“Salvare e soccorrere: sinonimi o un dualismo da superare?”
Sono molto grato agli organizzatori del 6° congresso Nazionale degli operatori del sistema 118 per avermi chiesto di aprire i vostri lavori, ragionando con voi su due filosofie che possono stare alla base del vostro lavoro, una legata all’antica tradizione del soccorso, l’altra ad un più ambizioso progetto di “salvezza” da attuare come esito di metodiche e tecniche di intervento sempre più sofisticate. Per rispondere subito alla domanda che mi è stata posta, credo che i due termini non siano sinonimi, ma piuttosto indichino un possibile dualismo, una diversità di approccio, una caratterizzazione del vostro lavoro che può avere conseguenze significative se i due termini non vengono ricomposti. Non si tratta infatti, a mio avviso, di superare il dualismo, ma di portarlo a sintesi, facendo dialogare i due termini. La stessa storia del sistema del 118, se riconsiderata con occhio attento alle caratteristiche positive di quanto sinora si è fatto e alle lacune più evidenti che il sistema ancora presenta, porta a questa inevitabile conclusione. Il sistema del 118 è una realtà che si è imposta nel nostro Paese con la forza del bisogno, della necessità. E’ una storia che nasce dal basso, come molte delle cose che funzionano in Italia. E’ una storia fatta di organizzazione, di attrezzature, di norme e di leggi, ma prima ancora è storia di persone che hanno capito, che si sono spese con generosità e lungimiranza, con la capacità di spostare lo sguardo dal proprio interesse immediato, anche legittimo, per avere una vista più ampia, capace di abbracciare le esigenze e i bisogni dell’intera comunità e di proporre innovazioni organizzative, scientifiche, tecnologiche. Non è un caso che sia il sistema del 118 sia la Protezione Civile siano così strettamente legati ed interfacciati a tutti i livelli, da quello del singolo Comune a quello nazionale, in un rapporto di sinergia che trova nelle Regioni un punto di snodo fondamentale, non solo sotto il profilo della competenza costituzionale ma anche e soprattutto per gli aspetti operativi e di coordinamento da sviluppare ad una scala adeguata. E’ infatti l’esigenza di coordinare le risorse disponibili il motore che accomuna 118 e Protezione Civile alla loro origine. Detto così, coordinamento delle risorse disponibili, sembra quasi una ovvietà, ma se si guarda con attenzione alla storia dei due sistemi non si fatica molto a capire come quel semplice termine, “coordinamento”, presupponga sforzi e fatiche enormi per far incontrare realtà che, se non dinamicamente dedicate agli stessi obiettivi con buona sinergia, corrono il rischio di procedere in assoluta autonomia reciproca, perseguendo ognuna un suo specifico e particolare progetto di sviluppo. I sistemi come il vostro, o come quello della Protezione Civile, sono costruiti per affrontare la complessità, ma sono essi stessi “macchine” estremamente complesse, perché ogni soggetto del sistema non nasce per caso, o all’improvviso, ma si porta dietro una storia, un linguaggio, una gerarchia di valori, i simboli e i significati che danno senso alla sua azione. Far funzionare un sistema non è mai un semplice metter d’accordo qualcuno o distribuire compiti e ruoli: si tratta di far incontrare storie diverse, tradizioni, schemi di pensiero, stili collettivi e personali, aspirazioni, progetti e logiche che sovente, “prima” di essere considerate parte di uno stesso sistema, non avevano mai dialogato né si erano confrontate su obiettivi comuni. Il soccorso sanitario è presente nella nostra cultura da tempo immemorabile, che possiamo agevolmente far risalire alle tradizioni monastiche medievali, alle corporazioni e alle
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associazioni che dal medioevo hanno accompagnato la vita delle Repubbliche e dei Comuni italiani fino al Rinascimento, all’età moderna e alla storia contemporanea, in un intreccio di motivazioni ora religiose, ora ideologiche, ora umanitarie capaci però di tradursi sempre in azioni concrete a favore del prossimo. La storia del volontariato sanitario e del soccorso si è intrecciata nell’800 con la nascita della Croce Rossa, per poi confrontarsi nel secondo dopoguerra con le dinamiche dello stato sociale, del passaggio dalla mutualità al diritto alla salute, con la nascita del sistema sanitario nazionale prima e la sua riconsegna alla competenza regionale poi, sull’onda di un regionalismo che si è alimentato in questi ultimi anni sia di ragioni ideali molto antiche sia di interessi molto moderni del sistema politico. C’è un qualche parallelismo che si può notare nella crescita dei sistemi collettivi sui quali facciamo conto oggi: tutti hanno attraversato fasi di