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Lunedì, 30 Novembre 2015
IMPRESE
TOSCANA
Poste Italiane Sped. in A.P. D.L. 353/2003 conv. L.46/2004 art. 1, c1 DCB Milano. Non può essere distribuito separatamente dal Corriere della Sera
UOMINI, AZIENDE, TERRITORI
DOSSIER LAVORO
Saper fare, cosa fare
Siamo pronti a prendere il treno della ripresa, oppure no? Le attese e le opportunità di un sistema economico che ha resistito alla crisi, ma che ora deve cambiare marcia
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Corriere Imprese
Corriere Imprese
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EDITORIALE
Affrettiamoci, con cautela (ma non troppa)
Sommario Dossier
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di Paolo Ermini
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estina lente, raccomandava Augusto secondo Svetonio. Festina lente, ammoniscono molte scritte dai soffitti di Palazzo Vecchio. Un invito alla saggezza, certo: affrettati con ponderazione, non indugiare però usa cautela. Senza esagerare, verrebbe da aggiungere, visto il tempo perso per anni dal nostro Paese e la leggerezza dei segni di ripresa economica. La Toscana non fa eccezione. Che fare, allora? Cerchiamo di accelerare, con cadenza sostenuta e nella giusta direzione. Partendo dalla realtà. Il dossier raccolto da Silvia Ognibene alle pagine 2 e 3 di questo numero speciale di Corriere Imprese-Toscana dà un quadro complesso. Forse
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C’è bisogno di risultati, come allo stadio. In gioco c’è soprattutto l’aumento dell’occupazione, termometro della salute economica e del livello civile di un popolo, di un intero Paese
In copertina Seu Corpo da Obra (Your Body of Work), opera dell’artista danese Olafur Eliasson Un labirinto di pannelli traslucidi, organizzati in variazioni cromatiche, in mezzo ai quali si muovono i visitatori
più complicato di quanto può sembrare a una prima lettura dei dati, dei numeri. Non tutti sono sconfortanti. Dal 2007 al 2012, cioè negli anni più duri della crisi, il Pil della Toscana è calato del 5 per cento, meno che in regioni comparabili con la nostra; i distretti hanno generalmente retto all’urto, salvando produttività e redditività; l’export ha garantito almeno quelle aziende che già erano riuscite a trovare sbocchi significativi sui mercati internazionali. Sulla bilancia pesano invece altri fattori: dal 2005 al 2015 sono sparite circa ottomila aziende, attive in gran parte nel settore manifatturiero — il vero pilastro della Toscana: con l’effetto di tagliare via un quinto dell’occupazione. In compenso sono nate molte imprese di servizi. Non abbastanza da dare un saldo positivo, ma il guaio più grave è il basso valore tecnologico che media-
IMPRESE A cura della redazione del Corriere Fiorentino Direttore responsabile: Paolo Ermini Vicedirettore: Eugenio Tassini Caporedattore centrale: Carlo Nicotra Grafica di Claudio Nerone
Editoriale Fiorentina s.r.l. Presidente: Marco Bassilichi Amministratore Delegato: Massimo Monzio Compagnoni Sede legale: Lungarno delle Grazie 22 50122 Firenze Reg. Trib. di Firenze n. 5642 del 22/02/2008 Responsabile del trattamento dei dati (D.Lgs. 196/2003): Paolo Ermini
Artigianato
Al lavoro, Toscana. Pronti per la ripresa, o no?
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Arte
Industria mente le caratterizza. E che si va a sommare alle inadeguatezze di non poche aziende manifatturiere sopravvissute alla tempesta. Non c’è da stupirsi. Il fenomeno è strettamente legato ai limiti storici del sistema toscano di imprese medio-piccole, se non micro, che un tempo era un punto di forza e che poi ha cominciato a fare i conti con il proprio codice genetico: una cultura d’impresa tipicamente familiare e, spesso, scarsamente manageriale; un’orgogliosa solitudine che quando il vento è cambiato è diventata un moltiplicatore di fragilità; un’incapacità genetica ad allargare la rete commerciale oltre il tradizionale perimetro di vendita. È un’eredità che va cambiata, e velocemente, altrimenti la regione rischia di farsi trovare impreparata ad affrontare le sfide del ritorno alla crescita. Servono investimenti. Capitali privati da impiegare nella modernizzazione di ogni comparto. E investimenti pubblici in grado di sollecitare il coraggio di quelli che un tempo si chiamavano «capitani coraggiosi». Industriali, artigiani, agricoltori pronti a cogliere opportunità in un contesto più stimolante, con infrastrutture adeguate, pubbliche amministrazioni efficienti, una politica attenta a creare le migliori regole del gioco e finalmente decisa a lasciarsi alle spalle la tentazione di giocare a sua volta, anche quando non lo impone il cosiddetto interesse generale. L’allargamento a tutta la Toscana della banda ultra larga — quella che serve alle imprese più che a riempire il nostro tempo libero — sembra qualcosa di più di un impegno: sarebbe la prova che possiamo farcela, il simbolo di un cambiamento, l’affaccio su un domani in linea con le previsioni ottimistiche del governatore Enrico Rossi. E con le attese di tutte le zone della regione: dalla triade Firenze-Prato-Pistoia, spinta da un ottimo motore produttivo, alla costa, che conta prioritariamente sul riscatto dei suoi porti. C’è bisogno di risultati, come allo stadio. Lo scopo principale è quello di aumentare l’occupazione, termometro della salute di un’economia e, soprattutto, del livello civile di un popolo, di un intero Paese. Non abbiamo alternative: diamoci da fare.
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Dialogo e sostenibilità: il modello toscano nella gestione della crisi economica di Claudio De Vincenti
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Firenze casa per giovani artisti contemporanei? Caccia ai nuovi mecenati. Ferragamo: noi ci siamo
Scuola e lavoro
Identità
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Giovani e web, l’uovo di Colombo per far sopravvivere le botteghe
Il rilancio della costa e la a riunificazione delle due Toscane, anche attraverso un nuovo regionalismo di Enrico Rossi
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Paradosso disoccupazione: cresce, ma le aziende non trovano chi assumere. Il modello tedesco della formazione su due binari
Integrazione Strategie
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L’industria 4.0, una nuova rivoluzione alle porte: non facciamoci trovare sulla difensiva di Alessio Gramolati
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Da dipendenti a piccoli imprenditori: gli stranieri cambiano il tessuto delle Pmi toscane
Agricoltura
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Distretti
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La qualità dei piccoli, il traino dei grandi: la carta della filiera nel successo dell’export di Gregorio De Felice
Infrastrutture 2.0
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La Toscana in ritardo nella partita della banda ultra larga: la mappa degli esclusi e il piano di governo e Regione
© RIPRODUZIONE RISERVATA
COMITATO SCIENTIFICO
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Paolo Barberis fondatore di Nana Bianca e Dada, consigliere per l’ innovazione della Presidenza del Consiglio
Fabio Pammolli Professore di Economia e Management IMT Alti Studi Lucca
Fabio Filocamo Presidente Harvard Alumni Italia, CEO Dynamo Venture, Member of Board Principia SGR
Alessandro Petretto Professore Ordinario di Economia Pubblica Università degli Studi di Firenze
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I ragazzi tornano alla terra: 1.600 nuove imprese agricole nel 2016. E non è soltanto una moda
Scenari
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Airbnb, Uber e gli altri: la nuova economia della condivisione, l’impresa e le regole
Il racconto
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Io, scrittore alla ricerca di un’idea: così mi sono incontrato al lavoro di Vanni Santoni
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Poste Italiane S.p.A. Sped. in Abbonamento Postale D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, Art.1, c.1, DCB Milano Supplemento gratuito al numero odierno del Direttore responsabile
Luciano Fontana
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L’invenzione della pastorizia Il lavoro dei progenitori Bassorilievi, 1337-1341, Museo dell’Opera del Duomo. Il ciclo di formelle decorative del Campanile di Giotto potrebbe essere stato concepito da Giotto stesso (immagini concesse dall’Opera di Santa Maria del Fiore, foto di Antonio Quattrone)
Andrea Pisano e collaboratori Gli investimenti stranieri, la trasformazione della manifattura, l’argine dei distretti Dai mercati internazionali, dal credito e dal lavoro arrivano segnali positivi ma la disoccupazione resta al 9% e mancano all’appello circa 8.000 industrie
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Al lavoro, Toscana Pronti a cavalcare la ripresa. O no? Forza e debolezza di un’economia el 2015 si è avviata una fase di ripresa dell’economia e nei prossimi mesi la tendenza dovrebbe proseguire (anche se pesa molto l’incertezza legata allo scenario internazionale). Le esportazioni continuano a tirare e c’è finalmente anche qualche segnale di miglioramento della domanda interna, i prestiti alle imprese e alle famiglie sono tornati a crescere, i principali indicatori macroeconomici (il fatturato delle imprese e gli ordinativi) sono in leggero aumento, sono saliti in misura significativa i lavoratori occupati e il tasso di disoccupazione è sceso. In Toscana coesistono imprese ancora in difficoltà che continuano a licenziare e aziende (soprattutto medie e grandi) solidamente agganciate alla ripresa della domanda che assumono e progettano investimenti.
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Segnali
Fonti Le infografiche del dossier Corriere Imprese sono state costruite sui dati provenienti dalle elaborazioni Irpet, Banca d’Italia e Unioncamere Toscana su fonte Istat
Nel primo semestre del 2015 la cassa integrazione è crollata del 40%, soprattutto per la contrazione della cassa in deroga, le nuove assunzioni sono principalmente full time e a tempo indeterminato grazie alle politiche di decontribuzione introdotte dal governo, nella speranza che durante il triennio di «sconti» la ripresa si consolidi. Le condizioni di accesso al credito sono migliorate e sui tassi di interesse si vede l’effetto delle politiche monetarie massicciamente espansive della Bce. È una ripresa debole, avverte però la Banca d’Italia nell’aggiornamento congiunturale del secondo semestre, che va consolidata e resa duratura se si vogliono risolvere i problemi strutturali lasciati in eredità dalla crisi, come quello drammatico della disoccupazione giovanile. Gli investimenti da parte delle imprese non sono diffusi e hanno un andamento assai differenziato, legato più alla solidità delle singole aziende che a dinamiche di comparto, a mostrare che il manifatturiero non è ancora ripartito pienamente. La Toscana ha pagato un prezzo alto durante la crisi economica — basti pensare al tasso di disoccupazione che nel 2005 era il 5,3% e a fine 2014 era salito all’11%, con 80 mila posti bruciati; oppure alle sofferenze bancarie che nello stesso periodo sono passate da 2,6 miliardi a 15,4 — e ne esce con un tessuto produttivo e socioeconomico profondamente trasformato, con comparti che hanno retto e sono anche cresciuti e altri letteralmente spazzati via.
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Punti deboli Travolta l’edilizia, più che dimezzata dalla crisi, crollata anche la manifattura a basso grado di innovazione
Punti di forza I distretti concentrati sul Made in Italy di alta gamma hanno continuato a crescere Fungendo da muro di protezione
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Metamorfosi Dal 2005 al 2015 il numero di imprese attive in Toscana è calato complessivamente di duemila unità, ma sono sparite circa ottomila industrie, rimpiazzate per lo più da imprese di servizi. La crisi ha colpito soprattutto la manifattura, il cui peso specifico nell’economia regionale è passato dal 27% al 21%, picchiando sull’industria che ha lasciato sul tappeto oltre un quinto dell’occupazione, prevalentemente nei comparti a basso contenuto tecnologico. Travolta l’edilizia, che esce dalla crisi con una forza lavoro più che dimezzata. Le costruzioni hanno toccato il picco positivo nel 2006, per poi iniziare a calare ad un ritmo medio del 6% l’anno; i permessi per costruire nuove abitazioni sono diminuiti dell’80% dal 2005 al 2012. La Toscana si è mossa in controtendenza rispetto al resto dell’Italia, dove la manifattura ha retto meglio. Secondo le valutazioni della Banca d’Italia questo dipende dal fatto che il manifatturiero toscano (che pure dopo la crisi assorbe ancora l’80% della forza lavoro, contro il 70% della media nazionale) ha un basso grado di innovazione: rispetto ad aree della Germania e della Francia comparabili per dimensione demografica e grado di sviluppo economico, in Toscana i lavori a basso valore di conoscenza hanno un’incidenza doppia. Anche l’andamento del fatturato ha mostrato che a soffrire di più sono state le aziende a basso contenuto tecnologico: mentre durante la crisi un settore come la farmaceutica cresceva a doppia cifra, i comparti a mediobassa tecnologia cedevano terreno ad una media di 4 punti percentuali l’anno. Lo stesso ragionamento vale per la produzione industriale: il manifatturiero ad alta tecnologia ha visto crescere questo indicatore di oltre il 18% tra il 2009 e il 2010, nel cuore della crisi, mentre i comparti a bassa tecnologia registravano lo stesso numero, ma con il segno meno davanti. La trasformazione del tessuto produttivo toscano dovuta alla crisi contiene quindi un elemento di debolezza: una percentuale altissima di forza lavoro è ancora impiegata nel manifatturiero a basso valore aggiunto e le aziende di servizi e non profit che sono nate dall’arretramento dell’industria e del settore pubblico sono in gran parte a basso contenuto di conoscenza, e per questo vulnerabili.
