Associazione Culturale e Sociale Sarda Inc. Sydney N.S.W. Australia
Battista Saiu e Raffaele Zanella
“Sardegna, Cuore di Pane” Club Five Dock RSL, Sydney NSW 14 Agosto 2016
“Non so se veramente la Svizzera abbia un cuore di cioccolato, ma di sicuro la Sardegna ha il cuore fatto del nostro pane artigianale tipico: si chiami pane carasau o moddizosu, orzatu o cogoneddu”. Così Lina Aresu nell’introdurre la sua relazione al convegno “Nel nome del pane”, tenutosi al Ricetto di Candelo e a Biella, nell’ambito delle manifestazioni del Circolo Culturale Sardo Su Nuraghe, durante l’esposizione di circa 400 diversi pani provenienti da una ventina di località dell’isola. L’anno successivo, “Su calendariu 2000”, lo scadenzario del Circolo Culturale Sardo Su Nuraghe di Biella, è stato dedicato al pane, con la pubblicazione di immagini di pani di Sardegna realizzate durante la doppia esposizione. Nel 2014, attraverso la Comunità dei Sardi, alcuni pani di Sardegna sono stati inseriti nel nuovo allestimento del MEG, Musée d'Ethnographie de Genève. Le strade di Svizzera e Sardegna erano destinate a incontrarsi attraverso il pane. Alcuni nomi del pane sono presenti nel DES, Dizionario Etimologico Sardo, pubblicato ad Heidelberg nel 1960-1964 e a Cagliari nel 1989, monumentale opera di Max Leopold Wagner (Monaco di Baviera 1880 - Washington 1962), risultato editoriale del Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, Atlante linguistico ed etnografico dell'Italia e della Svizzera meridionale, ideato e diretto da Karl Jaberg (Langenthal 1877 - Bern 1958) e Jakob Jud (Wängi 1882 - Seelisberg 1952). Progetto ambizioso all’interno del quale Wagner svolge le sue indagini in Sardegna dal novembre 1925 al luglio 1927, censendo vocaboli della lingua sarda, corredati di segni diacritici per la traslitterazione dei termini raccolti. Studioso di lingue romanze, il Bavarese aveva già pubblicato nel 1921 Das ländliche Leben Sardiniens im Spiegel der Sprache, “La vita rustica della Sardegna rispecchiata nella sua lingua”, significativa opera su lingua e cultura della Sardegna. Anticipazione del futuro proficuo contatto di studio condotto fin dagli esordi, durante la permanenza fiorentina di inizio secolo, quando aveva incominciato ad interessarsi alle vicende della Sardegna. Nella seconda metà del Novecento, sulla scia della pubblicazione degli ultimi risultati dell’inchiesta demo-antropo-linguistica svizzera, prende avvio una nuova ricerca scientifica guidata da Alberto Mario Cirese (Avezzano 1921 - Roma 2011), focalizzata sul pane, perla ancora grezza, oggetto di indagini e studi etnologici sulla Sardegna.
Il pane dei Sardi, buono da mangiare Per gli sponsali, la celebrazione di una prima messa, in onore di un santo particolarmente venerato o in ricorrenze eccezionali, in tutta la Sardegna, vengono realizzati pani artistici, rituali, cerimoniali e votivi. Numerosissime le forme, peculiari di una vita che riversa in esse la fantasia di un intero popolo: plasmato da mani sapienti, il pane si trasforma in corone, rami, cestini, fiori, foglie, uccelli; simboli di antica e 1
nuova religiosità, ereditata e tramandata attraverso l’oralità, il gesto e la parola. Per i Sardi, il pane e l'arte della panificazione sono gli archivi, il tesoro della loro scienza e della loro religione, della loro teogonia e della loro cosmologia, dei fatti antichi dei loro padri e degli eventi della loro storia, l'eco del loro cuore, l'immagine della vita domestica nella gioia e nel dolore, accanto al letto nuziale e alla tomba. Non si può che concordare con Federico Zeri quando afferma che il campo della panificazione rituale, cerimoniale e votiva “con la sua straordinaria produzione, con mille forme diverse, mille invenzioni, di cui alcune molto intelligenti, molto acute" colloca pienamente l'Isola "nelle aree di produzione culturale figurativa”. Nutrimento semplice ma dall'alto valore simbolico, il pane è tra i componenti basilari dell'alimentazione dei Sardi fin da tempi