Sommario Articoli
2
Rubriche
91
parlando di libri... L’ orso, un re decaduto
editoriale
40
Rinvenimenti Un proteiforme napoletano Stefano Tonietto
4
Come la vita si fa arte Abdelmalek Smari
14
Er Testamento de Meo del Cacchio
Sandro Disertori
24
Quando il libro è galeotto Diego Cescotti
30
51
il mestiere di scrivere Carmina non dant panem Gregory Alegi
54
conversazioni bibliofile Plagiomania Giuseppe Maria Gottardi
57
libro chiama libro Lettere e toga in Toscana David Cerri
60
Un “Petrarca” trentino
marginalia Pandette e Ars Notaria
Fabio Casna
Guido Falqui Massidda
IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
62
lo scaffale Vittorio Sereni Italo Bonassi
69
musicobibliofilia Euterpe all’ inferno Federica Fortunato
73
il furore del rock Morrison, Smith e Rimbaud Livio Bauer
83
e Il libro scende in campo
Francesca Garello
Palle volanti e manici di scopa
Anna Maria Ercilli
Il secolo delle folle Marcello Curci
100
il furore del cinema Kafka interpreta Kafka Catia Simone
103
andar per biblioteche Museo Storico della Guerra Davide Zendri
106
la biblioteca di... Renato Trinco Silvio Sega
108
notizie dal furore
Livia Alegi
Eventi del Furore Per la prima volta con la RdF
89
111
marginalia Tra cibo e letteratura Pasquale Tappa
l’ ultima pagina Alberto Bevilacqua Carlo Andreatta 1
Editoriale
N
umero 11. In quest’ anno 2014 il Furore dei Libri celebra il suo decimo anno di vita. Dieci anni di impegno per la diffuzione e la promozione della passione per i libri e l’ amore per la lettura. Dieci anni di idee, iniziative e progetti tra i quali mi piace ricordare alcuni dei più innovativi. A cominciare dalle tre edizioni della “Trilogia d’ estate” una scommessa che anche nei mesi “di vacanza” si potesse fare cultura portando temi nuovi, personaggi oltre le mode, momenti di aggregazione fino allora mai visti. Adesso, cambiati i tempi e le abitudini, la città riesce ad esser viva anche d’ estate; allora, nella piazzatta della Piramide della nostra Biblioteca civica, letture e performance invitavano ad un uso diverso degli spazi dei libri. E altri inviti proposti dal Furore sono stati accolti e diventati routine: dai gruppi di lettura alle presentazioni di libri e di autori, alle iniziative come la poesia nelle scuole e la mini-maratona di lettura interculturale. Ma è con il coinvolgimento degli autori della due giorni di Rovereto in giallonoir che parte l’ iniziativa Parole per strada, arrivata alla sua quinta edizione. Autori a Rovereto ne sono sempre venuti, ma spesso per presentare i loro libri o per colte dissertazioni. Con il Giallonoir sono arrivati a decine per un discorso collettivo sul mestiere di scrivere, per un confronto sulla creatività e sulla lettura con i più giovani. Un’ esperienza che ha lasciato il segno e ha spinto il Furore a ideare un concorso sui generis, del tutto innovativo per modalità di svolgimento, regolamento e premi finali. Che non c’ erano: solo la pubblicazione per tutti gli ammessi nell’ Antologia di Parole per strada e per i dieci selezionati, a pari merito, la stampa sui pannelli della Mostra esposta per un mese nel
2
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
viale del Polo culturale e museale di Rovereto. La mancanza di premi in denaro non ha ridotto il numero dei partecipanti, anzi, e col passare delle edizioni è aumentata la partecipazione di autori di altre lingue e di altre culture. Ancora una volta il Furore ha indicato una possibile e non difficile via verso l’ integrazione nel rispetto dell’ origine etnica: valorizzare i migranti premiando la loro creatività espressa nella lingua italiana valorizzandone però anche l’ espressione originaria. Vedere il sorriso e la commozione degli emigrati davanti ai pannelli o all’ antologia con i racconti nella loro lingua è sicuramente il miglior ringraziamento per tutte le fatiche che un’ iniziativa così complessa comporta. Con il 30 aprile 2014 il Furore dei Libri ha un nuovo presidente e un Consiglio direttivo totalmente rinnovato. Passando il testimone da una posizione che vede la nostra Associazione tra i primi posti nella nostra Provincia nella sua missione di promozione sociale della cultura, auguriamo a Giuseppe Gottardi nuovo presidente; Maria Grazia Masciadri vice presidente, Chiara Ribaga tesoriere; e ai consiglieri Fabio Casna, Marcello Curci, Bruno Zaffoni, con Gian Mario Baldi, membro di diritto, e Silvio Sega segretario, un proseguimento altrettanto ricco di impegni e di soddisfazioni.
MariaLuisa Mora
IMPORTANTE Se volete mantener viva questa Rivista, dedicate il vostro 5 per mille a Il Furore dei Libri c.f. 94030270220, vi eviterete il rimpianto/rimorso di non aver fatto abbastanza per la sua sopravvivenza.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
3
abdelmalek smari
Come la vita si fa arte
attraverso l’ibridazione o la sarcastica difesa del cavalier Marino
di Abdelmalek Smari
4
2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
come la vita si fa arte
Q
Nichts ist bloßer Name. Niente è solo un nome.
uesto contributo fa parte vita, che non abbia cioè un suo “rapdi un mio sforzo nel rifletpresentante fisiologico” in quel tere sulla scrittura e lo magma di viscere che sono il nostro scrittore. Riflessioni senza le quali vissuto. Persino la mente più lontauno scrittore non potrebbe a mio na da una bassezza del genere, quelavviso considerarsi tale. la che ha inventato gli alieni e che Non è quindi il fatto di trascenogni giorno ne inventa a migliaia Alfred Kolleritsch dere la realtà cruda del nostro vis"Poesia", n. 273, Lug-ago. 2012, p.46 ancora fra mostri e modelli strani, suto che fa di noi dei veri scrittori, non può sfuggire alla maledizione bensì è il ritorno continuo, giustamente, al magma dell’ antropomorfismo. E solo i ciechi o i bigotti ci cascadel nostro vissuto carnale e crudo, per attingerci la no! “Ma perché tutta questa polvere?” materia prima da elaborare e farne un’ opera artistica. Il problema che sollevo è un vero problema, primo Così la realtà da noi vissuta costituisce la matrice di perché esso esiste realmente. E due perché rischia di tutte le nostre impressioni intellegibili e sensibilmen- causare danni non indifferenti nella comunità degli arte comunicabili ai nostri simili attraverso un dato lin- tisti esordienti che hanno bisogno di rassicurazioni e di guaggio: scritturale o altro. Pensare che la parola fin- incoraggiamenti per liberare le loro energie e sconfigzione significhi la cancellazione totale dall’ opera di gere gli ostacoli della timidezza e dell’ inibizione. ogni traccia autobiografica del suo autore è una mera ire di un’ opera che è autobiografica è come finzione. dire che essa non è originale, irrilevante, Chi ci crede dà genuinamente per scontata la presunta, l’ irreale capacità umana, la cui esistenza è imquindi da cestinare. Daniele Comberiati2 possibile, d’ inventare le cose e le idee ex nihilo, men- dà un’ idea un po’ più chiara di quello a cui rimanda tre in realtà l’ autore fa leva sull’ esistenza di illimitate l’ espressione “elementi autobiografici” applicata agli possibilità di combinare le altrettante illimitate realtà scrittori immigranti o migranti, parafrasandolo: e gli infiniti rapporti che esistono tra di loro. Come un’ opera autobiografica è un genere ibrido, a cavallo diceva Vico citando Aristotele: “Nihil est in intellectu fra il reportage e la memoria. Essa consiste nella maggior parte dei casi nel narrare quin prius fuerit in sensu”1. Non è quindi il fatto di attribuirsi una natura so- le vicende dell’ abbandono del paese di origine, dell’ arvraumana – paradossalmente non umana – che fa di rivo, dei problemi di integrazione e di razzismo. Nell’ inserire elementi autobiografici all’ interno di una noi un creatore, un vero deus ex machina. Certo no, poiché non c’ è un elemento fra tutti gli ele- struttura narrativa che li nasconda e li amalgami con menti costitutivi di qualsiasi nostra opera che non sia altri di “pura finzione”. l’ ombra di un altro elemento appartenente alla nostra
D
1 - Edward Said, Nel segno dell’esilio – Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, Milano, 2008
il furore dei libri 2014 /11
2 - Daniele Comberiati, Destini incrociati 2. Scrivere nella lingua dell’altro – la letteratura degli immigrati in Italia, P.I.E. Peter Lang Editions scientifiques internationales, Bruxelles, 2010
5
abdelmalek smari
Le narrazioni appaiono però poco equilibrate per il fatto che gli elementi autobiografici rallentano il ritmo dell’ azione o la partecipazione e l’ interesse del lettore… Come questi pregiudizi inibitori ce ne saranno ancora tanti, se non altro perché la casta degli artisti autentici, per eccellenza (che fanno i canoni, il buono e il cattivo tempo nell’ Olimpo dell’ arte, proprietà privata loro), tende sempre a porre limiti ai nuovi arrivati non raccomandati dalla stessa casta o da gruppi non meno potenti e prestigiosi. Ma se una data opera soffre e “perde l’ equilibrio” a causa degli elementi autobiografici, cosa diremmo degli autoritratti di un Rembrandt o di un Van Gogh? Giudicanti di questo tipo diranno: ma lì quello che conta non è il fatto che i due pittori avessero voluto parlare di sé, autobiograficamente, ma attraverso l’ espressione, la tecnica, le pennellate, i colori, la luce e tante altre qualità degne di quei geni, loro toccano ed afferrano con la mano l’ essenza se non dell’ essere in assoluto, almeno di essi medesimi… Come potranno aggiungere varie razionalizzazioni… Eppure sono autoritratti!
ppure, per rimanere nel campo della letteratura, come qualificare l’ opera di Hemingway Les collines vertes de l’ Afrique dove l’ autore descrive giorno per giorno i quaranta giorni della sua presenza in un paese africano e le minime vicende di quel soggiorno? Un volgare e squilibrato scritto? Una semplice testimonianza o descrizione di caccia?
Si può dire di Hemingway che non era capace di estetizzare la morte – è davvero possibile per un essere umano estetizzarla, sublimarla? – ma dire che un Hemingway (sensibilità vigorosa, mente accesa e grande capacità d’ espressione) sarebbe stato incapace di trasformare qualche istante della propria vita reale (i suoi quaranta giorni di vita in Africa) in arte, è dire sciocchezze. Non un romanzo comunque? Eppure l’ autore stesso – che non era un povero scrittore vu’ cumprà, bensì un wasp e per giunta premio Nobel di letteratura! – afferma che quella sua opera è un romanzo con tutti i crismi del romanzo! Scrive egli stesso, citato da Edward W. Said nella sua esilio: opera Nel segno dell’ “La grande cosa è resistere e fare il nostro lavoro e vedere e udire e imparare e capire; e scrivere quando si sa qualco* sa; e non prima, e porco caBijan Jalali ne, non troppo dopo”3. Anche qui i giudicanti potrebbero replicare: “Ma non diciamo sciocchezze: lui era Hemingway, mica un vu’ cumprà!”. E avrebbero torto se ci facessero questo tipo d’ insensate obiezioni; perché le lettere dei libri di Hemingway, per parafrasare Borges, non si sono rimescolate e trasformate in una notte! E allora non è la presenza, comunque imprescindibile in ogni opera, degli elementi autobiografici che gambizza l’ opera, ma è il modo dell’ autore di relazionarsi con quegli elementi. Quindi, in un lavoro di critica di una data opera, non bisogna scandalizzarsi per la presenza degli elementi autobiografici, ma considerare semmai la presenza o
* da Le radici della poesia, in"Poesia", n. 273, Luglio-Agosto 2012.
3 - Edward Said, op. cit.
•
Dico di quel che vedo e ciò che vedo come acqua scorre nella mia poesia.
•
O 6
2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
come la vita si fa arte
meno di tale o tale altro elemento, considerare come viene combinato, se è adatto alla struttura narrativa, all’ argomento, al linguaggio e così via. Ma pretendere di cancellarne ogni traccia è una mera follia, poiché significherebbe cancellare semplicemente l’ opera stessa. Certo la fibra non è la corda, ma questa è fatta di quella. il parco di via livigno non è il parco di via livigno Se è vero che, come dice Edward Said, “nessuno scrive per se stesso”4, è altrettanto vero che nessuno lo può fare al suo posto, o dire in sua vece ciò che egli vorrebbe dire. Perché la parola è caratterizzata da una materialità speciale e non può essere parola se le manca un messaggio sociale da comunicare agli interlocutori, soprattutto essa non sarà mai parola se le manca la carica biografica di chi la idea o la esprime. Scrivere è usare le parole ed è una necessità umana che consiste sostanzialmente nella tendenza dell’ uomo a coprirsi/spogliarsi, procedere cioè alla Leonardo o alla Michelangelo.
L
dello scrivente. E senza quella carica biografica la scrittura non è possibile. E anche quando una terza persona legge lo scritto di un altro, essa non fa’ che interpretare le parole dell’ autore – che lui stesso non è, in fin dell’ analisi, che un interprete del proprio ed originale vissuto. Se ad esempio in uno scritto l’ autore parla del giardino di via Livigno a Milano, il lettore romano o algerese (che non ha mai conosciuto quel giardino) si immagina certo un giardino, ma un giardino che rimanda all’ immagine di uno spazio recinto, più o meno grande, con aiuole verdi imbiancate da qualche margherita, con qualche albero, qualche punto d’ acqua, delle panchine dove qualcuno legge un giornale o molesta il telefonino, magari un’ area giochi per bambini, un cane che cerca di afferrare al volo un bastone o una pallina… Ma mai il lettore romano o algerese sarà capace di ricoBijan Jalali (ibid.) noscere il parco di via Livigno se esso gli viene mostrato fra un gruppo di parchi. Non saranno capaci né l’ uno né l’ altro per il motivo che le parole che descrivono il parco – mentre attraversano i meandri della meccanica della comprensione e della percezione concettuale della realtà – devono avere un appiglio locale cioè personale, per poter avere un senso; devono essere quindi accettate non come creature ibride (cosa che sono per natura), ostili quindi e da cacciare, ma come parole familiari al senso e alla sensibilità del lettore. Perciò il giardino di via Livigno in sé non sarà mai per il romano o l’ algerese che uno schema generale che si applica a qualsiasi giardino.
•
Come specchio osservo e l’immagine del mondo ripeto per il mondo.
•
o scopo fondamentale ne è la voglia di divertirsi nel senso pascaliano, di distrarsi dall’ angoscia esistenziale e scioglierne le tensioni insopportabili, dare loro per lo meno un senso che le renda familiari o farsi una ragione della propria condizione. Se scrivere vuol dire questo, la sostanza della scrittura rimane dipendente completamente dal vissuto 4 - Edward Said, op. cit.
il furore dei libri 2014 /11
7
abdelmalek smari
Il loro giardino di via Livigno sarà un giardino creato dalla loro memoria a partire da elementi sparsi e completamente estranei alla vera realtà del parco milanese. Sappiamo che la memoria, più che una ri-presentazione di qualcosa, è l’ interpretazione di impressioni psichico-mentali costituite da reliquie e tracce superstiti di eventi e di immagini remote o recenti che, grazie ai meccanismi di refoulement, di spostamento e di condensazione identificati da Freud – e che esistono sicuramente tanti altri meccanismi psichico-fisico-mentali che l’ uomo ha inventato – al fine di intendere ed assumere il mondo e le cose e le creature del mondo. In questo senso la memoria non solo è un mare agitato e indaffarato, ma è anche in costituzione perenne, senza sosta né pace, perché è in pascolo perenne e si alimenta di qualsiasi materia o im-materia purché sia trasformabile in segno mentalmente assimilabile. “Per Vico” scrive E. Said (op. cit.) “il mondo degli uomini è come un testo e viceversa. Entrambi provengono dal corpo, in un atto di ispirata divinazione per cui oggetti inerti e tracce casuali diventano sistemi di segni; quando si perde l’ immediatezza sensibile, si guadagna in potere intellettuale ed estetico: Giove, come il grande testo sacro, diviene optimus e maximus”.
di rapportarsi con l’ opera e, en passant, quanto questa deve alla vita dell’ autore: “La critica ha ricevuto in dote dal modernismo la lotta per introdurre la materia dentro al linguaggio (…). E questo nonostante resti ovviamente compito del critico rifinire il lavoro, stabilendo cioè se la vita si sia fatta davvero arte [la sottolineatura è mia], quanto sia costato l’ ingegno tecnico ed estetico, quanto di ciò che è rimasto fuori possa essere ricordato o perlomeno percepito, e in quale linguaggio poetico lo si possa restituire”.
•
Arredare un loft che si chiama tempo Perché l’ arte aborrisce la crudità del mondo? Perché l’ artista è condannato al sublimare? Anzi perché ha eretto l’ astrazione della realtà ad una dimensione fondamentale dell’ arte? Il primo motivo è che l’ uomo, fattosi com’ è, cioè proteso all’ affrancarsi da ogni cosa * e a volte solo per l’ unico motivo di cambiare per cambiare, aborrisce a sua volta la ridondanza che, oltre a significare inerzia e quindi morte, gli fa perdere inutilmente tempo prezioso e tante energie che potrebbero servirgli meglio altrove per fare nuove esperienze di vita, nuove scoperte e nuove acquisizioni biologicamente e anche culturalmente significative. Secondariamente l’ uomo, per la sua costituzione biologica stessa, tende ad annoiarsi e nello stesso momento cerca di fare di tutto per cacciare via la noia dal suo essere, capace anche e pronto a rompere il bastone per poi cercare di risistemarlo ri-popolando così o, meglio, ri-arredando di nuovi spettacoli il tempo che inciampa e si svuota!
Eccoti a ‘scrivere’, e t’immagini inventare di toutes pièces, ma no: è ‘scrivere’ certo, ma non proprio!
•
U
n po’ più in là, nella stessa opera, e dopo aver presentato Richard Blackmur come uno fra i rari veri critici, Edward Said ne presenta il compito di critico letterario e il suo modo
* Assia Djebar, Nulle part dans la maison de mon père, Librairie Arthème Fayard, 2007
8
2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
come la vita si fa arte
L’
uomo non solo soffre la noia ma in più vede in essa una specie di non-accadimento degli eventi, di morte del tempo e quindi l’ inutilità della propria vita stessa. In terzo luogo egli non può accettare alcuna forma di oppressione e di repressione; è capace di scatenare disastri universali per rompere ogni catena anche se essa è fatta d’ oro. Scrivere, in questo caso, o fare arte sarebbe per l’ uomo l’ espressione civile di questa lotta spietata contro l’ oppressione che tende a soffocarlo e a cancellarne ogni traccia del suo passaggio. Il quarto motivo che induce a scrivere è che l’ anonimato è considerato un antivalore, è una morte della libertà non uscire alla luce del giorno e dire la propria sul mondo e soprattutto su se stesso e di non derogare mai a nessuno il minimo diritto di parlare a nome suo. Perché l’ altro è quasi sempre ostile a noi (come diceva Andreotti, fine conoscitore della psicologia umana: “A pensare male si fa peccato, ma ci si azzecca quasi sempre”) e in più perché qualsiasi sia la sua genialità, egli non sarà mai capace di indovinare ciò che soggettivamente noi siamo o sentiamo o percepiamo. Tutt’ al più egli riesce a prendere la propria immagine per noi stessi, quella stessa immagine sua riflessa nello specchio che noi costituiamo per lui e che, per confusione o per prepotenza, pensa che siamo noi! E lo pensa perché non sa o non vuol ammettere che c’ è della schizofrenia in quel modo di pretendere: ciò che egli pensa che l’ Altro sia non è che la proiezione di se stesso. Quindi vedendo una parte di sé sul bordo del suo essere, cioè nel nostro territorio, pensa che l’ altra parte siamo noi! Del resto noi saremo sempre, per l’ Altro, una specie di Ulisse e compagnia nelle viscere di un cavallo. Narciso, cioè l’ Altro, pensa che noi siamo proprio quel suo riflesso sul fondo scuro, insondato ed insondabile, in cui si mira. O dio, ci vuole anche quest’ altra illusione – forse la nostra stessa umanità non è una grande illusione? –
il furore dei libri 2014 /11
per placare il nostro fallimento nel comprendere in un modo “effettivo” il nostro vis-à-vis, cioè l’ Altro. Quindi tutto ciò che veniamo a sapere sugli altri è sempre condizionato da ciò che noi stessi siamo e da come lo siamo; cioè è sempre l’ ombra di noi stessi. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto come le nuvole si scompone e si ricompone in infiniti ed imprevedibili modi, dando luogo a strutture e forme inedite ed inaspettate.
E
a questo punto potremmo mai proporre cose che non abbiamo? Sarebbe allora il suicidio della nostra espressione! In Pierre Ménard, auteur du Quichotte, Borges dice che “Il testo di Cervantes e quello di Ménard sono verbalmente identici, ma il secondo è quasi infinitamente più ricco”. Così ci spiega che “Cervantes scrive banalmente nello spagnolo del suo tempo, mentre Ménard si dà a una ricreazione linguistica analoga a quella dei romanzi storici del Novecento, o citando due passaggi identici prima di mostrare come il contesto della loro scrittura li oppone in fatti l’ un all’ altro totalmente”5. André Gabastou – in Dossier du Magazine littéraire, giugno 2012 – non dice altro quando scrive di Borges che con quel breve racconto “pone il problema della ricezione dell’ opera letteraria: il lettore legge il testo letterario a partire dal suo essere al mondo, dalla sua esperienza e dal suo tempo”. Come dire che all’ autobiografismo non c’ è scampo alcuno, per nessun essere umano. Anzi, persino il lettore non capisce di un’ opera che ciò che ci avrà messo! E tanto peggio per quelli che hanno cercato di sradicare la “finzione” dalla sua matrice, l’ autobiografia, sfigurandola per poter parlare di una qualità sovrumana, divina, e attribuirsela poi e proclamare la propria divinità. Un’ altra condanna che ci costringe ad essere autobiografici per eccellenza è questa brama che abbiamo di mettere il nostro timbro personale/tribale per possedere 5 - http://fr.wikipedia.org/wiki/ Pierre_M%C3%A9nard,_auteur_du_Quichotte
9
abdelmalek smari
un territorio e marcarlo come proprietà privata nostra. Persino gli algerini, amanti pazzi delle macchine ma che non hanno avuto la fortuna di costruirle, sono ossessionati dalla brama di avere un loro marchio! Infatti si racconta che un gruppo di ingegneri si erano consultati per fabbricare una macchina: l’ inglese farà il vetro, l’ americano il motore, l’ italiano il salotto, il tedesco la carrozzeria, il francese la gomma, il giapponese il sistema elettronico… e il contributo dell’ algerino? L’ algerino si presenta con una targhetta su cui è scritto “Made in Algeria”!
A
nni fa un amico scrittore, ingenuo (?), più ossessionato di un ingegnere algerino, voleva ambientare un suo romanzo in un carcere ma non aveva trovato nessun modo per farlo bene se non – e lo pensava sul serio – quello di andare a rubare qualcosa, giusto il minimo perché gli si concedesse l’ ingresso a questo strano paradiso proibito! Questo amico manifestava così, spontaneamente, il suo bisogno d’ essere onesto intellettualmente, poiché non voleva parlare di cose che non sapeva. Un “discepolo” di Hemingway a sua insaputa! Abbiamo un altro interesse – per non dire limite ontologico – ad essere autobiografici comunque, se vogliamo davvero essere originali e quindi creativi: infatti abbiamo un bisogno vitale di rivelare noi stessi e svelare i misteri della nostra esistenza, per confrontarla con quelle degli altri, se non altro per rassicurarci che siamo bene in vita, che meritiamo di vivere, che possiamo essere interessanti per la nostra comunità e anche utilizzabili… Tenterò di rendere conto di questa specie di esibizionismo con quest’ altra barzelletta: si racconta che la modella Schiffer si è trovata superstite di un naufragio su un’ isola deserta con un muratore. Arrivati i tempi della rassegnazione all’ intimità, si sono concessi l’ uno all’ altra e sono diventati amici, amanti. Passato altro tempo, la modella percepisce una profonda tristezza nell’ uomo, “sarà preoccupato” si dice 10
lei “Lo sono anch’ io!”. Ma un giorno ecco che l’ uomo le chiede di cambiare il suo nome. Così Claudia si chiamerà d’ ora in poi Giuseppe! Un giorno, dopo un breve distacco, il muratore scorge Giuseppe da lontano e corre verso di lui. Dopo alcuni convenevoli gli dice: “Sai Giuseppe, amico mio, è da mesi che mi sto facendo la Schiffer!”.
S
enza pretendere di esaurire le condizioni e gli elementi che ci costringono ad essere creativi nella scrittura, ibridi quindi o viceversa, posso ancora citare la necessità che noi abbiamo di selezionare e scegliere gli elementi che sono atti ad esistere e quelli che possono aspettare o che non hanno il diritto all’ esistenza. Ibridare è infatti una dimensione fondamentale della nostra ominizzazione e non c’ è una produzione biologica o culturale che non sia il frutto delle infinite combinazioni possibili ma inimmaginabili fra gli altrettanti infiniti elementi di cui è costituita la nostra condizione d’ Esistenti.
L’ incompletezza del lavoro Per parte mia, rivedendo il manoscritto del mio romanzo L’ occidentalista, per l’ editore, come previsto dal contratto, ho dovuto modificare poche cose, ma qualcosa ho modificato comunque. Così è stato anche con la sua traduzione in francese: ho dovuto aggiungere alcune cose e sottrarne o riformularne altre. Ovviamente la sua identità caratteristica e sui generis è rimasta intatta. Ma ciò mi ha dato da pensare che più lo rileggo, più sento il bisogno di intervenire e di ritoccarlo. È normale: forse non vivo ogni giorno che passa altre nuove esperienze? “L’ opera – afferma Nicola Gardini in Poesia 250, Anno XXIII, giugno 2010 – qualunque opera è parte della vita. Non solo accade nel tempo ma è tempo: è bio-grafia, vita e scrittura insieme (non dò ovviamente, qui, al termine valenze contenutistiche). 2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
come la vita si fa arte
Un’ opera è la traccia più concreta e più evidente dell’ inestricabile compenetrazione tra tempo vissuto e creazione poetica. Scrivere è vivere, checché ne pensino i sempre più obsoleti assertori dell’ indipendenza dell’ arte”.
L’
opera procede e si alimenta della stessa vita dell’ autore e, per tanti “felici” autori, della vita dei critici, dei discepoli o seguaci, del pubblico insomma e dell’ interesse che l’ opera suscita nei posteri. La finitezza è come ogni evento umano un’ illusione, è solo relativa. Ed è forse per questo motivo che l’ autore continua la produzione di altre opere ancora, e non sembra preoccuparsi troppo della capacità o dell’ interesse del pubblico di leggere o consumare questo prodotto speciale. Le opere successive saranno allora una specie di ulteriori versioni del tema unico; ed è ovvio se si considera che la sensibilità dell’ autore alle prese col mondo, coi suoi simili e coi loro vari segni è costantemente irrequieta e perciò in perpetuo cambiamento. Annick Louis dice che “Secondo lui [Borges], l’ autore stesso non è un’ individualità autonoma e celata: egli – come l’ opera – una costruzione instabile, sempre suscettibile d’ essere ri-toccata o reinterpretata6”. E anche quando l’ autore non sarà più là per alimentare la sua opera, ci penseranno i posteri con le loro critiche ed interpretazioni.
E ciò costituisce in fin dei conti un palliativo contro la morte, ingiusta se è prematura, dell’ opera. Con queste varie versioni l’ autore sembra fornire al suo pubblico la stessa sostanza e la stessa pietanza non solo per risparmiargli la noia del déjà vu o di aggiornarlo e tenerlo informato dell’ evoluzione dell’ opera madre, ma anche e soprattutto per sfuggire lui stesso all’ oblio, all’ indifferenza o alla morte artistica tout court. Questo è il motivo per cui l’ autore ritorna sempre alla carica, riproponendo la sua opera sotto vesti nuove, e alla luce dei cambiamenti avvenuti nella sua vita, nel mondo e nei suoi rapporti col mondo. E penso che Sisifo non fa altro! Con questo suo “accanimento” l’ autore tende a dimostrare che egli esiste ancora e a rassicurare il pubblico che, col tempo, l’ opera non getterà la spugna.
•
Scrivere è vivere,
checché ne pensino
i sempre più obsoleti
assertori dell’ indipendenza dell’ arte.
•
6 - Dossier du Magazine Littéraire, giugno 2012.
il furore dei libri 2014 /11
È
forse questo che accade nel mondo del Nicola Giardini cinema o del teatro con le rassegne, i replay, i remake e le varie rivisitazioni delle opere del passato. E forse è anche ciò che accade quando erigiamo monumenti ai nostri cari illustri predecessori o quando li ricordiamo nei loro anniversari di vita o di morte o di nascita delle loro opere. “L’ Autore di Cent’ anni di solitudine” – dice il critico arabo Ibrahim Elariss – “si è comportato con il testo scritto su se stesso, come si è comportato con i suoi romanzi. Lui che non si stanca mai di dire, ogni volta che gli viene chiesto che non c’ è una cosa o un evento in ogni suo romanzo, che non abbia una radice nella vita reale. Tutto ciò che egli fa consiste nel prendere questa radice e 11
abdelmalek smari
ri-elaborarla nuovamente. Pare che così abbia fatto nelle sue memorie Vivere per raccontare…”. La presenza dell’ autobiografismo in un’ opera è come la presenza del corpo. Per parafrasare la scrittrice libanese Oulouiah Sob’ h, gli elementi autobiografici sono presenti in ogni narrazione – e, come dice Borges, la vita si vive per essere raccontata –: che noi ce ne accorgiamo o che li ignoriamo; che riconosciamo la loro esistenza o no. Come anche la loro assenza ce li indica o ci riconcilia con essi.
S
terario creativo, ma non tarda a connettere la sua letteratura alla sua personalità e dire quanto quello che lei scrive è in grado di esprimere lei stessa attraverso i personaggi femminili. […] E così lo studio letterario si trasforma in ricerca psicologica sul rapporto tra lo scrittore e i suoi eroi. Questo fu nuovo, in quel tempo, e suscitò un dibattito appassionante, e anche uno «sgomento» in alcuni scrittori che si erano scandalizzati per il fatto che qualcuno potesse dire che la loro letteratura era, in ultima analisi, una messa a nudo, non intenzionale”.
•
i dice che Arthur Conan Doyle aveva perso il manoscritto del suo primo romanzo, e fu preso dal terrore al pensiero che qualcuno potesse trovarlo e pubblicarlo. Ma come ora si sa, il padre di Sherlock Holmes ha riscritto gran parte di quel libro a memoria: si tratta di The Narrative of John Smith. Chi ha una certa familiarità con la vita dell’ autore e del suo lavoro, può dire che “John Smith” non è altro che l’ immaginazione di Conan Doyle, se stesso, come un uomo anziano! Quest’ opera è stata dunque doppiamente autobiografica: è una copia salvata, grazie alla memoria del suo autore, dall’ originale dell’ opera perduta. Inutile dire che se, invece del vero autore, fosse stata un’ altra persona a smarrire questo manoscritto – mettiamo, dopo averlo rubato o plagiato – questa falsa autrice non avrebbe mai avuto la possibilità di recuperare il materiale perduto. Perché giustamente l’ impostore non avrà in quel caso le chiavi della matrice. Ibrahim El Ariss (“El Hayat”, 18 febbraio 2012), dice: “Ad esempio quando Sainte-Beuve tratta la personalità di «Madame de Sévigné» egli insiste […] sul suo lato let-
Conclusione Blackmur citato da Edward Said, op. cit., dice: “La vera occupazione della letteratura, come del resto dell’ intero intelletto, critico o creativo, consiste nel ricordare a qualunque potere, per immediato o corrotto che sia, la turbolenza che deve controllare. C’ è un disordine, Edward Said vitale per l’ individuo, che è fatale per la società”. Infatti il problema di fondo è che la scrittura è in sé un vero e proprio potere. E siccome il potere è sempre conteso tra parti contrastanti e antagoniste e la turbolenza di una parte – individuo o minoranza – che è vitale per essa costituisce una minaccia per l’ altra – gruppo o maggioranza –, allora tutti i pretesti o gli strumenti sono buoni per respingere gli intrusi, stigmatizzandoli al fine di neutralizzarli ed escluderli dalla sfera del potere. La denominazione “letteratura della immigrazione” qui in Italia ne è il più palese esempio. È un sistema molto efficace di esclusione da un tale potere di scrittori veri e propri col pretesto fallace che nelle loro opere esistono elementi autobiografici, come se le opere di Dante o di Shakespeare ne mancassero!
C’ è un disordine,
vitale per l’ individuo, che è fatale
per la società.
•
12
2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
come la vita si fa arte
Ma per questi puristi intolleranti lo scopo è avere un alibi che consenta loro di evitare il ridicolo, quando ricattano questi intrusi per dissuaderli dal pretendere quel tipo di potere – la scrittura – che dovrebbe essere proprietà privata solo di quelli che decidono loro. Sì, si tratta di un ricatto vero e proprio poiché la casta – o questa categoria privilegiata che si pone e s’ impone come guardiana del tempio dell’ arte – li mette dinanzi ad una specie di aut aut scandaloso, insostenibile e paradossale, anzi letale per loro come scrittori: o rinunciate alla vostra vita, che è poi la matrice di tutte le creazioni possibili, e svuotate le vostre opere da ogni elemento biografico e vi consideriamo come scrittori, oppure mantenete pure i vostri stracci addosso ma non pretendete che vi accettiamo fra di noi, nel nostro olimpo. Questi ricattatori sanno benissimo che se gli intrusi rispondono al loro diktat, sarà un segno della loro morte e il potere sarà salvo e rimarrà nelle mani della casta. I ribelli, quanto a loro, saranno lo stesso penalizzati – poiché saranno condannati all’ indifferenza e quindi spogliati di ogni forma di potere – ma intanto hanno mantenuto la loro autentica scrittura senza vendersi o appiattirsi. In conclusione, tutti gli elementi e tutta la materia di cui si costituisce la nostra vita sono il nostro unico modo di investire il mondo e le sue creature di carne o di simboli.
il furore dei libri 2014 /11
Solo che ognuno ne fa ed è libero di farne ciò che vuole e ciò che può. Così più siamo autobiografici più siamo autentici e originali.
N
on è a questo punto tanto la tecnica di narrazione che conta quanto il fatto stesso di narrare, come farlo e quali elementi usare e in quali dosi e proporzioni, con quale lingua, per quale pubblico, di quale epoca… La genialità di un “creatore”, nella sfera delle idee e delle sensibilità o estetica, consiste quindi in questo ritorno continuo tra le macerie che la vita grezza si accontenta di accumulare per cercare di cavarne o mettervi un po’ di senso estetizzandole. “Chi”– si chiede Edward Said (op.cit.) – se non Dante, che era stato bandito da Firenze, avrebbe potuto usare l’ eternità come luogo in cui regolare vecchi conti in sospeso?”. Da parte sua, il Cavalier Marino cerca di rassicurare “codesti ladroncelli che nel mare dove io pesco e dove io trafico essi non vengono a navigare, né mi sapranno ritrovar addosso la preda, s’ io stesso non la rivelo”. Questa è la sarcastica difesa del Cavalier Marino davanti all’ accusa di “rubare” in zone della tradizione scarsamente frequentate.❧
Abdelmalek Smari
13
abdelmalek smari
Er Testamento de Meo del Cacchio
di Sandro Disertori 14
2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
er testamento de meo del cacchio
I
l titolo che ho scelto per questo breve saggio sulla poesia dialettale romana degli ultimi centocinquant’ anni è quello di una famosa favola in versi di Trilussa, ovviamente in romanesco. Scritta negli anni del cosiddetto consenso, solo quanti abbiano oggi la mia veneranda età, o pressappoco, sono in grado di capire veramente, nella sorniona ed allusiva ironia di molti dei suoi versi, quanto modesto fosse il tanto decantato consenso di quegli anni, quanto meno nella mente di Trilussa. Prima però di entrare direttamente in argomento ritengo sia indispensabile, per poter essere veramente capito, che io ne anticipi il relativo testo: Oggi li ventinove de febbraro der millenovecento trentasette, doppo bevute dodici fojette assieme ar dottor P., reggio notaro, benché non sia sicuro de me stesso dispongo e stabbilisco quanto appresso.
Lascio er pudore de li tempi antichi a un vecchio professore moralista che per coprì la porcherie più in vista spojava tutti l’ alberi de fichi, ma a la fine, rimasto senza foje, lasciò scoperte quelle de la moje.
Io sottoscritto, Meo del Cacchio, lascio li vizzi e l’ abbitudini cattive a mi’ nipote Oreste che, se vive n’ ha da fa’ , come me, d’ ogni erba un fascio; se invece more passo l’ incombenza a un istituto di beneficenza.
Lascio a Mimì le pene che provai quando me venne a da’ lurtimo addio: M’ hai troppo compromessa, cocco mio… Qua bisogna finilla, capirai… Pippo sa tutto… nun è più prudente… (E invece Pippo nun sapeva niente!)
Lascio a l’ Umanità, senza speranza, quer tanto de buon senso e de criterio che m’ ha ajutato a nun pijà sur serio chi un giorno predicò la Fratellanza, eppoi, fatti li conti a tavolino, condannò Abele e libberò Caino.
A l’ avvocato coda, perché impari a vive co’ a massima prudenza, je lascio quela “crisi de coscienza” che serve spesso a sistemà l’ affari e a mette ne lo stesso beverone la convenienza co’ la convinzione.
Lascio un consijo a Zeppo il cameriere, che se lamenta d’ esse trovatello, de nun cercà se er padre è questo o quello ma cerchi de fa’ sempre er su’ dovere pe’ rende conto solamente a Dio s’ è fijo d’ un cristiano o d’ un giudio.
A Mario P., che doppo er concordato nun attacca più moccoli e va in chiesa, je lascerò, sia detto senza offesa, er sospetto che ciabbia cojonato e fosse più sincero ne li tempi quando ce dava li cattivi esempi.
il furore dei libri 2014 /11
15
sandro disertori
Lego ar portiere mio, ch’ è sordomuto, la libbertà de di’ come la pensa e a Giovannino l’ oste, in ricompensa de tutto er vino che me so’ bevuto, je legherò le verità sincere rimaste in fonno all’ urtimo bicchiere.
Lascio a l’ amichi li castelli in aria ch’ ho fabbricato ne la stratosfera, dove ciagnedi in volo quela sera con una principessa immagginaria e feci un atterraggio de fortuna in mezzo a la risata de la luna.
Lascio a Zi’ Pietro un po’ de dignità che cià perfino la gattina mia che appena ha fatto quarche porcheria la copre co’ la terra e se ne va, mentre Zi’ Pietro, invece de coprilla, ce passò sopra e fabbricò una villa.
E a mi’ cuggino Arturo, che nun bada Che a le patacche de la vanagloria, lascio l’ augurio de piantà la boria pe’ vive in pace e seguità la strada senza bisogno de nessun pennacchio, ma sempre a testa ritta!
F
u un amico romano di buone letture, Enzo De Bernart, tenente di Fanteria di scarsissima malleabilità politica quindi spesso nei guai, fragile di salute ma granitico di spirito, ad introdurmi, molti anni fa, quasi di forza nel mondo tutto speciale della poesia romanesca di Gioacchino Belli (1791-1863), primo in ordine di tempo, di Cesare Pascarella (1858-1940) e di Carlo Alberto Salustri, detto Trilussa (1871-1950). Il tempo a nostra disposizione per librare a mente libera nella letteratura vista in senso lato, con la inimitabile libertà dei passeri, in pratica non aveva limiti. Si trovava per contro in assoluto stato fallimentare quella fisica, brutalmente azzerata da una repellente, mostruosa barriera di filo di ferro spinato che, in quei siti, avvolgeva allora ad angolo giro noi e altri innumerevoli nostri simili. De Bernart è un personaggio che ha avuto grande influsso sulla mia evoluzione culturale. Ad esempio è colui che ha finito per convincermi, fra tante altre cose, come l’ arte e, in particolare, ogni altra opera di genio possano essere considerate tali non per il materiale usato per realizzarle, come la carta, il marmo, la creta, il ghiaccio, la rena o i metalli, non importa se poveri o 16
preziosi e altro ancora, ma per il messaggio spirituale e l’ intensità delle emozioni che esse riescano a scatenare dentro di noi. Tanto meno lo sono, quindi, solo per gli strumenti usati quali il pennello, il bulino, lo scalpello, la matita, una stecca di gesso, una penna d’ oca e, nello specialissimo campo della musica, la cetra, la lira, la spinetta, il pianoforte, un violino Stradivari o quello di un violinista strimpellatore da marciapiede non importa, e l’ avena, il piccolo flauto dei pastori che, secondo Virgilio, usava Titiro all’ ombra di fronzuti faggi. Soprattutto non lo sono per la lingua o il dialetto praticati. Da soli essi non possono produrre automaticamente un’ opera d’ arte, pertanto non il greco o il sanscrito, non il latino maccheronico di Merlin Cocai o il romanesco di Trilussa e neppure il gallese, il francese e il dialetto napoletano di Edoardo De Filippo. Dunque, in generale, sono autentiche opere d’ arte o di genio solo quelle mediante le quali l’ uomo sappia far esaltare in noi forti e ripetitive emozioni, non importa come, quando e con quale mezzo. Quindi non sto affatto cercando di esaltare magari l’ importanza del dialetto nella letteratura e, ancor meno, di mettere, ad esempio, sullo stesso piano culturale 2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
er testamento de meo del cacchio
il tenero e bonario testamento di Meo del Cacchio e quello ineffabile e senza possibilità di confronti di François Villon, a mio avviso il più grande poeta francese di tutti i tempi, anche se considerato da tutti, come il Caravaggio, artista maledetto.
T
rilussa scriveva in dialetto ma questo non gli ha certo impedito di centrare magistralmente, ad ampio respiro e con bonaria condiscendenza, una dopo l’ altra quasi tutte le debolezze di noi persone comuni nelle dodici sestine oltremodo musicali del citato Testamento. Sono sicuro tuttavia che l’ alto senso del ridicolo del quale Trilussa era intriso, scandalizzato avrebbe impedito a chiunque di paragonarlo, anche solo per scherzo, anche lontanamente a François Villon. Quando l’ amico De Bernart mi recitò a memoria per la prima volta il Testamento di Meo del Cacchio, molte delle sottili preziosità dei suoi versi mi erano sfuggite. Solo in seguito fui in grado di captarne e di goderne lo spirito che lo caratterizzava e, soprattutto, di apprezzare la Weltanschauung di Trilussa, in altre parole, il suo pensiero di uomo mentalmente libero come l’ aria e la sua solida vocazione democratica. Non dobbiamo dimenticare che quella sorta di favola moderna era stata scritta nel pieno degli anni ’ 30 e come quella vocazione fosse stata tanto genuina e comprovata da essere nominato senatore a vita, poco dopo la guerra, dal presidente della Repubblica Einaudi. De Bernart, lui stesso ‘romano de Roma’ , dei tre poeti romaneschi preferiva nell’ ordine, Trilussa, Pascarella e, molto meno, il Belli malgrado i suoi 2200 famosi sonetti. Era destino che avrei poi fatta acriticamente mia questa sua preferenza, magari in parte giustificabile per un vero romano come De Bernart, ma certo poco logica per un atesino come me. Forse, a parte una possibile diversità di gusti è anche vero il fatto che, nel corso dell’ anno, spesso ci imbattiamo, per una ragione o per l’ altra in battute, in sentenze o in scorci colmi di ironia sul nostro quotidiano di Pascarella, e soprattutto di Trilussa, mai di Belli. il furore dei libri 2014 /11
È passato molto tempo e potrebbe anche darsi che abbia perso la esatta nozione delle sequenze con le quali l’ amico mi aveva fatto conoscere i suoi poeti preferiti, in ogni caso, data la nostra situazione tutta speciale, sicuramente in modo abbastanza anarchico. Infatti lui mescolava spesso, nella foga, versi e perfino interi sonetti di Trilussa e di Pascarella, ma mai di Gioacchino Belli, del quale affermava di non ricordare un solo verso a memoria. Solo dopo il mio ritorno a casa, già ben catechizzato dall’ amico, questa volta testi alla mano, ho potuto conoscerli ed apprezzarli fino in fondo. Egli mi era solito recitare, a rifiuto di orecchio, il testamento di Meo del Cacchio in perfetto accento romanesco. Ricordo che lo faceva anche con un’ altra favoletta di Trilussa, della quale mi aveva colpito la morale conclusiva. Purtroppo, in Italia non sarei mai più riuscito a ritrovarla, neppure nelle edizioni meno conosciute. Penso che il suo titolo potrebbe essere, ad esempio, la ‘Perla della Regina’ o giù di lì. È la storia di un Re il quale invita un importante personaggio straniero a palazzo, a colazione. La stessa regina prepara una grande torta per l’ ospite. Purtroppo, e se ne accorge troppo tardi, la perla nera della sua corona, durante la preparazione cade nell’ impasto. Più tardi vengono messi al corrente dell’ incidente tutti gli invitati. La mattina dopo l’ augusto ospite d’ onore fa riavere alla regina, con graziosa delicatezza, la perla. Ecco la morale di Trilussa, che ricordo ancora con esattezza: Per ridà le perle a ‘na corona, qualunque strada è bbona.