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Investimenti e Pil Dal 2007 al 2012 il Pil della Toscana è calato del 5%: è un numero leggermente inferiore alle altre regioni comparabili, ma la flessione è stata determinata principalmente dalla frenata degli investimenti fissi lordi. Il calo viene stimato, a seconda degli osservatori, fra il 20 e il 30%, ma anche prendendo la parte bassa della forchetta, significa che abbiamo rinunciato a 45 miliardi di investimenti. La domanda pubblica ha seguito andamenti analoghi: ormai dal 2011 i bandi pubblicati in un anno sono circa 600, meno della metà rispetto al 2007. In Toscana gli investimenti sono ripresi a partire dalla fine del 2014: un incremento lieve, nell’ordine dello 0,2% in termini di valore, che però è proseguito anche nei primi due trimestri del 2015. Secondo l’Irpet, se questi segnali positivi si consolideranno, entro la fine dell’anno le imprese manifatturiere che avranno effettuato investimenti potrebbero essere circa due su
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L’invenzione della metallurgia L’arte della tessitura Le opere, che corrono lungo i quattro lati del Campanile di Santa Maria del Fiore, sono state sostituite con delle copie
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tre, raggiungendo o superando il livello del 2010. La reattività del mondo produttivo è molto differenziata a livello territoriale e si concentra nei luoghi in cui la capacità imprenditoriale è da sempre più diffusa, cioè nella Toscana centrale, mentre rimangono aperti i problemi della costa.
L’argine dei distretti Secondo l’Irpet durante la crisi i distretti hanno svolto un ruolo storico, con effetti positivi sulla produttività del lavoro, la redditività e l’efficienza. L’ondata di crisi ha colpito pesantemente l’attività industriale e i distretti hanno funzionato come un argine: le aree industriali organizzate in distretti, pur soffrendo, hanno mostrato andamenti migliori sia rispetto alle aree non distrettuali che alla media regionale. I distretti, dove le aziende sono caratterizzate da una specializzazione industriale, hanno garantito valore aggiunto al tessuto produttivo
che è rimasto più vitale, anche per la capacità di collocarsi meglio sui mercati internazionali. Appartenere a un distretto ha protetto le singole imprese dalle conseguenze della crisi. La Banca d’Italia fa notare che i distretti concentrati sul Made in Italy di alta gamma e con forte orientamento all’export hanno avuto i risultati migliori negli anni passati e sono oggi in grado di correre con la ripresa. Le filiere produttive e i distretti dedicati a produzioni di qualità medio bassa hanno riportato invece perdite pesantissime durante la crisi perché rivolti ad una domanda interna che è stata di fatto spazzata via. I distretti toscani tradizionali sono ancora vivi ma, secondo gli analisti della banca centrale, non è più ipotizzabile un modello di crescita basato esclusivamente su di essi: alle filiere produttive specializzate in prodotti di lusso destinati a ricchi consumatori stranieri è necessario affiancare altre attività produttive ad alto
La parola
KNOW HOW
È
il «saper fare». La locuzione inglese identifica le conoscenze e le abilità operative necessarie per svolgere una determinata attività lavorativa. Il know how di un’azienda è un asset immateriale: è l’apporto dei «lavoratori della conoscenza» e rappresenta una delle principali risorse che le conferiscono valore e sulle quali si fonda il suo vantaggio competitivo. Il know how va oltre la (necessaria) conoscenza di regole e procedure operative e indica la capacità di adottare strategie di azione per generare valore. È la chiave del successo sui mercati globali. © RIPRODUZIONE RISERVATA
È stata soprattutto l’industria a perdere occupati (oltre il 20% dal 2007 al 2017) facendo schizzare il tasso di disoccupazione in Toscana oltre l’11% a fine 2014, una percentuale più che raddoppiata rispetto al periodo pre-crisi. La quota di chi ha perso il lavoro è salita del 115% e coloro che non hanno mai lavorato sono triplicati. Durante la crisi il tasso di disoccupazione tra i giovani (fra 15 e 29 anni) è cresciuto di oltre 15 punti percentuali. I «neet», cioè coloro che non sono occupati né in formazione, hanno raggiunto il 20% e i giovani tra i 25 e i 34 anni hanno ripreso ad emigrare. A giugno 2015 la disoccupazione è scesa al 9%, ma tra i giovani il tasso è ancora il doppio. Anche la dinamica degli occupati mostra che l’innovazione può fare la differenza: durante la crisi, mentre il manifatturiero a basso contenuto tecnologico lasciava sul terreno oltre un quinto della forza lavoro, nella manifattura ad alto contenuto tecnologico gli occupati crescevano del 5,8%. Il modello toscano ha sostanzialmente tenuto e il livello di coesione sociale è rimasto elevato anche durante la crisi. Tra il 2007 e il 2012 la flessione del reddito disponibile è stata più intensa per le famiglie più abbienti: solitamente la crisi acuisce le differenze, mentre in Toscana è accaduto il contrario. Un elemento positivo che però nasconde un’insidia: l’omogeneità dei salari significa anche che un laureato guadagna poco più di un operaio. Ed è questo uno dei motivi per cui tra i giovani che hanno ripreso ad emigrare la gran parte sono laureati.
La strada Nota l’Irpet che le imprese nate negli anni della crisi evidenziano comportamenti maggiormente «virtuosi». Benché si caratterizzino per una più limitata disponibilità di risorse, dimensioni operative ridotte, mercati di sbocco soprattutto locali, un know-how imprenditoriale ancora da sviluppare in maniera compiuta, sono particolarmente dinamiche e vitali. La «nuova imprenditorialità», quella che è riuscita a sopravvivere alla crisi, sembra aver maturato rapidamente una dimensione strategica complessa e più decisamente improntata ad interventi in grado di favorire la crescita. La Toscana esce dalla crisi con un gruppo di imprese che hanno mostrato di saper innovare e crescere anche mentre tutto il resto arretrava, che non hanno smesso di investire e di assumere, e hanno realizzato performance anche inattese. La crisi ha indicato con chiarezza che può reggere e crescere solo il manifatturiero ad alto valore aggiunto, il resto è destinato ad essere spazzato via nei momenti di difficoltà. Il rischio che la Toscana corre nell’affrontare il futuro arriva da una struttura eccessivamente sbilanciata sulla manifattura e sui servizi a basso grado di conoscenza, oltre che squilibrato da un punto di vista territoriale con la costa ancora impanata. Si rischia una crescita senza occupazione, debole e vulnerabile. Silvia Ognibene © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Forgia di vulcano Olio su tela, 1949 L’opera fa parte della collezione Verzocchi ed è esposta alla Pinacoteca di Forlì
Giorgio De Chirico
Il modello per la ripartenza? Può nascere qui, ecco perché Il sottosegretario De Vincenti: «Dialogo tra le istituzioni, progetti sostenibili, capacità di attrarre gli investimenti. Così abbiamo creato le giuste condizioni» di Claudio De Vincenti* i parla di un «modello Toscana» ed è un’espressione certamente suggestiva. Va però qualificata e, soprattutto, non deve far pensare ad un’autoreferenzialità della Regione. Piuttosto, ad un’esperienza di governo che interagisce positivamente col governo nazionale e con le altre Regioni. Esistono certamente delle peculiarità riconducibili alla storia recente e meno recente di questa parte del Paese: piacere per il bello e per le cose fatte bene, prodotti dell’ingegno o della manualità; attenzione agli aspetti della solidarietà e della partecipazione alla cosa comune; gioiosa attenzione alla vita. Peculiarità che hanno consentito di gestire al meglio le conseguenze della crisi che si è abbattuta in Toscana come nelle altre regioni. I tre «Accordi di Programma», per Piombino, Livorno e Massa Carrara, sono la conseguenza di un forte impegno della Regione e delle istituzioni locali che hanno ricercato nel rapporto con il governo centrale la migliore risposta possibile alle
Industria
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crisi prevalentemente industriali (ma non solo) di quei territori. Sono stati individuati progetti di recupero e ripresa dei territori e, solo dopo averne valutato gli impatti positivi e la loro sostenibilità ambientale e sociale, sono state stanziate le risorse finanziarie necessarie. È un percorso ovvio che, tuttavia, non sempre viene seguito perché presuppone la presenza di capacità amministrative, di competenze gestionali, di buoni rapporti con i territori e con le comunità che li abitano. Caratteristiche che distinguono la Toscana e sono alla base dei primi successi nella realizzazione di quegli accordi. Un esempio per tutti è il por-
Profilo Claudio De Vincenti, economista, da viceministro ha seguito le crisi industriali toscane. Ora è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio
to di Piombino: dal progetto alla concretizzazione degli interventi sono stati necessari non più di 18 mesi. Tempo da record. Un primo successo che ora consente di programmare le opere strutturali necessarie a dare una prospettiva produttiva ed occupazionale ad un territorio stressato dalla crisi del siderurgico Lucchini: gli impianti per la demolizione delle navi, le attività agroalimentari del progetto Cevital, diverse attività di logistica e infine le nuove produzioni siderurgiche. Resta ancora molto da fare, e penso soprattutto ad alcune opere infrastrutturali, ma questa volta, diversamente dal passato anche recente, vi è una volontà comune e la convinzione di potercela fare. Naturalmente continuiamo a seguire con attenzione l’attuazione del Piano industriale con cui Cevital è chiamata a rilanciare la ex Lucchini. Anche a Livorno e Massa Carrara si sono avviati percorsi. Sono opere infrastrutturali e di particolare importanza quelle portuali, perché la Toscana ha uno degli affacci sul Tirreno ancora oggi più importanti. A questo proposito, valuto come molto avveduta la scelta del governatore Enrico Rossi di riprendere il
tema della portualità sottovalutato negli anni passati, generando criticità che hanno pesato sulle comunità interessate. Insieme alle infrastrutture, i progetti di rilancio prevedono il sostegno alle iniziative industriali e anche servizi qualificati che gli imprenditori stanno già proponendo. Mi auguro che non siano solo numerosi, ma anche altamente specializzati, potendo e sapendo attingere al patrimonio di competenze già presenti sul territorio: dall’automazione applicata ai processi, al controllo avanzato dei trasporti, dalle ricerche matematiche che molte ricadute hanno nella vita industriale, alla bioingegneria per la
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Fronte dei porti Il tema è stato a lungo sottovalutato, Rossi ha fatto bene a riprenderlo: questo è ancora uno degli affacci principali sul Tirreno
sanità. La Toscana ha saputo preparare il terreno per attirare nuova capacità imprenditoriale che si affianchi a quella importante già esistente, indicando a tutto il Paese che la crisi di imprenditorialità e di managerialità, di cui indubbiamente stiamo soffrendo, può essere superata. Negli anni che abbiamo alle spalle anche la Toscana ha dovuto sopportare abbandoni industriali talvolta violenti e repentini, basti citare Eaton, TRW, De Tomaso o le drammatiche vicende di Lucchini, che pochi hanno saputo compensare con nuove iniziative. Ora si stanno creando le condizioni positive, stimolando la riattivazione di un ciclo fatto di nuovi investimenti o riutilizzo di capacità produttive abbandonate. Sono convinto, diversamente da altri osservatori, che non ci troviamo di fronte ad una (iniziale, eppure palpabile) ripresa indotta da soli fattori esogeni (basso prezzo delle materie prime, cambio favorevole con il dollaro, ecc.), ma che questi primi segnali di ripartenza siano il frutto soprattutto di una rinnovata fiducia indotta anche da un ritrovato feeling con la buona amministrazione pubblica. In Toscana è certamente così. Le caratteristiche di questa regione, che ho cercato di richiamare all’inizio, rappresentano un patrimonio «quasi genetico» difficile da scalfire. E se questo è vero, credo proprio che le premesse — che abbiamo saputo scrivere insieme nei mesi passati — daranno molti frutti nei mesi a venire. Per il benessere e per il lavoro dei toscani, d’ora in avanti. *sottosegretario alla Presidenza del Consiglio © RIPRODUZIONE RISERVATA
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La Magona Olio su tela, 1950, collezione privata L’opera rappresenta la «Magona d’Italia» a Piombino. Guttuso aveva seguito la battaglia sindacale dei lavoratori dello stabilimento siderurgico
Renato Guttuso
La riunificazione toscana (riprendiamoci la costa) Il governatore Rossi: «La regione ha retto l’urto della crisi, ma è divisa in due Serve un nuovo equilibrio, senza assistenzialismi. E guardando oltre i confini» di Enrico Rossi* bbiamo attraversato e vissuto anni duri in cui la crisi si è fatta sentire in modo pesante. Ma la Toscana ha mostrato di saper reagire e di rimanere in piedi. Il nostro export dal 2008 è aumentato del 23%. Il Pil è arretrato del 5,9% a fronte di un calo nazionale del 9%. Anche la disoccupazione, pur passando dal 6,5% al 9%, è aumenta in misura nettamente inferiore che nel resto d’Italia. Una delle chiavi di questi anni è stata la nostra capacità di attrarre investimenti. Non è un caso che il Financial Times ci abbia premiato come «buona pratica» tra le regioni del Sud Europa. La Toscana è infatti riuscita a invertire la rotta: gli investimenti dall’estero sono cresciuti del 30% all’anno mentre nel resto della Paese arretravano di oltre il 70%. Ora siamo in una fase di debole ripresa, come conferma l’ultimo report di Bankitalia, data principalmente da due fattori: l’aumento della domanda estera e il miglioramento sul fronte dei consumi interni.