immemorabili: accanto alle forme quotidiane, diverse a seconda delle stagioni (ci sono pani invernali e pani estivi) e dei destinatari (pane di pastori e pane di contadini), possiamo trovare fogge più o meno elaborate e decorate per ciascuna delle maggiori feste familiari e comunitarie, a riprova dell'elevata incisività del ciclo della panificazione nell'ambito sociale. In tutti i 377 Comuni della Sardegna si riscontrano pani caratteristici: ritroviamo “pani molto diversi che, però, hanno lo stesso nome e, viceversa, pani del tutto uguali ma con nome diverso”. Da una stima approssimata è possibile calcolare in alcune migliaia i diversi tipi di pane prodotti nell’Isola, molti dei quali resistono a catalogazioni facili e immediate, in quanto richiamano ora l’aspetto, ora la farina, ora la destinazione d’uso: quotidiano, cerimoniale, votivo, rituale, dovuti anche alla millenaria sedimentazione che, attraverso i pani, parla le antiche lingue dei popoli che dominarono le campagne sarde almeno dal 3.000 avanti l’Era volgare e durarono fino a qualche secolo dopo l’inizio della Nuova Era. Max Leopold Wagner, il padre della linguistica sarda, tentò a suo tempo di far parlare questi nomi stranissimi ritrovati durante i viaggi nelle zone rurali dell’Isola. Ma pure Wagner, che attingeva soltanto al latino oltreché al catalano-spagnolo, non disponeva di tutti gli strumenti metodologici necessari”.
Pane dei morti, pane de sas animas - Orani (Nuoro) Il culto dei morti in Sardegna è corredato di pani propri. Diversi quelli preparati in occasione della ricorrenza dei defunti e nell’immediatezza della morte, tutti genericamente detti pane de sas animas, pane delle anime; fatti di semola, hanno forma ovale o rotonda, di focaccia, o pasta dura. Ad Orani (Nuoro), quando il morto è ancora caldo, o steso in casa, le forme del pane sono spianate, decorate con tre piccoli smerli equidistanti lungo la circonferenza. Prima di dargli la forma, la massaia si fa il segno della croce sussurrando preghiere e invocazioni, modella la pasta soltanto con le mani, senza l’uso di attrezzi metallici, incidendo con le unghie, conchiglie o steli di paglia. Dopo la cottura è il primo pane ad essere offerto ai poveri, est su primu chi ch’essit, è il primo che esce (di casa). Se ne distribuisce uno a più famiglie povere; a volte, la distribuzione dura un anno e spesso si protrae oltre nel tempo. Si dice che se qualche persona dimentica di prepararlo, non adempie al voto; allora i morti appaiono, ritornano in sogno per chiedere quanto dovuto. Ad Orani, Ottana, Sarule, Orgosolo ed altre località del Centro-Nord della Sardegna, si producono specialissimi pani distribuiti dai parenti del defunto prima del funerale, nella trigesima, nell’anniversario della morte; in alcuni casi, la distribuzione avviene in altri tempi, dopo aver sognato il trapassato che chiede di riconciliarsi con i vivi coi quali aveva avuto dissapori. “Nel caso di morto ammazzato, tutti i forni del paese vengono accesi, compreso quello del parroco. Anche quello di chi normalmente non panifica, deve essere attivato gettando, dopo averlo mondato dalla brace, un pugno di farina nel forno caldo in modo da far sentire l’odore di pane, indicando a chi deve di panificare, di compiere il dovere dovuto al morto, per la pace nell’aldilà e la riconciliazione 2
nell’aldiquà”. Anche in questi casi, la consegna de su pane de sas animas è fatta al calar delle tenebre, da persone imbacuccate per non essere riconosciute. Generalmente vengono consegnati tre pani. A volte, su pane de sas animas può assumere forme elaborate; altre ancora, mancando il tempo per panificare, il pane ricevuto può essere spezzato in due o più parti per essere offerto al nemico con il quale si deve fare pace. Chi riceve il pane non sa chi sia l’offerente che vuole riconciliarsi con lui. Dal gesto, sa solo che è un nemico che vuole riappacificarsi nel nome del morto, invitandolo a far pace a sua volta con i suoi nemici. In queste località, quando in