H
o poi scoperto un’ altra sua indovinata frecciata politica controcorrente, in fondo abbastanza esplicita, la quale conferma la sua posizione morale nei riguardi del Ventennio e ha per titolo All’ ombra: Mentre me leggo er solito giornale spaparacchiato all’ ombra d’ un pajaro vedo un porco e je dico: -Addio maiale!-; 17
sandro disertori
vedo un ciuccio e je dico: -Addio somaro!-. Forse ‘ste bestie nun me capiranno, ma provo armeno la soddisfazzione de potè di’ le cose come stanno senza paura de finì in priggione. Trilussa faceva parlare pure gli animali. Chiunque oggi lo legga, non può non correre subito col pensiero a Esopo, a Fedro e al francese La Fontaine. Trilussa, a suo modo, mi ha aiutato perfino a superare alcune crisi personali di sconforto, solo per il suo modo spiritoso di raccontare i fatti belli o brutti che siano ed, anche i più tristi, riuscendo a sdrammatizzarli con la speranza e l’ ottimismo.
Q
uando De Bernart cominciò a parlarmi, sempre con il suo solito entusiasmo, di Pascarella e del suo capolavoro La Scoperta de l’ America, mi resi subito conto di essere davanti ad un qualcosa degno di essere conosciuto sul serio. Tuttavia, senza il supporto del testo scritto (fra l’ altro De Bernart, del poemetto di Pascarella aveva immagazzinato a memoria sì e no il 10% dei 700 versi che lo compongono). Solamente dopo la guerra potei conoscerli tutti, col massimo godimento. Sulle prime però l’ unica cosa che l’ amico era riuscito a fare allora, fu di farmi conoscere un ulteriore 18
Enzo De Bernart
V
isto che Enzo De Bernart potrebbe essere considerato di diritto il padrino di questo mio scritto, immagino sia utile conoscere un po’ più addentro quale tenera figura di uomo egli sia stato, soprattutto per essere poi nelle condizioni di capire lo spirito, l’ambiente e le vicende nei quali questo saggio si è mosso. Di famiglia medio borghese piuttosto conservatrice, tuttavia attenta al presente, un po’ più che trentenne e laureato in Lettere, egli viveva con la madre vedova e la sorella a Roma, dove era nato. Catturato dai tedeschi a Spalato dopo l’armistizio del ’43, transitando in Polonia da un Lager all’altro, era sbarcato alla fine a Wietzendorf nell’Oflag 83 ed assegnato al blocco, nel quale cercava di sopravvivere un consistente gruppo di ufficiali alpini trentini, cui appartenevo io stesso. Pieno di infantile ammirazione per la nostra discreta salute, se confrontata con la sua, ma soprattutto per il nostro comportamento assolutamente fasullo di miles gloriosi da strapazzo, egli ci chiese timidamente di poter far parte del nostro clan. Scoprimmo subito quale fosse la sua più grande qualità umana: il genuino piacere per il bene altrui, logicamente nulla aveva a che fare con l’invidia. Perfino le nostre canzoni alpine ripetute fino all’esaurimento d’ugola dimostravano, secondo lui, la forza e il nostro coraggio. Era tuttavia chiaro come lui non immaginasse che la notte, avvolti in una sudicia coperta, anche noi eravamo e ci sentivamo dei naufraghi senza speranza, esattamente come lo era lui e i molti altri che, per contro, si professavano tali, lamentandosene in continuazione. Il fatto che io amassi, oltre che la musica e lo sport anche la letteratura nella quale egli si sentiva piuttosto forte, lo aveva subito sedotto, vedendo in me una sorta di simbolo della forza fisica e morale. Vani i miei maldestri tentativi di disilluderlo! Negli ultimi mesi di prigionia Enzo era talmente deperito e indebolito da temere per la propria vita. Da sempre fiero oppositore ad ogni sorta di collaborazione con i nazisti, impaurito a morte egli fece domanda di andare a lavorare. Lo fece però solo dopo aver chiesto il nostro parere che fu quello ovvio, date le sue condizioni fisiche al limite del collasso, del suo diritto a farlo.
2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
er testamento de meo del cacchio
Non so cosa mi avesse preso, ma quella sera misi sul suo giaciglio le due patate giornaliere che in quei giorni erano ancora la razione di nostra spettanza. Lui le mangiò senza dire una parola, rannicchiandosi poco dopo, in posizione fetale, nel proprio giaciglio. Non so come passò la notte, ma la mia fu di sicuro una delle più dure della mia vita. Le due patate si erano trasformate oltre che in un incubo, anche in una indescrivibile sofferenza fisica. La mattina, subito dopo l’appello, egli di sorpresa e senza dire una parola, ritirò la propria domanda di collaborazione e venendomi incontro, mi disse ad alta voce: “Sandro, hai vinto tu”. Io invece non avevo vinto un bel niente perché era stato lui, solo lui, ad averlo fatto e proprio su di sé. Ritornò ad essere quello di prima. Non parlammo mai di quella vicenda e lui superò, senza tentennamenti, quella sua cocente debolezza momentanea. Ho copiato la frase “Sandro, hai vinto tu” direttamente dal suo libro Nein sulle sue peripezie militari e sul suo incontro con i trentini, da lui ritenuto, bontà sua, così decisivo per la propria maturazione. Quel volume, nella seconda edizione, ha un altro titolo altrettanto molto allusivo: Italiani e patate. Siamo rimasti entrambi in stretto contatto fino alla sua prematura morte. Lui sposò Miriam, la figlia del capo rabbino di Roma e la sorella dell’attore Gianrico Tedeschi, anche lui ospite di Wietzendorf. Ricordo quest’ultimo negli Spettri, recitati nel teatro-baracca del Lager, nel ruolo di Osvaldo e la sua drammatica invocazione “Mamma dammi il sole”, e ne L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello. La mamma di Osvaldo, fra l’altro, era recitata magistralmente dal baritono avvocato trentino Fuganti, senza alcun problema per noi spettatori: da mesi avevamo dimenticato che esistesse anche la voce femminile. Chissà perché, ma quando penso ad Enzo De Bernart mi viene in mente l’If di Kipling quando afferma: Se sai forzare cuore, nervi e tendini dritti allo scopo ben oltre la stanchezza, e tener duro, quando nient’altro esista, tranne il comando della Volontà, … Il mondo è tuo, con tutto ciò che ha dentro, e, ancor più, figlio mio, sei Uomo!
il furore dei libri 2014 /11
aspetto fondamentale dell’ opera di Pascarella, vale a dire: oltre che una straordinaria vis comica, una tagliente vis tragica. Trascrivo l’ unica poesia che De Bernart conoscesse a memoria, che già a quei tempi me lo aveva confermato. È un sonetto dal titolo li Pajacci, che recita: Si me so’ travato, sor Gaetano? Quanno vennero giù stavo lì sotto. Faceveno er trapeso americano: Quanno quello più basso e tracagnotto, Facenno er mulinello, piano piano, Se mèsse sur trapeso a bocca sotto, Areggenno er compagno co’ le mano. Mentre stamio a guarda’ , [tutt’ in un botto Se rompe er filo del la canoffiena, Punfe! Cascorno giù come du’ stracci. Che scena, sor Gaetano mio, che scena! Li portorno via morti, poveracci! Sur sangue ce buttorno un po’ de rena, E poi vennero fôra li pajacci.
A
me sembra che il tocco finale di questo sonetto, oltre che profondamente crudele e pessimistico, sia scioccante soprattutto per la sua assoluta imprevedibilità. A casa, il mio grande desiderio di andare più a fondo nella poesia di Pascarella, fu dovuto più a questo sonetto che ai cinquanta che compongono la Scoperta de l’ America, che purtroppo avevo cominciato a conoscere solo a spizzichi. Anche la memoria di De Bernart, per ipertrofica che potesse sembrarmi a quei tempi, aveva i suoi bravi limiti umani. 19
sandro disertori
Vi sono anche altri aspetti assai singolari di questo poemetto vagamente epico, da non dimenticare. Sono anzitutto lo scenario assolutamente inedito nel quale Pascarella l’ ha impostata, quindi la scelta dei modi e del momento con i quali egli ha poi sviluppato il proprio racconto. Si tratta di un gruppo di amici che fanno bisboccia in un’ osteria. Uno di essi, lo stesso Pascarella ovviamente, racconta fra un bicchiere e l’ altro, con un brio carico di incessante humour, la straordinaria storia di Colombo e del suo celebre viaggio esplorativo oltre le colonne d’ Ercole. Devo dire tuttavia come non sia solo tale impostazione che la renda unica, ma il fatto che la linea storica dell’ avvenimento, anche se colma di popolaresca ironia, sia stata mantenuta in modo rigoroso e i relativi commenti, quasi sempre assai pertinenti. Devo anche premettere un altro doveroso commento. Il dialetto di Pascarella di fatto è molto popolaresco, perfino pesante e forse di proposito, ma spesso è più suggestivo di quello di Trilussa, che invece è piuttosto ripulito, più fresco e meno naturale, perché leggermente italianizzato come lo sono, del resto, anche quello napoletano di De Filippo ed il veneziano di Goldoni. Già i primi versi, con i quali il protagonista inizia il proprio racconto, confermano questa impostazione: Ma prima assai che lui l’ avesse trovo, Ma sai da quanto tempo lo sapeva, Che ar mondo c’ era pure er monno novo. Fu solo dopo il giochetto del famoso uovo, detto di Colombo, che la gente aveva cominciato a crederci anch’ essa. Colombo stava da tempo alla vana ricerca di un finanziamento col quale poter dimostrare, proprio sul mare, l’ esattezza dei propri convincimenti sulla rotondità del pianeta: Ma ar solito a ‘sto porco de paese, se vòrse trovà’ l’ appoggio pe’ le spese De la scoperta, je toccò a annà’ fôra. 20
Egli decise pertanto di andare direttamente dal re. Allora, secondo Pascarella, regnava un re de Spagna portoghese. Questi, incerto sul da farsi, si accontentò di fargli qualche vaga promessa, vanificandola però subito dopo tirandola per le lunghe con richieste a catena di documenti e, alla fine, mettendolo nelle mani dei suoi ministri: E i ministri de qualunque stato So’ stati tutti de ‘na setta. Irre orre, te porteno in barchetta, e te fanno contento e cojonato. Lui parlava? Ma manco lo sentiveno; E più lui s’ ammazzava pe’ scoprilla, E più quell’ antri ja la ricopriveno. La voleva pianta’ , ma poi decise di fare un’ ultima mossa. Si recò dalla regina raccontandole delle proprie peripezie e delle delusioni sofferte: Fece lei, - lei che vo’ ? - Tre navicelli. - E ognuno, putacaso, quanto granne? - Eh, - fece lui, - sur genere de quelli Che porteno el marsala a Ripa granne. Va bene, - fece lei, - vi sia concesso. E lui, sortito appena dal palazzo Prese l’ òmini, sciòrse le catene, E agnede in arto mare come un razzo.
S
arei impertinente se pensassi di saper riassumere come si conviene lo spirito, l’ epos, lo humour, i reiterati dubbi dei protagonisti e la caparbietà di Colombo che hanno caratterizzato il viaggio avventuroso dei tre navicelli dati dalla regina, attraverso l’ Atlantico. Mi accontenterò quindi di ricordare solo alcuni dei versi più significativi che invoglino, se non altro, a leggere in seguito, anche tutti gli altri. Passarono i giorni, alcuni molto belli, altri assai brutti e passò un mese. La navigazione continuava e’ gni giorno era come er giorno appresso. Gli uomini cominciavano a dubitare delle certezze del Comandante finché, molto preoccu2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
er testamento de meo del cacchio
pati, decisero di imporgli in modo perentorio di invertire la rotta: Già, speramo che lei si sia persuasa; Si no, dice, non facci’ comprimenti, Vadi pure… Ma noi tornamo a casa. Egli però, che era divenuto, da molti segni molto chiari, ancora più sicuro di essere prossimo al successo, chiese ed ottenne dai suoi uomini di poter proseguire ancora per due giorni, promettendo tuttavia: E poi si proprio proprio nun c’ è gnente Se ritrocede indietro tutti quanti. Due giorni dopo, il miracolo: Defatti come venne la mattina, Terra Terra!… Percristo!… E tutti quanti Rideveno, piagneveno, zompaveno Terra Terra!… Percristo!… Avanti… Avanti! E lì, a li gran pericoli passati Chi ce pensava più? S’ abbracciaveno, Se baciaveno… E c’ ereno arrivati!
S
iamo a metà dell’ opera, cioè al venticinquesimo sonetto, perché tanti ne sono occorsi per completarlo, con la quale si conclude il racconto del viaggio avventuroso di andata verso le nuove terre di Colombo. La seconda ed ultima parte della Scoperta, forse la più brillante e farsesca, seppur con un finale pieno di amarezza, per Pascarella peraltro la più adatta alla satira e all’ ironia, si dilunga sulla presa di contatto con i nativi, con il territorio stesso e le sue immense ricchezze, fornendo moltissimi episodi e spunti umani, assolutamente divertenti. Poi arrivano le prime inevitabili prepotenze, tipiche dei colonizzatori, gli screzi sempre più frequenti con gli abitanti ed infine anche il sorgere dell’ eterno problema delle donne altrui, con forzato ritorno, a tamburo battente, in patria. L’ avventura personale di Colombo, come era del resto prevedibile, si sarebbe conclusa con un indescriviil furore dei libri 2014 /11
bile trionfo, suo e dei suoi uomini. Ben presto il tutto venne sopraffatto dal verme distruttore dell’ invidia e dell’ interesse personale, arrivano a catena meschinità, delusioni e calunnie infamanti, tanto da farlo passare per matto. Quindi, la miseria e la sua fine drammatica. Riprendo quindi il mio commento della seconda parte della Scoperta, che avevo interrotto con lo sbarco in terre sconosciute, fino alla conclusione drammatica della straordinaria vicenda di Colombo che ha avuto un ruolo decisivo nella storia dell’ evo moderno. Gli uomini, malgrado il successo evidente del viaggio, molto disorientati dagli eventi e dalla vista di cose più grandi di loro, pretendono ora da Colombo la conferma di essere realmente giunti al posto che egli aveva previsto nei propri piani, premettendo: È l’ America, sì, non c’ è quistione; ma poi, si invece fosse un antro sito? La risposta di Colombo: - Domani presto, ar primo che incontrate Annàtejelo a dì, che sentirete. D’ altronde, era più che comprensibile che i loro timori fossero giustificati, davanti ad una natura così strapotente e grandiosa e a spettacoli, quali si presentavano davanti ai loro occhi. Defatti, appena scénti se trovorno Davanti a ‘na foresta da nun crede’ . Te basta di’ che lì in quella foresta, Capischi?, la piantine de cicoria Je rivàveno qui, sopra la testa. È che tu, frammezzo a quelle piante, Tu ‘gni passo che fai, trovi ‘na berva, Perché poi, quanno meno telo aspetti C’ è er caso d’ invontra’ l’ omo servatico. Anche l’ incontro dei marinai con i nativi, così come lo descrive, da par suo, Pascarella in sette incredibili versi, è uno dei passi più divertenti del poemetto: 21
sandro disertori
Veddero un fregno buffo co’ la testa Dipinta come fosse un giocarello, Vestito mezzo ignudo, co’ ‘na cresta Tutta formata de penne d’ ucello. Se fermorno. Se fecero coraggio: Ah quell’ omo! - je fecero, - chi sête? Eh, - fece - chi ho da esse’ ? So’ un servaggio. Sempre più affascinati ma ancor più incuriositi, pretesero di essere condotti davanti al suo re, al quale, appena giunti al suo cospetto, chiesero: Si lei siete o nun siete americano. Sêmo de qui; ma come so’ chiamati ‘Sti posti, - fece, - noi nu’ lo sapemo. Te basta di’ che lì c’ erano nati Ne l’ America e manco lo sapeveno. I nativi, non esistendo ancora il denaro in quei siti, vennero facilmente raggirati col baratto, offrendo loro pezzetti di specchietti, ‘na manciata de puje, un astuccio di cerini. In cambio je daveno le spille e l’ orecchini. Dopo un po’ , sempre barattando, le ceste d’ oro, così arte, le portaveno via co’ la barozza. Infatti: Ma loro nun ce l’ hanno li quattrini. Invece noi, che sêmo ‘na famija Da ‘na razza de gente più civile, Ce l’ avemo e er Governo se li pija. Le solite inevitabili questioni di donne, le soperchierie di ogni genere e le incomprensioni di varia natura stavano portando la situazione, fra europei e nativi, al calor rosso. Ai primi non restava che un’ unica soluzione, questa: S’ agguantarono più roba che poteveno, La caricorno su li bastimenti, Spalancorno le vele faccia al vento; ormai tanto la strada la sapeveno, E ritornorno a casa in d’ un momento. Con le tre caravelle cariche d’ oro e di preziosi, al suo ritorno Colombo in effetti è gratificato da un trionfo senza precedenti: 22
E lui, fu accorto peggio d’ un sovrano. Li re, l’ imperatori, le regine, Te dico, je baciaveno le mano: Le feste nun aveveno mai fine. Tutto questo però durò molto poco. L’ invidia e l’ inesausta sete di denaro di chi prima lo aveva osannato, finirono per travolgerlo fino a portarlo prima sull’ orlo della follia, trasformandolo in un derelitto cui nessuno più badava, e alla fine: Fu ridotto a girà’ per li conventi, Cor fijo in braccio, come un affamato E quelli che je s’ ereno rubati La scoperta, l’ onori, tutto quanto, Nun je diedero pace, insino a tanto Che loro nun lo veddero schiattato.
S
olo dopo morto, tutti, come era da aspettarselo, incominciarono a rivendicarne a proprio vantaggio la memoria, a cominciare dai francesi che insistevano, e lo fanno ancora oggi, che lui non fosse di origine italiana, ma un loro compatriota. È inutile, ricorda Pascarella ai propri compagni di bisboccia: essere italiano porta anche a questo e quindi, giù il cappello! Colombo è Tasso, Metastasio, Michelangelo, Dante, Machiavelli, Raffaello ed anche la fontana di Trevi. L’ italiano è infatti uno che solleva in alto una lampada. Si accorge, così facendo, si accorge e dimostra che la terra gira e, dopo un po’ , inventa anche il cannocchiale. È anche uno che, toccando con un zeppetto una ranocchia morta, questa si muove ed allora lui inventa l’ elettricità.
A
vrei voluto completare questa sorta di saggio che, in realtà, è poi solo un invito alla lettura de La Scoperta de l’ America di Cesare Pascarella e del Testamento di Meo del Cacchio di Trilussa, con parole mie. Mi sono accorto in tempo, per mia fortuna, che sarebbe stato scorretto il farlo, perfino oltraggioso. Solo 2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
er testamento de meo del cacchio
l’ ultimo sonetto, il cinquantesimo della Scoperta è, a mio avviso, il solo in grado di farlo nel modo più degno: Così Colombo. Lui cor suo volere, Seppe convince’ l’ ignoranza artrui. E come ce ‘rivò? Cor suo pensiere. Ecchela si com’ è. Dunque, percui Risémo sempre lì. Famme er piacere: Lui perché la scoprì? Perché era lui. Se invece fosse stato un forestiere, Che ce scopriva? Li mortacci sui! Quello invece t’ inventa l’ incredibile: Che si poi quello avesse avuto appoggi, Ma quello avrebbe fatto l’ impossibile. Se ci aveva l’ ordegni de marina Che se trovemo adesso ar giorno d’ oggi, Ma quello ne scopriva ‘ne ventina!
A
ll’ inizio di questo scritto, a dire la verità, avevo accennato a tre poeti, quali riconosciuti bardi del dialetto romanesco. Quale indiscutibile figlio diretto della lingua latina, esso conferma, oggi più che mai, la città di Roma, assieme al Colosseo, alla Domus aurea e ad altri infiniti documenti, come l’ unica metropoli rimasta viva e operante per quasi tremila anni di vita dalla propria fondazione. Lo dimostra, con sovrana evidenza, anche il fatto che oggi Roma è la legittima capitale di due Stati sovrani. Tuttavia la maniera abbastanza inusuale con la quale l’ amico De Bernart, mio prezioso mentore letterario,
come ho riferito all’ inizio, me li aveva fatti conoscere e amare, potrebbe avermi portato magari un po’ fuori strada, facendomi privilegiare, a causa delle sue preferenze, Cesare Pascarella e Trilussa, trascurando invece Gioacchino Belli. Tornato a casa, ancora memore delle lunghe conversazioni letterarie con l’ amico, ho voluto subito approfondire le mie conoscenze sulla poesia romanesca. Non ho però stranamente sentito il bisogno di allargarle più a fondo anche su quella del Belli. Ho deciso pertanto, in questo scritto, di usare con i miei eventuali lettori lo stesso criterio del mio amico che aveva funzionato così bene nei miei riguardi per spingere anch’ essi alla lettura di quel tipo di poesia. Se avessi voluto cambiare sistema o aggiungere qualcosa d’ altro, avrei piuttosto citato anche i venticinque sonetti del poemetto storico-narrativo Villa Gloria di Pascarella, dedicato al patriota pavese Benedetto Cairoli, uno dei Mille. Mi auguro proprio che il sistema che ho adottato abbia qualche successo. Chiudo ricordando come, nella Scoperta, Pascarella ha improvvisamente rotto la fluidità del racconto, senza una apparente buona ragione, ma di grande effetto, inserendo i seguenti tre curiosi versi, sulle prime piuttosto banali ma che invece, oltre che esaltare in originalità il poemetto, danno, chissà perché, da pensare: Vedi noi? Mo noi stamo a fa’ baldoria: Nun ce se pensa e stamo all’ osteria; Ma invece stamo tutti ne la storia. ❧
Sandro Disertori IL FURORE DEI LIBRI
il furore dei libri 2014 /11
23
abdelmalek smari
Quando il libro è galeotto
di Diego Cescotti
24
2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
QUANDO IL LIBRO È GALEOTTO
D
odici versi sono sufficienti a Dante (Inferno, V, 127-138) per introdurre senza preamboli il «libro galeotto» e narrarne gli effetti esaltanti e già presaghi della futura tragedia. A parlare è lo spirito di Francesca, mentre Paolo se ne sta in disparte muto e disperato: Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disiato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu ' l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante.
Dobbiamo ritenere il libro un dettaglio fondato su una qualche verità storica o vederlo come un elemento di pura e geniale invenzione narrativa? Di certo vi era nelle intenzioni del poeta tanto la volontà di lanciare un allarme sulla pericolosità che certe letture potevano avere sulle nature sensibili,quanto un' ammissione di corresponsabilità per avere egli stesso, nei suoi trascorsi stilnovistici, contribuito alla diffusione di una visione della tematica amorosa i cui effetti vedeva ora espressi nelle due infelici anime vorticanti di Paolo e Francesca. Ma tralasciate ora le motivazioni più profonde sotto il profilo morale e filosofico e rivolta l' attenzione al puro il furore dei libri 2014 /11
fatto in sé nella sua icastica rappresentazione, non si può negare che l' espediente del libro quale motore di un forte sentimento nascosto che altrimenti non si sarebbe sprigionato diventa elemento di singolare valenza: è il libro infatti lo strumento che provoca la rottura del ritegno imposto dal rango e dalla morale e conduce alla completa e accettata trasgressione.
C
ome questo avvenga è noto: tutto si gioca sull' infallibile meccanismo dell' imitazione in virtù del quale la semplice lettura di una vicenda oggettivamente scabrosa ma pur sempre ingentilita e come neutralizzata dall' aura arcana che la contrassegna, porta a superare l' ultima barriera che ancora frena il gioco del desiderio: Francesca-Ginevra e Paolo-Lancillotto, una volta compiuta l' identificazione con i modelli della narrazione, non hanno più movente né scopo di negarsi alla riproduzione di quell' antica infrazione. Su questa trama che attraverso i secoli la letteratura e le arti in genere hanno raccolto in innumerevoli rievocazioni1 si sono applicate tutte le varianti possibili, a cominciare da quella di svincolarla dal cerimoniale cortese secondo cui il bacio alla dama non è, almeno all' inizio, quell' atto di pura passionalità che gli si vuol riconoscere quando scaturisce dalla libera volontà individuale, ma un rituale pacato e severo da compiere alla presenza dell' intermediario amoroso e di alcuni testimoni. È appunto qui che la leggenda introduce la figura del siniscalco Galehaut (Galeotto) con l' ufficio di formalizzare l' atto d' investitura in base al quale il cavaliere si mette devotamente al servizio della dama: una situazione ' aset1 - Gli studiosi del fenomeno hanno individuato per gli ultimi due secoli più di settecento lavori ispirati alla figura di Francesca da Rimini, comprendendo opere letterarie, figurative (le più numerose), musicali e cinematografiche – cfr. l' intervento di Ferruccio Farina sulla rivista «Romagna arte e storia», XXVI / 78, settembre-dicembre 2006.
25
DIEGO CESCOTTI
tica' che in nessuna rievocazione teatrale, tanto meno in epoca romantica, avrebbe potuto essere accolta, pena il rinunciare all' impulso vitalistico, al rapimento emotivo, al fremito dei sensi che sono appunto i coefficienti indispensabili per animare l' azione e renderla appassionante e di sicura efficacia rappresentativa.
C
osì, tra coloro che nel corso del tempo hanno ripreso la storia di Paolo e Francesca, il libromovente quando pure lo si è voluto conservare, ha dovuto essere arricchito di funzioni e stimoli ben maggiori di quelli che si riservano normalmente a un mero arredo di scena. Ma stranamente, per quanto utile si fosse rivelato ai fini originari, il libro viene il più delle volte trascurato, e questo fin dal Boccaccio, che per primo ha ripreso sotto forma di commentario la storia di Paolo e Francesca. Nelle sue Esposizioni sopra la Comedia di Dante (1373), egli non ritiene di cogliere il suggerimento della lettura fatale e preferisce mantenersi nel vago quando afferma di ignorare le modalità degli incontri clandestini tra i due cognati e aggiunge che, «perseverando Polo e madonna Francesca in questa dimestichezza…, quasi senza alcuno sospetto insieme cominciarono ad usare»: bella e pudicissima espressione per cui rimpiangiamo gli antichi. Dal che sembra d' intendere che l' amore della coppia colpevole esisteva già da prima e che l' accidente del matrimonio forzato di lei con Gianciotto Malatesta aveva solo ingarbugliato le cose. Per sapere ciò che succede nelle molte rievocazioni ottocentesche sarebbe da guardare caso per caso: Silvio Pellico, per esempio, nella sua tragedia del 1815, non fa alcun cenno al libro e di conseguenza tutta la dinamica dell' amore colpevole ne viene alterata, in quanto scavalca completamente ogni azione seduttiva e qualifica quello di Francesca per Paolo come un amore già compiuto e assodato, ancorché generatosi inconsapevolmente e quasi a dispetto di un' ostilità a lungo covata per antiche ragioni familiari; di fatto i due sono in pratica già innamorati fin dal prim' atto e non c' è bisogno d' altro espediente per confermarlo2. Uguale destino si potrebbe forse pen2 - In
.
26
sare di trovare in molti libretti d' opera dello stesso secolo (troppo rari per essere recuperati con facilità). In quello scritto da Antonio Ghislanzoni per l' opera di Antonio Cagnoni (1877)3, viene confermata la linea dell' esclusione del libro, e ciò si rivela un grave errore perché è evidente a prima vista che la rinuncia comporta un singolare impoverimento della trama scenica.
A
sdoganare pienamente il libro restituendogli piena centralità nell' intrigo è stato Gabriele D' Annunzio nella tragedia scritta per Eleonora Duse, andata in scena nel 1902. Quel testo, opportunamente ridotto per i fini melodrammatici, divenne poi il libretto per l' omonima opera musicale di Riccardo Zandonai (1914), la quale costituirà il tramite maggiore per la diffusione della celebre storia d' amore e morte. Sia nella tragedia parlata che nell' opera musicale è al terzo atto che il libro (probabilmente il Lancelot di Chrétien de Troyes) assume anche visivamente un' importanza capitale. La didascalia dannunziana così recita: Presso la finestra è un leggio con suvvi aperto il libro della Historia di Lancillotto dal Lago, composto di grandi membrane alluminate che costringe la legatura forte di due assicelle vestite di velluto vermiglio. Accanto v' è un lettuccio, una sorta di ciscranna senza spalliera e bracciuoli, con molti cuscini di sciamito, posto quasi a paro del davanzale… In entrambe le versioni l' atto comincia con Francesca che in piedi presso il leggio declama a voce alta alcuni versi a beneficio delle damigelle che le fanno corona. Conviene riflettere su un paio di aspetti. Anzitutto Francesca è probabilmente già a conoscenza della storia di Ginevra e Lancillotto, e più che leggerla se la rilegge per proprio diletto. Paolo invece (come si scoprirà dopo) dà mostra di non conoscerla: cosa in effetti un po' strana, essendo egli persona letterata e colta. Il particolare va tenuto da conto perché se le cose stessero così e Francesca avesse maturato un qualche vago in3 - Leggibile in .
2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
QUANDO IL LIBRO È GALEOTTO
tento di sedurre il cognato, il libro farebbe al caso suo per il prevedibile effetto che la storia, nel suo esito finale, avrebbe ottenuto. Ammettiamo che in questo caso Francesca dovrebbe essere dotata di una certa astuzia e freddezza di calcolo, e questo non sembra del tutto persuasivo. A favore della sua buona fede, poi, starebbe il fatto che ella non sa dove sia egli, né tantomeno può immaginare che lo vedrà di lì a non molto. Ma è anche vero che non più tardi del giorno prima Paolo, giunto anticipatamente e segretamente a Rimini, era rimasto per molto tempo a contemplarla a distanza in un luogo aperto, sicché è anche probabile che lei se ne fosse accorta, nel qual caso avrebbe potuto sospettare che presto le sarebbe comparso davanti. A quel punto quel libro così poco innocente e con tanta evidenza esposto nel suo leggio di legno intagliato, potrebbe essere un' esca vera e propria, un' accorta messinscena atta a catturarlo. È forte insomma il sospetto che il libro, quel libro, non sia capitato lì per caso ma sia stato invece predisposto da un astuto e fors' anche inconscio calcolo al fine di guidare il destino: il gioco amoroso conosce di questi sottili inganni e non sarebbe fuori luogo propendere senz' altro per il trucco ben architettato. A meno che non si voglia invocare la pura fatalità e attribuire il tutto al destino contro il quale nulla si può opporre.
Q
uesta di D' Annunzio e Zandonai è però una versione recente, che poco ha a che fare con la primaria fonte dantesca, ove si percepiva nella coppia un atteggiamento di ingenuo candore e di buona fede («sanza alcun sospetto»), quasi che la lettura a due fosse un innocente passatempo sfuggito di mano: in tal guisa lo fissa il pittore ottocentesco Anselm Feuerbach in una tela così composta e serena da non lasciar presagire alcuno sconvolgimento in arrivo4: caso non comune in verità, ché normalmente i pittori non si lasciano sfuggire l' occasione di fissare il dramma nell' imminenza o nell' istante esatto del suo compiersi, quando i due amanti cedono al bacio fatale. Ciò detto, va ammesso che nella raffigurazione del mo4 - Il quadro si trova alla Schack-Galerie di Monaco.
il furore dei libri 2014 /11
mento cruciale la tendenza comune dei pittori è di conservare a Francesca una memoria di stilnovismo attribuendole un atteggiamento composto, innocente, quasi timido, forse rassegnato, e in ogni caso tutt' altro che appassionato. Diversamente vanno le cose nel grande manifesto realizzato da Giuseppe Palanti per l' opera di Zandonai, dove il coinvolgimento carnale è pienamente rappresentato dallo scompiglio delle pose, mentre al di sotto del leggio posto sul davanti si nota un baluginare di luci che sembra già presagire le fiamme dell' inferno. L' età moderna si sentirà più libera di osare nel senso sia erotico che cruento, come ben illustra la tela di Gaetano Previati presente all' Accademia Carrara di Bergamo, dove si vedono i colpevoli giacere uno sull' altro dopo essere stati trapassati da un unico colpo di spada. L' alternativa pittoricamente più diffusa è quella di risalire alla fonte dantesca e di rappresentare la coppia nelle spire infernali, con graduazioni variabili tra la pietà e il dolore.
D'
Annunzio, che di dinamiche seduttive se ne intendeva, allargò il momento topico della lettura trasformandolo da piccolo episodio a lungo e stringente processo che incalza in sintonia con il montare del desiderio, sì che i due protagonisti arrivano al dunque come per estenuazione. È lui a trovare il registro più consono ed efficace per costruire dapprima un clima psicologico inquieto, ansioso, voglioso di fuga o di annullamento e poi strutturando una dinamica di resistenza e cedimento che solo alla fine romperà ogni argine. Così la lettura al leggio è spezzettata, interrotta; procede affannosa passando di voce in voce con reciproco imbarazzo, tra momentanee divagazioni, sviamenti, tattiche elusive e incoraggiamenti a riprendere la lettura fino alla sua parte finale. Sembra quasi di percepire una certa elettricità creatasi nell' aria, la quale indica ormai senza più equivoco che il momento è venuto e conviene cedergli senza opporre più resistenza. Partendo da queste già ottime basi, la musica non può che avvantaggiarsi ulteriormente, favorita dal fatto di poter usare meno parole e di far leva su tutte 27
DIEGO CESCOTTI
quelle lusinghe melodiche che trasferiscono il momento magico del reciproco riconoscersi in un' esplosione di irresistibile magia sonora. Nessuno, al confronto dei testi, sembra aver notato un interessante particolare che differenzia significativamente la tragedia dall' opera: nella prima Paolo, arrivato alla fine della lettura, declama («soffocatamente») il prodromo al bacio fatale: «E si tirano da parte. E la reina vede il cavaliere che non ardisce di fare di più. Lo piglia per il mento e lungamente lo bacia in bocca…!» (Egli fa quell' atto istesso verso la cognata, e la bacia. Quando le bocche si disgiungono, Francesca vacilla e s' abbandona sui guanciali.)
Parole quasi identiche si ritrovano nel libretto, ma lì esse sono assegnate a Francesca, quasi per rendere più plastico il suo coinvolgimento nell' azione seduttiva. In compenso non sarà lei a prendere per il mento l' amante, come si dice avesse fatto Ginevra («la reina») con il timido Lancillotto, bensì lui (Paolo) a serrarla in un abbraccio, restaurando così una dinamica più normale nonché più consona ad un personaggio che abbiamo conosciuto anche come guerriero e uomo d' azione.
C
he fine faccia a questo punto il libro che tanti sconvolgimenti ha creato è cosa non più importante: in teatro rimarrà a completa discrezione del regista, che lo potrà presentare richiuso o spostato o ancor più lasciato cadere per terra e lì abbandonato, quasi a richiamo che «quel giorno più non vi leggemmo avante». Il suo ruolo l' ha ormai svolto per intero ed ora è giusto che esca per sempre di scena. Una perfetta sincronia degli eventi coglie Jean Auguste Dominique Ingres nel suo famoso quadro al Musée des Beaux Arts di Angers, laddove fissa il momento preciso del bacio mentre il libro (di dimensioni assai piccole) è appena sfuggito di mano a Francesca e rimane ancora sospeso a mezz' aria; frattanto 28
l' orrida sagoma di Gianciotto nerovestito si profila da un tendaggio sul fondo con la spada sguainata.
M
eno abile drammaturgicamente di D' Annunzio, Modest Čajkovskij, librettista di un' altra opera su questo stesso soggetto musicata da Sergej Rachmaninov (Frančeska da Rimini, 1906), propone una sequenza di lettura piuttosto lunga e penalizzata dal fatto di essere priva della necessità di creare il processo seduttivo nella sua gradualità, il che toglie del tutto la componente dell' infingimento e della schermaglia: i due si sono già spiegati, vogliono concordemente la stessa cosa e a trattenerli è solo una malintesa ragione morale. Ciò che i due si dicono non esce dall' abusata convenzione operistica: se le ragioni terrene non consentono la loro unione, l' appagamento sarà rimandato alla vita aldilà. Ma Paolo, più concreto, non si vuol rassegnare: «A che mi serve lo splendore del Paradiso se il sangue mi ribolle, e sono preso dalla forza imperiosa dell' amore terreno?»; né deve insistere troppo in verità, perché dopo un altro po' di resistenza Francesca è vinta e convinta: Francesca Ahimè! Io appartengo a un altro. Paolo No, tu sei mia davanti a Dio che ci ha uniti! Non mi giuravi sulle potenze celesti che avresti legato la tua vita alla mia? Francesca No… Va!… Lasciami!… Non puoi… Paolo Tu sei mia davanti al cielo! Francesca I castighi dell' inferno ci attendono. Paolo Li soffriremo insieme. (abbraccia Francesca, che si abbandona)
Il ricorso a concetti assoluti e la privazione del mistero e del contorcimento intimo riducono l' evento a una comune scena tra innamorati convenzionali. Al confronto, la soluzione dannunziana, nel suo evolversi tra 2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
QUANDO IL LIBRO È GALEOTTO
volontà e timori, tra cedimenti e autodifese, rimane senza dubbio la più efficace. Ecco dunque che la lettura del libro galeotto assume peso e natura diversi a seconda dei casi. Rispetto a Dante dove la rottura della regola di autoimposta compostezza giunge quasi a tradimento; rispetto a ČajkovskijRachmaninov dove la lettura è affrontata senza morbosità perché ormai già tutto è stato chiarito, la soluzione di D' Annunzio-Zandonai esprime con finezza psicologica il pericolo soppesato e accettato – sia esso eterodiretto o frutto di calcolo – e lo inscrive in un' architettura logica che spinge le cose al punto di non ritorno.
Tutti
Adina
•
N
el mondo dell' opera si trova anche chi alla lettura di un' antica storia di nobilissime passioni amorose, anzi dell' amore più assoluto che si conosca, reagisce con una franca risata di divertimento. È la nemesi delle cose, che si rovesciano nel loro contrario. E tuttavia in questo particolare caso la mano è leggera e l' ironia perdonabile, tanto è garbato tutto l' insieme delle persone e dell' ambiente campagnolo che vanno a comporre lo sfondo dell' Elisir d' amore di Felice Romani e Gaetano Donizetti (1832). A beffarsi degli amori di Tristano e Isotta è una «ricca e capricciosa fittaiuola», unica persona alfabetizzata del villaggio, che si diletta a leggere sull' aia quell' inverosimile storia medievale: Adina (ridendo) Benedette queste carte! È bizzarra l' avventura. Giannetta Di che ridi? Fanne a parte di tua lepida lettura. Adina È la storia di Tristano, è una cronaca d' amor. Coro Leggi, leggi. Adina (legge) «Della crudele Isotta il bel Tristano ardea,
il furore dei libri 2014 /11
Tutti
né fil di speme avea di possederla un dì. Quando si trasse al piede di saggio incantatore, che in un vasel gli diede certo elisir d' amore, per cui la bella Isotta da lui più non fuggì». Elisir di sì perfetta, di sì rara qualità, ne sapessi la ricetta, conoscessi chi ti fa! «Appena ei bevve un sorso del magico vasello che tosto il cor rubello d' Isotta intenerì. Cambiata in un istante, quella beltà crudele fu di Tristano amante, visse a Tristan fedele; e quel primiero sorso per sempre ei benedì.» Elisir di sì perfetta, di sì rara qualità (ecc.)
Adina è troppo navigata per ignorare che gli amori perfetti non esistono e che filtri e magie a poco valgono se si è dotate di spirito naturale e di bel portamento. Per lei che sostiene essere «pazzia l' amor costante» e indica come rimedio quello di «ogni dì cambiar d' amante», la condanna alla passione eterna di Paolo e Francesca, se l' avesse conosciuta, sarebbe sembrata un' autentica atrocità. Capitolerà anche lei, sapendo bene che dal modesto Nemorino non dovrà aspettarsi alcuna deriva eroica o sublime ma piuttosto una fedele e un po' bovina devozione: cosa che ci fa seriamente temere per la sdi lui sorte. Niente di meglio che un tocco di leggerezza illuministica per alleviare il peso dei romanticismi tormentosi. A volte se ne sente il bisogno.❧
Diego Cescotti 29
abdelmalek smari
Un «Petrarca» trentino
di Fabio Casna
30
2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
un «petrarca» trentino
L
a lirica d’ispirazione petrarchista ha in Trentino una manifestazione tarda e assai scarna, si ricordino solo gli sparuti esempi di rime scritte da Bernardo Cles e da umanisti, molto prolifici in latino, come Niccolò dell’Arco e Iacopo Varignano. In questi anni nel resto d’Italia si veniva normando la poesia petrarchista nelle tematiche attraverso la pubblicazione delle Rime del Bembo (1530) e nella lingua attraverso il trattato Prose della volgar lingua di Bembo (1525). Il Petrarca era quindi modello culturale e linguistico che ispirò schiere di poeti per diversi decenni, ma arrivò molto tardi in Trentino. Pochi anni dopo si colloca l’esperienza poetica di Cristoforo Busetti, il poeta più prolifico, completo e pienamente aderente al modello petrarchista in territorio trentino. Egli nacque probabilmente intorno al 1540 a Rallo in Val di Non (Alberto Mosca ha recentemente proposto, su base indiziaria, come luogo di nascita Croviana in Val di Sole). Studiò a Padova negli stessi anni di Torquato Tasso e si addottorò in diritto nel 1563, in previsione della sua futura carriera di notaio. Prima del 1567 entrò a servizio dell’arciduca Carlo d’Asburgo a Innsbruck come consigliere. Nel 1564 circa sposò Dorotea d’Ars, figlia del conte Cristoforo, contrario alle nozze, tanto che non versò mai la dote al Busetti. Nel 1567 ricevette il diploma imperiale con cui venne nobilitato. Fra il 1579 e il 1599 Busetti tornò a Croviana dove esercitò la professione di notaio. Nel 1602 si trasferì a Trento. Non conosciamo la data certa della sua morte, ma da un documento del 1606 il poeta risulta già morto (morte presunta fra il 1602 e il 1606). La fatica letteraria di questo Petrarca trentino è conservata alla Biblioteca Civica “Girolamo Tartarotti” di Rovereto, in un manoscritto che conserva l’intero ‘canzoniere’ del poeta con oltre duecento testi. Nel manoil furore dei libri 2014 /11
scritto, probabilmente autografo, si contano anche componimenti di altri autori che hanno ispirato il Busetti nella stesura del suo canzoniere. Inoltre i primi diciassette testi sono corredati da un apparato esegetico, redatto dallo stesso autore, che rivela i retroscena delle liriche: «il canzoniere viene a costituire una biografia in versi dell’autore, perché anche le prose sono a servizio di questo progetto»1. In queste prose si svelano i modelli citati dall’autore e si procede ad una sorta di parafrasi. Il precedente di tali ‘argomenti’ è stato ravvisato nelle prose apposte alle rime di Luca Contile da Francesco Patrizi e Antonio Borghesi nell’edizione veneziana del 1560. Come scrive Stefano Carrai: Non si tratta infatti di brani che istituiscono con le liriche un vero e proprio rapporto di complementarità – come, per intendersi, nel prosìmetron – né di un articolato autocommentato analogo a quello che correda le rime spirituali date alle stampe nel 1570 da Gabriel Fiamma. Essi non mirano a costituire un tessuto connettivo fra i componimenti poetici, ma si limitano – compatibilmente con l’esiguo spazio appositamente predisposto nei margini inferiori del codicetto – a fornire concise informazioni sul loro retroscena. […] Si tratta di chiose che appartengono ad un genere ben preciso e che, con termine tecnico, si definiscono ‘argomenti’. Nei libri di rime del Cinquecento costituiscono un precedente assai significativo quelli, in tutto simili, acclusi da Francesco Patrizi e Antonio Borghesi alle rime del conterraneo Luca Contile, stampa1 - Alessandro Ledda, Introduzione a Cristoforo Busetti, Canzoniere, testo critico, introduzione e note a cura di A. Ledda, premessa di Stefano Carrai, Comune di Rovereto/Biblioteca civica “G. Tartarotti”, Rovereto 2003, pp. VII-XXXIV: XV.