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Questo quadro può essere riassunto in una sola parola: resilienza (capacità di assorbire un urto, ndr). Questa qualità — di cui andiamo fieri — ci ha consentito di camminare lungo la strada impervia della crisi. E ora ci permette di tornare a correre. Alla maggiore tenuta della nostra economia hanno contribuito certamente macrofattori esterni, come il cambio favorevole euro-dollaro e il prezzo del petrolio; ma le dinamiche qualitative della nostra resilienza sono state plasmate dalla nostra manifattura e dal turismo, così come dalla cultura delle nostre città d’arte e del nostro paesaggio: un ecosistema del «ben e bello vivere» dalla personalità unica, desiderato e immaginato come idea regolativa soprattutto dalle nuove borghesie che si affacciano dal Sud e dall’Est del mondo. All’altezza della sfida sono state l’agricoltura e le Università. Tutto questo è stato possibile anche grazie al nostro lavoro. Abbiamo mantenuto alti gli standard qualitativi e quantitativi dei servizi pubblici, siamo stati al fianco dei lavoratori, abbiamo sfruttato al massimo la programmazio-
Profilo Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana al secondo mandato dopo dieci anni da assessore regionale alla Sanità, è stato sindaco di Pontedera Membro del Pd, ha lanciato pubblicamente la sua sfida alla segreteria nazionale del partito
ne dei fondi europei anticipando le risorse necessarie per attivare i bandi del prossimo settennato. Abbiamo respinto il destino di una Toscana svenduta agli interessi immobiliari e speculativi, seduta sulla rendita. Una conferma della bontà di questa scelta ad esempio è venuta dalla sentenza recentissima della Consulta che ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal governo contro la nostra legge regionale sul governo del territorio. Venendo al «da fare» con lo sguardo ai prossimi anni, il tema centrale resta quello del divario e degli squilibri, la sfida di una modernizzazione giusta e inclusiva. In questi anni infatti, in modo ancor più netto rispetto al passato, sono emerse due Toscane, una più forte e una più debole, una legata ai distretti l’altra alla presenza delle partecipazioni statali, oggi più che mai in crisi. La sfida sta nel riunirle. Nessuno deve essere lasciato indietro. È necessario puntare sulle imprese dinamiche, sulla capacità di attrarre ancora investimenti, su infrastrutture efficienti. Come abbiamo
chiesto al governo è poi fondamentale un intervento sul costo dell’energia, ancora troppo alto. Attenzione estrema va posta sulle aziende dinamiche che in questi anni hanno mostrato impreviste capacità di crescita e di espansione del fatturato e dell’export. Non partiamo da zero. Con le lenti delle imprese dinamiche il divario tra le due Toscane è quanto mai visibile. Nelle aree costiere ci sono meno di 400 imprese dinamiche (cioè quelle che hanno aumentato fatturati ed occupazione anche nell’ultimo decennio) che rappresentano comunque il 50,6% del fatturato
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L’Italia di Mezzo Una macro regione del Centro può rafforzare lo sviluppo maturo dei distretti e aprire un corridoio orizzontale tra Tirreno e Adriatico
manifatturiero di questa area. Nel resto della Toscana le imprese dinamiche sono circa 3.300. È da qui che siamo ripartiti. Abbiamo agito come «Stato innovatore», rompendo la catena di un assistenzialismo improduttivo. La ricomposizione delle due Toscane passa anche da un nuovo regionalismo, un regionalismo differenziato. Dalle colonne del Corriere Fiorentino ho lanciato l’idea di una macro-regione dell’Italia di Mezzo. Questa idea nasce dalla volontà di intensificare l’area a sviluppo maturo rappresentata dai distretti e rafforzare la geografia costiera, puntando su infrastrutture e corridoi orizzontali (Est-Ovest) in grado di esprimere appieno la vocazione transfrontaliera e mediterranea dell’Italia. Una macro-regione di Toscana, Umbria e Marche avrebbe ben altro peso in Europa. Essa dovrebbe assumere la dimensione europea come il centro entro cui collocarsi. Dopo il referendum confermativo della legge di riforma costituzionale si potrebbe avviare un percorso di politiche comuni e di fusioni dei servizi. Ma il dibattito e lo scambio di prospettive deve partire subito. In questo modo la ricerca di una Toscana più moderna sarà anche il terreno per ricostruire una politica industriale e un vero modello neo-keynesiano fondato su spesa sana e pubblica e sull’ammodernamento infrastrutturale. *presidente Regione Toscana © RIPRODUZIONE RISERVATA
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I mietitori Olio su tavola, 1565, opera conservata al Metropolitan Museum di New York Fa parte della serie dei «Mesi» e nel 1809 fu requisita da Napoleone e portata a Parigi. L’opera ricomparve poi nel 1910 a Vienna, e successivamente fu venduta al museo americano
Pieter Bruegel
Ora basta giocare in difesa, arriva un’altra rivoluzione Gramolati (Cgil): «Sblocchiamo i capitali toscani custoditi nella rendita E puntiamo sulla conoscenza: deciderà il nostro ruolo nell’industria 4.0» di Alessio Gramolati* uelli appena trascorsi sono stati anni segnati sicuramente dalla crisi, ma che si sono aperti in una Toscana già in affanno e segnata da evidenti debolezze. In 7 anni di recessione e con 45 miliardi di investimenti non fatti abbiamo perso il 25% di capacità produttiva, di capacità di fare impresa e tante professionalità preziose. Ci siamo indeboliti nelle relazioni internazionali. Abbiamo assistito alla scomparsa del sistema bancario regionale, vittima del localismo e degli interessi egoistici. Il calo degli investimenti ha alterato le capacità produttive: minori investimenti hanno prodotto minore occupazione (24 mila i posti di lavoro persi, ma in termini di unità di lavoro a tempo pieno la perdita si avvicina alle 80 mila unità). Tutto questo ci ha indotto ad un’azione contrattuale che in primo luogo ha puntato al contenimento degli effetti della crisi: in 6 anni abbiamo fatto 80 mila accordi difensivi che hanno salvaguardato dal
Strategie
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licenziamento 265 mila persone. Quest’azione si evidenzia anche nel fatto che la caduta della capacità produttiva è di gran lunga più alta di quella occupazionale, differenziale prodotto in buona parte dall’azione contrattuale difensiva. Ma altrettanto significative sono state le iniziative di contrattazione realizzate sui temi degli investimenti e dell’occupazione: nel solo periodo 2011/2013 nelle imprese multinazionali i posti di lavoro creati e stabilizzati con accordi sindacali sono stati oltre 3.500, con i bandi di ricerca si
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Cambio di rotta Con 80 mila accordi difensivi abbiamo salvato 265 mila persone dal licenziamento Ora dobbiamo aprirci alle nuove sfide
aggiungono altri 700 posti. Di particolare pregio sono state le intese per la certificazione delle filiere produttive, le azioni di concertazione (da quelle a favore della montagna a quella sul paesaggio), la nuova legge sul turismo e quella sugli stage che ne impedisce la proliferazione a scopi non formativi. Poi si è aperta la stagione degli accordi di programma che inizia con la crisi delle acciaierie di Piombino, ma che oggi interviene su tutta l’ economia costiera caratterizzata da una frattura sociale con il resto della Toscana. Nella costa si concentravano le maggiori criticità occupazionali, le peggiori condizioni del mercato del lavoro in termini di precarietà e la più sensibile caduta di reddito. Grazie a chi ha saputo reagire, dopo 7 anni di crisi, la Toscana mantiene una capacità di generare valore aggiunto, competenze professionali e creatività pari o superiori alle migliori eccellenze internazionali. Tutto ciò può rappresentare la base per cogliere le nuove sfide. Non solo nella grande manifattura con la diffusione del just in time e del
Profilo
Alessio Gramolati, già segretario regionale della Cgil Toscana e segretario della Fiom di Firenze (si è iscritto al sindacato dopo l’apprendistato in un’azienda metalmeccanica) è adesso responsabile delle politiche industriali nel direttivo nazionale della Camera del Lavoro
just in sequence, ma nell’intero sistema produttivo perché si affermerà una crescente domanda di prodotti e processi concepiti per rispondere ai temi di sostenibilità ambientale e di efficienza energetica e ci misureremo con l’avvento dell’internet delle cose, che qualcuno indica già come una nuova rivoluzione industriale: l’industria 4.0. Questa sfida potremo coglierla se sapremo costruire un ambiente favorevole, superando errori e difetti del nostro sistema, l’arretratezza infrastrutturale dei trasporti, della logistica e dei servizi innovativi, figlia anche di privatizzazioni sbagliate. Se sapremo mobilitare risorse pubbliche e private negli investimenti, a partire da quei capitali toscani gelosamente custoditi nella rendita, e se si arresterà la caduta imprenditoriale e manageriale che non vede neppure un italiano ai vertici di una grande multinazionale. Ma anche se sapremo dare risposte formative adeguate. Perché è dalla «conoscenza» che si deciderà quale sarà il nostro ruolo nella quarta rivoluzione industriale e se si potrà ridare al Paese il rango che merita nell’industria internazionale. Serve una strategia e una politica industriale che si realizzi coinvolgendo il Paese a partire dalle parti sociali. Perché la coesione sociale è da sempre l’ambiente più favorevole all’innovazione e la Toscana può contare su questo valore aggiunto. *responsabile nazionale politiche industriali Cgil © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Instruments of power Pittura murale, 1930-31 L’opera fa parte di un ciclo composto da dieci pitture murali intitolato «America Today». Un racconto degli Stati Uniti negli anni Venti
Thomas Hart Benton
I grandi trainano i piccoli Sul terreno della qualità De Felice (Intesa Sanpaolo): «La forza toscana sui mercati esteri è nei legami di filiera Il rischio? Nel passaggio generazionale, sia degli imprenditori che delle maestranze» di Gregorio De Felice* a crisi della grande impresa, innescata dagli choc petroliferi degli anni Settanta, ha provocato una forte frammentazione del tessuto produttivo italiano. Si è pertanto affermato un modello di sviluppo basato sulla piccola impresa e sulle economie esterne, garantite dalla localizzazione in contesti territoriali fortemente coesi sul piano sociale e altamente specializzati come i distretti industriali. Nei nostri distretti si è affermato un modello di divisione del lavoro particolarmente disintegrato: le piccole imprese, infatti, raramente si confrontano con il mercato finale, ma spesso operano all’interno di una catena di fornitura a più stadi: sono subfornitrici di imprese più grandi e a loro volta attivano il lavoro di altre imprese più piccole. Un modello da tempo messo in discussione dalla globalizzazione. In seguito al forte incremento di concorrenza dei Paesi emergenti, le filiere produttive si sono aperte dal punto di vista internazionale spinte dalla concorrenza a ri-
Distretti
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cercare minori costi del lavoro. Questo processo ha visto molte imprese capofila italiane spostare all’estero parte della produzione e ricorrere sempre di più a subfornitori stranieri, spiazzando i tradizionali fornitori italiani. Tuttavia, negli ultimi anni sono emersi anche alcuni interessanti elementi nuovi. Nei distretti in cui più si sono conservate intatte le filiere produttive si è assistito al parziale ritorno di produzioni precedentemente esternalizzate e alla crescente presenza di multinazionali estere, interessate, soprattutto nel sistema moda, all’alta qualità delle lavorazioni italiane. È questo il caso dei distretti della filiera della pelle toscana. Gucci, Ferragamo e Prada
