MARCO FEBO
Rivoluzioni e Stati nazionali Lezioni di Storia per le classi Quarte A. s. 2011/2012 Uso manoscritto
INDICE
1. Il Seicento
p. 3
2. Le rivoluzioni inglesi
13
3. Il secolo dell’Illuminismo
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4. La rivoluzione francese e l’età napoleonica
30
5. La rivoluzione americana e la nascita degli Stati Uniti
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6. La rivoluzione industriale
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7. Il marxismo
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8. L’Europa delle nazioni
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9. La guerra civile americana
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10. I governi della destra e della sinistra storiche
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11. L’età dell’imperialismo
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1. IL SEICENTO
1. Elementi di storia sociale
Gli archivi parrocchiali. Occorre, innanzitutto, segnalare che la nostra conoscenza del passato si avvale, dal Seicento, di un’opportunità documentaristica in più: gli archivi parrocchiali diventano, infatti, obbligatori (è una delle conseguenze riformistiche cattoliche del Concilio di Trento) e forniranno, da qui in avanti, informazioni capillari e preziosissime sulle storie individuali. Un grave danno, quindi, costituiranno, in questo senso, le distruzioni avvenute nel corso delle ondate anti-ecclesiastiche che percorreranno i diversi paesi (nel caso dell’Italia si pensi ai moti rivoluzionari giacobini e ad alcune insurrezioni risorgimentali e post-unitarie) e l’incuria di molti parroci che, senza alcuno scrupolo storiografico, mandarono al macero archivi di importanza inestimabile.
La demografia. La demografia si muoveva a stretto contatto con la religiosità. Più in particolare, si temeva la morte senza battesimo, in quanto ciò portava alla condanna perpetua al Limbo, senza possibilità di accedere alla salvezza eterna. Si diffusero, perciò, i “santuari mariani della rinascita”: si trattava di piccole chiese in cui si portavano i cadaveri dei bambini per attendere il miracolo di un cenno di vita (scientificamente può accadere che vi siano spasmi muscolari post mortem) e poter, in quell’istante, battezzare. A ciò si aggiungeva la sepoltura in prossimità degli scoli dell’acqua delle chiese di campagna: in questo caso si sperava che l’acqua delle chiese, santa, potesse sostituirsi al fonte battesimale e purificare il morticino. Il problema dell’aldilà era molto sentito, quando si parlava di giovanissimi. Non va dimenticato che la mortalità infantile era elevatissima: il 20-25% dei neonati moriva entro il primo anno, il 50% entro il decimo anno di vita. La popolazione era giovanissima: solo pochissimi superavano i 60 anni. Per le donne il periodo a rischio si collocava tra i 30 e i 39 anni, nel periodo, cioè, dei parti in età avanzata. Gli uomini, invece, rischiavano di 3
morire, con maggiore frequenza, tra i 20 e i 29 anni, per morte violenta in guerra. Il matrimonio era tardivo (tra i 25 e i 30 anni). Il ritardo nello sposalizio si era trasformato in tecnica di controllo sessuale per diminuire l’impatto demografico: una donna, infatti, partoriva un figlio, in media, ogni due anni e, di conseguenza, ritardare il matrimonio significava controllare l’aumento della popolazione nei periodi in cui le derrate alimentari si mostravano scarse.
Il triangolo della morte. Il Seicento è secolo ancora schiacciato nella morsa fame – peste – guerra. Numerosissime furono le crisi alimentari; sono segnalati anche episodi di cannibalismo. La guerra diviene totale: il passaggio degli eserciti, legati sempre di più a formazioni nazionali e, di conseguenza, più numerosi, iniziò a falciare anche i civili con saccheggi, devastazioni e successive epidemie. In questo senso, si ricordi, una per tutte, la Guerra dei Trent’anni (1618 – 1648), forse il primo conflitto moderno che scosse le terre d’Europa. La peste rimane una grande protagonista del secolo. Pur iniziando a diffondersi approcci razionali al problema (analisi mediche e leggi contro la diffusione del contagio), al morbo rimangono legati retaggi di religiosità e superstizione. L’epidemia era ancora legata all’idea della punizione divina; si dava ancora la caccia agli untori e alle streghe, scelti come capri espiatori per lavare i peccati delle comunità colpite. Il pauperismo, in questo clima di crisi, continua a diffondersi, ponendo ai governanti, in maniera sempre più impellente, il problema della gestione della povertà. Occorre distinguere, in maniera sempre più urgente, i poveri veri da coloro che scelgono la povertà. Ozio, padre dei vizi, diviene il peccato che più si vuole colpire nel XVII secolo (nell’Alto Medioevo –fino all’anno Mille- si era guardato alla superbia, nel Basso alla cupidigia di dantesca memoria). Nascono, sull’esempio inglese delle Poor
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Law, le case di reclusione per i poveri, luoghi in cui, con ritmi monacali, si rieduca al lavoro.
2. Elementi di storia economica
Il secolo degli olandesi. Dal 1620 Amsterdam diviene il centro dell’economia europea. Ormai il baricentro dei traffici marittimi si è spostato nei mari del nord, verso l’Atlantico. Ciò è confermato dal fatto che, alla metà del Settecento, il posto di Amsterdam venne preso da Londra, altra città del nord. La crescita olandese non fu esplosiva: i contemporanei non colsero un cambiamento repentino. Se Venezia aveva costruito la propria fortuna sulla vendita del sale, gli olandesi crebbero con il commercio delle aringhe: l’utilizzo di navi con larghi ponti dava modo di lavorare il pesce già al largo e di ridurre i tempi di distribuzione del prodotto. Alla “grande pesca” partecipavano circa 1500 imbarcazioni, per un totale di circa 12000 pescatori. Con l’aumento dei traffici, si pescheranno anche merluzzi e, più in là, anche balene (con la tecnica dell’arpionamento). Con il denaro proveniente dalla pesca, gli olandesi divennero grandi commercianti di tessuti. Inoltre, essi si dedicarono alla coltura di piante utili alla coloritura delle stoffe, di tulipani e frutteti. Fiorente fu l’allevamento dei bovini, mentre molto importante fu l’importazione del grano. E proprio seguendo questa esigenza interna, Amsterdam si trasformò nel centro più importante d’Europa nella ridistribuzione di granaglie. Fu proprio il grano a far penetrare gli olandesi in Mediterraneo. Gli olandesi subentrarono, in quanto dominatori dei traffici marittimi con l’oriente, agli ispano-portoghesi. Strumento essenziale per questa penetrazione fu la Compagnia delle Indie orientali. Questa società per azioni trasformò l’Olanda, dalla metà del Seicento, nell’unico importatore di spezie in Occidente. Ma perché l’Olanda divenne così forte sul mare? Innanzitutto il paese lavorò molto
sugli
aspetti
ingegneristici,
consegnando
ai
propri
marinai
navi 5
tecnologicamente avanzate. Le navi vennero prodotte con logiche proto-industriali, e ciò portò a un’importante riduzione dei costi. Gli equipaggi si ridussero in numero e il vitto a bordo divenne più sobrio. Comunque sia, il successo olandese fu impressionante: nel 1670 l’Olanda superava, in tonnellaggio spostato, le quantità complessive di Inghilterra, Francia, Spagna, Portogallo e Germania tutte insieme. Gli olandesi riuscirono anche a cacciare i portoghesi del Brasile. Qui si dedicarono al traffico degli schiavi e della canna da zucchero, ma ben presto le posizioni americane furono abbandonate perché ritenute anti-economiche. L’Europa volle reagire allo strapotere di Amsterdam. Nel 1651 il parlamento inglese promulga gli Atti di navigazione: le importazioni verso l’Inghilterra vennero concesse solo alle navi inglesi o ai produttori di merci. Gli olandesi, i più colpiti da un provvedimento che andava a estromettere i commercianti puri, provarono a rispondere con le guerre degli anni Cinquanta e Sessanta del Seicento: non vi fu un reale esito militare ma, di fatto, venne sancita la nascita della potenza inglese.
La teoria dell’Economia-mondo.
Importante, nel leggere le vicende delle
nuove dinamiche economiche, introdurre il concetto di Economia-mondo secondo la formulazione dello storico Fernand Braudel. Lo spazio geografico si organizza secondo tre aree collegate tra loro: 1.
Centro;
2.
Fascia intermedia che partecipa alla ricchezza del centro;
3.
Fascia periferica, sottosviluppata, che fornisce materie prime o lavoro a basso costo. Tra gli esempi che si possono portare: 1. Venezia; 2. Italia centrosettentrionale e Germania; 3. Isole dell’Egeo oppure 1. Amsterdam; 2. Europa occidentale; 3. Isole caraibiche e orientali. E, più in là nel tempo, saranno centrali Londra (tra Settecento e
Ottocento) e New York (Novecento), con fasce di contorno sempre più larghe.
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Il calvinismo, padre del capitalismo? Max Weber, sociologo tedesco, nel 1905 avanzò l’idea che il calvinismo, con la sua idea del successo economico quale segnale della benevolenza di Dio, fosse da considerarsi fattore fondamentale nella diffusione dello spirito capitalistico. Il passaggio, però, alla luce di studi più recenti, non va dato per scontato. Lo storico Trevor Roper ha fatto notare che i capitalisti del nord erano sì calvinisti, ma all’acqua di rose: essi furono soprattutto erasmiani e dediti, quindi, a una spiritualità privata, allo studio approfondito delle Sacre Scritture e alla diffidenza nei confronti della superstizione popolare. E tutti questi atteggiamenti, prima tollerati, divennero eretici, anche per i calvinisti. Ma ad Amsterdam si rifiutò la teocrazia calvinista, e questo trasformò la città, come lo era Venezia nel cuore del cattolicesimo, in un centro di tolleranza e di produzione libraria di testi altrove ritenuti proibiti.
3. Elementi di storia della mentalità
Il “caso Galilei”. Nell’affrontare la storia della mentalità del secolo XVII non si può dedicare un breve spazio alle vicende che toccarono lo studioso Galileo Galilei. Egli, anche facendosi forte dell’utilizzo del cannocchiale, sostenne la teoria eliocentrica (il Sole è fermo e la Terra gira attorno a essa), e questo lo portò a contrasto con la teoria geocentrica riconosciuta dalla Chiesa sulla scorta delle Sacre Scritture. Il fisico si difese sostenendo che l’errore consisteva nel voler interpretare la Bibbia in termini scientifici. Galilei rispettò la religiosità dei testi sacri, ma pretese maggiori libertà di movimento per la scienza. Non va dimenticato 7
che questi sono gli anni in cui si mettono in discussione le teorie degli antichi anche in ambito anatomico: si iniziò a sottoporre i cadaveri ad autopsia.
Tornando alla
questione galileiana, nel 1616 la Chiesa condannò la teoria eliocentrica e, nel 1632, Galilei pubblica il suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Il testo, pietra miliare della teoria geocentrica, venne condannato dalla Chiesa e, nel 1633, dopo aver subito un processo per recidiva (lo studioso era già stato ammonito), Galilei venne obbligato ad abiurare (dichiarare ufficialmente di essere incorso in errore). È pur vero che, nella discussione processuale, lo scienziato non seppe sempre bene argomentare le proprie posizioni davanti alle questioni poste dai cardinali interroganti. Con Galilei si segnò, comunque, un passo fondamentale nella nascita della scienza moderna. Si mise, innanzitutto, in dubbio il principio di autorità degli antichi. A questo si aggiunga che Galilei legò il suo nome all’indagine sperimentale che porta alla formulazione di leggi (metodo induttivo). Fu inoltre lo stesso Galileo a far fare un passo in avanti alla scienza moderna, rispetto alle teorie di Francesco Bacone, spingendo alla matematicizzazione della fisica (trascrizione delle leggi in linguaggio matematico).
La “missione interna”. Le campagne, zone di bassa cultura, rimangono aree di diffuso paganesimo. Si pensi, tra i tanti fenomeni, a quello dei benandanti, stregoni che si potevano recare nel mondo dei morti, o ai fuochi della notte di San Giovanni (23/24 giugno), roghi ai quali si avvicinavano, per scaldarsi, le anime vaganti. In questo senso la Chiesa romana attivò una vera e propria missione interna volta all’evangelizzazione del contado. L’opera di cristianizzazione si trasformò in anche in uno scontro tra la cultura alta e quella bassa. E quest’ultima, schiacciata dalla forza della prima, riuscì, comunque, a introdursi all’interno delle formulazioni delle grandi teorie per continuare a vivere, soprattutto attraverso forme popolari quali il teatro. La Chiesa, per la sua opera di evengelizzazione delle campagne, scelse la teologia della paura. Si minacciò la condanna all’inferno e lo si dipinse nelle sue atrocità fisiche. Se, per gli uomini del Trecento (si pensi a Dante), l’inferno era uno spazio ampio a struttura complessa e con grande varietà di punizioni, nel Seicento 8
l’inferno divenne spazio ristretto, sul modello delle fosse comuni in cui venivano gettati gli appestati e c’era la prevalenza del “fuoco intelligente”, capace di distinguere le parti del corpo da colpire a seconda della colpa da espiare.