31
fabio casna
te a Venezia nel 1560. Il prestigio dei tre letterati senesi e ancor di più la novità dell’operazione potrebbero aver fatto scattare, nel Busetti, la molla dell’emulazione, spingendolo a lasciare nel libretto lo spazio deputato ad accogliere le annotazioni. E non sarebbe strano che proprio a Trento il Contile venisse letto, né che si imitasse il suo non comune corredo ermeneutico, dal momento che egli vi aveva trascorso il quinquennio 1552-57 al servizio di Cristoforo Madruzzo, nella cui orbita inevitabilmente gravitava anche il giovane Busetti.2
S
pesso in calce ai testi sono collocate anche delle citazioni latine più o meno connesse con il testo volgare (Emblemata di Alciato). I testi del canzoniere sono ripartiti in quattro parti, e dalla seconda parte in avanti sono titolati dall’autore: Seconda parte delli sonetti, composti da l’autore in absentia della sua diva; Terza parte delli sonetti, composti dal medesmo ritornato che fu; Alcuni sonetti e stanze e capitoli composti dal medesmo autore in diversi soggetti. Risulta evidente che le prime tre parti sono nettamente distinte dalla quarta. Però le parti non sono divise come sul modello petrarchesco “in vita” e “in morte” della donna, ma bensì “in presenza” e “in assenza” della sua donna. Questo espediente è stato utilizzato da pochissimi autori, fra i quali, ad esempio, Antonio Cornazano e Joan Antonio Caracciolo nella raccolta Argo. La narrazione si può così riassumere: «il poeta, conquistato l’amore di Dorotea con l’assiduità del proprio servizio, si ritrova a dover abbandonare la patria a causa delle mormorazioni di una malalingua (prima parte); l’esilio è occasione del continuo vagheggiamento del ritorno, e del ricordo dei momenti felici dell’amore (seconda parte); al suo ritorno il poeta scopre che la disposizione dell’amata nei suoi confronti è mutata, e lavora alacremente alla riconquista, per essere alla fi2 - Stefano Carrai, Perizia sul canzoniere di Cristoforo Busetti, in Storia dell’italiano e forme dell’italianizzazione, Atti del XXIII congresso internazionale di studi (Trento-Rovereto, 18-20 maggio 1989), a cura di Emanuele Banfi e Patrizia Cordin, Bulzoni, Roma 1990, pp. 75-81: 79-80.
32
ne, ricompensato (terza parte)»3. La quarta parte è una collezione di estravaganti, e contiene la parte più consistente della raccolta. Questa parte è dedicata a personaggi diversi da Dorotea, tra cui gli amori per una certa Alba. Gli unici due testi databili con certezza sono un componimento funebre (IV, 5), datato 1° aprile 1559, e il sonetto IV, 70 di cui una noterella in prosa informa che fu scritto «l’anno del 1571, sentendosi dire che l’imperador de’ Turchi facea già preparamento di guerra, incerto dove havesse disegnato di cominciare», cioè nei momenti antecedenti la battaglia di Lepanto. Forse anche il sonetto IV, 85 è databile al 26 aprile 1600, anno dell’insediamento di Carlo Gaudenzio Madruzzo come vescovo. Queste date dimostrerebbero che l’attività poetica durò per tutta la vita: dagli anni giovanili fino quasi alla morte. Di recente è stata scoperta da Alberto Mosca, nell’archivio privato della famiglia Thun, una lettera scritta dallo stesso Busetti datata 15 maggio 1564 in cui si lamenta della lontananza dalla propria “diva”: […] Scrivo dunque, et scrivo che fra tuttj i miej pensierj, e dolorj il maggior, è questo, ch’io son privo della dolce vista dj V.S., et de l’amata Diva mia; jmperciòche quantunque habbi già esperimentato molti é molti, non ritrovo chi più mi piaccia, chi più mi sodisfaccia, chi più sincero, et più amorevol sia del mio jll.s signor Sigismondo; parimenti quantunque io vegga molte belle, saggie, virtuose et honeste donne nondimeno io non conoscono alcuna, che in beltà, in virtù, in saper, et in honestà si possi aguagliare a colej, che adoro, reverisco, et amo per amor dj V.S. dico, che non credessj, che io dicesse per conto mio, con cio sia che io so ben quanto a me mal convenga, che son mortale amar Cosa divina.4
3 - Ledda, Introduzione, p. XIX. 4 - Alberto Mosca, Le “rozze favole” di un poeta trentino: una lettera inedita di Cristoforo Busetti a Sigismondo Thun, in «Studi Trentini di Scienze Storiche», 87 (2008), pp. 79-84: 83.
2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
un «petrarca» trentino
C
ome appare evidente da questo breve stralcio della lettera, Busetti presenta il tema principale della propria poetica, ossia l’amore per la giovane Dorotea d’Arsio. Questa lettera assieme al manoscritto contenente il suo canzoniere rappresentano gli unici testi superstiti di Cristoforo Busetti5. Le prime tre parti costituiscono un vero e proprio ‘romanzo’ d’amore. La compattezza della narrazione viene irrobustita dalla presenza di legami intertestuali: ossia di riprese di termini ed espressioni contigue, legami di capfinidad, brevi cicli attorno ad oggetti (il guanto), situazioni (le lacrime degli amanti, le illusorie apparizioni della donna), virtù (la castità della donna), situazioni ed oggetti che vengono richiamati a distanza (la ciocca di capelli della donna amata donata all’amante, la pianta testimone degli abboccamenti amorosi). Una serie di componimenti religiosi alla fine della prima parte irrobustisce la tematica petrarchesca: richiesta di consolazione a Dio e alla Madonna (cfr. Rvf 366).
I
l modello a cui tende primieramente è Petrarca. Si vedano ad esempio le illustrazioni di luoghi petrarcheschi nelle prose alle rime I, 2 e I, 8. Come sottolinea Ledda, «egli vuole mostrare di aver interiorizzato il mondo spirituale del Petrarca, e di servirsi delle sue parole perché esse sono le più adeguate a significare la propria umanità»6. Altro modello a cui ricorre Busetti è Ariosto. Nella prosa esplicativa al componimento I, 5 si legge: «imita qui l’autore messer Lodovico Ariosto dove dice “pianger dee quel che sia fatto servo et cet.”; alla qual stanza alludendo dice che ’l maggior dolor non può provar l’inamorato che inamorarsi d’una donna bella e crudele», e poi si confrontino i versi dell’Ariosto (Orlando Furioso XVI, 3, 1-3: «pianger de’ que che già sia fatto servo / di duo vaghi occhi e d’una bella treccia, / sotto cui si nasconda un cor
5 - Abbiamo notizia di un documento vergato da Busetti in qualità di notaio nel 1582 circa una controversia intervenuta tra i comuni di Cles e Croviana. Ma questo documento risulta ora irreperibile, benché figuri nel regesto delle pergamene conservate presso l’archivio storico del comune di Croviana (pergamena 41): cfr. Silvestro Valenti, Pergamene dell’archivio comunale di Croviana. Regesti, in «Tridentum», 6 (1903), pp. 68-72: 72. 6 - Ledda, Introduzione, p. XXV.
il furore dei libri 2014 /11
protervo»7) con quelli del Busetti (I, 5, 12-14: «facciasi servo di due bionde chiome / sotto le qualli un crudel cuor dimora / che non si spieghi a lagrime o parole»). A volta si assiste a «ribaltamenti antifrastici, che danno luogo a un più o meno divertito controcanto alla voce dell’Ariosto ottenuto semplicemente cambiando di segno gli elementi del modello»8. Così Busetti si diverte, soprattutto nella quarta parte della sua raccolta di rime, a modificare numerose ottave del Furioso e a trasformarle in stanze (cfr. IV, 40; IV, 48; IV, 54-55). Ad esempio si confronti la stanza IV, 47 del Busetti: Io post’ho ’l pie’ su l’amorosa pania, né vo’ ritrarlo, anzi, v’invischio l’ale: che stimo senza amor il mondo insania, e chi m’è contra il capo ha senza sale; e se ben come Orlando al core ho smania, pur ch’abbia del mio amor qualche segnale, nulla l’apprezzo, anzi, vi dico espresso che, per amar mia dea, vo’ odiar me stesso. con Orlando Furioso XXIV, 1: Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ale; che non è in somma amor, se non insania a giudizio de’ savi universale: e se ben come Orlando ognun non smania, suo furor mostra a qualch’altro segnale. E quale è di pazzia segno più espresso che, per altri voler, perder se stesso?
M
a torniamo di nuovo al modello Petrarca, che risulta essere citato in modo massiccio e spesso con prelievo diretto (ma centinaia sono i casi in cui le citazioni passano sotto un qualche pur lieve processo elaborativo). Petrarca non è solo fonte di citazione diretta, ma interviene anche nel7 - Tutte le citazioni dell’Orlando Furioso sono tratte da Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, a cura di Cesare Segre, Mondadori, Milano 1976. 8 - Ledda, Introduzione, p. XXVI.
33
fabio casna
la struttura del canzoniere busettiano, anche se diversi sono gli scarti fra Busetti e il suo modello. Si pensi ad esempio al proemio dell’opera che non presenta alcuna delle caratteristiche, come captatio benevolentiae o excusatio, tipiche dei testi di apertura dei canzonieri d’ispirazione petrarchesca. Neppure la struttura del canzoniere risulta pienamente consona: se i primi cinque componimenti dei Rerum vulgarium fragmenta possono essere visti come un prologo della storia secondo lo schema: 1 proemio, 2 dinamica dell’innamoramento, 3 giorno dell’innamoramento, 4 luogo d’origine della donna, 5 nome della donna; i testi iniziali del canzoniere busettiano rispettano solo in parte questo exordium: 1-3 proemio, 4 dinamica dell’innamoramento, 11 giorno dell’innamoramento, 14 luogo d’origine della donna, 15 nome della donna (acrostico). Quasi in ogni componimento si affacciano la fraseologia e le immagini più comuni del Petrarca, quelle che De Sanctis definì situazioni petrarchesche. Così ad esempio Rvf 5 (elogio del nome di Laura, i cui elementi vengono disseminati nel testo) viene più volte riscritto, dedicandolo a Dorotea (I, 50 Quando talhor chiamo il ben nome vostro), all’arciduca Carlo (IV, 9 Quando movo i sospir’ a chiamar voi) e ad una ignota Margherita (IV, 66 Quando movo la lingua e chiamo poi). E ancora in I, 26, 1-2 Busetti scrive: «Il mesto dì che la cristiana gente / piange del suo fattor l’acerba sorte»: qui il poeta ricorda di aver visto piangere la propria donna il giorno della Passione di Cristo, ed è dunque ripresa l’ambientazione temporale di Rvf 3, dove Petrarca fa però riferimento al giorno dell’innamoramento. Come scrive Augusto Goio: Il Petrarca narra d’essersi innamorato di Laura il giorno della morte del Salvatore ed il Busetti, che per disgrazia non s’era potuto innamorare proprio in quello stesso giorno, ricorda almeno d’averla vista piangere un Venerdì santo, insieme con altre dame, i peccati degli uomini che hanno messo in croce nostro Signore.9 9 - Augusto Goio, Materiali per un giudizio su Cristoforo Busetti Poeta, Stabilimento Tipografico di Giov. Seiser ed., Trento 1913 (Estratto dagli
34
A
ltro esempio è la chiara ripresa testuale dell’esordio di Rvf 150 «Che fai, alma? che pensi? avrem mai pace? / avrem mai tregua? od avrem guerra eterna?»10 in I, 64, 1-2 «Che fai alma? che pensi? havrem mai pace? / avrem mai tregua? o starem sempre in guerra?». Inoltre il tema della cerva, centrale in Rvf 190, viene ripreso due volte nel canzoniere busettiano (II, 19 e III, 33)11. Soffermiamoci ora su qualche altro esempio che illustri riscritture più fini ed elaborate da parte di Busetti. Si legga III, 15 di Busetti confrontandolo con Rvf 271 del Petrarca: Rotto ho i legami e ’l duro laccio sciolto ne’ quai mi tenne Amor un tempo preso, spent’ho ’l foco ch’al cor m’havean acceso dui vaghi lumi e un bel leggiadro volto. Spezzat’ho l’arco, i strali onde fui còlto, ch’allhor non poti e volsi esser diffeso, et ho deposto in guisa il grave peso che non temo più lor poco né molto. Ond’io ringratio quel signor benegno che liberato m’ha da tanta pena, da quelli aspri lamenti e pianto amaro; ma via più assai che rotto è la catena Annuarii dell’i. r. Ginnasio di Trento 1912-1913 e 1913-1914), pp. 12-13. 10 - Le citazioni dal Canzoniere sono tratte da Francesco Petrarca, Canzoniere, edizione commentata a cura di Marco Santagata, Mondadori, Milano 2004. 11 - Carrai, Perizia, p. 79. «Il sonetto 190 del Canzoniere, dove Petrarca, peraltro con un simbolismo di non immediata decifrazione, riassume la vicenda del suo amore per Laura nell’allegoria di una caccia a una cerva bianca dalle corna d’oro, fonda la particolare configurazione di un topos dai molteplici precedenti, ma non ancora sperimentato nella poesia erotica in volgare, e dunque vale senz’altro come archetipo di una tradizione di cui segna per l’intrinseca autorità la fortuna», e poi continua: «con esso [il sonetto 190 di Petrarca] il tema favolistico della caccia al cervo o alla cerva meravigliosa, di stretta pertinenza epica o agiografica, viene introdotto nella lirica d’amore come allegoria della passione e dell’instancabile ricerca di una corrispondenza. Il condizionamento è decisivo per una rifondazione erotica del topos, che giunge sì, attraverso ulteriori mediazioni, alla rilettura polizianea delle Stanze, ma si concreta anche e soprattutto nella prassi della mimesi petrarchista, dove l’adesione al modello si realizza per lo più come eccesso per accumulo, come ripetizione spinta fino alla ridondanza» (Giovanni Barberi Squarotti, Selvaggia dilettanza. La caccia nella letteratura italiana dalle origini a Marino, Masilio, Venezia, 2000, pp. 213 e 243).
2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
un «petrarca» trentino
e quei lacci crudel’ che mi legaro senza mia colpa, o dolce mia syrena. (Busetti III, 15)
L’ardente nodo ov’io fui d’ora in hora, contando, anni ventuno interi preso, Morte disciolse, né già mai tal peso provai, né credo ch’uom di dolor mora. Non volendomi Amor perdere anchora, ebbe un altro lacciuol fra l’erba teso, et di nova ésca un altro foco acceso, tal ch’a gran pena indi scampato fôra. Et se non fosse experïentia molta de’ primi affanni, i’ sarei preso et arso, tanto più quanto son men verde legno. Morte m’à liberato un’altra volta, et rotto ’l nodo, e ’l foco à spento et sparso: contra la qual non val forza né ’ngegno. (Petrarca, Rvf 271)
Leggiamo la fine analisi di Alessandro Ledda circa la comparazione fra i due componimenti: Partendo dal sistema delle rime si noterà che qui ricorrono, come nel modello, “preso” : “acceso” : “peso” (ai vv. 2, 3, 7); la rima -olta è ripresa da -olto, mentre -arso è richiamata da -aro; da ultimo, l’irrelato “benegno” (se non è un errore, data la fissità del sintagma “signor benegno”, in luogo di “signor mio caro”, che è in clausola in RVF LVIII 2) risponde ai rimanti in -egno del modello. Oltre al recupero di vocaboli e sintagmi (“foco acceso”, “rotto”, “disciolse” che sta dietro a “sciolto”), il sonetto busettiano mostra, però, anche una più sottile analogia strutturale col fragmentum petrarchesco, sicura nonostante appaia quasi dissimulata. Una corrispondenza analoga a quella esistente tra i vv. 1 e 13 del modello (“l’ardente nodo”, “et rotto è ’l nodo”) si ritrova anche nel testo del Busetti, con l’aggiunta di un chiasmo: “Rotto ho i legami e ’l duro laccio sciolto” (1); “e quei lacci crudel’ che mi legaro” (v. 13), in qualche modo riil furore dei libri 2014 /11
levata anche dalla ripresa, al v. 12, di “rotto” dell’incipit.12 All’interno della quarta parte traspare il circolo degli amici del poeta: una piccola societas letteraria che si invia poesie in volgare e in latino. E proprio in questa parte del canzoniere compare l’oscena riscrittura di Rvf 248 data in IV, 58 «vero e proprio esercizio parodicoespressionistico»13: Chi vuol sapere quant’oprar può Natura, venga a veder quando mia donna caga, e di filosofar se ’l non s’appaga, di farlo studiar prend’io la cura; e venga presto, perché i porci fura talhor la meglior parte e la più vaga; e potria forse ancor l’amata piaga veder ascosa in la valletta oscura. Se verrà a tempo, vedrà come il cullo con leggiadria si forbe col bombace, e se lo sciuga, poi, con la camisa; vedrà se larga è assai, se assai capace per dar a fra Bernardo un pio trastullo, e se è d’un color sol o alla devisa. (Busetti IV, 58)
Chi vuol veder quantunque pò Natura e ’l Ciel tra noi, venga a mirar costei, ch’è sola un sol, non pur li occhi mei, ma al mondo cieco, che vertù non cura; et venga tosto, perché Morte fura prima i migliori, et lascia star i rei: questa, aspettata al regno delli dèi, cosa bella mortal passa et non dura. Vedrà, s’arriva a tempo, ogni vertute, ogni bellezza, ogni real costume giunti in un corpo con mirabil’ tempre; allor dirà che mie rime son mute, l’ingegno offeso dal soverchio lume; ma se più tarda, avrà da pianger sempre. (Petrarca, Rvf 248) 12 - Ledda, Introduzione, p. XXVIII. 13 - Ivi, p. XIX
35
fabio casna
L
e espressioni usate dal Busetti creano chiari elementi di carneval du language e tutta una serie di evocazioni dal chiaro valore sessuale. Il testo dovette apparire eccessivo anche all’autore stesso, visto che decise di cancellarlo con un tratto di penna e di collocarvi al di sotto un testo dal contenuto religioso. Accantonati i due principali ispiratori del canzoniere busettiano, Petrarca e Ariosto, ricorrono altri nomi nella biblioteca del Busetti che lo hanno ispirato: da una parte tutta una serie di poeti volgari italiani e dall’altra una nutrita schiera di autori latini. Questi ultimi ricorrono tramite citazioni poste in calce ai componimenti che hanno funzione di commento o di spunto per i singoli pezzi poetici. Ritroviamo con ricorrenza citazioni da Ovidio, Orazio, Virgilio, Terenzio, Marziale. Il testo latino non è sempre corretto, poiché era costume citare a memoria i testi latini spesso incappando in semplificazioni o errori. La ragione di tale consuetudine è forse da rintracciare nella volontà di conferire un valore universale alle proprie rime, visto che quasi sempre i testi latini hanno un carattere sentenzioso o moraleggiante. Sottolinea Augusto Goio che «qua e là ricorre qualche verso, qualche eco anche di petrarchisti del quattrocento o del cinquecento», e più avanti sottolinea che il Busetti «si è voluto quasi aggregare alla scuola del Tebaldeo; ma non è molto invece quello ch’egli deve a lui e a quelli del suo indirizzo. C’è qualche accenno sì, a quella tendenza che consisteva principalmente nell’esagerazione, nell’abuso delle figure e dei colori retorici, ma questo non è in lui come p.e. nel Tebaldeo forma consueta dello stile»14. Ma le citazioni dal Tebaldeo risultano molto poche e non di certo così interessanti, e soprattutto risulta essere modello linguistico per la sua koiné padana molto presente al Busetti. Al Tebaldeo si lega l’utilizzo della forma metrica del capitolo in terza rima (di solito non utilizzato in canzonieri petrarcheschi) in I, 57 che utilizza spesso citazioni tratte dal primo testo della frottola contenuta nella Frotola nova, Tu te lamenti a torto, spesso inserita – a torto – dopo il ca-
14 - Goio, Materiali, p. 23.
36
pitolo Non aspettò giamai con tal desio del Tebaldeo in molte edizioni cinquecentesche15. Il Busetti la poté forse considerare autentica del Tebaldeo e così la utilizzò in maniera ampia per la composizione del suo capitolo ternario (Ancor che la mia iniqua e dura sorte)16. Altro poeta conosciuto dal nostro è Bembo, ma non nella sua veste di legislatore e normatore del petrarchismo cinquecentesco, bensì in quella più umile di autore citabile. Infatti Busetti risulta sordo alle istanze normative del petrarchismo puro e della riforma classicista della lirica in atto. Si pensi solo ad un minimo esempio in cui il Busetti rielabora addirittura un componimento intero del Bembo: D’un mese un quarto s’è girato a punto che ’l mondo scemò assai del primo honore, morto quel ch’era il fior d’ogni valore e ’l fior d’ogni bontade insieme agionto. Com’a sì mesto e lagrimoso punto non ti divelli e schianti, afflitto core, se ti rimembri ch’alle tredeci hore del primo dì d’april in ciel fu assonto e lieto uscìo della terrena spoglia il saggio spirto di virtute amico, nel mille cinquecento un L e un IX? Però, se tu non sei del mondo amico, prega che l’altra affretti, e senza doglia tu parta quindi e lo riveggi altrove. (Busetti IV, 5)
Un anno intero s’è girato a punto che ’l mondo cadde del suo primo honore, morta lei ch’era il fior d’ogni valore 15 - Sulla Frotola nova e sulla falsa attribuzione al Tebaldeo si veda Edoardo Barbieri, La Frotola nova già attribuita ai torchi di Aldo Manuzio, in Libri, tipografi, biblioteche. Ricerche storiche dedicate a Luigi Balsamo, Olschki, Firenze 1997, I, pp. 75-104. 16 - Ledda a commento del capitolo in terza rima (in Busetti, Canzoniere, p. 92) scrive: «Il tema dell’esilio del poeta indotto dalle mormorazioni della malalingua è probabilmente ispirato da Tebaldeo, Vulg. CCLXX, di cui si ricordino in particolare i vv. 58-60 “le male lingue che han bramato e bramano / di por nel nostro amore inimicizia / hor son contente, e de tradirti tramano” e 64-65 “Considera tra te, ceca, considera: / vedrai che a torto son spinto in exilio!”».
2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
un «petrarca» trentino
col fior d’ogni bellezza insieme aggiunto. Come a sì mesto et lagrimoso punto non ti divelli et schianti, afflitto core, se ti rimembra ch’a le tredici hore del sesto dì d’Agosto il sole è giunto? In questa uscìo de la sua bella spoglia nel mille cinquecento et trentacinque l’anima saggia, et io cangiando il pelo non so però cangiari pensieri et voglia; c’homai s’affretti l’altra et s’appropinque, ch’io parta quinci et la riveggia in cielo.
I
(Bembo, Rime 170)
n questo caso il Bembo si riferisce alla morte di una donna da lui amata, Morosina; mentre Busetti indirizza questo sonetto ad altri riferendosi alla morte di una loro persona cara. Questo sonetto compare per la prima volta a stampa, assieme ad altri sedici, nell’antologia giolitina del 154517. Forse quest’opera fu letta e adoperata dal Busetti come fonte ispiratrice per alcuni suoi componimenti. E il fatto di trovare e leggere il Bembo in un’antologia e non in un’edizione monografica spinse Busetti a rendere meno cogente l’autorità bembesca e quindi ad utilizzarlo come una delle tante fonti della sua poesia18. Il petrarchismo di Busetti appare più vicino alla posizione dei poeti petrarchisti di fine Quattrocento, esponenti della poesia cosiddetta “cortigiana” che utilizzavano Petrarca come fonte da saccheggiare e a cui ricorrere per le immagini poetiche. Riscontriamo infatti nella poesia busettiana diversi elementi tematico-situazionali che si ispirano direttamente a quella componente realistica tipica della poetica quattrocentesca. Ad esempio l’indirizzo ai fiori che saranno inviati a madonna (I, 16 O felice viole, o vago fiore), i colori (I, 30 Orna di bianco la sua bella insegna), 17 - Sulla sezione bembiana della giolitina del 1545 si veda Roberto Fedi, Bembo in antologia, in Id., La memoria della poesia. Canzonieri, lirici e libri di rime nel Rinascimento, Salerno, Roma 1990, pp. 253-263. 18 - Scrive Goio: «scarsissimi sono pure gli accenni alla poesia del Bembo e anche questi incerti perché può rimanere sempre il dubbio che il passo imitato derivi direttamente dalla prima fonte, il Petrarca» (Materiali, p. 24).
il furore dei libri 2014 /11
l’anello (I, 31 I più d’ogn’altro aventuroso anello), i sonetti del guanto (I, 32-33), l’invito a godere per tempo la giovinezza (I, 36 Mentre giovene sei, gagliarda e sana), la camera della donna (I, 40 Un dì che la mia sorte ebbi in favore), l’invio di un dono a un amico (una bottiglia di vino in IV, 15 Magnanimo signor dolce e cortese), la giustificazione della propria assenza a un convito (IV, 20 Reverendo cortese don Vettore). Inoltre sono tipicamente cortigiani certi componimenti in cui vengono portate ad esasperazione certe figure retoriche, come l’anafora (in I, 26, 47 e 57; II, 20 e 34). Soffermiamoci infine sui modi di descrivere la bellezza e il comportamento degli amanti. Il sonetto II, 18 appare topico, poiché contiene tutti gli elementi tipici della descrizione della bellezza della donna e dei suoi modi di fare, tutti provvisti di chiara autorizzazione petrarchesca19: Quando penso alle luci alme e divine, ch’a due stelle del ciel le rassomiglio, al sotil negro et inarcato ciglio, ai bianchi denti, anzi alle perle fine; ai labbra di corallo, a l’aureo crine et alle guance di color vermiglio, al nosa profilato e al bianco giglio, et alle belle membra pellegrine; a l’andar, al parlar et al sonare; al sospirar, al pianto, al lamentarsi, al dolce riso, e al sguardo humile e piano, sentomi il cor in fonte trasformare, e gli occhi miei dui larghi rivi farsi, pensando quanto a loro i’ son lontano. Tutte le immagini utilizzate da Busetti sono di chiara ispirazione petrarchesca ed utilizzate da molti poeti per descrivere le fattezze delle loro donne amate: tutte bionde con le ciglia nere. A questo proposito risulta divertente citare quanto ha scritto di recente Alessandra Paola Macinante: 19 - Sul topos della bellezza femminile nella poesia italiana del Quattro e Cinquecento si veda Giovanni Pozzi, Il ritratto della donna nella poesia d’inizio Cinquecento e la pittura di Giorgione, in «Lettere italiane», 31 (1979), pp. 3-30.
37
fabio casna
Gran parte della critica giustifica la centralità delle chiome dorate rifacendosi a motivazioni etnografiche o antropologiche, ricollegandolo al prevalere della stirpe nordica su quella latina: variando il tipo etnico, varierebbe l’immagine della donna in poesia. Se così fosse, non sembra plausibile che le donne cantate dai poeti abbiano sempre occhi e sopraccigli nerissimi, accanto a capelli biondissimi. Pur non conoscendo approfonditamente le teorie di Mendel, chiunque sa che è molto raro, direi impossibile, incontrare una donna con tali fattezze, qualunque sia la sua provenienza. Se è vero che i poeti prendono come modello la donna del Nord, sembra una vera e propria contraddizione mutarne il colore degli occhi e dei sopraccigli, attribuendole connotati tipicamente mediterranei. Alcuni studiosi ricollegano, inoltre, la scelta del biondo alla ricerca di rarità; ma allora sarebbe stato più logico selezionare gli ancor più desueti capelli rossi o albini.20
D
opo questo esempio tipicamente petrarchesco, occorre citare altri testi sempre più cortigiani ove il discorso cade in una climax di contegni sempre meno petrarcheschi (II, 37, 9-14): Indi la lingua fra le perle fine così suavemente entrar pian piano, ch’ogni altro dolce, al par di questo, è gioco. Così potess’io l’altre pellegrine parte ascose toccar con la mia mano, e penetrar nel più secreto luoco.
20 - Alessandra Paola Macinante, «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi». Metamorfosi delle chiome femminili tra Petrarca e Tasso, Salerno, Roma 2011, pp. 11-12.
38
La punta massima di questo atteggiamento eccessivo e cortigiano appare nella conclusione della terza parte, ossia nella parte terminante del vero e proprio canzoniere busettiano (III, 34, 15-20): E doppo, a faccia a faccia, e lingua e lingua in bocca, e petto a petto si tenea ognun di noi legato e stretto; poi l’ultimo diletto prese con tal piacere il mio thesoro che fu costretta a dir: «Ahimè, che moro!».
C
osì si conclude la terza parte del canzoniere busettiano dedicato a Dorotea. Questo canzoniere rimase nell’oscurità fino a che fu riscoperto da Carlo Rosmini e in parte pubblicato nel 1792. Successivamente nel 1836 il canzoniere fu stampato in edizione integrale, anche se in maniera piuttosto scorretta, da parte di Giambattista Carrara Spinelli. Solo nel 1904-1905 Lodovico Niccolini dedicò un lavoro più ampio al poeta, anche se soffermandosi solamente sul lato biografico del Busetti. Nel frattempo furono pubblicati alla spicciolata altri sonetti, fino a quando l’intero canzoniere fu editato da Alessandra Demozzi nella propria tesi di laurea (1990-1991). Altri articoli furono dedicati al nostro poeta da Augusto Goio, Stefano Carrai, Daniele Mattalia, e in tempi recenti da Giuseppe Frasso e Edoardo Barbieri. Solo nel 2003 si è giunti ad un’edizione criticamente accurata e commentata da parte di Alessandro Ledda. Così finalmente il “Petrarca” trentino trova oggi posto e riscontro nel mondo contemporaneo.❧
Fabio Casna
2014 /11 IL FURORE DEI LIBRI
un «petrarca» trentino
Appendice
Cristoforo Busetti, Canzoniere I, 2
Sonetto di schema ABBA ABBA CDC DCD.
Invida Parca, perché ormai non tronchi il stame che filato è già molti anni, e liberarmi un dì da tanti affanni, facendo i giorni miei più brevi e monchi? Tant’hami tesi veggio, curvi e adonchi, per farmi ritornar nei primi danni che non fia puoco se ne porto i panni e ’l petto salvo fuor di tanti gionchi. Provato ho già una volta quanto è amara l’ésca di che si pasce l’empio arciero: miser colui ch’alle sue spese impara! Però vorrei più presto, e dico il vero, oggi a quella puor fin sì a molti cara che ritornar doman sotto il suo impero.
1. invida: ‘ostile’, perché non si decide a porre fine alla dolorosa vita del poeta. 3. liberarmi: retto da “perché non” (v. 1). 4. monchi: ‘finiti prima del tempo’. 5. tant’hami: ‘così tanti ami’; curvi e adonchi: coppia sinonimica, ‘ricurvi’. 6. nei primi danni: ‘nelle sofferenze della precedente passione amorosa’. 7-8. ‘che sarà già molto se esco vivo da questo terreno insidioso, quale è quello palustre, in cui proliferano i giunchi’. 10. l’empio arciero: cioè Amore. 12. però: ‘per questo’; più presto: ‘piuttosto’. 13. ‘porre fine oggi stesso alla mia vita’. 14. sotto il suo impero: ‘in balia di Amore’.
••• È cosa chiara che ’l tempo consuma il tutto, né è vuopo di molte autorità per provarlo, havendolo il felice Petrarca datto a divedere negli Trionfi suoi. Maraviglia adunque non è se l’autore, essendo stato per il spatio di cinque anni senza veder mai colei che prima amava, s’accese puoi d’un’altra, come nel presente sonetto dimostra; il che però dimostra che gli spiacesse, et che a forza fosse per destino costretto amar questa segonda gentil donna, la qual, per dir il vero, di gran longa eccedeva la prima sì di bellezza come di nobiltà, ricchezze, virtù, ingegno e sapere. Esclama adunque alla Parca che tronca il filo de nostra vita che sta a far che non lo leva da questa impaccio, più presto che lasciarlo di nuovo entrar sotto il gioco d’Amore.
il furore dei libri 2014 /11
né è vuopo di molte autorità: e non è necessario ricorrere a molte testimonianze autorevoli; felice: eccellente; datto a divedere: mostrato chiaramente; negli Trionfi suoi: «perché nel congegno dei Triumphi il Tempo ha ragione di tutte le realtà terrene (nell’ordine Amore, Castità, Morte, Fama) argomento dei primi capitoli, […] per quanto debba da ultimo cedere all’Eternità» (Ledda); maraviglia adunque non è: dunque non c’è da stupirsi; s’accese puoi: si innamorò poi; dimostra: mostra; eccedeva: era superiore; di: quanto a; esclama: domanda con forza; che sta … impaccio: perché non lo toglie dall’impaccio della vita.
39
Rinvenimenti a cura di Stefano Tonietto
N
ella sua commedia Le rane (405 a.C.), Aristofane mette a confronto due sommi tragici, o meglio le loro ombre, in una gara poetica destinata a decidere chi tra essi dovrà risalire dall’ Ade all’ Atene dei vivi come poeta-vate. Eschilo ed Euripide, così, a tenzone, recitano ciascuno non solo propri versi, ma anche dei cantica nello stile di quelli tipici dell’ avversario: “attacca Euripide con un beffardo e assurdo centone, puntando sulla monotonia ritmica dei corali eschilei e la rozza povertà dei suoi schemi musicali; Eschilo ribatte con una mirabile parodia dei plateali compiacimenti decorativi, che i contemporanei sentivano nella lirica euripidea”1. Nel Purgatorio (XXVI, 139-147), il trovatore provenzale Arnaut Daniel, che si affina nel fuoco dei lussuriosi, ha il singolare privilegio (unico nel poema per i non italiani o non fiorentini) di potersi esprimere nel suo parlar materno, la lan-
gue d’ oc: quelle poco meno che tre terzine sono “insieme un pezzo di bravura e un omaggio che Dante vuol rendere al provenzale che nella sua opinione soverchiò tutti nell’ arte di usare la lingua volgare”2. Nella Parigi del 1908, all’ esplodere dello scandalo Lemoine – un truffatore che prometteva di aver trovato il modo di produrre diamanti e aveva ottenuto più di un milione di franchi dal presidente
1 - Del Corno 1985, p. 231.
2 - Chiavacci Leonardi 2000, p. 787.
Emmanuele Campolongo.
della De Beers – “Le Figaro” pubblicò una serie di articoli nei quali illustri scrittori come Balzac, Faguet, Michelet, Goncourt, Flaubert, Sainte-Beuve, Renan, Régnier (nulla ostando alla maggior parte d’ essi il fatto di essere già defunti a quella data) commentavano il processo nel loro stile migliore. Ad orchestrare il tutto un’ unica penna, quella di Marcel Proust, che in quei pastiches si era proposto di imitare la maniera di alcuni dei suoi maestri, “liberandosi” di essi non senza prima aver loro strappato i loro segreti. E d’ altronde anche nella Recherche si moltiplicheranno simili giochi, “come se per un momento il romanzo fosse raccontato da un altro scrittore”3.
E
mulazione, omaggio, pastiche, plagio… Se è vero, come insegnava Guglielmo da Baskerville, che i libri parlano sempre di altri libri, è pur vero che gli scrittori parlano (spesso) di (e co-
3 - Tadié 2002, pp. 559-561.
Stefano Tonietto
Un proteiforme napoletano 40
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
rinvenimenti
me) altri scrittori. Se la strada più ovvia appare quella della parodia, vuoi demolitrice vuoi glorificatrice4, sembra che in qualche caso l’ autore che “ricrea” non possa essere inquadrato tra i parodisti, o per la natura dell’ occasione che fornisce lo spunto alla scrittura, o per la sensazione (imbarazzante?) provata dal lettore di fronte ad un testo che imita ma non caricaturizza, mantenendosi sempre una spanna in qua del comico, dell’ ironico, financo del dilettevole. Nozze reali furono l’ occasione scelta nel 1768 da Emmanuele Campolongo (Napoli, 1732-ivi, 1801) per il suo Proteo, una raccolta – oggi dimenticatissima – di componimenti gratulatori alla coppia di sposi, Ferdinando di Borbone, IV come re di Napoli, III come re di Sicilia (e dopo la tempesta napoleonica e la Restaurazione più noto come Ferdinando I delle Due Sicilie, il “Re Lazzarone”) e l’ arciduchessa Maria Carolina5 d’ Asburgo-Lorena, figlia dell’ imperatrice Maria Teresa: anch’ essi monito a chi non vede come la Fama travolga nell’ oblio i nomi più illu4 - Almansi-Fink 1991, p. VI, distinguono tra “Falso perverso, Falso consacrante, Falso innocente e Falso sperimentale”. 5 - Il frontespizio del Proteo la chiama Maria Carlotta.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
del letterato partenopeo il pretesto per sbrigliarsi in una numerosa e dotta opera di celebrazione.
N
stri. Quell’ evento, sicuramente epocale per i sudditi – che avranno goduto di festeggiamenti ed elargizioni – e per la Corte, che vedeva il diciassettenne sovrano (sul trono dall’ età di otto anni) finalmente accasarsi con una delle più potenti dinastie europee, diede alla fluviale penna6 6 - Valgano a ratificare l’ assunto almeno le 1900 epigrafi latine dal Campolongo composte nel Sepulcretum amicabile (1781-82), elogi sepolcrali “non solo di tutti coloro che eran viventi e che conoscea, ma anche di moltissimi de’ quali appena sapea il nome” (De Rosa 1834, p. 30); iniziativa non si sa quanto apprezzata nella città dello scongiuro e del cornetto di corallo.
on era, il Diciottesimo, un secolo immune dalla leziosa necessità della rima d’ omaggio: se ne componevano – e se ne pubblicavano in graziosi opuscoli – per nozze, per battesimi, per monacazioni, per lauree7 e per altre occasioni, in quantità tale da attirare gli strali del giovane Giuseppe Parini8. “Spirito piuttosto bizzarro e dotato di una cultura vasta ma non profonda”9, antiquario e latinista “estremamente fantasioso” (sue, e non – come millantato – trovate in iscrizioni, alcune voci che ebbero la ventura di essere prese per buone dal lessico del Forcellini), Emmanuele Campolongo pubblicò nel 1768 presso la stamperia Simoniana in 7 - La tradizione padovana del “papiro di laurea” con le sue rime oscene e le sue prosodie zoppicanti è un residuo di tale costume. 8 - “Andate a la malora, andate, andate, / e non mi state a rompere i coglioni. / Io non vo’ più sentir queste sonate. / Che vestizion, che professioni? // Doh maladette usanze indiavolate! / Possibil che dottor non s’ incoroni, / non si faccia una monaca o un frate, / senza i sonetti, senza le canzoni? // (…)” (dalle Poesie di Ripano Eupilino, cit. in Davico Bonino 2001, p. 449). 9 - Qui e oltre attingiamo all’ unica scheda biografica moderna a noi nota di Emmanuele Campolongo, quella di Palma 1974, che a sua volta si basa sulle informazioni del De Rosa 1834.
41
rinvenimenti
Napoli10 la vasta e minuziosa raccolta di omaggi poetici che volle chiamare Il Proteo, dal nome del dio greco delle trasformazioni, il polimorfo per eccellenza: Un mattino di Primavera assiso io in un verde poggio sopra del Mar riguardante, come suole intervenire, diverse cose nell’ animo riandava. E così d’ una in altra passando, ecco mi si offrono le sponsalizie del nostro amabilissimo Sovrano. Oh, sclamai subito, oh redivivi a noi tornassero gli antichi beatissimi secoli! che vedremmo noi un Ennio, un Flacco, un Marone, un Casa, un Zappi, un Leers sì liete feste celebrare. Ma non potresti tu (un altro insolente pensiero all’ orecchio ripeteami) ma non potresti tu a forza di sudori ciascun di costoro a pelo contraffacendo pennelleggiare? Veramente l’ impresa inarrivabile, nonché ardua pareami (…) Finalmente la conceputa idea cotanto dilatandosi prese piede, ed a tal segno l’ ardir prevalse; che mi veggo oggimai nella necessità costituito d’ implorar da chiunque un generoso compatimento al mio Icario volo, vitreo daturus Nomina ponto11.
C
ome egli stesso scrive, si applicò Campolongo con pazienza a creare una serie abnorme di Kontrafakturen, andando ben oltre quanto suggerissero misura e decoro di poeta attivo in tempi di monarchie assolute. Un’ ipertrofica proliferazione dell'omaggio per nozze è questa 10 - Palma 1974 ne cita una sola ristampa, nel 1819. 11 - Al benigno leggitore, in Il Proteo 1768.
42
serie di 31 componimenti latini e 53 volgari (tra cui non mancano il macaronico, il fidenziano e il dialettale) che allinea decine e decine di autori dall’ antichità romana ai tempi moderni, tutti entusiasti celebratori dell’ alleanza matrimoniale tra le case di Borbone e d’ Austria. Vengono scomodati il Numa Pompilio del Carmen Saliare (con tanto di versione in latino classico di un falso Giuseppe Giusto Scaligero), Quinto Ennio, Catone e Accio, Pacuvio e Lucilio, Plauto, Lucrezio, Catullo, naturalmente Virgilio e Orazio, e giù giù, passando per Fedro e Persio (commentato da uno pseudo-Casaubon!) e Marziale12, fino alla tarda latinità di Ausonio e Boezio, per arrivare agli umanisti come Poliziano, Pontano e Sannazzaro: tutti risorti da’ sepolcri e dall’ urne appositamente per celebrare le glorie di Ferdinando e di Maria Carolina. A chiudere la serie dei latini giunge un componimento macaronico nello stile di Nicolò Capassi, a sua volta interessante figura di poeta minore in dialetto napoletano e in lingua folenghiana, contemporaneo del Campolongo, forse meritevole di una qualche at12 - Ma saltando Lucano, Stazio e Giovenale.
Maria Carolina d’Austria.
tenzione critica. Sempre secondo un approssimativo ordine cronologico, si mescolano ai componimenti latini quelli dei poeti italiani: ignorata la Scuola Siciliana, si comincia con un minore, Galeotto da Pisa, per poi proseguire con un sonetto di Guido Cavalcanti e ben due di Dante Alighieri13. Non può mancare Petrarca; e accanto ad altri minori, il Burchiello, presente con ben due sonetti, uno dei quali corredato di commento attribuito a Giannantonio Papini accademico fiorentino. Tra i 13 - Da notare che Campolongo non ricrea brani dai capolavori di poeti sommi come Virgilio, Dante o Ariosto, ma preferisce lasciarsi ispirare dalle loro opere “minori”. Del lussureggiante Ovidio ricrea un solo ed unico verso, come già lamentava il De Rosa 1834, p. 29.
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
rinvenimenti
Ferdinando IV ventenne.
poeti del Cinquecento non mancano Vittoria Colonna, il Berni, Michelangelo, il Molza, Della Casa, Tasso; un cantico di Fidenzio Glottocrisio Ludimagistro (Camillo Scroffa) mostra la conoscenza che il Campolongo aveva del linguaggio pedantesco noto come fidenziano. Tra Barocco e Arcadia si situa la maggior parte dei poeti che rimangono: dal cavalier Marino all’ Achillini, dal Maggi al Redi, dal Bellini al Filicaja, al Forteguerri, allo Zappi (con la consorte). Incursioni nel dialetto sono i componimenti nello stile dei napoletani Giulio Cesare Cortese e Nicolò Capassi, o le Stanze rusticali alla maniera del fiorentino Francesco Baldovini. Tanta abbondanza ha un certo valore come documento non solo dei gusti personali del Campolongo, ma anche delle preferenze degli intellettuali meridionali nella seconda metà del XVIII secolo, ai quali era presumibilmente indirizIL FURORE DEI LIBRI 2014/11
zato Il Proteo; quanto meno, attesta quali autori era dato frequentare in un tipico curriculum di studi14, dal che traevano più immediata riconoscibilità. All’ ultima pagina Proteo sembra deporre i molti travestimenti e manifestarsi “nudo”, nella sua forma base: l’ ultimo componimento è infatti un sonetto a firma di Emmanuele Campolongo. Ma anche in questo caso è un Campolongo mimetico, nascosto dietro al suo più noto travestimento di Ciclope rozzamente innamorato, supposto autore del canzoniere intitolato Polifemeide: Di vergogna e rossor mi copro e innostro, Con tronfio carme a celebrar forzato L’ AUGUSTA ammogliatura: ond’ è che al Fato Io reverente mi sobbarco e prostro. Quantunque un irto, un Ciclopaccio, un Mostro, Sia Polifemo il Paraninfo allato, E scota ad Imeneo così ben nato Del Sol la face d’ auro tinta, e d’ ostro. I versi miei sono robusti, e senza Snervamento dettati dal mio fiele, Onde arretrar gli Dei marini io faccio; Non son sparsi di sésamo, e di mele, Ma ben di Gigantéa grandiloquenza: Or chi imitar vorrà lo mio stilaccio?15 14 - La presenza in tre casi di parafrasi o “commenti” attribuiti a studiosi come lo Scaligero, il Casaubon e il Papini fa pensare che Campolongo lavorasse sulla base di edizioni scolastiche o accademiche dei suoi autori. Interessante e molto “novecentesco”, comunque, che nell’ operazione parodica sia coinvolto anche il cosiddetto paratesto. 15 - Il Proteo 1768, p. [112]. Ne La Polifemeide (Napoli, 1759 e 1763), Campolongo dava voce in tanti sonetti agli sdegni di Polifemo negletto
L
a lettura della raccolta, sia integrale che in forma antologica, è sconcertante: da un lato l’ autore rinuncia totalmente ad ogni traccia di ironia o di complice ammicco (il che può non stupire, data l’ augusta rilevanza dei dedicatari16 e la conseguente inopportunità di coinvolgerli in ridicolaggini sconvenienti); dall’ altro, le marche autoriali che Campolongo sceglie per identificare lo stile di ciascun poeta solo raramente corrispondono a quelle che evidenzieremmo noi alla luce delle acquisizioni critiche degli ultimi due secoli. Ci “deludono” ad esempio, perché poco riconoscibili, il sonetto di Dante, l’ epigramma latino di Ariosto (perché proprio un epigramma latino e non una stanza in endecasillabi?) e ancora il sonetto del Tasso (non un brano “eroico”!). Ma si tratta probabilmente di un errore di prospettiva di noi moderni, non abbastanza eruditi. Qualche volta infatti, come nel caso del Burchiello, del Neri o dell’ Achillini, la scelta di parafrasare componimenti ancor oggi famosi ci agevola nella fruizione del testo. Campolongo predilige il sonetto e altre forme brevi; ma in certi casi eccede e sfora abbondantemente i limiti, come nel caso del lungo Ditida Galatea, di Aci invaghita (De Rosa 1834, p. 28). 16 - Ad ogni modo, quel che sappiamo del carattere di Ferdinando di Borbone e della sua cultura letteraria fa presumere che – almeno lui – non fosse in grado di apprezzare un omaggio tanto elaborato.