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hanno creduto e investito nel territorio, attratti dalle competenze, dalle maestranze locali e dall’alta qualità del capitale umano. Si sono così sviluppati forti legami di filiera, con le imprese capofila vincenti impegnate nella trasmissione di know-how e tecnologia verso i subfornitori più proattivi, divenuti nel tempo partner strategici e insostituibili. Questa interazione virtuosa è alla base dei successi ottenuti sui mercati internazionali in questi anni. Nel 2014 l’export di pelletteria e calzature di Firenze ha toccato quota 3,1 miliardi di euro, 1,3 miliardi in più rispetto ai livelli del 2008 (+70% circa). Nello stesso comparto, Arezzo ha più che triplicato il proprio export, salito a 765 milioni di euro nel
Il saldo tra chi intende riportare la produzione in Italia e chi invece prevede di spostarla all’estero qui è particolarmente positivo
2014. I dati del primo semestre del 2015 mostrano nuovi primati. Più in generale negli ultimi anni i distretti hanno ottenuto un miglior andamento rispetto ad altre aree grazie all’affermazione di una nuova generazione di imprese leader, in rapida crescita dimensionale, caratterizzate da vantaggi competitivi basati sulla ricerca, sull’innovazione e sull’internazionalizzazione. Queste nuove leadership hanno esercitato un ruolo di traino e contribuito alla progressiva accumulazione nei distretti di conoscenza tecnologica e dei mercati. Nei distretti è maggiore la capacità di esportare, effettuare investimenti diretti esteri, registrare marchi e brevetti. Fattori strategici che potranno contribuire alla conferma di migliori risultati rispetto alle aziende delle aree non distrettuali anche nei prossimi anni. Questa evidenza smentisce dunque la tesi di una crisi strutturale e generalizzata dei distretti. Anzi, evidenzia ottimi risultati di crescita e reddituali, premiati dal fattore trainante svolto da imprese leader e dal valore aggiunto offerto dalla rete di subfornitori e ter-
Profilo Gregorio De Felice, economista, guida il settore ricerca di Intesa Sanpaolo. Laureato alla Bocconi, in cui ha poi insegnato, è membro del Club internazionale degli economisti bancari. È responsabile del comitato di ricerca dell’ Associazione bancaria italiana (Abi)
zisti locali. Il rilancio dei distretti industriali e, più in generale, del tessuto produttivo italiano passa dalla capacità di far leva sempre di più e in maniera più diffusa su questa rete di subfornitura da cui hanno origine molto spesso i vantaggi competitivi dell’industria italiana sui mercati internazionali. Anche in prospettiva, pertanto, le reti di subfornitura conserveranno un ruolo centrale. È questo ciò che emerge anche da una recente indagine condotta dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo presso 173 imprese capofila di 18 distretti del sistema moda, del sistema casa e della meccanica; quasi i due terzi delle aziende capofila ritiene di non voler ridurre il ricorso alla subfornitura locale nei prossimi anni poiché questo creerebbe problemi di qualità, affidabilità e time to market. Inoltre, il saldo tra coloro che intendono riportare in Italia produzioni esternalizzate e coloro che prevedono di spostare all’estero produzioni di qualità è positivo e particolarmente alto in Toscana. La principale minaccia per la nostra industria non sembra quindi venire dall’esterno e dai nuovi competitor internazionali a basso costo, quanto dall’interno e dalla capacità di rinnovarsi e di attrarre l’interesse delle giovani generazioni. Devono rappresentare un monito importante i segnali di allarme che vengono dai problemi di ricambio generazionale sia della base imprenditoriale sia delle maestranze. *capoeconomista Intesa Sanpaolo © RIPRODUZIONE RISERVATA
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L’astronomo Olio su tela, 1668, conservato al Museo del Louvre di Parigi. L’autore, Jan Vermeer, ha firmato l’opera sul quadro: IV Meer MDCLXVIII. Durante il nazismo il dipinto fu sequestrato dalle proprietà del finanziere ebreo Edouard de Rothschild, alla cui famiglia apparteneva da mezzo secolo. Nel maggio 1945 il dipinto fu rinvenuto in una miniera di salgemma in Altaussee, in Austria, grazie al lavoro dei cosiddetti «Monuments Men»
Jan Vermeer
Paesi, zone agricole e industriali, dove i privati non vogliono investire Servono 382 milioni di euro. La Regione si muove, il governo anche Il viceministro Giacomelli: «Un diritto di cittadinanza digitale per tutti»
Solo la velocità ci può salvare Il 75% della Toscana è ancora senza banda larga Ma c’è un piano (pubblico) per il web, con Enel eicento famiglie a Licciana Nardi, quasi tutta Capolona e Civitella ma anche Cerreto Guidi, mille a Loro Ciuffenna, oltre 2.000 a Vicchio, 3.500 a Collesalvetti. E poi Casciana Terme e Peccioli, Vicopisano, Montepulciano. Sono solo alcune delle oltre 4.000 località toscane che, secondo il ministero dello Sviluppo economico, ancora per i prossimi 3 anni non avranno accesso completo alla banda ultralarga, anche a quella light da «soli» 30 Mbit/s (megabit al secondo). Se si considera invece la «vera» banda a grande capacità, a 100 Mbit/s, il numero delle località escluse sale a 5.700. Troppo pochi gli utenti per convincere gli operatori a portare una connessione veloce in queste zone, al massimo si arriva fino a una centralina e da lì si parte con il vecchio doppino di rame, che però rallenta i dati. I numeri sono impietosi e l’isolamento non risparmia nessuno: zone rurali, aree fuori mercato per i provider privati, zone industriali. Quattro quinti della regione resterebbero «lenti». Condannando le aziende toscane a muoversi verso la quarta rivoluzione industriale con passo incerto. Si fa presto a dire alle imprese che per crescere devono innovare e digitalizzare, quando in molti capannoni non arriva nemmeno la vecchia connessione a internet. Ma con i finanziamenti statali e regionali, si può recuperare il gap. Anche grazie a Enel. Una corsa da fare entro il 2018.
Infrastrutture 2.0
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Il viceministro Giacomelli al Parlamento Europeo
Lo stato dell’arte
A cosa serve La banda ultra larga (cioè quella velocissima, fino a 100 Mbit al secondo) non è uno sfizio, non significa solo dare la comodità al cittadino di scaricare allegati pesanti o godersi la propria serie televisiva preferita (adesso che anche in Italia è sbarcato Netflix). È uno degli obiettivi che l’Unione Europea ha dato ai Paesi membri per mantenere la competitività globale. Consente di lavorare assieme su sistemi di disegno computerizzato, su applicativi tecnologici, medici. Da qui al 2020 l’Unione Europea chiede la copertura totale della popolazione con un acceso ad internet a 30 Mbit/s e l’attivazione per almeno il 50% dei cittadini di servizi a 100 Mbit/s. Per l’Italia si tratta di una doppia sfida: da una parte, gli operatori cercano di coprire solo le zone di mercato che rispettano uno
standard di densità sufficiente all’investimento. Dall’altra, il monopolista della rete è anche uno degli operatori che poi fornisce il servizio. E, a partire dal fallimento della posa della fibra ottica (che consente certezza di flusso e grande velocità) con il progetto «Socrate» (abbandonato perché nel frattempo è migliorata la tecnologia) i conti — per il privato — sono sempre stati fatti (quasi) senza fibra. Ora si recupera. Non passa settimana che uno dei 30 operatori attivi annunci la copertura di alcune zone con la fibra: gli accessi a banda larga hanno superato i 14,6 milioni, aumentando in 12 mesi di 440 mila unità (più 270 mila da inizio anno). Gli accessi che utilizzano altre tecnologie sono aumentati di 660 mila unità su base annua e di oltre 1,3 milioni sull’intero periodo considerato. Ma principalmente in aree urbane. E la Toscana?
L’assessore Bugli (a destra) presenta «Open Toscana»
Attualmente la copertura con l’Adsl fino a 20 Mbit/s è al 96,1% (86% a 20 Mbit/s, il resto con velocità minore). La copertura invece ultralarga con almeno 30 Mbit/s è al 25,8%. Lo stato dell’arte arriva ancora dalla consultazione fatta dal ministero, a cui hanno contribuito gli operatori privati (tra cui i due «nostri», Estracom e Terre Cablate). E anche grazie al «catasto delle reti», che il governo vuole creare a livello nazionale, ma la Toscana ha già. «La Regione con la recente legge 45/2015 ha costituito il catasto delle reti, una banca dati dettagliata con tutte le informazioni relative alle reti sul territorio, norma che mette la Toscana tra le primissime regioni italiane a dettare disposizioni per un corretto uso del sottosuolo — spiega l’assessore regionale Vittorio Bugli — Questo è un ulteriore strumento che investe su banda larga e ultra larga perché quando si fanno nuove opere di urbanizzazione bisogna prevedere anche il «tubo» dove passa la fibra. Questa legge favorisce una corretta pianificazione, accrescendo l’efficienza d’uso delle infrastrutture esistenti, anche per abbattere costi di installazione e impatto ambientale». Finora è stato possibile raggiungere 269.008 imprese e 422.897 cittadini con la banda larga, grazie al bando fatto dalla Regione attraverso l’accordo con il Mise/Infratel per un totale di
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859,1 km di infrastruttura realizzata in 135 tratte pubbliche che servono 98 comuni. Con fondi propri e del ministero la Regione ha investito oltre 22 milioni (a cui si aggiungono 17,3 milioni dei privati), assegnati con bando di gara a Telecom: questo consentirà di coprire entro l’anno il 97% del territorio con servizi fino a 20 mega, su 190 Comuni. Ma per la banda ultralarga l’ammontare richiesto è maggiore.
I costi del futuro «Abbiamo stanziato altri 120 milioni, grazie ai fondi europei, che presto saranno messi a gara per la banda ultra larga — spiega Bugli — Pensiamo ai cittadini, ma soprattutto alle imprese, perché non si fa sviluppo senza avere gli strumenti a disposizione. E la rete è oggi “lo
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Detroit Industry Affresco, 1932-33. L’opera fa parte dei ventisette pannelli realizzati dall’artista messicano per raccontare l’industria americana, che oggi circondano il Rivera Court nel Detroit Institute of Arts
Diego Rivera
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Le parole
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Secondo la classificazione adottata dall’Autorità garante per le comunicazioni, si definisce banda larga «base» quella che garantisce una velocità di trasmissione di 2 Megabit per secondo e utilizza il doppino in rame. La banda larga «estesa» impiega la stessa tecnologia di trasmissione e ha una velocità compresa fra 7 e 20 Megabit per secondo: consente, ad esempio, di trasferire foto e filmati di qualità standard. La banda ultralarga ha una velocità di trasmissione maggiore di 30 Megabit per secondo, con la tendenza verso i 100 Megabit. Garantisce servizi come il cloud computing, la televisione ad alta definizione, la telepresenza. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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arrivare da Roma. Ma chi gestirà la costruzione dell’infrastruttura? Qui si apre uno dei capitoli più delicati. Chi costruirà la rete avrà, è ovvio — e nonostante tutti i livelli di controllo statali — un «vantaggio competitivo» rispetto agli altri. Tra chi voleva se ne occupasse l’azienda della Cassa depositi e prestiti Metroweb con gli operatori privati e chi ha proposto interventi diretti pubblici, ora il dibattito si è spostato verso una collaborazione con Enel.
