma che le necessità della lotta antifranchista li porterà fatalmente a comportarsi come se lo fossero. 55 Nonostante le mie ricerche, non sono riuscito a trovare l’identità del miliziano spagnolo. È comunque pressoché certo – data l’aura di segretezza con cui Camus avvolge la testimonianza su questa persona – trattarsi di un militante che svolgeva azioni di resistenza armata dentro la Spagna franchista, ma che viveva o si recava in Francia per essere ben conosciuto dal filosofo francese.
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colo, è fratello d’armi di centinaia di migliaia di europei che gli somigliano, che sono pronti a lottare per le loro libertà e determinati 56 valori dell’Occidente, che sanno anche che ogni lotta presuppone un minimo di realismo, ma che non confondono mai realismo e cinismo e che non prenderebbero mai le armi per difendere l’Occidente insieme agli eserciti franchisti e le libertà insieme agli ammiratori di Hitler. Esiste infatti un limite che non verrà sorpassato. Per quasi dieci anni abbiamo mangiato il pane della vergogna e della sconfitta. Il giorno della Liberazione, al culmine delle più grandi speranze, abbiamo appreso sorpresi che la vittoria era stata tradita e che dovevamo rinunciare a qualcuna delle nostre illusioni. A qualcuna? Senza dubbio! Dopo tutto, non siamo dei bambini. Non certo però a tutte, di sicuro non alle nostre convinzioni fondamentali. Su questo limite chiaramente tracciato si situa in ogni caso la Spagna che, una volta di più, ci aiuta con la sua chiara voce. Nessuna lotta potrà essere giusta se, in realtà, essa viene portata avanti contro il popolo spagnolo. Se la si fa contro di lui, la si fa contro di noi. Nessuna Europa, nessuna cultura sarà libera se si fonda sulla servitù del popolo spagnolo. Se si fonda su quella servitù, si farà contro di noi. L’intelligente realismo dei politici occidentali, alla fine, porterà alla loro causa cinque aeroporti e tremila ufficiali spagnoli ma ad alienarsi definitivamente centinaia di migliaia di europei. Dopo di che, questi geni della politica si congratuleranno a vicenda nel cuore delle rovine. A meno che i realisti intendano davvero il linguaggio del realismo e comprendano, infine, che il migliore alleato del Kremlino non è, oggi, il comunismo spagnolo ma lo stesso generale Franco ed i suoi sostenitori occidentali. Questi ammonimenti saranno forse inutili. Per il momento però, e malgrado tutto, resta un piccolo spazio per la speranza. Che questi discorsi vengano fatti, che un combattente spagnolo abbia potuto tenere il linguaggio che ho riportato, questo prova almeno che nessuna sconfitta sarà definitiva finché il popolo spagnolo, come ho appena mostrato, mantiene la sua capacità di lottare. Paradossalmente, è questo popolo affamato, asservito, esiliato dalla comunità delle nazioni che, oggi, è il custode ed il testimone della nostra speranza. Lui almeno – in questo assai differente dai capi di M. Creach – è vivo, soffre e lotta. È per questo aspetto che il popolo in questione imbarazza i teorici del realismo, che affermano che esso pensa innanzitutto alla sua tranquillità. Vi pensa talmente poco che questi teorici sono stati costretti a gettarlo via come fosse zavorra. I giornali dove oggi si esprime l’autonominatasi élite europea si sono sforzati di spiegare l’evento degli scioperi spagnoli57 come se essi favorissero le vere forze del regime franchista. La loro ultima trovata è che questi scioperi sono stati appoggiati dalla borghesia e dall’esercito. Questi scioperi, però, sono stati effettuati da coloro che lavorano e soffrono – ecco la verità: ed anche se è possibile che qualche industriale e qualche vescovo possano avervi visto un’occasione per esprimere senza pagare di persona la loro opposizione, allora essi sono ancora più disprezzabili per aver strumentalizzato il dolore ed il sangue del popolo spagnolo allo scopo di affermare ciò che erano incapaci di gridare in prima persona. Questi movimenti sono stati spontanei e la loro forza garantisce la realtà effettiva delle affermazioni del nostro compagno nonché fonda la sola speranza che possiamo nutrire. Non crediamo che la causa repubblicana vacilli! Non crediamo che l’Europa agonizzi! Ciò che viene meno, dall’Est all’Ovest, sono le sue ideologie. Forse l’Europa, cui la Spagna è unita, è talmente miserabile solo perché si è allontanata del tutto, persino nelle sue idee rivoluzionarie, da una generosa fonte di vita, da un pensiero in cui la giustizia e la libertà si fondono in un’unità vivente, ugualmente lontana sia dai filosofi borghesi sia dal socialismo cesareo. I popoli spagnoli, italiani e francesi conservano il segreto di questo pensiero e lo conserveranno ancora fino al momento in cui esso servirà alla rinascita. In quel momento, il 19 luglio 1936 sarà anche una delle date della seconda rivoluzione del Novecento, che ha il suo fondamento nella Comune di Parigi, che va sem56 Qui Camus dice che non intende difendere l’Occidente in quanto tale, ma “determinati valori” sviluppatisi in esso: evidentemente quelli del movimento operaio e socialista, particolarmente nella loro versione libertaria. 57 Negli anni cinquanta la CNT e gli altri sindacati spagnoli si erano riorganizzati in clandestinità e porta rono a compimento molti scioperi: quelli di cui parla Camus, di enorme portata, avvennero in concomi tanza con la visita del presidente statunitense Eisenhower in Spagna, evento che sancì lo “sdoganamento” del regime franchista dopo anni di isolamento politico internazionale. La frase riportata sopra del militante clandestino si comprende anche all’interno di questo contesto.
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pre avanti nonostante le apparenze della disfatta, che non ha ancora finito di scuotere il mondo e che, alla fine, porterà l’umanità ancora oltre di quanto non abbia potuto fare la rivoluzione del 1917. Nutrita dalla Spagna e, in generale, dal geniale spirito libertario, esso ci renderà un giorno, finalmente in piena luce, una Spagna ed un’Europa e, insieme ad esse, nuovi compiti e nuove lotte. 58 Questo, almeno, costituisce la nostra speranza e la nostra motivazione nella lotta. Compagni spagnoli, dicendo questo non dimentico – siatene certi – che se quindici anni sono poca cosa allo sguardo della Storia, questi quindici anni che sono trascorsi hanno pesato su di voi come un macigno, nel silenzio dell’esilio. C’è un argomento del quale non so più parlare, per averlo fatto troppe volte, ed è il mio appassionato desiderio di vedervi ritrovare nella sola terra che vi si addica. Anche questa sera avverto l’amarezza che si può provare a parlarvi solo di continue lotte e combattimenti invece della felicità cui avete a giusto titolo diritto – ma tutto ciò che possiamo fare per dare un senso a tante sofferenze e morti è portare dentro di noi le loro speranze, di evitare che queste sofferenze siano state vane e che quei morti siano dimenticati. Questi quindici anni hanno logorato tanti uomini nel loro impegno, ma ne hanno creato altri il cui destino è rendere giustizia ai primi. Per quanto pesante sia tutto ciò, è così che popoli e civiltà si elevano. Dopo tutto è da voi, è da una parte della Spagna, che qualcuno di noi ha imparato a raddrizzare la schiena ed accettare costantemente il duro dovere della libertà. 59 Questo duro e infinito dovere, a nostra volta, dobbiamo condividerlo con voi, senza cadute e senza compromessi. Così vi si rende giustizia. Da quando ho raggiunto l’età della ragione, ho incontrato nella storia tanti di quei vincitori la cui faccia ho trovato orrenda, perché vi si leggeva l’odio e la solitudine, perché essi non erano più nulla allorquando smettevano di essere dei vincitori. Occorreva loro uccidere ed asservire solo per esistere. Esiste però un’altra specie di uomini che aiuta a vivere, che non ha mai trovato la propria esistenza e la propria libertà in altro luogo che non fosse la libertà e la felicità di tutti e che, di conseguenza, trova anche nelle sconfitte ragioni per vivere e per amare. Costoro, anche sconfitti, non saranno mai soli.
58 Questo è un punto che chiarisce la posizione camusiana in merito alla “morte delle ideologie” – concetto tipico degli anni della fine del secolo scorso di cui Camus è stato, a torto, ritenuto un precursore. In ef fetti, il concetto più recente della “morte delle ideologie”, da un lato, decreta la morte di ogni ideologia che tenda in un qualsiasi modo al superamento del capitalismo e delle strutture liberal-democratiche, dall’altro, non considera “ideologie” il pensiero liberale ed una concezione liberistica dell’economia: queste sarebbero la rappresentazione di uno stato naturale delle cose contro il quale sarebbe inutile, anzi disastroso, “remare contro”. Vedi in merito il classico FUKUYAMA, Francis, La Fine della Storia e l’Ultimo Uomo, Milano, Rizzoli, 1992. La posizione di Camus è notevolmente diversa: a suo dire sarebbero sia l’ideologia liberal-liberista sia il “socialismo cesariano” a stare entrando in crisi. Le cose sono andate certo diversamente, ma ciò non toglie che intendere Camus come un precursore di Fukuyama e seguaci di vario genere è un’operazione forzata e, questa sì, “ideologica”. 59 Camus qui parla anche – anche se non solo – di se stesso: il suo distacco dal giovanile marxismo-leninismo avvenne proprio in occasione delle dinamiche della guerra civile spagnola. Queste frasi camusiane sono una testimonianza storica su questo momento della sua vita intellettuale e politica.
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17 Giugno 195360 NON APPARTENENDO A NESSUN PARTITO ED ASSAI POCO TENTATO AL MOMENTO DI ENTRARE IN QUALCUNO, mi sembra che darei un senso alla nostra riunione di stasera qualora riuscissi a chiarire in poche frasi le ragioni che mi hanno portato a questo palco. Per meglio contestualizzare queste ragioni, occorre dire innanzitutto che gli eventi berlinesi hanno suscitato in certi ambienti una gioia decisamente ignobile, che non può essere la nostra. Nel momento in cui, dopo due anni d’agonia, i Rosemberg sono condotti al patibolo, 61 la notizia che si spari sugli operai di Berlino Est, lungi da far dimenticare il supplizio dei Rosemberg come ha cercato di fare la stampa che comunemente si definisce borghese, per noi aggiunge soltanto altro peso alla persistente infelicità di un mondo dove, una ad una, sistematicamente, tutte le speranze vengono assassinate. Quando Le Figaro parla retoricamente del popolo rivoluzionario di Berlino ci verrebbe da ridere se non fosse che, nello stesso giorno, L’Humanité, attaccando quelli che che chiama, come ai vecchi tempi, i “sobillatori”, non ci mettesse davanti agli occhi la tragedia in cui viviamo e la duplice mistificazione 62 che prostituisce persino il nostro linguaggio. Ma se ritengo impossibile che le sommosse berlinesi facciano dimenticare i Rosemberg, mi sembra molto più spaventoso che uomini sedicenti di sinistra possano cercare di nascondere nella loro ombra i fucilati tedeschi. Nondimeno è ciò che abbiamo visto e che vediamo ogni giorno – ed è per questo che siamo qui. Ci siamo perché, se non vi fossimo, evidentemente nessuno tra coloro la cui proclamata vocazione sarebbe quella di difendere i lavoratori, vi sarebbe. Siamo qui perché gli operai berlinesi rischiano di essere traditi dopo essere stati assassinati – e di essere traditi da quegli stessi da cui potrebbero sperare solidarietà. Quando ci si pretenda votati allo scopo dell’emancipazione dei lavoratori, le rivolte operaie che – in Germania, in Cecoslovacchia63 – si oppongono a che i loro ritmi di lavoro siano aumentati e 60 Il 15 Giugno 1953, gli operai edili del cantiere Stalinallee di Berlino est entrarono in sciopero contro l’imposizione del taglio di un terzo del loro salario se non avessero aumentato del 10% la produzione. Questo ed altri provvedimenti del genere, che riguardavano l’intera classe lavoratrice della DDR, erano volti a finanziare la riforma del 9 giugno 1953 che prevedeva la reintegrazione di molti evasori, industriali e commercianti all’ingrosso nei loro diritti di proprietà senza l’obbligo di pagare gli arretrati delle tasse e si prevedevano altresì per loro prestiti a tasso agevolato, la revoca delle confische dei terreni dei latifondisti a favore delle cooperative agricole, la restituzione delle terre ai contadini ricchi fuggiti all’Ovest, la riconsegna delle proprietà al clero e misure dello stesso genere che oggi definiremmo “neoliberiste”. La mattina del 16 Giugno 1953, 1.500 operai provenienti dal Blocco 40 e dal Blocco C-Sud della Stalinallee manifestarono dietro a un grande striscione in cui c’era scritto: “Siamo lavoratori, non siamo schiavi!”. Il 17 Giugno fu il giorno dell’insurrezione. Si calcolano circa 300.000 lavoratori coinvolti negli scioperi. I lavoratori chiesero le dimissioni del governo della Germania Est, accusato di essere un governo antioperaio. Il governo, per contro, si rivolse all’Unione Sovietica, che schiacciò la rivolta con la forza militare. Ancora oggi non è chiaro quante persone morirono durante le sollevazioni e per le condanne a morte che seguirono. Dopo l’analisi dei documenti resi accessibili a partire dal 1990, il numero di vittime sembrerebbe essere di almeno 125. Malgrado l’intervento delle truppe sovietiche, l’ondata di scioperi e proteste non venne riportata facilmente sotto controllo. In più di 500 città e villaggi ci furono dimostrazioni anche dopo il 17 giugno. Il momento più alto delle proteste si ebbe a metà luglio. Vedi SAREL, Benno, La classe operaia nella Germania Est, Torino, Einaudi, 1959, Capitolo 5, La rivolta (1952-53). 61 Nel 1951 era iniziato il processo ai coniugi Ethel e Julius Rosenberg, accusati di cospirazione attraverso lo spionaggio per aver passato ad agenti sovietici dei segreti sulle armi nucleari. In un clima fortemente anticomunista di “caccia alle streghe“, alimentato dal senatore Joseph McCarthy, i Rosenberg furono condannati a morte e giustiziati sulla sedia elettrica il 19 giugno 1953. Il caso Rosenberg suscitò polemi che violentissime in tutto il mondo. Il processo si svolse dal 6 marzo al 5 aprile 1951. Subito dopo iniziarono gli appelli, le revisioni e le domande di grazia, fino al 19 giugno 1953, giorno dell’esecuzione della sentenza capitale. La posizione in merito di Albert Camus – di là della sua notoria posizione contraria in linea di principio alla pena di morte – fu strettamente “innocentista”. 62 Anche qui è chiara la posizione camusiana, la cui critica verso i paesi sedicenti socialisti non lo porta ad abbracciare la liberaldemocrazia. 63 Nello stesso 1953, agli inizi di giugno in Cecoslovacchia a Pilsen nei primi di giugno la città fu sotto il controllo degli operai dopo una sollevazione popolare, partita anch’essa dall’opposizione a misure so-
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che giungono, coerentemente, a reclamare libere elezioni, dimostrando così a tutti quei dinamici intellettuali che predicano loro il contrario che la giustizia è inseparabile dalla libertà, queste rivolte, con la grande lezione che comportano e la repressione che le ha seguite, non meritavano una qualche riflessione? Non meritavano, dopo tante prese di posizione proclamate a casaccio, una dichiarazione ferma e chiara di solidarietà? Quando un lavoratore, ovunque nel mondo, alza i suoi pugni nudi64 di fronte ad un carro armato e grida che lui non è uno schiavo cosa siamo, dunque, se restiamo indifferenti? Cosa vuol dire allora che interveniamo per i Rosemberg se restiamo in silenzio di fronte a Goettling?65 Pertanto, quello al quale abbiamo assistito è un tradimento del proprio ruolo – pertanto, più che l’indignazione, è il disgusto che ci fa parlare stasera. In ogni caso, per ciò che mi riguarda, mi è sembrato che non fosse possibile tranquillizzarsi la coscienza a così buon mercato. Ammiro ed invidio, beninteso, l’allegra semplicità con la quale certa stampa di sinistra ed i suoi fiancheggiatori hanno neutralizzato – è la parola adatta – la tragedia berlinese. Ammiro il fatto che, sin dal primo giorno, i nostri organi di stampa progressisti abbiano in maniera così spontanea scoperto che le manifestazioni della Stalin Allee66 erano state ispirate dal governo russo. 67 Questa ingegnosa interpretazione si è trovata ad essere un po’ offuscata quando i colpi di fucile hanno falciato i manifestanti del Kremlino. Nel frattempo, però, era riuscita a confondere le idee. Dopo di che è stato suf ficiente qualche correzione tipografica per esiliare in terza pagina la notizia più importante che si era avuta da anni. Ammiro inoltre come un giornalista abbia potuto terminare un resoconto degli avvenimenti berlinesi, che aveva conosciuto sostanzialmente di seconda mano, 68 facendoci sapere che la partenza dei russi, abbandonando i tedeschi a se stessi, lascerebbe campo libero ad atrocità ancora peggiori di quelle che hanno accompagnato la nostra Liberazione. Ci si può meravigliare, in effetti, che la sola lezione che rischiamo di trarre dai moti berlinesi è che avremmo dovuto, alla fine, dispiacerci della sconfitta di Hitler. Infine, non è più ammirazione, ma una sorta di rispetto e devozione che provo di fronte ad un giornalista d’un settimanale, teoricamente di sinistra, che in occasione di un’inchiesta su questi stessi eventi ha potuto scrivere senza impallidire che occorreva ammirare la disciplina ed il controllo delle truppe russe. Alla fine, però, malgrado tutta questa ammirazione, c’è almeno un argomento che mi pare non si possa mettere da parte, quello che consiste nel dire che non siamo sufficientemente informati. Giacché, in ogni caso, non si è mai che parzialmente informati su ciò che accade nei regimi totalitari – quali che essi siano. Bisogna allora che solo la dittatura venga sottratta al giudizio dell’opinione pubblica per il solo fatto che si rifiuta di informarla? Bisogna tacere su tutte le Bastiglie con il pretesto che i loro prigionieri non sono direttamente collegati tramite una linea dedicata con i direttori dei nostri giornali? Il fatto che gli eventi di cui ci occupiamo siano avvenuti a pochi passi dal settore occidentale è stata la sola cosa che ha impedito che non fossero completamente alterati. Se
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ciali sul modello “neoliberista” visto per la DDR, con la specifica di una riforma monetaria particolar mente gravosa per la classe lavoratrice. L’esercito non volle aprire il fuoco sui rivoltosi, per cui la sommossa dovette venire sedata da poliziotti del reparto di sicurezza della capitale, che intervenirono anche nella zona industriale di Praga e nelle miniere di Ostrava. Nelle rivolte in questione, come poi in quelle ungheresi di tre anni dopo, gli operai si rivoltavano contro i loro governi ritenendoli sedicenti socialisti, utilizzando il saluto del pugno chiuso, cantando l’Internazionale ed altri inni del movimento operaio e socialista. Willi Goettling era un operaio della zona ovest di Berlino (all’epoca non esisteva ancora il muro che divideva le due città ed era relativamente facile passare dall’una all’altra parte della città) trovato nella zona est durante i disordini. Portato davanti ad una corte marziale, fu accusato di essere una spia occidentale e condannato a morte in tempi brevissimi da una corte marziale. Viale Stalin. Già Viale Marx, ribattezzato così il 21 dicembre 1949 in occasione del 70° compleanno del dittatore russo, fu attraversato dalle manifestazioni operaie. Il carattere di sinistra di tali rivolte operaie (vedi nota 64) fu all’inizio evidente e la stampa filorussa cercò inizialmente di interpretarle come un’adesione alle idee del “socialismo reale” e non come una loro critica “da sinistra”. Il gruppo redazionale di Témoins , invece, e dunque Camus, erano in contatto diretto con i gruppi sindacali e politici che avevano animato “da sinistra” la rivolta e che fornivano resoconti di prima mano agli organi della sinistra rivoluzionaria antistalinista.