La caccia alle streghe. Tra il 1580 e il 1620 si toccò il culmine nella caccia alle streghe nell’Europa cattolica e protestante. Si trattava, soprattutto, di donne contadine e analfabete. Tratto comune negli atti di accusa è la partecipazione al sabba (riunione di streghe e stregoni con atti blasfemi , rapporti sessuali con il demonio e banchetti di carne umana). È vero che, nelle carte processuali, si trovano dettagli comuni che fanno pensare a una certa qual veridicità degli eventi. Non va, però, dimenticato che l’Inquisizione procedeva per “interrogatorio suggestivo”: le risposte erano, di fatto, suggerite dal giudice interrogante. Va ricordato, riallacciandosi all’idea di missione interna, che le repressioni più violente si ebbero lontano dal controllo ecclesiastico centrale (Germania e Francia). Nelle Province Unite i processi terminarono con l’inizio del Seicento. Nel resto d’Europa, invece, si arrivò quantomeno alla fine del secolo. Con il passare degli anni si estese il controllo sui magistrati periferici e, soprattutto, si fece largo la mentalità sperimentale e la forza di attaccare la tradizione (l’approccio scientifico alle epidemie, ad esempio, tolse spazio alla caccia al capro espiatorio).
4. Elementi di storia evenemenziale
La Guerra dei Trent’anni. La prima metà del secolo fu segnata da un lungo conflitto che coinvolse tante tra le potenze europee: la Guerra dei Trent’anni (1618-1648). L’Europa centro-settentrionale si presentava estremamente frastagliata da un punto di vista religioso: la Svezia, la Danimarca, la Norvegia e gran parte della Germania erano protestanti, mentre la Polonia, la Baviera e l’Austria erano cattoliche. Il protestantesimo si era diffuso in Boemia, territorio controllato dall’imperatore Mattia II d’Asburgo. La cosa era stata resa possibile dall’atteggiamento tollerante del sovrano, 9
deciso a non favorire lo scoppio della guerra civile. La situazione mutò quando l’imperatore designò quale governatore di Boemia l’erede al trono imperiale, Ferdinando, notoriamente vicino ai gesuiti (e, di conseguenza, al cattolicesimo). Nel 1618 arrivò una rottura degli equilibri: gli ambasciatori dell’imperatore vennero gettati dalle finestre del castello di Praga (è la famosa “defenestrazione di Praga”). La Boemia si schierò a fianco dei grandi elettori protestanti e questo pose i cattolici in minoranza nell’elezione imperiale (protestanti erano, oltre alla Boemia, Palatinato, Brandeburgo e Sassonia; cattolici i tre elettori ecclesiastici). Il conflitto si sviluppò in quattro fasi, che andiamo a elencare qui sotto. Fase boema (1618-1623). I boemi si trovarono soli a combattere contro gli Asburgo e la cattolica Spagna. Gli imperiali devastarono la regione e obbligarono all’esilio oltre 100.000 boemi. Sulla spinta della guerra, gli Asburgo invasero anche il Palatinato e gli tolsero la dignità elettorale, passandola alla cattolica Baviera. Quando la guerra riprese, due anni più tardi, a fianco dei protestanti intervenne Cristiano IV di Danimarca, preoccupato dell’ingerenza imperiale nei territori costieri del Baltico. Nel 1620 avvenne il sacro macello della Valtellina (1620), nel corso del quale i cattolici aggredirono la popolazione locale per liberare il territorio occupato dagli abitanti del cantone dei Grigioni, arroccandosi dietro la presunta diffusa eresia. Fase danese (1625-1629). Cristiano IV fu battuto dal generale boemo cattolico Albrecht von Wallenstein e il nuovo imperatore, Ferdinando II, succeduto a Mattia II, impose l’Editto di restituzione con cui obbligava la cessione di tutti i territori sottratti alla Chiesa dopo il 1552 (anno definito “normale”). Il Wallenstein, alla ripresa della guerra, scese anche in Italia in aiuto di Carlo Emanuele I di Savoia (è la celebre discesa descritta da Alessandro Manzoni ne
I
promessi
sposi).
Le
pagine
manzoniane evidenziano quelle che furono le
caratteristiche
delle
truppe
del
Wallenstein: utilizzo di mercenari e ricorso alla razzia e alle contribuzioni obbligatorie da parte dei territori attraversati. 10
Fase svedese (1630-1635). Sollecitato dalla Francia, preoccupata dell’eccessivo potere degli Asburgo, intervenne nel conflitto Gustavo II Adolfo di Svezia. Egli riuscì a rovesciare gli esiti della guerra (si avvale della coscrizione obbligatoria e del quadrato con armi da fuoco, formazione molto snella e veloce) e a spingersi all’interno dei territori tedeschi. Gustavo perse la vita nel corso degli scontri, mentre il Wallenstein venne fatto giustiziare dall’imperatore perché sospettato di tradimento. La Svezia, logorata dalla guerra, si ritirò; l’imperatore Ferdinando II, da parte sua, ritirò l’Editto di restituzione. Si giunse così alla Pace di Praga (1635). Fase francese (1635-1648). La Francia non accettò una pace, quella di Praga, che affermava il dominio degli Asburgo su tutta l’Europa centrale e cercò di sfruttare la spossatezza dell’Impero per sferrare un attacco decisivo. Con la Francia si schiararono Venezia, l’Olanda e la Svezia. Lo scontro, comunque, non portò a esiti importanti. Nel 1648 si arrivò alla pace di Westfalia (1648): la Germania rimaneva divisa in 350 piccoli Stati; rimaneva valida la regola religiosa stabilita dalla pace di Augusta (cuius regio, eius et religio, ma tra le opzioni di scelta fu aggiunto il calvinismo a protestantesimo e cattolicesimo); il 1624 diventa il nuovo anno “normale” (anno oltre il quale, se un principe avesse cambiato religione, avrebbe dovuto restituire ai seguaci della sua precedente confessione i possedimenti ecclesiastici e all’imperatore i suoi domini feudali); l’Olanda riceve il pieno riconoscimento della sua indipendenza; la Confederazione Svizzera esce dall’orbita tedesca; sul Baltico si afferma il dominio svedese. Francia e Spagna continuarono a combattersi per circa un decennio e giunsero, senza un nulla di fatto, alla Pace dei Pirenei (1659).
La Francia nel primo Seicento.
Il cardinale
Richelieu resse la Francia (1624-1642) a fianco di Luigi XIII, ma, di fatto, istaurò una dittatura personale. Egli segnò la rovina del protestantesimo transalpino, ridusse i privilegi della nobiltà, rafforzò la corona e lottò strenuamente contro Austria e Spagna. A Richelieu successe il cardinale italiano Giulio Mazzarino (164211
1661). La Francia si trovò sull’orlo della bancarotta a causa della Guerra dei Trent’Anni, e ciò causò numerose rivolte all’interno del Paese. L’insurrezione più nota fu quella nota con il nome di “fronda”. Essa fu guidata dagli aristocratici, ma si chiuse senza esito. A trionfare non fu tanto Mazzarino quanto l’evidenza di una nobiltà, quella francese, incapace di affiancarsi alla corona o di abbatterla. Questo aprirà la strada a Luigi XIV, il re che più di tutti istaurò in Francia un potere assoluto e passò alla storia, non a caso, con l’epiteto di Re Sole.
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2. LE RIVOLUZIONI INGLESI
L’Inghilterra prima della rivoluzione. Nel 1603 muore Elisabetta I, regina che aveva segnato, con il suo regno, uno dei periodi più fecondi della storia dell’isola. Al regno sale Giacomo I. Il Paese è in pieno sviluppo demografico ed economico, ma le differenze di livello tra Londra e il resto del territorio sono enormi. Si vendono molte stoffe, si estrae carbone e si producono i migliori cannoni in ferro. L’agricoltura rimane l’attività principale ed è governata dalla piccola nobiltà terriera, la gentry, vera protagonista dello sviluppo agricolo inglese. In linea gerarchica, sotto la gentry stanno gli yeomen, coltivatori diretti benestanti. Al livello più basso si collocano braccianti e contadini, uomini assolutamente esclusi dalle dinamiche rivoluzionarie.
La Chiesa inglese. La Chiesa inglese si era esclusa, sin dal 1200, dalle questioni politiche. L’avvento della Chiesa anglicana (Atto di supremazia, 1534) aveva consegnato il clero britannico al controllo della corona. Le strutture territoriali, per precisa volontà di Elisabetta I, erano rimaste fortemente legate all’organizzazione cattolica. Lo stesso Giacomo I aveva preteso che rimanesse attiva la struttura vescovile. Fortemente critico con il retaggio cattolico è il calvinismo inglese, incarnato dai puritani. Quest’ultimi chiameranno i vescovi “anticristo” e, quindi, accuseranno il re di anticristianità.
Giacomo
I
rispose
perseguitandoli. Anche per questo, pur se tutta all’interno del protestantesimo britannico, la rivoluzione inglese fu anche guerra di religione. Queste, in sintesi, le correnti religiose presenti nell’Inghilterra del Seicento: Chiesa anglicana (quella ufficiale, con a capo il sovrano); 13
Puritani: protestanti, suddivisi tra Presbiteriani (intolleranti verso i gruppi minoritari) e Congregazionalisti (sostenitori dell’autonomia delle singole comunità); Settari: gruppi minoritari, assertori della libera interpretazione della Bibbia.
Il conflitto tra monarchia e Parlamento: la Grande Rivoluzione (the Great Revolution). Elisabetta I Tudor aveva sminuito il ruolo del Parlamento attraverso il culto della propria personalità e il nazionalismo esasperato. Gli Stuart, giunti al trono con Giacomo I, pagarono il prezzo dell’ingombrante figura elisabettiana. Giacomo volle governare, anche per questo motivo, da assolutista, soprattutto in campo fiscale. Nel 1625, a Giacomo I succede il figlio, Carlo I. Egli segue la linea del padre. I Comuni, la Camera parlamentare che rappresentava i borghesi, chiedevano l’illegittimità delle tasse non riconosciute dal Parlamento, il divieto per il re di comminare la pena di morte senza un regolare processo e nessun obbligo di fornire al re soldati e marinai. Per risposta, Carlo I non convoca più le Camere dei Comuni e dei Lords. Nel 1640 scoppia una rivolta in Scozia: il re pretende di estendere agli scozzesi la forma ecclesiastica anglicana. I calvinisti scozzesi insorgono e infliggono agli inglesi un’umiliante sconfitta. A seguito di questa sconfitta, il parlamento ottenne di essere convocato ogni tre anni. Nel 1641 è l’Irlanda cattolica a ribellarsi. Per evitare una nuova cocente sconfitta, occorre risolvere il problema del controllo delle forze armate. In un clima di fanatismo religioso, re e Parlamento armarono due eserciti: il 23 ottobre 1642 scoppiò la guerra civile. La situazione iniziò a mutare quando un parlamentare, Oliver Cromwell (1599 – 1658), organizzò un nuovo esercito, la New Model Army, basato su criteri quali paga elevata, disciplina rigida, divieto di saccheggio, intensa religiosità e convinzione che fosse necessario condurre una guerra santa contro l’anticristo, il re. L’arruolamento 14
diviene popolare e si rende possibile ai più capaci e valorosi l’ascesa agli alti gradi della gerarchia militare. Il 14 giugno 1645 Cromwell sbaraglia i realisti a Naseby e il re viene arrestato. Va detto che la maggior parte del Parlamento era formata da gentiluomini presbiteriani che non avevano alcuna pretesa di mutamento istituzionale: il loro appoggio alla forma monarchica era assoluto. L’urlo repubblicano era, invece, incarnato dai Livellatori, i quali chiedevano anche l’assoluta libertà di coscienza in ambito religioso. Dopo Naseby, comunque, vennero presi alcuni importanti provvedimenti: abolizione dei tribunali speciali, conversione dei feudi in proprietà private, conversione degli oneri feudali in affitti, eliminazione dei monopoli regi, soppressione delle corporazioni e decreto di paga fissa per i lavoratori.
Il dibattito su potere e uguaglianza.
Le convinzioni repubblicane dei Levellers
trovarono ascolto nella New Model Army. In politica si cavalcò l’idea del suffragio universale maschile. A queste idee, diffusesi tra alcuni soldati, si contrapposero Cromwell e un’altra fetta del suo esercito (gli Indipendenti). Più in particolare, erano gli ufficiali superiori dell’Armata a essere ostili alla democrazia e a temere il presunto socialismo dei Livellatori. Gli alti ranghi dell’esercito di Cromwell, provenienti dalla gentry,
guardavano con sospetto agli attacchi che i Livellatori muovevano alla
proprietà privata. L’11 novembre 1647 Carlo I fugge dalla residenza dove è detenuto. La libertà dura poco: egli viene nuovamente catturato e processato da una commissione di cui fa parte lo stesso Cromwell. Il 30 gennaio 1649 Carlo I viene giustiziato: egli si ritiene vicario di Dio in terra, mentre chi lo giudica lo valuta un semplice funzionario colpevole di tradimento.