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Buoni propositi Siamo tra gli ultimi in Europa, ma nessuno prima ha mai investito così tanto sulle reti elettroniche: possiamo diventare alunni modello
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strumento” principe. Faremo a breve una manifestazione di interesse sui bandi europei 2014-2020 e chiederemo agli operatori di coprire quelle aree che loro considerano a fallimento di mercato. Un’infrastruttura digitale di qualità elevata è elemento determinante per consentire l’accesso alla rete in condizioni di pari opportunità e senza discriminazioni». Se ci si affidasse solo al mercato, insomma, da qui al 2018 avremo solo circa il 21% della Toscana raggiunto con servizi a 100 Mbit/s e il 51% a 30 Mbit/S. Per colmare il gap, il governo ha annunciato 2,2 miliardi di euro.
L’intervento dello Stato «Se lasciassimo fare al mercato — ricorda il sottosegretario allo Sviluppo economico Antonello Giacomelli — avremmo inevitabilmente
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un’Italia a due velocità. Per questo i primi investimenti del governo si concentreranno soprattutto sui cluster C e D, cioè nelle aree a “fallimento di mercato”. Al Mise stiamo incontrando tutte le Regioni per coordinare gli interventi con il governo. Nessun governo ha mai investito così tanto sulle reti elettroniche: possiamo scommettere che non solo recupereremo il ritardo digitale rispetto al resto d’Europa ma possiamo diventare l’alunno modello. L’importante è che tutti, anche i privati, abbiano condiviso la spinta a recuperare il gap che ci vede tra gli ultimi in Europa». La Regione ha già calcolato il costo locale di questa operazione: per coprire le «aree bianche», quelle fuori mercato degli operatori, saranno necessari almeno 382 milioni. Palazzo Sacrati Strozzi ne ha già previsti 120 di sua erogazione, il resto deve
La società dell’energia deve cambiare infatti una trentina di milioni di contatori, cablandoli con una propria rete interna, per farli diventare «smart». Non è un operatore di telecomunicazioni, ma in questa operazione potrebbe essere affiancata da una società Tlc che infrastruttura tutta la fibra con la rete «aperta». Enel ha annunciato: nascerà una «newco» per la posa della fibra che collaborerà poi con gli operatori di telecomunicazioni. E secondo l’amministratore delegato, Francesco Starace, è più facilmente attivabile in tutta Italia e «costerà il 30-50% in meno». «Lo sviluppo di un Paese dipende sempre meno dalle infrastrutture “pesanti” (ponti, strade, cantieri) e sempre più dalle risorse immateriali di cui può disporre, e dalle connessioni che queste riescono a costruire in termini di capitale sociale — commenta Giacomelli — Un’innovazione non serve a niente se non diventa patrimonio di tutti, abitudine quotidiana. Lo sviluppo delle reti a banda ultralarga, in questo senso, rappresenta un aspetto centrale dell’idea di Paese che abbiamo in mente, non più a doppia o tripla velocità, ma capace, grazie all’innovazione digitale, di alzare verso l’alto la qualità della vita e del lavoro di tutti». «Lo sviluppo delle tecnologie ha spalancato opportunità impensate solo fino a poco tempo fa — conclude Bugli — Essere connessi non è solo fondamentale per il lavoro, lo studio e per la socialità, ma è diventato un diritto fondamentale. Una “cittadinanza digitale”: ecco perché è necessario garantire a tutti i cittadini l’accesso a internet». Marzio Fatucchi
[email protected] @marziofatucchi © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Il grande rimorchiatore Olio su tela, 1923 Musées Nationaux du XXème Siècle des Alpes-Maritime, donazione Nadia Léger and Georges Bauquier
Fernand Léger
L’uovo di Colombo: giovani e web Una svolta per salvare le botteghe Senza ricambio né tecnologia il mercato soffoca tanti «piccoli». Google si inventa i digitalizzatori L’Ente Cassa e Amazon portano in Rete la Toscana fatta a mano. Aiutando anche le vendite offline ettiamocelo in testa una volta per tutte, Geppetto è morto. Il piccolo imprenditore e l’artigiano come li conoscevamo fino ad oggi, se vogliono non solo salvarsi, ma crescere, devono cambiare. Se Cna nazionale all’ultima assemblea ha parlato di un 3% in più nell’occupazione è l’analisi congiunturale Trend di Cna e Istat a dire che, in Toscana, per le Pmi il saldo 2014 è stato ancora negativo. Ricavi giù del 4,4%, segno meno sugli investimenti per l’1,9% e retribuzioni e consumi in sofferenza di oltre il 5%. Due dei sintomi principali della malattia (nel 2013 il rapporto tra imprese nate e morte era negativo per 1.030 unità) sono evidenti: l’età avanzata degli artigiani e l’incapacità di stare su mercati competitivi e globali. Se questa è la diagnosi, la terapia teoricamente semplice è inserire giovani che, apprese le peculiarità del prodotto le abbinino all’altro ingrediente della cura, la digitalizzazione. Come? Qualcuno si è già mosso. «Siamo partiti — spiega Diego Ciulli di Google Italia — dalla convergenza fra Google e la camera di commercio di Firenze. «Eccellenze in digitale» è il progetto con cui, con una sorta di sportello, la camera fornisce agli associati la guida di un ragazzo preparato sulla digitalizzazione. A fine progetto la maggioranza dei “digitalizzatori” veniva assunta dalle imprese. Abbiamo presentato l’esperienza con Unioncamere al ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Così è nato «Crescere in digitale», da una costola di «Garanzia giovani», il portale del ministero pensato per chi non studia e non lavora che raccoglie già 800 mila iscritti. «In automatico ricevono tutti l’accesso a Crescere in digitale — continua Ciulli — e chi vuole può aderire. L’offerta è un corso di formazione di 50 ore. Chi passa il test entra nella lista da offrire alle imprese che poi scelgono i candidati in incontri-laboratorio. Una volta in azienda, per 6 mesi i digitalizzatori cercano le soluzioni digitali vincenti per l’impresa e ottengono 500 euro al mese. Chi
Artigianato
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+3%
È la crescita dell’occupazione a livello nazionale, secondo Cna, da inizio 2015
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mila Sono i prodotti già disponibili sul portale Amazon dedicato al Made in Italy
poi li assume ottiene incentivi». In Toscana, Marche e Veneto però, il problema è tra domanda e offerta: 170 offerte da 143 imprese e solo 67 ragazzi pronti. «Sono un ottimista — dice Ciulli — vuol dire che il messaggio è passato, i ragazzi arriveranno». Ma Google non è l’unico player in soccorso di un patrimonio a rischio. L’Ente Cassa di Risparmio di Firenze è in prima linea dal 2000, con Oma, l’osservatorio dei mestieri d’arte, guidato da Maria Pilar Lebo-
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Domanda e offerta Ciulli (Google): in Toscana 170 aziende chiedono giovani, ne abbiamo pronti solo 67. Sono ottimista: vuol dire che il messaggio è passato
le: «Da progetto interno all’Ente — racconta Lebole — si è trasformato in associazione di 18 fondazioni bancarie italiane. Quindici anni fa, nel fare la prima guida è stato un incubo trovare anche solo le informazioni su siti web e indirizzi e-mail delle imprese. Oggi gli artigiani hanno fatto passi da gigante, quasi tutti hanno sito con tanto di e-commerce, anche se con risultati diversi». Un anno fa, ecco la Fondazione Tema, l’altro «braccio armato» dell’Ente Cassa: «Noi siamo quelli tecno-
500
euro È la paga mensile dei digitalizzatori del progetto «Crescere in digitale»
Alessandro Penko nella bottega orafa del padre Paolo, è lui a seguire la digitalizzazione della ditta e le vendite Amazon
logici operativi e scientifici —spiega il consigliere delegato Giampaolo Moscati — Oma ha un know-how fatto da una rete di artigiani costruita con verifiche approfondite e di qualità». Tanti i progetti in corso, l’ultimo — nei giorni scorsi — «Make/Florence», una tre giorni con i ragazzi dello Ied e l’Mit di Boston per unire tecnologia, design e artigianato. Ma la scommessa, già sulla strada della vittoria, è quella di Amazon: «Nei mesi scorsi Palazzo Vecchio ha messo a un tavolo le associazioni di categoria e il colosso delle vendite online. Noi c’eravamo ed eravamo già pronti». Il risultato? Un portale dedicato all’artigianato toscano aperto dal 5 ottobre con una settantina di imprese che ora vendono in Italia, Regno Unito e Usa. Lo specchio di come il binomio giovani e web sia vincente si vede in via Zannetti a Firenze, nella bottega orafa Penko. Da quando è su Amazon qui è un viavai di corrieri. E di ragazzi: i suoi. Paolo, il titolare noto per i suoi lavori in simbiosi con la storia della città (sue, tra l’altro sono le riproduzioni dei fiorini), non ha dubbi: «Senza Alessandro (il figlio maggiore), tutto questo non sarebbe stato possibile». Alessandro dopo il diploma si è appassionato al lavoro di famiglia: «È nato tutto dopo il tour in Cina nei centri commerciali Fingen, lì ha capito che il suo ruolo poteva essere quello di portare la bottega con la tecnologia oltre i nostri confini». Lo sbarco su Amazon non porta solo vendite online: «Aiuta nella vendita offline — svela Penko — c’è chi ha programmato un viaggio a Firenze, guarda, mi contatta e poi viene in bottega. E poi c’è chi lo usa come catalogo». Puoi mettere la bottega su internet, ma non potrai mai tirare fuori l’artigiano dalla bottega. «Anche su Amazon — chiude Penko — coccolo i clienti come chi viene di persona: in ogni pacchetto trovano, a sorpresa, un fiorino d’oro, con un ringraziamento scritto a mano». Edoardo Lusena @edlusena © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Il vigneto rosso Olio su tela, 1888, Museo Puskin, Mosca. L’opera rappresenta la vendemmia ad Arles, città in cui Van Gogh aveva vissuto, ed è l’unico che il pittore olandese sia mai riuscito a vendere in vita. Lo comprò l’amica Anne Boch, poco prima che Van Gogh morisse
Vincent Van Gogh
«Una fabbrica per i giovani artisti» Si è aperta la caccia al mecenate La gabbia del Rinascimento, l’idea di una casa per il contemporaneo, tante esperienze diverse Ferragamo: cultura volano per l’economia, serve un progetto per attrarre talenti internazionali arrozze cariche di turisti, venditori di cartoline, venditori di medagliette, di fotografie. Roma mi fa pensare a un uomo che si mantenga col mostrare ai viaggiatori il cadavere di sua nonna». James Joyce, 1906. Forse oggi direbbe lo stesso di Firenze. Che fine ha fatto il seme della magnificenza? Cos’ha oggi Firenze in comune con la città dei Medici che sostennero i migliori artisti del tempo per dare lustro alla propria casata? Può raccogliere la sfida di una rinnovata identità, che non si fondi soltanto sulla rendita? «Firenze è sopraffatta dalla sua tradizione e non possiamo ripudiarla, dobbiamo confrontarci con la sua forza — dice il direttore dell’Accademia di belle arti, Eugenio Cecioni — Ci sono resistenze potenti rispetto al contemporaneo anche perché il mondo a noi chiede tradizione. Oltre 300 dei nostri studenti arrivano dalla Cina: noi per loro rappresentiamo solo il Rinascimento, ci chiedono quello e non possiamo sottrarci». Iniziative come l’Art Bonus hanno raccolto un interesse tiepido e finanziato quasi soltanto la conservazione dell’antico, cosa ben diversa dal mecenatismo puro. Ma scommetterci di nuovo, affiancare all’eredità che attira visitatori da tutto il mondo un tessuto vitale di produzione artistica attuale potrebbe anche servire a creare flussi turistici diversi, quelli che tutti dicono di volere: il turismo colto, lento, quello che ritorna e lascia qualcosa alla città. C’è chi è pronto a scommetterci, ma prima serve un progetto convincente sul quale investire. «Con l’Associazione partner di Palazzo Strozzi abbiamo per primi rotto il ghiaccio sul rapporto fra pubblico e privato nel sostegno all’arte — dice Leonardo Ferragamo — Abbiamo individuato nella cultura un volano per l’economia della città, perché sprigiona un circolo virtuoso. Il mio sogno sarebbe che Firenze varasse un programma per esse-