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non fosse stato per questo, avremmo ignorato questa rivolta o l’avremmo conosciuta come abbiamo conosciuto le rivolte in Cecoslovacchia, 69 un po’ alla volta, tramite gli spessi muri delle polizie e delle prigioni. Questi eventi, però, si sono svolti sotto gli occhi dei berlinesi 70 ed anche sotto una macchina fotografica olandese, per cui non possiamo più ignorare che si è trattato innanzitutto, quale che sia l’interpretazione che se ne è voluta dare dai due lati opposti, 71 di una rivolta operaia contro un governo ed un esercito che si pretendevano essere al servizio degli operai – e se non ne fossimo persuasi a sufficienza, i discorsi del governo di Berlino Est ce lo confermeranno. Coloro che dopo tutto ciò dicono pubblicamente che non ne sono sufficientemente informati, io li sfido a dirselo da se stessi, da soli, nell’intimo della loro coscienza. Perciò l’oscurità che pesa su alcuni aspetti della rivolta, l’ignoranza in cui siamo circa la sorte di migliaia di uomini, è indegno utilizzarle contro le sole vittime. Se questa ignoranza accusa qualcuno, sono gli autori della repressione, non i rivoltosi. Giacché alla fine questo occorre dire, cosa che per me è la definitiva condanna, che persino oggi degli uomini vengono uccisi per aver rivendicato la libertà della classe operaia – e che proprio perciò non ne sapremo mai i nomi. Dal momento però che queste vittime resteranno per sempre anonime,72 dobbiamo liquidarle una volta di più e questa volta nella nostra memoria? Sappiamo solo che sono dei lavoratori insorti in difesa delle loro condizioni di lavoro e, poiché non conosciamo nemmeno i loro nomi, prendete pretesto da ciò per renderli ancora più anonimi, per disconoscere quella che è la loro condizione, contestare la loro identità di lavoratori e persino, ogni volta che sia possibile, trattandoli da canaglie e da fascisti? No, è a questo penoso ordine di servizio cui rifiutiamo obbedienza, è per compensare parzialmente questo ributtante intrigo politico che noi tutti siamo qui. Per chiarire a tutti, infine, con una sola frase le ragioni della nostra presenza, occorre dire che, di fronte ai lavoratori tedeschi e ceco slovacchi ridotti al silenzio, rifiutiamo che ci si possa dire con rabbia un giorno “loro, loro li hanno assassinati e voi, voi li avete seppelliti nella vergogna.” Ho poche cose da aggiungere per chiudere 73 questa riunione. Molte cose importanti sono state fatte da da ciascuno di noi dopo la Liberazione. Oggi, però, di fronte all’evento più grave che si sia prodotto dopo questa Liberazione, ecco, a mio giudizio, l’ora della scelta definitiva. Mi sembra impossibile che uomini che si dicono impegnati per la dignità e per l’emancipazione dei lavoratori possano, con il loro silenzio, accettare l’esecuzione di operai il cui solo crimine è di essersi ribellati contro un’insopportabile condizione materiale di vita. È vero, né gli uni né gli altri sono stati capaci d’impedire questa tragedia. La repressione non si è però fermata e possiamo ancora, con la manifestazione della nostra opinione, pesare almeno un poco sugli eventi futuri. Quando i primi segni di antisemitismo sono apparsi nell’Est, è stata la spontanea indignazione di coloro che, nell’Ovest, non erano uomini rigidamente di parte che, in qualche modo, ha dimostrato ai governi popolari che non potevano lasciare che si radicasse questa perversione. Perciò è per questo che, con voi tutti, mi rivolgo a coloro i quali non hanno dimenticato che furono nostri compagni per dir loro: quand’anche non salvassimo che la vita di un solo operaio tedesco nei giorni che verranno, questa vita varrebbe la pena del fatto che ci siamo riuniti e varrebbe almeno la pena che coloro che hanno finora taciuto parlino adesso e ci aiutino a salvarla. Non mettete avanti i vostri calcoli e le vostre illusioni a questa miseria che grida verso di noi da più di due settimane, non giustificate il sangue ed il dolore di oggi in base all’ipotesi di un futuro storico che sarà privo di senso per coloro che avrà assassinato. Credeteci, infine, quando vi diciamo che nessun sogno umano, per grande che sia, giustifica che si uccida il lavoratore ed il povero. Nessuno vi chiede di rinnegare nulla di ciò che credete o volete; nel nome stesso però della verità che pretendete servire, reclamate con noi solamente questa commissione d’inchiesta in cui saranno rappresentate tutte le centrali sindacali e che servirà, almeno, da mediatrice in un dramma dove in gioco non è la società ideale della quale 69 Vedi nota 63. 70 Camus intende di quelli della parte Ovest della città che, prima del muro, avevano una relativa libertà di movimento tra le due parti. Vedi il caso di Willi Goettling (nota 65). 71 Cioè la stessa: una rivolta filo-occidentale ed antisocialista. In entrambi i casi si è voluto negare il carattere di critica da sinistra al “socialismo reale”. 72 In effetti, a tutt’oggi numero ed identità delle vittime di tali rivolte è assai incerto. 73 L’intervento camusiano originario, dunque, svolgeva il ruolo di “tirare le conclusioni” del meeting.
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sognate, per un giorno ancora invisibile,74 ma la morte terribile di cui la gente umiliata è oggi minacciata anche per aver creduto – come il Marx di cui parlate loro tutti i giorni – che l’uguaglianza non poteva e non doveva fare a meno della libertà.
74 Tema tipico della tradizione libertaria: all’interno della polemica sulla “fase di transizione” si accusa la concezione marxista del comunismo di essere del tutto astratta, di fare riferimento per la sua realizza zione ad uno sviluppo delle forze produttive da fantascienza e, di fatto, di negare la possibilità effettiva di una società basata sul principio “da ognuno secondo le sue possibilità ad ognuno secondo i suoi bi sogni”, rinviandola ad un futuro indefinito. In modo particolare La Conquista del Pane e soprattutto Campi, Fabbriche, Officine di Piotr Kropotkin – ricchissimi di dati statistici dell’epoca – erano testi volti a mostrare la possibilità concreta di una società comunista autogestionaria già a partire dai livelli produttivi di fine XIX/inizi XX secolo.
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Dichiarazione di Solidarietà a Maurice Laisant 75 (Le Monde Libertaire,76 5, febbraio 1955, p. 1)
HO CONOSCIUTO LAISANT IN UN INCONTRO DOVE ERAVAMO LÌ INSIEME per chiedere la liberazione di alcuni uomini condannati a morte in un paese vicino. Poi l’ho rincontrato spesso ed ho potuto ammirare la sua volontà di lottare contro il flagello che minaccia il genere umano. Mi sembra impossibile che si possa condannare un uomo la cui azione si identifica in maniera così completa con gli interessi dell’intera umanità. Troppo rari sono coloro che si oppongono ad un pericolo per l’umanità ogni giorno sempre più terribile.
75 Maurice Laisant (1909-1991) è stato un’attivista anarchico e pacifista: attivo nelle organizzazioni pacifiste prima della guerra, militando già nel 1935 nell’Unione dei Giovani Pacifisti di Francia (UJPF). Nel giugno dell’anno successivo è stato nominato segretario ad interim della sezione francese dell’Internazionale Pacifista giovanile e, nel mese di dicembre, fonda il Centro per la Difesa degli Obiettori di Coscienza. Dopo la Liberazione ha partecipato alla nascita della Federazione Anarchica di lingua francofona (FA) ed è stato il direttore responsabile di Le Monde Libertaire. Maurice Laisant divenne vice segretario dell’Associazione Forze Libere di Pace nel 1952. Il 26 gennaio 1955 è stato condannato dalla diciassettesima Camera Penale a 12.000 franchi di multa per aver firmato con lo pseudonimo di Hemel un manifesto contro una possibile mobilitazione militare. È stato attivo fino alla morte. 76 Dal 1954 è l’organo settimanale della Federazione Anarchica Francofona, erede, in qualche modo, de Le Libertaire. In certi momenti, la circolazione della rivista ha raggiunto le 100.000 copie. Maurice Joyeux ne è stato uno dei maggiori animatori e la dichiarazione di Camus si trova all’interno di un suo articolo (“Attacco del governo contro le Forze Libere di Pace, Maurice Laisant condannato”.)
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Il Rifiuto dell’Odio (Témoins, 8, primavera 1955, pp. 2-5) Nota Redazionale – Prefazione a La Germania vista dagli Scrittori della Resistenza Francese di Konrad Bieber (Droz, Ginevra). Non possiamo astenerci dal notare che la rivista Esprit,77 parlando dell’opera di Bieber, si è pudicamente astenuta dal segnalare che Albert Camus ne aveva scritto la Prefazione. Omissione forse involontaria, a meno che questo sia un esempio ulteriore della ristrettezza mentale della quale la loro osservanza neostalinista o di nuova sinistra 78 ha obbligato i nostri cristiani progressisti a prenderne devotamente l’abito. Caro Signore, RESISTENZA e raramente ho avuto piacere nel dire od ascoltare ciò che se ne diceva. Il culto del passato presuppone una vocazione che mi manca ed è per me tempo completamente sprecato. Da un certo punto di vista, sono un uomo senza memoria. Aggiungete che il genere “Vecchio Combattente” non mi appartiene, che siamo stati ingozzati di retorica e, infine, che un po’ di disinvoltura fa parte di una buona igiene intellettuale. Per non dire poi del modo in cui si parla della Resistenza... Detto questo, leggendo il vostro studio vi ho scoperto nuovi motivi dell’allontanamento che avverto per questo periodo della nostra storia e mi sono detto, allo stesso tempo, che se proprio bisogna parlare di quest’epoca, vorrei che se ne parlasse nel modo in cui lo fate voi. Questo sentimento contraddittorio si spiega facilmente. Resuscitando determinate passioni che furono le nostre, mi fate di nuovo amare, nella sua vera essenza, l’esperienza di quegli anni e scopro che il mio allontanamento è il contrario di una sconfessione. Mi sono allontanato da ciò che della Resistenza se ne è fatto, da ciò che è diventata, ma sono felice che gli sia resa giustizia per quello che era davvero – perché è ancora necessario che giustizia le sia resa. Degli uomini, di natura pacifici per mestiere e per convincimenti, che detestavano la guerra e si rifiutavano di odiare qualsiasi popolo, sono stati costretti negli anni quaranta alla guerra. Affinché allora scampasse qualcosa al disastro, hanno potuto soltanto tentare di non cedere all’odio. Una lacerazione vissuta in maniera così estrema merita almeno una considerazione. Il combattente della Resistenza, l’avete perfettamente capito, ce l’aveva con la Germania per aver risposto in maniera criminale ai suoi sogni di pace e, allo stesso tempo, la faceva beneficiare del regalo di quegli stessi sogni. Si, se mai vi fu una giusta lotta, questa fu sicuramente quella dove si è entrati dopo aver dimostrato che non la si era voluta. 79 Giustamente, inoltre, coloro che vi erano entrati non smettevano di rimpiangere quei tempi in cui ci si poteva HO SEMPRE AVUTO DIFFICOLTÀ A PARLARE DELLA
77 Rivista fondata nel 1932 da Emmanuel Mounier, il cui orientamento filosofico personalistico fu largamente ispirato dal filosofo Jacques Maritain. Dopo il 1934 la rivista approfondisce le implicazioni sociali e filosofiche del personalismo: dopo l’armistizio del 1940, dopo aver inizialmente espresso interesse per alcune delle linee guida iniziali della “Rivoluzione Nazionale” del regime di Vichy e, nella figura dello stesso Mounier, anche collaborato alle sue istituzioni, con la caduta in disgrazia del suo direttore presso il governo collaborazionista la rivista viene soppressa nel mese di agosto 1941. Le pubblicazioni riprendono dopo la Liberazione. Dopo la morte di Mounier nel 1950, la direzione della rivista è presa in carico dal critico letterario Albert Béguin, poi da Jean-Marie Domenach. L’impostazione personalista si affianca al tentativo di dar vita ad una “nuova sinistra”. Albert Camus nel 1952 aveva scritto sulla rivista un appello a favore dei militanti spagnoli antifranchisti. 78 Vedi nota precedente sul tentativo della rivista Esprit di dar vita ad una “nuova sinistra”: la redazione della rivista libertaria ironizza invece su questo punto, ritenendo che la “censura” verso il nome di Camus significhi una qual certa riverenza nei confronti dello stalinismo. 79 Negli anni immediatamente precedenti allo scoppio del secondo conflitto mondiale, i militanti della sinistra, pur nel loro radicale sentimento antifascista, memori delle atrocità del primo conflitto, avevano cercato e sperato di evitarla, attirandosi successivamente numerose critiche. Qui Camus, invece, difende quest’atteggiamento alla luce di una riflessione di carattere morale oltre che politica.