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Il 17 marzo dello stesso 1649 viene abolita la monarchia; il 19 marzo viene sciolta la Camera dei Lords. Cromwell promuove la libertà religiosa per i protestanti e ma non concede alcunché al suffragio e alla democrazia: gli stessi leader dei Levellers vengono arrestati. Ma il 1649 anno è anche l’anno in cui inizia a serpeggiare il malcontento anche nella New Model Army: i “religiosi” iniziano a porsi il problema della violenza e del ruolo degli ufficiali quali “signori della guerra”. È questo l’anno in cui iniziano a trovare spazio i Diggers, gli Zappatori. Essi erano veri socialisti, chiedevano esplicitamente l’uguaglianza economica e definivano la proprietà privata un’invenzione diabolica. Su questi principi fondarono delle comunità socialiste. Cromwell, nel frattempo, schiaccia le rivolte irlandesi (sono questi gli anni in cui molti irlandesi partono per l’America e costituiscono una fortissima comunità irlandese, soprattutto attorno a Boston) e riduce l’isola a una colonia inglese. Anche la flotta inglese cresce con Cromwell: egli guarda all’Inghilterra come a una potenza internazionale. Nel 1651 viene promulgato l’Atto di navigazione: solo alle navi inglesi (o dei paesi d’origine) è consentito importare merci in Inghilterra. Il provvedimento scatenò la guerra contro la grande nemica sul mare, l’Olanda: quest’ultima, sconfitta, venne, di fatto, cancellata dallo scenario internazionale. In politica interna, nel dicembre 1653, Cromwell si proclama Lord Protettore del Free Commonwealth (ovvero di una repubblica). Il Lord Protettore muore nel 1658. Il figlio Richard, del tutto incapace di seguire le orme del padre, si ritira nel maggio 1659. Nel 1660 viene chiamato al trono Carlo II, figlio del re decapitato. La rivoluzione sembra, insomma, aver fallito. In realtà, essa fu un autentico laboratorio di modernità: le idee messe in circolo nell’isola fecero capolino, negli anni successivi, oltre che nella stessa Inghilterra, anche in America e in Francia.
L’Habeas Corpus. Nel 1679 venne ratificato l’Habeas Corpus. Il documento, vera propria pietra miliare del diritto inglese, sancisce il principio giuridico che garantisce i
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diritti civili fondamentali: proibizione di arresti immotivati e obbligo di giudizio entro venti giorni.
La Gloriosa Rivoluzione (the Glorious Revolution). Il ritorno del re restituì alla chiesa inglese il ruolo di chiesa di Stato e agli aristocratici molti dei loro privilegi. I dissidi politici interni, comunque, non tardarono a ripresentarsi. Più in particolare, si accese il dibattito tra Tories (conservatori, realisti, sostenitori dell’aristocrazia e della chiesa anglicana – alla lettera banditi cattolici irlandesi) e Whigs (progressisti, tolleranti religiosamente, sostenitori dei ceti mercantili urbani – bovari scozzesi). Con l’ascesa al trono di Giacomo II (1685), i due schieramenti, preoccupati della vicinanza del re al Papa romano (il sovrano aveva promulgato, nel 1687, l’Atto d’Indulgenza, legge con cui si apriva alla tolleranza nei confronti dei cattolici), si unirono nell’offrire la corona inglese a Guiglielmo III d’Orange, re d’Olanda, protestante e marito di Mary Stuart, figlia di Giacomo II. Guglielmo diviene, quindi, sbarcando sull’isola senza combattere, re d’Inghilterra (la rivoluzione verrà definita gloriosa perché non cruenta); Giacomo, di fatto privo di potere reale, fugge in Francia. Al nuovo re spetta il ruolo di garante del potere parlamentare; finisce, quindi, la concezione discendente del potere (da Dio al sovrano).
La Dichiarazione dei diritti. Il Bill of rights (1689), o Dichiarazione dei diritti, fu uno dei grandi risultati della Gloriosa Rivoluzione. In esso si sancirono principi quali il potere parlamentare in materia tributaria (alle Camere spettava il veto sulla proposta di imposizione fiscale da parte del re), la libertà di parola, l’impossibilità regale di riunire un esercito privato. Anche la religione trovò spazi di tolleranza: i calvinisti vennero, però, privati di cariche pubbliche e i cattolici, pur tollerati sull’isola britannica, vennero perseguitati,
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senza tregua, in Irlanda, dove la componente spirituale si sposava alle richieste di indipendenza politica.
Scintille di pensiero politico inglese. Non va dimenticato che sono questi gli anni in cui si sviluppano, su suolo inglese, alcune delle teorie che modificheranno il pensiero politico dei secoli a venire: all’elaborazione di queste nuove concezioni del potere, che faranno dell’Inghilterra la madre delle moderne democrazie, contribuiranno uomini quali John Locke (1632 – 1704), primo esponente del pensiero liberale (egli sosteneva che l’uomo nasce libero). Non è, però, corretto pensare che tali teorie abbiano creato in Inghilterra una reale situazione di democrazia diffusa e, soprattutto, di forte miglioramento delle condizioni di vita delle classi sociali più disagiate.
Thomas Hobbes (1588 – 1679). Il pensatore parte da un forte pessimismo antropologico: l’uomo è lupo per l’altro uomo. L’uomo è malvagio ed essendo, in natura, libero, egli si scatena contro i suoi simili. Lo stato di natura, pur se libero, è un inferno. Per uscire da questa terribile situazione, l’uomo stipula un contratto: egli rinuncia definitivamente ai propri diritti e li cede allo Stato assoluto (concepito, però, con potere ascendente, quindi come Stato laico). Lo Stato è sì un grande mostro (Leviathan è intitolata l’opera di Hobbes), ma è l’unico a essere in grado di mantenere l’ordine e salvaguardare l’individuo.
John Locke (1632 – 1704). Locke definisce il nuovo modello di potere ascendente. Lo Stato di natura è buono e caratterizzato dalla libertà e dalla proprietà privata. È Dio stesso a dare incarico all’uomo di assoggettare il creato e ciò, secondo il pensatore, dà legittimità alla proprietà privata. L’esigenza di definire un contratto sociale deriva dalla volontà di migliorare la propria condizione, ma l’accordo non implica la rinuncia alla libertà. Gli uomini rinunciano, come individui, 18
ai poteri legislativo ed esecutivo, la cui delega va allo Stato. Il potere legislativo passa al Parlamento, quello esecutivo al Re. Nel caso di abusi, al popolo rimane il diritto di insurrezione. Locke getta, quindi, le basi dello Stato liberale. Non vi è, però, partecipazione democratica: proprietà e censo fanno da discrimine tra chi possiede diritto di partecipazione e chi, invece, rimane elemento passivo delle dinamiche sociali.
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3. IL SECOLO DELL’ILLUMINISMO
Il Settecento, secolo della svolta. Andiamo ad affrontare, in questo capitolo, alcuni degli aspetti caratterizzanti il Settecento. Facciamo, innanzitutto, un po’ di ordine. Nell’epoca pre-industriale risulta evidente come l’uomo non potesse rispondere alla natura in termini di variazioni climatiche e di attacchi microbiologici (epidemie). Tra il 1000 e il 1300 l’Europa attraversò un periodo di favore climatico. La situazione mutò nel XV secolo: tra il 1300 e il 1450 si assistette a un periodo di forte crisi, a cui fece seguito, tra il 1500 e il 1620, un miglioramento delle condizioni generali. Tra il 1620 e il 1700 si tornò a conoscere un periodo di decadimento a cui seguì, dal 1700, un continuo e definitivo miglioramento delle condizioni generali. Nel XVIII secolo andò a sparire anche il flagello della peste, anche e soprattutto grazie al miglioramento delle condizioni igieniche. Nel corso del secolo venne sconfitto anche il vaiolo. Si cominciò con l’inoculazione del vaiolo in un soggetto sano, in modo tale da far contrarre la malattia, in modo tenue e controllato, e far così sviluppare i necessari anticorpi. Si passò, poi, alla vaccinazione (pus estratto da vacche infette): ciò diminuì drasticamente i danni dovuti agli effetti collaterali. La vittoria sul vaiolo può essere considerata la prima vera vittoria della medicina moderna. In generale, il secolo conobbe un diffuso aumento demografico. A ciò l’agricoltura rispose con alcuni significativi miglioramenti: rilancio della coltura dei cereali, forte incremento della coltivazione della patata e nuove tecniche di rotazione agraria per eliminare il terreno a maggese (parte incolta).
Il mercantilismo. Nel 1700 è ancora la terra a fornire la prima fonte di ricchezza (in agricoltura è occupato il 70-80% della popolazione). Ma il commercio cresce e l’Olanda ne è la prova. Alla crescita economica dei tulipani pone un freno l’Inghilterra con la promulgazione degli Atti di navigazione, ovvero leggi protezionistiche orientate a chiudere i propri mercati 20
all’ingresso di concorrenti stranieri. Nel 1694 nacque, inoltre, la Compagnia della Banca d’Inghilterra, fondata per raccogliere denaro in nome dello Stato e battere cartamoneta. La Compagnia andò via via assumendo il ruolo di Banca centrale. La Francia rispose agli Atti inglesi con la politica protezionistica di Jean Baptiste Colbert, potentissimo ministro delle finanze del re Luigi XIV. Questa linea politicoeconomica prese il nome di Mercantilismo. Si trattava, in buona sostanza, di una serrata doganale (protezionismo) in chiave anti-olandese. Il Mercantilismo, politica economica attiva soprattutto nel corso dell’ultima parte del Seicento, si costruì attorno a provvedimenti quali l’applicazione di dazi alle merci in entrata, l’apertura di cantieri pubblici, il miglioramento delle vie di comunicazione, il rafforzamento delle flotte mercantile e militare e l’obbligo di lavoro per i disoccupati, recuperati attraverso la prestazione obbligatoria di servizi. Riforme in senso colbertista si ebbero anche nella Russia dello zar Pietro il Grande (1682 - 1725). Egli cercò di importare nel paese stili di vita occidentali e una forte politica di riforme. A pagare la crescita della nuova Russia fu lo Stato che fino a quel momento aveva controllato il nord Europa: la Svezia.
L’Europa dei conflitti politici: la Guerra franco-olandese (1672 – 1678). Tra il 1672 e il 1678, il re francese Luigi XIV (1661 – 1715), non tollerando l’eccessiva crescita della potenza olandese e il clima di critica al potere assoluto che in quel paese si respirava, muove guerra allo Stato dei tulipani, anche perché il protezionismo colbertista aveva danneggiato più la Francia che il concorrente orange. Le potenze europee intervennero a favore di Amsterdam. Luigi XIV venne sconfitto ma l’Olanda, che per difesa era stata costretta a distruggere le proprie dighe, uscì devastata dalla guerra. Il paese non riuscì a risollevarsi, piegato anche dagli Atti di navigazione inglese: lo scettro di regina europea del mare passò proprio alla potenza britannica. 21
La Guerra di successione spagnola (1702 – 1713). La Spagna attraversa, all’inizio del secolo XVIII, un periodo di grave crisi. L’erede al trono, Filippo di Borbone, è nipote di Luigi XIV e ciò scatena le proteste delle grandi potenze europee, preoccupate della possibile unione dei troni da parte del sovrano francese. Con la pace di Utrecht (1713), la corona andò sì a Filippo V di Borbone, ma il re si impegnò a non riunire le corone di Francia e Spagna. A ottenere il maggior risultato fu l’Inghilterra, la quale ottenne, per trent’anni, il monopolio dell’asiento, cioè della tratta degli schiavi neri verso le colonie spagnole.
La Guerra dei Sette Anni (1756 – 1763). Francia e Inghilterra si scontrarono, oltre che sullo scenario europeo, anche nelle colonie americane e indiane per motivi di predominio commerciale. Il declino olandese aveva, infatti, lasciato grandi spazi di manovra per le potenze che ambivano a spartirsi i volumi di traffico prima ad appannaggio dei tulipani. Alcuni storici hanno parlato della Guerra dei Sette Anni come di prima guerra su scala mondiale. La Francia fu sconfitta ovunque. Il trionfo inglese risultò, però, molto dispendioso: ciò costrinse l’Inghilterra a imporre nuove imposte e ulteriori limitazioni economiche di libera impresa alle colonie. Queste ultime, trasformatesi da fonti di materie prime a mercato per le esportazioni di madrepatria, non tardarono a sollevarsi contro i provvedimenti inglesi.