Arte
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re attrattiva per giovani artisti selezionati provenienti da tutte le nazioni, che li ospitasse promuovendo qui la residenza per produrre le opere e avere in cambio donazioni. Questo sogno di un ritorno al mecenatismo merita un dibattito che raccolga in modo autorevole persone che possono condurre un progetto specifico, con un ruolo proattivo del Comune e della Regione». Su cosa debba contenere questo progetto per poter funzionare dà qualche indicazione Lorenzo Bruni, critico e curatore indipendente, fiorentino: «L’arte è un lavoro e come tale va riconosciuta e difesa. Questo è il primo passo. A Firenze mancano il dialogo con le istituzioni e la circolazione di conoscenze e informazioni,
mancano spazi di incontro e soprattutto di studio. Chi studia a Firenze impara la storia e si fa una bella vacanza. Poi se ne va. Va nelle capitali europee dove trova un sistema che funziona». Gallerie, collezionisti, residenze d’artista, esposizioni, formazione, dibattito. Serve tutto questo, organizzato in un progetto coerente. E poi servono i mecenati. «Firenze si sta svegliando e noi ci stiamo muovendo. Candidiamo la città ad essere residenza d’artista perché la tradizione ispira le nuove creazioni e quindi Firenze è il luogo ideale — dice Tommaso Sacchi, capo di gabinetto del sindaco Dario Nardella per la cultura — Il progetto sta prendendo forma alle Murate dove sono disponibili una decina di
La mostra «Territori Instabili» alla Strozzina nel 2013
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Il Centro Pecci Cavallucci: far produrre qui e poi esporre le opere Può funzionare: i primi risultati in un paio d’anni, il sistema a regime in una decina
residenze d’artista. Siamo convinti che la cultura sia un buon investimento e se c’è un territorio dove sperimentare nuovi modelli di mecenatismo, è Firenze». Arturo Galansino dirige uno degli esperimenti di collaborazione pubblico-privato che funziona, Palazzo Strozzi, e soprattutto, la scommessa della Strozzina: «Non siamo una città deputata all’avanguardia artistica, ma non è detto che non possiamo diventarlo. Lasciare spazio a talenti emergenti come facciamo alla Strozzina è un segnale importante». Galansino dice che l’arte contemporanea a Firenze ha già premuto il tasto dell’ascensore e presto salirà ai piani alti del Palazzo: «Vogliamo svecchiare il panorama culturale della città. Se a Firenze si volesse sviluppare un circuito di residenze d’artista, saremmo ben felici di fare la nostra parte». Altre iniziative ruotano attorno al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci che ha un programma ambizioso di formazione post accademica sui temi chiave del contemporaneo e ha già svolto corsi per galleristi e collezionisti. «La Toscana deve tornare quello che è stata per secoli, cioè un grande laboratorio in cui si lavora a stretto contatto con l’artigianato, con quel saper fare che serve agli artisti per produrre — dice il direttore del Pecci, Fabio Cavallucci — Vogliamo attrarre gli artisti per farli produrre qui e poi esporre qui le loro opere. Abbiamo già avviato un percorso con molti operatori del contemporaneo e adesso vogliamo convincere gli amministratori che può funzionare: potremo avere i primi risultati nel giro di un paio d’anni e il sistema a regime in un decennio». I segnali ci sono. Bisogna coltivarli per ritrovare la visione degli antichi mecenati, capace di generare una ricchezza che ci sfama ancora oggi. L’alternativa è accontentarci di mostrare il cadavere di nostra nonna alle comitive di turisti mordi e fuggi. Silvia Ognibene © RIPRODUZIONE RISERVATA
Leonardo Ferragamo, presidente Apps
Arturo Galansino, direttore Palazzo Strozzi
Fabio Cavallucci, direttore Centro Pecci
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Pablo Picasso
La cattedra in azienda Per abbattere un muro Giovani disoccupati da record, aziende che non trovano chi assumere L’Italia alla svolta della formazione, lungo il doppio binario tedesco ar incontrare con un meccanismo efficiente il mondo delle scuole e quello del lavoro aumenterebbe la qualità e la quantità degli impieghi e ridurrebbe la distanza tra il conseguimento del diploma e la prima occupazione. Il tasso di disoccupazione tra i 15 e i 24 anni, in Toscana, è del 42,7% (fonte Istat). Una cifra in linea con la media nazionale che indica la difficoltà dei ragazzi appena diplomati nel trovare una prima retribuzione. Confrontando il dato con quello relativo alla disoccupazione tra i 15 e i 29 anni, il tasso di disoccupazione scende al 31,6%. Questa differenza (meno 11,1%) indica che servono mediamente 5 anni per trovare lavoro. È il primo ostacolo da superare per abbattere i tassi di disoccupazione giovanile. In Germania il modello «duale», mediato dalle camere di commercio locali, ha avuto grande successo nell’abbattimento di questa barriera. Per questo anche in Toscana si cominciano a progettare nuove modalità di interazione tra scuola e lavoro guardando alle buone pratiche tedesche e sfruttando gli strumenti messi a disposizione dalla riforma del governo Renzi. A fronte dell’elevato tasso di disoccupazione giovanile, c’è però un tessuto imprendito-
La stiratrice Olio su tela, 1904, conservata al Guggenheim Museum di New York È tra le opere del «periodo blu»
Scuola-lavoro
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riale pronto ad assumere: «Quasi 40 mila aziende italiane — spiega il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi — cercano lavoratori qualificati, ma non riescono reperire i profili». Nel 2014 le aziende hanno faticato a trovare il 37% dei laureati in ingegneria dei quali avevano bisogno, il 20% in campo sanitario, oltre il 30% dei diplomati in indirizzo meccanico. I giovani che escono dalle scuole italiane hanno un profilo troppo teorico e tocca quindi alle aziende occuparsi della formazione specifica, dopo averli assunti. Con un costo di circa 100 mila euro per ogni neoassunto, mentre sui mercati stranieri, come in Germania, le imprese trovano figure giovani già specializzate proprio grazie all’alternanza
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Toccafondi Ci sono quasi 40 mila aziende italiane che cercano lavoratori qualificati ma non riescono a reperire i profili di cui hanno bisogno
42,7% La percentuale di giovani toscani disoccupati tra i 15 e i 24 anni di età, secondo i dati Istat relativi al 2014. 31,6% tra i 15 e i 29 anni
1.000 Posti di lavoro specializzati offerti dalle grandi imprese della Città metropolitana di Firenze, da Gucci a Menarini, nei prossimi cinque anni
scuola-lavoro che funziona ormai da anni. Fabrizio Landi, consigliere economico del sindaco di Firenze e presidente di Toscana Life Sciences, siede al tavolo composto da Regione e multinazionali. Spiega che 17 grandi aziende della Città metropolitana, da Menarini a Gucci, «hanno circa mille posti di lavoro specializzati non coperti: nei prossimi 5 anni andranno occupati». Un buon motivo per approfittare della flessibilità introdotta dalla riforma della Buona Scuola che mette a disposizione strumenti e li finanzia. Il governo ha messo 100 milioni di euro sul progetto di alternanza scuola-lavoro, divenuta obbligatoria nel triennio delle superiori (400 ore nei professionali, 200 nei licei); i soldi finanziano la mobilità per gli studenti e la formazione loro e dei tutor. La seconda colonna di questo sforzo è la «sburocratizzazione» dell’apprendistato, che si può già effettuare nell’ultimo triennio del percorso scolastico, con una convenzione. Sono già partiti alcuni esperimenti, come quello che coinvolge i ragazzi dell’istituto Meucci di Firenze, che passano dai banchi alle officine del Nuovo Pignone: «Ho scelto questa scuola perché aveva un grande laboratorio di meccanica, sono cose di cui sono appassionato, poter vedere i
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macchinari di un’officina in funzione è stato il massimo». Hanno 16 e 17 anni, hanno iniziato la loro esperienza da poche settimane. Due pomeriggi alla settimana, fino a giugno, poi in estate il lavoro in azienda si intensifica, tutti i pomeriggi, al fianco dei dipendenti Ge Oil & Gas. Lì per imparare e per fare, seguendo un programma che è stato concordato con gli insegnanti. «La preparazione andrà avanti in parallelo, in azienda e a scuola», spiega il professore che segue i ragazzi di meccanica, Alessio Fossati. La selezione è stata fatta due volte, prima dalla scuola che ha scelto il gruppetto dei più meritevoli e motivati e poi dall’azienda. E ora
L’esempio Ge I ragazzi dell’Itis Meucci «lavorano» al Nuovo Pignone due volte a settimana: hanno un badge, il loro pc, prendono il caffè con i dipendenti Si sentono insomma parte di una squadra
che sono dentro si sentono «un po’ speciali», come scrive uno dei ragazzi nel diario di bordo. Hanno avuto un badge, una postazione di lavoro e un pc portatile. Prendono il caffè con i dipendenti, avvertono di fare in qualche modo già parte della squadra e non lo nascondono: «È una grande opportunità, vogliamo giocarcela bene». Un tipo di esperienza che va oltre lo stage tradizionale, sia nel metodo — fatto di lezioni «personalizzate» in azienda seguiti da tutor — che nella quantità di ore: i ragazzi al Nuovo Pignone faranno almeno 500 ore l’anno per due anni. «Abbiamo trovato questi ragazzi curiosi e attenti, contiamo di dare loro maggio-
I ragazzi dell’istituto tecnico Meucci di Firenze in laboratorio e, in alto, tra le turbine della Ge-Nuovo Pignone: la scuola ha attivato un collegamento diretto con la multinazionale, i ragazzi faranno almeno 500 ore di formazione in azienda ogni anno per due anni
re consapevolezza di com’è il mondo del lavoro, per permettere anche di fare scelte più mirate per il futuro», spiega Giulio Ardini, responsabile del sito produttivo Ge Oil & Gas di Firenze. «La scuola deve uscire dall’ autoreferenzialità — commenta il preside della scuola Meucci Emilio Sisi che è riuscito ad attivare importanti convenzioni anche con Enel (dove i ragazzi fanno apprendistato), Ferrovie dello Stato e Gucci — È importante il confronto con la realtà esterna, l’obiettivo è far acquisire ai ragazzi delle competenze specifiche. L’alternanza scuola lavoro per noi non è un’attività aggiuntiva, è curricolare. Siamo davanti a una rivoluzione, dobbiamo verificare passo passo i risultati». Fanno ben sperare anche i buoni risultati conseguiti dagli Its, le scuole ad alta specializzazione tecnologica nate nel 2010 per rispondere alla domanda delle imprese: l’80% degli studenti diplomati lavora a tempo indeterminato. Gli istituti sono ancora pochi e il finanziamento statale annuale è di circa di circa 22 milioni di euro. Con un nuovo sistema di «premialità» basato sulla percentuale di occupazione degli studenti di quelle scuole, i fondi non saranno più distribuiti a pioggia. Un passo avanti verso i tedeschi, che ci guardano dall’alto forti dei decenni di esperienza sull’integrazione scuola-lavoro, e dal basso con il loro dato sulla disoccupazione giovanile: 7%. Lisa Baracchi Giorgio Bernardini © RIPRODUZIONE RISERVATA
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What Makes It Tick? Olio su tela, 1948, collezione privata, sottotitolo «The Watchmaker of Switzerland», l’orologiaio svizzero
Norman Rockwell