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lanciare completamente nella mischia, senza lacerazioni interiori e senza altra angoscia che quella, sopportabile, di una più che naturale paura. È anche possibile che questo sentimento così forte del nostro diritto ci abbia reso più difficile i compiti e le scelte della storia che doveva seguire. Alla fine, però, le sofferenze e le lotte di quest’epoca non sono state per nulla inutili a coloro che sono sopravvissuti; la stessa necessità di queste prove era allora un insegnamento ed un conforto. In qualche modo essa ci aveva costretti a seguire la giusta causa – e cos’è nella storia una giusta causa? Quella che è ragione a se stessa.80 Tali lotte, però, avrebbero dovuto portare con esse anche uno stabile insegnamento. Oggi credo che, di quest’aspetto, non vi è stato nulla. È di moda, lo so, negare l’aperta ammissione di una delusione in nome del fatto che si tratta di una circostanza storica. La storia è un fatto e, se siamo in presenza di un fatto, ci sembra che ciò sia un diritto: la storia avrebbe sempre ragione. Per ciò che mi riguarda, confesso comunque la mia delusione nel vedere questo grande desiderio di pace tradito, costretto ad una insopportabile guerra ed il fatto che non è servito quasi a nulla alla maggioranza di coloro che si presuppone averlo vissuto – in particolare agli intellettuali francesi. Non è servito a nulla agli intellettuali collaborazionisti i quali non hanno visto nella disfatta tedesca altro che una ulteriore disgrazia. Non è servito a nulla a molti intellettuali della Resistenza che oggi si incamminano tramite gli stessi sofismi verso un nuovo collaborazionismo. Dopo tutto, se la storia non ricomincia mai, spesso si ripete – e nessuno si stupirà che i punti deboli della nostra società producano, in circostanze differenti, i medesimi sintomi di cedimento. Assistiamo così alla rinascita del curioso paradosso di cui parla uno degli scrittori che citate: 81 “l’alleanza dei pacifisti più radicali con i soldati di una società guerrafondaia”. Questa curiosa alleanza si nasconde sempre dietro la fallacia che denuncia il medesimo scrittore e che consiste nel “porsi nel futuro per giudicare il presente”. La diagnosi era brillante, ma gli stessi che allora la facevano sono entrati a loro volta in una simile idiozia. In apparenza, la Francia ha perso valore agli occhi di gran parte dei suoi intellettuali che, dalla destra alla sinistra, sono stati e saranno pronti a svenderla in nome delle loro assai ristrette ideologie.82 Pur sapendo che si tratta di una verità parziale e pur conoscendo altri intellettuali la cui sola esi stenza aiuta a vivere ed a lottare, anche se, alla fine, sono consapevole che una nazione non è composta solo dagli intellettuali, questa constatazione è una di quelle che mi allontanano dai ricordi di quest’epoca. Essa però, allo stesso tempo, spiega il sentimento di riconoscenza che ho dovuto provare leggendovi. Non avete cercato di spiegare che la Resistenza giustifica il fatto che si acclami l’Armata Rossa del 1954 o che si esalti la Bomba H; non avete fatto delle scelte tra le vittime o preso pretesto dal sacrificio di tanti uomini per urlare nuovi odi. Avete valorizzato, invece, ciò che fu la nostra essenziale verità, vale a dire che la Resistenza quasi sempre ha fatto a meno dell’odio. Allo stesso modo, avete reso un po’ meno vana la nostra azione d’allora. Dopotutto, come dimostrate, se gli scrittori della Resistenza hanno potuto trasmettere almeno una parte di questa verità non hanno per nulla sprecato la loro fatica. Non ho mai sopravvalutato l’azione degli scrittori (e di conseguenza la mia) durante la Resistenza. In particolare, non è possibile alcun confronto con l’azione di coloro che hanno imbracciato le armi. 83 Se però gli scrittori non hanno fatto molto per la Resistenza, diremmo, dopo avervi letto, che, al contrario, la Resistenza ha fatto molto per loro: gli ha insegnato il valore delle parole. Voi sottolineate giustamente il loro sforzo di esattezza, la loro ricerca delle sfumature di significato – che si accordano con difficoltà alle necessità dell’azione e della lotta – e trovate alcune spiegazioni a questo fenomeno. Ve ne segnalo 80 “Celle qui se suffit à elle-même”. L’approccio fondazionalistico “cartesiano” di Camus in campo morale, che si è sviluppato pienamente ne L’Uomo in Rivolta, è evidente anche in questo passaggio. 81 Jean-Paul Sartre. 82 Il discorso di Camus, occorre notarlo, non è rivolto solo verso lo stalinismo e la sua acquiescenza verso la politica imperiale russa, ma anche verso le varie sfumature del pensiero di destra e la loro speculare acquiescenza verso l’imperialismo statunitense. 83 Il ruolo degli scrittori durante la Resistenza di cui parla Camus fu quello di gestire, per così dire, la “stampa e propaganda” clandestina in supporto alle azioni armate. Di là della comprensibile modestia di Albert Camus verso i combattenti in senso stretto, il rischio per la loro vita era comunque altissimo e molti pagarono la loro azione di resistenza “con la penna” al nazifascismo con la tortura e la morte.
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una semplicissima. Rischiare la propria vita, per poco che questa valga, per fare stampare un articolo, significa apprendere il vero peso delle parole. In un mestiere tale, dove la regola è quella di lodare senza conseguenze ed insultare impunemente, questo comporta una enorme novità. Così lo scrittore, scoprendo all’improvviso che le parole sono sotto attacco, è portato ad impiegarle con misura: il pericolo rende dei classici. Questo è talmente vero che solo coloro che non hanno rischiato nulla hanno su questo argomento abusato delle parole. Al contrario, la più grande opera nata dalla Resistenza è stata quella di un uomo cui mi dispiace non abbiate dato tutta la sua importanza – molto superiore a quella degli altri perché, lui, ha preso le armi nello stesso momento in cui scriveva. Le sue parole raffinate, splendidamente argomentate, non hanno allora avuto bisogno della rabbia o dell’odio per cantare la bellezza in mezzo alle tenebre. La Germania nazista non ha avuto degli oppositori più determinati né nemici più generosi di un grande poeta francese, René Char, 84 nella cui opera troverete oggi, come in uno specchio, il quadro fedele di un virtù libera e fiera il cui ricordo ancora ci sorregge. È grazie ad uomini ed opere simili che l’oblio sistematico che mantengo in me su queste cose in realtà è una fedeltà, è grazie agli uni ed alle altre che non rinnego nessuna delle parole che allora scrivevo e che voi riportate. Sono anzi contento di avere avuto una parte, per piccola che sia, in questa avventura, sforzandomi di non odiare nulla del popolo che combattevamo. Non pretendo d’essere d’esempio a nessuno e sono molto lontano da ogni virtù (qualcosa si smuove in me quando scrivete che sono un uomo di giustizia – io sono un uomo senza giustizia che questa malattia tormenta, ecco tutto). Vorrei però, tuttavia, restare fedele a ciò che fu lo sforzo fondamentale di questa Resistenza, già dimenticato ma sempre vivo presso alcuni che restano in silenzio. In un paese dove i periodici per una metà insultano la nazione americana e per l’altra metà il popolo russo,85 non vorrei assolutamente aggiungere una sola parola d’odio a questo fiume di imprecazioni. Le pretese tedesche mi preoccupano ed ero, e sono, dell’avviso che è necessario contenerle. Devo però a Nietzsche una parte di ciò che sono, così come a Tolstoj ed a Melville. 86 Odiare i loro popoli sarebbe negare e rigettare me stesso. Combatterli se essi mi opprimono, è tutta un’altra cosa. So che un certo numero di francesi la pensano così e che il loro atteggiamento di fronte ad una nuova occupazione, pur essendo priva d’astio, non sarà meno determinata. A mio avviso, è in questo almeno che essi restano fedeli allo spirito della Resistenza. L’Occidente, però, ha cose migliori da fare che lacerarsi in guerre od in polemiche. L’attende una creazione che, contrariamente a tutto ciò che oggi si scrive, è il solo a poter edificare, perché è il solo a fornire i fermenti e gli uomini inquieti senza i quali nessuna creazione, storica od artistica, 84 René Char (L’Isle-sur-la-Sorgue, 14 giugno 1907 – Parigi, 19 febbraio 1988) è stato un poeta francese. Proveniente in maniera critica dall’esperienza surrealista, da cui ne fuoriesce su posizioni libertarie, partecipa in prima persona (sotto il nome di “Capitano Alexandre”) alla Resistenza francese. Nel dopoguerra si incontra con Albert Camus che gli fa uscire nel 1946 per le edizioni Gallimard Fogli di Hypnos, opera poetica e di riflessione aforistica ispirata dall’esperienza partigiana. Da lì una lunga e profonda amicizia con Albert Camus, di cui seguirà sia l’evoluzione filosofica e politica de L’Uomo in Rivolta, sia la vera e propria azione militante e le prese di posizione, intervenendo a più riprese in iniziative congiunte con l’amico scrittore e difendendone le idee e la figura in più di un occasione. 85 Le parole non sono casuali: Camus intende rimarcare che la stampa di sinistra, anche quella stalinista, per lo meno non confonde razzisticamente popoli e governi. La sottolineatura segue, non a caso, la distinzione tra tedeschi e nazisti operata poche righe prima. 86 Nietzsche, qui, viene accostato a due scrittori e non a dei filosofi. Come abbiamo detto nell'Introduzione a questi scritti, Camus, partito filosoficamente come “nietzscheano di sinistra”, è andato gradatamente abbandonando larga parte delle concezioni del pensatore tedesco in una riflessione critica che permea un po’ per intero L’Uomo in Rivolta che, da questo punto di vista, appare – come suol dirsi – una sorta di resa dei conti con la sua precedente concezione filosofica. Nonostante le sue nuove posizioni “fondazionalistiche” – con una terminologia che sta passando di moda, il testo fondamentale di Camus oggi lo collocherebbe come filosofo morale nel “pensiero forte” – egli riconoscerà sempre a Nietzsche il merito di avergli fatto da “padre spirituale”, di avergli aperto orizzonti e, nonostante lo consideri un “cattivo genio dell’Europa”, ritiene “che in lui si trovi di che correggere ciò che, d’altra parte, il suo pensiero presenta di dannoso” (CAMUS, Albert, “Incontro con Albert Camus” [intervista di Gabriel D’Aubarède], in CAMUS, Albert, L’Estate ed altri Saggi Solari, Milano, Bompiani, 2010, pp. 161-168, p. 166).
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può realizzarsi. Questi fermenti avete avuto il talento e la perspicacia di trovarli in un momento della storia d’Europa dove era, allo stesso tempo, paradossale e significativo che si manifestassero. Così facendo, non avete solo contribuito a rendere giustizia ad un recente passato, ma anche a preparare questo avvenire al quale – tutti insieme e ciascuno per la sua parte – oramai lavoriamo.
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Risposta a Domenach87 (Témoins, 9, estate 1955, pp. 23-29) Nota Redazionale – Questa lettera88 richiedeva evidentemente una risposta [da parte della redazione della rivista – N.d.T.]. La si troverà più avanti (…). Teniamo però ad offrire al lettore il bel testo che, dopo aver letto la lettera del direttore di Esprit (…) Camus ci ha spedito e che, come si potrà vedere, procede alla più sobria, alla più misurata, ma anche alla più decisiva messa a punto della questione. Mio caro Samson,89 MA SI.
PUBBLICATE LA LETTERA DI DOMENACH PERCHÉ È SIGNIFICATIVA. Quanto a me, cercherò di riassumere in pochi punti ciò che ho da dire. 1. Non credo più di voi al rispetto che Domenach dichiara nei miei confronti. D’altronde, poiché è un sentimento che non ho mai preteso da nessuno ed inoltre poiché si tratta di un ri spetto che i miei avversari polemici progressisti non hanno mai evocato che per potermi meglio insultare in seguito: “Facendo salvo il rispetto che ho per voi, siete uno sbirro, uno spergiuro ed un perfido...”. Decisamente questo rispetto non è che tattica e preferirei di gran lunga che i miei critici fossero meno rispettosi e più diretti. 2. Il solo punto dove farei bene a non rispondere come merita a Domenach riguarda l’utilizzo che avrei fatto della Resistenza per regolare una polemica personale con Sartre (voi sapete che ho risposto recentemente alla stessa obiezione che mi veniva fatta – coincidenza curiosa – da L’Observateur90). Dicevo infatti nella mia prefazione, per quanto in forma diversa, ciò che avevo già detto a Sartre. Il fatto, però, è che continuo a pensare che questa contrapposi zione tra la sinistra libera e la sinistra progressista 91 è il problema essenziale del nostro92 87 Jean-Marie Domenach, pensatore cattolico di sinistra legato al personalismo, all’epoca segretario di redazione della rivista Esprit (vedi nota 77). 88 “La nota accompagnante ‘Il Rifiuto dell’Odio’ che chiamava in causa ‘la ristrettezza mentale’ della rivista Esprit – la cui recensione dell’opera di Konrad Bieber aveva omesso di nominare l’autore della prefazione – ha suscitato ’una lettera rispettosa’ del suo direttore [sic, in realtà segretario di redazione – N.d.T.] in forma di risposta, che è stata pubblicata nel n. 9, estate 1955, pp. 23-29 di Témoins. Jean-Marie Domenach vi rimprovera a Camus di regolare i suoi conti, nascondendosi dietro la Resistenza, con i suoi avversari d’oggi (…). ‘Ho visto – scriveva Domenach – questo radioso elogio della Resistenza in ciò che ebbe di più puro, il suo rifiuto dell’odio razziale e nazionale, scadere all’improvviso in un attacco perso nale e questo rifiuto dell’odio trasformarsi in rancore. Il collaborazionismo l’abbiamo conosciuto e combattuto insieme e non appartiene a nessuno di noi servirsi dei termini condivisi per utilizzarli contro i suoi vecchi compagni. Nessuno tra noi ha il diritto di chiamare resistente o collaborazionista di oggi o di domani coloro che ha convenienza a chiamare in tal modo.” (MARIN, Lou (a cura di), Albert Camus e les Libertaires, Marsiglia, égrégores, 2008, p. 181-182) Il testo di Camus segue la lettera di Domenach. 89 Jean-Paul Samson (1894-1964). Nato a Parigi nel 1894, Samson frequenta il collegio Chaptal con André Breton. Studia diritto e filosofia, si dedica alla poesia, aderendo alla Gioventù socialista di Parigi di tendenza jaurésiana, pacifista ed internazionalista. Prima ritenuto fisicamente inadatto, poi comunque mobilitato alla fine dell’estate del 1917, Samson, jaurèsiano refrattario alla prima guerra mondiale, diserta e fugge in Svizzera. Le sue posizioni politiche si sposteranno sempre più in una direzione libertaria. Dal 1953 alla sua morte nel 1964 ha diretto Témoins. 90 Le Nouvel Observateur attualmente è un settimanale francese di tendenza socialista. Venne fondato come quotidiano nel 1950 con il titolo L’Observateur politique, economique et littéraire. Dal 1953 al 1954 fu ribattezzato L’Observateur d’aujourd’hui poi assunse fino al 1964 la testata France-observateur, per diventare poi Le Nouvel Observateur. 91 Per sinistra “progressista”, all’epoca, si intendeva quelle componenti legate in qualche modo, diretto o indiretto, allo stalinismo. 92 Qui Camus dichiara – cosa abbastanza rara – in modo chiaro e senza perifrasi la sua internità alla sinistra libertaria.