paese c’è il morto in casa, bisogna lasciare la porta socchiusa e se, alla sera, si sente bussare, si è certi che chi batte alla porta può essere un nemico che vuole e deve riconciliarsi attraverso su pane de anima, per lasciare andare il morto in pace: invito potente alla riconciliazione, alla ricomposizione sociale. Sas animas, le anime, sono un altro tipo di spianata preparata ad Orani (Nuoro), per la tavola dei morti, caratterizzate da due tagli ortogonali diametralmente opposti, fatti a rotella sulla pasta cruda, destinate ad essere frazionate come offerta alla questua del 2 novembre. In questa occasione vengono anche realizzati pani a forma di testa di bovide, con corna all’ingiù: sono sas corroncias, le corna, il pane per la tavola dei morti di Pozzomaggiore, simili ad altri pane de animas, realizzati a Borore (Nuoro) e a Quartucciu (Cagliari), riproducenti le figure zoomorfe presenti in certi menhir, le pietre fitte della Sardegna centrale, e sulle pareti delle “domus de janas”, sepolcri scavati nella roccia, diffusi a migliaia in tutta l’Isola, risalenti al V-IV millennio a.C., in cui sono spesso scolpite protomi taurine e cervine, diritte e capovolte. A Sindia (Nuoro), il pane della tavola dei morti è detto cuccuru mortu, la testa da morto; forrotula, focaccia con buco centrale, a Bonorva (Sassari); arenadeddas, melegrane, a Quartucciu (Cagliari); covazza de ria, focaccia allungata, a Tresnuraghes (Oristano), in alcuni casi donati ancora come “assolta”, obolo, a parenti ed amici, ai poveri e ai bambini questuanti nel Giorno della commemorazione dei defunti.
Pane nuziale, su pani de Canna - Tertenia (Ogliastra) Tra le composizioni realizzate a Tertenia, e presenti al MEG di Ginevra, su pani de canna, il pane di canna, particolari figurazioni di foggia e misura diverse, attaccate su canne verdi portate in chiesa da un alfiere, che affianca lo sposo durante il corteo nuziale. In modo sparso, irregolarmente annodati alle foglie, alcuni (sette o nove) “sos cicirillios”, piccoli pani antropomorfi a forma di bambinelli nudi e stilizzati. Alla fine della cerimonia religiosa, alcuni “cicirillios” vengono staccati, portati a casa e custoditi per essere utilizzati come dentaroli per il primogenito. “Sa pippìa”, la bambina per antonomasia, fissata vicino all’impugnatura, parrebbe riprodurre il simbolo stesso di Astarte, “la Regina dei cieli”, venerata dagli antichi popoli mediterranei e della “Mezzaluna fertile”, come “dea della fertilità, dell’amore e della guerra”, personificazione della Madre terra, dea e generatrice degli dei, degli uomini, delle piante e degli animali. Se ne ritrova traccia nel libro di Geremia là dove il profeta censura le donne ebree che, di nascosto dai mariti, preparano focacce con l’immagine della dea. “Sa reula”, ‘la regola’, secondo la più immediata e facile accezione, è fissata al centro delle canne. Ha forma di croce greca con in mezzo, a metà dei bracci, un cerchio. Nell’antica lingua accadica, “rehû(m)” significherebbe “inseminare la terra, fecondare una donna” […] avere un rapporto sessuale come un dio che usa il proprio membro come aratro seminatore nella terra che attende i frutti”. In alto, in cima alle canne verdi, è messo “su siddu”, “moneta”, nella parlata antica di Bitti (Nuoro). Su siddu è anche l’anello del vescovo e pur anche immancabile anello globulare realizzato con foglie di 3
palma, messo sul ramo intrecciato portato in chiesa per essere benedetto la domenica prima di Pasqua. Nel linguaggio comune, “siddu-siddadu” significa ‘tesoro’, ‘cosa che vale.’ Su siddatu era precisamente il tesoro nascosto sottoterra, quello che alcune famiglie, nel passato, celavano al fisco o al saccheggio dei nemici, e che purtroppo non veniva recuperato per la morte violenta dei possessori. La base etimologica di siddatu è l'accadico šiddatu ‘luogo di deposito, base di un grande recipiente’. “‘Sid’ sarebbe uno dei tanti attestati semitici del dio Baal nel culto nei luoghi elevati”, identificabile, in Sardegna, con Sardus Pater, “dio indigeno, eponimo, fondatore, carattere che più di ogni altra considerazione spiegherebbe la sua identificazione con Sid”, il dio di Sidone “antenato dei Fenici, sotto la cui guida essi avrebbero percorso le rotte marittime del Mediterraneo e fondato i propri empori”. “Siddu” e “Pippia” sarebbero, dunque, sopravvivenze arcaiche delle due maggiori divinità antiche venerate dai Fenici. Siddu, reula e pippia, restano in chiesa come i pani in sinagoga, secondo le indicazioni della Bibbia per i pani dell’offerta, al pari degli “amulon”, le focacce che i Greci offrivano agli dèi per propiziarsi il loro intervento. A Tertenia, nel cuore dell’Ogliastra, la fantasia delle pintadorisi, le artiste del pane, esplode, secondo canoni tramandati di madre in figlia, nella realizzazione delle diverse forme di “su pani de coja”, il pane nuziale, di cui la principale e più frequente è quella a corona. Non mancano pani che riproducono animali, fiori, uccelli e frutti; molti hanno forma di colomba, cavallo o serpente e, tutti, sono ornati di fregi e abbellimenti. Tra i fiori, sempre presenti quelli riproducenti la rosa, sacra a Venere, le cui statue venivano ornate con fiori di rosa e di mirto, e su gravellu, il garofano, simbolo di “ammirazione, matrimonio, amore appassionato”, se rosso; “maternità”, se rosa; “amore puro”, se bianco.
Pane nuziale a corona, pane de s’affidu A Nuoro, presso il “Museo della vita e delle Tradizioni popolari Sarde”, sono custoditi pani raccolti negli anni Sessanta del Novecento dalla Cattedra di Storia delle Tradizioni popolari della Facoltà di Lettere e Filosofia di Cagliari. Realizzati con le migliori farine, i pani nuziali e quelli che precedono le nozze, allora come oggi, dovevano uscire dal forno ancora bianchi. A Lodè, è presente su mandatiu, ‘ciò che bisogna portare’, realizzato in occasione del fidanzamento, portato dalla futura sposa al padrino e alla madrina. Tre sono i pani, realizzati per su mandatiu, detti sas tres Marias, le tre Marie; diversa la foggia a seconda del destinatario: smerlato, quasi raggiato come un piccolo sole, con uno o più fori al centro del pane, per il padrino; senza fori e con frastagliature più piccole, quasi una luna piena, per la madrina. A Pozzomaggiore, il matrimonio tradizionale avviene ancora entro le mura domestiche con la madre, la parente anziana o la madrina, se la promessa sposa è orfana, per il rito del grano. Sulla soglia della casa paterna, “un inginocchiatoio formato da cuscini con federe bianche si inginocchia lo sposo o la sposa con gli occhi rivolti verso il mare più vicino. Davanti si colloca la madre che, mentre pronuncia la formula augurale, lascia cadere lentamente sul capo della fanciulla, segnando una o più croci, manciate di grano miste a fiori.” Per questa occasione, nel cuore del Mejlogu, territorio in provincia di Sassari, viene confezionato su pane de s'affidu, il pane del matrimonio, per essere adagiato in testa, su un cercine di pervinca, su tedìle de pruninca. A Monteleone Rocca Doria (Sassari), la corona di pane da mettere in testa viene intrecciata con rami di pervinca. Sul becco degli immancabili uccelli che decorano il pane, un filo rosso con rimando cromatico al sangue mestruale. A Romana (Sassari), la ragazza, al momento dell’augurio, cinge il suo capo con sa còtzula, una 4
focaccia di semola, che poi spezza e spartisce tra i commensali. Analoghe corone, su pane de isposos, il pane degli sposi, si riscontrano in altre località, quali Cheremule (Sassari), Olmedo (Sassari), Villagrande Strisaili (Ogliastra). A Pozzomaggiore (Sassari), le corone vengono portate in testa da ragazze impuberi, in coppia, presso la soglia della casa degli sposi, in piedi su una sedia. Gettano il grano sugli invitati che escono dalla porta spalancata, poi, il piatto viene gettato a terra con forza, ridotto in frantumi davanti ai piedi del festeggiato. Lungo il percorso verso la chiesa, il gesto, accompagnato da formule bene augurali, viene