43
rinvenimenti
rambo ispirato a Francesco Redi (che tra l’ altro ci sembra uno dei migliori pezzi dell’ intera raccolta). Interessante è anche l’ apertura al fidenziano, al macaronico17 e agli sperimentali leporeambi del friulano Lodovico Leporeo, autore che solo oggi si va riscoprendo e ripubblicando. Con tutto ciò, ripetiamo, Emmanuele Campolongo promette al lettore del XXI secolo molto più di quanto non mantenga: chi cerca una poesia ispirata e originale ha certamente sbagliato indirizzo, ma anche chi si aspetta una parodia nel senso più comune18 non vi trova 17 - Parodia di secondo grado, visto che, a sua volta, il Capassi riprendeva nei suoi componimenti macaronici il dettato del Folengo. 18 - Nel senso praticato ad esempio dal sommo Paolo Vita Finzi nella sua Antologia apocrifa del 1961.
nulla da ridere. “Imitò così bene lo stile di tutti quegli scrittori – fu detto di lui19 – che tali copie possono veramente dirsi originali”; peraltro, come avverte il gusto moderno, la sua ispirazione “esce regolarmente sconfitta dal desiderio di riprodurre pedissequamente i modelli prescelti”. Così chiude l’ unica voce enciclopedica moderna che riguardi Emmanuele Campolongo, rimarcando – forse impietosamente – “il sostanziale vuoto spirituale di un letterato che era tanto pronto a recepire quanto incapace di mediare gli stimoli della sua cultura”20. Aristofane volle riportare la speranza all’ Atene sconvolta dalla guerra, ed evocò le ombre; Dante,
che s’ era posto sesto tra cotanto senno, non sdegnò di prestar la propria terzina a un miglior fabbro del parlar materno; Proust capì che a fermare il tempo in procinto di perdersi andava temperata e accordata al suono delle altrui voci quella del suo Narratore. Non sappiamo se Emmanuele Campolongo abbia dettato, morendo di tifo nella sua Napoli in un qualunque giorno di marzo del 1801, l’ ultima delle sue innumerevoli epigrafi: forse capì che la morte d’ un uomo è quella di tutti, o vide che, tolte le innumerevoli maschere che aveva indossato, non sarebbe restato alcun volto.❧
Stefano Tonietto
19 - De Rosa 1834, p. 29. 20 - Palma 1974.
BIBLIOGRAFIA
Il Proteo componimenti varj di Emmanuele Campolongo per le augustissime nozze di Ferdinando IV. Borbone re delle Sicilie con Maria Carlotta d’Austria che Iddio sempre feliciti. Nella stamperia Simoniana, Napoli 1768 [reperibile come ebook gratuito su Google Books] De Rosa di Villarosa Carlo Antonio, Ritratti poetici di alcuni uomini di lettere antichi e moderni del Regno di Napoli, Parte prima, II, Napoli, 1834, pp. 25-33 Palma Marco, Campolongo Emmanuele, in “Dizionario biografico degli italiani”, vol. 17, Treccani 1974
44
Del Corno Dario, Commento ad Aristofane, Le rane, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1985 Almansi Guido-Fink Guido, Quasi come, Bompiani 1991 (prima edizione 1976) Chiavacci Leonardi Anna Maria, Commento a Dante Alighieri, Commedia. Volume secondo. Purgatorio, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2000 Davico Bonino Guido (a cura di), Così per gioco. Sette secoli di poesia giocosa, parodica e satirica, Einaudi, Milano 2001 Tadié Jean-Yves, Vita di Marcel Proust, Mondadori, Milano 2002
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
rinvenimenti
Breve scelta da Il Proteo di Emmanuele Campolongo (prima edizione, Napoli 1768)1
DI DANTE ALIGHIERI sonetto O Dignitosa, il cui ritondo viso Luculenta galassia adorna in giro, Il viso, che da mane a sera i’ miro Sempre estatico stupido e sorpriso; Vostre altere virtuti io non mi avviso Scriver oggi nel rozzo mio papiro; Ma solo ad accennar libente aspiro L’ aria leggiadra, ed il venusto riso. Eja, di Pindo cigni angelici, eja, Voi celebrate con più nobil feto Il merto di Costei, che ognor mi smaga. Ch’ io giaccio d’ egra confusion repleto, Né per lo clivo dell’ Aonia plaga Verdeggia sul mio crin fronda Peneja. [Il Proteo, p. 22]
DI FRANCESCO PETRARCA sonetto Quando nell’ onde il chiaro dì tuffato, Febo s’ invola, e dà loco alla Luna, Quando la Notte sorge umida, e bruna, Menando innanzi il suo carro stellato, Vinto dal sonno, in parte i’ fui levato, Ove Imeneo Regie Madonne aduna; Ivi Colei, che tutte l’ altre imbruna, Vidi cinta di Grazie d’ ogni lato: Questa, mi disse il Nume, all’ Istro in riva Nata, a bear ne vien di CARLO il Figlio,
IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
(sic) Exempio d’ un’ Amazone guerrera. Restai sorpreso alla sembianza altera; Che di tanta onestate ornata il ciglio, Poco mancò ch’ io la credessi Diva. [Il Proteo, p. 30]
DEL BURCHIELLO sonetto Con una lezione o sia Comento di Giovannantonio Papini Accademico Fiorentino. Un giglio, ed una rosa imbalconata, Ed il giacinto, e la margheritina; Un Mitra immenso, e un’ Alba incarnatina L’ erunnasse jahàr con la granata. E perché son miglior l’ uova in frittata, Che Pittagora cotto in gelatina, Su la futura surgette divina Volli pur anche io far mattacinata. E fia stupor se menan dì giocondi I parlanti Pittor del fier Pitone, I Recipe, gli Arresti, e i Mappamondi? Quindi a’ pollastri il cor di gaudio grilla, Quindi tripudiando fan tempone L’ anitre, e l’ oche, e ognun vi batte spilla. Anz’ io fo una postilla, Che di buono rutr vain saremo ricchi Per più d’ una vendemmia, e credi a micchi: E perché non si picchi Talun, ch’ io faccia il Daniello ancora; Perciò cantano i grilli in su l’ Aurora.
45
rinvenimenti
LEZIONE O sia Comento di Giovannantonio Papini Accademico Fiorentino, sul precedente Sonetto del Burchiello. Il Barbiere insieme, e Poeta lepidissimo Maestro Domenico di Giovanni, detto il Burchiello, amò due stili differenti
oscuramente, al suo solito, accennando soltanto il decanta-
nel suo comporre; uno chiaro, l’ altro oscuro. Il presente So-
to passo dalla IV. Egloga di Virgilio: surget gens aurea Mun-
netto, come ognun vede, è sullo stile di tenebre sparso; le
do. E dice surgette al modo suo familiarissimo, storcendolo
quali fa di mestieri che noi, per quanto si può, rischiariamo.
dal latino surget.
Un giglio, &c.) Tutti i fiori generalmente significano speran-
E sia stupor, &c.) Ripiglia il senso lasciato, accordandolo
za, ed in ispezieltà il giglio. Virg. Tu Marcellus eris: manibus
col primo quaternario. I parlanti Pittor del fier Pitone, &c.)
date lilia plenis. Veggasi Pierio Valeriano in Hieroglyph.
Sono questi i Poeti. Orazio: Ut pictura Poësis erit. Ma perchè
Un Mitra immenso, &c.) Seguita l’ allusione a’ novelli
del fier Pitone? Perchè Pitone fu un serpentaccio sconfitto e
Sposi Regali. Mithra presso i Persiani cognominavasi il Sole.
schiacciato da Apollo, che è il Sole. E concorda col Mitra di
Quindi nelle antiche inscrizioni tante volte, che è un nabis-
sopra rammentato; e tutto allegoricamente si rifonde a glo-
so: SOLI. INVICTO. MITHRAE. L’ erunnasse jahàr con la
ria della Invitta Regia Coppia. Inoltre I Recipe, gli Arresti, e i
granata.) L’ erunnasse detorto, all’ uso del nostro Poeta del
Mappamondi, sono i Medici, i Leggisti, e i Filosofi: su che
rasoio, dalla Latina parola aerumnas, disgrazie, disastri.
non occorre di vantaggio diffondermi.
Jahàr. Parola Ebraica significante discacciar con pali, e for-
Quindi a’ pollastri, &c.) Pollastroni, dicono i Fiorentini,
coni, pala expulit, furcillis removit, e perciò si soggiugne con
cioè giovani semplici ancora, che pollastri dice il nostro
la granata, che in Fiorentino dinota scopa. Dall’ Ebreo jahàr
Burchiello. Per l’ anitre, e l’ oche poi intende le femminucce,
forse il Toscano fiaccare, e in dialetto Napolitano sciaccare.
e le pettegole; per ispiegar la letizia di ogni ordine di perso-
E perché son miglior, &c. Che Pittagora cotto, &c.) Tutto
ne. Rutr vain) Cioè rosso vino, parola Tedesca. Del rimanen-
questo vuol dire: E perché è meglio il parlare, ancorchè rozza-
te questo dottissimo insieme, ed oscurissimo Poeta suole
mente, delle lodi di alcuno; che lo starsi cheto ed in silenzio.
non rado pigliare ad imprestito parole dall’ Arabo, dal Feni-
Le uova, per farsi il pesceduovo o sia la frittata, si sbattono,
cio, dall’ Ebreo, dal Caldaico, dal Gallico o sia Franzese, &c.
e fan romore friggendosi; onde sartago loquendi leggesi
Così credi a micchi, egli è preso dal Latino mihi, e val credi a
presso il misteriosissimo Persio, che è un altro Burchiello
me.
Latino. Pittagora sempre persuadeva il silenzio; onde si ha
Ch’ io faccia il Daniello ancora, Perciò, &c.) Cioè: Affinchè
quel suo bellissimo precetto simbolico: A piscibus abstineto;
alcuno non abbia a male che io voglia qui farla non solo da
perciocchè voleva egli con ciò incaricare il silenzio, coman-
Poeta, ma anche da Daniello, vale a dire da Profeta, indovi-
dando che non si toccassero, e si tenessero come sacri i mu-
nando i futuri eventi delle cose; perciò imíto i galli, i quali
ti pesci, geroglifico del silenzio. Dice cotto in gelatina, quasi
quantunque non sieno Profeti, pure sentendosi vicino il
silenzioso, e gelato, che non parla.
giorno, lo annunziano e lo predicono: così io senza esser
Su la futura surgette, &c.) Cioè: Io volli dire, e balbettare qualche cosa, ancorchè rozza e giocosa (che si esprime colla parola mattacinata) sulla futura gente aurea, o sia sul secolo
Profeta posso indovinare le conseguenze gioiose delle presenti fortunatissime Nozze. [Il Proteo, pp. 32-35]
dell’ oro, che attendesi da’ presenti Augusti Sposi. E si spiega
46
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
rinvenimenti
DI FRANCESCO BERNI sonetto Passeri, e beccafichi grassi arrosto, E mangiar mosciamà presso ad un fonte; Dormir d’ April verso il mattin su un monte, Senza pensier, dalla Città discosto; Stare in conversazion nel miglior posto, Ed a migliaia aver le arguzie pronte; Per mezzo d’ una invetriata fronte Risparmiarsi il danar la spesa e ’ l costo; Girar entro barchetta al caldo estivo; Gagliardissimamente starnutare, E poi soffiarsi il naso ben trombando; Grattarsi ove il solletico è più vivo, E seco ognun vada arzigogolando Gusti, quanti più mai ne sa foggiare; No, non ponno agguagliare L’ alto piacer, che dentro me si accoglie Or che FERNANDO QUARTO mena moglie.
[Il Proteo, p. 43]
DI *FIDENZIO GLOTTOCRISIO LUDIMAGISTRO cantico caudato Papae! Nobile Par! posso gridare Cernendo Voi, lectissima propago, E Te praesertim, candida Virago, Che alla giuncata il decus puoi levare. D’ almo Amor la decipula schivare Non può chi vi rimira; e gratias ago Al Ciel, che bonis avibus l’ immago Di sè jam volle a Napoli mandare. Quando Vi miro paululum, un tantillo, Obliviscer mi fate il bel visino Del neofito puero (sic) Camillo.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
Se Vi adulo, possa io levar la scola, E amittere il Virgilio con Fabrino, Nè trovar chi mel venda bibliopola; E dall’ inetta gola Non esca sal di Plauto, o di Terenzio, Nè sia più filarmonico Fidenzio, Né di mellei versiculi il prototipo, Né di sua dignità sia più zelotipo; Ma con postica fama ogni discipulo Gli attondi il pallio, e ognor gli occenti il pipulo; Né curando la sua cera scorbutica, Gl’ inura il tergo con la propria scutica; Ed ignori finanche fero, fers, E ad omnia siasi scioperato ed iners. * Il Conte Cammillo Scrofa Vicentino. [Il Proteo, pp. 54-55]
DEL CAVALIER GIOVAN BATISTA MARINI sonetto Salutin l’ Alba di sì fausto giorno Degli augelletti l’ animate cetre, Il fluido Mondo, e le muscose pietre Mostrin segni di gioia intorno intorno: Con pennello di luce il Sole adorno Di bei rubin, sgombri le nebbie tetre, E dagl’ influssi suoi dolcezza impetre All’ Augusto Imeneo, d’ Invidia a scorno: Con mobil piè d’ argento in pompa chiara Corra di ruscelletti umido stuolo A rallegrar la valle, il bosco, il prato: Gli astri del Ciel fior belli, e i fior del suolo Stelle odorate alfin smaltino a gara Il Ciel fiorito, ed il terren stellato.
[Il Proteo, p. 57]
47
rinvenimenti
DI S. FILIPPO NERI sonetto
DI FRANCESCO REDI DITIRAMBO Como in Cucina del Re [estratti]
Ovunque il guardo giro, al monte, al prato, Al bosco, al colle, al fonte, al fiume, al rio, In ogni parte gli augelletti a Dio Cantano inni di gloria oltra l’ usato; E ’ l Padre Eterno, Immenso, ed Increato Ad essi infonde vigor, spirto, e brio, Perché del loro istinto il bel desío Sia dalla sua Potenza secondato. Tutto depon la faccia oscura ed egra, Tutto s’ ingentilisce, tutto è in gioia, E par che ogni disastro cessi e muoia. Perché dunque esto gaudio il Mondo allegra? Perché l’ AUSTRIACA Sposa in FERDINANDO E FERDINANDO in Lei si va cangiando.
[Il Proteo, p. 61]
DI CLAUDIO ACHILLINI sonetto Sudate, o acque, a germinar coralli, E voi macchine industri, itene al fondo, Itene a investigare il Mar profondo Per trar corone al RE da’ bei cristalli. Questi è Colui, che gli amorosi falli Tutti sfuggì, ed Amor folle ed immondo, E l’ alma sua Fenice unica al Mondo Amò, battendo non segnati calli; Poiché non vil desío di falso bene Nel Sovrano Regal petto annidando, Il cor gli avvinse con nodo empio e rio; Ma casto Amor gli feo dolci catene. Che se un tempo quel tal* vide, e perío; Rivide, e non perío il GRAN FERNANDO. * Virg. In Bucol. Ut vidi, ut perii, ut me malus abstulit error! [Il Proteo, p. 65]
48
Del Tirreno Monarca La mensa ad imbandir mi manda Giove, Quegli, che ’ l tutto move, Quegli, che ’ l tutto vede; E pel suo Ganimede Una tazza mi porse ampia stracarca Di almibeante nettare immortale, Che m’ infiumò le vene in guisa tale, Che l’ alta magistrale Banchettevole mia giurisdizione Acquistata ha ragione Piena ed arcipienissima Bagordiconsultissima In cucina del RE sopra voi cuochi; Affinché voi, che già non sete pochi, Possiate preparar pasto grandioso, Nozzeresco, e sontuoso Alla Coppia Regal d’ AUSTRIA, e BORBONE, Mentre Imenéo galoppa Dal terzo Ciel, spargendo alme faville, Mentre Imenéo tra mille Grazie, e mille Pennazzurri Amoretti il nodo aggroppa. Avrà conce ben le terga Chi i comandi miei posterga: Non mi fate un parapiglia Da sciocchissima famiglia; Che ciascun poi a bistento Voglia girne lento lento, Questo è un gran paralogismo, E faríami venire un parosismo, E dalla Regal casa un ostracismo Gli farei dar, né occorrería pregarmi. Non pensate infinocchiarmi; Ch’ io son Como, che comando
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
rinvenimenti
Per le Nozze d’ un REGE, e comandando, Cieca esiggo obbedienza: all’ armi, all’ armi. (…) Le pappardelle, I raviuoli, O miei figliuoli, Che sieno tutti Alquanto asciutti, Ma di buona qualità; Che quel brodo in quantità, È una cosa assai fratesca, E ad ognun fia che rincresca. Voi altri a piena mano Grattugiate formaggio Parmigiano: Il RE Napolitano FERNANDO QUARTO il Grande Non esclude le patrie vivande. Fate, voi, manicaretti Ed intingoli, e guazzetti Fornitissimi, Olentissimi Di tutte spezie, e di garofanetti I più fini Ed odoriferi, Che su’ pini Aliveliferi Manda a voi dal suo clima ermo e lontano L’ abbronzato dal Sol fosco Indiano. (…) Uccellami, e salvaggiumi, Altre sorte di pastumi, Creme, torte, ed erbolati, Fricassée, ammorsellati, Sponduletti ben pepati, E migliacci inzuccherati, Grandiosi pasticcioni, E racchette, ed arnioni, Mortadelle, e salsicciotti,
IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
Berlingozzi, e boccon ghiotti Senza carne porchereccia, Ma con grazia boschereccia Io diman v’ insegnerò; E per ora basti ciò, Che vi dissi: il resto poi, Per stanotte fate voi, Fallo tu, e tu, e tu, Ch’ io per me non posso più.
[Il Proteo, pp. 73-89]
DI NICCOLÒ CARTEROMACO [Niccolò Forteguerri] IL GIARDINETTO Un dì condotta fu la vezzosetta AUSTRIACA dalla fata in odoroso Orticello, i cui fior spiravan pretta Virtù di maschi sol far collo Sposo; Il bello ambretto io son, dicea l’ ambretta, E la rosa gridava: io sono il roso: Un fior gustò di quelle Elisie sedi, Onde all’ Impero assicurò gli Eredi. [Il Proteo, p. 97]
NICOLAI CAPASSI CARMEN MACARONICUM [estratti] At REGINA gravis foetu panzaque tumenti, Figliabit Ninnum, quo non Rhodomontior alter, Quique fuat vir bizzarrus, famaeque sititor, Alter Achillea de schiatta congener Heros, Anguistrangulus Alcides, atque Hector, & Ajax, Atque Pelasgorum quivis capitanius ardens, Semper ad arma chinans, semper pugnare paratus, Sternere & hostiles, faciendo appunia, turmas. Astrolacare decet puerum paullisper, amici; Hoc facto, tandem veniemus ad ite misestum.
49
rinvenimenti
Quot Medicinalis servat speciarius herbas; Quotque pilos radit barberius arte novaclae; Quotque diabolicus Proteus capit aequore formas; Quot sunt per campos caepae, allia, vel ravanelli, Quot gignunt barbas densissima carciofoleta; (…) Quot ranae blaterant co, co, muso extra laghettum; Quot lazzarones, caupones, atque maligni Temeto gravidi in betolis conludere gaudent Ad parasipintum, digitisque micare suërunt; Quot sunt in Mundo birbanti Sardanapali, Atque renegati infames, male nata propago; (…) Quotque Theatricolis manuum sbatimenta rebumbant, Cantrix quum finit liquidum trillare motetton Languidulo tremulore, patranti fractaque ocello; Quot primavera pulices saliuntque jocantque Stragula per lectosque novos, per & alba camisae In numerum, ut pecorae persultant pabula laeta: Tot referet palmas, stravisato hoste, superbas Hic stocco fidens, hic acer & arduus hasta. Cernere eum videor pugnantem: huic smazzat ab imo, Alterius corium in tantillula frusta minuzzat, Altrum sternit humi multa grassedine chiattum; Auriculam taglians Malco furit ecce cruento Ense potens Heros: huic mozzat ab inguine testes Et musicastrum facit (…)
DE LO STISSO [Nicolò Capassi] sonietto Cola, sta tuosto, ncoccia e miette cuozzo, Ca non sì ppeccerillo de la zizza; Afforza Febbo t’ ha da dà na sghizza Dell’ acqua, ch’ addecrea lo cannaruozzo. Che forz’ aje da cantà pe qquà pecuozzo, O ppe qquacc’ auto quant’ arriv’ e mpizza? Febbo, si tu mme faje saglì la stizza, Nfronte te faccio tanto no fecuozzo. Priesto, priesto, fedè, damme na tazza Dell’ acqua de Ppocréne, che n’ annozza, Ma te fa parlà sempe co accortezza: Ca accolsì, senza scennerme la vozza, Potarraggio agurà na guappa razza A chessa Zita, e ogn’ anno na pienezza.
[Il Proteo, p. [111]]
[Il Proteo, pp. 106-110]
50
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
Il mestiere di scrivere a cura di Gregory Alegi
“T
i hanno pagato?”. Ricordo ancora lo stupore del mio coautore quando gli dissi che il nostro piccolo editore aveva onorato i propri obblighi contrattuali. Lui, che aveva avuto l’ idea e aveva trovato l’ editore, forse non ci aveva mai creduto. Anche perché di quei soldi non aveva bisogno: dopo una vita di lavoro era già in pensione. Per me era vero il contrario: stavo per mettere su famiglia e scrivere era innanzitutto un reddito. Tra questi due estremi oscilla da sempre il mestiere di scrivere, soprattutto dello scrivere creativo. Tra tutti quanti partecipano alla produzione di un libro, lo scrittore è quello con la posizione più fragile sotto il profilo economico. Dal libraio al tipografo, dall’ autista delle consegne al rappresentante di inchiostri da stampa, dall’ avvocato specializzato in diritto d’ autore al redattore della casa editrice, tutti hanno un ruolo professionale riconosciuto e, in quanto
tale, compensato. Nessuno mette in dubbio il margine del venditore al dettaglio, il costo della trasformazione delle materie prime o quello della promozione. Unica eccezione, l’ autore. È nello scrivere che si avverte più forte la difficoltà di conciliare il desiderio (anche quando sorretto dalla capacità, in verità non sempre presente in sommo grado) con la possibilità di dedicarvisi a tempo pieno. Il motivo va oltre il fatto della minor considerazione per la cultura nella società (e nell’ economia) contemporanea. Persino chi riduce l’ autore a mero content-provider (“fornitore di contenuti”) faticherebbe a spiegare perché il produttore delle parole contenute nel libro dovrebbe essere trattato diversamente da quello dell’ uva contenuta in una bottiglia di vino. Eppure in pratica è così, forse perché il mestiere di scrivere è uno dei pochi oggi in grado di esprimere fascino e attrazione. A ben guardare la difficoltà di vivere di letteratura non è nuova. Un
proverbio latino già avvertiva che Carmina non dant panem (“Le poesie non danno il pane”). L’ attribuzione a Orazio, alla cui vita peraltro ben si attaglia, è tanto frequente quanto errata: la frase (di cui esiste anche la variante con litterae, più ampia) non si rinviene nella letteratura classica. Questo non ne ha impedito la costante fortuna, documentata in termini invariati per quasi due secoli. «Voi tutti conoscete l’ empio proverbio carmina non dant panem: proverbio che il colto pubblico d’ Italia mantiene gelosamente in tutta la sua integrità», scriveva un anonimo traduttore di Orazio in dialetto meneghino recensito nell’ ottobre 1837 da La Biblioteca Italiana (fascicolo LXXXVIII, p. 105). «Or bene: potreste mai credere, che chi è costretto a guadagnarsi il pane quotidiano possa spendere molte ore a far carmina? No per le glorie d’ Arcadia. In Italia, vedete, ad eccezione di qualche raro esempio di poeta-possidente, che io chiamo Poeta-fenomeGregory Alegi
Carmina non dant panem IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
51
IL MESTIERE DI SCRIVERE
no, nessuno è poeta di professione. Quindi vedrete il Poeta-legulejo, il Poeta-giornalista, il Poeta-pedagogo, il Poeta-prete: adesso abbiamo (felice Italia!) un Poeta-ciabattino ed un Poeta-facchino: e facciamo voti perché sorga a dispetto della grammatica qualche Poeta-cucitrice. Ma il poeta assoluto, il Poeta-poeta qui da noi non vi è e non vi può essere… Ciò posto, se mai è destino che al mio nome sia cucito il mal auguroso predicato di poeta, sappiate almeno, lettori, ch’ io sono Poeta-medico, o meglio Medico-poeta». L’ anonimo aveva ragione. In mancanza di un numero di lettori tanto ampio da trasformarsi in mercato e di un sistema di riproduzione seriale delle opere rapido ed economico, sin dall’ antichità la letteratura fu riserva delle classi più agiate, sia come produzione (perché restava pur sempre necessaria un’ alfabetizzazione non solo di base) sia come fruizione (per la necessità di disporre di tempo libero e il costo dei volumi). La dedica del Paradiso a Cangrande della Scala ricorda ancor oggi come persino i massimi scrittori dovessero ricorrere a un patrono per coltivare la propria arte. Solo i drammaturghi avevano qualche possibilità di guadagnarsi da vivere attraverso la scrittura. Gli spettacoli teatrali, in versi o in prosa, recitati o cantati, erano infatti accessibili a un pubblico indistinto al quale il fatto di non saper leggere non impediva di pagare il 52
biglietto del Globe Theatre per una tragedia di Shakespeare.
D
al XVIII secolo la crescente alfabetizzazione ampliò gradualmente il mercato per varie forme di scrittura, dal giornalismo (soprattutto con la nascita dei primi quotidiani a poco prezzo, la cosiddetta penny press) alla letteratura (la cui pubblicazione a puntate diede vita al feuilleton o romanzo d’ appendice). La necessità di riempire giornali e riviste, insieme a quelle di tenere i lettori legati alle testate e di strapparli alla concorrenza, invertì il rapporto tra domanda e offerta. Per la prima volta gli stampatori (che in questa fase coincidevano con gli editori e i direttori) iniziarono a remunerare i propri collaboratori. Nel 1886 il medico inglese Arthur Conan Doyle fu pagato “a corpo” 25 sterline per Uno studio in rosso, suo primo lavoro pubblicato dopo anni di frustrante apprendistato. Il personaggio di Sherlock Holmes portò il romanzo al successo e consentì a Doyle di cambiare editore in cerca di condizioni migliori. Approdato nel 1891 allo Strand Magazine con Uno scandalo in Boemia, Doyle fu pagato in media 35 sterline per ciascuno dei sei racconti successivi. Per il secondo gruppo di racconti il compenso medio fu di 50 sterline. Il contributo di Holmes alla diffusione del mensile, che toccò il mezzo milione di copie, permise a Doyle di spuntare compensi sempre maggiori, che a loro volta lo inducevano a supe-
rare la crescente freddezza nei riguardi del personaggio che aveva creato. Dal meccanismo delle puntate nacque l’ abitudine di retribuire gli autori a cottimo, in base alla lunghezza del testo. Da questo discende la lunghezza di tanti romanzi del XIX secolo. Gli scrittori scoprirono infatti di poter piegare il meccanismo a proprio vantaggio. L’ esempio più celebre è quello di Alessandro Dumas padre, che avendo stipulato con il giornale Le Constitutionnel un contratto annuale per centomila righe, ciascuna delle quali pagata 1,50 franchi, sapeva esibirsi in capolavori da ragioniere, spremendo 18 franchi da una ventina di parole. Athos: Ebbene? Grimaud: Nulla. (A) Nulla? (G) Nulla. (A) Come? (G) Nulla, vi dico. (A) È impossibile. (G) Ne sono certo. (A) Ne sei proprio sicuro? (G) Eh, diavolo! (A) Ah, è troppo. (G) È così. Pagamenti a corpo e a cottimo sopravvivono ancor oggi, soprattutto per le collaborazioni giornalistiche. Alle righe si sono però sostituite le battute (o caratteri, anglismo imposto dai programmi di videoscrittura come Word), che rendono più difficili le acrobazie alla Dumas. Il braccio di ferro è quindi sulla definizione di “cartella”, che molti editori 2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
IL MESTIERE DI SCRIVERE
tentano di spostare il più possibile sopra le 1.800 battute, tradizionale parametro della “cartella giornalistica”. Quale che sia il parametro, incassare il dovuto non è sempre facile. Nella mia esperienza si va dal pagamento alla consegna (“pochi, maledetti e subito”, praticato solo da un piccolo editore inglese) a quello alla pubblicazione (il più diffuso) fino al forte ritardo (con una testata italiana che emette l’ ordine dopo la pubblicazione, chiedendo lo sconto del 2,5% a titolo di garanzia del “collaudo”).
U
n terzo sistema, valido soprattutto per i libri, è rappresentato dai diritti d’ autore (royalties, per gli anglofili). In questo caso il compenso è costituito da una (modesta) percentuale del prezzo di copertina, con scaglioni a scalare e un anticipo garantito o comunque non rimborsabile. Poiché di rado si supera il primo scaglione, e ancor più raramente si raggiunge l’ importo già ricevuto, di fatto l’ anticipo costituisce l’ intero compenso. Ai diritti d’ autore sono talvolta legati meccanismi che scomputano dal totale talune voci di costo dell’ editore, dalle copie danneggiate ai costi di promozione. Si tratta di clausole al limite del vessatorio, che tendono a ridurre a zero le spettanze dell’ autore, senza dirlo apertamente. Con taluni editori la stessa certificazione del numero di copie vendute può essere fonte di attriti. Gli anticipi milionari vanno solo alle grandi celebrità quali IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
attori o sportivi, il cui nome garantisce forti vendite a prescindere dal contenuto, peraltro spesso affidato a ghostwriters. Da qui il detto secondo cui «se non vale la pena di scriverlo per l’ anticipo, non vale la pena di scriverlo affatto». Scrittori come Gabriele d’Annunzio seppero elevarlo a sistema, mungendo anticipi ai propri editori (in questo caso, Treves) rinviando all’infinito la consegna del manoscritto. Quale che sia il sistema di pagamento, resta la difficoltà di mantenere un flusso stabile di pubblicazioni. La domanda di saggi e racconti brevi è in calo da decenni, di pari passo con la scomparsa delle riviste che li ospitavano. Pur resistendo meglio della narrativa generalista e della letteratura “alta”, sono in calo anche i generi, dal giallo al rosa, dalla fantascienza alla guerra, che in passato offrivano sbocchi agli aspiranti autori, sia pure con ritmi e compensi da catena di montaggio. Né un successo, fosse pure vincere un importante premio, può garantire la continuità dell’ ispirazione o la capacità di intercettare costantemente il gusto del pubblico. «La professione di scrivere libri fa sembrare le corse dei cavalli come un’ attività solida e stabile», disse John Steinbeck a Newsweek nel dicembre 1962. Si capisce perciò perché dopo aver ricevuto nel 1973 un anticipo di 2.500 dollari per il suo primo romanzo (Carrie, 1974) Stephen King sia rimasto aggrappato al lavoro extra-letterario fino alla cessione dei diritti cinematografici,
un paio d’ anni più avanti (il romanzo gli avrebbe poi fruttato 400.000 dollari in diritti). I casi di Conan Doyle e King non sono però la norma, ed è un’ illusione costruire un bilancio familiare moltiplicando il compenso della prima pubblicazione per un numero di pubblicazioni sempre aleatorie. Per poeti e scrittori il tempo trascorso e l’ evoluzione sociale non hanno quindi mutato molto il quadro tracciato nel 1837. Senza scomodare il romanziere-impiegato Franz Kafka, come non pensare all’ odierno romanzieremedico Andrea Vitali, medico di base a Bellano (Lecco), e all’ altrettanto contemporaneo romanziere-magistrato Giancarlo De Cataldo, giudice in Corte d’ Assise a Roma? Infiniti sono anche gli esempi di giornalistiromanzieri (da Jack London a Ernest Hemingway, fino ad Alberto Gentili, si parva licet componere magnis) e di scrittori-docenti (da Giosuè Carducci a Umberto Eco, da Salvatore Quasimodo a J.R.R. Tolkien). Un’ occupazione tradizionale garantisce un’ entrata fissa, contributi pensionistici, assistenza sanitaria, ferie pagate, persino ammortizzatori nel caso peggiore: all’ alba del XXI secolo tutto questo, anche ai suoi livelli più bassi, costituisce ancora il primo e più utile corredo di uno scrittore. Ma è anche, al tempo stesso, ciò che consente agli editori di mantenere i compensi agli autori artificialmente (spesso scandalosamente) bassi.❧
Gregory Alegi 53
Conversazioni bibliofile a cura di giuseppe maria gottardi
Denique nullum est iam dictum, quod non dictum sit prius. In fondo, non c’ è nulla che non sia già stato detto. Terenzio (Eunuchus Prologo v. 40-41).
Pereant qui ante nos nostra dixerunt.
I
mparai cos’ è il plagio un mercoledì di novembre del 1967. A quell’ epoca frequentavo la IIIª Liceo Scientifico “Antonio Rosmini” in Rovereto. Quella mattina il prof. Franco Rella entrò in classe tenendo sotto il braccio la cartella con i nostri temi d’ italiano. Attendevamo con ansia il suo giudizio ed io mi meravigliai quando vidi che ero rimasto per ultimo alla consegna. Quella volta avevo scelto un titolo storico ed ero particolarmente contento di come avevo impostato l’ argomento. Ed ora - disse il professore - veniamo al bellissimo tema del vostro compagno Gottardi. Tutti mi guardavano quasi con invidia e non potei esimermi dal mostrare la mia soddisfazione. L’ impostazione dell’ argomento continuò - è stata sviscerata da Gottardi in modo sublime e tutte le sue affermazioni mi vedono totalmente in sintonia. Dal testo si comprende benissimo che il vostro compagno conosce perfettamente la materia sto-
Vadano in malora quanti hanno formulato le nostre idee prima di noi. Elio Donato (cit. da san Gerolamo In Eccles., 1,9).
rica che ha affrontato. Avevo raggiunto un livello tale di sbavamento che inghiottivo saliva senza ritegno. Tutto però si asciugò quando il professore aggiunse quel ma. Ma… - disse alzando lo sguardo ma c’ è un problema. Tutti i miei compagni erano più che attenti ed io… beh, io mi stavo paralizzando. Il vostro compagno Gottardi, forse pensa che io sia un vecchio anziano che non riesce a capire quando uno ruba la farina dalle gerle altrui. Dalla riga 4 alla riga 11, Gottardi si è appropriato delle parole di questo storico1. Dalla riga 17 alla 28 di quest’ altro. Dalla riga 36 fin quasi alla fine di un altro ancora. Devo ammettere che i collegamenti tra queste tre parti rubate sono più che perfetti ma rimane comunque il latrocinio commesso. Se il vostro compagno avesse messo queste tre parti tra virgolette ed avesse citato gli autori io non 1 - Sono spiacente di non poter ricordare l’ elenco dei libri che avevo usato. Ricordo solo che erano libri di testo in uso alle Scuole Magistrali e ai Geometri.
avrei potuto esimermi dal dargli un bel dieci e fargli i miei complimenti. Ma… poiché Gottardi si è completamente dimenticato ed io spero senza malizia, mi vedo comunque costretto a dargli un bel tre. Avevo fatto, per dirla alla francese, una connerie, ma imparai la lezione in quindici secondi. Delle 32 opere di Shakespeare i filologi inglesi e americani hanno scoperto, per ben 31 di queste, le matrici esterne a cui il grande drammaturgo si è ispirato. Per Romeo e Giulietta il paragone con Piramo e Tisbe descritti da Ovidio nelle sue Metamorfosi calza perfettamente. Tuttavia Ovidio si era a sua volta impossessato della storia narrata da Iginio nelle sue Fabulae. Ma… come cantano i Gipsy King: el amor es el amor. Per gli amici del Furore, basti ricordare che sulla trentaduesima opera c’ è una battaglia in corso, aperta a tutti. Se si togliessero tutti i riferimenti ad Omero dall’ Eneide di Virgilio, forse a stento se ne farebbe un pic-
Plagiomania 54
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
conversazioni bibliofile
ciol libro. E Molière scriveva: «Je prends mon bien où je le trouve». Uno dei più sfacciati copiatori fu il gesuita Labbe che non solo sfigurava degli interi trattati per appropriarsene ma, onde stornare i dubbi sulla sua opera, insultava senza ritegno quegli scrittori che aveva derubato. Uno dei più famosi dibattiti a riguardo del plagio, fu quello di Furetière con l’ Académie Française che lo accusava di essersi appropriato di alcuni argomenti che erano stati discussi assieme per poi arricchire il Dictionnaire che aveva pubblicato in proprio. Il successo del libro e la piccola importanza degli articoli in discussione non crearono problemi al suo pubblico ma gli costarono l’ espulsione dall’ Accademia. Lo spirito di corpo non è né clemente, né generoso. Di tutta questa querelle non rimangono che dei (rarissimi) factums. In alcuni di questi, a proposito del plagio e dei plagiari, egli espone una teoria piena di senno e verità: «Non si è mai assistito a processi per la rivendicazione di parole o di proverbi. Se ci sono delle lamentele da fare contro supposti plagiari, queste non si trattano che negli immaginari tribunali del Parnaso, dove gli autori si combattono solo con la penna in mano». Riguardo alle citazioni, oggigiorno è facile osservare articoli scientifici e non, talmente infarciti di note che viene spontaneo chiedersi se l’ autore sia almeno padrone delle virgole che usa. IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
Eppure basterebbe rileggersi Cervantes, nel prologo al suo Don Chisciotte, dove si scusa se lo pubblica: «… senza postille al margine, e senz’ annotazioni alla fine, delle
quali vedo ricche le altre opere… zeppe di sentenze di Aristotele, di Platone, e di tutto lo sciame dei filosofi; onde avviene che i lettori restano meravigliati, e tengono gli autori 55
conversazioni bibliofile
nel più gran conto per dottrina, per erudizione, per eloquenza… perché sono naturalmente infingardo e lento nell’ indagare autori che dicano quello che so dire da me medesimo senza lor dettature». Aristofane, ne Le nuvole, accusa Eupoli di aver plagiato una sua commedia. Scrive: «Aggiunse soltanto una vecchia ubriaca fradicia», che «già Frinico aveva inventato». Marziale (Epigrammi, 1,38) si fa beffe di un poeta che lo plagia, esattamente alla lettera, senza variazione alcuna, eccettuata la recitazione: «Fidentino, quel che reciti sono versi miei; ma li dici così male che ormai sembrano tuoi». Socrate così rimprovera Protagora: «Non venirmi fuori con citazioni di Simonide, perché diventeremmo come uomini incapaci di conversare, uomini che lasciano la parola alla musica che pagano per rallegrare i loro incontri. Tu che ne pensi? Non hai nulla da dire?». Seneca, al discepolo che gli domanda delle massime di filosofi, per impararle a memoria, scrive: «Non ne hai bisogno. Ormai è ora
che tu stesso dica cose memorabili» (Lettere a Lucilio, 33). Nicolas de Malebranche nel suo La ricerca della verità, 1674, scrive: «Comportarsi come se si fosse letto ciò che non si è letto capita con frequenza. Ci sono persone di trent’ anni che citano nelle loro opere più libri di quanti ne avrebbero potuto leggere in diversi secoli». Nel 1673, Jacob Thomasius fece una lista di abusi eleganti: firmare una compilazione di testi altrui con un titolo ingannevole, che suoni come un libro proprio, e non una compilazione; rubare l’ idea di un autore e non citarlo; oppure citarlo non nel punto fondamentale, ma in un altro del tutto secondario, per far scomparire il furto principale; oppure, ancora, incorniciare la refurtiva in una presentazione «superiore», che serve per citarlo, ma negativamente: criticando i suoi limiti, che molto lo sminuiscono; o, con audacia maggiore, accusandolo di plagio, per prevenire una possibile accusa contro di sé e screditarla in anticipo. L’ opera Dissertatio philosophica de plagio letterario
contiene un lungo elenco di autori che sarà nostra premura presentare nel prossimo numero della nostra rivista. In questo previsto articolo sul plagio letterario ci sarà anche un piccolo riferimento all’ opera di Musil: L’ uomo senza qualità. Per un nostro futuro lavoro su di un efferato delitto commesso nell’ aprile del 1900 nella nostra città di Rovereto, abbiamo incontrato qualche piccolo appunto nell’ opera del noto autore austriaco che proprio in quel periodo era di stanza in quel di Bolzano come militare. Per queste poche note, onde evitare un’ accusa di plagio, abbiamo saccheggiato, per i riferimenti sugli autori, due pagine del bellissimo lavoro del messicano Gabriel Zaid: El secreto de la fama apparso tradotto per l’ edizione italiana da Mario Gobbi con il titolo: Il segreto della fama per i tipi tipografici dell’ Editoriale Jaca Book Spa, Milano, 2010. Benché non sia nostra abitudine consigliare libri, in questo specifico caso, non possiamo esimerci.❧
Giuseppe Maria Gottardi
DORME BEATO QUEL CHE’L LIBRO NON HA PLAGIATO
56
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
Libro chiama libro a cura di David Cerri
P
iù che “libro chiama libro”, a proposito di ciò che segue e della Toscana tra ‘700 ed ‘800, si potrebbe dire “scrittore che chiama scrittore”. Iniziamo ricordando come dopo un intervallo quasi trentennale, e grazie anche a Napoleone, nel 1812 fosse stata ricostituita l’ Accademia della Crusca, soppressa da Pietro Leopoldo ed accorpata con quella Fiorentina e quella degli Apatisti in una unica istituzione; troppe erano state le critiche sia per la pretesa di dettare il “canone” in materia di lingua, sia per la scarsa attività: la quarta edizione del Vocabolario ultimata nel 1738 aveva visto solo ristampe private successive, a Venezia e Napoli, con poche aggiunte. Nominati i nuovi accademici, Pietro Ferroni fu il presidente, e segretario l’ avvocato Lorenzo Collini, destinato a rivestire quella carica fino al 1817, per poi divenire censore e conservatore. Il fiorentino Collini (1764-1829), collaboratore dell’ Antologia del Vies-
seux dopo aver fondato Il Saggiatore – rivista che ne fu l’ antesignana – e promotore per conto dell’ Accademia dell’ acquisto del fondo della Biblioteca Riccardiana (a rischio di dispersione), fu figura nota di letterato e di patriota attivo nel periodo napoleonico ed anche durante la Restaurazione, ma soprattutto un avvocato. Nella sua opera più nota, le Orazioni civili e criminali (1824-1825) si contano, oltre alle difese civili e penali, alcune lezioni tenute all’ Accademia, tra le quali si segnala quella Sull’ eloquenza forense del 18151. Credo interessante notare, partendo dalla nomina di un avvocato a segretario della famosa Accademia, come in quel torno di anni si ritrovassero in Toscana figure assai note di letterati, alcune (molte, in realtà) delle quali erano al contempo valenti giuristi (e giuristi pratici). Così a Pisa nel 1795 Vittorio Alfieri impersonava la parte di Saul 1 - In Orazioni civili e criminali dell’ avvocato Lorenzo Collini fiorentino, Firenze, Conti, vol. II (1824), p. 3 ss.
nella recita della sua tragedia organizzata in una dimora privata, con, nella parte di David, Giovanni Carmignani, giurista pisano (che pochi anni dopo scriverà una critica Dissertazione accademica sulle tragedie di Vittorio Alfieri, di successo letterario, intrattenendo poi anche una fitta corrispondenza con il Viesseux); mentre analoga recita poco prima a Firenze aveva visto, insieme ai due, proprio il Collini quale Gionata2. Il milieu letterario nel quale il Collini si trovava ad operare annoverava anche il Foscolo, del quale egli fu un consueto corrispondente, e tra l’ altro destinatario di una lunga lettera su “citazioni ed epigrafi” nella quale il poeta non esita tra l’ altro ad individuare in pisani, lucchesi e fiorentini la natura di “interrogatori imperterriti, inesorabili, 2 - Le notizie, riportate in varie biografie, sono qui tratte da V. Alfieri, La vita scritta da esso, p. IV § 23, e da A. Mazzacane, Giovanni Carmignani: un profilo intellettuale, in Giovanni Carmignani. Maestro di scienze criminali e pratico del foro, sulle soglie del Diritto Penale contemporaneo, a cura di M. Montorzi, Edizioni ETS, Pisa, 2003, pp. 3-4.