spontaneità, di iniziativa dal basso, per poi essere riconosciuti come “sistemi” necessari alla vita sociale della comunità nazionale, ed infine essere affidati, oggi, a contraddizioni e incoerenze “di sistema”, rese più evidenti dal diminuire della disponibilità di denaro pubblico, dalla cosiddetta crisi del welfare, dalla riprogettazione al risparmio delle risposte ai bisogni e ai diritti dei cittadini. Non sono tra i nostalgici delle strategie “nazionali”, del ritorno al centralismo statale o ministeriale, né in materia di sanità pubblica, né per altre questioni che riguardano il benessere, la sicurezza, la salute dei cittadini. Non giudico l’espansione delle competenze regionali un prezzo pagato in termini di efficienza, ma semmai un passo avanti in termini di crescita del senso di responsabilità, del sentirsi parte di un sistema, della consapevolezza che occorre comporre, armonizzare la diversità e non pretendere di abolirla. Questo principio vale, a mio parere, per le differenze tra territori, per le diversità culturali, per la diversa esposizione ai rischi, per ogni aspetto della nostra vita collettiva. Molte difficoltà che oggi incontriamo sono figlie della irresponsabilità, non della regionalizzazione, sono figlie della miopia, non della diversa autorità esercitata, sono frutto di interessi di breve periodo che hanno impedito agli interessi di tutti di avere risposte assestate su livelli accettabili, senza che abbia mai fatto alcuna differenza il fatto che questi interessi corti e limitati venissero esercitati a Roma o in un qualsiasi capoluogo di regione o di provincia. Anche il 118 è, come tutto il Paese, disegnato a macchia di leopardo: funziona benissimo in alcune realtà, non riesce a raggiungere la sufficienza in altre aree. E’ un dato che caratterizza la nostra storia nazionale, in ogni settore, da quello economico a quello dei servizi collettivi a quello della Protezione Civile a quello del governo del territorio. C’è un rischio implicito in questo modo che ci è consueto di disegnare il nostro Paese, che è quello di vedere soprattutto le macchie e non vedere più il leopardo. E’ un errore tragico di prospettiva, che alimenta il nostro masochistico desiderio di enfatizzare gli aspetti problematici e negativi della nostra storia contemporanea dimenticando che, in pochi anni, dal 1992 stando alle carte, dal 1995 stando ai fatti concreti, il nostro paese si è dotato di un sistema di pronto intervento sanitario che raggiunge non di rado livelli di straordinaria efficienza. Oggi sono possibili, e normali, interventi di soccorso impensabili solo pochi anni fa, esiste una rete di allertamento, un linguaggio comune, un livello di preparazione professionale degli operatori che solo pochi decenni fa potevamo solo sognare con la quasi certezza di non vederlo realizzato. I “mestieri”, le competenze e le professionalità di tutti coloro che operano nel sistema del 118 sono riconosciuti sulla base di profili largamente condivisi a livello nazionale ed anche internazionale. Gli strumenti e i mezzi attivi ogni giorno in tutt’Italia sono numerosi come in pochi altri Paesi al mondo, così come sono migliaia gli
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operatori - medici, specialisti, infermieri, autisti, piloti di elicottero, rianimatori, addetti alle centrali operative e ai sistemi di comunicazione – che ogni giorno, per ventiquattr’ore al giorno, tengono in funzione una rete di soccorso e di sicurezza che con discrezione accompagna la vita di tutti i cittadini italiani, assicurando loro con fatti concreti l’esercizio del diritto alla salute e al soccorso, garantendo così la possibilità di interventi efficaci ed efficienti rispetto alla loro salute. E’ evidente che, forse perchè il leopardo è in buona salute, alcune macchie si vedono di più, colpiscono di più, sono vissute come errori gravi da chi vive nel sistema e ne sperimenta ogni giorno i limiti. Così per molti di noi è spontaneo un moto di rabbia se scopriamo aree dove le ambulanze sono scarse, vecchie, spesso rotte; dove gli equipaggi e gli addetti sono sistematicamente sottodimensionati rispetto al bisogno; dove chi lavora si sente quasi ricattato dal dovere di rispondere comunque, in termini professionali corretti, anche in presenza di carenze di investimento e di spesa che coesistono con forme gravi di spreco. Così a molti di noi sembra inconcepibile e inaccettabile il divario che esiste tra ciò che le tecnologie moderne promettono e permettono e il nostro livello di operatività, che ci pare arretrato e basso. Oggi infatti sono disponibili sistemi di diagnosi informatizzati, protocolli di comunicazione che consentono di trasmettere dati ed immagini in tempo reale, programmi di elaborazione