ripetuto dalle donne del vicinato, che si sporgono a benedire, ripetendo il fragoroso atto delle stoviglie rotte. Lo spaccare il piatto, oltre che all’offerta irripetibile, rimanda alla rottura simbolica dell’imene che, di lì a poco, deve avvenire sul talamo nuziale. Pani che, portati in testa, nella simbologia del matrimonio, ereditano e tramandano segni di fertilità ed abbondanza risalenti ai culti di antiche divinità: il capo cinto da un cercine di fronde verdi o di un semplice nastro o corda era distintivo della disponibilità alla ìerodulia, la copula sacra nei culti babilonesi, fenici e punici, al servizio di Astarte. Erodoto e Strabone ci riferiscono di antiche usanze che dovevano precedere le nozze: “una legge babilonese, dettata da un oracolo, obbligava tutte le donne, nate nel paese, a presentarsi una volta nella loro vita al tempio di Venere ed abbandonarsi agli amplessi di uno straniero. A Heliopoli le donne si prostituivano in onore di Venere. Facevano lo stesso in Lidia pria del matrimonio. In Cipro, pria di celebrare l’unione matrimoniale, le promesse spose andavano il giorno indicato sulle rive del mare ad offrire il sacrificio della loro verginità prostituendosi”. Altre donne ricche si facevano portare, in carri coperti, nel recinto sacro che circondava il tempio di Militta. “Militta non è d’essa, d’altro canto, la dea di tutti i popoli, la suprema generatrice? Perciò Erodoto la chiama Venere”.
Pane nuziale lucidato/scottato, de iscadda/ischedda Pani a forma di corona o diadema, con nomi diversi a seconda delle zone, sono presenti in moltissimi matrimoni sardi. L’uso di incoronare, come eredità del mondo antico, si manifesta attraverso rituali che segnano momenti importanti della vita, oppure feste o semplici banchetti. In passato, diversi elementi potevano essere usati per cingere il capo: serti di alloro, di ulivo o mirto, per i maschi; ghirlande di fiori, particolarmente rose, per le fanciulle; fiori d’arancio nel caso delle spose saracene; per i Cristiani, il fiore d’arancio nelle ghirlande nuziali significa purezza, castità e verginità; nel mondo greco, è un emblema di Diana, perché le arance erano ritenute le mele d’oro delle Esperidi. Una cascata di fiori d’arancio caratterizza su pane de s'affidu di Pozzomaggiore, dove sono presenti anche altri elementi, tra cui piccole calle, fiori della famiglia delle Araceæ, con lo spadice eretto, ben evidente; sas melas, melegrane; alcune pigne, rappresentazione dell’esaltazione della potenza vitale e glorificazione della fecondità, rappresentazione dell’eterno ritorno della vegetazione e, in generale, della vita; due uccelli, immagine plastica rafforzata della futura coppia accanto al nido in cui procreare. Sempre a Pozzomaggiore, il pane nuziale che viene posto sulla tavola dei commensali è detto de iscadda, lucidato o de ischedda, scottato. A seconda del variare della lettera ‘a’ in ‘e’, si rimanda a diversa esegesi. Entrambe le accezioni contemplano la tecnica dell’esposizione del pane a metà cottura al vapore acqueo per essere nuovamente infornato, ottenendo una superficie lucidata. Con su pane de iscadda si indica, dunque, il pane lucidato, alquanto piatto, generalmente rotondo, modellato per occasioni festive importanti come Pasqua e matrimonio. Le forme circolari, diffusissime, possono essere più o meno frastagliate, se indicano il sole; in questo particolare caso, oltre a raggi, sono presenti intagli; se rappresentano la luna, la circonferenza risulta più lineare, liscia, omogenea, con pochi semplici festoni di dimensioni ridotte, il centro liscio, a volte con qualche timbratura per evitare che il pane si gonfi, ma senza decorazioni con pasta riportata. 5