Le nuove potenze europee. Furono due le nuove protagoniste della storia europea: Austria e Prussia. La prima, l’Austria, appunto, si faceva ancora forte di un titolo, quello imperiale, che aveva ormai più valore simbolico che effettivo. Lo Stato austriaco rimane, comunque, molto solido, in grado com’era, ancora, di controllare il Belgio e la Lombardia. La Prussia, d’altro canto, risultava essere, sotto il controllo di Federico I, lo Stato tedesco più vasto dopo l’Austria. A controllare le risorse economiche sono gli antichi nobili, gli junker, legati alla corona da importanti cariche militari. Federico II (1740 – 1786)creò un vero e proprio “Stato caserma” con una diffusa coscrizione obbligatoria. 22
Le caratteristiche della guerra settecentesca. Il XVIII fu secolo di guerre, ma non di devastazioni diffuse. Viene meno, infatti, il furore religioso e ci si convince che una regione annichilita risulta, dopo la conquista, poco o nulla fruttuosa. Il Settecento conobbe l’introduzione di alcune innovazioni tecnologiche: si inventò la baionetta con innesto a ghiera (montata in fondo al fucile) e si migliora il sistema di sparo (che rimane, comunque, ad avancarica). Quest’ultima innovazione portò gli schieramenti a essere più lenti nell’approccio allo scontro, e, quindi, nei movimenti sul terreno.
La Francia di Luigi XIV. La Francia, tra i secoli XVII e XVIII, conobbe il regno di Luigi XIV (1661 – 1715). Il re creò nel Paese un clima di totale assolutismo: nulla pone limite al potere del sovrano. Gli organi di condivisione continuavano a esistere (gli Stati generali che, dal 1302, radunano clero, nobiltà e Terzo Stato, ovvero la borghesia) ma non vennero convocati dal 1614 al 1789. I nobili vennero controllati attraverso la reggia di Versailles, vero e proprio palazzo-palcoscenico in cui i nobili potevano andare in scena, tronfi nel loro pseudo-potere e nella loro vicinanza al sovrano, ma, in realtà, del tutto succubi di quello che venne definito “Re sole”, centro, cioè, di tutto il sistema francese. La concezione francese del potere prevedeva una dinamica discendente: da Dio al sovrano. Il re si copriva di sacralità: l’incoronazione avveniva attraverso unzione sacra, il re manteneva poteri taumaturgici (di guarigione) e infliggeva supplizi pubblici per educare e mostrare le future pene infernali. La
concezione
discendente
del
potere
portava,
necessariamente,
all’intolleranza religiosa. Il giuramento di lotta all’eresia, compreso nella formula dell’unzione sacra, convinse Luigi XIV a togliere, via via, gradi di libertà ai calvinisti francesi (ugonotti) fino alla revoca dell’Editto di Nantes (18 ottobre 1685). La legge, chiamata anche “Editto di tolleranza”, era stata emanata nel 1598, da re Enrico IV, a conclusione delle guerre di religione in Francia. Gli ugonotti, dopo la revoca dell’Editto, furono obbligati alla conversione o condannati a remare sulle galere (le donne vennero punite con la frusta). Molti calvinisti scelsero di emigrare.
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In termini di politica interna, Luigi XIV attuò un forte controllo sull’economia. Egli, avvalendosi della collaborazione del ministro delle finanze Jean Baptiste Colbert (vedi sopra, alla voce Mercantilismo), attuò un serrato protezionismo verso l’estero e un convinto rinnovamento infrastrutturale nel Paese, costruendo nuove strade e obbligando al lavoro i nullatenenti. La politica estera di Luigi XIV fu molto aggressiva: la Francia, sotto la sua guida, si trovò di continuo impegnata in guerre contro gli altri Stati europei (vedi voci sopra).
Alcuni caratteri dell’Illuminismo. L’Illuminismo non fu tanto una scuola di pensiero compatta, quanto, piuttosto, un insieme di pensatori che condivisero alcune linee comuni. Si partì, innanzitutto, da un diffuso ottimismo: l’oscurità del peccato, sotto la cui cappa l’uomo si era condannato a vivere, venne meno, e con essa si dileguò quel pessimismo antropologico di fondo che tanto aveva influenzato i secoli precedenti. L’uomo è fondamentalmente buono e può raggiungere la felicità qu questa Terra. Una simile concezione dell’esistenza porta inevitabilmente con sé una convinta fiducia nel progresso. Fino a quel momento il passato prossimo era sempre stato superato, vinto in autorità, dal passato remoto. È vero ciò che è più antico. Per l’Illumunismo non è più così: il passato va superato, sconfitto da un futuro che, squarciate le tenebre dell’irrazionale, condurrà l’uomo sulla via di un continuo miglioramento. Occorre, a questo punto, individuare lo strumento che faccia da guida nel percorso di emancipazione dall’oscurità dei secoli precedenti. E qui subentra il concetto cardine dell’Illuminismo: il razionalismo. È la ragione il faro che “illumina” la strada del progresso. La felicità va raggiunta attraverso la ragione, con lo sguardo rivolto sempre in avanti, guardando con sospetto a storia e tradizione perché esse hanno portato l’uomo alla cecità. Emmanuele Kant scriveva: “Sapere aude”, osa conoscere. Conoscere è una sfida lanciata quel principio di autorità che aveva chiuso strade all’uomo, lo aveva ridotto in catene e reso incapace di apprendere verità. 24
La ragione va applicata a ogni campo: filosofia, ovviamente, ma anche diritto, storia, scienze e religione. Vera e propria concretizzazione di questo nuovo modo di organizzare il sapere fu l’Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, opera, in diciassette volumi, pubblicata, tra il 1751 e il 1772, a cura di due dei più attivi esponenti dell’Illuminismo, Denis Diderot (l’uomo cui l’editore, A. F. le Breton, affidò il progetto) e Jean D’Alembert (studioso cui venne affidata, per qualche anno, la direzione). I volumi, che subirono censure e condanne papali, si posero come obiettivo quello duplice di rivedere il sapere da ottica razionalista (senza, cioè, lasciare spazio a magia o dogmatismi religiosi) e di riorganizzare il materiale secondo lemmi, fornendo, così, un quadro unitario delle arti e delle scienze. L’idea di fondo era quella di creare una piattaforma ragionata delle attività intellettuali e manuali dell’uomo: ragione, immaginazione e memoria sono alla base delle tre forme fondamentali di attività intellettuale: filosofia, arte e storia. L’Enciclopedia lasciò ampio spazio anche alle tecniche artigianali e industriali: in sostanza, essa si mostrò quale summa del sapere dell’uomo moderno e dello spirito libero. Anche l’elaborazione della legge di gravitazione universale (due corpi celesti si attraggono con una forza che è direttamente proporzionale al prodotto delle due masse, inversamente proporzionale al quadrato della distanza e legata a una costante di gravitazione), a firma Isaac Newton, va collocata nel quadro della nuova impostazione
illuminista
di
approccio
alla
scienza,
direttamente
derivato
dall’applicazione matura del metodo galileiano. Lo scienziato, profondamente religioso, mostra, con la sua legge, quanto alta sia la perfezione della mente di Dio, il creatore. Nel
campo
del
diritto
e
dell’ingegneria
istituzionale, fu Charles-Luis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, a brillare in termini di applicazione del razionalismo. Egli teorizzò, per primo, la divisione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario (Lo spirito delle leggi, 1734-1745). Convinto della naturale socievolezza degli uomini (su posizioni opposte, quindi, a 25
quelle dell’homo homini lupus di Hobbes), Montesquieu denuncia le aberrazioni del dispotismo e afferma che le leggi non nascono per caso, ma seguono un percorso dettato da una serie di condizioni ambientali. Il filosofo deve indagare questo “spirito delle leggi”, alla ricerca delle condizioni che, caso per caso, garantiscano il massimo grado di libertà. Lo scrittore era, infatti, preoccupato, della degenerazione della monarchia francese verso forme di dispotismo endemicamente corrotte perché basate sulla paura dei sudditi. Montesquieu giudica impraticabile, per L’Europa, la via repubblicana: la forma di governo auspicabile è la monarchia moderata, in cui ciascuno si comporta con onore rispetto al rango e alla condizione cui è legato. Il dispotismo, invece, risulta esito naturale nei vasti regni asiatici. Si noti, comunque, che il barone era ben lontano dall’esaltare la democrazia: i diritti dei ceti più alti non andavano, in alcun modo, lesi. Da un punto di vista religioso, gli illuministi (chiamati anche “i filosofi”) professarono il deismo inteso come via razionale per giungere a Dio senza credere nei miracoli. La legge religiosa coincide con quella morale, e non con quella dettata dalla Chiesa. Tra i maggiori esponenti del deismo, Francois-Marie Arouet, detto Voltaire (1694 – 1778). Egli si scagliò contro qualsivoglia fanatismo religioso e si fece cantore della tolleranza (“Non sono d’accordo con te, ma sarei disposto a morire pur che tu possa esprimere le tue idee”), pur credendo nella superiorità dell’uomo bianco ed essendo profondamente antisemita. Quando il deismo si radicalizzò, si giunse al materialismo. L’uomo non può cogliere, con la ragione, il senso complessivo dell’universo: occorre dedicarsi al piccolo, al materiale, alle piccole gioie tra un dolore e l’altro. L’uomo, da un lato, è puramente materiale (forte è l’insistenza sugli aspetti sessuali), e, dall’altro, è azione. Si definisce, così, un “naturalismo meccanico” che si traduce in morte e dolore (si pensi, per rimanere in Italia, al canto di autori quali Vittorio Alfieri, Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi). 26
L’assolutismo illuminato. I principi illuministi si tradussero anche in riforme statali. In Austria furono la regina Maria Teresa (1740 – 1780) e il figlio, Giuseppe II (1780 – 1790) a incarnare lo spirito dei lumi. Essi razionalizzarono l’amministrazione statale, introdussero il catasto (una sorta di censimento dei beni immobili per poter applicare tassazione), abolirono il servaggio della gleba, istituirono l’istruzione elementare obbligatoria e soppressero circa ottocento conventi, aprendo, però, i seminari Stato. Questa pretesa di controllo statale del clero sarà una delle cifre caratteristiche del rapporto tra governi di ispirazione illuminista e il clero. Riforme di matrice illuminista si ebbero anche nella Russia di Caterina II e nella Prussia di Federico II, Stato, quest’ultimo, da seguire con attenzione perché pronto, con la sua militarizzazione, a divenire protagonista assoluto della storia politico-militare europea e catalizzatore delle forze disgregate del mondo tedesco. In Italia arrivò l’onda lunga dei sovrani illuminati asburgici (austriaci). Collaboratore della corona austriaca fu Pietro Verri (1728 – 1797), direttore della rivista Il caffè (maggio 1764 – giugno 1766). Qui si affrontavano, con razionalità, tutte le problematiche, e, spesso, ci si scagliava contro i privilegi della nobiltà. Nello stesso ambiente si muoveva contro la degenerazione aristocratica anche il chierico Giuseppe Parini, autore dell’opera satirica Il giorno. Ma, forse, il frutto più prezioso dell’opera illuminista italiana fu l’opera Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria (1738 – 1794). Partendo dalla distinzione tra giustizia divina e giustizia umana, Beccaria sostiene che non è possibile, in Terra, anticipare il giudizio di Dio infliggendo supplizi e condanne a morte. La pena capitale era da abolirsi per ragioni umanitarie e pratiche. Essa, di certo, non aveva, in alcun caso, eliminato il crimine. Occorre certezza della pena, e non brutalità. La pena, appunto, deve avere carattere di difesa sociale, e non di vendetta nei confronti del reo. La presunzione di innocenza toglie spazio alla tortura e il concetto di contratto sociale elimina la possibilità della pena di morte perché nessun individuo può cedere allo Stato, per contratto, il 27
diritto alla vita. Beccaria introduce, inoltre, il concetto di prevenzione: le autorità devono adoperarsi per far sì che i cittadini si formino alla legalità, che non delinquano. È illegale, secondo lo studioso, punire in quegli ambiti in cui non si sia attuata adeguata prevenzione. Non va, comunque, dimenticato che Beccaria non esclude del tutto il ricorso alla pena capitale: essa può essere inflitta qualora il soggetto costituisca un continuo pericolo per l’integrità dello Stato.