Lettere e toga in Toscana IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
57
libro chiama libro
eterni”, in una divertente carrellata sui caratteri nazionali3; ed, oltre ai già citati, altri autori drammatici ora meno noti, come Alberto Nota (anch’ egli avvocato), che gli dedicò la commedia La lusinghiera4. È con il famoso “Pisan Affair” che le traiettorie di personaggi come Lord Byron, Shelley e Collini collidono. Proprio la fama di avvocato criminale del fiorentino spinse infatti nel 1822 Byron (che aveva cercato di assicurarsi anche le prestazioni di Carmignani) a chiamarlo a Pisa, alloggiandolo presso di sé a Palazzo Lanfranchi, perché assistesse insieme a Federigo del Rosso, altro insigne giurista5, i suoi servitori incriminati. Il 21 (o 24) marzo 1822 infatti il poeta inglese, di ritorno al Palazzo insieme ad alcuni amici inglesi ed italiani, era stato affrontato tra Porta a Piagge ed il Lungarno dal sergente maggiore della cavalleria leggera reale toscana Stefano Masi, forse ubriaco; nello scontro rimase ferito, tra gli altri, Shelley. Delle drammatiche scene furono testimoni anche la creatrice di Frankenstein, Mary Shelley, e la Contessa Guiccioli, amante di Byron. Creduto ferito il padrone, uno dei servito3 - Indirizzata All’ Avvocato Giovanni Collini (ma è Lorenzo), è una lettera dall’ Inghilterra. 4 - La commedia e la lettera di dedica si leggono in A. Nota, Commedie, T. IV, Parigi, Baudry, 1829. 5 - Vecchio amico di Percy B. Shelley, che con la moglie Mary era con Byron a Pisa in quello stesso 1822, fino alla repentina morte per annegamento in luglio.
58
Pisa. 12 novembre 1827 Paolina mia, …Sono rimasto incantato di Pisa per il clima: se dura così, sarà una beatitudine. Ho lasciato a Firenze il freddo di un grado sopra gelo; qui ho trovato tanto caldo, che ho dovuto gettare il ferraiuolo e alleggerirmi di panni. L’ aspetto di Pisa mi piace assai più di quel di Firenze: questo lung’ Arno è uno spettacolo così bello, così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente che innamora: non ho veduto niente di simile né a Firenze né a Milano né a Roma: e veramente non so se in tutta l’ Europa si trovino molte vedute di questa sorta. Vi si passeggia poi nell’ inverno con gran piacere, perché v’ è quasi sempre un’ aria di primavera: sicché in certe ore del giorno quella contrada è piena di mondo, piena di carrozze e di pedoni: vi si sentono parlare dieci o venti lingue, vi brilla un sole bellissimo tra le dorature dei caffè, delle botteghe piene di galanterie, e nelle invetriate di palazzi e delle case, tutte di bella architettura. Nel resto poi, Pisa è un misto di città grande e di città piccola, di cittadino e di villereccio, un misto così romantico che non ho mai veduto altrettanto. A tutte le altre bellezze si aggiunge la bella lingua…
ri di Byron colpì poco dopo il Masi con un piccolo forcone, rischiando di ucciderlo. Lord Byron era stato preceduto a Pisa qualche decennio prima (tra
il 1744 ed il 1748) da Carlo Goldoni, che oltre a partecipare alla vita delle accademie cittadine ed a idearvi alcune delle sue più celebri opere (come Il servitore di due padroni e I due gemelli veneziani) vi esercitò la professione forense, lasciandone copiose tracce ora nel locale Archivio di Stato, dove sono state ritrovate diecine di suoi scritti legali6. Non ci possiamo poi dimenticare Giacomo Leopardi, che giunto a Pisa per motivi di salute (la città era consigliata per il suo clima temperato e salubre), vi scrisse l’ immortale A Silvia nel 1827, narrando alla sorella Paolina la serenità ritrovata. Proprio Collini, del resto, ne fu un appassionato lettore, in particolare delle Operette morali, poco apprezzate dall’ ambiente liberal-cattolico fiorentino7. Del Collini due altre lezioni, tra i tanti interventi, confermano un convergere di interessi tra diritto e letteratura, “lettere e toga” come abbiamo scritto in epigrafe, non solo nelle passioni private, ma an6 - Goldoni ebbe sempre in grande considerazione la professione forense, talvolta esaminandola con feroce ironia – come in Il Cavaliere e la Dama – ed altra esaltandola, come in L’ Avvocato veneziano. Una antologia degli oltre settanta atti civili redatti dal Goldoni durante la sua permanenza in Pisa è stata pubblicata in Carlo Goldoni Avvocato a Pisa (1744-1748), a cura di G. De Fecondo e M.A. Morelli Timpanaro, Bologna, Il Mulino, 2009. 7 - Così si esprime N. Bellucci, Giacomo Leopardi e i contemporanei: testimonianze dall’ Italia e dall’ Europa in vita e in morte del Poeta, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996, pp. 124 e 138.
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
libro chiama libro
che nell’ elaborazione giuridica di temi strettamente attinenti alla creazione intellettuale. Così nel 1818 (Della proprietà letteraria8) con argomenti non solo giuridici – e che sarebbero tuttora di attualità, se si pone mente alla querelle sul diritto d’ autore e la diffusione non autorizzata di opere su internet – si sollecita l’ adozione di leggi a tutela di quella che con un consapevole gioco di parole vien definita “la proprietà… più propria di ogni altra”, e che “assimila l’ uomo alla divinità”, nel ricordo del breve vigore in Toscana della legislazione in materia d’ origine francese. Vi si nega con fervore che quello dell’ autore dell’ opera intellettuale sia un deleterio “monopolio”, o meglio, lo si assimila piuttosto a quello dei proprietari delle migliori vigne del Chianti, o di Montepulciano: “…se la natura ha largito a quelle pendici fortunate un tesoro … ecco che il monopolio viene dalla natura stessa, e benedetto sia quel monopolista, che coltivò i generosi rampolli”; e ciò non senza auspicare una tutela che superasse gli angusti limiti derivanti dalla frammentazione politica dell’ Italia, muovendo dall’ esempio toscano per ispirare anche gli altri “potentati” ad un trattato generale per fare “d’ Italia tutta un solo governo in letteratura”. Ne Delle cagioni per le quali doveva accadere, e di quelle per le quali 8 - In Atti dell’ imp. e reale Accademia della Crusca, Firenze, Tip. all’ insegna di Dante, Tomo II, p. 130 ss.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
non è accaduto, che la lingua italiana sia diventata la lingua universale della culta Europa (18199) si coglie il rammarico per il primato allora rivestito dalla lingua francese, per l’ occasione perduta a causa da un lato dell’ ossequio che gli stessi italiani avrebbero continuato a prestare al latino, e, dall’ altro, dalla troppo anticipata “maturità stessa del nostro secol d’ oro, che troppo precorse l’ attitudine delle altre nazioni agli studi, le quali troppo dopo l’ italiana s’ incivilirono”. Collini non ignora peraltro il complesso quadro culturale e soprattutto politico che ha determinato quegli esiti storici, come si comprende dall’ excusatio posta in calce alla lezione: investigazione delle altre cause “L’ dalle quali emanarono effetti tanto diversi, ci menerebbe in più vasto campo, e ci aggirerebbe lunga pezza per entro i politici laberinti, da’ quali non è un filo accademico quello che possa mostrare la via di sicura uscita”. I caratteri dell’ opera del Collini furono subito ben colti dai contemporanei, come si evince dalla lettura del suo elogio funebre, resogli dall’ Accademia della Crusca nell’ adunanza pubblica del 14 settembre 183010. L’ estensore difende infatti l’ unione di diritto e letteratura, “dissentendo … da que’ che opinano, non poter la severa giurispru-
denza stare unita all’ amenità delle lettere”, e valendosi degli esempi di Cino da Pistoia (“giureconsulto sommo, e lirico tenero ed elegantissimo”) e del Poliziano; ma lasciamo infine che sia Goldoni a trarre le conclusioni sul rapporto tra la letteratura e le professioni forensi. Concludendo la prefazione a L’ Avvocato veneziano (dopo aver fatto ammenda per l’ aver fustigato a sufficienza la categoria nell’ opera precedente dalla simile ambientazione), il drammaturgo sostiene: “Il mio Avvocato non è che una copia dei buoni ed un ammaestramento ai cattivi. Chi lo somiglia, si consoli; chi va distante, arrossisca; chi non sa, impari; e chi sa, mi difenda”11. La Toscana, tra la seconda metà del ‘700 e la prima del secolo successivo, ci addita molte occasioni per indagare quel rapporto.❧
9 - In Atti op. ul. cit., p. 263 ss. 10 - In Storia della Accademia della Crusca e Rapporti ed Elogi del segretario Cav. ab. Gio. Batista Zannoni, Firenze, Tipogr. del Giglio, 1848, p. 271.
11 - C. Goldoni, L’ Avvocato veneziano, atto primo, scena decima. Sull’ opera E. Ripepe, In margine a L’ Avvocato Veneziano del Dottore Carlo Goldoni Avvocato Veneziano, in Diritto e formazione, 2008, p. 313 ss.
David Cerri
t
59
Lo Scaffale a cura di Italo Bonassi
V
ittorio Sereni, poeta, scrittore, critico letterario, saggista, traduttore, nasce a Luino il 27 luglio del 1913, unico figlio di un funzionario di dogana di origini venete. Nel 1924 la famiglia si trasferisce a Brescia, dove Vittorio frequenta il liceo e poi nel 1932 a Milano, dove s’ iscrive a Legge ma dopo solo tre mesi passa alla Facoltà di Lettere e Filosofia, e s’ iscrive a un circolo letterario frequentato da future celebrità, come Antonio Banfi, Giosuè, Antonia Pozzi, Luciano Anceschi, Giancarlo Vigorelli ed altri, facendo anche parte della redazione della rivista Vita Giovanile, finanziata da Ernesto Treccani. Occasione più fortunata non ci poteva essere per farsi conoscere nel mondo letterario milanese e per pubblicare le sue prime poesie, recensite dal poeta già affermato Carlo Betocchi. Banfi lo chiama come assistente alla facoltà di Lettere. Qui, all’ Università, conosce Maria Luisa Bonfanti che sposa nel 1940.
Poeta, scrittore, critico letterario, saggista, traduttore Un anno dopo diventa insegnante di ruolo alla Facoltà di Lettere di Modena. L’ amicizia con il poeta Attilio Bertolucci gli fa riprendere la vena poetica e pubblica la sua prima raccolta di versi, Frontiera. Nel 1942 viene arruolato nella Divisione Pistoia e vede un succedersi di avvenimenti dolorosi, con la campagna d’ Africa e poi quella di Grecia, quindi in Sicilia a fronteggiare lo sbarco degli Alleati, poi la sconfitta e la prigionia in Algeria e in Marocco, fino al luglio del 1945. Torna in Italia, ma profondamente distrutto e segnato nello spirito. Si stabilisce a Milano, dove riprende l’ insegnamento, al liceo classico Carducci. Anni di ri-
strettezze economiche ma anche di amicizie importanti, con Umberto Saba, Vasco Pratolini, Sergio Solmi. Per la Vallecchi pubblica nel 1947 Diario d’ Algeria. Nel 1952 smette l’ insegnamento e passa alla direzione pubblicitaria della Pirelli, in fase di ristrutturazione e ripresa industriale dopo la crisi della guerra. Pochi anni, e nel ‘58 diventa direttore editoriale della Mondadori, dove resta fino all’ età della pensione, nel 1975. Senza più assilli economici, intensifica la sua produzione letteraria con un gruppo di raccolte poetiche sotto il titolo di Un lungo sonno. Nel 1961 dà alle stampe la traduzione di una scelta di poesie di William Carlos Williams, e nel 1962, per il Saggiatore, una raccolta di poesie, Gli immediati dintorni. Sempre nel 1962 fonda una rivista letteraria, Questo e altro, che uscirà fino al 1964. Contemporaneamente pubblica per Scheiwiller un testo in prosa, Opzione. Un anno dopo,
Vittorio Sereni 60
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
Lo scaffale
un’ altra raccolta poetica, Gli strumenti umani. Dal ‘66 la sua intensa attività culturale lo porta in Egitto, in Russia, in Cina, in Olanda, in Francia e negli USA per seminari e conferenze. Nel 1980 pubblica per il Saggiatore Il sabato tedesco e l’ ultima sua raccolta poetica per la Garzanti, Stella variabile. Muore per un aneurisma il 10 febbraio 1983 a Milano, nella sua abitazione vicino alla stadio di San Siro, dove aveva voluto andare ad abitare, per poterlo facilmente raggiungere a piedi ogni due domeniche, con tanto di sciarpa e cuscinetto neroazzurri, per sostenere la squadra del cuore, la sua Inter. C’ è da dire anzitutto che Vittorio Sereni, a differenza di altri grandi poeti suoi contemporanei (Luzi, Montale, Quasimodo, Ungaretti), è sempre rimasto praticamente fuori dal grande prestigioso movimento letterario predominante, quasi esclusivo, dei suoi tempi, l’ Ermetismo. E non solo per sua scelta, ma anche per le diverse vicissitudini della sua vita, la guerra, la campagna d’ Africa e quella di Grecia, con lunghi momenti quindi di forzata inattività, oltre agli anni trascorsi in prigionia in Africa, e le ristrettezze economiche del dopoguerra hanno inciso profondamente nel suo spirito assai di più che non gli altri autori. L’ evoluzione del suo linguaggio è però similare a quella ad esempio di Luzi soprattutto, ma anche di Bertolucci e di Fortini, ma con una maggiore grazia e naturalezza di IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
tematiche e d’ espressione, un tipo di poesia piana e garbata, in coerenza col suo stile di vita, ma anche con un senso quasi doloroso di insoddisfazione e d’ irrequietezza interiore. Un linguaggio, è stato scritto, con tratti di rottura e di stonatura “per scombinare la tentazione dell’ idillio”: Strada di Zenna Ma torneremo taciti a ogni approdo. Non saremo che un suono di volubili ore noi due o forse brevi tonfi di remi di malinconiche barche. Un lampeggiare d’ immagini, di luci e bui improvvisi, di rotture sintattiche che spezzano l’ incanto felice dell’ impasto poetico, a volte con una sommessa teatralità, è la peculiarità principale della sua poetica; non per nulla la sua raccolta Strumenti umani avrebbe desiderato intitolarla Teatro di parole. L’ altra sua importante raccolta, Stella variabile, con un linguaggio moderno e spregiudicato alla Luzi, raggiunge una dimensione quasi negativa di una realtà sgradevole di cui si sente egli stesso corresponsabile, come una rinuncia a dare un senso alle cose, una dissonanza e mancanza di una linea chiaramente identificabile, con testi ora narrativi ed ora oracolari, anche profondamente nichilisti alternati con altri che lui stesso definisce “risorgenti”.
Il poggio Quel che di qui si vede - mi sentite? dal belvedere di non ritorno - ombre di campagne, scale naturali e che rigoglio di acque che lampi che fiammate di colori che tavole imbandite è quanto di voi di qui si vede e non sapete quanto più ci state. Montale, invece, nelle ultime sue opere era passato alla satira, con un sorprendente passaggio dal puramente lirico di Ossi di seppia al dissacrante sarcasmo. Come anche in Montale, in Luzi e in quasi tutti i poeti del ‘900 anche in Sereni abbiamo predominante il ruolo della memoria, che per Sereni ha l’ aspetto esplicito e patetico di “luce e strazio” più che commozione e nostalgia. In una poesia che Sereni ha ritenuto fondamentale nella sua visione metafisica, Concerto in giardino (in Frontiere), troviamo un rapido susseguirsi di termini sonori (tromba, roca, echeggia, suono, ringhi, ritmi, s’ accorda, fischiano, concerto), divisi tra immagini innocenti (il gioco dei fanciulli con la pompa dell’ acqua) e minacciose (i treni che portano verso scenari bellici), mediate dal doppio significato della parola tromba, che in milanese indica anche la pompa dell’ acqua. Il ringhio della tromba d’ acqua s’ identifica nel ringhio della tromba di guerra, e i bambini che giocano con 61
lo scaffale
l’ acqua diventano “guerrieri”, come guerrieri sono i soldati che nelle tradotte vanno verso la guerra. Concerto in giardino A quest’ ora innaffiano i giardini in tutta Europa. Tromba di spruzzi roca raduna bambini guerrieri, echeggia in suono d’ acque sino a quest’ ombra di panca. Ai bambini in guerra sulle aiuole sventaglia, si fa vortice; suono sospeso in gocce istante ti specchi in verde ombrato, siluri bianchi e rossi battono gli asfalti dell’ Avus, filano treni a sud-est tra campi di rose. Da quest’ ombra di panca ascolto i ringhi della tromba d’ acqua: a ritmi di gocce il mio tempo s’ accorda. Ma fischiano treni d’ arrivi. S’ è strozzato nel caldo il concerto della vita che svaria in estreme girandole d’ acqua. Ma l’ ombra protettiva della panca non servirà a proteggere il poeta, che dovrà pure lui salire su uno di quei treni che filano a sud-est. L’ ombra è un termine ricorrente nella poesia di Sereni: troviamo l’ ombra dei sottopassaggi, l’ ombra fedele dei morti, l’ ombra, verde ombra, verde, umida e viva (Strumenti uma62
ni) abbiatela cara quest’ ombra / verde e questo male (A Parma), e così via. Quando nel 1941 venne pubblicata l’ opera Frontiera, la poesia di Vittorio Sereni fu subito paragonata sia a quella del modernismo minore, sotto l’ influenza di Ungaretti e Quasimodo, sia alla poesia dell’ ermetismo fiorentino, anche se ad un più attento esame la tonalità poetico-discorsiva, quella di poesia narrativa, faceva intravedere, fin da allora, una scrittura e una tematica in sincronia con la concretezza, con il realismo, quindi poco di ispirazione ermetica. La prigionia e la guerra avrebbero in seguito mutato il suo modo di vedere il mondo che stava diventando ai suoi occhi sempre più in-
decifrabile (come in Diario d’ Algeria) e il linguaggio che utilizzerà, insieme a termini classici, arcaici, gli servirà spesso a distanziarlo dalla realtà, con un ritmo del verso fatto di modulazioni da una strofa all’ altra. È stato scritto che il suo stato d’ animo è “la condizione del prigioniero, molto simile a quella dello stato umano”. Uno dei libri più impegnativi fra quanti sono stati scritti nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale è certamente la raccolta Strumenti umani, una raccolta di versi dove si descrivono scene di vita cittadina, di ritorno ai luoghi amati della prima giovinezza, di forti amori e affetti contrastanti. Pur essendo di solito lontana dalla for2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
lo scaffale
ma politica, la poesia di Sereni è viva interprete di alcuni decenni della vita della borghesia italiana nel momento del passaggio alle forme del capitalismo di oggi. Strumenti umani, la terza raccolta di Sereni, è figlia del difficile e tormentato dopoguerra del poeta, reduce dai campi di prigionia dell’ Algeria e del Marocco. Un nuovo iter poetico articolato in tre diversi momenti che riflettono la realtà storica di quegli anni. Il primo momento (1945-1950) è quello del ritorno ed è animato dalla volontà di chiudere per sempre con il passato, con i segni della guerra, della corruzione e della violenza; a questa speranza di purificazione subentra presto la paura di un’ altra sconfitta, come si può riscontrare nella lirica Saba. Da questo cupo sentimento nasce il secondo momento (1950-1960), in cui Sereni comprende che nulla è cambiato rispetto a quel passato che voleva eliminare. Da qui un certo sconforto per non aver partecipato alla Resistenza, per aver sempre vissuto in una costante incertezza e con la paura di finire prigioniero, lui marxista convinto, del capitalismo, come risulta evidente nella lirica Una visita in fabbrica. Un genere di poesia prosastica o prosa poetica possiamo dire operaia, socialmente impegnata. …Non ce l’ ho, dice, coi padroni. Loro almeno sanno quello che vogliono. Non è questo, non è più questo il punto. IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
E raffrontando e rammemorando: “la sacca era chiusa per sempre e nessun moto di staffette, solo un coro di rondini a distesa sulla scelta tra cattura e morte”. Ma qui non è peggio? Accerchiati da gran tempo e ancora per anni e poi anni ben sapendo che non più duramente (non occorre) si stringerà la morsa. C’ è vita, sembra, e animazione dentro quest’ altra sacca, uomini in grembiuli neri che si passano plichi uniformati al passo delle teleferiche di trasporto giù in fabbrica. Salta su il più buono e inerme, cita: “E di me splendèa la miglior parte” tra spasso e proteste degli altri - ma va là - scatènati. Un’ altra sua opera importante è Diario d’ Algeria, con poesie scritte durante la prigionia in Algeria e nel Marocco. Diverse di queste poesie sono state rielaborate a mente, essendo andate perdute durante la fase concitata del rientro. Una sorta di diari delle sue vicissitudini di prigioniero di guerra. Una raccolta, questa, che ha provocato il rimprovero a Sereni, e si era nel primo dopoguerra, di proseguire sulla linea
di una “poesia pura”, sorda sia alla descrizione degli orrori del passato che al movimento resistenziale. Una delle poesie più belle e più altamente liriche di questa raccolta è senz’ altro Non sa più nulla, che avrò letto e riletto chissà quante volte. Tra le notizie che trapelavano nella prigionia africana c’ era che durante lo sbarco in Normandia gli anglo-americani erano talmente organizzati da trasportare i primi morti ed i feriti gravi in elicottero in Inghilterra. Quindi “il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna” “è alto sulle ali” significa che veniva trasportato via dal campo di battaglia con un ponte aereo. “Alto sulle ali” può suggerire l’ immagine di una creatura angelicata, rapportata alla “musica d’ angeli” degli ultimi versi. Quel qualcuno che di notte tocca il poeta s’ una spalla può essere un compagno di tenda o un essere immaginario sognato, un pensiero diventato persona. Non sa più nulla Non sa più nulla, è alto sulle ali il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna. Per questo qualcuno stanotte mi toccava la spalla mormorando di pregar per l’ Europa mentre la Nuova Armada si presentava alla costa di Francia. Ho risposto nel sonno: - È il vento, il vento che fa musiche bizzarre. 63
lo scaffale
Ma se fossi davvero il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna, prega tu se lo puoi, io sono morto alla guerra e alla pace. Questa è la musica ora; delle tende che sbattono sui pali. Non è musica d’ angeli, è la mia sola musica e mi basta. Con quell’ essere morto alla guerra ed alla pace, Sereni vuole dimostrare, nel suo stato di prigioniero, una rassegnata estraneità a quello che si stava svolgendo, le operazioni di guerra come quelle per tentare la pace. Come a dire ch’ era tagliato fuori dalla storia. La musica delle tende che sbattevano sui pali era l’ unica realtà che in quei momenti conosceva, che non era una musica alta, da angeli, ma quella angosciante dell’ ululo del vento. Davanti ad una boscosa collina nel campo di prigionia improvviso nell’ afa di luglio il ricordo amoroso di un tempo felice e di una giovane donna sdraiata nell’ erba alta (Perché continuiamo a stare abbracciati con questo caldo atroce? aveva detto lei, parole che ora ritornano nella solitudine africana). Ahimè come ritorna Ahimè come ritorna
sulla frondosa a mezzo luglio collina d’ Algeria di te nell’ alta erba riversa non ingenua la voce e nemmeno perversa che l’ afa lamenta
64
e la bocca feroce ma rauca e un poco tenera soltanto… Cambiano i luoghi della prigionia, e con essi i numeri dei campi: 127, 131, 132, … ma è un falso movimento: la zona sempre la stessa, le stesse stelle, tutto ruota attorno ad una sola città: Orano. I prigionieri quasi sepolti in quella sabbia africana del campo di prigionieri sono come fossero morti, morti senza pace. Non sanno d’ essere morti Non sanno d’ essere morti i morti come noi, non hanno pace. Ostinati ripetono la vita si dicono parole di bontà, rileggono nel cielo i vecchi segni. Corre un girone grigio in Algeria nello scherno dei mesi ma immoto è il perno a un caldo nome: Oran. Nel luglio 1940 l’ Italia entra in guerra. Il Diario d’ Algeria inizia così, col presentimento di anni d’ incubi (città al tramonto, parvenze sui ponti, baleno di fari) e la speranza di uscirne salvo in un incerto futuro. Periferia 1940 La giovinezza è tutta nella luce d’ una città al tramonto dove straziato ed esule ogni suono si spicca dal brusio.
E tu mia vita sàlvati se puoi serba te stessa al futuro passante e quelle parvenze sui ponti nel baleno dei fari. Voldòmino è un paesino presso Luino, che con un gioco di parole viene definito volto di Dio. Il poeta vi arriva di notte, una notte di passi e di rintocchi, quando gli operai in una luce fioca si affrettano alla fabbrica. Ma il poeta desidererebbe un altro specchio di quel paesino al risveglio dalla notte, non quello buio e triste della notte, ma il cielo chiaro e terso del giorno. Viaggio all’ alba Quanti anni che mesi che stagioni nel giro di una notte: una notte di passi e di rintocchi. Voldòmino, volto di Dio. Un volto brullo ho scelto per specchiarmi nel risveglio del mondo. Ma dimmi una sola parola e serena sarà l’ anima mia. Paesaggio tutto neve. Di che misterioso alfabeto sono quelle lievi impronte sulla neve? Quale messaggio di salvezza? Pare uno zampettio di galline, ma quella bava celeste che si schiude nel cielo lattiginoso è un invito, una fanfara. Poi, la pioggia cancella tutto, e chi non è corso dietro quel richiamo, sente che ha tradito sé stesso per aver scelto una traccia più certa e comoda. 2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
lo scaffale
Nella neve Edere? Stelle imperfette? Cuori obliqui? Dove portavano, quali messaggi accennavano, lievi? Non tanto banali quei segni. E fosse pure uno zampettio di galline se chiaro cantava l’ invito di una bava celeste nel giorno fioco. Ma già pioveva sulla neve, duro si rifaceva il caro enigma. Per una traccia certa e confortevole sbandavo, tradivo ancora una volta. Algeria Eri prima una pena che potevo guardarmi nelle mani sempre più dalla tua polvere arse per non sapere più d’ altro soffrire. Come mi frughi riaffiorata febbre che mi mancavi e nel perenne specchio ora di me baleni quali nel nero porto fanno il giorno indicibili segni dalle navi. Il poeta, come straniato da sé stesso, immagina in una visione di sgomento la propria morte, come appena accaduta nella sua casa, lasciata aperta la porta per le visite funebri, e le strade di Milano piene di vento. IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
Le sei del mattino Tutto, si sa, la morte dissigilla. E infatti tornavo, malchiusa era la porta, appena accostato il battente. E spento infatti ero da poco, disfatto in poche ore. Ma quello vidi che certo non vedono i defunti: la casa visitata dalla mia fresca morte, solo un poco smarrita calda ancora di me che più non ero, spezzata la sbarra inane il chiavistello e grande un’ aria e popolosa attorno a me piccino nella morte, i corsi l’ uno dopo l’ altro desti di Milano dentro tutto quel vento. Lungo l’ autostrada Parma-La Spezia c’ è il Passo della Cisa. Nel suo rientro verso Milano, a sera avanzata, il poeta incontra “a un chilometro dal Passo” le solite donnine che, chiusi in sacchetti, in cima a lunghi bastoni offrono i funghi del bosco e i frutti della loro terra. E il valico della Cisa diventa così il “vallo estremo” di Montale, le donnine le “erinni”, le Furie della mitologia. E spesso, al di là del Passo, si ha la sorpresa di un cielo azzurrissimo. Autostrada della Cisa Tempo dieci anni, nemmeno prima che muoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù e un banco di nebbia ci divise per sempre). Oggi, a un chilometro dal passo, una capelluta scarmigliata erinni agita un cencio dal ciglio di un dirupo, spegne un giorno già spento, e addio. Sappi, - disse ieri lasciandomi qualcuno di momento in momento credici a quell’ altra vita, di costa in costa aspettala e verrà come di là dal valico un ritorno d’ estate. Uno spaccato di vita politica italiana. Elezioni politiche del ’ 48, l’ Italia ridotta a macerie e polvere, con due fronti contrapposti: il blocco filooccidentale cui fa capo la Democrazia Cristiana di Degasperi e il cosiddetto blocco popolare, col Partito Comunista di Togliatti e quello Socialista di Nenni, con vittoria del primo. L’ Italia doveva scegliere se rimanere nell’ orbita del mondo occidentale, anticomunista, o passare a quello sovietico di Stalin. Sereni e Saba, entrambi di profonda fede comunista, ascoltano alla radio l’ uno con rassegnazione e Saba con rabbia i risultati. Saba s’ aggira furioso da un bar all’ altro, dando della “porca” all’ Italia che aveva votato contro i comunisti. Saba, così dolce e delicato come poeta, era insofferente ed estremista 65
lo scaffale
nelle sue convinzioni politiche: “Dopo il nero fascista, il nero prete; / questa è l’ Italia, e lo sai…” (da Opicina). Di Saba Sereni ha scritto: “Per voler bene all’ uomo che Saba era, bisognava superare il primo impatto, resistere al primo quarto d’ ora di conoscenza, durante il quale appariva diffidente o aggressivo, fino a riuscire antipatico. Dopo, talora si scioglieva e diventava anche adorabile”. Sereni, parlando di Saba, racconta come, nel giorno della sconfitta del blocco popolare, non appena sentito dalla radio annunciare il risultato delle elezioni, andasse qua e là furioso per la città per non sentire la voce dello speaker, che però lo inseguiva ovunque,
con tutte le radio che l’ annunciavano ossessivamente dalle tante finestre aperte (lo vidi errare da una piazza all’ altra / dall’ uno all’ altro caffè di Milano / inseguito dalla radio).❧
Italo Bonassi Saba Berretto, pipa, bastone, gli spenti oggetti di un ricordo. Ma io li vidi animati indosso a uno ramingo in un’ Italia di macerie e di polvere. Sempre di sé parlava ma come lui nessuno
ho conosciuto che di sé parlando e ad altri vita chiedendo nel parlare altrettanta e tanta più ne desse a chi stava ad ascoltarlo. E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile, lo vidi errare da una piazza all’ altra dall’ uno all’ altro caffè di Milano inseguito dalla radio. “Porca”, vociferando, “porca”. Lo guardava stupefatta la gente. Lo diceva all’ Italia. Di schianto, come ad una donna che ignara o no a morte ci ha ferito.
Bibliografia Essenziale Poesie Frontiera, La Corrente, Milano 1941, ristampa anastatica, Archinto, Milano 1991, nuova edizione Scheiwiller, Milano 1966 Poesie, Vallecchi, Firenze 1942 Diario d’Algeria, Mondadori, Milano 1965, Lo Specchio Mondadori 1976 Gli strumenti umani, Einaudi, Torino 1965 Stella variabile, 130 esemplari fuori commercio, Amici dei Libri, Verona 1979, Garzanti, Milano 1981, Einaudi, Torino 2010 Tutte le poesie, antologia critica di Mengaldo, I Meridiani Mondadori, Milano 1995 e 1999 Poesie e prose, Arnoldo Mondadori, Oscar Poesia, giugno 2013
66
Antologie Poesie scelte, Mondadori, Milano 1973 Il grande amico. Poesie, 1935-1981, BUR, Milano 1990 e 2004 Poesie. Un’antologia per la scuola, Nastro & Nastro, Luino 1993, Einaudi, Torino 2003 e 2005 Non si enumerano qui le tante traduzioni, soprattutto dall’inglese e dal francese, le prose e le prose critiche, nonché i diversi carteggi, tutte pubblicazioni di notevole valore e interesse, ma che esulano dal tema della poetica di Vittorio Sereni.
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
Musicobibliofilia
Rubrica a cura di Federica Fortunato e Diego Cescotti «La musica fu posta deliberatamente al cuore della barbarie e integrata al sistema concentrazionario come un elemento indispensabile al suo funzionamento».
È
solo con enorme trepidazione che si può avvicinare qualsiasi tema collegato con l’ abisso dei lager nazisti; la funzione assegnata alla musica in quella strategia di annientamento e di rimozione ne diventa ulteriore epitome e paradosso, aggravandoci di interrogativi e inquietudini. L’ ossimoro di lager e arte da tempo è diventato oggetto di ricerca e di ermeneutica, depositate in una già notevole bibliografia relativa sia all’ ostracismo che alla strumentalizzazione della musica e dei musicisti nel Terzo Reich. Oltre ad una letteratura ‘ diretta’ (memorie, romanzi autobiografici) le monografie dedicate alla musica nei ghetti e nei campi di concentramento fanno riemergere autori ed opere, illustrando la funzione contraddittoria dell’ arte nel tempo dell’ orrore. Una delle pubblicazioni più recenti, Survivre et mourir en musique dans les camps nazis di Bruno Giner (Berg international, Paris, 2011), ripercorre l’ uso della musica nelle varie tappe
dell’ ascesa nazista, dalla repressione del dissenso fino alla progettualità dello sterminio. Più di altri fenomeni la musica appare una cartina di tornasole per lo stato ideologico di una nazione: nella Germania degli anni Trenta l’ epurazione era cominciata con l’ etichetta di arte degenerata e la messa al bando di jazz, modernismo in tutte le sue forme (a partire da atonalità e dodecafonia), repertori che sapessero di ebraico o di zingaro. Progressivamente si perfezionerà una strategia della musica come mezzo poliedrico di controllo e alterazione della realtà. Scherno, propaganda e contabilità Già nei campi ‘ di prima generazione’ (quelli sorti a partire dal marzo 1933, subito dopo la nomina di Hitler a cancelliere, per comunisti, anarchici, democratici, ‘ asociali’ ) la musica assume un’ importanza di primo piano: come mezzo di logorio e di umiliazione, canti na-
zionalsocialisti e antisemiti vengono urlati dagli altoparlanti e richiesti agli stessi prigionieri; come cinico viatico accompagnano i condannati alla tortura o all’ esecuzione. Onnipresente, sembra occupare ogni spazio caricandosi delle funzioni più disparate, dall’ aggressione sonora con inni nazisti e ‘ vera musica ariana’ (Wagner, Beethoven, Bruckner) alla metodica scansione del tempo e dei movimenti nella quotidianità del campo. Elie Wiesel descrive la funzionalità macabra dell’ orchestra che scandisce l’ uscita e il rientro delle squadre di lavoro: «L’ orchestra suonava una marcia militare, sempre la stessa. Decine di Kommandos partivano verso i cantieri, al passo […]. Ufficiali delle SS, penna e carta in mano, scrivevano il numero degli uomini che uscivano. L’ orchestra continuò a suonare la stessa marcia fino al passaggio dell’ ultimo Kommando. Il direttore d’ orchestra immobilizzò allora la sua bacchetta. L’ orchestra si arrestò di colpo. […] Federica Fortunato
Euterpe all’ inferno 67
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
musicobibliofilia
Noi ci mettemmo in file di cinque, con i musicisti. Uscimmo dal campo, senza musica ma ugualmente a tempo; avevamo sempre nelle orecchie gli echi della marcia». In I sommersi e i salvati Primo Levi conferma questa pratica e rileva uno degli infiniti paradossi della situazione: «con sofisticheria paranoica, [la legislazione antiebraica del Terzo Reich] vietava alle orchestre ed ai musicisti ebrei di suonare spartiti di autori ariani, perché questi ne sarebbero stati contaminati. Ma nei Lager di ebrei non c’ erano musicanti ariani, né del resto esistono molte marce militari scritte da compositori ebrei; perciò, in deroga alle regole di purezza, Auschwitz era l’ unico luogo tedesco in cui musicanti ebrei potessero, anzi dovessero, suonare musica ariana: necessità non ha legge». Anche più inquietante è l’ uso del-
la musica d’ arte (sia riprodotta che dal vivo, eseguita da prigionieri più o meno professionisti) ampiamente testimoniata nella maggior parte dei lager con funzione di intrattenimento e di maquillage. Ma la funzione materialmente salvifica assunta soprattutto dalle orchestre è l’ altra faccia (quella resistente e virtuosa) di queste pratiche oscene. Il grande inganno È difficilmente immaginabile lo spazio dato alla musica nel mondo concentrazionario. Solisti, orchestrine, bande si occupavano di momenti specifici o informali delle giornate, ma producevano anche veri e propri eventi debitamente annunciati da una cartellonistica parzialmente recuperata: operetta, cabaret, classica da camera e sinfonica o addirittura jazz (sì, qualche ufficiale tedesco si ‘ di-
stendeva’ anche con la musica degenerata per eccellenza) sono stati paesaggio e cronaca di molti campi. Di una produzione artistica rigogliosa e articolata quello di Terezín è l’ esempio più noto e documentato: il ghetto modello, la vetrina per gli osservatori internazionali, per esempio i delegati della Croce Rossa ai quali nel giugno 1944 il ‘ centro residenziale ebraico’ fu presentato come esperienza educativa progressista a base di teatro, canto, poesia, pittura. Quando nel 1970, imbattutosi casualmente in composizioni provenienti da Terezín, il musicista ceco Jožas Karas cominciò un lavoro sistematico di ricerca, si scontrò comprensibilmente con una diffidenza diffusa: «appariva troppo inverosimile e irreale immaginare intense attività musicali e persino creatività, in tutti i posti del mondo, proprio in un campo di concentra-
Questo disegno è stato fatto di nascosto a Birkenau da François Reisz. Raffigura l’orchestra del campo che suona al ritorno dei prigionieri dopo il lavoro trasportando quelli che sono morti con un carro e su una barella. (pubblicato in Projektgruppe Musik in Konzentrationslagern, ed., Musik in Konzentrationslagern, Freiburg i.Br., 1991, 58) 68
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
musicobibliofilia
mento ebraico». Studi specifici, formazione di un quartetto d’ archi per l’ esecuzione delle partiture riportate alla luce, conferenze divulgative hanno preparato la strada al volume La musica a Terezín | 19411954 (edito nel 1981, tradotto e pubblicato in Italia nel 2008 da Il Melangolo). Insieme alla parte descrittiva corre, sotto testo ed esplicitamente, l’ interrogativo su come giudicare un fenomeno bifronte, maschera del male ma anche strumento di umanità e, per molti, zattera di sopravvivenza. Suonare per non morire Il libro di Bruno Giner fornisce un primo elenco di musicisti ebrei deportati, raggruppati per categorie: strumentisti, cantanti, direttori d’ orchestra e di coro, compositori, critici musicali, pedagogisti. Stiamo parlando di professionisti e, pur con la premessa di non essere una lista esaustiva, i nomi che si contano sono 160. Ben 75 di loro sono sopravvissuti; la musica era un ottimo salvacondotto che preservava da lavori più distruttivi, garantiva maggiori attenzioni nel regime alimentare e qualche riguardo da parte di militari musicofili. Certo, il prezzo da pagare era l’ etichetta di
69
‘ collaboratori’ , di traditori, spesso con annessi insulti e lanci di fango. Ma il paradosso di dover scegliere tra suonare/cantare o morire è un ulteriore tratto dell’ orrore concen-
trazionario. Come conclude Giner, «La musica è l’ unica di tutte le arti che sia stata requisita dai nazisti dal 1933 al 1945 per collaborare allo sterminio degli ebrei». Ma, appunto, da condannare è la manipolazione, non la pratica. Alcuni dei sopravvissuti hanno elaborato a distanza la tragedia vissuta a volte come fondativa di una vita. Uscito nel 2009, Les sanglots longs des violons… (I lunghi singhiozzi dei violini) è la testimonianza di Violette Jacquet-Silberstein, adolescente deportata con la famiglia a Birkenau da cui uscirà in virtù di una pur limitata abilità
violinistica che la fa accogliere nell’ orchestra femminile del campo. Direttrice e paladina di questa è Alma Rosé, celebre violinista austriaca, nipote di Gustav Mahler e figlia di Arnold, figura mitica del mondo musicale europeo; benché Alma muoia nel 1944, la sua umanità e competenza artistica salvano un gran numero di dilettanti che non avrebbero avuto alcuna chance. Con Il tempo di parlare. Sopravvivere nel lager a passo di danza. Diario di una ballerina ebrea (tradotto per Einaudi nel 1996) la danzatrice ceca Helen Lewis fornisce un’ altra testimonianza di resistenza attraverso l’ espressione creativa. E l’ elenco potrebbe continuare. Creare dietro il filo spinato Musica quindi come attività esecutiva regolare, provvista necessariamente di saperi, di materiali, di organizzazione: strumenti ed esecutori, partiture e compositori, spazi più o meno deputati, tempi stabiliti e… pubblico. Ancora più inconcepibile dell’ aspetto esecutivo è la creatività nel recinto dell’ umiliazio-
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
musicobibliofilia
ne e della violenza, lo sviluppo di un pensiero musicale da premesse estetiche già avviate o che proprio dal paradosso della situazione si definisce in forma più matura. Dopo l’ armistizio del giugno 1940, un milione e mezzo di soldati francesi vengono trasferiti in campi di prigionia (Stalag per i soldati, Oflag per gli ufficiali), parzialmente tutelati dalla Convenzione di Ginevra. Dei circa 4.000 musicisti mobilitati un gran numero popolerà questi luoghi: in condizioni meno estreme rispetto ai lager di sterminio, Francis Poulenc, André Jolivet, Henri Dutilleux e moltissimi altri riescono a continuare una vita musicale relativamente ricca con concerti, lezioni, nuove composizioni. Il titolo in assoluto più noto legato all’ esperienza dell’ internamento è il Quatuor pour la fin du temps di Olivier Messiaen, opera straordinaria anche se straordinarie non fossero le circostanze del suo venire al mondo. Nello Stalag VII A con un clarinetto, un violino, un violoncello (a cui si aggiunge poco dopo un pianoforte) Messiaen conduce una riflessione tesa (spirituale ed estetica) su un passaggio dell’ Apocalisse; applicando ai sette simbolici movimenti del quartetto una sua originale e radicale tecnica di composizione, alterna momenti di straniamento sonoro a passaggi di sospesa contemplazione. Questa è la punta di un iceberg; se il Quatuor continua ad essere un’ emozione e un ricordo del contesto originario, questo contesto è molto 70
più ricco e in buona parte ancora da conoscere. Tra altri esempi, nell’ Oflag X B incontriamo Emile Goué che avrebbe un suo posto nella storia della musica anche indipendentemente dall’ esperienza di prigionia; si era già segnalato infatti a partire dalla metà degli anni Trenta, in particolare con opere come il Psaume XIII del 1938, anticipatore di un altro Salmo (il CXXIII del 1942) dalla profonda portata emotiva. In modo più ricco di altri, Goué fa della prigionia un’ occasione, continuando sia la vocazione didattica (organizza corsi di storia della musica e di armonia) che creativa. Come Alma Rosé, fa fronte alla qualità scadente di esecutori e strumenti organizzando numerosi concerti sinfonici con programmi impegnativi, dalla polifonia quattrocentesca ai contemporanei. Ed è proprio nel rigore dell’ antico (dai fiamminghi a Bach) e nella necessità della ricerca che Goué costruisce un suo stile composito dove il linguaggio tonale si allarga alla modalità, alle raffinatezze di un contrappunto ora intessuto di grande ricchezza tematica, ora quasi ascetico nella riduzione ad un’ unica idea melodica generatrice di architetture anche di grande respiro (sonate, quartetti, sinfonie). Se per rigore formale e maestria di scrittura è stato definito un ‘ classico’ , per lirismo epico ci appare come una voce corale del suo tempo e della tragedia attraversata. Un’ intensa vita spirituale caratterizza Goué che vede nella musica un’ attività metafisica inseparabile
dalla vita quotidiana: «Per vita interiore intendo l’ accettazione appassionata di partecipare con pienezza alle gioie e alle tristezze della vita, di vivere con intensità e umiltà i problemi fondamentali dell’ uomo nella relazione con la natura, con se stesso, con i suoi simili, con Dio». Questa concezione esigente è per lui alla base della missione artistica; natura etica della musica, senso di ‘ necessità’ dell’ opera guidano il compositore, il teorico, l’ animatore culturale di un carcere dove il suo irradiamento spirituale e morale è d’ aiuto ai compagni, come ricordato dal pianista Philipp Gordien, compagno di internamento e suo esecutore testamentario. La recente ripresa d’ interesse per le opere di Goué ha fatto scoprire un «creatore esigente capace di espandersi pudicamente in una melodia generosa e, nello stesso tempo, di sollecitare architetture ambiziose la cui complessità resta sempre leggibile e comprensibile» (Lionel Pons). È degli ultimi 7-8 anni l’ uscita in disco di parte della sua opera pianistica e cameristica di cui naturalmente si trova qualche frammento online; suggeriamo di cominciare dai Deux Nocturnes per pianoforte, con le solo apparenti reminiscenze debussiane del secondo, ma di passare poi a qualche altra pagina (per esempio il terzo Quartetto) dove meglio si manifesta il rigore combinato con un pathos struggente.❧
Federica Fortunato 2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
musicobibliofilia
«Emile Goué (1904-1946), musicien français mort pour Dopo precoci e brillanti risultati accademici diventa la France». Con un’ enfasi solo apparentemente nazionali- docente di fisica al liceo parigino «Louis le Grand», una stica, così lo presenta il sito a lui dedicato. delle cattedre più prestigiose dell’ insegnamento supeRiordinando vari frammenti biografici e critici raccolti riore francese; e di fisica continuerà ad occuparsi anche intorno ad un autore non notissimo, questo ‘ volume in- durante i lunghi anni di internamento. Ma l’ attività più formatico’ attenua e giurilevante prima e sopratstifica l’ incipit con la cura tutto nel periodo della del catalogo musicale e prigionia resta quella con la giusta sottolineamusicale; la quarantina tura dell’ esperienza di di opere che ci restano prigionia. sono frutto di una draAssente finora dai stica autocritica (con grandi dizionari enciclopoche eccezioni, aveva pedici, dopo una prima distrutto quelle preceaffettuosa attenzione imdenti il 1932) e di un immediatamente dopo la pegno in tutti gli ambiti: scomparsa Goué è divenpianistico, vocale, cametato oggetto di studio a ristico, sinfonico e anpartire dalla fine degli che teatrale. anni Novanta fino ad arPer non parlare di tre rivare alla recente bioopere teoriche, frutto dei grafia a lui dedicata dal corsi di estetica e commusicologo e compositoposizione tenuti ai comre Damien Top (Emile pagni di prigionia. Goué, un alchimiste des Mobilitato fin dall’ inisons, Bleu-Nuit, 2012). zio della guerra con il graAllievo di Charles Koedo di sottotenente d’ artiPagina autografa di Emile Goué estratta dalle sue “Recherches prochlin, personaggio doglieria, imprigionato nel pres à l’ auteur”, redatte per il suo “Cours d’ esthétique musicale” tenuto nel 1942 nell’ O flag XB (coll. Bernard Goué) minante della vita artigiugno 1940, da allora e fistica e soprattutto didatno al maggio 1945 è detetica per tutta la prima parte del secolo, e di Albert nuto all’ Oflag XB a Nienburg/Weser, nella Bassa Sassonia. Roussel, una delle voci più originali del suo tempo, Cinque anni di vita terribile ma non perduta: cinque Goué si inserisce in una tradizione franckiana in cui si anni di produzione, di organizzazione concertistica, di fondono con voce originale tecniche del passato ed elaborazione estetica. Una fioritura artistica e intellettuale esplorazioni moderniste. arrestata a poco più di un anno dalla liberazione, nel sanaCome Aleksandr Borodin del quale è rimasta vivacis- torio in cui finisce la sua parabola di vittima di guerra. sima la fama sia per il repertorio musicale che per le scobiografico, catalogo delle opere, citazioni, aggiornamenti, perte nel campo della chimica, Goué ha condotto in pa- Profilo frammenti d’ ascolto si trovano su: http://amis.emile.goue.free.fr/ rallelo studi di fisica e di composizione.