“Nella maggior parte delle tradizioni il Sole è il Padre universale e la Luna la Madre. Il sole e la pioggia sono le primarie forze fertilizzanti, di conseguenza lo sposo è il sole e la sposa è la luna, il Padre è il Cielo e la Madre è la Terra. Il sole e la luna, assieme, rappresentano il potere maschile e quello femminile in congiunzione. Simboli del sole sono la ruota, il disco, il cerchio ruotanti con un punto centrale, il cerchio radiante, la svastica, i raggi sia diritti sia ondulati che rappresentano la luce e il calore del sole.” Nel mondo contadino, la migliore annata agraria si ha quando i calendari lunare e solare coincidono e si sovrappongono all’equinozio di primavera. Avviene, allora, il matrimonio del Sole con la Luna, con il primo che entra nella costellazione dell’Ariete, mentre la Luna piena, “fecondata”, ne riflette i raggi luminosi. A Thiesi (Sassari), viene fatto su poddine, a forma di mezzaluna, una spianata preparata con sa podda, fior di farina, martellata in superficie con la punta delle dita per far sì che, durante la cottura, lo strato superiore si separi da quello inferiore. Tagliato con la rotella in due mezze lune dal bordo ondulato, veniva donato dagli sposi ai convenuti, che lo portavano a casa in segno bene augurale. A Chiaramonti (Sassari), su pane ischeddadu, assume lungo la circonferenza motivo a testina di uccello, animale simbolo universale del rapporto tra cielo e terra, messaggero degli dèi, tra ciò che sta in alto e l’uomo, che sta in basso sulla terra. Oltre alla vasta gamma tondeggiante, il pane festivo diventa fronda, mannello di spighe, fascio di fiori, come nei pani portati in chiesa all’offertorio in occasione di alcune feste, a Terralba e a Villaurbana. Particolarmente raffinati i cosiddetti su coccoi pintau, a Villaurbana e a Tramatza; coccoi e pane de isposos, a Dorgali, a Settimo San Pietro e a Paulilatino. Universalmente diffusa la forma a cuore, utilizzata in più occasioni. Molto particolari i pani a forma di borsetta presenti a Ossi (Sassari), a Orune (Nuoro), a Urzulei (Ogliastra), a Bitti (Nuoro), a Lodè (Nuoro), a Quartu Sant’Elena (Cagliari), a Borore, a Sedilo, a Noragugume (Nuoro) e a Busachi. A Pozzomaggiore, borse, borsette e cestini, rigorosamente fatti in iscadda, di aspetto diverso a seconda della maestria delle panificatrici, rimandano al “potere femminile di contenere e luogo di conservazione, quindi vita e salute; preservare quel che è prezioso o ritenuto tale”. In iscadda si fanno cuori, colombe, rondini e cavallini, a Pozzomaggiore, ed in altre località del circondario; Pozzomaggiore, inoltre, condivide con Bonorva un particolare tipo di pane a forma di scarpetta muliebre, immancabilmente presente sul desco nuziale. Con il suo significato ambivalente, la scarpa denota “libertà poiché lo schiavo andava a piedi scalzi; anche controllo, poiché il controllo delle scarpe equivale al controllo della persona; quindi detenere la scarpa della sposa, stabilisce il possesso di quest’ultima da parte dello sposo”. Ad Atzara, è in vigore l’usanza di donare un paio di scarpe nuove al paraninfo, il mediatore che favorisce il matrimonio. Si tratta di una consuetudine che trova riscontro nella Bibbia, nel libro di Rut, là dove si afferma che ”una volta in Israele esisteva questa vecchia usanza relativa al diritto di riscatto o della permuta, per convalidare ogni atto: uno si toglieva il sandalo e lo dava all’altro; era questo il modo di attestare in Israele”. Il ruolo della calzatura passa dal possesso della terra, al possesso, anche in senso copulativo, della futura sposa: “Quando acquisterai il campo dalla mano di Noemi, nell’atto stesso tu acquisterai anche Rut, la Maobita”. Claudio Eliano, rètore romano del III secolo, autore di un’opera in greco (Sulla natura degli animali), racconta di un’aquila che rubò un sandalo a Rodope, mentre faceva il bagno, per portarlo al faraone che, colpito dalla finezza del piede, fece ricercare la giovane, che ritrovata, diventò sua sposa. Alle vicende della giovane si sarebbe ispirato Charles Perrault per scrivere la fiaba di Cenerentola, in cui, come nell’antico racconto, comporta una identificazione della scarpa con la persona. Nelle canzoni alpine di veglia, la ragazza da corteggiare viene identificata con le scarpette, 6