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movimento. Se non posso affrontarlo senza essere accusato di voler liquidare delle polemiche letterarie, non vedo altra soluzione per me che il silenzio, un silenzio, d’altronde, che Domenach ed i suoi amici mi rimprovererebbero immediatamente. Fortunatamente questo ricatto non m’impressiona. Sartre non è un nemico, non ho avuto con lui polemiche letterarie; è stato solamente mio avversario su di un punto che ritengo fondamentale per noi tutti. Penso anche, è vero, che non è stato un avversario leale, ma ciò riguarda unicamente me stesso. La polemica che ci ha opposti, al contrario, va completamente oltre e continuerò ancora, se occorre, a sostenere la mia posizione contro Sartre ed in generale contro i nostri progressisti. Perché è proprio degli intellettuali progressisti che parlo nella mia prefazione; se vi rientra Sartre, vi rientra anche Domenach. D’altronde, costui pensa così poco che si tratti di una polemica personale che ha riconosciuto (da alcune “inflessioni”, gli sembra!) che le mie affermazioni riguardino anche lui. Lo riguardano, infatti, ed il dramma che tale polemica esprime è quello in cui siamo immersi tutti, senza considerazione per nessuno. Dopo di che la “perfidia” di cui ha osato parlare (e che mi ha dato, lo riconosco, un vero e proprio scossone durante la lettura, prima di riderci sopra) appare per quello che è: la pre meditata calunnia di un intellettuale cui manca la forza ed anche la volontà di rispondere alle questioni che gli si pongono direttamente. 3. Se ho il diritto di portare avanti questa polemica, è magari però vero che ho scelto male il luogo in cui l’ho svolta? Innanzitutto devo dare una smentita a Domenach. Il libro di Bieber non è per nulla un memoriale (che razza di vocabolario!) né una raccolta di testi di vecchi resistenti. È una tesi di laurea sulla letteratura francese della Resistenza. Non mi trovavo quindi alle porte di un cimitero, come dice Domenach con una eloquenza che mi incanta e ci ringiovanisce. Lo lascio completamente libero, senza dubbio, di vedere nella Resistenza un cimitero dove non si dovrebbe parlare se non a bassa voce e con le medaglie al petto. Essa però è per me al contrario un’esperienza ancora viva, un momento speciale della lotta, sempre in corso, per la liberazione degli uomini. È a questa lotta ed ai suoi militanti assassinati dalle tirannie di destra e di sinistra che riservo quel po’ di pietà di cui sono capace. Non sono però fedele a qualsiasi cosa e, giustamente, ho un concetto troppo alto della Resistenza per accettare che divenga il pudico paravento di oscenità storiche. D’altronde, non è questo il solo modo per conservare il suo senso alla nostra azione di allora? Se rifiuto la politica degli intellettuali progressisti è in base allo stesso impulso, se non per le stesse ragioni, per cui ho rifiutato quella degli intellettuali collaborazionisti. Gli alibi del realismo e dell’efficacia rischiano, a mio avviso, di condurci oggi ad una nuova resa che toglierà il loro valore alle nostre ragioni contro l’antica. Per continuare ad essere contro di questa, è necessario lottare con tutte le nostra forze contro quella che si prepara. È questo che volevo dire scrivendo che lì si trova la vera fedeltà alla Resistenza. Così facendo, contrariamente a ciò che dice Domenach, è in nome di un’esperienza già vissuta che parlavo, non di un futuro, al quale mi appellerei. Che se ne persuada e si accontenti di riflettere sul valore dei miei argomenti. Riconosco che è stato brutale dire che così come gli intellettuali della destra, in preda al furore del realismo e dell’efficacia, hanno svuotato del suo proprio contenuto il nazionalismo,93 gli intellettuali progressisti rischiano ugualmente, per lo stesso motivo, di rinnegare il loro proprio socialismo94 e che, in entrambi i casi, affascinati da una potenza straniera che pretende di realizzare i loro ideali, sono tentati di mostrare nei confronti di questa nazione 93 I collaborazionisti francesi, legati alla destra nazionalista, nel collaborare con il nazismo, dovettero rinnegare molti dei temi tipici della loro formazione: la grandeur della nazione francese – ridotta sotto il dominio straniero – l’antagonismo antitedesco, ecc. 94 L’argomentazione si comprende tenendo presente che Camus – anche in ciò legato alle correnti libertarie del socialismo – non ritiene socialisti ma solo sedicenti tali i regimi dei paesi dell’Est che verrebbero eventualmente importati in Europa. Il rapporto di coessenzialità tra libertà e giustizia (termine che Camus intende, come era solito all’epoca, per “giustizia sociale”, cioè uguaglianza economica) è un suo motivo ricorrente, presente tanto più in questo genere di scritti per la stampa libertaria.
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una continua indulgenza.95 Ciò era brutale, ma non si può lanciare un allarme con voce felpata. L’altro mio motivo per parlare senza riguardo, mio caro Samson – lo dirò per voi, non per Domenach che mi rispetta troppo per comprendermi – è che questo pensiero è stato per me, durante questi ultimi anni, un dolore incessante, perché io sono nato in una famiglia, la sinistra, nella quale morirò, ma della quale mi è difficile non vedere la decadenza. Ne sono responsabile anch’io, allo stesso modo degli altri. Solo, vi è in me una resistenza all’andazzo generale ed ho sempre voluto che il grande spirito di liberazione e di giustizia – che ha fatto la grandezza e la reale efficacia del movimento – regni di nuovo tra noi. Per questo ho scritto con passione e senza fronzoli ciò che ho da dire in merito. In ogni caso è questo di cui bisogna discutere. Se Domenach ritiene che io mi sbagli, gli era possibile contestare il mio punto di vista. Nessuno, dopo tutto, lo ha costretto a parlare del libro di Bieber, ma non si poteva evitare di essere un po’ sorpresi del fatto che, facendolo, non si segnalava anche la prefazione, fosse anche solo, secondo il comune operare delle riviste, per una cura di esattezza bibliografica. Invece no, si sotterra tutto sotto il rispetto, il pudore, le cerimonie commemorative, in una parola si tace. Voi però notate questa anomalia, la segnalate ponendo la questione e ciò basta perché questo grande silenzio rispettoso sia seguito da questo fiume di volgarità. Era proprio il caso in cui era troppo tacere e troppo parlare. 4. Giungiamo però al grande rimprovero che mi si fa, quello di avere, parlando di collaborazionismo e di fedeltà, pregiudicato l’avvenire. In effetti, è qui che il dibattito ha una possibilità di diventare una cosa seria. Consigliamo innanzitutto a Domenach di leggere con maggiore attenzione: ho soltanto detto che l’attitudine dei nostri intellettuali progressisti li “instradava” verso una tale collaborazione, così come ho detto che altri, al presente, vi si rifiutano sin da ora. Chi può garantire per l’avvenire? – mi risponde Domenach. Ho davvero creduto di sognare. Cosa? Mi si accusa, riprendendo un argomento già contestato all’epoca di Temps Modernes, di negare i diritti che la storia avrebbe su di noi, 96 mi si rigetta nell’irreale universo del sognatore e ci si indigna, allo stesso tempo, che possa parlare di una promessa nei confronti dell’avvenire? Chi sono allora questi servitori della storia che si spaventano delle scommesse sulla storia? Se dobbiamo inserirci nelle lotte del nostro tempo, impegnarci, è dunque necessario che lo si faccia alla giornata? In questo caso, in cosa questo bell’impegno differirebbe dall’opportunismo più ipocrita e vigliacco? Invece no; è evidente che l’impegno nella storia consiste anche nell’assumere un rischio nei confronti dell’avvenire e, se Domenach mi nega questo diritto, quello che rifiuta è il rischio e la logica dei suoi atti e dei suoi scritti. Per dimostrare che mi sbaglio supponendo che la collaborazione attuale con il Partito Comunista può comportare la collaborazione con la Russia stessa, non basta dirmi, con la saggezza popolare, che il futuro è imprevedibile. Che ciò sia o non sia vero, se domani un regime di democrazia popolare si installasse in Francia sotto la protezione dell’Armata Rossa, gli intellettuali progressisti – e Domenach in particolare – sarebbero a favore o contro? Rispondere che non lo si sa, che non lo si può sapere, non è altro che un modo di sfuggire alla storia. Ci si definisce infatti nella storia allo stesso tempo sia in rapporto al presente sia a degli eventi possibili, il cui germe è in esso contenuto. Quando rimprovero al comunismo del XX secolo di giudicare ogni cosa in funzione di un avvenire, è perché questo è rappresentato come definitivo e poi perché questa felice meta della storia porta ad autorizzare ogni genere di eccessi. Il futuro della storia, quando lo si preveda, è soltanto una messa insieme di possibilità e, per definire una direzione, occorre valutare una per una queste possibilità. Il futuro della storia non giustifica dunque 95 Un appunto a margine: probabilmente Domenach si sente particolarmente toccato dalla polemica camusiana perché (vedi nota 77) la rivista Esprit non brillò inizialmente per coerenza resistenziale e collaborò al regime di Vichy fino alla metà del 1941. 96 (Nota di Albert Camus): Quando invece ho solo scritto – ripetiamolo per la centesima volta – che né ci si può sottrarre alla storia dei propri tempi né farne un valore assoluto. In altre parole, tra la resa e l’opportunismo, c’è ancora lo spazio per una azione.
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alcun dogmatismo ma impone un rischio. V’è maggiore irrealtà nel considerare il futuro come predefinito e delimitato che non nel cercare di dargli, tramite il rischio e l’impegno, una definizione vivente. Quando dimostrai, non molto tempo fa, 97 che il pensiero progressista era essenzialmente astratto, non mi attendevo che Domenach me ne fornisse una prova così eclatante. L’ipotesi che faccio, in ogni caso, non è assurda. Fa parte, chiedetelo alla Cecoslovacchia,98 degli eventi possibili. Senza dubbio, essa non è la sola possibile e ci si può anche immaginare l’Impero Americano d’Europa.99 Nulla ci impedisce di regolarci anche in riferimento a quest’altra ipotesi: l’ho fatto nella mia prefazione. Lo ripeto, però: occorre regolarsi in rapporto a tutte le possibilità, porre in qualche modi i limiti, sorpassati i quali si defini sce l’impegno e la scelta. Se non lo si fa, allora questo significa che, di là della purezza rivo luzionaria e della pia filantropia, si è scelto preventivamente l’opportunismo e l’irresponsabilità, molto più gravemente di coloro che restano nella loro casa e non danno lezioni a nessuno. Mi sono regolato più che ho potuto in rapporto a questo limite e, come altri, ho assunto il mio rischio. Personalmente preferirei di gran lunga – a dir la verità – restare tranquillo e scrivere i miei libri in pace. Non vedo però come un intellettuale oggi possa giustificare i suoi privilegi se non partecipando ai rischi della lotta per la liberazione del lavoro e della cultura.100 Ho così risposto alla questione che ho posto prima, affermando la mia contrarietà: non sarò mai per un regime che tiranneggia sia il lavoro, attraverso la soppressione delle libertà sindacali, sia la cultura, attraverso l’asservimento delle coscienze. Su ciò Domenach mi rimprovera decisamente – e con che tono! Come posso rispondere, dice, delle reazioni sotto le torture (bene, allora si torturerà!). Nessuno qui pensa alle torture, non sono così ambizioso! L’impegno di cui parlo è più modesto: un no per iniziare e la decisione di attenervisi sin quando lo si potrà fare. Certo, conosco le nostre comuni debolezze. Avete osservato voi stesso che non ignoro il fatto che qualcuno di noi non potrà rispondere delle sue azioni. Occorre per questo rinunciare ad ogni impegno, quindi ad ogni azione? Quando i nostri intellettuali progressisti visitano la Polonia o la Russia, possono rispondere di ciò che faranno il giorno in cui la polizia sovietica andrà a colpire i loro amici? Quando Esprit ha pubblicato ciò che ha pubblicato – di cui ci ricordiamo ancora – sulle rivolte operaie tedesche e cecoslovacche nel giugno 1953, i suoi redattori potranno mantenere una così comoda posizione quando sarà il turno degli operai francesi di opporre i loro petti ai carri armati del progresso? Non lo possono, nessuno lo può, pertanto essi viaggiano e scrivono, in altre parole s’impegnano, anche se rifiutano le conseguenze delle loro azioni. Ma questo impegno malaticcio nuota nella cattiva fede nel momento in cui, senza smettere di servire una causa, i nostri progressisti ci tolgono il diritto di valutare le conseguenze del loro modo di essere o di prendere i nostri impegni. Se hanno fatto una scelta, che lo dicano; se non hanno scelto, non agiscano come se l’avessero fatto e, soprattutto, che non giudichino con aria di superiorità coloro che, non senza pena, cercano di dare un contenuto alla loro fedeltà. Senza queste pene e queste fedeltà la storia – la loro famosa storia – che essi definiscono come il luogo in cui sono situati, non sarebbe alla fine che una avventura da leccapiedi. 5. Gli sembra che abbia anche il torto di parlare a nome di altri. Con pena noto che si tratta degli stessi che, ieri, mi rimproveravano il mio isolamento e che, oggi, non vogliono che 97 Probabilmente Camus si riferisce alle parti sulla “Rivolta Storica” de L’Uomo in Rivolta ed alle polemiche successive con Sartre ed il resto del gruppo redazionale della rivista Temps Modernes. 98 La Cecoslovacchia, dopo la seconda guerra mondiale, non era entrata immediatamente nella sfera di influenza russa, ma si era strutturata come una democrazia parlamentare e sembrava avviarsi verso una forma di socialdemocrazia sul modello di quelle del nord Europa, prima del colpo di mano del 1948 che la trasformò in una “democrazia popolare”. 99 All’epoca, nel cuore della Guerra Fredda, con questo termine ci si riferiva all’ipotesi di una presa sotto tutela dei paesi europei da parte degli Stati Uniti d’America nella forma di un protettorato. 100 Occhieggiamento della metaforica frase dell’anarchica e femminista statunitense Emma Goldman su “il Pane e le Rose” come obiettivo della rivoluzione.
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scriva “noi”. Continuerò ciononostante a dire “noi” e voi sapete bene il perché, mio caro Samson: perché vi è oggi in Europa una comunità di uomini che – senza concedere nulla all’ideologia borghese – vogliono conservare all’avvenire una senso che non sia degradato. Tra le due ideologie provinciali, meschine e speculari, che oggi si affrontano ed oppongono, con una triste ostinazione, la loro libertà astratta e la loro falsa giustizia, questa comunità cerca di formulare, riuscendovi sempre di più, una speranza che sia degna dell’Europa. 101 Questa speranza è giustificata, a mio avviso, e stiamo uscendo dalla duplice fossilizzazione dove la duplice decadenza della società borghese e di quella rivoluzionaria ci aveva gettati. Ciononostante, non è anche a nome di questa comunità – pur avendola a mente – che ho parlato, ma soltanto per quelli tra i miei amici più vicini, di cui conosco la determinazione e che credono che non occorra universalizzare la schiavitù per giungere alla giustizia. Questo essi credono ed affermano, sforzandosi di essere fedeli a quest'idea che condivido con loro. Se non le saremo fedeli, cercheremo in qualche modo di perdonarci. Non potremo però perdonarci di arrenderci oggi, in previsione di possibili debolezze, davanti all’unica debolezza non concessa a degli intellettuali responsabili: non lottare, senza limiti, contro l’abuso delle parole e del potere. In ogni caso, ecco le risposte che chiedete, mio caro Samson. Ho esitato a lungo per scriverle, stanco di dovere sempre correggere le stesse affermazioni infondate, gli stessi attacchi personali e lo stesso infinito sofisma – come se i nostri progressisti, fra tutti loro, non disponessero mai altro che della stessa sciabola scheggiata che essi si passano a turno nelle loro battaglie incruente. Ho poi riletto la lettera di Domenach e, decisamente, tanta confusione ed aggressività, un uso così costante della ristrettezza mentale, meritano che vi si risponda e che si cerchi almeno di dissipare qualche nebbia della quale si circonda oggi un pensiero che continua a credersi di sinistra. Vi saluto fraternamente.
101 Anche qui è chiaro il senso dell’”europeismo” di Camus, che vede il vecchio continente nel suo complesso come il luogo in cui hanno maggiori probabilità di successo le idee originarie, egualitarie e libertarie del movimento operaio e socialista. Un “europeismo”, tra l’altro, che si scioglie spesso e volentieri all’interno del senso “mediterraneo”, “solare”, “meridiano”, come fondamento di un mondo nuovo.