Il desiderio di uguaglianza. Nel 1762, Voltaire pubblica il testamento-diario di un parroco, Jean Meslier (1664 – 1729). In esso è contenuto un pesante attacco alla religione e alla proprietà privata, fonte primaria di disuguaglianza. Meslier è, forse, il primo socialista moderno. Il razionalismo iniziava, quindi, a farsi strada anche nella definizione delle strutture sociali: rifiutare il rpincipio di autorità significava anche iniziare a mettere in discussione modelli socio-politici sino ad allora dati per assodati da ragioni divine e naturali. Sulla questione dell’uguaglianza scrisse anche un altro dei nomi più illustri dell’Illuminismo francese, Jean-Jaques Rousseau (1712 – 1778). Egli venne chiamato traditore da Voltaire e dagli altri “filosofi” perché non credeva nel progresso. Esso aveva portato a una decadenza morale. L’uomo di natura è buono: è il progresso ad averlo reso malvagio, soprattutto con l’introduzione del concetto di proprietà privata. Rousseau disegna uno Stato ideale (Contratto sociale, 1762): ogni singolo cittadino cede tutti i suoi diritti alla comunità e si impegna a sottomettersi alla volontà generale. Si istaura una sorta di democrazia diretta, teorica, che non va confusa, però, con il liberalismo. La “volontà generale” può facilmente trasformarsi in potere assoluto. Rousseau prevede una religione civile, feste civiche e una figura guida. In un quadro simile, qualcuno ha parlato di “democrazia totalitaria”, vedendo, in questo Stato ideale, a forte matrice populista, ma con vertice unico e dispotico perché legittimato dal basso ma dal basso 28
non più controllato, una possibile anticipazione delle degenerazioni della storia contemporanea. Rousseau ha dedicato un’opera anche all’educazione: Emilio o dell’educazione (1762). Il fanciullo deve essere fatto crescere, lentamente, esaltando la perdita di tempo, in una sorta di isolamento campestre, lontano dagli intorbidimenti delle convenzioni umane. Egli deve avere contatto quasi esclusivo con il precettore, il quale dovrà educarlo attraverso l’azione, e non con la parola.
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4. LA RIVOLUZIONE FRANCESE E L’ETÀ NAPOLEONICA
Economia e società. La società francese del Settecento è formata, per l80%, da contadini. Il potere è nelle mani dei nobili (grandi proprietari terrieri e burocrati di Stato) e di ricchi borghesi che, pur se lontani dalla corona, controllano ampi settori dell’economia. È, quella francese, una società divisa per ordini. La vertice c’è il re, contorniato da una schiera di nobili (il secondo stato, circa 350.000 persone) che, a seconda dei periodi, ne controllano, in maniera più o meno forte, l’operato. Il primo stato è formato dal clero (150.000), il terzo dalla borghesia dagli artigiani (circa il 98% della popolazione con diritto di rappresentanza). Il “popolaccio” non aveva alcun diritto di parola all’interno degli organi istituzionali. Era, quella del settecento, una Francia in cui una carestia poteva provocare gravi crisi, come avvenne nel 1788. Nobili e clero godevano di diffusi privilegi dinanzi al fisco e alla giustizia. I nobili trasferivano il patrimonio al solo primogenito e godevano ancora della signoria bannale, cioè della riscossione dei tributi nei territori da lui controllati. A opporsi a questo istituto medievale è solo il re che, non a caso, è ancora molto amato dalla popolazione che in lui vedeva l’unica possibile difesa dai soprusi degli aristocratici.
La convocazione degli Stati Generali. La Francia aveva sostenuto le colonie americane nella loro lotta per l’indipendenza. Ciò, infatti, avrebbe significato un notevole impoverimento di una grande rivale: l’Inghilterra. L’operazione, che effettivamente portò le colonie al distacco dalla madrepatria inglese, risultò molto dispendiosa. Era urgente mettere nuove tasse e per questo i nobili pretendono la convocazione degli Stati Generali (una sorta di moderno parlamento), non più interpellati dal 1614. Sono i nobili a pretendere la convocazione: da lì, infatti, dovrà passare la riforma fiscale, fortemente penalizzante per gli aristocratici, e solo lì potranno bloccarla, ostacolando i disegni del re. L’8 agosto 1788 Luigi XVI convoca gli Stati Generali. Prima dell’apertura dei lavori sarà necessario avere un quadro dell’effettivo umore del Paese. La Francia viene suddivisa in circoscrizioni, via via crescenti, a cui vengono fatti compilare i cahiers de doleance, i quaderni di doglianza, 30
appunti su cui dovranno essere riportati i fattori di malcontento. Ne uscirà una denuncia dei privilegi della nobiltà soprattutto negli ambiti della tassazione e dell’amministrazione della giustizia. Il popolo, come già detto sopra, chiede aiuto al re e ad esso si mostra deferente. Il clima, attorno alla convocazione, si fa rovente: il Terzo Stato pretende di avere un numero di rappresentanti doppio rispetto a quello di Primo e Secondo. A chiarire le posizioni è Emmanuel – Joseph Seyes, in Che cos’è il Terzo Stato? Egli afferma che esso è l’unico che possa definirsi propriamente “nazione”, in quanto l’unico a pagare i propri rappresentanti con il denaro ottenuto dal lavoro. In quest’ottica, clero e nobiltà sono solo delle appendici. Il 5 maggio 1789 si aprono gli Stati Generali e già nel discorso di apertura risulta evidente che quanto emerso dei cahiers non sarà assolutamente tenuto in considerazione. Primo e Secondo Stato contano 561 rappresentanti, il Terzo 578 (tutti borghesi). Si vota, però, ancora “per ordine”: ciò significa che il Terzo Stato risulterà, comunque, in minoranza. Per questo motivo i rappresentanti della borghesia pretendono di passare al voto “per testa”. Il re rifiuta la proposta.
L’Assemblea nazionale e l’assalto alla Bastiglia. Il 17 giugno 1789 il Terzo Stato, non giudicando più sostenibile la situazione di minoranza a priori, abbandona gli Stati Generali e si costituisce in Assemblea nazionale. I fuoriusciti si radunano nella Sala della Pallacorda (20 giugno 1789) e giurano di sciogliersi solo dopo l’ottenimento di una nuova Costituzione. Una pesante carestia, cui si è già fatto cenno sopra, aveva portato con sé una significativa crescita del prezzo del pane: è l’occasione giusta per additare l’aristocrazia-affamatrice come vera responsabile di una situazione di assoluto disagio da parte del popolo. A questo si aggiunge la notizia, non verificata, che il re ha già truppe pronte a marciare su Parigi. Il 14 luglio 1789 la folla assalta una prigione, la Bastiglia,
libera
sette
prigionieri,
si 31
impossessa delle armi e taglia la testa del direttore del carcere. L’uomo, linciato e scannato, sarà fatto decapitare, da un macellaio, un popolano, e la testa mozzata verrà portata in trionfo per le vie della città: inizierà, sin da quel primo episodio, a delinearsi quella strategia di gestione della folla, di sentenza attraverso il “tribunale del popolo” e di supplizio pubblico che caratterizzeranno gli anni a venire. Gli insorti sventolano bandiere che assommano il bianco, colore della casa reale, e il rosso-blu, emblema della città di Parigi. Alcuni nobili iniziano a fuggire da Parigi. Si istituisce, in città, una Guardia nazionale con a capo il marchese la Fayette. Essa aveva il compito di mantenere l’ordine nella capitale. Nelle campagne si diffonde la “grande paura”: i contadini vanno autonomamente all’attacco dei castelli e bruciano gli archivi in cui vi erano le i documenti che definivano gli antichi privilegi feudali. Ma perché proprio il contadino francese, e non quello di altri paesi europei, si ribellò in maniera così travolgente? Egli non era certamente il più povero: la situazione, in altri Paesi europei, era ben peggiore. E proprio in questo va cercata la risposta: il contadino di Francia non è servo della gleba ma è, spesso, piccolo proprietario che vuol difendere i propri interessi dagli antichi retaggi feudali. Tra il 4 e il 5 agosto 1789 l’Assemblea nazionale dispone l’abolizione dei privilegi nobiliari su persone e cose: si può parlare di fine dell’Antico Regime.
Lo Stato, il potere, i cittadini.
Il 26 agosto 1789 viene promulgata la
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. In essa si sanciscono i principi di libertà e uguaglianza. Tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge. L’uguaglianza è civile e giuridica, non economica. Il potere è di tipo ascendente e prevede la sottoscrizione di un contratto sociale tra re, istituzioni e cittadini. Non c’è cessione di libertà individuali allo Stato e si prevede il diritto di resistenza all’oppressione. I pensatori che più hanno influenza sulla Dichiarazione sono, indubbiamente, Locke e Rousseau. Il 6 ottobre 1789 il re viene obbligato a spostarsi da Versailles a Parigi. Si vuole che il sovrano sia controllato dall’Assemblea e che, simbolicamente, egli esca dal suo 32
isolamento per divenire parte integrante del nuovo organismo socio-politico. In questo clima, nel corso delle riunioni della Costituente (assemblea incaricata di scrivere la nuova Costituzione), si inizia a parlare di destra (clero e nobili) e sinistra (Terzo Stato). La Francia continua ad attraversare una grave crisi finanziaria. Per mettere parzialmente freno al problema economico, si confiscano i beni della Chiesa e si sopprimono tutti gli ordini ecclesiastici non dediti all’insegnamento e all’assistenza ai malati. Il 12 luglio 1790 si promulga la Costituzione civile del clero: ai preti è chiesto giuramento di fedeltà ai principi della Rivoluzione. A seguito della condanna del provvedimento da parte del Papa, il clero francese si divise in “costituzionale” (fedele alla Rivoluzione) e “refrattario” (fedele al Papa).
La Costituzione censitaria del 1791. Dopo il fallimento di un tentativo di fuga da Parigi, Luigi XVI è obbligato ad accettare la nuova Costituzione, promulgata il 13 settembre 1791. In essa vi si trova la divisione dei poteri teorizzata da Montesquieu, si attribuiscono poteri limitati alla corona che perde il potere legislativo (nelle mani dell’Assemblea nazionale legislativa) ma mantiene il diritto di veto, si mantiene il diritto di schiavitù nelle colonie e i cittadini vengono divisi in attivi e passivi in base al censo. Il re non ha più potere di nomina dei magistrati e diviene “re dei francesi”, rappresentante, quindi, della nazione, e non più “re della Francia”, possessore, quindi, di un territorio. Si passa, in sostanza, a una monarchia parlamentare. Nel corso dei lavori per la scrittura della Costituzione, prende piede anche la divisone in club, antesignani dei moderni partiti, pur se di natura non popolare. Tra i club e i gruppi politici che si fecero protagonisti della rivoluzione francese ricordiamo: -
Giacobini: nello sviluppo degli eventi, il club si trovò a coprire
posizioni radicalmente democratiche e intransigenti. Robespierre ne fu il capo indiscusso. Forte fu il legame con i sanculotti parigini: in quest’ottica vanno viste posizioni quali il sostegno al calmiere dei prezzi (il maximum), al Comitato di salute pubblica che attuò il Terrore e, in generale, il ricorso sistematico alla violenza e al giustizialismo anti33
aristocratico. -
Foglianti: ala moderata dei giacobini, contraria far decadere il re
dopo la fuga di Varennes. Furono strenui difensori della Costituzione censitaria del 1791. Scomparvero con la caduta della monarchia. -
Girondini: riuniva i deputati all’Assemblea legislativa provenienti
dal dipartimento della Gironda (Bordeaux). Assunsero atteggiamenti radicali e antimonarchici, imponendo al re la dichiarazione di guerra a Prussia e Austria (20 aprile 1792). Contrari alle spinte egalitarie sostenute dai sanculotti, i girondini erano favorevoli alla borghesia e trovarono i loro peggiori rivali nei giacobini. I moti di piazza del 10 agosto 1792, controllati da quest’ultimi, segnarono la prima sconfitta dei girondini. Essi furono costretti a cedere il potere il 2 giugno 1793, sotto la spinta dei sanculotti parigini. Molti di loro vennero arrestati e condannati a morte. Tornarono a seder in Convenzione dopo il 9 termidoro. -
Sanculotti: termine utilizzato per indicare i popolani che,
appunto, portavano i pantaloni lunghi e non quelli corti e aderenti preferiti dall’aristocrazia (sans-culottes, senza culottes). Essi erano, essenzialmente, piccoli produttori indipendenti, commercianti, artigiani. Erano del tutto esclusi poveri e indigenti, da un lato, e, dall’altro, la borghesia agiata dei mercanti e dei capitalisti. Sostenitori della democrazia diretta, essi furono protagonisti della violenza di piazza dal 1792 al 1795, spesso manovrati dai giacobini. E quando la violenza si scatenò nelle strade, a spargere sangue fu anche il “popolaccio” che, pur non appartenendo al gruppo dei sanculotti, fu, comunque, utilizzato come braccio armato a essi mescolato. -
Montagnardi: erano così chiamati perché occupavano la parte
più alta dei banchi della Convenzione. Essi rappresentavano la parte più radicale della Convenzione: vi si trovavano gli uomini di Robespierre, Danton e Marat. -
Pianura (o Palude): erano così chiamati perché sedevano nella
parte bassa dei banchi della Convenzione. Il nomignolo dispregiativo, Palude, 34
appunto, è dovuto alla maggiore fluidità ideologica e all’opportunismo politico che segnarono i deputati che ne facevano parte. Essi, schierati contro gli atteggiamenti radicali della Montagna, determinarono spesso i cambiamenti di direzione nei moti rivoluzionari.