generalmente di colore rosso. Analogamente, in Sardegna, “s’iscarpitta de comare, andat bene a u pe meu”, la scarpina di comare, va bene al mio piede. “Alcuni interpreti fanno di questo simbolo di identificazione un simbolo sessuale, o quantomeno del desiderio sessuale risvegliato dal piede. Coloro che considerano il piede come un simbolo fallico vedranno facilmente nella calzatura un simbolo vaginale e, fra i due, un problema di adattamento capace di generare angoscia”. I piedi non stanno mai fermi, difficilmente comodi nelle scarpe, mossi da eterna inquietudine, alla ricerca di stabilità; sono base e appoggio alla terra, alla materia, alla Mater, la Madre-terra, generatrice e custode di tutte le cose. Oggi, la “materia rimane un concetto arido, disumano puramente intellettuale, privo per noi di qualunque significato psichico. Quanto diversa era l’antica immagine della materia - la Grande Madre -, capace di abbracciare e di esprimere il profondo significato emotivo della Madre Terra!” Simboli che se, per Jung, riemergono nei sogni quale compensazione per la perdita subita dall’uomo moderno, permangono, sovente come indecifrabili reliquie, nelle forme del pane e non solo; gesti e riti di cui abbiamo scordato i significati originari, come la madre dello sposo che, in Puglia, allaccia ancora ai nostri giorni le scarpe dei testimoni, prima di accompagnare il futuro genero all’altare. In area piemontese, un grande paio di scarpe bianche da donna e un cappello a tesa da uomo vengono appesi al cero votivo portato in processione ad Asigliano (Vercelli), in occasione della festa patronale di San Giorgio (23 aprile). Se camminare con le scarpe significa prendere possesso della terra, pulirsi i piedi sullo zerbino, mettere le pattìne, togliersi le scarpe prima di entrare i casa o “in un luogo sacro, significa lasciar fuori il contatto terreno, entrare in uno stato di sottomissione e riverenza”. Lo straniero deve varcare scalzo la soglia del suo ospite, mostrando in tal gesto che non ha alcuna idea di rivendicazione; il suolo della moschea, come quello dei santuari non appartiene agli uomini, che devono camminarvi a piedi scalzi.”
Pane eulogico A Scano Montiferro, s’arburizzola, l’alberello, è pane raffigurante l’albero del Bene e del Male, fruttato, con melegrane e serpente attorcigliato sul tronco; la pianta è racchiusa in una circonferenza, anch’essa fiorita; posto sul banchetto nuziale, viene consumato dagli sposi in segno bene augurale. A fianco di s’arburizzola viene messa s’isporta, la sporta, a volte distribuita in versione più piccola come bomboniera. Entrambi i pani vengono intrecciati con rami di pervinca. Secondo alcuni informatori, veniva preparato anche la domenica delle Palme, ma privo di frutti e di serpente. A Siniscola (Nuoro), s’arbure de meleranu, l’albero del melograno, viene preparato per i bambini. Arburizzola e isporta, associati alle nozze e alla Pasqua, rimanderebbero al pane eulogico, risalente, con formule e riti, alla liturgia sinagogale e domestica, “quando il capo famiglia, recitata l’eulogia, la benedizione sul pane azimo, lo spezzava, ne mangiava e ne dava a mangiare a tutti i commensali”, con richiamo al motivo per cui si ringraziava Dio, segnatamente il “pane della miseria che i nostri padri hanno mangiato in Egitto”. Alla Pasqua giudaica si fa risalire l’istituzione dell’Eucarestia, con Gesù che consacra il pane con la preghiera giudaica di benedizione prima della cena propriamente detta. Alla fine di questa, prima del quarto Hallèt, alla mescita del terzo calice (calix benedictionis, negli scritti rabbinici e nella Messa), consacra anche il vino. Ma “già dai primi secoli la Chiesa non ebbe più interesse al rituale ebraico di Pasqua che considerò decaduto, ma di quel rito, decisamente sorpassato, ritenne soltanto memoria per i due momenti che per lei erano di capitale importanza: la consacrazione del pane e quella del vino”. Ai catecumeni dei primi secoli del Cristianesimo, non ancora ammessi al sacramento della comunione, veniva distribuito pane benedetto, presentato alla mensa eucaristica. Nell’antica Chiesa cristiana, del pane portato dai fedeli che partecipavano alla messa veniva consacrato solo quello necessario per la 7