Da dipendenti a imprenditori La legione straniera delle Pmi Ristorazione, servizi, commercio, ma anche agricoltura ed alta tecnologia Cinesi, romeni, pakistani guidano 4 nuove ditte su 5, rinnovando la manifattura a rigenerazione del tessuto delle piccole e medie imprese toscane passa dall’evoluzione sociale ed economica degli stranieri che abitano qui. Prima dipendenti, oggi imprenditori. Attualmente la maggior parte dei loro investimenti nelle aziende si concentra sul settore dell’edilizia e del manifatturiero, ma la trasformazione in corso li vede pronti a ingrossare le fila del commercio, dei servizi e anche dell’alta tecnologia. Quattro nuove ditte individuali nate su cinque sono registrate da cittadini che non sono italiani (fonte Unioncamere). Numeri su cui incide ovviamente un mutamento demografico e sociale. Negli ultimi dieci anni gli stranieri residenti in Toscana sono più che raddoppiati, passando dai 165 mila del 2005 ai quasi 400 mila attuali (dati Regione Toscana). La provincia che detiene il record di stranieri è ovviamente quella di Prato, con il 15% di residenti non italiani; un micro universo a sé nel sistema straniero regionale, che vede tra le comunità più numerose i romeni (20,3%), gli albanesi (18.5%) e appunto i
Integrazione
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cinesi (10%). Le tre nazionalità insieme costituiscono quasi la metà del totale dell’immigrazione in Toscana. Il salto di qualità nei numeri della popolazione straniera produce aspettative economiche, progressioni sociali ed iniziative aziendali fisiologi-
Gora Seye, sarto senegalese, nella sua azienda a Firenze
che. Secondo i dati di Unioncamere pubblicati lo scorso 20 novembre sono 46 mila le imprese attive a titolarità straniera, il 13% del totale delle aziende toscane (a Prato sono addirittura un quarto del totale). I settori maggiormente attivi sono ancora il commercio all’ingrosso e al dettaglio, seguito dalle costruzioni e dalla ricettività/ristorazione. La rotta seguita dai neo imprenditori stranieri sembra essere quella della ditta individuale. Il quadro toscano indica con chiarezza la parabola: nel 2004, 21 mila imprese di questo tipo erano attivate da persone non italiane su un totale di 49 mila. Meno della metà. In dieci anni gli equilibri sono stati completamente sovvertiti: oggi, a fronte di 50 mila ditte registrate, 43 mila sono straniere (fonte Unioncamere). Il trend è supportato anche da una crescente quota dei componenti societari esteri all’interno delle ditte basate in questa regione: le società con almeno un socio straniero, in Toscana, sono circa tremila, quasi una su dieci (fonte Istat). «Il primo elemento di sviluppo interessante — spiega
Alberto Tassinari, sociologo responsabile dell’area immigrazione dell’ Istituto di Ricerche Economiche e Sociali (Ires) della Cgil — è legato alla storia specifica dell’insediamento cinese in questa regione, che è stato il primo a sperimentare forme di imprenditorialità diffusa sul territorio. Un contesto sviluppato che sta conoscendo una diversificazione: ci sono oggi persino cinesi produttori di vino che hanno acquistato terreni e aziende vicino Carmignano. Allo stesso tempo c’è una pro-
46.138 Le imprese a conduzione straniera attive in Toscana al secondo semestre 2015 secondo i dati Unioncamere
13.805 Le imprese straniere attive nelle commercio, il settore con maggiore presenza, seguito dalle costruzioni (13.316)
gressione interna, laddove molti cinesi sono diventati figure apicali nelle aziende dove prima facevano operai». C’è un secondo elemento di trasformazione che si intravede all’orizzonte, secondo il sociologo, particolarmente nel settore dell’imprenditoria agricola: nell’aretino, ad esempio, dopo anni di lavoro dipendente molti imprenditori immigrati si sono messi in proprio. «E infine sono da osservare i progressi degli indiani che hanno aperto aziende informatiche» registra Tassinari. La crescita avvenuta nell’ultima decade nell’imprenditoria straniera è in controtendenza rispetto a tutti gli indicatori macroeconomici regionali. Ed è ancor più sorprendente la costanza del fenomeno col segno «più», se è vero che a metà di questo percorso, nel 2010, le ditte straniere nella sola area di Firenze si erano già quadruplicate rispetto al decennio precedente: da 2.636 nel 1999 a più di 10 mila, un dato fissato negli studi del «Grande atlante dell’imprenditoria straniera» redatto dall’insieme dei maggiori centri studi di tutta la regione. Dopo il consolidamento dei gruppi dell’immigrazione storica, oggi si apre la fase della diversificazione. In fortissimo sviluppo risultano i settori della ristorazione e del trasporto privato, dove anche pakistani, iraniani ed egiziani risultano leader nelle nuove iniziative di impresa. Giorgio Bernardini © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Lazar’ Markovic Lisickij
Una terra per giovani E non è solo una moda Sono quasi 1.800 gli under 40 che avvieranno un’azienda agricola I grandi? Aspettano ancora il taglio della burocrazia. E i piani dell’Ue a settore «residuale» a componente vitale della competitività del Made in Tuscany, trainata dalla grinta dei «contadini digitali». Tornare nei campi con una laurea in tasca per aprire la propria azienda o trasformare quella dei nonni, è molto più di una moda, oggi che per l’agricoltura toscana il peggio sembra passato. Lo dimostra il successo dell’ultimo bando regionale rivolto agli agricoltori under 40: 1.762 domande, oltre il doppio rispetto alla precedente edizione, per 40 milioni di contributi pubblici che non basteranno a soddisfare le richieste. Secondo una recente indagine della Coldiretti, il 57% dei giovani interessati ad aprire un’azienda agricola è laureato, spesso in discipline tecniche e innovative. La stessa percentuale dichiara di preferire il lavoro in proprio nei campi ad un impiego nelle multinazionali (che piace solo al 18%) o in banca (17%). I giovani hanno abbandonato il sentimento di vergogna che le generazioni precedenti provavano di fronte al mestiere del contadino e puntano a fare impresa in un settore che, nonostante abbia pagato il prezzo della lunga crisi, dà segnali di ripresa. Business quindi, oltre che di gran moda.
Tatlin lavora al Monumento alla III Internazionale Disegno e collage, 1921-22, Londra collezione Mr e Mrs Eric Estorick
Agricoltura
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La tendenza si è invertita grazie soprattutto all’importanza decisiva del vino, dell’olio, degli agriturismi. L’innovazione c’è, la ricerca di qualità anche: il 10% delle imprese ormai è bio e la Toscana è la quarta regione italiana come numero di produttori nel biologico. I problemi? La burocrazia e la scarsa redditività di molte coltivazioni. E il numero degli addetti è calato del 10% soltanto nel periodo 201214, principalmente nelle aziende rimaste ancorate a un modello «tradizionale». «L’agricoltura toscana esiste ed è una valida alternativa di sviluppo — sottolinea Giordano Pascucci, direttore di Cia Toscana, associazione che raggruppa circa 20.000 titolari di aziende — Le province a maggior vocazione agricola sono quelle del sud, Grosseto, Arezzo e Siena, e poi Pisa. Qui la trasformazione è già iniziata». Un cambiamento che investe più fronti. «Da anni ormai si punta sulla filiera corta, sulla trasformazione diretta e si stanno aggregando sia i produttori che i trasformato-
Giordano Pascucci, presidente della sezione toscana della Confederazione italiana agricoltori
Obiettivo Creare un «paniere Toscana» di alta qualità, una filiera orizzontale dal vino agli ortaggi, da presentare alle iniziative internazionali
ri all’insegna del valore aggiunto che è l’essere “fatto in Toscana” — spiega Pascucci — Anche la grande distribuzione è molto più sensibile alla qualità e aiuta la nostra agricoltura. E con l’agriturismo è arrivata una spinta importante al biologico, alla ristorazione, alla visibilità di aziende anche piccole, riportando i giovani verso l’agricoltura». Una tendenza mostrata anche dalla valanga di domande d’iscrizione alla «Scuola per giovani contadini», un’iniziativa unica in Italia, partita lo scorso anno grazie alla collaborazione tra 5 Comuni del Chianti Fiorentino, Regione Toscana, la fattoria Montepaldi dell’Università di Firenze e l’agenzia formativa Chiantiform. «Restano i problemi strutturali, alcuni connaturati a un territorio che spesso ha scarsa resa e poca acqua, altri legati alle norme e ai mercati. Fare reddito in alcune zone della Toscana è molto difficile e a questo si aggiunge la burocrazia, che andrebbe semplificata non per aver meno regole ma per averle compatibili con l’attività imprenditoriali e sul territorio. Occorrerebbe indirizzare anche meglio le risorse dell’Unione Europea erogate attraverso la Regione: i bandi dovrebbero focalizzarsi su aiuto all’internazionalizzazione, innovazione, sostenibilità
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dotto ogni anno non viene raccolto o trasformato. Non aiuta nemmeno l’incertezza fiscale». Ad aumentare i problemi, secondo Confagricoltura, è anche il ritardo di applicazione del programma di sviluppo rurale 2014-2020: «Tra il cambio di legislatura regionale e i ritardi dell’Ue abbiamo perso quasi due anni: finora sono partiti solo i bandi per i giovani e quello per le filiere, tutti gli altri scatteranno nel 2016, ma intanto le aziende sono
Campo scuola Alcuni ragazzi della Scuola per contadini creata da cinque Comuni del Chianti fiorentino con Regione e Università
rimaste senza contributi per due anni». Molte però anche le luci del settore. «Senza dubbio, dai sistemi cooperativi che funzionano nel vino, nell’olio, nei pomodori, al sostegno ai prezzi e al territorio nel settore del latte ad opera di Mukki e di Latte Maremma, ai contratti diretti di grano duro con i grandi produttori italiani di pasta — aggiunge Miari Fulcis — Il sistema fattoria, tipico della nostra regione, è un punto di forza avanzato del sistema agricolo:
permette la vendita diretta, l’occupazione degli addetti tutto l’anno, anche se la raccolta è stagionale, le attività complementari come l’agriturismo o le degustazioni che generano reddito e danno visibilità allo stesso tempo». Prossimi obiettivi? «Sarebbe necessario un tavolo permanente tra imprese e Regione, così da incrementare il dialogo, il cui primo obiettivo dovrebbe essere il lancio di un “paniere Toscana” di alta qualità, una filiera cioè orizzontale, dal vino, all’olio, alla pasta, ai prodotti da forno, agli ortaggi, da far conoscere e presentare nelle iniziative internazionali in giro per il mondo. Un processo che deve nascere dal basso, da noi, e poi essere supportato dalle istituzioni». Un obiettivo su cui potrebbe «convergere» Toscana Promozione. «Stiamo pensando a canali innovativi per presentare insieme i prodotti toscani dando altri strumenti oltre la grande distribuzione o l’ecommerce— spiega Stefano Giovannelli, direttore di Toscana Promozione — Le imprese con fatturato sotto i 2-4 milioni fanno fatica ad investire su queste politiche». Canali nuovi, ma dove? «Sul
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Francesco Miari Fulcis, presidente di Confagricoltura Toscana
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ambientale e filiere. E la ripartenza dei consumi non c’è ancora», conclude il manager della Cia. La crisi ha fatto perdere addetti e aziende e non pare finita. «È così, purtroppo, e in più la burocrazia mangia tempo e risorse — afferma Francesco Miari Fulcis, presidente di Confagricoltura, associazione che rappresenta le aziende medio-grandi — E troppi costi significano anche abbandono di terre e di produzioni, tanto che circa il 30% del pro-
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mercato Usa, la Cina, il Golfo Persico. Così potremo sfruttare anche l’effetto Expo che ha riportato l’alimentazione e la qualità al centro. L’attenzione alla tutela dell’ambiente e della salute è molto cresciuta anche nei Paesi emergenti e su questi settori possiamo fare molto — conclude Giovannelli — Oggi l’aggregazione, basta pensare alle filiere, è decisiva e anche nei nostri produttori la sensibilità su questi temi è cresciuta». Sono 53 i progetti di filiera che raccolgono centinaia di imprese. «Nel 2016, grazie solo ai progetti di filiera per 210 milioni e ai 300 milioni di contributi Ue per 1.760 aziende, saranno attivati investimenti per oltre mezzo miliardo di euro e arriverà una iniezione di dinamismo e diversificazione, con anche il ritorno in azienda delle nuove generazioni che prima si vergognavano di dire “sono un contadino”, accelerando la ripresa del settore e la sua competitività e dando anche nuove sfide alla rappresentanza — afferma Roberto Maddè, direttore di Coldiretti — L’agricoltore 2.0 ormai è una realtà». Mauro Bonciani