in grado di produrre in automatico banche dati preziose per il lavoro di chi è in prima linea, sistemi di collegamento tra le centrali operative e chi è sul terreno in grado praticamente di azzerare i ritardi, le duplicazioni, gli sforzi inutili e di ottimizzare le prestazioni, la loro velocità di esecuzione, la loro tempestività. Esistono poi, normalmente in commercio, strumenti di analisi e terapeutici “portatili”, trasportabili ed utilizzabili in prima linea senza far rimpiangere quelli di cui sono dotati i migliori presidi ospedalieri. Sono queste tecnologie che hanno reso possibile il progressivo rovesciamento della vecchia logica del soccorso, nella quale l’obiettivo era essenzialmente quello di trasportare il più rapidamente possibile la vittima in un luogo di cura, nella nuova logica che prevede che sia il luogo di cura ad avvicinarsi alla vittima, estendendo la gamma delle cure immediate che si possono praticare sul campo, almeno per stabilizzare chi poi dovrà comunque essere trasportato in ospedale. E’ evidente che tutto ciò che viene anticipato, intervenendo con personale specialistico e strumentazioni adeguate direttamente sul luogo di una emergenza o di un disastro, non è puro valore aggiunto, ma condizione necessaria per la prosecuzione dell’intervento in termini di efficacia e di velocizzazione delle terapie successive. E’ a questo livello, di fronte a queste realtà, che occorre comporre i due termini da cui siamo partiti, il salvare e il soccorrere, perché abbiamo bisogno di elementi che provengono da entrambe le scuole di pensiero per poter disegnare il nostro futuro senza snaturarlo. Il soccorso resta, a mio avviso, determinante nel fissare e rendere permanente e prioritario l’obiettivo di accorciare al massimo il tempo di qualsiasi intervento. E’ il tormento che accomuna gli operatori sanitari con tutta la Protezione Civile, da quando abbiamo imparato a valutare in concreto l’importanza della prima ora che passa dopo un qualsiasi disastro o catastrofe. Nessun intervento successivo per quanto sofisticato ed evoluto può produrre in termini di aiuto prestato quello che si può fare nella prima ora, e solo nella prima ora. Da questa lezione appresa sul terreno nascono tutte le possibili strategie per arrivare prima, abbreviare il tempo necessario ad essere presenti nello scenario operativo. Da questa esigenza nasce la dinamica della preparazione, dell’organizzazione, della pianificazione, della logistica d’avanguardia che spesso utilizziamo per distribuire presidi sul territorio che, sulla base di percorsi predefiniti, possano ridurre al minimo i tempi di ogni intervento.
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Dalla logica del “salvare”, invece, abbiamo imparato che il soccorso, oltre che efficiente, deve essere efficace, e per esserlo bisogna che sia effettuato da personale ben preparato e ben attrezzato. La diverse categorie di mezzi ed equipaggi si differenziano proprio in base al livello di preparazione professionale dei membri degli equipaggi e di dotazione strumentale a disposizione, superando il limite fisico dell’ambulanza per arrivare a mezzi attrezzati per particolari necessità, agli elicotteri e alle eliambulanze fino ai PMA, tenendo nel debito conto il fabbisogno organizzativo, finanziario e di personale che permette un utile impiego di questi strumenti. Credo che la sintesi necessaria tra i due termini che ho affrontato all’inizio consista nel tenere il cuore nel soccorso e l’intelligenza orientata a salvare la vita a quanti restano vittime di una catastrofe o, semplicemente, più spesso nella vita quotidiana, di un qualsiasi incidente. Il cuore, cioè le motivazioni, i valori per cui si lavora nel sistema del 118, come operatori o come volontari, deve alimentarsi alle fonti antiche, quelle stesse che hanno insegnato ad alcuni uomini a farsi carico dei bisogni di altri uomini, a fare attenzione all’altro, a dare disponibilità personale al servizio di chi si trova in condizioni di maggior bisogno. E’ l’etica del volontariato, delle nostre antiche associazioni, ma anche quella che anima e sostiene nella fatica quotidiana, altrimenti spesso insopportabile, chi ha scelto di operare nel sistema in termini professionali. Se la radice si disancora da queste fonti antiche nella storia e profonde nell’animo umano, si corre il rischio di non avere più parametri di giudizio e di scelta nell’azione, l’efficienza diventa un valore in sé, il soccorso diventa performance, il soccorritore finisce con l’occupare tutta la scena cancellando la presenza della vittima e il dialogo vitale con chi ha bisogno di aiuto. Senza radici, rischiamo di far imboccare anche al 118 il percorso disumanizzante di tanta parte dei nostri sistemi sanitari, in