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La Spagna ed il Donchisciottismo102 (Le Monde Libertaire, 12, novembre 1955, p. 1) NEL 1085, DURANTE LE GUERRE DI RICONQUISTA, Alfonso VI, re irrequieto che ebbe cinque mogli di cui tre francesi, tolse la moschea di Toledo agli Arabi. Appresa la notizia che questa vittoria era stata resa possibile da un tradimento, fece restituire la moschea agli avversari, poi riconquistò con le armi Toledo e la moschea. La tradizione spagnola brulica di aspetti simili che non sono soltanto aspetti dell’onore, ma, più significativamente, testimonianze sulla follia dell’onore. All’altro capo della storia spagnola, Unamuno, di fronte a coloro che deploravano lo scarso contributo della Spagna alla scoperta scientifica, ebbe questa risposta incredibile, allo stesso tempo di disprezzo ed umiltà: “È a loro l’inventare”. Loro erano le altre nazioni. Quanto alla Spagna, aveva come propria scoperta ciò che, senza tradire Unamuno, si può definire la follia dell’immortalità. In questi due esempi, altrettanto bene presso il re guerriero come nel filosofo tragico, ritroviamo allo stato puro il paradossale genio spagnolo. E non è stupefacente che all’apogeo della sua storia questo genio paradossale si sia incarnato in un’opera essa stessa ironica, di una ambiguità assoluta, che doveva diventare il Vangelo della Spagna e, per un di più di paradossalità, il più gran libro di una Europa pure intossicata dal suo razionalismo. La rinuncia arrogante e leale alla vittoria rubata, il testardo rifiuto delle realtà del tempo, insomma l’inattualità eretta a filosofia, hanno trovato nel Don Chisciotte un ridicolo e regale portavoce. È importante però notare che questi rifiuti non sono passivi. Don Chisciotte si batte e non si rassegna mai. “Ingegnoso e temibile”, secondo la vecchia traduzione francese, incarna la lotta eterna. Questa inattualità è dunque attiva, incalza senza tregua il secolo che rifiuta e lascia su di esso i suoi segni. Un rifiuto che è il contrario di una rinuncia, un onore che si inginocchia davanti all’umiltà, una carità che si arma, questo è ciò che Cervantes ha incarnato nel suo personaggio prendendolo in giro con una ironia essa stessa ambigua, quella di Molière nei confronti di Alceste, che persuade meglio di un esaltato sermone. Poiché è vero che Don Chisciotte si incaglia nella realtà ed i servi lo sbeffeggiano, ma, ciononostante, quando Sancho governa la sua isola, con il successo che si sa, lo fa ricordandosi dei precetti del suo maestro dei quali i due maggiori sono legati all’onore (“Gloriati, Sancho, delle tue umili origini: quando si vedrà che non te ne vergogni, nessuno penserà mai di farti arrossire”) ed alla carità (“… Allorché le opinioni saranno alla pari, che si faccia piuttosto ri corso alla misericordia”). Nessuno può negare che queste parole d’onore e di misericordia hanno oggi una faccia patibolare. Se n’è diffidato nella confusione di ieri; e, per ciò che concerne i boia di domani, si è potuto leggere sotto la penna di un poeta a servizio un bel processo del Don Chisciotte considerato come un manuale dell’idealismo reazionario.103 In verità, questa inattualità non ha cessato di crescere e siamo giunti oggi al vertice del paradosso spagnolo, a questo momento in cui Don Chisciotte è gettato in prigione e la sua Spagna è fuori dalla Spagna. Certo, tutti gli spagnoli possono reclamare a sé Cervantes. Nessuna tirannia, però, ha mai potuto reclamare a sé il genio. La tirannia mutila e semplifica ciò che il genio riunisce nella complessità. In materia di paradossi, preferisce Bouvard e Pécuchet104 al Don Chisciotte che, dopo tre secoli, non ha lui stesso smesso d’essere esiliato tra di noi. Ma quest’esilio, solo per lui, è una patria che noi riven-
102 Si tratta della relazione che venne tenuta alla Università Paris-Sorbonne di Parigi il 23 ottobre 1955 nel contesto della manifestazione “Omaggio a Cervantes per il CCCL anniversario della prima edizione del Don Chisciotte”, organizzata dal Patronato Spagnolo per la Commemorazione. Albert Camus presiedeva la manifestazione: il filosofo e scrittore francese usa Cervantes ed il Don Chisciotte per una difesa a spada tratta dei rivoluzionari spagnoli perseguitati o in esilio ed una critica feroce alla dittatura fascista di Franco. 103 Chi è il “poeta a servizio” di cui parla Camus? Difficile dare una risposta precisa: probabilmente si tratta di uno dei tanti critici letterari di partito che all’epoca seguivano i dettami del realismo “socialista”. 104 Opera scritta ma non del tutto compiuta da Gustave Flaubert, dal tono ambiguamente reazionario.
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dichiamo come nostra.105 Celebriamo dunque, stamattina, trecentocinquant’anni d’inattualità. La celebriamo con questa parte della Spagna che, agli occhi dei potenti e degli strateghi, è inattuale. L’ironia della vita e la fedeltà degli uomini hanno fatto sì che questo solenne anniversario si è posto in mezzo a noi nello spirito stesso del donchisciottismo. Riunisce, nelle catacombe dell’esilio, i veri fedeli della religione di Don Chisciotte.106 È un atto di fede in colui che Unamuno chiamava Nostro Signore Don Chisciotte, patrono dei perseguitati e degli umiliati, lui stesso perseguitato nel regno dei mercanti e dei poliziotti. Coloro che, come me, condividono da sempre questa fede ed anche che non hanno assolutamente nessun’altra religione, sanno d’altronde che essa è allo stesso tempo una speranza ed una certezza. La certezza che ad un certo grado d’ostinazione la disfatta culmina nella vittoria, la disgrazia esplode all'improvviso nella gioia e che l’inattualità stessa, mantenuta e portata fino in fondo, finisce per divenire attualità. Per far ciò occorre però andare fino in fondo, occorre che Don Chisciotte, come nel sogno del fi losofo spagnolo, scenda fino agli inferi per aprire le porte agli ultimi dei miserabili. Allora, forse, in questo giorno dove secondo le sconvolgenti parole di Don Chisciotte “la vanga e la zappa troveranno un accordo con il cavaliere errante”, i perseguitati e gli esiliati saranno infine riuniti ed il so gno impetuoso ed ardente della vita trasfigurato in questa estrema realtà che, Cervantes ed il suo popolo, hanno inventato e ci hanno trasmesso perché lo difendiamo, instancabilmente, fino a che la storia e gli uomini si decidano a riconoscerlo ed onorarlo.
105 All’epoca e nel contesto in cui Camus scriveva queste parole, il riferimento agli antifascisti spagnoli in esilio in Francia (e nel resto del mondo) nonché alla strofa della canzone anarchica “nostra patria è il mondo intero” era evidente. 106 La manifestazione era stata pensata proprio in opposizione a quelle ufficiali delle istituzioni legate al governo spagnolo d’allora e vedeva la massiccia presenza degli esuli antifranchisti.
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Prefazione107 (Témoins, 12-13, primavera/estate 1956, numero speciale “Fedeltà alla Spagna”, pp. 4-5) VENT’ANNI DOPO LA GUERRA DI SPAGNA alcuni uomini hanno voluto riunirsi per ribadire la loro fedeltà alla Repubblica sconfitta. Né il tempo né l’oblio – che sono i migliori collaboratori dei reazionari di destra o di sinistra – hanno potuto far nulla contro questa immagine, in noi intatta, della Spagna libera ed incatenata. La Seconda Guerra Mondiale, la Resistenza, la Guerra Fredda, il dramma algerino e l’attuale malessere francese non hanno tolto nulla a questa sorda sofferenza che perdura negli uomini della mia generazione, attraverso la loro storia affannata e monotona, a partire dall’assassinio della Repubblica Spagnola. Effettivamente la nostra storia è iniziata con questa guerra perduta: la Spagna è stata la nostra vera maestra. Abbiamo così appreso da lei, allora, che la storia non sceglie tra le cause giuste e quelle ingiuste, che essa si affida alla forza quando non si abbandona al puro caso. È per non aver riflettuto a sufficienza su questo, o forse per averne davvero sofferto, che alcuni uomini di sinistra hanno potuto cercare i valori nella storia in quanto tale. Il culto della storia non può essere altro che il culto del fatto compiuto. In quanto tale, non cesserà mai essere causa di disonore. Se chi dura nel tempo ha ragione, allora Franco dopo vent’anni rappresenta il diritto ed Hitler è quasi riuscito ad aver ragione per mille anni. 108 In quest’ottica, si può accogliere la Falange 109 all’ONU e discutere dei diritti dell’uomo nella capitale della censura. Non si troverà qui, al contrario, altro che uomini che non hanno mai cessato di dar torto a Franco, che hanno rifiutato di dare ragione ad Hitler, foss’anche per un solo anno, 110 e che hanno sbullonato Stalin molto prima che i suoi complici pensassero di procurarsi una chiave inglese. 111 Costoro non si inginocchieranno dinanzi alla storia, non vi vedranno mai altro che il luogo dove si entra armi alla mano, il tempo dove la libertà deve allo stesso momento difendersi e costruirsi, il destino che deve essere sempre mutato e mai subito. Coloro che, dal 1936 al 1939, 112 hanno compreso ciò, non smetteranno mai di dare alla Spagna quello che le spetta. Rifiutare il fatto compiuto ed allo stesso tempo affrontare la realtà della storia: una tale lezione non è senza conseguenze. Ci impedisce di riposare sulle nostre fedi e di accettare il conforto della melanconia. Ci impedisce sia di ignorare sia di adorare la storia. Ci invita sia a rigettare instancabilmente il compromesso e la resa, sia a lottare senza tregua per quella sola società che, di fronte alla storia, la mente ed il cuore possono concepire. Occorre dunque dire che, malgrado tutti i sarcasmi, si tratta di una lezione d’onore e che, per aver dimenticato o disprezzato quest’onore, la rivoluzione del XX secolo si è condannata al degrado morale. Oggi che, vent’anni dopo la caduta, la Spagna si agita, 113 la fedeltà deve indubbiamente essere riaffermata. Allo stesso tempo, però, occorre continuare quella lotta senza la quale ogni fedeltà non è che un sogno infelice. A questi operai di Navarra e di Biscaglia, a questi studenti madrileni, non possiamo restare fedeli senza essere loro solidali e fattivi aiutanti. Di fronte alle loro proteste, gli studenti parigini ed i nostri sindacati sono rimasti in silenzio e sono così venuti meno ai loro più 107 Il testo era probabilmente in origine il discorso inaugurale ad una riunione di solidarietà al popolo spagnolo in occasione del XX anniversario della Rivoluzione Spagnola, usato poi come introduzione al numero speciale della rivista dedicato allo stesso tema. 108 Il riferimento è, ovviamente, al progetto nazista di un Reich millenario destinato a portare a compimento la “purificazione razziale” del pianeta. In generale, l’argomentazione camusiana è tutta interna al distacco dalle posizioni filosofiche e politiche giovanili – vedi l’Introduzione. 109 Nome del partito fascista spagnolo guidato da Franco. 110 Qui c’è forse una allusione all’ambiguo comportamento iniziale della rivista Esprit nel primo anno successivo all’invasione nazista della Francia ed alla costituzione del regime di Vichy (vedi note 77 e 95). 111 “Sbullonato” ha in francese anche il senso di “smascherato”: di qui il gioco di parole che fa Camus. 112 Gli anni della guerra di Spagna: vedi note 24 e 49. 113 Vedi note 16, 53 e 57. In particolare, in occasione dello stesso anniversario di cui parla Albert Camus, vi furono anche all’interno della Spagna scioperi partecipati e numerose altre espressioni del dissenso antifranchista.
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imperativi doveri morali. Senza dubbio, essi sono demoralizzati ed ancora una volta la Spagna illustra in maniera esemplare il loro smarrimento. Quando Washington e Mosca concordano reciprocamente solo per accogliere Franco nel consesso delle nazioni libere, 114 coloro che da loro prendono ordini o ripongono le loro speranze in essi non possono che essere disorientati. Coloro però che sono agli ordini solo dello spirito di libertà non hanno alcuna ragione di esserlo. Il manteni mento di Franco al potere segna da troppi anni l’imperdonabile scacco della politica occidentale e, da qualche anno, il cinico sconvolgimento della politica dell’Est. Nella storia dei nostri tempi, nulla è stato più chiaro di questo tradimento, più eclatante di tale ingiustizia. Che questa chiarezza almeno ci aiuti a svegliare i dormienti, a riunire i nostri rari intellettuali ed i nostri sindacalisti indipendenti, per manifestare agli studenti ed agli operai spagnoli che essi non sono soli. Sembra che nulla sin qui abbia potuto coagulare la speranza degli oppressi di Spagna. La pochezza delle dottrine che abbiamo da proporgli, il tradimento dei partiti, la degradante politica degli Stati, li sprofonda ogni giorno un po’ di più nella solitudine e nel buio. La morte di Ortega Y Gasset115 ha però ricordato agli studenti spagnoli che questo grande filosofo ha posto la libertà, i suoi diritti ed i suoi doveri, al centro della sua riflessione. Nello stesso momento, la politica economica franchista ha ridotto gli operai del Nord ad una tale miseria che essi non possono trovare dignità altrove che nella rivolta. Il giorno in cui l’intelligenza, secondo la sua vocazione, si consacra alle lotte per la liberazione mentre il lavoro rifiuta di essere degradato ancora a lungo, quel giorno onore e rivolta inizieranno a mettere un popolo in marcia. La nostra fedeltà allora non si indirizzerà più verso il fantasma di una Spagna sconfitta, ma alla Spagna del futuro che dipende anche da noi sia quello della libertà.
114 La Spagna entrò a far parte delle Nazioni Unite, insieme ad altre 15 nazioni, il 14 dicembre 1955: si trattò, nel suo complesso, di un accordo tra le grandi nazioni, URSS inclusa. 115 José Ortega y Gasset (Madrid, 9 maggio 1883 – Madrid, 18 ottobre 1955), filosofo e giornalista spagnolo dalle posizioni vicine all'esistenzialismo ed al prospettivismo, di orientamento liberal-socialista moderato, venne anche eletto deputato nel parlamento spagnolo. Durante la guerra civile spagnola si rifugiò all’estero, tornando in patria nel 1948. Il suo testo più noto è La Ribellione delle Masse del 1930.
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Risposta ad un Appello degli Intellettuali Ungheresi (Témoins, 14, autunno 1956, p. 33) Nota Redazionale – Uno degli ultimi appelli degli intellettuali ungheresi si indirizzava specificamente ad alcuni dei maggiori rappresentanti del pensiero occidentale, tra i quali Albert Camus: è la sua risposta a quest’appello che riproduciamo in questo numero. LA STAMPA – E FRANC-TIREUR116 – HANNO PUBBLICATO IERI117 LO SCONVOLGENTE APPELLO lanciato l’altro ieri dagli scrittori ungheresi agli intellettuali occidentali. Poiché vi sono specificamente nominato e poiché non ho mai avvertito più forte che in questi giorni la nostra tragica impotenza, mi sento obbligato a rispondervi personalmente.118 I nostri fratelli d’Ungheria, isolati in un braccio della morte, ignorano sicuramente l’enorme slancio d’indignazione che ha caratterizzato unanimemente gli scrittori francesi. Hanno però ragione di pensare che le parole non sono sufficienti e che è irrisorio limitarsi ad elevare inutili lamenti sull’Ungheria messa in croce. La verità è che l’intera società internazionale la quale, dopo anni di ritardo, ha trovato improvvisamente la forza d’intervenire in Medio Oriente, 119 lascia al contrario assassinare l’Ungheria. Già vent’anni fa abbiamo lasciato assassinare la Repubblica Spagnola dalle 116 Inizialmente uno dei fogli clandestini della Resistenza francese di tendenza radical-socialista, il primo numero uscì il 1° Dicembre 1941 come testata dell’omonimo movimento della resistenza nel sud. Apparvero 39 numeri clandestini. Continuò ad uscire legalmente dopo la Liberazione in varie forme fino al 1957. 117 L’appello degli scrittori risaliva al 1 novembre 1956 e venne rinnovato il 7. 118 La Rivoluzione ungherese del 1956 fu una sollevazione armata che durò dal 23 ottobre al 10-11 novembre 1956. Dopo che la polizia politica e l’esercito ungherese vennero sconfitti dai manifestanti, la rivolta venne alla fine duramente repressa dall’intervento armato delle truppe dello Stato russo. Morirono circa 2652 Ungheresi (di entrambe le parti, nel senso di pro e contro la rivoluzione) e 720 soldati sovietici. I feriti furono molte migliaia ed oltre duecentomila ungheresi (circa il 3% della popolazione d’allora) lasciarono il proprio Paese rifugiandosi in Occidente. La rivolta ebbe inizio il 23 ottobre 1956 da una mani festazione studentesca, che si trasformò in una rivolta contro la dittatura stalinista di Mátyás Rákosi e contro la presenza russa in Ungheria. In breve tempo milioni di ungheresi si unirono alla rivolta e presero di fatto il controllo di larga parte del territorio. All’interno dei rivoltosi spiccava una forte componen te anarcocomunista, particolarmente presente nel mondo operaio, che iniziò ad organizzare nelle zone liberate la vita sociale ed economica in forma consiliare ed egualitaria. Dopo una iniziale mediazione (venne eletto primo ministro Imre Nagy che, in qualche modo, era interno alle componenti più modera te della rivolta), alla fine la Russia intervenne direttamente nella repressione e riportò violentemente al potere la vecchia guardia stalinista. La Rivoluzione Ungherese ebbe un forte impatto in tutto il mondo, creando a sinistra un notevole discredito verso lo stalinismo (in questo caso era pressoché impossibile negare la caratterizzazione “a sinistra” della rivolta, come si era fatto in occasioni precedenti). In merito, negli ultimi anni in Italia è tornato alla ribalta un episodio legato alla vita del noto giornalista di destra Indro Montanelli che, spedito da Il Corriere della Sera a Budapest per documentare quella che si pensava essere una rivolta filoccidentale e filocapitalista, documentò invece una rivolta antirussa ma niente affatto anticomunista, interna al mondo socialista ed estranea in larghissima parte agli ideali democratici e borghesi “occidentali”. L’aspetto socialista-libertario della rivoluzione ungherese, ovviamente, colpì molto Albert Camus. L’appello degli scrittori ungheresi – che ebbero un ruolo importante all’interno del tentativo rivoluzionario – cui risponde lo scrittore francese venne lanciato nelle fasi terminali della rivoluzione, nel pieno cioè della repressione finale. 119 Nel 1956 – pressoché in contemporanea all’aggravarsi della crisi ungherese – un conflitto armato vide l’Egitto opporsi all’occupazione militare del Canale di Suez da parte di Francia, Regno Unito ed Israele. La crisi si concluse quando lo Stato russo minacciò di intervenire – paventando anche l’uso delle armi nucleari – al fianco dell’Egitto. A quel punto la comunità internazionale e gli Stati Uniti in primo luogo costrinsero inglesi, francesi ed israeliani al ritiro. Il conflitto in questione, tra l’altro, oscurò mediatica mente la rivolta ungherese e, forse, contribuì in parte alla sua sconfitta.