comunione, il restante veniva benedetto e ripartito tra i fedeli. Oltre che nei riti nuziali sardi, pane eulogico è presente nelle feste di alcuni santi venerati in Piemonte, emblematicamente distribuito in contemporanea o subito dopo la comunione: a Giaglione (Torino), a gennaio, per la Festa di San Vincenzo; a Barbania (Torino), ad agosto, per la Festa di San Giuliano; a Maglione (Torino), a settembre, per la Festa di San Maurizio; a Biella, a giugno, dopo i vespri, per la festa di Sant’Antonio da Padova; a Verolengo (Torino), come detto il Venerdì Santo, dopo la processione. Nella panificazione tradizionale, sono ancora in uso stampi per decorare pane, di legno e metallo, simili a quelli per la produzione di ostie. A Verolengo (Torino), vengono prodotti particolari canestrelli, piccoli pani dolci a forma di ostia, distribuiti il Venerdì Santo, alla fine della processione, agli adolescenti impuberi che portano gli attrezzi della Passione. Nel tempo presente vengono utilizzate particolari piastre a pinza, stampi manuali per ottenere ostie e canestrelli, sui quali imprimere segni e decorazioni a forma di croce, sole, luna, animali, frutti, figure geometriche, santi o Madonne. Il MEG di Ginevra conserva una ricca collezione di marche per il pane e per il burro, alcune con zigrinature per evitare la tosatura, al pari delle monete. In epoca bizantina, presso santuari e luoghi di culto erano in uso stampi di fusione per produrre piccole ampolle eulogiche per contenere liquidi. Nel 1992 ne sono state ritrovate in Palestina, con scritto “eulogia” in caratteri greci, illustranti il Sacrificio di Isacco (Genesi 22,1-19) e Daniele tra i leoni (Daniele 14, 32-38), immagini ispirate all’Antico Testamento. Analoghi stampi sono conservati al Museo del Louvre a Parigi. Dopo il IX secolo, formulari di benedizione sono attestati nelle chiese secolari di Inghilterra, Germania, Spagna e Italia, recitati durante la distribuzione di “Eulogias post missam in diebus festis plebi tribuite”. In un messale di Clermont del XV secolo si ha la rubrica: Finita missa de sponsis, frangit sacerdos hostiam benedictam et dat unicuique in signum maritalis affectionis. Nel Sud della Penisola italiana, ma anche altrove, informa mons. Mario Righetti, perito del Concilio Vaticano II, questo pane si dava particolarmente agli sposi dopo la loro messa nuziale e alla puerpera come complemento della benedizione post partum. La ricezione del pane eulogico godette in tutto il Basso Medio Evo d’una grande popolarità. Essendosi però perduto di vista il suo primitivo significato di surrogato della Comunione, esso venne considerato dalla Chiesa e dai fedeli piuttosto come un sacramentale, che assicurava a chi l’avesse mangiato con pia riverenza la protezione di Dio contro le insidie spirituali e materiali della vita. Particolarmente solenne era la benedizione del pane eulogico del Giovedì Santo - giorno in cui venne istituita l’Eucarestia - distribuito ai fedeli e confuso, sovente, con la Comunione, tanto da essere stato vietato in forma di ostia da distribuire ai bambini al di sotto di una certa età. Disposizione confermata nel Rituale ambrosiano dal 1645. L’eulogia liturgica è tuttora in vigore in molti paesi della Francia e presso i Greci, i quali, col nome di Antidoron, la distribuiscono alla fine della Messa. Benedetto durante il Canone, il pane viene consegnato principalmente a quelli che l’hanno offerto, ma senza aver fatto la Comunione, ricevendolo nella palma della mano destra incrociata sulla sinistra, baciando contemporaneamente la mano del sacerdote che lo distribuisce, così come si comunicavano un tempo i fedeli e così come si comunica tuttora il diacono nella liturgia bizantina, al canto del Salmo 33.
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