Il 20 aprile 1792, il re, sotto la spinta dei girondini, dichiara guerra all’Austria e alla Prussia. È lì, sostengono i deputati della Gironda, che si sono rifugiati i nobili fuoriusciti da Parigi. E da lì essi muoveranno per riconquistare a Parigi. Il re, pur firmando di controvoglia, nutriva la speranza che un’eventuale sconfitta della Francia potesse restituire al Paese lo stato pre-rivoluzionario. La stessa preoccupazione portava i giacobini a dirsi contrari alla guerra.
La nascita della Convenzione e il processo al re. La voglia di cambiamento ora fa sì che i partiti (club) non siano soddisfatti dei risultati raggiunti. Si diffida, in particolare, del re e dei nobili. Mentre sul fronte esterno i francesi riescono a fermare i prussiani a Valmy, il 10 agosto 1792 l’amministrazione di Parigi viene trasformata in Comune, sostenuta dai sanculotti che si sono sentiti esclusi dalla Costituzione del 1791. Nello stesso giorno viene dato l’assalto alla residenza reale delle Tuileries. Il re viene sospeso e arrestato: durante un tentativo di fuga, egli viene trovato in possesso di presunti documenti che stavano a testimoniare i suoi contatti con i nobili fuoriusciti da Parigi e pronti a marciare sulla città. Vengono indette elezioni a suffragio universale maschile: la Francia è una repubblica. È in occasione di questi moti che ai rivoluzionari parigini si unirono alcuni volontari che, provenienti da Marsiglia per dare supporto ai rivoluzionari della capitale, cantavano un inno in cui si diceva dell’arrivo dei giorni della gloria e della lotta contro la tirannia (la Marsigliese, appunto, ovvero l’odierno inno francese). I deputati della neonata repubblica si riunirono nella Convenzione. È qui che trovarono posto i gruppi di cui si è detto sopra: giacobini e altri radicali (Montagna), girondini e Pianura (maggioranza moderata, non schierata).
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Il processo al re poneva un problema di ordine giuridico: i giacobini vedevano, infatti, dietro l’atto processuale, una possibile presunzione di innocenza. E, per questo motivo, i giacobini si opposero ala processo. Nonostante questo, il re andò alla sbarra, fu condannato per alto tradimento e ghigliottinato, insieme alla moglie, Maria Antonietta, Il 21 gennaio 1793. L’Europa è sconvolta dall’oltraggio: il re non risponde a Dio, ma al popolo, e, in caso di giudizio negativo, viene trattato come un volgare malfattore. Il continente muove guerra alla Francia, e quest’ultima è costretta a rispondere con la leva obbligatoria di 300.000 uomini. Ciò suscita grande malcontento nella popolazione: a pagare di più, e per tutti, è la regione della Vandea (nella Francia dell’ovest, sull’Atlantico). I suoi abitanti, sotto il vessillo della croce di Vandea (un cuore sormontato da una croce), si dichiarano realisti (fedeli al re) e cattolici obbedienti al Papa. La loro lotta è fatta di atti di guerriglia. La risposta di Parigi fu terribile. I principi di libertà, uguaglianza e fraternità, vera bandiera dei rivoluzionari, si sciolsero dinanzi alla voglia di repressione: i villaggi della Vandea vennero incendiati e tanti abitanti vennero passati per le armi o annegati nei fiumi. Morirono circa 250.000 abitanti (circa 1/3 della popolazione). Si volle così distruggere il germe controrivoluzionario. Emergono, in Vandea, tutte le caratteristiche della “guerra ideologica”: il conflitto non è più risolvibile diplomaticamente perché, per la sua stessa natura, non può che concludersi con l’annientamento del nemico. A ciò si aggiunge lo sfogo, forse ancor più violento, contro il nemico interno, il controrivoluzionario, colui che fa il gioco del nemico. È tutta la popolazione a essere coinvolta nel conflitto: si lavora per logoramento, per guerriglia e attraverso la reclusione e l’uccisione dei civili.
La Costituzione del 1793 (o montagnarda, o giacobina, o dell’Anno primo). Il 2 giugno 1793, i sanculotti, sull’onda degli insuccessi che la Francia sta raccogliendo sui fronti di guerra esterni, ottengono l’arresto della Gironda. Sono i giacobini a tenere le fila della rivoluzione. Robespierre, leader giacobino, si dice contrario all’arresto dei girondini, ma sa che deve rispondere alla voglia di ghigliottina dei sanculotti. Robespierre crede nella democrazia, nell’allargamento del voto, nel miglioramento delle condizioni del 36
popolo, ma non vuole quelle radicalizzazioni che porterebbero all’abolizione della proprietà privata. Frutto primo dell’arresto dei girondini fu la Costituzione del 1793. Vengono, in essa, eliminati i principi nazionali di Rousseau e si passa alla sovranità popolare. I beni dei nobili fuggiti da Parigi vengono divisi tra i contadini . La Costituzione prevede il suffragio universale, istruzione occupazione garantite, l’assistenza agli anziani, il diritto alla proprietà privata. Ci sarà poco spazio, però, per la democrazia diretta (il referendum), che pur viene, in quest’occasione, pensata e istituita. La Costituzione del 1793 non entrò in vigore: la situazione, infatti, nel giro di poco tempo, si radicalizza e si stabilisce, per decreto, che il governo sarebbe stato rivoluzionario sino alla pace. Nonostante questo, i sanculotti, anima violenta della rivoluzione, non sono soddisfatti. Essi chiedono, e ottengono, il maximum, un calmiere che fissa il massimo consentito dei prezzi dei beni di prima necessità. Dal settembre 1793 la lotta contro i nemici della rivoluzione si fa feroce: vengono istituiti il Comitato di salute pubblica e il Tribunale rivoluzionario, strumenti tipici dei regimi che vogliono fare del giustizialismo politico, forte della rabbia popolare, la loro arma più forte. Il potere giudiziario è così sottomesso a quello esecutivo. A comandare è ancora la Convenzione, di cui il Comitato di salute pubblica diviene il braccio armato. Sono questi gli anni del Terrore. A muovere le folle sono veri e propri incendiari quali Jean Paul Marat (giornalista, leader del club dei Cordiglieri, grande accusatore dei girondini, sarà ucciso da Charlotte Corday) e Jaques-Renè Hebert (anch’egli capo dei Cordiglieri, dopo l’uccisione di Marat, sarà il grande accusatore della borghesia parigina; riuscirà a convincere i sanculotti che i commercianti continuavano a nascondere al popolo i beni di primo consumo per far salire i prezzi). Nella primavera-estate del 1794 il terrore raggiunge il culmine: si arriva a contare circa 1300 esecuzioni in poco più di un mese. Robespierre fa arrestare Hebert e, in seguito, fa arrestare, e ghigliottinare Georges Danton, eroe della resistenza contro i prussiani e, in seguito, a capo del Comitato di salute pubblica.
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Cultura e mentalità rivoluzionarie. La rivoluzione si alimenta di violenza. Qui trova sfogo e senso. Qui cerca capri espiatori e dà forma ai suoi principi astratti. Qui incanala rancori sociali covati per secoli e fornisce tribuna ai capi carismatici, ai demagoghi, del momento. Ne sono esempio i fatti del settembre 1792. Con tanti uomini chiamati al fronte per combattere contro gli austro-prussiani, si teme che Parigi possa cadere in mano agli aristocratici. A fare da potenziali sicari sarebbero stati, a quel punto, i diseredati, i disperati, i delinquenti e i carcerati. I nobili, sostengono i sanculotti, li avrebbero fatti uscire dalle carceri e li avrebbero scagliati contro le istituzioni rivoluzionarie. Il diverso, l’emarginato, diviene catalizzatore della rabbia popolare. I sanculotti invadono le carceri e massacrano 1100/1400 detenuti, tra cui anche alcuni preti refrattari. Sono questi i famosi “massacri di settembre”. Per dare la morte in pubblico occorre uno strumento “razionale”: ecco nascere, nel 1792, per proposta del deputato Joseph-Ignace Guillotin, la ghigliottina. Essa si presenta come mezzo democratico (uguale per tutti, senza distinzione di stato sociale) e illuminista, perché sobrio, veloce, poco doloroso e razionale, appunto. Rimane l’idea del supplizio pubblico: esso serve a educare e a far sfogare, in un rito collettivo, quella rabbia che il popolo accumula contro i nemici della rivoluzione. I moti di Francia furono accompagnati anche da un radicale processo di scristianizzazione. L’ideologia rivoluzionaria è, per natura, totalizzante, e deve, quindi, eliminare ciò che prima del suo arrivo andava a occupare
spazio
nell’animo
umano.
Si
inizia
concedendo matrimonio civile e divorzio. I legami si stringono e si sciolgono dinanzi e per autorità della Nazione, e non di Dio. Vengono vietate le processioni, chiuse le chiese e rimosse le campane di Parigi. Il tutto è accompagnato da una vera e propria esplosione di rabbia contro i preti: fuggiti i nobili, i sacerdoti erano rimasti i rappresentanti dell’Antico regime e della sua società per ordini. Gli stessi preti che avevano aderito alla rivoluzione vennero, in molti casi, obbligati a lasciare il sacerdozio e a sposarsi. Quale simbolo dell’abbandono della 38
misurazione del tempo secondo cadenza cristiana, venne riformato il calendario: data di inizio è il 5 ottobre 1793, giorno della proclamazione della repubblica. Dio scompare per lasciare posto a un nuovo principio primo: la rivoluzione. Anche la morte assume un nuovo significato. Robespierre è deista: crede, quindi, nell’Aldilà, nel giudizio finale e nel ricongiungimento dell’anima con quelle dei propri cari. Egli vuole frenare la degenerazione materialista, convinto che l’ateismo avrebbe infiacchito i combattenti. Il leader giacobino ottenne il riconoscimento dell’essere supremo e l’immortalità dell’anima. Iniziò, comunque, una fase di trascuratezza delle sepolture; e la situazione non migliorò nemmeno dopo la promulgazione dell’editto di Saint Cloud (1804), atto con cui si vietava la tumulazione all’interno delle mura cittadine e si vietava la distinzione delle tombe attraverso l’uso di insegne familiari.
Il crollo dei giacobini e la Costituzione del 1795.
All’apice del terrore
Robespierre e i giacobini si ritrovano isolati, prigionieri del loro stesso furore rivoluzionario. La Palude, maggioranza in Convenzione, ritiene esaurita la fase della violenza cieca. Come spesso avviene, la rivoluzione mangia i propri figli più devoti. Il 27 luglio 1794 Robespierre, Saint Just e altri capi giacobini vengono arrestati e giustiziati. I simboli giacobini vengono distrutti. Siamo dinanzi a quello che passerà alla storia come il colpo di Stato del 9 termidoro 1794 (termidoro è il nome dato, nel calendario rivoluzionario, al mese di luglio: 9 termidoro corrisponde, appunto, al 27 luglio). Il clima si rasserenò e in Parigi si tornò a parlare di politica. Tutto ciò si concretizza nella Costituzione del 1795, la terza dell’era rivoluzionaria. Essa è detta anche Costituzione dell’Anno Terzo (secondo il nuovo calendario). È questa la carta costituzionale che vuole scongiurare gli estremismi e l’onnipotenza di un solo uomo. Per ottenere questo si diede il via a una vera e propria opera di ingegneria istituzionale: il potere esecutivo venne consegnato al Direttorio, un organo composto da cinque membri, mentre quello legislativo al Consiglio dei Cinquecento e al Consiglio degli Anziani (250 membri), entrambi eletti a suffragio censitario. Il Consiglio degli Anziani aveva potere di veto sulle leggi proposte dai Cinquecento. Vigeva, inoltre, il 39
decreto dei 2/3: tra Cinquecento e Anziani dovevano essere eletti almeno i 2/3 dei membri presenti in Convenzione. La nuova struttura si mostrava, quindi, fortemente conservatrice
e fondata su due principi che saranno fondamentali nelle carte
costituzionali dell’Ottocento: bicameralismo e suffragio censitario (caratteristiche che ritroveremo anche nello Statuto Albertino concesso da Carlo Alberto di Savoia, in Piemonte, nel 1848). Da aggiungere che alla Costituzione venne aggiunta anche una Dichiarazione dei doveri del cittadino, che venne abolito il diritto di insurrezione e si tolse spazio alla democrazia diretta tanto cara ai sanculotti. Nel nuovo clima “normalizzato”, e reso di nuovo “borghese”, si riaprirono le chiese e fu abolito il maximum (e ciò portò all’immediata impennata dei prezzi). Il popolo chiede “pane e Costituzione del 1793”. Nella primavera del 1796 si assiste a un tentativo di sommossa popolare, la “congiura degli eguali”, guidata da Gracco Babeuf. Si chiede la ridistribuzione, a tutti, dei frutti della terra e, in sostanza, l’abolizione della proprietà privata : siamo dinanzi alla prima rivoluzione socialista della storia. Babeuf, in ogni caso, non vuole concedere potere al popolo, bensì alle guide illuminate che siano in grado di accompagnarlo (secondo un modello che, in seguito, verrà ripreso dai bolscevichi russi). La rivolta, comunque, si risolse in un nulla di fatto.