71
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
Il Furore del Rock a cura di Livio Bauer
Storie parallele, per molti versi, quelle di Jim Morrison e Patti Smith. Due grandi, istintivi cantanti rock, eccezionalmente dotati sia per la voce (profonda, espressiva, potente ma non “educata”), sia per il naturale istinto da grande performer (magnetismo, carisma, capacità empatiche). Alle loro spalle due grandi gruppi (Doors e P.S. Group) composti da musicisti veri, ispirati e preparatissimi. E tuttavia entrambi hanno sempre snobbato il loro talento: avrebbero voluto soprattutto essere dei grandi poeti, ma, alla prova dei fatti, non sono riusciti ad emergere con prepotenza in quest’ ambito. Tutt’ e due assidui frequentatori della wild side of life. E se gli abusi hanno lasciato segni evidenti e pesanti su Patti, Jim ci ha rimesso la vita, nel ‘71, diventando uno dei quattro del famigerato J27 club1. Sia Jim che Patti infine, fan sfegatati del genio del Simbolismo francese, che compose solo dai 16 ai 21 anni, e visse e morì (a 37 anni) spericolatamente quant’ altri mai2.
W
allace Fowlie, docente emerito di letteratura francese ed italiana alla Duke University di Durham (North Carolina) era ormai assuefatto a vedere la sua aula semivuota. All’ improvviso, nella primavera del 1968, il suo divenne il corso più frequentato di tutti gli USA. Folla strabocchevole, problemi logistici, l’ attenzione che tracima in culto, tutti a pendere dalle sue labbra. Ma perché? Succede che nel (molto) tempo libero, Fowlie si era dedicato alla traduzione in inglese dell’ opera omnia di Arthur Rimbaud e, soprattutto, aveva ricevuto una lettera, poi resa pubblica, in cui lo si rin-
1 - Il J27 annovera Brian Jones dei Rolling Stones (1969), Jimi Hendrix (‘70), Janis Joplin (‘70), Jim Morrison (‘71): quattro notissime rockstar, con la J nel nome, morte di “vita spericolata” a 27 anni tra il ‘69 e il ‘71. Il meno esclusivo 27 club annovera almeno altri trenta musicisti rock deceduti alla stessa età, chi per droga, chi per suicidio, o malattia, incidente, violenza. Fra essi Robert
graziava per aver reso disponibili e facilmente fruibili quei versi immortali anche a chi non conosceva il francese. “Porto il suo meraviglioso libro sempre con me, ...è fonte di continua gioia e grandi scoperte”. Firmato: Jim Morrison, il quale se per Fowlie era nessuno, per milioni di giovani in tutto il mondo era un idolo ed un modello. Andò a finire che il buon professor Fowlie scrisse un altro libro, sulle assonanze tra l’ ope-
Johnson (‘38), mitico chitarrista e compositore blues, Alan Wilson (1970: anno infausto) dei Canned Heat, Ron “Pigpen” Mc Kernan (‘73) dei Grateful Dead, Kurt Cobain (‘94) dei Nirvana ed Amy Winehouse (2011). Che tragedie. E che spreco: fra tutti loro almeno Robert Johnson e Jimi Hendrix avrebbero di sicuro riscritto, in positivo, la storia della nostra musica. 2 - In Italia, non poteva essere che Roberto Vecchioni, docente di Lettere, a scrivere ed incidere (su Elisir, 1975) “A.R.”. In forma di ballata è narrata la triste parabola umana di Rimbaud: “La miseria di una stanza a Londra\ le fumerie di Soho\ già grande si buttava via...”. La gelosia di Verlaine, la “follia” africana, la fatale conclusione “E nave porca, nave vai\ la gamba mi fa male sai\ le luci di Marsiglia non arrivan mai...”. 3 - Vedasi in bibliografia.
ra di Rimbaud e quella di Morrison3. In realtà, come detto, i talenti di Jim erano altri, anche se lui si rifiutava pervicacemente di prenderne atto, ed i suoi scritti (più di 700 pagine di poesie-aneddoti-saggi-epigrammiracconti-soggetti-sceneggiature. Non rari i tentativi di avvicinarsi allo stile di Rimbaud)4, pubblicati via via anche in Italia con titoli suggestivi (“Deserto”, “Cavalca il Serpente”, “La Danza dello Sciamano”, “Notte Americana”), difficilmente entreranno nelle enciclopedie letterarie. Diverso il discorso per i testi delle canzoni dei Doors, che qualunque appassionato di rock conosce ed ama. Jim Morrison Figlio di un ammiraglio, Q.I. 149 (ai limiti del genio) ma psicologicamente instabile, lettore voracissimo e instancabile con un gran retroterra culturale che mischiava disinvoltamente Nietzsche a Sofocle (Edipo), ai 4 - Vedasi in bibliografia.
Livio Bauer
Morrison, Smith e Rimbaud IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
73
Il FUrore del Rock
poeti della beat generation (seguace entusiasta del metodo dello stream of consciousness, o “flusso di coscienza”, ne abusava spesso in concerto) e naturalmente all’ adorato Rimbaud. Il nome del gruppo fu proposto da Morrison e si riferiva ad un libro di Aldous Huxley (The Doors of Perception, 1954) in cui era citata una frase di William Blake (poeta inglese morto nel 1827) sull’ “...aprire le porte della percezione ...per attingere all’ infinito”. Per sir Aldous queste porte si aprivano con la mescalina (fungo allucinogeno messicano), per Rimbaud nelle fumerie d’ oppio, per Jim Morrison grazie all’ eroina sniffata (odiava gli aghi) e combinata con dosi massicce di alcol. Va detto che nessuno di loro ai tempi conosceva (né si curava di approfondire, peraltro) le insidie legate a certe sostanze e che era opinione diffusa che lo ‘sballo’ , considerato innocuo, favorisse anzi la creatività artistica. Né va dimenticato che lo stesso Sigmund Freud (scomparso nel 1937), ad esempio, definì la cocaina come “tonico ed antidepressivo”. Il Re Lucertola (King Lizard: era una delle tante ‘incarnazioni’ di Jim sul palco) aveva molto in comune con Rimbaud (definito dal surrealista Andrè Breton “il dio dell’ adolescenza” e dall’ esistenzialista Camus “il più grande poeta della ribellione”). Ogni concerto dei Doors diventava un happening, con lunghe, allucinate declamazioni. Jim invitava il pubblico sul palco, rubava il berretto a un poliziotto, incitava alla rivolta, sfasciava gli strumenti, si apriva i 74
pantaloni e... Ebbro Dioniso rock, era sempre in cerca dei confini della realtà, che mai avrebbe raggiunto, perchè li spostava sempre più avanti. Diceva: “Mi interessa tutto ciò che riguarda rivolta, disordine, caos”. In re-
te sono reperibili svariate sue foto segnaletiche da arresti per oltraggio, molestie, disturbo della quiete, atti osceni (on stage...). All’ apice del successo e della fama, incurante della possibilità di farsi anche ricco, molla tutto (i Doors si scioglieranno l’ anno dopo: non basta essere eccellenti strumentisti per fare rock di livello...) e si rinchiude in un appartamento a Parigi (Francia: patria poco frequentata di Rimbaud) per seguire l’ irraggiungibile (per lui) musa della poesia. La compagna Pam Courson, che riferisce di averlo rinvenuto privo di vita nella vasca da bagno il 3 luglio ‘71 (stesso giorno di Brian Jones, due anni prima), morirà come lui di overdose a Parigi nel ‘74. Questa la versione ufficiale: in realtà pare ormai asso-
dato che la morte avvenne nei bagni del Circus, un locale di tossici, dopo l’ assunzione di eroina quasi pura (errore? incoscienza? dolo?) preceduta da fiumi di birra e vodka. Per ‘rispetto’ della rockstar, o per evitare pesanti conseguenze giudiziarie e finanziarie, venne architettata la versione dell’ attacco di cuore casalingo. Fu inumato frettolosamente e senza autopsia, alla presenza di Pam, dell’ impresario dei Doors e di un’ amica, nel cimitero parigino di Père Lachaise, insieme a Chopin, Oscar Wilde ed Edith Piaf. Subito inizia un pellegrinaggio ininterrotto di appassionati di ogni lingua ed età, al punto che fino a pochi anni fa all’ ingresso si trovava la scritta “Jim avanti dritto”, mentre tuttora su molte lapidi è inciso a mano il nome con la freccia ad indicare la posizione della sua tomba, che nell’ ultima versione, per volontà degli eredi, è protetta da videosorveglianza e porta, in greco antico, la scritta: “Fedele al suo Spirito”. Come per Elvis, anche per Jim Morrison c’ è chi lo vuol credere ancora vivo, nascosto chissadove a comporre poesie... Wild Child (dal quarto album dei Doors, “The Soft Parade”, 1969) fin dal titolo pare dedicata ad Arthur Rimbaud. “Bimbo selvaggio, pieno di grazia\...non hai padre né madre\sei nostro figlio e urli selvaggiamente\...libertà negli occhi\...un principe pirata al tuo fianco\...Ricordi quando eravamo in Africa?” Nel 1991 Oliver Stone dirige con la mano sinistra il pessimo “The Doors”. Approssimativo e semplicistico, i seguaci del mito-Morrison l’ hanno ripudiato. 2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
Il FUrore del Rock
The Doors Cenni Storici e Discografia Essenziale Nacquero nel ‘65 dall’ incontro di Ray Manzarek e Jim Morrison, studenti alla nuovissima Facoltà di Cinema dell’ UCLA (l’ Università di Los Angeles, California). Manzarek, solido tastierista e compositore, amante di jazz e Chicago blues (quello della sua città, più elettrico e “duro”) contattò Robbie Krieger, chitarrista studioso di flamenco e musica indiana, e John Densmore, batterista jazz. Nonostante numerose audizioni, non riuscirono mai a trovare un bassista che facesse al caso loro, non solo per le doti tecniche, ma soprattutto ‘umane’ . Risolse il geniaccio Manzarek, con l’ aiuto di una tastiera (il Fender Rhodes Bass), appoggiata su piano od organo e suonata con la sinistra, mentre la destra era usata per la melodia, ovviamente solo sulle ottave alte. Questo fatto contribuì a creare il caratteristico Doors sound: ‘tagliente’ , con lancinanti assolo di tastiera e timbri bassi profondissimi. Peraltro, a parte il primo disco, in studio fecero sempre uso di qualche ‘turnista’ al basso. In questo ruolo si alternarono molti musicisti, ma nessuno entrò mai ufficialmente nel gruppo o suonò con loro dal vivo. A causa della debordante personalità del frontman spesso i Doors sono definiti sopravvalutati dal punto di vista musicale. In realtà la loro peculiare miscela di vigore filo-garage, devozione alle radici blues/R&B, aperture pop e frenesia psichedelica, dà vita, come detto, ad un suono peculiare e tra i più coinvolgenti e convincenti in ambito sixties-rock. Su consiglio di Arthur Lee (dei Love), Jac Holzman, proprietario della etichetta Elektra ed il
IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
produttore Paul Rothchild li vollero visionare in una serie di concerti al Whisky a Go Go di Los Angeles, mitico locale in cui ricoprivano l’ importante ruolo di house-band, avendo così l’ opportunità di ‘aprire’ per i maggiori artisti rock del periodo (fra gli altri: Byrds, Buffalo Springfield, Otis Redding, Frank Zappa ed i Them di Van Morrison, con cui eseguirono una estenuante, interminabile “Gloria” durata oltre 20 minuti. Il pezzo entrerà in pianta stabile nelle loro scalette live). Dopo qualche esitazione dovuta alle eccentricità (per usare un eufemismo) di Morrison in concerto, vennero messi sotto contratto. The Doors (Elektra, 1967). Esordio capolavoro, 2° in classifica dietro solo al Sgt. Pepper beatlesiano. Il singolo “Light my Fire” fu number one per 3 settimane: il riff d’ organo con la botta di rullante resta uno dei più emozionanti intro in 60 anni di rock. Undici pezzi famosissimi, da “Break on through” a “Soul Kitchen”, da “The Crystal Ship” ad “Alabama Song” (di Kurt Weill e Bertolt Brecht!), dal raga-rock di dodici minuti “The End” a “Back Door Man” (Willie Dixon-Chester Burnett\Howlin’ Wolf). In tempi di Flower Power loro sfondano con sesso e turbamento, allucinazione e ribellione. La voce possente e disperata di Jim Morrison ed un sound unico e subito maturo ne fanno uno dei ‘dieci dischi da isola deserta’ . Strange Days (Elektra, 1967, 3° in classifica). Il ferro si batte fin che è caldo... e solo 9 mesi dopo esce il secondo Doors. Meno dirompente, sempre più soul-psichedelico, annovera comunque “Moonlight Drive”, “People are strange” e “When the Music’ s over”. In “Horse Latitudes” Morrison si ci-
75
Il FUrore del Rock
menta in ciò che più lo intriga: poesia recitata con sottofondo di suoni. Seguono un paio di dischi sottotono, anche se gratificati da lusinghieri risultati di vendita e con qualche pezzo brillante (“Hello’ i love you” da Waiting for the Sun-1968 e “Touch Me” da The Soft Parade-’ 69). In parallelo, continua la preoccupante involuzione di Jim, che dal vivo sempre più spesso si presenta ubriaco o ‘fatto’ , producendosi in patetiche provocazioni e imbarazzanti soliloqui. Morrison Hotel (Elektra, 1970, 4° in classifica). Colpo d’ ala dei Doors, che producono nuovamente un disco di rock sincero e potente. Da sulfureo cherubino Morrison è degenerato in tipaccio da bar, bolso e barbuto. Infatti i pezzi migliori puzzano di locali malfamati: “Roadhouse blues”, “Maggie M’ Gill”... Absolutely live (Elektra, 1970, 8° in classifica) offre l’ occasione per una riflessione sui concerti rock in generale, e dei Doors in particolare. Potevano essere paradisiaci o pessimi, a seconda della quantità e qualità di bevande e polveri che giravano nei camerini, nonché dell’ umore dei protagonisti e delle bizze dell’ amplificazione. Al contrario dello show-biz dagli anni ‘80 in poi, che vende a caro prezzo un prodotto asettico e (quasi) sempre uguale (fatti salvi naturalmente i soliti fuoriclasse che ci mettono comunque l’ anima) e in quanto tale pretende condizioni ottimali dei protagonisti, degli impianti e del pubblico stesso, nei ‘70 e soprattutto nei ‘60, tutto era molto più istintivo e genuino, ogni concerto era storia a sé: se eri fortunato beccavi la serata memorabile, se ti andava male trovavi un Jim Morrison barcollante e biascicante, nemmeno in grado di ricordare i testi delle sue canzoni.
76
La Elektra rimedia proponendo un collage delle cose migliori da una serie di concerti americani del 1969-’ 70. Ne esce uno dei live più celebrati in ambito rock, un doppio LP con pochi pezzi famosi e qualche novità, come la vibrante cover di “Who do you love” (Bo Diddley) e “Celebration of the Lizard”, la lunga (15 minuti), allucinata poesia di Jim che appariva sulla copertina di Waiting for the Sun. Bandito ogni ammiccamento pop, dal vivo emerge l’ attitudine rock-blues, dura, selvaggia e visionaria. Il produttore Paul Rotchild raccontò che molte canzoni sono il risultato dell’ unione dei frammenti migliori tratti da differenti esecuzioni dello stesso pezzo in città diverse: uno sfiancante lavoro di ricerca e assemblaggio. L.A. Woman (Elektra, 1971, 9° in classifica). Ultimo disco con la formazione originale (Morrison morirà meno di un mese dopo l’ uscita), non è forse all’ altezza dei migliori ma assume un alone tragico dopo la dipartita del leader. Semplicemente un brillante album rock; da ricordare almeno il singolo di successo (“Love her madly”), la title track, e la celebre “Riders on the Storm” (bella prova di Ray al piano elettrico). Prodotto dal sound engineer Bruce Botnick dopo che Rotchild aveva abbandonato a causa del comportamento di Jim, ormai del tutto inaffidabile e fuori controllo. Poi un paio di dischi anonimi con Manzarek alla voce e finalmente lo scioglimento, nel ‘72. I Doors superstiti provvederanno ad alimentare il mito (ed il conto corrente) pubblicando periodicamente concerti, outtakes, versioni alternative ed antologie varie. Ancora oggi, più di 40 anni dopo lo split-up, la discografia ufficiale continua a crescere. Ray Manzarek è scomparso, a 74 anni, il 20 marzo 2013.
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
Il FUrore del Rock
Patti Smith Il 10 novembre 2011, centoventesimo anniversario della morte di Arthur Rimbaud, Patti Smith tenne, col suo Group, un concerto a Charleville, città natale del sommo Poeta. In giornata, visitò la mostra a lui dedicata e la chiesa che frequentava da giovane, affermando fra l’ altro: “La sua morte rappresentò la celebrazione della liberazione dalla sofferenza” e “Il suo spirito è ovunque, è il cuore della gioventù, e della curiosità, e dell’ entusiasmo. La sua poesia è con noi. Ho scritto il mio primo album Horses pensando a lui, e gli ho dedicato la title-track del secondo, Radio Ethiopia\Abyssinia”5. In seguito intervenne all’ inaugurazione della sala d’ attesa della stazione di St. Charles a Marsiglia, intitolata a Rimbaud, e finanziò il restauro completo del museo del poeta. L’ anno dopo, sempre a Charleville, partecipa alla celebrazione annuale, dedicata in particolare a “Le Bateau Ivre”, che Rimbaud compose a 16 anni, declamando alcune sue liriche nei luoghi del poeta. Sempre nel 2011 le viene affidata l’ introduzione alla pregiata riedizione inglese di “Une Saison.../Le Bateau ...”, della New Direction. Nel 1996 pubblica Il sogno di Rimbaud6, poesie e prose dedicate a/ispirate da Rimbaud, e confessa: “Nei 5 - L’Etiopia/Abissinia fu la ‘seconda patria’ di Rimbaud. 6 - Vedasi in bibliografia.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
miei sogni ad occhi aperti di adolescente, Arthur era il fidanzatino ideale”. Nel film di Steven Sebring “Dream of life”, 2008, con Patti Smith protagonista assoluta, presentato a Berlino e vincitore della sezione Documentari del Sundance Festival, la poetessa declama, fra l’ altro, la sua “I’ m a Widow” (tratta da Il sogno di R.). Tra canzone e poesia, in lingua ancestrale, con un apparato evocativo molto filmico, quasi surrealista, propone, in sequenze ed immagini, i desideri dell’ inconscio, ispirandosi direttamente alla famosa massima di Rimbaud: “È falso dire: io penso. Si dovrebbe dire: mi si pensa... Io è un altro”. Il suo primo singolo (1974), “Hey joe” (standard rock che conta decine di versioni, dai Deep Purple a Willy de Ville, ma reso immortale da Jimi Hendrix; nuovo testo di Patti) è considerato il punto-zero dell’ era punk USA. Il lato-B “Piss Factory” narra della sua esperienza lavorativa alla catena di montaggio. Il titolo già descrive in modo esaustivo le sue sensazioni al riguardo. La salvezza, in questo periodo nero, le venne da un libriccino sciupato a forza di sfogliarlo: le “Illuminations” di Rimbaud... Classe 1946, di origini proletarie, si allontanò giovanissima dalla famiglia, seguace dei Testimoni di Geova, il che potrebbe essere alla base del suo rapporto problematico con la religione: se da una parte mette Papa Luciani sulla copertina del suo quarto disco (Waves, 1979),
dall’ altra i primi versi del primo album (l’ incipit di Horses, “GLORIA”), recitano: “Gesù sarà anche morto per i peccati di qualcuno, ma non certo per i miei”. Vita di strada, un figlio da giovanissima, fu anche lei a Parigi (e a Charleville!) e poi a New York7. Si legò via via, artisticamente e/o sentimentalmente, a Robert Mapplethorpe (poi notissimo fotografo, fu autore, fino alla morte per AIDS nell’ 89, delle cover dei suoi dischi. Fra i due c’ era un legame profondo ma platonico che lui, omosessuale, non consumò mai), Sam Shepard (scrittore ed attore), Andy Warhol, Bob Dylan... Artista a tutto tondo, oltreché cantante proto-punk è poetessa-pittrice-fotografa-attricescrittrice-performing artist. Le sue ‘poesie’ non conoscono metrica, né versi, né tantomeno rime; sono liberi, spesso deliranti, flussi declamatori. Collabora come redattrice con due delle testate più cool del rockjournalism dei primi ‘70: Rolling Stone e Creem. Frequenta assiduamente i ‘templi’ newyorkesi (e mondiali) della nuova musica: Max’ s Kansas City, CBGB’ s, Other 7 - Viveva al mitico Chelsea Hotel, residence di terz’ordine in cui abitarono, tra gli altri, anche Bob Dylan, Charles Bukowsky, Leonard Cohen, Iggy Pop, Janis Joplin. Arthur C. Clarke vi scrisse 2001 Odissea nello spazio; ospitò i reading di Allen Ginsberg e Gregory Corso. Nel 1953 vi morì il poeta Dylan Thomas, e fu nella stanza n°100 che l’ex-bassista dei Sex Pistols Sid Vicious il 12 ottobre ‘78 accoltellò a morte la compagna Nancy Spungen ponendo fine, di fatto, alla punk-age.
77
Il FUrore del Rock
End, Bottom Line. Finalmente, a metà anni ‘70, si dedica alla carriera che le darà la fama. Cavalca l’ onda punk/new wave con coraggio, determinazione, incoscienza, ed ha la fortuna\abilità di affiancarsi ad una band formidabile. I primi dischi, un successo solido e meritato, anche se più di critica che di vendite. La ‘Sacerdotessa del Rock’ , l’ icona punk: magrissima, quasi trasandata, tutt’ altro che ‘bella’ , sguardo dolcissimo ed ammaliante, abitudini ‘pericolose’ , personalità magnetica e forza irresistibile. A inizio ‘77, durante un concerto a Tampa (Florida), cade dal palco procurandosi gravi fratture alle vertebre del collo. Al rientro pare decisamente più interessata ad approfondire temi religiosi ed a comporre poesie che alla musica. Un altro paio di buoni dischi, il leggendario concerto di Firenze del 10 settembre 1979 davanti a 100.000 persone, la separazione dallo storico compagno Allen Lanier (tastierista dei Blue Oyster Cult) e poi il ritiro dalle scene nel 1980, per metter su famiglia a Detroit con Fred ‘Sonic’ Smith (n. 1949, leggendario chitarrista degli MC5, gruppo combat-rock anni ‘60; a lui dedica, fra le altre, Frederick e Dancin’ Barefoot). Scherzo usuale fra loro era che, da 78
femminista convinta, l’ avesse sposato solo per non cambiare cognome... In realtà gli era legatissima, e non si è mai capito fino a che punto il ritiro dalle scene fosse voluto da
Patti o invece imposto da Fred, geloso del successo e della fama della consorte. Il figlio Jackson (n. 1982) sposerà nel 2009 la batterista dei White Stripes, Meg White. La figlia Jesse nasce nell’ 87. Nell’ 88 la Smith rientra nel giro-rock sotto lo sguardo vigile del marito, per ri-uscirne subito dopo. Fred muore d’ infarto nel ‘94. Patti perde in breve tempo anche il fratello Todd ed il tastierista storico del P.S. Group e grande amico Richard Sohl. Michael Stipe dei R.E.M., suo
grandissimo estimatore, ed il venerando poeta beat Allen Ginsberg, vedendola prostrata dall’ incredibile catena di disgrazie, insistono perché torni ad incidere e a esibirsi in pubblico. È in tour con Bob Dylan nel ‘95, e l’ anno dopo esce il primo disco della sua nuova vita artistica, che continua proficuamente tuttora. Nel 2005 è nominata Commander dell’ Ordre des Arts e Lettres dal ministro francese della cultura, che ricorda in particolare la sua passione per Rimbaud. È del 2007 la induction nella Rock and Roll Hall of Fame (l’ Accademia degli Immortali del Rock); nell’ occasione propone una cover della più bella canzone di sempre: Gimme Shelter dei Rolling Stones. Parallelamente all’ ‘attività’ di rockstar continua a dedicarsi a poesia-fotografia-scrittura (sta lavorando a una crime-novel). È attrice in un episodio di Law & Order, e sempre nel 2011 vince il Polar Music Prize. Nel 2012 è al Festival di Sanremo: coi Marlene Kuntz esegue Because the Night e Impressioni di settembre/ The World became the World: ottiene il premio della Stampa per la Migliore Esibizione. 2012: disco nuovo. 2013: tour mondiale con ben 6 date italiane a fine luglio/inizio agosto... 2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
Il FUrore del Rock
Patti Smith Group Cenni Storici e Discografia Essenziale Il Patti Smith Group fu l’ unione di 5 talenti che ebbero la
ground di Lou Reed (ed Andy Warhol) nella mente, negli oc-
fortuna di trovarsi al centro del frullatore al momento giusto:
chi e nel cuore. “Poppies” è in ricordo, fra gli altri, di Jim
la New York del Max’ s e del CBGB’ s a metà anni ‘70. I più
Morrison. Solo 122° in classifica!
grandi erano tutti lì e insieme diedero il via all’ era punk. Di
Easter (Arista, 1978) Dopo lo stop forzato da infortunio
Patti, del suo vocione grezzo e poco melodico ma potente,
Patti si ripresenta quasi in crisi mistica, con un rock decisa-
sincero ed evocativo come pochi e dei suoi testi allucinati e
mente meno spigoloso e più appetibile. Un paio di inni sim-
sciamanici, sappiamo tutto. Un pizzico di doveroso spazio
bolici (“Till Victory” e “Rock’ n’ Roll Nigger”) e soprattutto
vada allora anche ai suoi formidabili compagni di viaggio:
l’ appeal della springsteeniana “Because the Night”, che le fu
Lenny Kaye, chitarra “sporca” e fiammeggiante, con lei da
donata dal Boss, e a cui Patti cambiò solo qualche parola per
quarant’ anni, e poi Ivan Kral, basso, Richard Sohl, tastiere e
adattare il testo alla prima persona femminile: unico singolo
Jay Dee Daugherty, batteria, pure lui sempre presente. Gio-
di successo di tutta la carriera, trainò l’ LP al suo miglior ri-
vanissimi, competenti ed entusiasti, seppero trovare la chi-
sultato di sempre, il 20° posto. Prodotto da Jimmy Iovine.
mica giusta per un amalgama unico. Insieme ai Television di
Dei dischi successivi, rimangono da segnalare alcuni pezzi
Tom Verlaine divennero presto i capofila del movimento.
molto efficaci: “Frederick” e “Dancin’ Barefoot” (da Wave,
Horses (Arista, 1975) Altro esordio fulminante. Prodotto da John Cale (ex-Velvet Underground) anticipa di almeno due anni la deflagrazione punk. Più poesie declamate che ve-
1979, prodotto da Todd Rundgren); “People have the Power” (da Dream of Life, 1988, produttore: Fred Smith). Gone Again (Arista, 1996, 55°, prodotto da Malcolm
re e proprie canzoni, suono ‘arrogante’ , incalzante, senza pie-
Burn/Daniel Lanois e Lenny Kaye), Peace and Noise (Arista,
tà e senza respiro. Spicca ancora (come già i Doors...) una fu-
1997, 152°, prodotto da Patti Smith). La lunga pausa e le tra-
ribonda, esaltata versione della “Gloria” di Van Morrison,
gedie personali ci restituiscono una Patti più cupa e intro-
con testo completamente stravolto da Patti, dura e cattiva.
spettiva, ma sempre ispirata. Canzoni malinconiche e dolen-
Vendite scarse (47°), ma d’ importanza assoluta dal punto di
ti, laceranti e fascinose, che si ricollegano ai modi recitativi di
vista storico-artistico. Ai tempi, dal vivo, proponevano spes-
vent’ anni prima, decisamente pregevoli sul fronte composi-
so anche “My Generation” degli Who di Pete Townshend.
tivo. Con l’ aiuto del P.S. Group, di John Cale, Tom Verlaine,
Radio Ethiopia (Arista, 1976) Ancora un’ opera seconda
Jeff Buckley, Michael Stipe e numerosi altri ospiti ed amici, si
che segue di pochi mesi lo scintillante esordio. Prodotto da
avventura anche in un tour di successo in USA ed Europa.
Jack Douglas. Perde un po’ di fascino, ma guadagna moltis-
Seguono anni sereni ed estremamente fertili in tutti i suoi
simo in forza, elettricità, distorsione. “Ask the Angels”, “Pis-
numerosi e svariati interessi artistici.
sing in a River”, “Pumping”, “Ain’ t it Strange” fino all’ orgia so-
Nel 2012, su Columbia, esce Banga (57°, prodotto dal Pat-
nica di “Radio Ethiopia/Abyssinia”, registrata dal vivo e dedi-
ti Smith Group versione 2012: Smith-Kaye-Daugherty+Tony
cata a Rimbaud e Brancusi8, con i sommi Velvet Under-
Shanahan, dal ‘96 bassista-tastierista). Fra i musicisti accreditati anche gli italiani La Casa del Vento. La critica applau-
8 - Constantin Brancusi. Scultore astrattista romeno, n. 1876, morto a Parigi nel 1957, ricercò felicemente forme primigenie ed ‘assolute’ (Il Bacio).
IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
de, parlando dei “ganci” chitarristici di Lenny Kaye e del canto profondo e tragico di Patti. La storia continua...
79
Il FUrore del Rock
Arthur Rimbaud
Arthur Rimbaud nasce a Charleville (Ardenne, Francia) nel 1854 da famiglia medioborghese e benestante. Precocissimo, a dieci anni frequenta tre classi in una. Nel 1870, a quindic’ anni, comincia a produrre poesia già matura ed oggi giustamente famosa ed a far inorridire i Parnassiani 9 con le sue teorie “scandalose”. Al contempo inizia un vagabondaggio ininterrotto, spesso a piedi, in una serie infinita di fughe e ritorni a casa, che si sarebbe concluso solo pochi mesi prima della morte con l’ amputazione della gamba destra. Vagava ‘alla ricerca di se stesso’ ed in fuga dal ‘male d’ Europa’ . In questo periodo, in una famosa lettera, teorizzò che “Io è un altro”, che ci sfugge sempre: ed ecco forse la vera chiave di quello che era in realtà un inseguimento del suo io. Sedici anni, 1871: completa quella che molti critici considerano la sua opera maggiore, “Le bateau ivre”, 25 strofe in versi alessandrini a rime alternate. La manda a Paul Verlaine, già poeta affermato, che intuisce subito di trovarsi davanti al testo-base della nuova lirica e lo invita a Parigi. Il discepolo, nei due anni successivi, finisce per trascinare nella sua sregolatezza anche il maestro, appena sposato e borghese di successo. Irrequieto ed instabile 9 - I Parnassiani animarono il movimento poetico sviluppatosi in Francia tra il 1866 e il ‘76; antesignani: Gautier e Leconte de Lisle. Teorizzavano una poesia di estrema purezza formale. Il nome fu tratto dalle raccolte di versi Il Parnaso contemporaneo (1866, ‘71, ‘76) cui collaborarono, tra gli altri, Mallarmè, Heredia, Verlaine. Il Parnaso era il monte greco sacro ad Era (la Madre Terra), Apollo (dio della Poesia) e Dioniso (dio dell’ Ebbrezza). Dalle sue pendici orientali scaturiva la fonte Castalia, ispiratrice di poesia.
80
ma estremamente affascinante, ammalia Verlaine, dieci anni più grande, che per lui abbandona la famiglia. Belgio, Londra, ancora Belgio, sempre insieme, ma mentre Verlaine cerca in questa frenesia un’ autogiustificazione estetica, per Rimbaud si tratta piuttosto di (inconscia?) voglia di autodistruzione. Intollerante della gelosia dell’ amico, e di ogni legame in generale, lo respinge. Verlaine gli spara, ferendolo a un polso e finendo in una prigione belga. 1873: Rimbaud scrive “Une saison en enfer” opera in prosa in parte autobiografica, ed unica che pubblicherà in vita, in 400 esemplari, a Bruxelles, disinteressandosene immediatamente e non curandosi nemmeno di ritirare (e pagare) i volumi. Comincia anche le “Illuminations”, ancora in prosa, che continuerà nel ‘74 e terminerà nel 1875. E qui, a 21 anni, si conclude la sua produzione letteraria. Il girovagare diventa frenetico: dal Belgio ancora in Inghilterra, poi Germania, Italia, colonie olandesi (come combattente volontario, a Giacarta). Dopo tre settimane diserta, s’ ingaggia su un veliero inglese e torna in Francia. A Vienna è derubato e quindi espulso. Olanda. Amburgo. Vaga per tutta Europa al seguito di un circo finché, malato e stanco, torna per l’ ennesima volta a casa. Nel 1880 diviene agente commerciale di una importante compagnia in Abissinia dove vive more uxorio con un’ indigena e si getta con tutto se stesso in commerci leciti e illeciti. Si è parlato, senza conferme, perfino di traffico di schiavi. È certo invece che viene truffato dal celebre condottie-
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
Il FUrore del Rock
ro Menelik, che si rifiuta di pagargli un carico d’ armi. Nel 1887 trova un minimo di stabilità ad Harar (Etiopia), dirigendo la fattoria di un produttore di caffè, finché nel ‘91 un tumore al ginocchio destro lo costringe a liquidare tutto e farsi portare in barella all’ imbarco per Marsiglia, dove il 9 maggio subisce l’ amputazione. Ritorno a Charleville. Assistito dalla dolce sorella Isabelle, in agosto è di nuovo a Marsiglia in cerca di un clima più caldo. Ma il male non perdona, e il 10 novembre 1891 muore all’ Ospedale della Concezione. La sorella riferirà poi che il cappellano che all’ u ltimo lo visitò trovò in lui (che era antitutto e soprattutto ferocemente anticlericale) una “fede di grande qualità”. Sempre Isabelle, forse la persona che più lo amò, disse che “ad Harar gli indigeni lo chiamavano ‘Il Santo’ per la sua meravigliosa carità. I benefici che ha sparso laggiù sono incredibili e inauditi. Egli amava poco le ipocrisie della società, ma era dotato di grandissima bontà, e grande coraggio, ed era instancabilmente attivo...”. Non una parola sui suoi scritti. Paul Verlaine, che curerà raccolta, pubblicazione e diffusione delle sue opere, iniziando mentre Arthur era in Abissinia, nel suo Les poètes maudits (‘I Poeti Maledetti’ , 1884; opera critica) ne esalta il valore artistico. Fisicamente lo descrive come “Alto, ben piantato, quasi atletico, dal volto perfettamente ovale di angelo in esilio, i capelli castano chiari, e gli occhi di un azzurro pallido inquietante.” Con le sue poche poesie e con la Saison, Rimbaud “percorse come una meteora tutto il cammino che portava da Baudelaire al simbo-
IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
lismo, colto nella sua fase decadente e moribonda, e ai presentimenti del surrealismo. Teorizzò, con coscienza più lucida di ogni altro decadente, la tesi del ‘poeta veggente’ capace di giungere, per mezzo di uno ‘sregolamento di tutti i sensi’ , a una visione dell’ i gnoto che è anche visione dell’ assoluto. L’ arte coincide con la vita nel ‘rifiuto dell’ Europa’ che includeva anche se stesso e la propria formazione ed estrazione, anzi da lì partiva. Coerentemente, la vita di Rimbaud fu frenetica ricerca di annullamento, perseguito in ogni modo, incluso anche e soprattutto quello delle sue opere (lasciate in giro manoscritte e poi recuperate da Verlaine o stampate e abbandonate come la Saison), fino alla rinuncia totale, a 21 anni, alla scrittura.” “Rimbaud è il più grande e integrale interprete poetico della crisi nichilistica, e come molti autori dei tempi di crisi, è caratterizzato da potente ambiguità. Infatti la critica è sempre stata divisa nei suoi confronti: c’ è chi ha visto nella Saison un inconscio itinerario verso un dio sconosciuto ma necessario e c’ è chi vi ha scorto semplicemente la suprema consapevolezza dell’ inutilità della cultura e della tradizione, e il suo definitivo rifiuto.” “Paradosso supremo è che questa smania pervicace di autodistruzione si sia tradotta in stupenda azione creativa, che la sua istanza di liberazione assoluta da tutto (letteratura compresa) si sia realizzata grandiosamente ‘attraverso’ la letteratura” [Virgolettati: dall’Enciclopedia Garzanti della Letteratura, terza edizione, 1997] . ❧
Livio Bauer 81
Il FUrore del Rock
Voyelles
(Vocali, 1871. Traduzione di Gian Piero Bona), sonetto che Arthur Rimbaud compose a 17 anni, è considerato il ‘manifesto’ del simbolismo francese.
A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, dirò un giorno le vostre nascite latenti: A, delle mosche neri pelosi corsali che ronzano sui crudi fetori, splendenti,
golfi d’ombra; E, candori di tende e vapori, lance di fieri ghiacciai, fremiti di umbelle, re bianchi; I, porpore, sputo di sangue, belle labbra ridenti a espiate ebbrezze o a furori;
U, cieli, di mari verdi divine fughe, pace di animali ai campi, pace di rughe che l’alchimia imprime all’ampio viso saggio;
O, suprema Tromba piena di stridi fondi, silenzi solcati dagli Angeli e dai Mondi: O, l’Omega, dei Suoi Occhi il violaceo raggio!
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Bertoncelli Riccardo, Thellung Chris, 24.000 Dischi, Zelig, 2004 Cilia Eddy, Guglielmi Federico, 1.000 Dischi Fondamentali, Giunti, 2012 Fowlie Wallace, Rimbaud e Jim Morrison, Il Saggiatore, 1997 Morrison Jim, Light my Fire-versi poetici e dichiarazioni di guerra, Aliberti, 2007 Tempesta elettrica-tutti gli scritti, Mondadori, 2002 The Doors-tutti i testi, Arcana, 1992
82
Rimbaud Arthur, Poesie-traduzione di Gian Piero Bona, Einaudi, 1973 Smith Patti, Babel, Newton Compton, 1980 Complete-canzoni, riflessioni, diari, Sperling & Kupfer, 2000 Il Sogno di Rimbaud, Einaudi, 1996 aa.vv., Enciclopedia Rock 5 voll., Arcana, 1985-1999 aa.vv., Jim Morrison & Doors-studio su testi e musiche, Gammalibri, 1987
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
1
E
*
a cura di Francesca Garello
L
o sport è gioco? Non rispondete in fretta. Non è così semplice. Pensate al calcio o al pugilato e poi a scacchi, dama, bridge o poker. Vi sembrano la stessa cosa? Probabilmente no, però sono tutti riconosciuti dal Coni, il Comitato olimpico nazionale italiano. Verrebbe quindi da estendere il concetto, per restare nei giochi di carte di grande popolarità, anche alla canasta o al burraco. E invece no, non sono “giochi sportivi” come non lo è il filetto (o gioco del mulino) che pure accompagna regolarmente la dama sul retro delle scacchiere. La questione è molto dibattuta, e varia parecchio in ragione di secoli e mode. Ma un fatto mette tutti d’accordo: lo sport, come ogni gioco, compare in abbondanza nei libri.
tra eroico ed erotico Troviamo riferimenti ad attività “sportive” già nell’Iliade. In una società guerriera in cui sono tenute in * orizzontali 1 - Tra libro e gioco
grande considerazione le virtù guerresche e tutto è permeato di sacro, non sorprende di trovare narrata con vivo realismo la corsa dei carri tenutasi in occasione dei funerali di Patroclo (libro XXIII, vv. 352533). Piacciono però anche giochi meno violenti. Nell’Odissea vediamo Nausicaa e le sue ancelle che, dopo aver lavato i panni e compiuto i loro doveri femminili, si dedicano al gioco della palla (VI, vv. 99-109). Descrizioni sportive realistiche si trovano in Teocrito (Idillio XXII), dove compare un incontro di pugilato particolarmente cruento. Benché i due sfidanti siano personaggi mitici (Polluce, uno dei gemelli divini figli di Zeus, e il gigante Amico, figlio di Poseidone) la narrazione è realistica. Ecco un bel knock-out: (…) E quando vide / che (Amico) era in difficoltà, (Polluce) gli sparò un pugno / sopra il centro del naso, sotto l’arco / del sopracciglio e tutta fino all’osso / gli lacerò la fronte. Per il colpo / quello cadde supino tra le fo-
glie / lussureggianti (vv. 180-186). I primi testi letterari ispirati specificamente allo sport, però, sono le Odi di Pindaro, dedicate ai vincitori dei Giochi panellenici. Divise secondo i giochi a cui facevano riferimento (Olimpici, Pitici, Nemei, Istmici), ci danno un quadro delle discipline sportive più praticate in Grecia nel V secolo a.C., ma ci dicono poco sugli sport in sé. La gloria sportiva di atleta era anche la gloria dell’intera città da cui veniva, quindi le Odi sono inni solenni, trattano temi colti e spessissimo si discostano molto dall’oggetto della celebrazione a causa dei noti “voli” poetici per cui l’autore è famoso. Descrizioni di avvenimenti sportivi si trovano anche nell’Eneide (dove abbiamo una gara di corsa e un torneo di tiro con l’arco) e in opere di Seneca, Plinio e Giovenale (ricordate il famoso panem et circenses?), ma anche qui non sono centrali rispetto alla trama. È sorprendente quindi scoprire che un poeta noto per le sue elegie Francesca Garello
Il libro scende in campo IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
83
tra libro e gioco
sentimentali ed erotiche ha costruito una delle sue opere attorno al filo portante dello sport. Ovidio negli Amores tratteggia una gustosa scena di seduzione durante una corsa di quadrighe (vedi box). Il poeta ha accompagnato al Circo Massimo una bella tifosa e tenta di entrare nelle sue grazie parteggiando per l’auriga che piace a lei. Per compiacerla la mette comoda raccogliendole il mantello e con l’occasione le sbircia le gambe, inneggia al suo beniamino, si dispera per una corsa condotta malamente e commenta sconsolato: “Abbiamo dato il nostro sostegno a un incapace”. C’è un lieto fine: l’inetto auriga si riscatta, vince e uno sguardo allusivo della bella fa presagire la conclusione del pomeriggio sportivo. falconi e palloni L’austero Medioevo concede poco agli sport propriamente detti. Il popolo si guadagna la vita con fatica e ha poco tempo da impiegare in passatempi privi di scopo, figuriamoci per scriverne; i nobili si dedicano a discipline ispirate alla guerra o praticate con costosi “attrezzi”, come il falcone. Proprio alla caccia con il falco è dedicata l’opera più tecnica dell’epoca, De arte venandi cum avibus (c. 1260) dell’imperatore Federico II. È un vero manuale sportivo (forse il primo della storia) che copre l’argomento a 360 gradi, dalle attrezzature alla dieta degli uccelli da preda. 84
Seduzione al Circo Ovidio, Amores III, 2 Non siedo qui perché ho la passione dei cavalli da corsa; però quello che tu tifi, io quello prego che vinca. Per parlare insieme a te son venuto, e insieme a te sedere, perché non ti fosse ignoto quello che susciti, amore. Tu guardi le corse, io te; siamo entrambi spettatori di ciò che ci piace, ognuno gli occhi suoi a nutrire. Beato, chiunque sia, il guidatore per cui fai il tifo! […] Ma ti va troppo in giù il mantello, tocca terra: raccoglilo, anzi, ecco, lo prendo io con le dita. Eri odiosa, veste, che coprivi due gambe così belle; e per vedere un po’ di più – eri proprio odiosa, veste. […] Ho il sospetto, da queste, che mi piacerà anche il resto, quello che sotto la veste sottile se ne sta ben nascosto. […] Ma ormai arriva il corteo: fate silenzio e attenzione! […] Ecco che nella pista ormai libera del Circo il pretore ha dato il via dalla stessa linea di partenza allo spettacolo più atteso, la corsa delle quadrighe. Ho capito per chi fai il tifo; vincerà, chiunque avrà il tuo favore; perfino i cavalli sembrano sapere quali siano i tuoi desideri. Povero me!, fa un giro troppo largo attorno alla meta. Che fai? L’inseguitore accostando il carro, sfiora la meta. Che fai, disgraziato? Sprechi il favore della mia ragazza; ti scongiuro, tira forte le redini con la sinistra. Abbiamo dato il nostro sostegno a un incapace. […] Almeno ora portati in testa, e lanciati in campo aperto! Fai che il mio desiderio, il desiderio della mia donna si avveri! Il desiderio della donna s’è realizzato, ora resta il mio; lui ha la sua palma della vittoria, la mia la devo conquistare io. Ha sorriso, e con un guizzo degli occhi ha promesso qualcosa: qui mi basta questo, il resto, dammelo in un altro luogo.