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truppe e dalle armi di una dittatura straniera. Questo bel coraggio ha trovato la sua ricompensa: la Seconda Guerra Mondiale. La debolezza delle Nazioni Unite e le loro divisioni ci portano un po’ alla volta verso la terza, che bussa già alle nostre porte. 120 Bussa ed entrerà a meno che, ovunque nel mondo, il diritto internazionale non s’imponga per proteggere popoli ed individui. È per questo che, piuttosto che lasciare libero sfogo ai sentimenti di rivolta, di spaventosa tristezza e di vergogna che ci attanagliano di fronte ai disperati appelli dei nostri fratelli ungheresi, credo sia preferibile invitare tutti coloro che erano nominati nell’appello del 7 novembre ad un passo fattivo presso le Nazioni Unite. Ecco il testo che propongo loro, che definirà allo stesso tempo ciò che vogliamo e le nostre responsabilità: I sottoscritti scrittori europei chiedono che l’Assemblea Generale esamini senza timore il genocidio di cui è vittima la nazione ungherese. Chiedono che ogni nazione si faccia carico in quest’occasione delle sue responsabilità, che verranno registrate, per votare a favore del ritiro immediato delle truppe sovietiche, la loro sostituzione con la forza di controllo internazionale ora a disposizione delle Nazioni Unite, la liberazione dei detenuti e dei deportati e la successiva organizzazione di una libera consultazione del popolo ungherese. Queste misure sono le sole che possono assicurare la pace nella giustizia che desiderano avidamente tutti i popoli, compreso quello russo. Nel caso in cui le Nazioni Unite si facessero indietro di fronte al loro dovere, i firmatari si impegnano, oltre che a boicottare l’Organizzazione delle Nazioni Unite ed i suoi organismi culturali, anche a denunciare in ogni occasione di fronte all’opinione pubblica la sua mancanza e la sua resa. I firmatari pregano il Signor Segretario Generale di farsi loro interprete presso le Nazioni Unite per assicurarle che il loro appello non è ispirato da un generico e, d’altronde, assai vano spirito ricattatorio, ma dalla dolorosa coscienza delle loro specifiche e dalla loro angosciata rivolta di fronte al martirio di un popolo eroico e libero. Spero che questo testo venga firmato da tutti i destinatari dell’appello degli scrittori ungheresi. Ogni scrittore europeo può però oggi, ovunque si trovi, raccogliere le firme di tutti quegli intellettuali che potrà e telegrafare questo testo al Segretariato delle Nazioni Unite. Questo è, lo dico a nostra vergogna, tutto ciò che possiamo fare per rispondere ai nostri fratelli massacrati, affinché cessi finalmente questa macelleria e per manifestare di fronte al mondo che, oltre ai nostri governi deboli o crudeli, al di sotto della cortina della dittatura, malgrado il drammatico fallimento dei movimenti e delle idee tradizionali della sinistra, la vera Europa esiste, unita negli ideali di giustizia e di libertà contro tutte le tirannie. I combattenti ungheresi oggi muoiono in massa per questa Europa. Affinché il loro sacrificio non sia vano, noi, le cui voci sono ancora per un certo tempo libere, dobbiamo manifestare, giorno dopo giorno, la nostra fedeltà e la nostra idea e rilanciare, più lontano che potremo, l’appello di Budapest.121
120 Vedi nota precedente: all’epoca dei fatti il rischio di una terza guerra mondiale tra potenze nucleari non era affatto fuori dalla realtà. 121 L’appello di Camus restò pressoché inascoltato. Lo stesso direttore della rivista ed amico personale JeanPaul Samson faceva seguire alla pubblicazione di questo appello una nota scettica sulle possibilità effettive di riuscita.
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Per Dostoevsky122 (Témoins, 18-19, autunno 1957/inverno 1958, pp. 8-9) HO INCONTRATO, QUALCHE MESE FA, UN GIOVANE E SIMPATICO SOVIETICO che mi ha molto stupito lamentandosi del fatto che i grandi scrittori russi non fossero sufficientemente tradotti in francese. Gli ho detto che la grande letteratura russa del XIX secolo era, tra tutte quelle dell’epoca, quella che presso di noi è la più tradotta e con la maggior cura. Ho portato al colmo il suo stupore, a mia volta, dicendogli che senza Dostoevskij la letteratura francese del XX secolo non sarebbe quella che è. Per convincerlo definitivamente gli ho detto, alla fine: “Vi trovate nello studio di uno scrittore francese del tutto immerso nel movimento delle idee del proprio tempo. Quali sono i due soli ritratti che si trovano in questo studio?” Lui si girò verso la direzione che gli indicavo ed il suo viso si illuminò vedendo i ritratti di Tolstoj e di Dostoevskij. Questa luce che ho visto sul viso del mio giovane amico e che, essa sola, farà dimenticare tutte le bestialità e tutte le crudeltà che si accumulano oggi per dividere gli uomini, non l’ho messa nel conto né della Russia né della Francia, ma del genio della creazione che risplende al di sopra delle frontiere e che si avverte all’opera pressoché di continuo nell’intera opera di Dostoevskij. Ho incontrato quest’opera all’età di vent’anni e lo choc che ne ho ricevuto dura ancora dopo ventiquattro anni. Metto Gli Ossessi123 insieme a tre o quattro opere del genere de L’Odissea, Guerra e Pace, Don Chisciotte e le opere teatrali di Shakespeare, che sono al vertice dell’enorme cumulo delle creazioni dello spirito. Ho prima di tutto ammirato Dostoevskij a causa di ciò che mi ha rivelato sulla natura umana. Rivelare è la parola esatta, perché ci fa conoscere proprio ciò che già sappiamo, ma che rifiutiamo di riconoscere. Inoltre, egli soddisfa in me una inclinazione estrema per la chiarezza come valore in sé. Molto rapidamente però, man mano che vivevo con maggiore crudeltà il dramma della mia epoca, ho amato in Dostoevskij colui che ha vissuto e rappresentato con maggiore profondità il nostro destino storico. Per me Dostoevskij è innanzitutto lo scrittore che, molto prima di Nietzsche,124 ha saputo individuare il nichilismo del mondo contemporaneo, definirlo, predire i suoi esiti mostruosi e tentare di indicare le vie d’uscita. Il suo tema principale è ciò che lui stesso chiama “lo spirito profondo, lo spirito di negazione e di morte”, lo spirito che, rivendicando la libertà assoluta del tutto è permesso, sbocca nella distruzione di tutto o nell’asservimento generalizzato. La sua personale sofferenza è di esserne parte e di rifiutarlo nello stesso tempo. La sua tragica speranza è di guarire l’umiliazione tramite l’umiltà ed il nichilismo attraverso la rinuncia. L’uomo che ha scritto “le questioni di Dio e dell’immortalità sono le stesse di quelle del socialismo ma sotto un altro punto di vista” sapeva che oramai la nostra civiltà rivendicherà la salvezza per tutti o per nessuno. Sapeva però che la salvezza non potrà essere estesa a tutti, se si dimentica la sofferenza anche di uno solo. In altre parole, non voleva una religione che non fosse socialista – nel senso più ampio del termine – ma rifiutava un socialismo che non fosse religioso – nel senso più ampio del termine. Ha così salvato il futuro della vera religione e del vero socialismo, anche se il mondo d’oggi sembra dargli torto su entrambi i piani. La grandezza di Dostoevskij, pertanto (come quella di Tolstoj, che non ha detto niente di diverso se non nella forma), non cesserà mai di crescere, perché il nostro mondo morirà o gli darà ragione. 125 Sia che questo mondo scompaia sia che rinasca, Dostoevskij, in entrambi i casi, sarà giustificato. È per questo che egli, nonostante ed a causa delle sue debolezze, domina dall’alto della sua statura la nostra letteratura e la nostra storia. Ancora oggi, ci aiuta a vivere ed a sperare. 122 Il punto di partenza di quest’articolo era un intervento radiofonico di circa tre anni prima. 123 I Demoni nella traduzione italiana di maggior seguito. 124 Vedi l’Introduzione e la nota 86. Qui Camus relativizza molto il ruolo positivo svolto da Nietzsche nella sua formazione intellettuale, considerandolo al massimo un ripetitore delle analisi di Dostoevskij già lette in precedenza. 125 Lo slogan “socialismo o barbarie” – tipico in anni successivi della sinistra libertaria francese e non solo – sembra avere origine in queste riflessioni camusiane.
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Omaggio ad un Giornalista Esiliato126 (La Révolution Prolétarienne, 422, novembre 1957, p. 4) È CON ORGOGLIO CHE ACCOGLIAMO STASERA TRA NOI UN AMBASCIATORE DIVERSO DAGLI ALTRI. Ho letto, infatti, che il governo che ha avuto il triste privilegio di chiudere il più grande giornale del Sud America aveva offerto precedentemente al suo direttore, il Presidente Eduardo Santos, un’ambasciata a Parigi. Avete rifiutato quest’onore, Signor Presidente, non certo per disprezzo verso Parigi ma, lo sappiamo, per amore verso la Colombia e, senza dubbio, perché sapete che i governi considerano talvolta le ambasciate estere come luoghi di esilio dorato per i cittadini imbarazzanti. Siete restato a Bogotà, avete dunque infastidito seguendo la vostra vocazione e siete stato censura to, questa volta senza riguardi diplomatici e con il massimo del cinismo. Allo stesso tempo, però, vi si è concesso i soli titoli che oggi vi valgono l’essere considerato da noi tutti come il vero amba sciatore della Colombia – non solo a Parigi, ma in tutte le capitali in cui la parola “libertà“ riesce da sola a far battere i cuori. Non è così facile come si crede essere un uomo libero. In realtà, i soli che affermano che ciò sia facile sono coloro che hanno deciso di rinunciare alla libertà. Non è infatti a causa dei suoi privile gi, come si vorrebbe farci credere, che si rifiuta la libertà, ma a causa delle estenuanti incombenze. Al contrario, coloro il cui mestiere e la cui passione è quello di dare alla libertà il suo contenuto di diritti e di doveri, sanno bene che si tratta di uno sforzo quotidiano, di un’assidua vigilanza e di una testimonianza che ogni giorno è fatta in parti uguali di dignità e di umanità. Se desideriamo oggi comunicarvi il nostro affetto, è perché avete portato questa testimonianza fino alla fine, senza risparmiare voi stesso. Rifiutando il disonore che vi si offriva e che consisteva nell’accettare di farvi carico della condanna e della penitenza che un governo osava imporvi, lasciando distruggere il vostro bel giornale piuttosto che metterlo al servizio della menzogna e del dispotismo, siete stato, certamente, uno di quei testimoni inflessibili che meritano rispetto in ogni contesto. Ciò non basterebbe, però, a fare di voi un testimone di libertà. Questo perché alcuni uomini hanno sacrificato ogni cosa a degli errori ed ho sempre pensato che eroismo e sacrificio non bastano a giustificare una causa.127 La caparbia di per se non è una virtù. Al contrario, ciò che dà alla vostra resistenza il suo vero significato, ciò che fa di voi il compagno esemplare che vogliamo salutare, è il fatto che, nelle stesse circostanze, quando eravate il rispettato Presidente della Colombia, non solo non avete utilizzato il vostro potere per censurare i vostri avversari, ma avete impedito che fosse sospeso il giornale dei vostri nemici politici. Basta solo quest’atto per salutare in voi un vero uomo libero. La libertà ha dei figli che non sono tutti legittimi e nemmeno belli. Coloro che l’applaudono solo quando essa nasconde i loro privilegi e che chiedono la censura assoluta allorché li minaccia, non sono dei nostri. Coloro che, però, secondo il detto di Benjamin Costant, 128 non vogliono né soffrire né possedere strumenti d’oppressione, che la libertà la vogliono sia per se stessi sia per gli altri, costoro, in un secolo in cui la mise ria o il terrore si fondano sulle follie dell’oppressione, sono i semi sotto la neve di cui parlava uno dei nostri maggiori.129 Passata la tempesta, il mondo se ne nutrirà. 126 Il testo che Albert Camus spedisce alla rivista “in esclusiva“ consiste nella rielaborazione del discorso che il pensatore francese aveva tenuto nel 1955, insieme ad altri intellettuali, in omaggio al giornalista Eduardo Santos, già Presidente della Repubblica Colombiana e direttore di El Tiempo, il più importante, dopo la chiusura de La Prensa, quotidiano di opposizione da sinistra al regime militare che aveva soppiantato la democrazia. Dopo numerosi attentati ad opera di vari “squadroni della morte“ contro la sede del quotidiano e dei suoi redattori, il giornale viene chiuso dalla polizia nell’agosto del 1955, dopo il rifiuto di pubblicare le veline della dittatura militare. Eduardo Santos, in effettivo pericolo di vita, era stato costretto all’esilio. 127 In altri termini i valori aristocratico-militaristici, oltre che fascisti, svalutati a favore di una fondazione assiologica dei valori. 128 Henri-Benjamin Constant de Rebecque (Losanna, 25 ottobre 1767 – Parigi, 8 dicembre 1830) è stato uno scrittore, scienziato ed un politico di orientamento liberale. 129 Il riferimento è a Il Seme sotto la Neve di Ignazio Silone, autore estremamente stimato da Camus.