L’ascesa di Napoleone Bonaparte. La crisi economica francese era, comunque, pesante, a causa gli anni di rivoluzione interna e di guerra continentale. Occorreva conquistare territori ricchi da poter sfruttare. Si guardò alla Germania e al nord Italia. Sul fronte italiano, comunque marginale, si inviò, alla testa di un contingente di circa 45.000 uomini, mal pagati e mal vestiti, un giovane generale di artiglieria che si era fino a quel momento distinto per la capacità di sedare rivolte di piazza ricorrendo al cannoneggiamento degli insorti. L’uomo nuovo della milizia francese rispondeva al nome di Napoleone Bonaparte. Il 15 maggio 1796 napoleone entra in Milano. Gli austriaci, cacciati dalla Lombardia, stipulano una pace 40
molto vantaggiosa per i francesi: si tratta del Trattato di Campoformio (18 ottobre 1797). L’Austria perde il Belgio, i territori a ovest del Reno e la Lombardia. In cambio ottenne Venezia. E questo segnò il crollo dei sogni dei giacobini italiani che, fino a qualche mese prima, avevano acclamato a Bonaparte come a un liberatore che, sulla punta delle baionette dei propri soldati, avrebbe fatto arrivare nell’Italia soggiogata dagli austriaci, libertà, uguaglianza e fraternità. Ora, con la cessione, sul tavolo della diplomazia, di Venezia agli austrici, gli antichi padroni, Napoleone si mostrava nella sua vera natura: un abile stratega, un giocatore, sullo scacchiere internazionale, pronto a sacrificare la volontà dei popoli in nome degli interessi di Francia.
Napoleone, tra Africa e Italia. I successi napoleonici nel nord Italia avevano lasciato spazio aperto alle mire espansionistiche francesi sul continente. Il vero nemico di Bonaparte rimane, ora, l’Inghilterra, ma, in questo caso, il duello deve avvenire sul mare. La Francia vuole conquistare l’Egitto, per poter così rompere il ponte naturale che gli inglesi utilizzano per raggiungere i loro domini asiatici (Mar Rosso). Nel 1798 Napoleone vince i Mamelucchi (mercenari al servizio del Sultano d’Egitto), ma la flotta francese viene distrutta dalle navi britanniche, capitanate dall’ammiraglio Horace Nelson. La campagna egiziana segnò una pesante sconfitta militare per i francesi, pur essendo una tappa fondamentale per la cultura mondiale, visto che i transalpini (e, in particolare,
Jean-Francois
Champollion)
ebbero modo di scoprire la Stele di Rosetta, vera e propria tavola di traduzione dei geroglifici. La Campagna d’Egitto, inoltre, con il pericoloso
avvicinamento
dei
soldati
di
Bonaparte al continente asiatico, spinse anche la Russia in guerra contro la Francia. L’Italia, conquistata da Napoleone, venne organizzata per repubbliche (di fatto dei protettorati francesi): la Repubblica Cisalpina (con Milano capitale); la Repubblica Cispadana (Bologna, Ferrara, Modena, Reggio Emilia, con il tricolore verde-bianco41
rosso come bandiera); la Repubblica Romana (con il Papa trasferito a Siena); la Repubblica Partenopea. Queste organizzazioni ebbero vita breve, anche perché, nel 1799, subirono il fenomeno delle insorgenze. Tra queste ricordiamo la rivolta dei sanfedisti cattolici nella Repubblica Partenopea e, soprattutto, pur se precedenti, la reazione delle Pasque veronesi (17 – 23 aprile 1797) all’arrivo delle truppe napoleoniche. In quest’ultimo caso, le interpretazioni del fenomeno sono di diversa natura. La storiografia cattolica vuole vedere, nella reazione veronese (che fu moto di popolo, pur se vennero coinvolti anche alcuni nobili quali il conte Emilei), la rivolta dei cristiani contro l’arrivo dei francesi, altrove accolti come illuminati liberatori, ma qui visti come dei “senza Dio” scristianizzatori. Altri storici, spesso di natura marxista, sostengono, invece, che i veronesi reagirono solo perché preoccupati dall’arrivo di truppe, quelle napoleoniche, notoriamente mal pagate e, di conseguenza, dedite alla razzia e al saccheggio dei beni delle popolazioni locali. Preferibile era, a quel punto, avere sul territorio i soldati austriaci, più disciplinati perché ben retribuiti da madrepatria. Una lettura interessante dei fenomeni di reazione all’arrivo delle idee rivoluzionarie sulle punte delle baionette napoleoniche venne data da Vincenzo Cuoco nel suo saggio sulla rivoluzione napoletana. I francesi vollero estendere i dogmi dell’Illuminismo a principio ordinatore universale: l’esperimento di omologazione fallì e portò con sé, come naturale reazione, la nascita del concetto di nazione inteso come distinzione identitaria.
Napoleone si prende la Francia. Il 1799 segnò una grave crisi militare per la Repubblica francese. La borghesia si ritrovò a temere una pericolosa insurrezione popolare e un ritorno alle radicalizzazioni sanculotte dei giorni del Terrore. A questo punto era preferibile l’istaurazione di un regime autoritario, che pur avrebbe segnato un passo indietro nel sogno illuminista. Il 10 novembre 1799 si assiste, così, a un nuovo colpo di Stato (detto “colpo di Stato del 18 brumaio”): il Direttorio viene soppresso e Napoleone diviene “primo console”. Nello stesso anno venne promulgata una nuova Costituzione, detta “dell’Anno ottavo”): lo Stato viene riorganizzato secondo 42
prefetture, veri e propri strumenti di controllo di una struttura del tutto accentrata. Il potere esecutivo ne esce particolarmente rafforzato, a scapito dell’autonomia delle Camere. A questo si aggiunge la stesura di un Codice Civile che, in termini di diritto, segnò una vera e propria svolta in occidente. In esso si prevedevano il diritto di proprietà, l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, la libertà di culto, il riconoscimento del matrimonio civile e del divorzio, la nascita dell’istruzione superiore statale (licei). Le donne rimanevano, però, inferiori rispetto agli uomini, obbligate com’erano a essere sempre garantite da un tutore (padre o marito). Napoleone si presenta, quindi, alla Francia come uomo d’ordine, unico in grado di difendere quei valori borghesi che erano continuamente messi in discussione dai radicalismi giacobini. Fuori dai confini, il generale raccoglie successi in Italia (vince gli austriaci a Marengo, vicino ad Alessandria, nel 1800) e in Baviera. E dopo il lavoro degli eserciti, la parola passa alle diplomazie: con gli austriaci viene firmata la pace di Luneville, con gli inglesi la pace di Amiens. Forte, quindi, di una Francia ai suoi piedi, Napoleone si fa incoronare imperatore (2 dicembre 1804): fu scelto il rito romano (presenza dell’alloro e dell’aquila), non quello medievale-cattolico. Il papa assistette all’incoronazione, non ne fu protagonista.
La forza dell’esercito napoleonico. Gli uomini di Napoleone raccolsero successi sui campi di battaglia dell’intero continente europeo. Molti furono i punti di forza di un esercito guidato da un uomo, ufficiale di artiglieria, che fu, certamente un tattico molto raffinato (organizzatore del campo di battaglia), ma non un abilissimo stratega (lettore delle dinamiche di guerra a lungo periodo). Napoleone seppe, innanzitutto, legare a sé gli uomini unificando il loro destino al suo. La scarsa paga ricevuta dai soldati poteva essere compensata dalle razzie che, ovviamente, potevano avvenire solo in caso di vittoria. La disciplina all’interno dei ranghi era rigidissima: ciò garantiva ai reparti una rilevante velocità di spostamento e ciò dava al comandante un enorme vantaggio. Non si dimentichi, inoltre, che Bonaparte rinnovò le sue truppe e, in particolare, le ufficialità, ringiovanendo l’esercito e adeguandolo alle sue esigenze di 43
spostamento in marcia e su campo. Molto innovativa fu, nella tattica napoleonica, l’occupazione del terreno che separava gli schieramenti dei due eserciti (tra i 100 e i 200 metri). Il generale volle occupare quella sorta di “terra di nessuno” con piccoli gruppi di tre uomini, agilissimi, che fungessero da incursori e impedissero il movimento ordinato delle truppe nemiche. A questo si aggiungeva l’utilizzo di artiglieria leggera da far muovere ad aggiramento per poter colpire da lato, d’infilata, e provocare moltissimi danni tra le fila nemiche. I reparti, infatti, tendevano a muoversi a schieramento fisso. Gli uomini erano inquadrati per rettangoli, e così si spostavano, in disposizione rigida, compiendo una sorta di danza nella zona di operazione e alternando, in prima fila, uomini allo sparo e uomini che ricaricavano. L’avvicinamento dei due schieramenti era possibile in quanto i fucili in dotazione, ad avancarica, avevano una gittata che superava, a stento, i 100 metri. Una battaglia, diceva proprio Napoleone, si vinceva se si aveva il coraggio di rimanere ordinati, dinanzi al nemico, per un minuto in più.
La guerra permanente e il blocco continentale. Gli eserciti delle potenze europee continueranno, per tutta la parabola napoleonica, a coalizzarsi per fermare l’avanzata delle truppe francesi. Alla fine si conteranno ben sette coalizioni. Nel 1805, anno in cui, tra le l’altro, viene proclamato il Regno d’Italia, sono inglesi, russi, svedesi e austriaci ad affrontare Bonaparte in campo aperto. Lo scontro decisivo avviene ad Austerlitz (2 dicembre 1805), in Moravia: i francesi ribadiscono la loro assoluta supremazia sulla terraferma. La battaglia fu detta “dei tre imperatori” perché vi presero parte Napoleone, imperatore dei francesi, Francesco II d’Austria e Alessandro I di Russia. Sono gli austriaci i grandi sconfitti: essi devono cedere il Veneto e la Dalmazia alla Francia e il Tirolo al regno di Baviera. Gli inglesi tengono, invece, la loro posizione di preminenza sula mare: la flotta francese viene annientata a Trafalgar, nella penisola iberica, tra il golfo di Cadice e lo stretto di 44
Gibilterra (ottobre 1805), anche se il comandante in capo delle navi inglesi (e delle navi spagnole, entrate a far parte della flotta francese), l’ammiraglio Horace Nelson, muore in quell’occasione. La sconfitta segnò, comunque, il definitivo abbandono del progetto francese di occupazione dell’isola. Anche il sud Italia conosce degli avvicendamenti: la Sicilia resta inglese, ma il Regno di Napoli passa prima a Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, e, in seguito, al fedelissimo generale Gioacchino Murat. A quanto sopra esposto, si sommi lo sforzo sostenuto dai francesi per occupare Spagna e Portogallo. I Paesi, militarmente deboli, riuscirono a contrastare sul campo le forze bonapartiste, ma attuarono un’estenuante guerriglia che obbligò Napoleone a schierare nella penisola molti uomini, parte consistente dei quali trovarono la morte. Il Portogallo venne, comunque, conquistato nel 1807, mentre la Spagna cedette nel 1808. Sul trono spagnolo arrivò quel Giuseppe Bonaparte che abbiamo già visto sopra regnare a Napoli. Alla forza inglese sul mare la Francia doveva porre rimedio, onde evitare l’effetto-accerchiamento. Bonaparte vietò così a tutta Europa di commerciare con la rivale britannica. Correva l’anno 1807 e l’operazione prese il nome di “blocco continentale”. Si voleva, così, da un lato piegare la rivale e, dall’altro, riempire l’Europa di prodotti francesi. Il blocco si rivelò un fallimento: l’Inghilterra, innanzitutto, colse l’occasione
per
incrementare
i rapporti con
le
Americhe
e
si
rafforzò
commercialmente. A ciò si aggiunga il fatto che Napoleone pretese di controllare l’intero mercato europeo e perse l’enorme occasione di creare un libero mercato continentale che avrebbe potuto, realmente, rendere la Francia fortissima perché in posizione privilegiata. Non da ultimo, la nuova situazione favorì la nascita di un fiorentissimo mercato nero, di cui i mercati europei avevano bisogno e che veniva alimentato dalla connivenza dei funzionari francesi.