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Gli spaccapietre Olio su tela, 1849 L’opera è andata distrutta durante un bombardamento aereo della città di Dresda, in Germania, in cui era esposto
Gustave Courbet
Frontiera sharing economy Nuova impresa senza impresa Dal pony express a Uber e Airbnb: così è cambiata l’offerta di beni e di servizi Mettendo in crisi il sistema delle leggi e i rapporti di lavoro. Colloquio con Ichino Seul ci sono 64 forme diverse di beni e servizi condivisi con piattaforme di «sharing economy», ma il 60% della popolazione non li usa. Ad Helsinki, invece, dopo un boom per la consegna del cibo a domicilio, si è arrivati a fare «sharing» sul trasporto pubblico. Nata come antagonista del capitalismo, la «sharing economy», cioè la condivisione di beni e servizi, è esplosa grazie alle piattaforme tecnologiche tanto da far titolare a Internazionale: «La fine del capitalismo è vicina». In realtà da Airbnb a Uber, da Booking.com al car sharing, gli esempi più popolari di economia della condivisione sono gestiti da multinazionali. Mettendo a dura prova il sistema di regole e a volte l’identità di interi territori, come succede a Firenze con il boom di affitti Airbnb. Ne parliamo con il professor Pietro Ichino, giuslavorista e senatore Pd. Sharing economy, nuova frontiera di lavoro. Ma le regole sono inesistenti. «Dovunque si manifesti una qualche forma di mercato del lavoro è presente e ben visibile la tendenza di chi già svolge
Scenari
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un‘attività a difendersi dalla concorrenza dei new entrants con barriere di vario genere. Sono sempre servite a questo le corporazioni e le gilde di mestiere, poi gli ordini professionali, i regimi che impongono una licenza per poter svolgere una attività, oppure un titolo di studio o di formazione, e così via. Oggi nell’area del lavoro autonomo, ma non solo, l’evoluzione tecnologica attenta alle barriere che difendono gli insiders contro la concorrenza degli outsiders». Ma la sharing economy è la «fine del capitalismo» o una nuova forma di imprenditorialità? «Dipende dalla nozione di “impresa” a cui facciamo riferimento. Il premio Nobel per l’economia Ronald Coase individua la ragion d’essere dell’impresa in una necessità di risparmio di costi di transazione: l’imprenditore, che deve mettere insieme e coordinare numerosi altri lavoratori, “acquista da loro il potere direttivo” (o, se si preferisce, la loro obbedienza) per non dover negoziare di volta in volta con ciascuno di loro le modalità di ogni segmento della prestazione lavorativa. Così si
Profilo Pietro Ichino, giuslavorista, è dal 1991 professore ordinario nell’Università statale di Milano. Ex dirigente della Fiom Cgil, è stato tra i fondatori del Partito democratico nel 2007 del quale — dopo un passaggio in Scelta civica — è ora senatore dal 2013
può pensare che, se i nuovi strumenti web riducono al minimo i costi di transazione, essi fanno venir meno la ragion d’essere dell’impresa: i fattori della produzione possono essere coordinati, o coordinarsi, senza necessità del potere direttivo. Ma le ragioni d’essere dell’impresa non si esauriscono in quella individuata da Coase». Ci sono altri approcci... «Un altro economista americano, Frank Hyneman Knight, la individua nella capacità dell’imprenditore di accollarsi il rischio dell’attività produttiva, a fronte della tipica preferenza dei lavoratori salariati per la sicurezza: l’imprenditore, in questo ordine di idee, “vende sicurezza” ai propri dipendenti. Lo fa trattenendo sulle loro retribuzioni una differenza, rispetto a quanto li retribuirebbe se fossero lavoratori autonomi: sostanzialmente un “premio assicurativo” pagato dai dipendenti». Come si applicano questi schemi concettuali al fenomeno sharing economy? «Le nuove tecnologie possono abbattere i costi di transazione, facendo venir meno la ragion d’essere coasiana
dell’impresa: in questo caso la struttura verticale caratterizzata dalla “catena di comando” viene sostituita da una struttura orizzontale di rete, nella quale i fattori della produzione (singoli lavoratori autonomi, o di piccole organizzazioni) si coordinano fra loro facilmente, anche a distanza, trattando da pari a pari. Ma le nuove tecnologie non possono eliminare la differenza di propensione al rischio delle persone, e la differenza di capacità di sopportare quel rischio: finché questa differenza ci sarà, ci sarà ancora spazio per l’impresa knightiana, cioè per l’impresa che vende ai
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SHARING ECONOMY «Economia della condivisione» indica la fornitura di beni o servizi senza intermediari, spesso il contatto avviene tramite piattaforme tecnologiche. © RIPRODUZIONE RISERVATA
propri dipendenti sicurezza». Dove si ferma il concetto di «sharing» come condivisione e dove comincia l’impresa pura? «Nell’ordine di idee coasiano, l’impresa cessa là dove viene meno il potere direttivo dell’imprenditore e il corrispettivo obbligo di obbedienza dei suoi collaboratori. Una prima manifestazione evidente di questo fenomeno l’abbiamo avuta già trent’anni or sono con la comparsa dei pony express, antesignani della sharing economy: il lavoratore collegato via radio con la centrale non era obbligato a rispondere alla chiamata, né, se prendeva un incarico, a seguire un certo itinerario o a usare un mezzo di trasporto piuttosto che un altro. La nuova tecnologia abbatteva il costo di transazione e consentiva l’organizzazione perfetta del lavoro senza bisogno di un potere direttivo. Però ogni tanto un pony express fa causa alla centrale chiedendo di essere riconosciuto come dipendente, e qualche giudice, non importa se a torto o a ragione sul piano strettamente giuridico, gli dà ragione: qui emerge la domanda di sicurezza tipica del lavoratore, e con essa la funzione di “produttrice di sicurezza” dell’impresa knightiana. Questa stessa chiave di lettura può applicarsi al rapporto tra editore e giornalisti free lance, a quello tra una qualsiasi organizzazione post-industriale e la rete dei suoi telelavoratori, e così via». Marzio Fatucchi © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Controller of the Universe Strumenti di lavoro vecchi e nuovi, filo di ferro, 2007 L’artista messicano, già vignettista politico, ha creato questa installazione fluttuante con gli utensili recuperati in vari mercati berlinesi
Damian Ortega
Uno scrittore, un incarico su commissione e una frase trovata nel vecchio pc Ecco come Joseph Conrad può dare una mano a riscoprire se stessi
Lavoro, quindi mi incontro di Vanni Santoni n giorno a uno scrittore venne chiesto di scrivere un racconto. Doveva essere un racconto sul lavoro — anzi, sulla bellezza del lavoro. Essendo il racconto da effettuarsi su commissione e su uno specifico tema, lo scrittore valutò che era esso stesso un «lavoro», per quanto, dopo tanti anni di pratica, fosse arrivato alla conclusione di Vonnegut secondo cui l’ispirazione era roba da dilettanti, e tutto quello che scriveva, anche quando non sapeva ancora a cosa sarebbe servito, era lavoro. Così, portata che ebbe la mente alle tante pagine che aveva scritto senza sapere ancora a cosa sarebbero servite, per prima cosa fece ciò che viene istintivo fare a tutti i lavoratori, ovvero cercare di lavorare meno, e nello specifico fece quello che fanno tutti gli scrittori quando gli viene chiesto un racconto su un determinato tema: controllò se nel cassetto, ovvero nella babele di cartelle e sottocartelle dove teneva riposti i testi di anni, ci fosse qualcosa di inedito che affrontasse, o almeno sfiorasse, il tema. Il primo documento che uscì era un brano su un sinda-
Il racconto
U
calista che durante una riunione si astraeva per la noia al punto di avere delle visioni. Scartato. Il secondo era un racconto che parlava sì di «fare un lavoro», ma si trattava di una rapina in banca. Scartato. Un brano di critica all’etica del lavoro in De Amicis... Nah. Dopo di quello, emerse un racconto su un pensionato che per riempire le giornate si iscriveva a un’agenzia interina-
le e tornava a lavorare con eccellenti risultati. Morale dubbia: i giovani non hanno più voglia di lavorare? I vecchi rubano il lavoro ai giovani? Nel dubbio meglio evitare. In effetti, pensò lo scrittore, il lavoro era un tema difficile. Bastava distrarsi un attimo e si finiva nella retorica, nella Repubblica fondata sul Lavoro, nella propaganda stacanovista, nell’Ora et labora di San Benedetto o nel Lieben und
arbeiten di Sigmund Freud — e da lì trovarsi nell’ignobile sarcasmo dell’Arbeit macht frei era un attimo... Come del resto era facilissimo anche fare della vana ironia: Oscar Wilde («Il lavoro è il rifugio di quelli che non hanno di meglio da fare») e Jerome K. Jerome («Mi piace il lavoro, mi affascina enormemente: potrei rimanere seduto per ore a guardare qualcuno lavorare») sono sempre in agguato. Lo scrittore non si rassegnò — aveva del resto fama lui stesso di stacanovista, capace di far mattina lavorando sui testi — e aprì ancora un documento: uscì il saggio di uno studioso di narrativa italiana contemporanea che parlava di un suo libro, in cui si elevava il precariato a condizione esistenziale. L’ovvio passo successivo fu andare a cercare brani rimasti fuori da quel libro. Ce n’erano, ma in essi, di celebrativo, c’era poco: il precariato non era forse la morte stessa del lavoro come produttore di nobiltà? Ansia e paura, è fin troppo chiaro, avviliscono, non elevano. Il nostro allora andò a prendere il suo precedente computer, lo collegò alla spina (era molto tempo che non veniva messo al lavoro e andava anzitutto ricaricato) e continuò la ricerca in quelle cartelle ancor
Profilo Vanni Santoni, scrittore e collaboratore del Corriere Fiorentino, è autore tra gli altri di Gli interessi in comune (Feltrinelli), Terra Ignota (Mondadori), Muro di casse (Laterza). Cura una collana di narrativa per le edizioni Tunué
più vetuste, fatte di pixel più grossi. Saltarono fuori diversi documenti, ma si trattava di qualcosa di inaspettato: vecchi appunti di quando lo scrittore faceva un altro mestiere. Curiosamente, essendo tale mestiere il formatore aziendale, si occupava in buona sostanza di insegnare alla gente a lavorare, e sorrise per l’ironia della circostanza. In una slide aveva riportato una frase dell’editore Michael Korda, che asseriva che ci si può considerare soddisfatti quando non si sa più se il lavoro che svolgiamo è veramente lavoro o è un gioco; in un’altra, ecco il Pirsig dello Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta a ricordare che «qualsiasi lavoro si svolga, se si trasforma in arte ciò che si sta facendo, scopriremo di essere divenuti per gli altri una persona interessante e non un oggetto». Lo scrittore ricordò di quando pronunciò queste frasi a un’aula di quadri e manager, alcuni attenti, i più annoiati o poco interessati, ed ebbe la sensazione di averle in realtà trascritte per il momento che stava vivendo. Le trascrisse di nuovo, perché si rese conto che scavando nel fondo di quelle cartelle dei suoi computer, non stava più cercando un modo per lavorare meno, ma stava lavorando. Di più. Stava dimostrando quello che affermava Conrad, e se poteva citarlo nel racconto che intanto aveva scritto, era perché la frase era contenuta in un’altra di quelle slide: che il bello del lavoro non è tanto il lavoro in sé, ma quel che contiene, ovvero la possibilità di incontrare se stessi. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Lunedì 30 Novembre 2015
Corriere Imprese