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
tra libro e gioco
Il padre Dante non sembra dare molto peso agli sport, occupato com’è in temi spirituali. Solo tre terzine dall’Inferno citano la lotta, senza particolare simpatia, nel girone dei sodomiti: Qual sogliono i campion far nudi e unti, / avvisando lor presa e lor vantaggio, / prima che sian tra lor battuti e punti (XVI, vv. 22-24). Nelle opere del suo contemporaneo Folgore da Gimignano troviamo invece ampiamente citati gli “sport” più amati dalla nobiltà: dai Sonetti della Semana apprendiamo che i signori si dedicavano ai combattimenti guerreschi il martedì, al torneo di giostra il giovedì, alla caccia con i cani il venerdì, alla caccia col falcone il sabato. Dal Rinascimento in poi, oltre a occupazioni sempre gradite all’aristocrazia come caccia e scherma (trasportate da Ludovico Ariosto e Torquato Tasso in contesti eroici) cominciamo a trovare veri trattati dedicati ad attività che assomigliano di più ai nostri sport e che sono praticate anche dal popolo. Il filosofo Antonio Scaino da Salò a metà del Cinquecento pubblica a Venezia il Trattato del giuoco della palla, dal quale apprendiamo che con la palla si facevano già allora giochi assai diversi: (…) il giuoco del pallone o vero di pugno perché col pugno armato si batte, il giuoco della palla da Scanno perché si batte con un istrumento preso in mano detto scanno, il giuoco della palla da
IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
racchetta alla distesa e il giuoco da mano con la corda. Giochi popolari, si è detto, ma amati anche dagli intellettuali. Alla “pallamaglio” è dedicato il Canto di giocatori di palla al maglio (1559) di Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, fondatore dell’Accademia della Crusca. Il gioco è oggi dimenticato, ma tutti ne conosciamo i discendenti: il croquet (reso indimenticabile dalla Regina di Cuori nella favola di Alice nel paese delle meraviglie), l’inglesissimo cricket e il popolare golf. amore, ginnastica e lotta di classe Più ci avviciniamo ai nostri tempi più aumentano le opere che trattano di sport in modo specifico e si comincia a trovare in esse uno sfondo sociale o addirittura politico. Giacomo Leopardi, che pur sportivo non era, nel suo soggiorno a Roma tra il 1822 e il 1823 subisce il fascino dell’energia vitale manifestata da Carlo Didimi, campione sportivo molto celebrato, e gli dedica l’Ode a un vincitore del pallone. Lo sport però è solo un pretesto: accanto al motivo sportivo compare quello patriottico della patria in declino, il contrasto tra la grandezza del passato classico e la decadenza di un’epoca corrotta dagli eccessi della ragione. Molto più divertente, e rispettoso del tema, è il racconto di Edmondo De Amicis Amore e ginnastica (1892): storia d’amore tra un impacciato maestro elementare
un po’ all’antica e un’impetuosa signorina moderna, maestra di ginnastica e instancabile atleta, mescola con spirito i nuovi temi dell’evoluzione sociale e dell’emancipazione femminile con quello più tradizionale dell’amore timido. Mix perfetto per una commedia romantica, nel 1973 il racconto fu trasformato in un film con una gustosa sceneggiatura di Suso Cecchi d’Amico. Temi sociali intrecciati alla boxe compaiono in alcuni racconti di Jack London. Appassionato pugile, in A Piece of Steak (1909) mette in scena i contrasti tra nuove e vecchie generazioni e i problemi dei lavoratori anziani nel racconto di un vecchio boxer. In The Mexican (1911) il tema sociale è la discriminazione, vissuto attraverso un giovane pugile messicano che affronta un combattimento sleale per guadagnare denaro da donare alla rivoluzione. Lo sport è spesso visto come veicolo di promozione sociale. Nick Molise, protagonista del romanzo di John Fante Un anno terribile (1933 Was a Bad Year, uscito postumo nel 1985, in Italia nel 1996), desidera diventare un campione di baseball, il più americano degli sport, per uscire dal ghetto delle sue radici italiane e trovare posto a pieno titolo nella società americana. calcio, mon amour! Il calcio, ovviamente, la fa da padrone in Europa e in America Latina. Troppe per elencarle antologie e
85
tra libro e gioco
raccolte (citiamo solo i Racconti del calcio curati da Giuseppe Brunamontini nel 1975 e i reportage di Mario Soldati dai mondiali di Spagna del 1982, raccolti in Ah! il Mundial!), come pure l’infinita genìa dei manuali tecnici. Nella narrativa troviamo anche un premio Nobel, lo spagnolo Camilo José Cela (premiato nel 1963). In Undici racconti sul calcio (Once cuentos de futbol, 1963), da bravo spagnolo riesce a fondere due passioni nazionali, il calcio e la corrida: Ciò che nei tori si chiama razza, nei calciatori è classe. Ci sono tori di razza, grande razza, e calciatori di classe, grande classe. Altri, invece, sono bestiame da dilettanti, carne da macello, capi in saldo e liquidazione di fine stagione. Il primo romanzo calcistico di un italiano, Azzurro tenebra di Giovanni Arpino (1977), è ambientato durante i mondiali del 1974 in Germania e mette in scena una magnifica galleria di personaggi (veri e inventati) legati dal filo conduttore della tristezza, che si materializzerà poi nell’esclusione della nostra nazionale dal torneo. Tra i gialli troviamo Il centravanti è stato assassinato verso sera (El delantero centro fue asesinado al atardecer, 1988) di Manuel Vásquez Montalbán, in cui il celebre investigatore Pepe Carvalho si muove in mezzo agli intrighi di due squadre sportive catalane e ai loro nuovi centravanti. L’opera forse più originale dedica86
ta al calcio è una raccolta di poesie, La solitudine dell’ala destra di Fernando Acitelli (1998), 185 componimenti dedicati a calciatori famosi e non, da Sivori a Pelè, da Cruijff a Baggio: Coraggio! Coraggio! Roby Baggio! / Talento di raso vestito, palleggio / erudito, tocco infinito, fanciullo / ferito (…).
Poteva mancare la letteratura per ragazzi? Il brasiliano Jorge Amado sceglie di raccontare il calcio da un insolito punto di vista in La palla innamorata (A bola e o goleiro, 1984). Protagonista la palla BucaReti, innamorata del portiere GoGol. Dopo aver infilato qualunque portiere e “bucato” la porta in circostanze impossibili, durante un calcio di rigore anziché entrare in porta si dirige verso il cuore del suo amato, facendo fallire il tiro. Sapete chi c’è sul dischetto? Pelè, e sarebbe stato il suo 1000° gol. Stavolta vince l’amore, Pelè dovrà aspettare un’altra partita per battere il suo record.
Dalle pagine al campo e ritorno Nel gioco a rimandi tra lo sport e la letteratura non mancano le opere di pura fantasia. Il corposo romanzo di fantascienza di David F. Wallace, Infinite jest (1999, pubblicato da Einaudi nel 2006), avvolge le sue 1400 pagine attorno alle vicende di un’accademia di tennis del futuro, la Enfield Tennis Academy. Qui in realtà non si pratica solamente il tennis ma anche l’Eschaton, una specie di gioco di ruolo ispirato a una guerra nucleare la cui mappa è ricostruita su quattro campi da tennis attigui. La complessità del gioco fa sì che per praticarlo ci voglia un computer per i calcoli e che i partecipanti debbano essere esperti sia nella teoria che nel colpire degli obiettivi fisici con le palle da tennis. Stefano Benni, in La compagnia dei celestini (1992) affida la storia alle vicende di un gruppo di ragazzini che pratica la “pallastrada”, una versione piuttosto selvatica del calcio. Lo sport inventato più incredibile (e probabilmente più divertente) che sia finito sulle pagine di un libro è però il Quidditch, lo sport dei maghi nella saga di Harry Potter. Praticato in volo su scope magiche con l’uso di palle volanti è spettacolare e pericoloso, tanto affascinante da essersi meritato un intero trattato “storico” e determinare la nascita di uno sport vero su campi da gioco reali. Dai campi alle pagine e di nuovo sui campi, il cerchio si chiude.❧
Francesca Garello 2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
tra libro e gioco
I
Palle volanti e manici di scopa: Quidditch
l Quidditch è lo sport principale e più famoso all’interno del mondo di Harry Potter. Ad esso J.K. Rowling ha dedicato il libro Il Quidditch attraverso i secoli (Salani, 2002). Il fatto sorprendente non è che la Rowling abbia scritto un libro intero sul gioco preferito del mago, ma che sia un libro incredibilmente pieno di dettagli. Innanzi tutto: cos’è il Quidditch? È uno sport altamente competitivo all’interno del mondo magico di Harry Potter, un gioco di “semicontatto” che coinvolge giocatori di qualunque età e sesso. Le partite vengono giocate su un campo ovale 77 m. per 44 m. da due squadre di sette giocatori a cavallo di una scopa (e quindi volando), utilizzando quattro palle volanti diverse, una Pluffa, due Bolidi e un Boccino d’Oro. La Pluffa è quella che si usa per segnare il punto: all’estremità di ogni metà campo, infatti, ci sono tre anelli a 15 m. da terra in cui bisogna far entrare la Pluffa; i Bolidi servono per disarcionare i giocatori avversari (ecco perché l’ho definito un gioco di “semi-contatto”: i giocatori non si toccano tra loro, ma possono essere investiti dai Bolidi); il Boccino d’Oro, velocissimo e dotato di volontà propria, è la preda più ambita di giocatori specializzati detti “cercatori”: prenderlo garantisce alla squadra 150 punti e spesso risolve la partita. Il libro Quidditch attraverso i secoli parla di tutto ciò che riguarda questo sport: l’origine del gioco e l’aggiunta e modifiche di campo, palle, giocatori, regole e addirittura arbitri, dell’evoluzione della scopa (e della scopa da corsa), degli antichi giochi con scopa. Passa poi ad una descrizione delle principali squadre inglesi e irlandesi, senza scordarsi delle squadre internazionali e dell’attuale situazione del Quidditch. I fan di Harry Potter non hanno esitato e, pur non avendo a disposizione scope volanti e palle magiche, hanno ricreato il Quidditch per i babbani (co-
IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
loro che non hanno poteri magici) chiamandolo Quidditch Babbano. Benché nato tra le pagine di un libro, il Quidditch non è uno sport da sottovalutare: ci sono addirittura i campionati mondiali! È dal 2007 che si tengono i campionati, con partecipazioni internazionali. L’Italia ha diverse squadre, di cui 4 attualmente iscritte alla IQA (International Quidditch Association): la Milano Meneghins Quidditch (Milano), la Lunatica Quidditch Club (Brindisi), la S.P.Q.R. (Società Professionistica Quidditch Roma, appunto di Roma) e la GreenTauros Torino (Torino). Non sono le uniche, infatti stanno sorgendo squadre nei più vari comuni. La Associazione Italiana Quidditch esiste già e, citando il presidente Michele Clabassi, vuole “organizzare e promuovere il Quidditch in Italia, fornendo una struttura di riferimento e un modo di organizzare un campionato”. Nella stagione 2012/2013 si è svolto il primo campionato di Quidditch Babbano in Italia, che è stato vinto dai Milano Meneghins. Questa squadra si è classificata terza nel campionato europeo nello stesso anno. È possibile far parte di una squadra ufficiale tesserandosi alla AIQ. Per maggiori informazioni è bene visitare il sito www.italiaquidditch.com, visitare la pagina Facebook chiamata Italia Quidditch, seguire il canale su YouTube con lo stesso nome o mandare un’email all’indirizzo [email protected]. Le avventure di Harry Potter e il suo mondo magico saranno finite, ma i suoi fan non finiranno mai di viverne di nuove! il quiddich babbano Il Quidditch babbano non è semplice: innanzi tutto non si può volare quindi niente scope magiche né palle volanti (pluffa, bolidi e boccino d’oro). Le scope magiche vengono rimpiazzate da scope nor-
87
tra libro e gioco
mali: ogni giocatore deve tenerne una tra le gambe e correre tenendola con una mano. Questo complica un po’ tutto, sia perché il Quidditch è uno sport in cui bisogna correre parecchio sia perché bisogna afferrare le palle con una sola mano. L’altro grosso problema è il boccino d’oro. Nel Quidditch originale è una piccola palla dorata dotata di ali e di volontà propria. Vola dove le pare, compare e scompare a suo piacere e solo giocatori specializzati (i cercatori) riescono a prenderla, assicurando così 150 punti alla propria squadra. Nel Quidditch babbano il boccino è una palla da tennis infilata in un calzino e “rimboccata” nella parte posteriore dei calzoncini di una persona vestita di giallo (assistente dell’arbitro e quindi neutrale), in modo che penzoli come una coda. La partita comincia con i sette giocatori (tre cacciatori, due battitori, un portiere ed un cercatore) di ogni squadra allineati sulla linea di partenza con le scope a terra e gli occhi chiusi per evitare di vedere dove vada il boccino. Le quattro palle (una pluffa per segnare e tre bolidi per “disarcionare” i giocatori, mentre nel gioco originale
88
i bolidi sono due) vengono piazzate a metà campo. Appena il boccino non è più in vista, l’arbitro dice “Su le scope!” e i giocatori avanzano per prendere le palle. I cercatori devono aspettare 10 minuti prima di poter andare a cercare il boccino. Il boccino umano può entrare e uscire dal campo, come anche i cercatori che lo inseguono. Acchiappare il boccino umano garantisce 30 punti. È un gioco dal ritmo rapido. I passaggi con la pluffa sono veloci e ad ogni gol, dal valore di 10 punti, la palla viene data alla squadra che ha subito il gol. La squadra torna quasi immediatamente in attacco, per cercare di segnare con i cacciatori che ritornano nella loro zona del portiere o nella loro metà campo. I battitori, al contrario, non devono tornare nella propria metà campo o uscire dall’area del portiere avversario. Una partita dura circa 20-50 minuti, dipendendo dall’abilità e resistenza dei cercatori e del boccino. La partita termina appena viene catturato il boccino. La partita viene vinta dalla squadra con più punti, non quella che cattura il boccino. ❧
Livia Alegi
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
Marginalia a cura della Redazione
Queste pagine ospitano articoli che, non appartenendo ad una rubrica esistente possono, per gli argomenti trattati, ben apparire a margine della Rivista.
F
in dai tempi più antichi gli uomini hanno sempre fatto del soddisfacimento del loro bisogno di cibo un momento di condivisione collettiva: è facile immaginare anche i nostri antenati più remoti raccolti attorno al fuoco a mangiare, a narrare vicende e a creare miti e racconti; d’altro canto basta andare alle origini della letteratura per accorgersi che tutte le narrazioni partono così: Odisseo comincia il suo racconto attorno al fuoco, dopo aver cosparso il suo corpo di oli profumati e aver abbondantemente riempito il proprio ventre. Come negare quindi l’alto valore antropologico del cibo e del momento della sua assunzione: “Der Mensch ist was er ißt” (l’uomo è ciò che mangia) diceva il filosofo Feuerbach, e il suo illustre “antenato”, Platone, ha ambientato uno dei suoi più bei dialoghi in un simposio, il momento culminante della cena dei greci, quello dal più alto valore simbolico, la condivisione delle bevande.
E ancora, a proposito di simboli, come dimenticare che l’atto rituale e liturgico più commovente del cattolicesimo altro non è che la condivisione cannibalesca del sangue e del corpo di Cristo, offerti in sacrificio per la salvezza del genere umano. Ancora Dante Alighieri, il padre della nostra lingua, sceglie il banchetto della sapienza per il suo Convivio e le quattordici canzoni altro non sono che altrettante vivande servite con l’accompagnamento dei commenti, cioè del pane: “Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’io ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza la quale da loro non potrebbe essere mangiata”. Sapiente è colui che è sapido, che ha sapore, quindi il cibo rifocilla il corpo, la mente e l’anima, ed è carattere tale da diventare proprio di un popolo quasi quanto la lingua; in un bellissimo passaggio di uno dei suoi primi romanzi, Tatuaggio,
Manuel Vasquez Montalban fa dire al detective protagonista dei suoi numerosi gialli, Pepe Carvalho: “Così come esiste una koinè linguistica e possiamo precisare l’origine comune delle lingue ariane in quella indoeuropea, esiste una koinè gastronomica evidente, di cui uno degli indizi scientifici è il pane e pomodoro. Possiamo accomunarlo alla pizza ma la supera nella facilità di esecuzione. La farina della pizza va cotta. Invece il pane e pomodoro non è che questo, pane e pomodoro, un po’ di sale e dell’olio”. La prima volta che andai a Barcellona la relatrice di una conferenza, per spiegare meglio l’indissolubilità di due elementi di una metodologia pedagogica, usò proprio questo paragone: “como pan y tomate”, affermando con orgoglio che questa è la pietanza caratteristica della Catalogna, ed io ascoltavo sorridendo perché i miei figlioli, nati sull’isola d’Ischia, sono stati cresciuti con pane e pomodoro, figli, evidentemente, di quella koinè Pasquale Tappa
Tra cibo e letteratura 89
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
marginalia
mediterranea di cui Carvalho parlava. Come ancora dimenticare gli infiniti passaggi che la letteratura dedica al cibo, dal famoso ricordo della madeleine nella Recerche di Marcel Proust alla definizione del carattere del protagonista dell’Ulysses di James Joyce, attraverso l’elenco dei suoi cibi preferiti: “Mr. Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie, un cuore ripieno arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto di urina leggermente aromatica”. D’altronde, attraverso gli eccessi del cibo la letteratura ha simbolicamente indicato anche la decadenza della società; nel suo Satyricon Petronio ha dedicato alcune delle pagine più belle ed originali alla Cena Trimalchionis, lo schiavo arricchito che ama invitare i suoi ospiti per sorprenderli con la tracotanza dei suoi eccessi: “Quanto al vassoio, vi campeggiava un asinello in corinzio con bisaccia, che aveva olive bianche in una tasca, nere nell’altra. Ricoprivano l’asinello due piatti, su cui in margine stava scritto il nome di Trimalchione e il peso dell’argento. E vi
90
avevano saldato ancora dei ponticelli, che sostenevano ghiri cosparsi di miele e papavero. E c’erano dei salsicciotti a sfrigolare su una graticola d’argento, e sotto la graticola susine di Siria e chicchi di melograno.” Non possono esimersi, nel corso della distruzione di tutti i luoghi comuni, dall’intervenire anche sul cibo i trasgressivi Futuristi, ai quali dobbiamo il non molto conosciuto Manifesto della cucina Futurista, nel quale attaccano con forza il luogo comune culinario italiano della pastasciutta e inseriscono, epigoni dell’avo latino, un menù che non ha nulla da invidiare a Trimalchione, anche se si proietta in un clima di grande modernità: “Il Carneplastico creato dal pittore futurista Fillia, interpretazione sintetica dei paesaggi italiani, è composto di una grande polpetta cilindrica di carne di vitello arrostita ripiena di undici qualità diverse di verdure cotte. Questo cilindro disposto verticalmente nel centro del piatto, è coronato da uno spessore di miele e sostenuto alla base da un anello di salciccia che poggia su tre sfere dorate di carne di pollo”. Anche l’ottimo giallista italiano Giulio Leoni, famoso per aver scritto romanzi il cui protagonista e detective è Dante Alighieri, si ispira, trasformando tutto in pantomima nel suo E trentuno con la morte, per
la descrizione della Cena Futurista preparata per ospiti stranieri ed evidentemente poco graditi, agli eccessi dei citati artisti stravaganti; al tutto fa da sfondo il periodo della Reggenza del Carnaro di Gabriele D’Annunzio, che in quanto a stravaganze nulla doveva neanche ai Futuristi: “Un’altra delle marionette, quella di colore verde, era entrata ondeggiando con un grosso pezzo di lamiera rettangolare tra le zampe, su cui fumigava una massa informe. Riconobbe il coperchio di una cassetta di proiettili di una mitragliatrice: meno facile era identificare la pietanza, una specie di rotolo di manzo completamente bruciato, da cui spuntavano due grosse bielle d’autocarro ad imitazione delle zampe di un volatile. – Ed ecco a voi il Pollofiat, l’uccello di metallo infiammato – sbraitò infiammata da evidente entusiasmo per il servizio prestato. Migliore e più moderno dello stucchevole canard à l’orange”, e ancora: “Et enfine, la pièce de résistence. Dedicato espressamente alle potenze vincitrici di Versaglia. Ecco le Souf... fle de mer... – l’automa aveva appoggiato il piatto coperto davanti a Delorme Vallée, scoperchiandolo con un gesto rapido – ...de!” ❧
Pasquale Tappa
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
Parlando di Libri a cura di Anna Maria Ercilli
N
ella nostra infanzia abbiamo letto fiabe e racconti con l’ orso protagonista di avventure magiche, buffe o tragiche, senza conoscere il recondito motivo della grande popolarità di questo animale selvatico. Il racconto Storia dell’ orsa Pata di Ruben Frizzera1 ci porta nella realtà dei nostri giorni: fra i battitori di caccia romeni al servizio dei ricchi cacciatori, incontriamo un bambino e un cucciolo di orso allevato in casa e poi venduto. Cresciuto e diventato uomo, il ricordo dell’ amico plantigrado lo spinge a cercarlo, trovarlo e perderlo nuovamente. Storia d’ amore e di caccia. L’ orso, l’ animale selvatico più forte e senza rivali, fatta eccezione per l’ uomo, popolò l’ Europa intera, condividendo il territorio con gli uomini del Paleolitico. Le grotte erano la tana dell’ orso delle caverne, dove trovava rifugio durante l’ inverno, lasciandovi mol-
te tracce, diventate materia di studio dei moderni ricercatori. Nelle caverne frequentate dagli uomini primitivi, troviamo la rappresentazione degli animali selvatici in artistiche incisioni e pitture sulle pareti rocciose. Le pitture rupestri riproducono più facilmente il cavallo e il bisonte e molto meno l’ orso. I reperti ritrovati nelle grotte di Regourdou e Chauvet e, il ritrovamento della sepoltura dell’ orso accanto all’ uomo con diversi crani disposti come un rituale, fanno supporre la pratica del culto dell’ orso. L’ uomo e il soprannaturale. “I miti, in effetti, vengono sempre da lontano, dalle epoche arcaiche, dalle ‘età dell’ oro’ o dai tempi ancora più remoti in cui lo storico si avventura di rado perché dovrebbe farsi guidare soltanto dal fiuto… nei miti greci l’ orso non è di per sé una divinità, ma soltanto l’ attributo di alcune di esse”2. La leggenda della ninfa Callisto trasformata in orsa per la vendetta
1 - Ruben Frizzera, Bruno e gli altri orsi, Il Margine, 2007, pag. 167.
2 - Michel Pastoureau, L’ orso, Storia di un re decaduto, Einaudi, 2008, pag. 24.
di Artemide,;il figlio Arcade stava per ucciderla, ma Zeus li salvò trasformando anche lui in orso, elevando entrambi in cielo nelle costellazioni dell’ Orsa maggiore e Orsa minore. Nei paesi del nord Europa era consuetudine avere un nome derivato dall’ orso, di buon auspicio per identificarsi nella sua forza e nei suoi poteri. Numerosi sono i nomi con radice Ber, Bern, Beorn, Bero, Bera, Pern, Per, ecc.3. Anche il nome del dio della guerra dei paesi nordici Thor, deriva da orso, in norvegese antico: Thorbjörn. La diffusione del Cristianesimo fra i Celti e le tribù germaniche, costrinse a latinizzare i nomi pagani (Adalberto, Bernardus, ecc.), ma altri resistettero e diedero i natali a vescovi e santi: san Bernardo. I vescovi combatterono i riti e le feste ancestrali in nome dell’ orso, li sostituirono con feste di santi dal nome ursino (Ursula, Martino, ecc.): a novembre S. Martino e la Candelora a febbraio, la festa della Purificazione, ecc. 3 - Ibid., pag. 51.
Anna Maria Ercilli
L’orso, un re decaduto 91
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
parlando di libri
“Nel calendario rurale tradizionale, il 2 febbraio era il giorno in cui si celebrava la fine del letargo dell’ orso; si trattava di una festa in cui si svolgevano riti particolarmente selvaggi e trasgressivi”4. La Chiesa provò con tutti i mezzi ad eliminare l’ orso e distruggerne la cultura mitica di forte identificazione fra le popolazioni germaniche e celtiche. Impiegò circa un millennio, riuscendo quasi nell’ intento di decimarlo con la caccia spietata durante il regno di Re Carlo Magno. Nel corso degli anni l’ orso fu detronizzato dal suo ruolo di re delle foreste europee, non rappresentava più nell’ immaginario delle popolazioni nordiche “l’ antenato fondatore delle dinastie celebri e bellicose, come quelle dei re di Danimarca e di Norvegia, dei margravi del Brandeburgo, dei conti di Tolosa o perfino di re Artù”5; fu soppiantato da un altro animale selvatico, il Leone, che la Chiesa impose nella simbologia liturgica a rappresentare il Cristo. Lentamente l’ orso diventa un protagonista perdente, nella letteratura, nelle fiabe, nei proverbi; viene catturato da cucciolo e adde4 - Ibid., pag. 61. 5 - Ibid., pag. 161.
strato per il divertimento circense o portato in catene nelle fiere di paese, esposto alla curiosità della gente e fonte di guadagno per il padrone. Malinconico e rassegnato. La tradizione della medicina cinese mantiene tuttora l’ uso della bile d’ orso; gli animali sopravvivono in gabbie nelle ‘fattorie della bile’ , con una sonda permanente nel fegato per l’ estrazione del fluido. Un movimento animalista si prodiga per sensibilizzare la popolazione e liberare gli ‘orsi della luna’ , pagando un compenso in denaro. Nel bel film Amadeus di Miloš Forman, vediamo una scena ambientata nella Vienna del tempo di Mozart, un uomo cammina in strada fra la gente tenendo alla catena un orso zoppicante. Un simbolo per i posteri, la testimonianza marmorea del legame fra l’ uomo e l’ orso nel monumento funebre che immortala il duca Giovanni di Berry e l’ amato orso accucciato ai suoi piedi; riposano nella cattedrale di Bourges a memoria di un’ amicizia ricambiata. Il ricordo rivive camuffato nelle avventure dell’ orso antropomorfo Yoghi, nei giocattoli di peluche che i negozianti mettono in palio con la raccolta punti. In lettera-
tura i titoli che contengono la parola ‘orso’ sono in numero crescente, per spontanea simpatia dell’ autore o per un reale ravvivarsi dell’ interesse? Chi usa la metafora per raccontare l’ ingresso nell’ età adulta, chi mantiene lo stile naturalistico o di un racconto ironico, chi lo usa come pretesto narrativo. Non c’ è spazio per il mito nella cultura nord americana, l’ orso entra nella scrittura del genere pop; il racconto grottesco dello spettacolodivertimento mediatico di una famiglia diretta a Las Vegas, per assistere alla sfida virtuale di Orso contro Squalo6. Un impossibile incontro di wrestling. “C’ è bisogno di spaventare i bambini, ma senza spaventarli troppo, mi spiego? Il logo deve dire sia Natura sia Las Vegas. E soprattutto, bisogna farlo sembrare uno scontro equilibrato”7. Non sappiamo se l’ orso avrà lunga vita fra gli uomini ma nell’ immaginario comune sta riprendendo il suo spazio, icona di una band giovanile di musica rock. ❧
Anna Maria Ercilli 6 - Chris Bachelder, Orso contro Squalo, minimum fax, 2004. 7 - Ibid., pag. 220.
BIBLIOGRAFIA
Michel Pastoureau, L’orso, Storia di un re decaduto, Einaudi, 2008 Giuseppe Festa, Il passaggio dell’orso, Salani, 2013 William Kotzwinkle, L’orso che venne dalla montagna, Zero 91, 2011 Margherita D’Amico, La Pelle dell’orso, Bompiani, 2012
92
Claudio Corvino, Orso, Odoyo, Bologna, 2013 Ruben Frizzera, Bruno e gli altri orsi, Il Margine, 2007 Roberto Franchini, Il secolo dell’orso, Bompiani, 2013 Arto Paasilinna, Il migliore amico dell’orso, Iperborea, 2008 Carlo Martinelli, Un orso sbrana Baricco, Curcu & Genovese, 2008
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
Parlando di Libri .
Foule sans nom! chaos! Des voix, des yeux, des pas. Ceux qu’on n’a jamais vus, ceux qu’on ne connaît pas. Tous les vivants! – cités bourdonnant aux oreilles Plus qu’un bois d’Amérique ou des ruches d’abeilles1
P
ubblicata in Francia nel 1895, Psicologia delle folle di Gustave Le Bon (18411931) si riallaccia, anche se in modo accidentale, alle pessimistiche riflessioni sulla moltitudine sviluppate fin dall’antichità greca e latina2. L’autore, bizzarro intellettuale del suo tempo che decide di occuparsi di psicologia e sociologia solo in età matura, intraprende la sua indagine partendo da una premessa spiazzante: complice l’affermazione di nuove forme di pensiero in campo scientifico, sociale e politico, la società del XIX secolo è entrata in una fase critica e anarchica, responsabile di una generale decadenza morale e dell’ascesa di un nuovo protagonista della vita collettiva: la folla. 1 - «Folla senza nome! Caos! Voci, occhi, passi./ Persone che non abbiamo mai visto, persone che non conosco./ Tutti gli esseri viventi! – città che ronzano alle orecchie/ Più del legno d’America o di alveari!» V. Hugo, La pente de la rêverie, in W. Benjamin, Opere complete - Vol. IX - I «passages» di Parigi, a cura di R. Tiedemann, Einaudi, Torino 2000, p. 304. 2 - Cfr. approfondimento su Seneca.
(Victor Hugo) 1 - «Folla senza nome! Caos! Voci, occhi, passi./ Persone che non abbiamo mai visto, perconosco./ Tutti gli esseri viventi! – città che ronzano alle orecchie/ Più del leLe Bon, forsesone piùcheinnon veste di pro- ricolosa per l’equilibrio sociale. Di gno d’America o di alveari!» V. Hugo, La pente de la rêverie, in W. Benjamin, Opere complete - Vol.sociale, IX - I «passages» a cura di R. Tiedemann, Einaudi, 2000, p. 304. feta che di scienziato scrivedi Parigi, conseguenza, adottando unTorino punto
dunque: Mentre le antiche credenze barcollano e spariscono, e le vetuste colonne della società si schiantano ad una ad una, la potenza delle folle è la sola che non subisca minacce e che veda crescere di continuo il suo prestigio. L’età che avanza sarà veramente l’era delle folle.3 Le Bon assiste sconcertato alla prima ascesa storica delle masse nel XIX secolo, antesignana di quella ben più dirompente del Novecento. Il diritto di associazione, la formazione dei primi sindacati, il rincorrersi di moti rivoluzionari e la diffusione del parlamentarismo, lungi dall’essere avvertite come importanti conquiste sociali e politiche del tempo, testimoniano ai suoi occhi l’affermazione definitiva di una forza disgregante e pe3 - G. Le Bon, Psicologia delle folle, trad. di G. Villa, Longanesi, Milano 1980, p. 33.
Il secolo delle folle IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
di vista palesemente conservatore e spesso corrotto dai propri pregiudizi, egli delinea un ritratto profondamente negativo delle folle e della psicologia che sottende alla loro azione. Esse simboleggiano anarchia, sono in grado di dettar legge agli statisti con la sola forza del numero, rappresentano il trionfo dell’irrazionalità sull’intelligenza dell’individuo. Quando si unisce alla moltitudine, l’uomo tende infatti ad omologarsi al pensiero dominante, appiattendosi intellettualmente. Le Bon definisce questo fenomeno «legge dell’unità mentale delle folle»: grazie all’attivazione di pulsioni inconsce, frutto di residui emozionali specifici per ogni popolo, la massa pensa come fosse un’unica entità e accentua i caratteri istintuali insiti nell’uomo a discapito della sua parte razionale. Chiunque si unisca alla folla viene posseduto Marcello Curci
93
parlando di libri
da un senso di invincibilità che lo porta a compiere azioni inconsuete (di tipo criminale, ma anche eroico) e subisce un contagio mentale tale da renderlo facilmente suggestionabile e manipolabile. Agli occhi di Le Bon l’uomo della folla si presenta in questo modo: Annullamento della personalità cosciente, predominio della personalità inconscia, orientamento determinato dalla suggestione e dal contagio dei sentimenti e delle idee in un unico senso, tendenza a trasformare immediatamente in atti le idee suggerite, tali sono i principali caratteri dell’individuo in una folla. Egli non è più se stesso, ma un automa, incapace di esser guidato dalla propria volontà.4 L’assolutezza un po’ semplicistica dell’impostazione di Le Bon (la folla è sempre dannosa, negativa e primitiva) rischia di oscurare le caratteristiche più interessanti di Psicologia delle folle. Nonostante i pregiudizi dell’autore rendano vane le pretese scientifiche del testo, passi come quello poc’anzi citato testimoniano, infatti, la presenza di innegabili elementi di modernità. Le Bon coglie gli effetti spersonalizzanti e alienanti che la moltitudine è in grado di provocare sull’individuo, anticipando in questo modo l’eterogeneo filone di pensiero sulla società di massa che si svilupperà nel corso del Novecento, da Freud a Ortega y Gasset, fino ad arrivare ai 4 - Ivi, p. 55.
94
filosofi e sociologi della Scuola di Francoforte. Non solo: egli abbozza alcune interessanti osservazioni, inedite per il suo tempo, sulle tecniche di manipolazione psicologica padroneggiate dai capi delle folle: un’idea affermata e ripetuta incessantemente, con la dovuta enfasi, si annida facilmente nei suggestionabili membri di una folla, diffondendosi per contagio emozionale presso un pubblico sempre più vasto. Le Bon osserva infatti che: [L’affermazione di un’idea] acquista una reale influenza soltanto se viene ripetuta di continuo, il più possibile, e sempre negli stessi termini. Napoleone diceva che esiste una sola figura retorica seria, la ripetizione. Ciò che si afferma finisce, grazie alla ripetizione, col penetrare nelle menti al punto da essere accettato come verità dimostrata.5 L’autore mostra particolare sensibilità verso quegli stessi meccanismi manipolatori che saranno alla base dei sistemi di propaganda novecenteschi, drammaticamente noti per la loro applicazione in contesti autoritari e totalitari: basti pensare alla somiglianza fra il concetto leboniano di ripetizione e il celebre motto attribuito a Joseph Goebbels, «ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà verità»6. Forse proprio a causa delle sue 5 - Ivi, p. 159. 6 - Joseph Goebbels (1897-1945), gerarca nazista, è noto soprattutto per il suo incarico di Ministro della Propaganda del Terzo Reich.
profonde intuizioni, Psicologia delle folle ebbe una fortuna letteraria bizzarra: negli anni ’20 del Novecento il testo si affermò presso i nuovi aizzatori di folle, dittatori e demagoghi, come prezioso «manuale di istruzioni» per dominare le masse. Lo stesso Mussolini studiò a fondo quest’opera, che in numerosi passi descrive le caratteristiche degli agitatori di folle. Che si tratti di capi operai, predicatori religiosi o grandi statisti, agli occhi di Le Bon gli agitatori sono leader carismatici dotati di una formidabile forza di volontà, ma allo stesso tempo schiavi del loro credo; il prestigio di cui godono presso le folle, unito a una sorta di attrazione magnetica, permette loro di avere un enorme seguito pubblico. Ben si comprende il motivo per cui Psicologia delle folle esercitò grande fascino sui dittatori del Novecento da passi come questo: Le folle […] rispettano la forza e si lasciano scarsamente impressionare dalla bontà, spesso considerata una forma di debolezza. Le loro simpatie non sono mai andate ai padroni troppo buoni, ma ai tiranni che le hanno con vigore dominate. Sono sempre costoro che vengono onorati con le statue più imponenti. […] Il tipo dell’eroe caro alle folle avrà sempre la struttura di un Cesare. Il suo pennacchio seduce, la sua autorità si fa rispettare e la sua sciabola suscita paura.7 7 - G. Le Bon, Psicologia delle folle, p. 80.
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
parlando di libri
Andando oltre interessi e sensibilità di tipo socio-psicologico, un’altra parte della letteratura ottocentesca ha saputo intrecciare intimamente il tema della folla con le grandi trasformazioni urbanistiche in atto nelle metropoli del XIX secolo. Ammodernamenti tecnologici e interventi architettonici di vasta portata modificano radicalmente, nel giro di pochi anni, l’assetto di città come Londra e Parigi, incidendo di riflesso anche sul modo di muoversi dei rispettivi abitanti. Il filosofo e critico letterario Walter Benjamin (1892-1940), che ha studiato dettagliatamente l’irrompere della modernità e la sua trasposizione nella letteratura dell’Ottocento, descrive così la trasformazione di Parigi a seguito degli interventi affidati da Napoleone III all’urbanista Eugène Haussmann, all’epoca del Secondo Impero (1851-71): Nell’avenue des Champs-Élysées, tra moderni hotel dai nomi anglosassoni, hanno aperto da poco delle nuove arcate: è nato l’ultimo passage parigino. […] La folla si ammassava mormorante alle soglie di pietra arenaria, lungo gli specchi, a guardare una pioggia artificiale che cadeva sugli intestini di rame degli ultimi modelli di automobile a riprova della bontà del materiale. […] E mentre qui si preparava una galleria per la Parigi più alla moda, spariva uno dei più antichi passages della città, il passage de l’Opéra, inghiottito IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
dall’irruzione del boulevard Haussmann.8 Gli abitanti della metropoli si riversano dunque sui nuovi, ampi viali cittadini, i boulevard progettati da Haussmann. Il bagno di folla delle nuove città affascina artisti di ogni genere, non solo poeti e scrittori, ma anche i pittori del tempo. Il movimento impressionista, ad esempio, testimonia in quegli stessi anni tutta la propria sensibilità per la modernità cittadina con un gran numero di dipinti dedicati al tema. Claude Monet realizza nel 1873 Boulevard des Capucines, traducendo in pittura l’auspicio del poeta Baudelaire, che per anni aveva lamentato l’assenza al Salon parigino del paesaggio urbano: poche pennellate bastano a raffigurare la moltitudine che percorre il viale, per sottolineare la velocità dello spostamento delle persone e la totale assenza di individualità nella massa informe. Fra gli intellettuali più sensibili alla nuova vita della metropoli ottocentesca vanno sicuramente annoverati Edgar Allan Poe (18091849) e Charles Baudelaire (18211867): nelle loro opere, infatti, individuo, folla e metropoli diventano concetti inscindibili, che si compenetrano vicendevolmente in una travolgente e vertiginosa pulsione di vitalità. L’uomo della folla di Poe è una delle prime testimonianze letterarie del tema della moltitudine nel XIX 8 - W. Benjamin, Opere complete, p. 41.
secolo. Il racconto, ambientato a Londra, narra l’esperienza vissuta da un uomo convalescente, che dopo una lunga malattia viene attratto dal turbinio caotico della massa che si muove al di fuori del caffè in cui si trova. Il protagonista decide in un primo momento di contemplare la varietà umana che la compone: davanti ai suoi occhi passano dapprima uomini d’affari e burocrati, tutti impegnati a farsi strada nella confusione, ma a poco a poco, con il progressivo calare della notte e l’accensione delle lampade a gas, la folla cambia volto popolandosi di individui sinistri, fra cui spiccano tagliaborse, giocatori d’azzardo, mercanti ebrei imbroglioni, prostitute e ubriachi. Scrive Poe a proposito di uomini d’affari e impiegati: Per la maggior parte erano persone dall’aria convinta propria degli uomini di affari, e parevano preoccupati soltanto di aprirsi un varco nella ressa. Con le sopracciglia aggrottate muovevano gli occhi vivacemente, e se qualcuno li urtava, senza manifestare impazienza di sorta si raggiustavano i panni e tiravano via. Altri, in gran numero anch’essi, procedevano con un fare inquieto, rossi in volto, e parlavan tra sé gesticolando come se pel fatto stesso di quella moltitudine infinita che li circondava si sentissero soli […] [Gli impiegati superiori] erano calvi quasi tutti e le loro orecchie destre, da tempo avvezze a reggere la penna, sporgevano con la punta piegata in 95
parlando di libri
un buffo modo. Notai che si toglievano e rimettevano il cappello sempre con entrambe le mani, e che portavano orologi dalle tozze catene d’oro, di una solida foggia antiquata. La loro affettazione era quella della rispettabilità, se affettazione può esservi di natura tanto onorevole.9 Walter Benjamin ravvisa un punto di contatto fra questo passo del racconto di Poe e la poesia Il crepuscolo della sera di Baudelaire10, che descrive in crescendo l’inquietante trasfigurazione della folla parigina all’avanzare della notte e sembra evocare proprio l’immagine degli uomini d’affari, laddove sinistri demoni notturni vengono paragonati a banchieri: Complice dei ribaldi,/ ecco già la leggiadra/ sera a passi di lupo giunge,/ come una ladra;/ lento si chiude il cielo,/ come una grande alcova,/ e una belva si muove nell’uomo, avida e nuova./ […] Pesantemente, intanto,/ nell’aria orde di neri/ demoni si risvegliano/ a guisa di banchieri,/ e su imposte e tettoie/ 9 - E.A. Poe, L’uomo della folla, trad. di E. Vittorini, in Id., Racconti, Mondadori, Milano 2007, pp. 149-151. 10 - Baudelaire è stato grande ammiratore di Poe e del suo stile letterario: non è un caso che abbia curato personalmente la traduzione in francese dei suoi racconti, fra cui appunto L’uomo della folla.
96
ciecamente s’avventano./ Nelle vie, fra le luci/ che la bora tormenta,/ s’accende il Meretricio,/ e si scava, alla pari/ d’un formicaio, mille labirinti/ e ripari […]11 In altre interessanti pagine di critica letteraria, Benjamin si sofferma sull’uniformità caratteriale dei burocrati londinesi di Poe, instaurando un paragone fra i loro movimenti e il comportamento degli operai di una fabbrica. Questi ultimi, come ricorda Marx, «apprendono a coordinare “i loro propri movimenti a quello uniformemente costante di un automa”»12; allo stesso modo, gli impiegati di Poe conformerebbero le proprie azioni a quelle dei loro vicini, rassomigliando essi stessi a delle macchine. Benjamin suppone che questa uniformità comportamentale non sia altro che un paraurti, un meccanismo di difesa funzionale a proteggere dal contatto con gli estranei; una maschera insomma, che cela e adombra la grande solitudine interiore delle persone. La folla, che produce dunque ripetuti shock negli individui, induce ad assumere un comportamento ripetitivo e alienato, non troppo distante da quello incontrato in Le Bon. Contemplata a lungo la caotica 11 - C. Baudelaire, I fiori del male, a cura di G. Bufalino, Mondadori, Milano 2009, p. 177. 12 - W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id., Angelus Novus, trad. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1976, p. 108.
varietà umana che si mostra ai suoi occhi, il protagonista del racconto di Poe decide infine di unirsi alla moltitudine e di inseguire un sinistro e misterioso vecchio, intento a vagare senza meta per le affollate vie della città. A sconvolgere il protagonista è la sua spasmodica, vitale ricerca della folla, la totale identificazione con essa, la disperazione che lo assale ogni qual volta questa accenni a diradarsi: il tentativo di scoprire la sua identità si rivelerà tuttavia vano, perché il vecchio non accennerà mai a fermarsi: […] un riflusso di folla dall’interno alle porte diede il segno della chiusura del locale. Quello che allora potei leggere nella faccia del singolare individuo su cui mi accanivo con la mia curiosità era qualcosa di più intenso della disperazione. Ma egli non si diede per vinto e con disperata energia ritornò sui propri passi verso il cuore possente di Londra. […] “Il vecchio” mi dissi alla fine “è il genio tipico del delitto profondo. Egli non vuol restare solo. È l’uomo della folla. Invano continuerei a seguirlo; poiché nulla di più riuscirei a sapere di lui e delle sue azioni.13 L’uomo della folla è emotivamente inaccessibile, sopraffatto dal fascino per la massa e drammaticamente perso nel suo vortice: affetto da una sorta di follia da folla, è un essere privo di individualità e per ciò stesso ancora più inquietante. Il 13 - E.A. Poe, L’uomo della folla, pp. 158-159.