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Simili uomini, lo sappiamo, sono rari. La libertà oggi non ha molti alleati. Sono arrivato a dire che la vera passione del XX secolo è stata la servitù. Erano parole amare e che non rendevano giustizia a tutti quegli uomini – e voi ne siete uno – il cui sacrificio ed esempio ci aiuta ogni giorno a vivere. Volevo però solamente esprimere questa angoscia che sento quotidianamente di fronte al decadimento delle spinte liberali, la prostituzione delle parole, le vittime calunniate, la giustificazione compiacente dell’oppressione, la maniacale ammirazione della forza. Vediamo proliferare quegli spiriti dei quali si è potuto dire che sembrano fare del piacere della servitù un ingrediente della virtù. Vediamo l’intelligenza cercare giustificazioni per la paura e trovarle senza fatica, perché ognuno ha introdotto elementi di lassismo morale nella sua filosofia. L’indignazione si calcola, i silenzi si concordano, la storia diventa solo il mantello di Noè che si stende sulla nudità delle vittime. Tutti, infine, rifuggono dalla vera responsabilità, dalla fatica di essere fedeli o di avere una opinione propria, per lanciarsi nei partiti o nelle masse anonime che, alla fine, penseranno, s’indigneranno e calcoleranno al loro posto. L’intelligenza contemporanea sembra misurare la verità delle idee e delle cause solo in base al numero di divisioni blindate che esse possono mettere in campo. Di conseguenza ogni scusa è buona per giustificare l’assassinio della libertà, quale che sia la nazione, il popolo o la nobiltà dello Stato. In particolare il benessere del popolo è stato da sempre l’alibi dei tiranni, che offre anche il vantaggio di offrire una falsa coscienza ai servi della tirannia. Sembrerebbe pertanto facile distruggere questa falsa coscienza gridando loro: “se desiderate la felicità del popolo, dategli libertà di parola affinché dica qual’è la felicità che desidera e quella che non desidera!“ In realtà, però, questi stessi che utilizzano simili alibi sanno che si tratta di menzogne: lasciano agli intellettuali al loro servizio l’incombenza di credere e dimostrare che la religione, il patriottismo o la giustizia esigono per la loro esistenza il sacrificio della libertà. Come se la libertà, quando se ne va, sparisse per ultima, dopo ogni cosa che costituiva le nostre ragioni di vita. No, la libertà non muore sola: nello stesso suo momento la giustizia è sempre esiliata, la patria agonizza, l’innocenza è ogni giorno nuovamente messa in croce. Certo, la libertà non basta per ogni cosa ed ha dei limiti. La libertà di ognuno trova i suoi limiti in quella degli altri: nessuno ha diritto alla libertà assoluta. Il limite in cui inizia ed in cui termina la libertà, dove si accordano i suoi diritti ed i suoi doveri si chiama legge e lo Stato stesso deve essere sottomesso ad essa. Se vi si sottrae, se priva i cittadini dei benefici di essa, questo è tradimento. L’agosto scorso, in Colombia, c’è stato un tradimento, come da più di vent’anni c’è un tradimento in Spagna. Lì come dappertutto, il vostro esempio ci aiuta a ricordare che non si viene a patti con il tradimento. Lo si rifiuta e lo si combatte. Il terreno della vostra lotta è stata la stampa. La libertà di stampa è forse quella che ha maggiormente sofferto del lento degrado dell’idea di libertà. La stampa ha i suoi sfruttatori, così come ha i suoi poliziotti. Lo sfruttatore la degrada, il poliziotto la asservisce ed ognuno prende pretesto dall’altro per giustificare i suoi eccessi. In mezzo a questi signori, c’è chi vorrebbe proteggere l’orfanella e darle un rifugio, ma questo rifugio sarà una prigione o un bordello. L’orfanella, in verità, è ferma nel suo rifiuto di tutte queste attenzioni premurose e nella decisione di lottare da sola e, sola, decidere del suo destino. Non che la stampa sia di per se un valore assoluto. Victor Hugo diceva in un discorso che era l’intelligenza, il progresso e non so cos’altro. L’oramai vecchio giornalista che sono sa che essa non è niente di simile e che la realtà è meno consolante. In un altro senso però la stampa è meglio dell’intelligenza o del progresso: è il fondamento di tutto questo e di altre cose ancora. La stampa libera può senza dubbio essere buona o cattiva, ma di sicuro, senza la libertà, non potrà essere altro che cattiva. Quando si sa di cosa l’uomo è capace, nel bene e nel male, si sa bene che non è la persona umana in se che bisogna proteggere, ma le potenzialità che essa contiene, insomma la sua libertà. Confesso, da parte mia, che non posso amare l’intera umanità, se non di un amore generico ed un poco astratto. Amo però alcuni uomini vivi o morti con tanta di quella forza ed ammirazione che sono sempre ansioso di preservare negli altri ciò che, forse un giorno, le renderà simili a ciò che amo. La libertà non è altro che la possibilità di essere migliori mentre la servitù è la certezza del peggio. Se allora, malgrado tante compromissioni o servilismi, bisogna continuare a vedere nel giornalismo – allorché sia libero – una delle più grandi professioni di questi tempi, è solo nella misura in
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cui essa permette ad uomini come voi ed i vostri collaboratori di servire al massimo grado il loro paese ed il loro tempo. Con la libertà di stampa, i popoli non hanno la certezza di andare verso la giustizia e la pace. Senza di essa, però, sono certi di non giungervi – perché non si rende giustizia ai popoli che quando si riconosce i loro diritti e non esiste diritto senza l’espressione di tale diritto. In merito si può dar credito a ciò che diceva Rosa Luxemburg: senza una illimitata libertà di stampa, senza un’assoluta libertà di riunione e di associazione, è inconcepibile il potere delle grandi masse popolari. Occorre dunque essere intransigenti su questo principio di libertà. Esso non è a fondamento solo dei privilegi culturali – come ipocritamente ci si cerca di persuadere. Esso è a fondamento anche dei diritti del lavoro. Coloro che per giustificare al meglio la loro tirannia oppongono lavoro e cultura, non ci faranno dimenticare che tutto ciò che asservisce l’intelligenza incatena il lavoro e viceversa. Quando l’intelligenza è imbavagliata, di lì a poco anche il lavoratore viene sottomesso, così come quando il lavoratore è incatenato, rapidamente l’intellettuale è ridotto al silenzio od alla menzogna. In poche parole, colui che attenta alla verità od alla sua espressione alla fine mutila la giustizia – anche quando crede di servirla. Da questo punto di vista, non negheremo affatto che una stampa sia autentica perché essa è rivoluzionaria: essa però non sarà rivoluzionaria che per il fatto di essere autentica e mai in nessun altro caso. Finché terremo queste verità in mente, la vostra resistenza, Signor Presidente, manterrà il suo vero senso e, lungi dall’essere solitaria, illuminerà la lunga lotta che ci aiuterete così a non abbandonare. Il governo colombiano ha accusato El Tiempo d’essere un superStato nello Stato ed avete avuto ragione di rifiutare quest’accusa. Il vostro governo, però, aveva anche ragione, sia pure in un senso che non accetterebbe: poiché, dicendo ciò, rendeva omaggio alla potenza della parola. La censura e l’oppressione forniscono solamente la prova che la parola riesce a far tremare il tiranno, alla sola condizione che essa sia appoggiata dal sacrificio. Perché solo la parola nutrita dal cuore e dal san gue può riunire gli uomini quando il silenzio della tirannia li separa. I tiranni fanno monologhi sopra milioni di solitudini. Se rifiutiamo l’oppressione e la menzogna, al contrario, è perché rifiutiamo la solitudine. Ogni ribelle, quando si erge contro l’oppressione, afferma con ciò stesso la solidarietà di tutti gli uomini.130 No, non è voi stesso né un lontano quotidiano che avete difeso nel resistere all’oppressione, ma l’intera comunità umana che ci unisce al di là delle frontiere. Non è d’altronde vero che il vostro nome, in tutto il mondo, è sempre stato collegato alla causa della libertà? Come poi non ricordare qui che siete stato e siete uno degli amici più fedeli della nostra Spagna – la Spagna repubblicana – oggi dispersa nel mondo, tradita dai suoi alleati e dai suoi amici, dimenticata da tutti, la Spagna umiliata che non mantiene in piedi giustamente altro che la forza del suo urlo. Il giorno in cui l’altra Spagna, cristiana e repressiva, rientrerà coi suoi carcerieri e la sua censura nell’Organizzazione delle Nazioni sedicenti libere, quel giorno, lo so, voi vi stringerete con tutti noi, silenziosamente, senza avere in mente alcun utile, al fianco della Spagna libera ed infelice. Di questa fedeltà, lasciate che vi ringrazi in nome della mia seconda patria ed in nome di tutti coloro che, qui riuniti, vi comunicano la loro riconoscenza e la loro amicizia. Siate grato di essere tra coloro che – nel tempo della servitù e della paura – si mantengono fermi nella loro rettitudine. Si lamenta un po’ ovunque che sta sparendo il senso del dovere. Come potrebbe essere altrimenti, giacché non ci si preoccupa più dei diritti ad esso connessi? Solo chi è intransigente per ciò che concerne i suoi diritti mantiene la capacità del dovere. I grandi cittadini di un paese non sono quelli che si inginocchiano davanti all’autorità ma coloro che – se occorre contro l’autorità – sono intransigenti circa l’onore e la libertà di quel paese. Il vostro paese dunque saluterà in voi il suo grande cittadino, come noi facciamo qui, per aver saputo, disprezzando ogni opportunismo, opporvi all’ingiustizia assoluta che vi si infliggeva. Nell’ora del più ristretto realismo una concezione degradata del potere, la passione del disonore, le devastazioni della paura sfigurano il mondo; nel momento in cui si può pensare che tutto è perduto, qualcosa al contrario nasce, perché non abbiamo più nulla da perdere. Ciò che nasce è il tempo degli irriducibili, votati ormai alla incondiziona130 Vedi il capitolo iniziale (“I. L’Uomo in Rivolta”) in CAMUS, Albert, L’Uomo in Rivolta, Milano, Bompiani, 2005, pp. 17-27.
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ta difesa della libertà. È per questo che il vostro atteggiamento serve di esempio e di conforto a tutti coloro che – come me – si separano oggi da molti dei loro amici di un tempo, rifiutando ogni complicità, anche provvisoria, anche e soprattutto tattica, con i regimi od i partiti – siano di destra o di sinistra – che giustifichino anche minimamente la soppressione anche di una sola delle nostre libertà! Per terminare, permettetemi di dirvi che, leggendo l’altro giorno l’ammirevole messaggio che avete indirizzato al nostro popolo, ho compreso in pieno contemporaneamente sia la vostra fermezza sia la vostra fedeltà, sia quale lunga pena deve essere stata la vostra. Quando l’oppressione trionfa – qui lo sappiamo tutti – coloro che nonostante tutto credono nella giustezza della loro causa soffrono di una sorta di turbata sofferenza nello scoprire l’apparente impotenza della giustizia. Queste sono allora le ore dell’esilio e della solitudine, che noi tutti abbiamo conosciuto. Vorrei pertanto dirvi che, a mio avviso, ciò che di peggio può accadere nel mondo in cui viviamo è che uno di questi uomini liberi e coraggiosi di cui ho parlato vacilli sotto il peso dell’isolamento e delle lunghe avversità, dubitando allora di se stesso e di ciò che rappresenta. Mi sembra poi che è in questi momenti che gli uomini del suo genere devono andargli incontro, dimenticando ogni formalità, col solo linguaggio del cuore, per dirgli che non è solo e che il suo agire non è vano, che giunge sempre il giorno in cui i bastioni dell’oppressione crollano, in cui l’esilio termina, in cui la libertà divampa. Questa tranquilla speranza giustifica il vostro agire. Se gli uomini, dopo tutto, non possono sempre far sì che la storia abbia un senso, possono sempre agire in modo che la loro vita ce l’abbia. Credetemi se vi dico che attraverso migliaia di chilometri, dalla lontana Colombia, voi ed i vostri collaboratori ci avete mostrato un cammino che bisogna ancora percorrere insieme, verso la libertà. Accettate, in nome degli amici fedeli e riconoscenti che qui vi accolgono, che saluti fraternamente in voi e nei vostri collaboratori dei grandi compagni della nostra comune liberazione.
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Post Scriptum131 (La Révolution Prolétarienne, 422, novembre 1957, p. 4) POICHÉ MI RIVOLGO A DEI SINDACALISTI, ho una questione da porre loro ed a me stesso. Possiamo lasciare assassinare i migliori sindacalisti algerini132 da una organizzazione che sembra voler conquistare, tramite l’assassinio, la direzione totalitaria del movimento algerino? I quadri algerini di cui l’Algeria di domani, quale che sia,133 non potrà fare a meno sono rarissimi (ed abbiamo le nostre responsabilità in questo stato di cose). Tra di loro però, in primo piano, sono i militanti sindacali. Li si uccidono gli uni dopo gli altri e, per ogni militante che cade, il futuro dell’Algeria spro fonda un po’ di più nell’oscurità. Occorre almeno dirlo – ed il più forte possibile – per impedire che l’anticolonialismo divenga la falsa coscienza che giustifica ogni cosa – innanzitutto gli assassinii.134
131 Quest’appello di Albert Camus – pubblicato in calce all’articolo precedente e, successivamente su Le Monde Libertaire (n. 33, dicembre 1957, p. 1) – fu concepito in seguito ad un’ondata di attentati contro alcuni sindacalisti algerini, attentati rivendicati dal F.L.N. 132 All’interno dello scontro tra il Movimento Nazionale Algerino (più legato, nonostante il nome, alle tradizioni del movimento operaio e socialista) ed il Fronte di Liberazione Nazionale, tra il settembre e l’ottobre del 1957 numerosi quadri operai dell’Unione Sindacale dei Lavoratori Algerini, soprattutto della Renault, vennero assassinati per mano di squadracce organizzate dal Fln. 133 Grassetto nell’originale. 134 Questo breve testo si inquadra all’interno della posizione camusiana sulla questione algerina, contraria alla creazione di uno stato indipendente (per di più, come sarebbe stato, pressoché privo di libertà civili) e favorevole invece alla piena parità di diritti tra francesi ed algerini all’interno di una sola nazione.
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(Liberté,
Su Caligola 3, 14 febbraio 1958, pp. 2-3)
Nota redazionale. Albert Camus ha voluto molto generosamente concederci questo testo in occasione della replica del Caligola al Teatro Nuovo e prima di lasciare Parigi per molte settimane. Lo ringraziamo calda mente e gli auguriamo un buon riposo – a nome nostro e dei numerosi amici che conta tra di noi. CALIGOLA È STATO COMPOSTO NEL 1938, DOPO UNA LETTURA DE LE VITE DEI DODICI CESARI DI SVETONIO. Tramite Svetonio, Caligola mi è apparso come un tiranno d’una specie particolarmente rara, voglio dire un tiranno intelligente, i cui impulsi appaiono insieme singolari e profondi. In particolare, egli è il solo, a mia conoscenza, ad avere preso in giro il potere in quanto tale. Leggendo la storia di questo grande e tragico istrione, lo vedevo già sulla scena. Ho scritto allora quest’opera per il Piccolo Teatro che avevo fondato ad Algeri. La guerra ha disturbato i miei progetti e Caligola ha avuto la reale possibilità di essere rappresentato a Parigi, per la prima volta, nel 1945, da Jacques Hèbertot. Oggi quest’opera è ripresa al Teatro Nuovo di Elvire Popesco e Hubert de Malet, con giovani attori, in un palcoscenico d’essai, assai simile a quello per il quale era stato scritto. Beninteso, Caligola si ispira anche ai timori che erano i miei all’epoca in cui lessi le Vite dei Dodici Cesari. Per questo motivo, non è per nulla un’opera storica. Di che si tratta allora? Caligola, principe amabile fino ad allora, s’avvede alla morte di Drusilla, sua sorella e punto di riferimento, che il mondo così com’è non lo soddisfa. Allora, ossessionato dall’impossibile, avvelenato dal disprezzo e dall’orrore, tenta di esercitare, tramite l’assassinio e la perversione sistematica di ogni valore, una libertà che alla fine scoprirà non essere quella che cercava. Rifiuta l’amicizia e l’amore, la semplice solidarietà umana, il bene ed il male. Prende in giro coloro che lo circondano, li domina con il suo rifiuto e con la furia distruttiva dove lo porta la sua passione vitale. Ma se la sua verità è nel rivoltarsi contro il destino, il suo errore è negare ciò che lo lega agli uomini. Non si può distruggere tutto senza distruggere se stessi. È per questo che Caligola spopola il mondo intorno a lui e, fedele alla sua logica, fa ciò che occorre per armare contro di lui coloro che finiranno per ucciderlo. Caligola è la storia di un grande suicida. È la storia del più tragico dei suoi errori. Infedele all’uomo per fedeltà a se stesso, Caligola accetta la morte perché ha compreso che nessun uomo può salvarsi da solo e che non si può essere liberi contro gli altri uomini. Si tratta dunque di una tragedia dell’intelligenza. Dal che si è portati istintivamente a conclude re che è un dramma intellettuale. Personalmente, credo di conoscere bene le mancanze di quest’opera. Ma ne cerco invano la filosofia in questi quattro atti. Dove, se essa esiste, si trova al livello di quest’affermazione dell’eroe: “Gli uomini muoiono e non sono felici”. Assai modesta ideologia, si vede, che ho l’impressione di condividere con il Signor di La Palice e l’intera umanità. No, la mia ambizione era altra. La passione dell’impossibile è, per il drammaturgo, un oggetto di studio ugualmente valido della cupidigia o dell’adulterio. Mostrarla nel suo furore, illustrarne i danni, farne risaltare lo scacco, ecco qual’era il mio progetto. È in base ad esso che occorre giudicare quest’opera. Se si tiene ciononostante ad aggiungere delle considerazioni maggiormente generali, oggi proporrei queste: si può leggere in Caligola il fatto che la tirannia non si giustifica, nemmeno per le più alte motivazioni. La storia, ed in particolare la nostra storia, ci ha poi gratificato di tiranni più tradizionali: pesanti, spessi e mediocri tiranni in mezzo ai quali Caligola appare come un’anima candida. Anch’essi si credevano liberi perché dominavano con un potere senza limiti. Non lo erano più di quanto lo sia nella mia opera l’imperatore romano. Semplicemente, costui però ne è cosciente ed acconsente a morirne, ciò che gli conferisce una sorta di grandezza che la maggior parte degli altri tiranni non ha mai conosciuto. 135 Rivista libertaria francese fondata e diretta da Louis Lecoin dopo che aveva abbandonata nel 1955 la direzione di Défense de l’Homme, come questa con una spiccata attenzione ai temi della pace e dell’antimilitarismo.
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Appello del Comitato di Soccorso ai Rifugiati Spagnoli (Témoins, 20, supplemento 3, dicembre 1958, p. 7) ABBIAMO FORMATO CON QUALCHE AMICO AMERICANO ED EUROPEO UN COMITATO DI SOCCORSO AI RIFUGIATI SPAGNOLI.136 Vi scrivo per chiedervi semplicemente di aiutarci. Per tutti voi, la Guerra di Spagna è finita. Per molti uomini sparsi nel mondo essa continua attraverso infelicità e privazioni. Costoro sopportano la povertà e la malattia con fierezza. Noi però dobbiamo comunque soccorrerli per quanto possiamo. Il nostro aiuto assicurerà loro le cure mediche, gli strumenti per il loro mestiere, la promessa di una vita più dignitosa. Ciò che farete per essi avrà un immediato riscontro nella loro vita quotidiana. Fatelo, ve ne prego, e sin d’ora vi ringrazio di tutto cuore. 137
136 Dopo lo “sdoganamento” del franchismo, la situazione dei rifugiati spagnoli ebbe a subire un peggio ramento, dovuto soprattutto al cresciuto disinteresse della sinistra “moderata” nei confronti dei problemi che la loro condizione di apolidi arrecava loro (ad esempio, come accennato nell’appello, la difficoltà di ottenere l’accesso alle cure mediche gratuite dei vari sistemi pubblici nazionali.) 137 All’annuncio seguivano indicazioni pratiche come un conto corrente postale per versamenti in denaro, un indirizzo cui spedire abiti, biancheria intima ed altro, vari rifermenti nazionali del Comitato.