cui il “paziente” non è più un uomo con la sua storia, una donna o un bambino alla prese con il suo dramma ma un “caso clinico” da affrontare con rigorosa capacità diagnostica e terapeutica e null’altro. Il soccorso ci ha insegnato quanto sia determinante, anche nella prima ora, la presenza del soccorritore di fianco alla vittima, non “sopra”, non a prescindere: la presenza, la compagnia sono e restano in caso di emergenza la prima indispensabile terapia. Il soccorso dà concretezza immediata alla nostra azione, sottrae alibi alle realtà che ancora non hanno raggiunto un livello minimo di organizzazione e di capacità operativa: con ciò che esiste ed è disponibile oggi si può e si deve essere efficienti in tutto il Paese, rinunciando all’alibi delle nuove tecnologie e dei nuovi apparati per non risolvere oggi, subito, i problemi che esistono e che possono essere superati alla sola condizione di volerli davvero superare. Se invece il sistema si innamora della propria efficacia, del proprio potere di salvare, di portare salvezza, se l’intelligenza capace di mettere a frutto i risultati della scienza e della tecnologia che man mano vengono messi a punto si compiace di se stessa, rischiamo di dar vita ad una macchina perfettamente organizzata, capace di incorporare con straordinaria velocità ogni innovazione disponibile, ma incapace per sua natura di avere altri riferimenti nella realtà circostante. Ci troveremmo con operatori convinti che si possa sacrificare un po’ di tempo, magari veramente poco, per arrivare sul luogo delle operazioni con la migliore configurazione possibile di uomini e mezzi, strumenti diagnostici e terapeutici, sistemi di comunicazione di grande potenza. Dopo pochi passi su questo sentiero ci si trova strattonati e impediti dalle esigenze della macchina, che si impongono rispetto a tutte le altre: non si può perdere nessuna innovazione possibile, la mancanza dell’ultimo software, dell’ultimo marchingegno rende impossibile l’operatività, le risorse economiche sono sempre cronicamente insufficienti, le condizioni per poter operare diventano così ingombranti e pesanti da rallentare inevitabilmente ogni azione.
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Ben vengano le innovazioni, ne siamo affamati e abbiamo già dimostrato di saperle integrare nelle nostre procedure operative con grande rapidità, ma guai a chi si mette nelle condizioni di dipendere dalle forniture di qualcun altro per essere in condizione di muoversi velocemente. Preferisco un medico a mani nude che sia presente da subito sul luogo di un disastro che un sistema attrezzatissimo ma lento, che pretende di riprodurre sul luogo di una tragedia le stesse logiche, un po’ burocratizzate, e la stessa divisione del lavoro che si ritrova spesso nelle istituzioni ospedaliere, la stessa dinamica specialistica che tende a creare separazione e steccati tra competenze diverse, vissute come aree dove regna il monopolio di un sapere elitario. L’emergenza può e deve essere una specializzazione, ma chi ne fa la propria ragione di vita deve sapere fin dall’inizio che questa specializzazione non dà origine a categorie protette, premiate, trattate con l’attenzione e gli onori di una corporazione, antica o moderna che sia. La prima regola per chiunque operi nel sistema del 118, dalle posizioni di vertice al più giovane volontario, è quella di non separare mai, ma impegnarsi ad unire, di non dividere mai, ma imparare e insegnare a fare sistema, di non erigere barriere tra specialisti in campi diversi, ma creare ponti di apprendimento, di dialogo, di rispetto e capacità di comprender le esigenze di tutti gli altri operatori che compongono una squadra. Ciò riveste una valenza importante anche nei rapporti tra chi è impegnato al livello territoriale e coloro che operano all’interno delle strutture. Per questo sostengo che non c’è contraddizione tra il soccorso e l’obiettivo di salvare più vite possibile, sapendo bene, prima ancora che la Centrale Operativa ci informi di una qualsiasi necessità, che siamo responsabili non solo di mettere in campo tutto il nostro sapere e tutta la nostra capacità operativa, ma anche e soprattutto di mettere in campo noi stessi, che non saremo mai capaci di salvare se non per benedizione o fortuna, che non saremo mai abbastanza degni del nostro lavoro fatto a servizio di altri, che non potremo mai arrogarci il giudizio finale sul nostro operato, che non avremmo ragione di esistere ed essere qui insieme a discutere e studiare se non ci fossero persone che continuamente richiedono la nostra attenzione e il nostro aiuto e ci regalano, così facendo, gli aspetti più belli e più veri delle nostre vite. Buon lavoro.
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