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
parlando di libri
Approfondimento: il tema della folla nell’antichità classica Alcune embrionali considerazioni sul tema della folla sono rintracciabili ben prima dell’Ottocento, nella letteratura greca e latina. Nell’ottica di un’analisi comparata dei regimi politici del suo tempo, lo storico greco Polibio (206-124 a.C.) coniò ad esempio il termine oclocrazia, letteralmente «potere della moltitudine», per descrivere una forma di governo democratico degenerato, estremamente dannoso per la coesione sociale. Ma riflessioni più articolate, riguardanti più da vicino il binomio individuo-folla, ci giungono dal filosofo latino Seneca (4 a.C.-65 d.C.), che affrontò diffusamente questo problema nelle sue opere. Fondamentale ed esauriente per comprendere la sua posizione è l’epistola VII del primo libro delle Lettere morali a Lucilio, nella quale il filosofo ricorda all’amico la pericolosità della folla, esortandolo a mantenersene lontano: il contatto con la moltitudine è infatti in grado di mutare il comportamento di un individuo in peggio, di distoglierlo dalla sua normale condotta, anche se questa è stata sempre improntata ad austerità e temperanza. Il pericolo è tanto maggiore quanto più chi vi si accosta è inesperto e bisognoso di rafforzare il proprio spirito. Scrive infatti Seneca:
vecchio maniaco descritto da Edgar Allan Poe differisce molto dal cosiddetto flâneur, il poeta girovago e contemplatore della modernità parigina che ha il suo più alto rappresentante in Baudelaire. Le differenze fra i due autori non si spiegano soltanto in termini di diversa sensibilità, ma anche e forse sopratIL FURORE DEI LIBRI 2014/11
Quid tibi vitandum praecipue existimes quaeris? Turbam. Nondum illi tuto committeris. Ego certe confitebor imbecillitatem meam: numquam mores quos extuli refero; aliquid ex eo quod composui turbatur, aliquid ex iis quae fugavi redit. […]. Inimica est multorum conversatio: nemo non aliquod nobis vitium aut commendat aut inprimit aut nescientibus adlinit. […] Quid me existimas dicere? Avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? Immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui.1 Per Seneca la folla abbrutisce le facoltà intellettuali di chi vi si mescoli, sottoponendolo a una sorta di contagio mentale: è proprio quest’ultimo fenomeno, il contagio, a sancire un collegamento, per quanto accidentale, con la letteratura ottocentesca di stampo socio-psicologico e in particolare con l’opera di Le Bon. 1 - «Domandi cosa a mio parere tu debba soprattutto evitare? La folla. Non puoi ancora correre il rischio di frequentarla. Quanto a me, confesserò la mia debolezza: non riporto mai a casa l’assetto etico con cui ero uscito; qualcosa di ciò che avevo sistemato ne rimane sconvolto, qualcos’altro, che avevo eliminato, riappare. […] Frequentare molte persone è una pratica negativa: c’è sempre qualcosa che ci rende attraente il vizio o che ce lo trasmette per contagio a nostra insaputa. […] Che cosa credi che intenda dire? Che ritorno più avido, più ambizioso, più incline alla sensualità, addirittura più crudele e inumano per essere stato in mezzo alla gente» (L.A. Seneca, Lettere morali a Lucilio, a cura di F. Solinas, Mondadori, Milano 2007, pp. 22-23).
tutto in termini di diverse ambientazioni urbane fatte filtrare in letteratura: se è vero che la Londra della seconda metà del XIX secolo è una metropoli completamente caotica, in mano alla folla appunto, «la Parigi di Baudelaire conserva alcuni tratti del buon tempo antico. […] C’era il passante che si infila tra la
folla, ma c’era ancora il flâneur che ha bisogno di spazio e non vuol rinunciare al suo tenore privato»14. La folla ha un ruolo centrale nella poetica di Baudelaire, tant’è che se ne trova traccia in alcune delle sue maggiori opere: I fiori del male, 14 - W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, p. 104.
97
parlando di libri
Lo Spleen di Parigi, I paradisi artificiali. Il poeta urbano trae linfa vitale dalla modernità parigina e si dimostra al tempo stesso acuto osservatore del mondo cittadino, in qualità di flâneur; ma la massa, come suggerisce Benjamin, «è talmente intrinseca a Baudelaire che si cerca invano in lui una descrizione di essa. Per lui, come dice Desjardins, “si tratta più di imprimere l’immagine nella memoria che di colorirla e adornarla”»15. L’assenza di una descrizione della folla non ostacola la sua evocazione: la massa, cuore pulsante della città, diventa così una presenza segreta e nascosta, filtro invisibile attraverso cui scrutare la modernità urbana, fonte costante di ispirazione poetica. Il concetto baudelairiano di evocazione può essere chiarito facendo riferimento alla celebre poesia A una passante: Urlava attorno a me la via,/ senza pietà./ Alta, snella, in gramaglie,/ sovranamente triste,/ con sontuosa mano/ sollevando le liste/ dell’abito, guarnito di/ ondosi falbalà,/ e con gamba di statua,/ passò una donna: vidi,/ bevvi nell’occhio suo,/ con spasimi d’insano,/ come in un cielo livido,/ gravido d’uragano,/ 15 - Ivi, p. 99.
98
dolcezze ammalianti/ e piaceri omicidi. […]16 Nemmeno una parola per la folla. Il processo evocativo consiste proprio in questo: la moltitudine, anziché essere nominata direttamente, si cela dietro l’immagine della via; la via, che è anche personificazione della metropoli, urla e infastidisce il poeta, ma è proprio grazie a quel frastuono che la passante può materializzarsi davanti ai suoi occhi. In Baudelaire il rapporto con la folla si fa complesso e sfaccettato, essendo frutto di un meccanismo di attrazione e repulsione: il poeta «diventa suo complice [della folla], e quasi nello stesso istante se ne distacca. Si mescola largamente con essa per fulminarla improvvisamente nel nulla»17, scrive Benjamin a proposito della filosofia del flâneur. Come i burocrati di Poe, anche Baudelaire sembra essere colpito da una sequenza di shock, riconducibili ai rischi e alle insidie della nuova vita urbana ottocentesca: «muoversi attraverso il traffico, comporta per il singolo una serie di chocs e di collisioni. Negli incroci pericolosi, è percorso da contrazioni in rapida successione, come dai colpi di una batteria»18. E tuttavia, a differenza degli impiegati di Poe, Baudelaire sopravvive alla folla, rielaborando il trauma del contatto in modo estremamente profondo e 16 - C. Baudelaire, I fiori del male, p. 173. 17 - W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, p. 104. 18 - Ivi, p. 107.
spirituale. A dimostrazione di ciò può essere citato il poema in prosa intitolato Le folle: Non a tutti è dato di prendere un bagno di moltitudine: godere della folla è un’arte. […] Moltitudine, solitudine: termini uguali e convertibili per il poeta attivo e fecondo. Chi non sa popolare la sua solitudine, non sa nemmeno essere solo in una folla indaffarata. Il poeta gode di questo incomparabile privilegio, di poter essere, a suo piacere, se stesso o un altro. Come quelle anime errabonde alla ricerca di un corpo, egli entra, quando vuole, nel personaggio di ognuno. […] Il passeggiatore solitario e pensoso trae una singolare ebbrezza da questa universale comunione. Chi sposa facilmente la folla conosce godimenti febbrili, di cui saranno per sempre privati l’egoista, chiuso in sé come una cassaforte, e il pigro, prigioniero come un mollusco. Egli fa sue tutte le professioni, tutte le gioie e tutte le miserie che il caso gli presenta. […]19 Forse proprio la folgorante capacità di penetrare nell’animo umano è alla base degli affascinanti ritratti dei Fiori del male: per Baudelaire il poeta è un privilegiato, un iniziato ai misteri racchiusi nella folla, può fondersi con essa o separarsene a suo piacimento, sopravvivendole e dominandola. Un tema ricorrente della poetica baudelairiana, quello 19 - C. Baudelaire, Lo spleen di Parigi, trad. e cura di F. Rella, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 65-67.
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
parlando di libri
dell’iniziazione, testimoniato anche dai Diari del poeta: «Ebbrezza religiosa delle grandi città.- Panteismo. Io sono tutti, Tutti sono me»20. A conclusione di questa breve rassegna sugli scrittori di folle, una riflessione sulla fortuna del tema nel contesto del XIX secolo. Lo spirito con cui esso è stato affrontato 20 - C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, a cura di G. Violato, Marsilio, Venezia 1994, p. 154.
IL FURORE DEI LIBRI 2014/11
dagli intellettuali del tempo, in chiave di preoccupata indagine psico-sociale o di innovativo fenomeno metropolitano, rispecchia forse la stessa anima culturale «bifronte» dell’Ottocento: secolo di transizione, incastonato fra l’età dei Lumi e il drammatico Novecento, esso oscilla infatti fra il desiderio di controllare e spiegare razionalmente il mondo e la curiosità per ciò che è nuovo e irrazionale, ma proprio per
questo ancora più affascinante21. Da qui la compresenza di attrazione e repulsione per la folla: ed è come se l’Ottocento, in fondo, si fosse vestito dei panni di un grande flâneur della storia.❧
Marcello Curci 21 - È curioso che due delle più importanti correnti culturali dell’Ottocento, romanticismo e positivismo, pur partendo da premesse completamente diverse e per alcuni aspetti opposte, si siano sviluppate nell’arco dello stesso secolo.
99
Il Furore del Cinema a cura di catia simone
Colpisti più precisamente con la tua avversione per la mia attività letteraria e quanto, a te ignoto, vi era connesso. Qui, in effetti, mi ero in parte staccato da te, rendendomi autonomo, anche se ricordavo un po’ il verme che, calpestato da un piede nella sua parte posteriore, si svincola con quella anteriore e strisciando si trascina altrove. Ero in qualche modo al sicuro, potevo respirare, l’ avversione che naturalmente provasti subito verso i miei scritti, mi fu, per una volta, gradita. (F. Kafka, Lettera al padre, Giunti Editore, pag. 126)
S
ul più diffuso formato standard per negativi e positivi da proiezione, “il 35 millimetri”, è stato girato, quasi totalmente in bianco e nero, Delitti e segreti (titolo originale Kafka), il film di Steven Soderbergh uscito nelle sale nel 1991, liberamente tratto dalla vita e dalle opere di Franz Kafka e interpretato da Jeremy Irons e Theresa Russel. “E tuttavia Kafka era Praga e Praga era Kafka. Mai era stata così compiutamente e tipicamente Praga, e mai più lo sarebbe stata come durante la vita di Kafka. E noi, i suoi amici … sapevamo che quella Praga era contenuta ovunque nell’ opera di Kafka, in finissime particelle. In ogni sua riga noi potevamo e possiamo ancora assaporarla” (Johannes Urzidil, Di qui passa Kafka, ed. e/o, 2002, pag. 167). Già… Kafka interpreta Kafka, nella Praga del 1919 cupa e letteraria che gli ha dato i natali, in cui lui,
diligente funzionario di un istituto assicurativo e, nel tempo libero, scrittore, indaga sulla sparizione dell’ amico e collega di lavoro Edouard Raban. Una trama che offre allo spettatore una rilettura in chiave cinematografica di alcuni dei libri più importanti dello scrittore ceco. Infatti, l’ attività investigativa rivela ai nostri occhi i luoghi, i personaggi, le lettere e i dialoghi conosciuti attraverso la lettura de Il Castello e Il Processo, scritti da Kafka in una vita reale che collima perfettamente con quella filmica, attraverso una narrazione in cui lo scrittore racconta sé stesso nelle lunghe missive scritte alla madre, monologhi e voce dietro le finestre appannate dalla condensa, nella solitudine voluta e cercata dopo una giornata di lavoro a contatto con persone e colleghi il cui unico scopo è quello di controllare anche ogni singolo respiro, un battito di ciglia, o il rumore dei tasti
sulla macchina da scrivere. Una conversazione che descrive all’ amata madre lo scorrere di una vita normale, con un lavoro normale, come sarebbe piaciuta tanto a suo padre. Una monotonia interrotta dal piacere della scrittura, unico mezzo con il quale Kafka elabora i suoi incubi; una passione che suo padre ha sempre detestato e ostacolato. “È vero che la mia vanità e la mia ambizione soffrivano per l’ accoglienza, divenuta poi proverbiale, che riservavi a ogni mio libro: Mettilo sul comodino!” (Franz Kafka, Lettera al padre, Giunti Editore, pag. 126). “È forse un delitto scrivere?” si domanda Kafka davanti ai fogli bianchi su cui traccia il percorso della propria esistenza, confidando gli aspetti delle ordinarie giornate in bianco e nero, accese, a un certo punto, dal bagliore violento che illumina la cupola del Castello di
Kafka interpreta Kafka 100
Catia Simone
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
il furore del cinema
Praga, quel “Castello” che ha consacrato Kafka come uno dei più importanti scrittori della letteratura mondiale. Il Castello diventa l’ emblema del potere inaccessibile, tomba della civiltà. Infatti, proprio attraverso un cunicolo ricavato sotto una lapide del cimitero (accesso svelatogli dal suo amico scultore e becchino Bizzlebek, al quale ordina il rogo dei suoi manoscritti nel caso fosse stato ucciso), Kafka, dopo aver superato mille scalini trattenendo il fiato corto del proprio coraggio, arriva nel laboratorio-bunker. E in questo preciso momento Soderbergh ridà colore al film, evidenziando con i toni dominanti del blu e del grigio quello che i suoi e gli occhi di Kafka vedono: uomini ridotti a meri pezzi di ricambio al solo scopo di dominare le menti e trarre profitto. Il luogo oscuro e proibito verso il quale anelano le cattive coscienze di una società che non esita a usare metodi violenti e coercitivi per manipolare i corpi e annientare la ragione di chi si oppone. Il dominus, la mente folle che innesca questa catena di orrore è il dottor Marnau, precursore di eventi a noi tristemente conosciuti, che rivolgendosi a Kafka dice: “Lei gli incubi li descrive, io li realizzo”. Così giustifica il proprio progetto, l’ orrenda visione che raccontata sulla carta ha il pregio di essere interrotta da un punto, mentre nella realtà si ritorce sugli uomini imponendo la teoria del “È più facile con101
trollare una folla che un individuo”, educando le masse con la sopraffazione e la corruzione, per arginare ed eliminare le menti libere e ribelli, come quelle del suo migliore amico e della sua fidanzata Gabriella Rossman, collega di lavoro di Kafka, una donna bellissima, forte, davanti alla quale lo scrittore ammette la sua insofferenza verso il matrimonio e i legami in genere. “Sposarsi, formare una famiglia, accettare tutti i figli che vengono, mantenerli in questo mondo insicuro e addirittura riuscire a guidarli un po’ , sono convinto sia la meta più alta che un uomo possa proporsi. Il fatto che molti vi riescano senza difficoltà non prova il contrario, in primo luogo perché non sono molti quelli che ci riescono realmente e in secondo luogo costoro di solito non fanno alcunché in quanto le cose accadono loro, ciò non corrisponde a quella meta elevata, ma è comunque qualcosa di grande e onorevole (soprattutto perché fare e accadere non possono essere completamente distinti l’ uno dall’ altro). E in fondo non si tratta nemmeno di raggiungere quella meta elevata, ma solo di un’ approssimazione grossolana ma dignitosa ad essa; non è necessario elevarsi in volo fino al centro del sole, basta strisciare fino a raggiungere un posticino pulito sulla terra dove talvolta giungano i suoi raggi e ci si possa scaldare un poco” (Franz Kafka, Lettera al padre, Giunti Editore, pagg. 132-133). E come ne Il Castello e ne Il Pro-
cesso l’ uomo Kafka non riesce a riscattarsi, benché spettatore reale di tale sfacelo morale e assassinio, scampando alla cattura grazie all’ accidentale esplosione di una valigetta contenente esplosivo, che gli permette di fuggire e di tornare in quel mondo in bianco e nero fatto di burocrazia e controllo, nel quale la sua testimonianza non avrà spazio di esistere, anzi sarà inficiata da lui stesso nel momento in cui riconosce il cadavere di Gabriella emerso dal fiume, concordando con le autorità l’ ipotesi del suicidio. Lo scrittore tornerà a casa all’ alba, nel silenzio di una giornata che sarà uguale a tutte le altre … tic tac … tic tac, scorrerà nella nebbia, nella penna che scrive, nelle dita sulla tastiera, negli occhi di chi vigilerà su di lui, non più i perfidi gemelli suoi assistenti morti anche loro nel Castello, ma altri sguardi che Kafka incrocerà sulla soglia del portone della sua casa, gli stessi che ne Il Processo hanno arrestato e imputato senza alcuna ragione un uomo innocente: Josef K. Kafka continuerà a vivere come se nulla fosse successo, morendo lentamente di tisi, e portandosi nella tomba la presunzione di una colpa, ma soprattutto, la mancanza di coraggio, di denuncia e di ribellione, esternando tutta la sua fragilità nella toccante lettera che nel finale del film scriverà a suo padre, citando uno dei passaggi più conosciuti de Il Processo: “Io ho sempre creduto che fosse meglio conoscere la verità 2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
il furore del cinema
che vivere nell’ ignoranza, non posso più negare di essere parte del mondo che mi circonda, né posso negare, nonostante le nostre differenze di vedute, di essere tuo figlio. Spero soltanto che queste tardive e forse insignificanti intuizioni possano dare ad entrambi qualche piccola certezza e rendere il nostro vivere ed il nostro
102
morire più lievi” (adattamento cinematografico del dialogo finale di Lettera al padre). I suoi manoscritti incompiuti non sono stati né bruciati, né dimenticati ma, fortunatamente, nella realtà, sono stati pubblicati permettendo a noi tutti di conoscere le sue profonde riflessioni sull’ umanità, sull’ esistenza, sulla
vita in generale, narrate in racconti visionari, affascinanti e terribilmente moderni. La metamorfosi perfetta di un uomo nato uomo e diventato scrittore. Un immenso, straordinario scrittore. Non un insetto.❧
Catia Simone
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
Andar per biblioteche a cura di mariaLuisa mora
Ospitiamo in questo numero una biblioteca che per la sua particolarità sarà ricercata e visitata ancora di più nell’ imminenza delle celebrazioni del centenario della Grande Guerra.
L
a biblioteca del Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto si compone di oltre 30.000 opere fra volumi e opuscoli conservati prevalentemente nel castello di Rovereto. I testi trattano di storia militare, tecnologia bellica, diversi aspetti legati al tema della guerra e alla cultura della pace. L’ istituzione roveretana custodisce una delle più importanti raccolte di questo tipo a livello nazionale, formatasi a partire dal 1921 seguendo le direttive dettate dagli statuti del museo succedutisi negli anni. Il primo nucleo di opere fu composto da alcuni soci fondatori del Museo quali Giuseppe Chini, don Antonio Rossaro, Gustavo Chiesa, Mario Ceola e Giovanni Malfer tramite acquisti sul mercato antiquario e librario nazionale e internazionale. La parte più consistente della raccolta di libri si è invece formata grazie alle numerose donazioni da parte di privati cittadini e di istituzioni nell’ arco di più di no-
vant’ anni d’ attività. Particolarmente rilevanti per consistenza e per valore storico si segnalano i volumi relativi alle operazioni militari della Prima guerra mondiale ed alle guerre coloniali provenienti dalla biblioteca del generale Guglielmo Pecori Giraldi, donati dagli eredi alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso; la biblioteca di Giovanni Malfer, comprendente testi preziosi per lo studio delle armi antiche (dalla sua collezione provengono i volumi più antichi, manuali di arte ed architettura militare pubblicati tra la fine del sec. XVI e l’ inizio del XIX); la biblioteca del giornalista Mario Gazzini e la vasta raccolta di manuali di tecnologia bellica, attualmente in corso di inventariazione, provenienti dal lascito di Alessio Grimaldi. Fra le istituzioni che negli anni hanno maggiormente e più frequentemente contribuito all’ arricchimento della biblioteca va ricordato l’ Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’ Esercito, dal quale provengono soprattutto i testi
della propria produzione editoriale: opere datate ma ancora oggi imprescindibili per lo studio delle operazioni militari sul fronte italo-austriaco come L’ esercito italiano nella Grande Guerra (1927-1988) o i volumi della serie Riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 19151918 (Brigate di fanteria, Bersaglieri, Alpini, Grandi unità) sino alle più recenti pubblicazioni ed edizioni di fonti. L’ attività di raccolta di volumi e opuscoli continua ancora oggi grazie alle ricorrenti donazioni di soci del museo e cittadini che vedono nel Museo della Guerra un’ istituzione capace di conservare e rendere fruibili le opere della sua raccolta oggi e in futuro. Poiché la biblioteca non è aperta al pubblico il prestito dei libri è consentito solo ai soci del Museo della Guerra. Tuttavia è in atto l’ inserimento di tutte le opere della biblioteca nel Catalogo Bibliografico Trentino (CBT) consultabile in internet; la visione dei testi è possibile su appuntamento. Questa possibilità ha reso la biDavide Zendri
Museo Storico della Guerra 103
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
andar per biblioteche
blioteca un punto di riferimento per studiosi, cultori di storia militare, collezionisti, studenti universitari, italiani e stranieri. La biblioteca si suddivide in quattro sezioni. La sezione “S” è dedicata alla storia generale, soprattutto del XIX e XX secolo, e alla storia militare nei suoi diversi aspetti. Le opere più significative sono il già menzionato L’ esercito italiano nella Grande Guerra, l’ equivalente di parte austriaca Österreich-Ungarns letzter Krieg 1914-1918 (1930-1938), l’ Enciclopedia militare: arte, biografia, geografia, storia, tecnica militare e la monumentale opera di Carlo Montù sulla storia dell’ artiglieria italiana. Numerose sono inoltre le autobiografie e memorie di personalità militari (fra queste Conrad von Hötzendorf, Enrico Caviglia, Erich Ludendorff, Paul von Hindenburg). I volumi conservati in questa sezione consentono di svolgere approfondite ricerche sulle singole operazioni militari delle guerre dei secoli XIX e XX ma in sempre maggiore misura soddisfano le richieste di privati che intendono ricostruire le vicende belliche a cui presero parte i propri familiari. In questi ultimi anni si è infatti registrata una sempre maggiore richiesta di consultazione dell’ Albo d’ oro dei militari caduti nella guerra nazionale 1915-1918. Nella seconda sezione (“T”) sono conservati per lo più manuali d’ istruzione in uso negli eserciti tra la fine del sec. XIX e la metà del No104
vecento, in particolare nell’ esercito italiano, riguardanti l’ addestramento delle varie armi, l’ equipaggiamento delle truppe e l’ organizzazione delle forze armate. Sono inoltre presenti prontuari sulla costruzione di opere di fortificazione e campale, istruzioni tecniche e pubblicazioni specialistiche (anche a carattere divulgativo) su diverse tipologie di armamento in dotazione agli eserciti dall’ età moderna alla contemporanea come pure sulle rispettive artiglierie e munizioni, testi interessanti l’ uniformologia e la faleristica. Costituiscono la terza sezione (“V”) volumi ed opuscoli riguardanti in generale la museografia, la storia dell’ arte ed i cataloghi delle mostre, mentre la quarta raccoglie audiovisivi e documentazione su supporto digitale acquistati sul mercato editoriale (il posseduto consiste attualmente in 1.120 pezzi tra VHS, CD e DVD): si tratta di documentari, cinegiornali e, in misura minore, di lungometraggi sul tema bellico. Su VHS sono state riversate gran parte delle bobine del fondo Bruno Bini. È infine messa a disposizione degli utenti della biblioteca una piccola raccolta di tesi di laurea e di dottorato di argomento storico-militare o relative al Museo della Guerra (circa 50 unità). All’ interno della biblioteca trova posto anche una ricca emeroteca che conta oggi circa 1.400 testate fra quotidiani e riviste periodiche.
Come il resto delle collezioni del museo, si è formata ed arricchita nel tempo grazie alle piccole e grandi donazioni di singoli cittadini e attraverso l’ apporto diretto di enti civili e militari. Particolarmente ricca la raccolta di giornali della Prima guerra mondiale: tra questi merita particolare menzione la raccolta de “Il risveglio austriaco” e la serie dei giornali di trincea, dono di Ersilio Michel, già studioso del Risorgimento ed ufficiale durante il primo conflitto mondiale; la stampa del combattentismo, le riviste di cultura militare (particolarmente preziose sono le collezioni della “Rivista militare italiana” e della “Rivista di artiglieria e genio”). Costituiscono una fonte di particolare importanza per lo studio delle guerre del Novecento riviste illustrate come la celebre edizione delle raccolte del reparto fotografico del Comando Supremo del Regio Esercito “La Guerra” ed i periodici “L’ illustrazione italiana”, l’ “Illustrierte Zeitung”, “Le Miroir” per il periodo della Grande Guerra; “Signal” e “Die Wehrmacht” per il secondo conflitto mondiale. All’ interno dell’ emeroteca sono individuati dei nuclei di periodici diversi raccolti in base ad una precisa volontà documentale: è il caso della serie, purtroppo molto lacunosa, dei periodici coloniali (“Bollettino di Gimma”, “Il giornale di Addis Abeba”, “Rivista delle colonie d’ Oriente”) e dei giornali fiumani 2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
andar per biblioteche
(“L’ Adriatico”, “Il popolo di Fiume”, “La vedetta d’ Italia”). Tra gli strumenti utili per lo studio dell’ organizzazione delle forze armate italiane nel periodo del regime fascista si ricordano gli annuari, di cui si conservano le annate 1927-1940 versate dal generale Malladra, che fu direttore del museo. Nonostante le limitate risorse finanziarie e umane disponibili, il pa-
trimonio della biblioteca e dell’ emeroteca del Museo della Guerra si arricchisce costantemente grazie ad un’ accorta e mirata politica di acquisizioni sul mercato librario, l’ acquisto di periodici per abbonamento, lo scambio di pubblicazioni con altri istituti storici nazionali. La forma principale attraverso la quale il museo arricchisce la propria raccolta resta comunque la do-
nazione da parte di privati o enti che vedono in questa istituzione il soggetto più adeguato a conservare per il futuro e mettere a disposizione degli utenti tutte le opere che compongono le sue collezioni. ❧
Davide Zendri
La biblioteca in breve La biblioteca del Museo Storico Italiano della Guerra possiede un patrimonio di oltre 27.000 pezzi tra volumi ed opuscoli di argomento storico e tecnico-militare (artiglieria, fortificazioni, equipaggiamenti), in buona parte raccolti grazie ad acquisti e donazioni da parte di privati. Vi è compresa l’ Emeroteca, con oltre settecento testate fra quotidiani e periodici specialistici, arricchita dalla collezione dei giornali di trincea, di Fiume e Dalmazia e delle riviste coloniali. Periodici correnti coprono le diverse aree disciplinari di competenza del Museo, dalla storia contemporanea (con particolare riguardo a quella militare) all’ archivistica, dalla museologia alla didattica, dalla tecnologia bellica (armi e fortificazioni) ai problemi del settore della difesa.
105
Consultazione
Norme per i ricercatori
Su appuntamento: tel. 0464 438100 Orario: da lunedì a venerdì 8.30/12.30 - 14.00/18.00 Responsabile: Dr. Nicola Fontana
Per consultare la biblioteca è necessario concordare un appuntamento con l’ archivista. La consultazione dei testi è consentita all’ interno del museo. Le riproduzioni fotostatiche sono ammesse solo per volumi in buono stato di conservazione.
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
andar per biblioteche
La biblioteca di... a cura di Silvio Sega
I
n questo numero della rubrica “La biblioteca di…” ci siamo recati a casa del professor Renato Trinco, che ha accolto con molto entusiasmo la nostra visita e subito ci ha mostrato, nell’ ingresso di casa sua, una serie di quadri di autori roveretani e alcuni oggetti raffiguranti il tema della Campana dei Caduti, come ad esempio un frammento in gesso del bassorilievo della Campana risalente alla sua seconda fusione. Il professore ha subito specificato che, nel suo caso, preferisce non parlare di una vera e propria biblioteca, quanto piuttosto di una libreria monotematica, distinta da ciò che s’ intende per collezione.
Professore, ci ha parlato di libreria monotematica: ci spieghi un po’ il perché… Beh il perché è presto detto. La mia libreria la definisco monotematica perché è composta da libri che parlano di Rovereto. Nell’ ambito del tema “Rovereto” possiamo
poi distinguere tre sotto temi principali trattati nei testi della mia libreria, e cioè: la storia di Rovereto, la Campana dei Caduti e libri scritti da roveretani o che parlano di roveretani; a parte qualche rara eccezione la mia libreria si compone di questo genere di testi. Una buona parte di essi sono riuscito a rinvenirla nei mercatini dell’ usato dove molto spesso chi li vendeva non si rendeva nemmeno conto del valore che quei testi potessero avere - parlo del valore storico naturalmente. Come nel caso di questo libro (che ci mostra), la prima edizione de Le cinque piaghe della Chiesa di Rosmini: quando l’ ho acquistato il venditore mi ha semplicemente detto: «Massì, l’ è ‘ n libro de cesa...»1, senza nemmeno rendersi veramente conto di quale fosse il suo valore. Ma ci dica, com’ è nata la passione per Rovereto? Se vi ricordate, prima vi dicevo di 1 - “Ma sì, è un libro di chiesa...”
distinguere fra ciò che è libreria e ciò che è collezione. Vi spiego il motivo: il tutto è nato quando ero ragazzo, mio zio un giorno mi regalò una cartolina di Rovereto e da lì cominciai una piccola raccolta di cartoline della città; con il passare del tempo mi resi però conto che molti altri già la facevano e che per avere una collezione degna di tal nome occorreva andare alla ricerca di cartoline sempre più antiche, sempre più difficili da trovare e sempre più costose. Decisi così di cominciare una collezione monotematica sulla Campana dei Caduti, che con gli anni si è arricchita non solo di cartoline, ma anche di libri e di oggettistica; e man mano che la collezione cresceva e prendeva corpo, cresceva anche il mio desiderio di conoscere ciò che riguardava la città di Rovereto e i suoi personaggi illustri. Così, parallelamente, ho acquisito materiale su Rovereto, fino a far entrare l’ argomento Campana dei Caduti nel tema Rovereto.
...Renato Trinco 106
Silvio Sega
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
andar per biblioteche
Nel corso degli anni lei ha raccolto molti testi su Rovereto: quali sono quelli che ritiene più particolari? Sicuramente tra quelli particolari c’ è la rivista satirica “La Rava”, sulla cui testata è scritto (ce ne mostra alcuni numeri) “Esce il giovedì grasso e quando glielo permettono”. Un libro che ritengo molto particolare è questo in dialetto di Gustavo Chiesa: La storia de Roveredo contà da ‘ n filator. Zento soneti en dialet roveretam, Rovereto 1911. Prima, parlando del monotematismo della sua libreria, ha accennato però a qualche eccezione, ci può fare un esempio? Certamente, innanzitutto mi sembra scontato che possiedo anche molti libri di testo e questi direi che non contano, ma al di là di questo, nonostante la mia libreria sia monotematica, mi piaceva man mano possedere anche dei libri molto singolari nel loro genere e che valesse la pena di avere nella propria biblioteca, come questa edizione dei Promessi Sposi di inizio
107
900. Ma ciò che volevo mostrarvi, che vale davvero la pena di essere visto, è questo piccolo libro (ci mostra un piccolo libro stampato nel 1912): all’ apparenza non è niente di speciale, se non per il fatto che è stato stampato nel 1912. Si intitola “Metodo pratico per imparare la lingua tedesca”, autore Giovanni Dalinar. È un piccolo testo per imparare il tedesco, anche abbastanza ben fatto: e come dicevo, fin qui niente di speciale. Anche questo libro l’ ho rinvenuto in un mercatino e quando l’ ho visto l’ ho preso in mano perché mi aveva incuriosito il fatto che fosse di inizio ‘ 900, niente di più: ho aperto la prima pagina e ho notato che c’ era scritto un nome, “Filomena”. Naturalmente ho pensato che il libro fosse appartenuto ad una donna di nome Filomena e mentre ci pensavo l’ ho sfogliato in maniera quasi automatica e meccanica, con l’ intenzione poi di rimetterlo dov’ era. Arrivato però all’ ultima pagina ho notato che nel libro era inserita una stella alpina e mentre
rimettevo a posto il fiore ho scorto questa dedica scritta in orizzontale: A Filomena in ricordo Dal Benaco di Dante 19 giugno 1921 Gabriele D’ Annunzio Per concludere vorremmo chiederle, a titolo di pura curiosità personale, di mostrarli un oggetto particolare della sua collezione. Molto volentieri! (Ci accompagna nel suo studio dove, su uno scaffale, si trova un modellino della Campana dei Caduti). Vedete? Questo modellino è la riproduzione della seconda campana e me l’ ha regalato la nipote di don Antonio Rossaro, assieme a questa foto in cui si vede il sacerdote seduto alla sua scrivania e al centro dello scrittoio la riproduzione che ho qui. Pensate che don Rossaro, quando voleva chiamare la nipote perché gli fosse d’ aiuto, suonava la campanella e lei arrivava ad assisterlo nelle sue necessità.❧
Silvio Sega
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
Notizie dal Furore
il furore in moldavia Mercoledì 19 marzo alle ore 16, si è inaugurata presso la Biblioteca Municipale “B.P. Hasdeu” di Chişinău, la capitale della Repubblica Moldova, la prima sezione di italianistica contenente centinaia di volumi in lingua italiana raccolti dall’Associazione di Promozione Sociale Italia-Moldavia (onlus) di Besozzo (VA). All’evento hanno partecipato numerosi docenti di lingua e letteratura italiana degli atenei della città e una folta rappresentanza di professori e studenti del Liceo Dante Alighieri di Chişinău, unica e prestigiosa scuola pubblica moldava in cui si insegna l’italiano come prima lingua straniera. Anche l’Ambasciatore Italiano in Moldova S.E. Enrico Nunziata, ha voluto testimoniare con la sua presenza l’importanza di questa iniziativa che contribuirà ancor più a rinsaldare i valori di amicizia e di reciproca conoscenza tra la Moldova ed il nostro Paese. Con l’occasione, l’Associazione di Promozione Sociale Italia-Moldavia di Besozzo (VA), in collaborazione con la Biblioteca Municipale “B.P. Hasdeu” di Chişinău, la Biblioteca Comunale di Laveno Mombello (VA) e l’Associazione 108
Culturale “Il Furore dei Libri” di Rovereto, ha proposto un nuovo concorso letterario destinato agli studenti universitari moldavi che studiano la lingua italiana dal titolo: “L’Italia tra le pagine di un libro”. La finalità del concorso consiste nel promuovere la conoscenza della lingua e della cultura italiana tra i giovani moldavi, incoraggiandoli nei loro studi e nelle loro attività di ricerca. I candidati dovranno elaborare un breve saggio, in lingua italiana, in cui racconteranno la loro “esperienza” personale su come hanno scoperto l’Italia attraverso la lettura di un libro. Per l’elaborazione del saggio può essere considerato valido ogni tipo di testo, scritto da un autore italiano, romeno o di ogni altra nazionalità, che tratti nelle sue pagine un argomento attinente alla cultura, al territorio, agli aspetti di vita quotidiana dell’Italia. Al vincitore del concorso verrà offerta la possibilità di seguire uno stage di volontariato della durata di circa 10 giorni presso la Biblioteca Comunale di Laveno (Italia) da svolgersi nel periodo estivo. Il Furore dei Libri è stato invitato a partecipare alla Settimana della Cultura italiana in
Moldavia portando le quattro mostre di “Parole per strada” che saranno ospitate, a Chişinău dalle due Università di Stato, dal Liceo “Dante Alighieri” e sul viale davanti alla Biblioteca nazionale. A cura del Furore sarà tenuto per studenti e docenti universitari un corso di scrittura “Anatomia di un racconto breve” e, con la collaborazione del Festival internazionale del cinema archeologico di Rovereto, sarà proposta una nutrita rassegna di documentari sull’Italia. ❧
Gian Luca Del Marco Giornata Mondiale della Poesia Ogni anno in tutto il mondo si celebra la Giornata Mondiale della Poesia, istituita dalla XXX Sessione della Conferenza Generale UNESCO nel 1999 e celebrata per la prima volta il 21 marzo seguente. La data, che segna anche il primo giorno di primavera, riconosce all’espressione poetica un ruolo privilegiato “nella promozione del dialogo e della comprensione interculturali, della diversità linguistica e culturale, della comunicazione e della pace”. L’UNESCO intende dedicare la 2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
notizie dal furore
giornata all’incontro tra le diverse forme della creatività, affrontando le sfide che la comunicazione e la cultura attraversano in questi anni. Tra le diverse forme di espressione, quella poetica è considerata “un luogo fondante della memoria, base di tutte le altre forme della creatività letteraria ed artistica.” Il Furore dei Libri anche quest’anno ha voluto celebrare tale data a Rovereto nella prestigiosa sede del Palazzo della Fondazione CARITRO di piazza Rosmini, con la partecipazione dei propri soci poeti, che hanno offerto una scelta dei loro versi, e del pubblico, poeti e non, che, come da tradizione, si sono succeduti nelle letture. Nella piazzetta del Palazzo della Fondazione per l’intera giornata gli organizzatori avevano allestito il book-crossing, un’esposizione di libri di poesia in omaggio al pubblico. L’incontro ha visto la fattiva collaborazione del direttivo del Furore dei Libri e del Gruppo Poesia 83. Impeccabile come sempre la conduzione della serata di Giuliana Raffaelli, completata dall’accompagnamento musicale di Stefano Cattoni, il “poeta della chitarra”. ❧
Italo Bonassi La nuova sede Anche se non si può considerare letteralmente un evento, avere una sede stabile e usufruibile con un orario ampio e differenziato, e 109
soprattutto adeguato alle esigenze della nostra Associazione, è sicuramente una condizione molto positiva per la vita e il lavoro del Furore. L’inaugurazione, diciamo così, “ufficiale” si è tenuta in occasione della giornata di proclamazione dei racconti selezionati dell’edizione 2013 di Parole per Strada: i soci, gli autori, le autorità e la cittadinanza sono intervenuti nel pomeriggio del 30 novembre ‘13 nel viale del Mart per scoprire e gustare in anteprima i racconti, in lingua italiana ed alcuni in lingue straniere, ispirati al tema “Terra mia”. Da allora la saletta della sede è stata attrezzata ed è pienamente operativa per il lavoro organizzativo delle varie attività di segreteria ed anche per le riunioni del direttivo e degli altri organi istituzionali dell’Associazione. Naturalmente l’intenzione e la speranza è che la sede diventi un punto di incontro e di scambio tra tutti i soci: insomma, un luogo in cui ritrovarsi per portare suggerimenti, idee, progetti, anche critiche (perché no?), con uno spirito di collaborazione costruttiva per apportare risorse sempre nuove e vive. ❧
Maria Grazia Masciadri Ciclo di incontri: «La cultura dell’alimentazione» Con l’inizio del nuovo anno il Furore dei Libri ha deciso di pro-
grammare un ciclo di incontri, di stampo scientifico e divulgativo, dedicato alla nutrizione e alla cultura dell’alimentazione. Ospite dell’associazione il dott. Vito Curci, medico nutrizionista, che il 29 gennaio 2014 ha inaugurato questo percorso con una relazione dal titolo “Nutrizione e longevità”, incentrata sul ruolo dell’alimentazione nel processo di senescenza. La scelta di questo tema non è stata casuale: alla luce del costante invecchiamento della popolazione mondiale, il profondo legame tra corretta alimentazione e longevità conduce a riflettere sul ruolo di uno stile di vita più sano e di abitudini alimentari corrette, per garantire una vita lunga e in buone condizioni di salute. L’incontro, mirato in particolare ad approfondire il concetto e la messa in pratica della c.d. restrizione calorica, ha visto la partecipazione di una platea attenta, che oltre a seguire la relazione con interesse, ha saputo animare un corposo dibattito finale, fatto di domande specifiche nell’ambito della nutrizione, con scambio di opinioni e di elementi critici tra relatore e pubblico. Il successo dell’iniziativa ha stimolato gli organizzatori a programmare un successivo incontro per il 26 marzo, riguardante un tema molto sentito e dibattuto negli ultimi tempi: la nutrizione vegetariana. In questa seconda occasione il dott. Curci ha presenta2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
notizie dal furore
to una relazione più specifica, evidenziando sotto vari punti di vista le caratteristiche salienti e i benefici dell’alimentazione vegetariana, senza tralasciare, tuttavia, alcuni rilievi critici ad impostazioni nutrizionali troppo estreme o sbilanciate, a lungo andare pericolose per il nostro or-
110
ganismo. La presentazione, basata su un robusto apparato di pubblicazioni e libri scientifici e scientifico-divulgativi, ha stimolato nuovamente l’interesse dei partecipanti, accorsi addirittura in numero maggiore rispetto al primo incontro. Il dibattito finale è stato dun-
que particolarmente vivace e partecipato ed è stato arricchito da testimonianze dirette di persone che hanno deciso di adottare in prima persona lo stile di vita vegetariano o addirittura vegano. ❧
Marcello Curci
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
L’ultima Pagina a cura di Carlo Andreatta
A
Roma, a 79 anni, il 9 settembre 2013 è scomparso Alberto Bevilacqua. Nato a Parma il 27 giugno 1934, è stato narratore, regista, sceneggiatore, poeta e giornalista (firma storica del Corriere della Sera). Vasta ed intensa la sua opera, in prosa e in versi. L’editore Mondadori, nel 2010, ha pubblicato il “Meridiano” che celebra la lunga carriera dello scrittore. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, Bevilacqua iniziò ad editare i suoi scritti; la sua prima raccolta di racconti - La polvere sull’erba (1955) - ebbe l’apprezzamento di Leonardo Sciascia. È del 1961 la silloge di poesie L’amicizia perduta. Per Bevilacqua il successo editoriale arrivò con il romanzo La califfa (1964); nel 1966 vinse il premio Campiello con un altro romanzo – Questa specie d’amore. Nel 1968, con L’occhio del gatto, vinse il Premio Strega; poi gli venne conferito - due volte - il Premio Bancarella: nel 1972 con Un viaggio misterioso, nel 1992 con I sensi incantati.
Bevilacqua ottenne altri importanti riconoscimenti come, ad esempio, il David di Donatello per la trasposizione cinematografica del romanzo Questa specie d’amore (il film uscì nel 1972). Dai libri alle pellicole: La califfa (1970), Attenti al buffone (1976), Le rose di Danzica (serie televisiva, 1979), Bosco d’amore (1982). Come ha scritto il saggista Mario Baudino, Bevilacqua “esordì nel solco di una robusta narrativa padana che lo apparentava non tanto al neorealismo ormai declinante, quanto ad autori come Giuseppe Berto e Giovanni Arpino, e lo avvicinava alla vasta popolarità con l’esplorazione del mistero, della magia, delle esperienze più o meno extrasensoriali, in un’interrogazione continua rivolta all’universo femminile”. Bevilacqua è stato senz’altro un autore raffinato oltre che un sensibile e attento testimone dell’Italia del secondo dopoguerra. “Alberto Bevilacqua – ha affermato il critico e scrittore Guido Conti – aveva un rapporto di amore-odio per Parma.
L’amava ma si è sempre sentito respinto, a volte tradito”. Nel 1958, a 24 anni, decise di trasferirsi a Roma; pure altri artisti e intellettuali parmigiani come Attilio Bertolucci (di cui Bevilacqua fu allievo al liceo “Romagnosi”) o Luigi Malerba, preferirono la capitale alla provincia. Bevilacqua raccontò Parma in modo viscerale, radicale, facendola diventare la protagonista - più o meno latente - di non pochi dei suoi lavori. Parma, l’anima e il corpo femminile, il rapporto ossessivo con la madre: lo scrittore parmigiano è riuscito ad intersecare diversi piani permeandoli di un’energia ancestrale. Bevilacqua è stato capace di descrivere la corruzione e la borghesia di una città - Parma - talvolta al centro di scandali di vaste proporzioni. Certamente l’autore de La califfa ha un posto di rilievo nella migliore letteratura del secondo Novecento italiano.❧
Carlo Andreatta
Alberto Bevilacqua 111
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI
l’ ultima pagina
“Una visione che era la prova di come tutto, per Regina e il Donati, si fosse incarnato, senza disperdersi nel nulla. Ossia respirarono l’aria di quella che era stata la loro avventura, col suo splendore e il suo scandalo, i suoi personaggi che cercarono di fermare nella memoria, socchiudendo gli occhi, per un’ipotesi di futuro. Poi apparve il Danieli, che li aveva ospitati per una settimana quando ancora pensavano che si trattasse di una prova passeggera, e udirono una musica di festa che li accoglieva: l’inizio di ciò che stavolta sarebbe stato – al posto delle trascorse apoteosi nella folla – un pranzo solenne e tranquillo, a cui si apprestavano invitati scelti con cura, senza tener conto dei loro segreti. Tutte persone assolutamente rispettabili”.
Alberto Bevilacqua, da Il gioco delle passioni, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1989, pagina 321.
112
2014/11 IL FURORE DEI LIBRI