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La Letteratura Proletaria138 (La Révolution Prolétarienne, 447, febbraio 1960, pp. 2-3) SE CREDETE CHE LA MIA FRASE139 MERITI QUALCHE ULTERIORE SVILUPPO, proverò a farlo qui. Occorre però che prima ripeta ciò che vi ho già detto: non sono sicuro di avere ragione e, per di più, mi sento in stato di inferiorità rispetto al vostro lavoro. Quando degli uomini che passano la loro giornata in una officina od in una fabbrica impegnano il loro tempo libero per cercare di esprimersi in una rivista, non è colui che gode di una grande libertà per scrivere e lavorare che può storcere la bocca e dare consigli. Anche se per caso potesse avere ragione, non paga di persona su questo punto e ciò basta a rendere sospette le sue parole. Per aderire ad un ruolo talmente ridicolo e facilmente odioso, occorrerebbe essere tra vecchi compagni e nella più totale tranquillità. Senza offendervi, non è questo il caso.140 Allo stesso tempo, però, mi sembra che vi sarebbe un po’ di volgare vigliaccheria, una mancanza di senso di solidarietà, nel non dire semplicemente ciò che penso, beninteso restando che sono pronto in ogni momento a riconoscere che ho torto. Occorre innanzitutto dire che non penso che esista una letteratura operaia specifica. Ci può essere della letteratura scritta da degli operai, ma essa non si distingue, se è di qualità, dalla grande letteratura. Credo in compenso che i lavoratori possono rendere alla letteratura dei nostri giorni qualcosa che sembra, nella sua maggioranza, aver perduto. Mi spiego. Si può ritenere Gorki, 141 ad esempio, come uno dei più bei rappresentanti della letteratura operaia. Per me però non c’è differenza essenziale tra i suoi libri e quelli del grande proprietario terriero Tolstoj. 142 Al contrario, li amo entrambi in parte per le medesime ragioni: esprimono in un linguaggio allo stesso tempo semplice e bello ciò che vi è di più grande – gioia o dolore – nel cuore di un uomo. Esiste al contrario un’enorme differenza tra Tolstoj ed un grande scrittore come Gide, 143 di origine borghese. Dei due, è il grande proprietario terriero che, alla sua maniera, scrive per e con il popolo. Tolstoj e Gorki, da soli, definiscono molto bene ciò che intendo per letteratura, che voi potete chiamare all’occasione operaia e che io chiamerei, in mancanza di un termine meno ridicolo, vera. In quest’arte possono ricongiungersi il cuore più semplice ed il gusto più elaborato. A dire la verità, se una viene a mancare, l’equilibrio si rompe. Infatti, la letteratura del nostro tempo – che è in realtà una letteratura per la classe dei mercanti, almeno nella maggior parte delle sue opere – ha distrutto l’equilibrio. Non l’ha rotto soltanto per guadagnare in raffinatezza ed in leziosismi, cosa 138 Il testo – una lettera – era nato in occasione della richiesta (avvenuta sette anni prima) di un articolo per la rivista Après l’boulot diretta da Maurice Lime, personaggio proveniente dal Partito Comunista Francese, poi collaborazionista, poi nuovamente militante nella sinistra. Di qui, probabilmente, una certa ritrosia e distanza che si nota nella lettera in questione. A distanza di tempo, ritenendo che le tematiche trattate nella lettera fossero in qualche modo ancora di attualità, Camus ne aveva consegnata una copia per la pubblicazione alla rivista anarcosindacalista francese, che la pubblicò poco dopo la morte del suo autore, avvenuta il 4 gennaio. 139 Il riferimento è ad una lettera precedente, sullo stesso tema. 140 Vedi nota 138 sul passato di Maurice Lime. 141 Maksim Gor’kij, pseudonimo di Aleksej Maksimovič Peškov (Nižnij Novgorod, 28 marzo 1868 – Mosca, 18 giugno 1936). Scrittore e drammaturgo russo proveniente da una famiglia povera ed in origine lavoratore manuale, è considerato il padre del cosiddetto “realismo socialista”: nelle sue opere è costante il tema della lotta contro la povertà, l’ignoranza, la guerra e la tirannia. Nonostante la fama, i suoi contatti con la sinistra rivoluzionaria lo resero notevolmente inviso al regime zarista e fu costretto all’esilio. Amico di Lenin, collaborò lungamente con lui sul settore culturale sia prima sia dopo la presa di potere del Partito Bolscevico e ritornò definitivamente in Russia sotto il regime stalinista. 142 Lev Nikolàevič Tolstòj (Jàsnaja Poljana, 9 settembre 1828 – Astàpovo, 20 novembre 1910), è stato tra i più grandi scrittori, filosofi, educatori ed attivisti sociali della Russia zarista. Autore di celebri romanzi e racconti ancora oggi letti e tradotti a livello mondiale, è noto anche per il suo pensiero filosofico e politico, che tendeva a coniugare un cristianesimo radicale con l’anarchismo comunista e quella che oggi definiremmo la non violenza. È uno dei padri intellettuali esplicitamente riconosciuti dal Camus scrittore e pensatore politico – vedi in questo volume il saggio “Per Dostoevskij”. 143 Vedi nota 21.
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che comunque l’ha staccata bruscamente dal pubblico operaio. L’ha rotto anche – com’è naturale quando si voglia piacere a dei mercanti – nel senso della volgarità e della derisione, cosa che esclu de l’interesse di Tolstoj (lo scrittore russo diceva che il giornalismo è un bordello intellettuale e che la letteratura odierna è nella maggior parte dei casi del giornalismo fatto in volumi). Ebbene, allo stesso modo in cui è necessario che una rivista operaia reagisca contro i leziosismi e le cineserie di una certa letteratura al fine di riportarla nella città di coloro che, in tutti i campi, lavorano, mi sembra indispensabile che reagisca anche – e con forza – contro la volgarizzazione borghese. Per ripetere il mio esempio, Tolstoj non mi sembra grande se non nella misura in cui sa commuovere il lettore meno preparato. All’inverso, però, la letteratura operaia non possiede senso né grandezza che quando, rappresentando la realtà del lavoro, del dolore, della gioia, ricongiunge nel linguaggio più opportuno quella stessa verità che Tolstoj ha perseguito con tutti i mezzi dell’arte e del pensiero. Se, al contrario, questa letteratura si limita a ripetere ciò che leggiamo nei giornali risulterà certamente interessante, ma a causa del contesto in cui è nata, non in virtù di se stessa. Ciò che talvolta mi infastidisce nella vostra rivista (non sempre, questo è certo) è un certo compiacimento che finisce per giungere a ciò che non amo nella letteratura d’oggi. Quando un produttore borghese raffazzona un bidone cinematografico che gli farà guadagnare milioni grazie alle curve di una diva fabbricata in sei mesi, perché dargli ragione scrivendo che queste curve rendono accettabile il film? Come tutti, ho le mie idee ed i miei gusti sulle curve. Le curve, però, sono una cosa, la cultura di classe un’altra, e la degradante impresa del cinema borghese deve essere giudicata diversamente. Dallo stesso punto di vista (sono dettagli, li ho scelti esclusivamente allo scopo di farmi comprendere) è vero che la briscola al bistrot dell’angolo vale bene il cocktail mondano. Il problema è però proprio che il cocktail mondano non vale nulla. Perché dunque compararli? La briscola ha del buono (per chiarire l’esempio, aggiungo che è il solo gioco di carte di cui sono patito), ma non ha bisogno di una rivista per essere celebre. Si difende perfettamente da sola. Beninteso, so che è necessario che una rivista sia viva e che non annoi. Vi sono abbastanza riviste oggi che, proponendosi soprattutto di piacere, non giungono nemmeno a non piacere: annoiano solamente. Non sono per nulla sprovvisto di senso dell’umorismo e, per me, una rivista operaia deve anche far ridere. Vi è un equilibrio da trovare, ecco tutto, e so che non è facile da trovare, so prattutto in due numeri. So anche che non avrebbe potuto cogliere l’intera mia opinione nei due esempi che vi ho fatto144 (il testo del minatore belga è bellissimo). Giustamente, però, se ciò che vi dico ha una qualche utilità, è quella di permettervi di distinguere le differenze di stile che appaiono ad un lettore in buona fede e di decidere in un senso o nell’altro. Voglio soltanto ripetermi un’altra volta, a rischio di essere noioso a mia volta. Non parteggio per una rivista sonnifero, né voglio che i vostri collaboratori scrivano con il mignolino alzato. Gli esempi che invocherei non sono Gide o Claudel145 o Jouhandeau.146 Parlo però di una letteratura di cui le novelle di Tolstoj sono il livello più elevato e che è il legame comune che può riunire artisti e lavoratori. Vallés,147 Dabit,148 Poulaille,149 Guillox150 (avete letto Compagni, il suo capolavoro?), Istra144 Nella lettera precedente. 145 Paul Claudel (Villeneuve-sur-Fère, 6 agosto 1868 – Parigi, 23 febbraio 1955) poeta, drammaturgo e diplomatico francese. Da giovane militante anarchico, restò comunque, anche dopo aver intrapreso la carriera diplomatica, in qualche modo legato agli ideali della sinistra radicale. 146 Marcel Jouhandeau (Guéret, 26 luglio 1888 – Parigi, 7 aprile 1979) è stato uno scrittore francese dal carattere ambiguo e contraddittorio. 147 Jules Vallès (pseudonimo di Jules Louis Joseph Vallez, Le Puy-en-Velay – Haute-Loire – 11 giugno 1832 – Parigi 14 febbraio 1885) è un giornalista, scrittore e politico francese legato alla sinistra rivoluzionaria. Fondatore de Le Cri du Peuple, è uno degli eletti della Comune di Parigi nel 1871. Condannato a morte, fu costretto in esilio a Londra dal 1871 al 1880. 148 Eugène Dabit (Parigi, 1898 – Sebastopoli, 1936): romanziere francese attento ai problemi sociali dell’epoca. Marcel Carné nel 1938 ha tratto il suo famosissimo film Hôtel du Nord dal suo romanzo omonimo. 149 Henri Poulaille, scrittore francese (Parigi 1896 – Cachan 1980). Autore di romanzi realistici, fu un teorico e militante del movimento populista. 150 Louis Guilloux (Saint-Brieuc 15 gennaio 1899 – 14 ottobre 1980), scrittore francese amico di Camus e legato in generale alla sinistra.
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ti,151 Gorki, Roger Martin du Gard,152 e molti altri non scrivono con il mignolino alzato e parlano, per tutti, di una verità che la letteratura borghese ha perso quasi interamente di vista e che, a mio avviso, il mondo dei lavoratori conserva pressoché intatta. Cosa dirvi d’altro? Occorrerebbe – e forse lo farò un giorno – insistere su questa verità: vi è tra il lavoratore e l’artista una fondamentale solidarietà e che, ciononostante, sono oggi disperatamente separati. Le tirannie, così come le democrazie del denaro, sanno che per dominare occorre separare il lavoro e la cultura. Per il lavoro l’oppressione economica è pressapoco sufficiente, congiunta alla costruzione di un surrogato di cultura (di cui il cinema, nella sua maggioranza). Per la seconda, la corruzione e la derisione svolgono il loro compito. La società mercantile copre d’oro e di privilegi dei buffoni decorati col titolo di artista e li spinge verso ogni genere di favori. Appena essi accetta no questi favori, eccoli legati ai loro privilegi, indifferenti od ostili alla giustizia e separati dai lavoratori. È dunque contro questo movimento di separazione che voi e noi, artisti di professione, dovremo lottare. Innanzitutto tramite il rifiuto dei favori e poi, noi, sforzandoci sempre più di scrivere per tutti – lontani come siamo da questa vetta dell’Arte – e voi, che penate nella più dura delle battaglie, pensando a tutto ciò che manca alla letteratura di oggi ed a ciò che potete apportargli di insostituibile. Non è facile, lo so, ma il giorno in cui, tramite questa azione congiunta, vi giungeremo vicino, non ci saranno più gli artisti da un lato e gli operai dall’altro, ma una sola classe di creatori in tutti i sensi della parola. Ecco all’incirca – troppo distesamente e molto confusamente perché ho scritto seguendo la corrente della penna – quello che penso. Se mi inganno, perdonatemi. Vi ripeto che non avverto, di fronte al vostro tentativo, alcuna certezza. Cordialmente Albert Camus P. S. Grazie per le Belle Giornate153 che leggo con interesse. Il soggetto è magnifico.
151 Panait Istrati (Baldovinesti 1884 – Bucarest 1935). Di padre greco e madre romena, scrisse in prevalenza in lingua francese. Autodidatta, dopo aver esercitato vari mestieri nel Vicino e Medio Oriente, nel 1916 fu in Svizzera, e nel 1920 si stabilì in Francia. Ebbe successo con il romanzo Kyra Kyralina (1924), in cui si ritrovano i motivi predominanti della sua narrativa: ricordi di un’infanzia misera e fantasiosa, nostalgia del ghetto familiare, nomadismo, avventure picaresche. Anch’egli legato alla sinistra antistalinista. 152 Roger Martin du Gard (Neuilly-sur-Seine, 23 marzo 1881 – Bellême, 22 agosto 1958) è stato uno scrittore e poeta francese, amico di Gide e premio Nobel per la letteratura nel 1937. 153 Libro di Maurice Lime pubblicato alcuni anni prima nel 1949.
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L’Ultimo Scritto154 (Reconstruir, gennaio-febbraio 1960, p. 1) Reconstruir – Gli incontri al vertice tra i due rappresentanti degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica vi fanno concepire qualche speranza in merito alla possibilità di superare la divisione del mon do in due blocchi antagonisti? Albert Camus – No: il potere rende folle chi lo detiene. Reconstruir – Vi siete fatto un’opinione sulla possibilità di una coesistenza pacifica tra i regimi ca pitalista e comunista? Albert Camus – Non esiste un regime capitalista puro, né un regime comunista puro. Vi sono delle potenze che coesistono perché si temono a vicenda. Reconstruir – Credete, per le altre nazioni, in una scelta netta tra Stati Uniti ed Unione Sovietica od ammettete la possibilità di una terza posizione e, se vi credete, come la descrive o definisce? Albert Camus – Credo in una Europa Unita, appoggiantesi sull’America Latina e più tardi, quando il virus nazionalista avrà perduto un po’ della sua forza, sull’Asia e sull’Africa. Reconstruir – Passando ad altro genere di questioni, considerate positivamente lo sforzo che si compie in vista della conquista dello Spazio? Ritenete retrogrado il sentimento di molta gente che pensa che sarebbe molto meglio impiegare sulla Terra le enormi somme spese in missili e satelliti, per porre rimedio, per esempio, alla denutrizione cronica in vaste regioni del nostro pianeta? 155 Albert Camus – La Scienza avanza sia verso il male sia verso il bene. È un dato immodificabile. Il meno però che si possa dire, di fronte a realizzazioni tecnicamente stupende e politicamente orrende, è che non c’è nulla di cui vantarsi e nemmeno gioire. Reconstruir – Come vedete l’avvenire dell’Umanità? Cosa si dovrebbe fare per giungere ad un mondo meno oppresso dal bisogno e più libero? Albert Camus – Donare, quando si può, e non odiare, se lo si può.
154 Si tratta alla lettera delle ultime parole scritte da Albert Camus, La rivista anarchica argentina Reconstruir aveva proposto un questionario per brevi e secche risposte sulle questioni internazionali dell’epoca. Il questionario venne inviato nell’ottobre 1959 a varie personalità della cultura mondiale legate in qualche modo al movimento anarchico: Camus fu il primo a rispondere. Il suo testo fu elaborato e spe dito il 29 dicembre, solo sei giorni prima della morte. Il testo apparve all’epoca ed appare ancora oggi, alla luce del tragico evento della sua scomparsa, come una sorta di testamento politico. 155 La sinistra rivoluzionaria antistalinista – ed il movimento anarchico in particolare – era all'epoca impe gnata in questa campagna di “controinformazione”, che ebbe nuovamente fiato durante la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, in occasione degli sbarchi lunari.