Il fallimento del blocco continentale e la campagna di Russia. Fu la Russia a violare il blocco e a cominciare a riprendere i commerci con l’Inghilterra. Napoleone voleva punire la disobbedienza russa e, nello stesso, tempo, piegare un potenza che, 45
fino a quel momento, non aveva ceduto su campo di battaglia. Viene indetta una vera e propria spedizione punitiva: alla testa di 600.000 uomini, Bonaparte marcia verso Mosca. Dopo una marcia inarrestabile, il 14 settembre 1812 il generale entra in Mosca. I russi, nel frattempo, ben lontani dal cedere le armi, hanno attuato la tecnica della “terra bruciata”: le loro ritirate sono sempre accompagnate dalla distruzione, mediante fuoco, di tutte le strutture che possano dare riparo ai reparti di Napoleone, stremati dalla fatica, dalla fame e, soprattutto, dal freddo che va facendosi, con il sopraggiungere dell’inverno, insopportabile. In una Mosca devastata dalle fiamme dei suoi stessi abitanti, Bonaparte non può rimanere: inizia, così, una disperata ritirata verso Parigi, contrassegnata dalle morti per assideramento e dai continui attacchi di cui l’esercito in fuga è facile bersaglio. A guidare i russi è il generale Kutuzov. I francesi contarono circa 400.000 caduti. Al suo arrivo in Germania, Napoleone si trovò dinanzi la sesta coalizione europea, questa volta formata da Prussia, Russia, Austria, Inghilterra e Svezia. Nonostante Bonaparte fosse riuscito a rimettere nuovamente assieme un’armata di 500.000 uomini, la sconfitta francese fu netta: tra 16 e il 18 ottobre 1813, a Lipsia, il generale subì una pesantissima sconfitta, un vero e proprio inizio della sua fine. Pur riuscendo a fermare gli uomini dell’inglese Wellington e del prussiano Blücher, in marcia su Parigi, l’esercito di Napoleone fu sbaragliato ad Arcis-sur-Aube, nel 1814. La Spagna, nel frattempo, si liberava dei francesi e le truppe austro-anglo-prussiane entravano in Parigi: al generale francese non rimaneva che trattare la resa. Sul trono di Francia sarebbe tornato il Borbone, Luigi XVIII (1814 – 1824), fratello del decapitato Luigi XVI, e a Napoleone sarebbe toccata la sovranità dell’Isola d’Elba. Nel frattempo, i grandi d’Europa si erano già riuniti a Parigi, nel 1813, per ridare un assetto equilibrato alla carta geografica continentale dopo gli sconvolgimenti cui l’avventura napoleonica l’aveva sottoposta.
Dopo i “cento giorni”, la sconfitta definitiva. Le potenze europee avevano deciso di dar seguito all’incontro diplomatico parigino indicendo un congresso, a Vienna, che ridisegnasse i confini degli Stati. Napoleone, invece, all’Elba non aveva 46
intenzione di rimanere. Nel marzo del 1815 egli, forte delle resistenze che Luigi XVIII incontrava in Parigi, dove la borghesia temeva il ritorno dell’Antico Regime, tornò nella capitale transalpina, di fatto non ostacolato dall’esercito che gli era stato mandato contro dal sovrano e che, dopo poche parole del comandante (“Chi ha il coraggio di sparare contro il proprio imperatore, lo faccia”), tornò a schierarsi a fianco del condottiero. Iniziava così la breve avventura dei “Cento giorni”: aggredito immediatamente dalla settima coalizione (Austria, Russia, Prussia, Inghilterra), egli venne definitivamente sconfitto in territorio belga, a Waterloo (15 giugno 1815) dai generali Wellington e Blücher, che Bonaparte, con un grave errore, volle combattere su fronti distinti, di fatto rendendo deboli i propri schieramenti. L’avventura napoleonica andò a chiudersi nell’Atlantico, sull’isola di Sant’Elena, dove Napoleone venne esiliato e si spense, il 5 maggio 1821. Per la Francia terminava l’esperienza del Primo Impero; l’Europa entrava, invece, con il Congresso di Vienna, nella fase della Restaurazione.
Considerazioni conclusive. La Rivoluzione francese e la successiva esperienza napoleonica costituirono un vero e proprio laboratorio di politica moderna. La piazza divenne protagonista attraverso i cahiers de doleance e la presa di coscienza dell’importanza dell’opinione pubblica (discorsi di piazza e lettura dei giornali). Si individuarono, inoltre, per la prima volta due schieramenti indicati con nomi che, in seguito, risulteranno attestati nel gergo politico: la destra, corrispondente ai realisti, e la sinistra, individuabile nei rivoluzionari. Nacquero, nel corso della rivoluzione, nuovi organismi quali la Guardia Nazionale e il Comune insurrezionale, segno evidente dell’esigenza degli insorti di darsi configurazione militare e istituzionale. Il tutto si colorì di una vera e propria liturgia laica (la Marsigliese, la coccarda tricolore, la Festa nazionale, l’albero della libertà) che, però, non va dimenticato, sfociò anche nella violenza di piazza, nel rito tribale della punizione pubblica e in un’intolleranza religiosa che portò il laicismo esasperato a farsi nuovo dogma di Stato. Tra 1792 e 1794, nella vera e sola fase democratica della rivoluzione, Robespierre ottenne il suffragio
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universale, l’assistenza pubblica e il diritto alla proprietà privata, pur se ridotta al minimo, frutto del lavoro di ciascuno e considerata quale male necessario. Più in generale, la rivoluzione segnò la definitiva vittoria della borghesia sull’aristocrazia, e ciò avvenne con impressionante rapidità di rovesciamento della classe dirigente. Si creò, così, un nuovo assetto sociale, ma, di fatto, non si trovò un nuovo corpo politico stabile che potesse divenire espressione della nuova classe dirigente borghese. Gli stessi anni della rivoluzione, pur rappresentando, come già detto, un autentico laboratorio di ingegneria politico-istituzionale, videro un alternarsi di forme di governo che poco lasciarono in termini di eredità: in dieci anni si assistette a una monarchia costituzionale, a una repubblica fondata su arbitrio e terrore, a un tentativo di regime parlamentare, a una repubblica parlamentare (Direttorio) a una dittatura democratica (Napoleone, imperatore dei francesi per legittimazione popolare). Ecco, la mancata sedimentazione di un corpo politico stabile da consegnare alle future generazioni quali proposta moderna di gestione del potere che fosse scevra dalle ingiustizie del passato e si proponesse quale reale concretizzazione dei principi democratici ispiratori fu, forse, il limite più evidente della rivoluzione di Francia. Secondo lo storico Francois Furet, la storiografia marxista erra quando vuol leggere la rivoluzione francese come principio di un processo di crescita che ha portato l’’Europa da lì alla “primavera dei popoli” delle insurrezioni nazionali ottocentesche, per chiudersi, dopo la teorizzazione di Karl Marx, con la rivoluzione sovietica. In questa visone, sostiene lo storico, vi è teleologia: il divenire ha in sé una matrice divina che si giustifica in forma causale o al suo stesso interno e fa sì che, quando un fenomeno si muove verso un suo fine, significa che quel fine esiste e coincide con il divino. Il fine liberatorio/egalitario della rivoluzione giustifica, quindi, la rivoluzione stessa e sta lì a dire che quella libertà esiste ed è voluta da qualcosa di superiore. In questo principio di causalità si inseriscono anche il ricorso alla violenza cieca, all’arbitrio, all’intolleranza religiosa e politica. E Napoleone? C’è chi lo vide come un semidio (Goethe), come un eroe, solo, in mezzo a due secoli, a segnare i destini d’Europa (Manzoni), come lo “spirito del mondo” (Hegel), ma anche chi lo definì “Attila, il barbaro” (Madame de Stael). Di fatto, 48
egli, espressione ultima di una borghesia che rischiava di vedersi sfuggire di mano un processo, quello rivoluzionario, da essa stessa avviato, si presentò come l’uomo in grado di garantire agli abbienti la tutela dei diritti di proprietà e i privilegi alto-borghesi a essa connessi, evitando, così, la degenerazione socialista favorevole alle frange radicali del giacobinismo. Un modello, quello che trovò in Bonaparte l’uomo d’ordine, che spesso ha fatto capolino nella storia: così fu per i signori che emersero dalla crisi del Trecento a salvare i mercanti dalle insurrezioni comunali delle arti più povere, così sarà per il prussiano Bismark e così, soprattutto, capiterà quando un’Europa in crisi, spaventata dalla possibile diffusione del modello sovietico russo, troverà in uomini quali Benito Mussolini e Adolf Hitler due figure in grado di trincerare gli interessi altoborghesi. In tutti questi casi la borghesia, appunto, decise di rinunciare a gradi di libertà pur di scongiurare il pericolo della spartizione delle proprietà con il popolo che chiedeva pane. Per tornare a Napoleone, egli incarnò, forse più degli altri esempi qui citati, il “cesarismo”, inteso come idolatria militare per il capo che si fa forte del consenso popolare e, soprattutto, della fedeltà degli uomini che lo seguono sul campo di battaglia. Egli, a poco a poco, si allontanò dal consenso degli uomini che avevano acceso la rivoluzione, per appoggiarsi a chi gli aveva garantito l’ascesa al potere. La rivoluzione di Francia lasciò in eredità al XIX secolo, quindi, una corpo politico profondamente mutato nelle sue certezze di Antico Regime, ma non ancora nuovo perché forte dell’organizzazione democratica. L’emancipazione sociale, invece, era stata ottenuta già nei primi passi della rivoluzione, anche se le differenze di classe mai vennero eliminate, nemmeno quando a comandare furono Robespierre, Danton e Saint Just. La storia dimostrerà, è pur vero, che su queste differenze di classe si costruirà la modernità del continente europeo.
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5. LA RIVOLUZIONE AMERICANA E LA NASCITA DEGLI STATI UNITI
La colonizzazione inglese. L’Inghilterra, alla chiusura della Guerra dei Sette Anni (1756 – 1763), si ritrovò, in sostanza, padrona incontrastata del Nord America. Gli inglesi stavano sul territorio americano dal 1607. Fondarono, all’arrivo, la Colonia denominata Virginia (in onore della regina Elisabetta). A seguito arrivarono dalla madrepatria dei calvinisti perseguitati (puritani). Venne colonizzata, da principio, la costa atlantica. New Amsterdam, olandese, divenne inglese nel 1664 e prese il nome di New York. All’inizio della colonizzazione, i rapporti tra coloni e indigeni furono buoni; i coloni, infatti, avevano bisogno dei prodotti agricoli degli originari abitanti del luogo. In seguito, però, gli indigeni iniziarono a morire perché colpiti da malattie importate (loro non possedevano adeguate difese immunitarie) e, soprattutto, iniziarono combattere tra tribù (“guerre indiane”) per divenire interlocutori privilegiati dei coloni. Quest’ultimi, esaurito il bisogno di mais, iniziarono a chiedere pellicce, offrendo in cambio armi, rum e lana. Con l’andare del tempo anche i territori iniziarono a scarseggiare: iniziò la colonizzazione delle terre vergini e, con essa, le stragi delle popolazioni locali. Seguendo la teoria della predestinazione (il popolo eletto è destinato a dominare), i puritani furono spietati, a tratti assumendo anche atteggiamenti di caccia alle streghe1 . Economicamente, l’America settentrionale si presentava come un paese prevalentemente agricolo, con piccola e media proprietà al nord e un sud latifondista e assetato di manodopera. La prima metà del Settecento segnò una forte crescita demografica, soprattutto a causa di un forte flusso immigratorio. Arrivarono, oltre agli inglesi, anche tedeschi e irlandesi2. In generale, i lavoratori americani stavano meglio di 1
Ricorda l’episodio delle “streghe di Salem”: le ragazze vennero trucidate perché rappresentavano il segno di una società mercantile che guardava solo al denaro. 2 Si trattava, soprattutto, di disperati, senza denaro, destinati a fornire bassa manodopera. Si creò, in questo contesto, il fenomeno della “schiavitù bianca a contratto”: si trattava di schiavi con diritto di proprietà, di ricorso alla legge e di affrancamento dopo 4 anni (solo il 20% di loro riusciva a tornare libero).
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quelli inglesi, ma non va dimenticato che, in questo contesto, va anche collocato il fenomeno della schiavitù nera.
Lo schiavismo. Ogni anno giungevano dall’Africa tra i 10.000 e i 20.000 tra uomini e donne. Molti si suicidavano o morivano durante il viaggio causa le pessime condizioni igieniche e il diffondersi di epidemie. Gli schiavi, nel 1770, arrivarono ad essere 459.000 (il 21,8% della popolazione). La tratta dei neri (molto più resistenti dei lavoratori bianchi e degli indigeni) era un grande affare nelle mani degli europei: dalle Indie si importavano in America zucchero e melassa. Qui si produceva rum, liquore con il quale si partiva per l’Africa dove, grazie ad esso, si acquistavano schiavi da portare in America (un nuovo commercio triangolare).
Lo scontro tra coloni e madrepatria: la Guerra d’indipendenza. Nella prima metà del Settecento, i rapporti tra coloni e madrepatria erano ancora buoni. Certo, le manovre protezionistiche inglesi, atte a mantenere la colonia oltreoceano nello status di fonte di materie prime e mercato privilegiato, portava la bilancia commerciale delle colonie ad essere sempre in deficit in quanto era per loro impossibile inserirsi nel mercato. A rompere gli equilibri arriva la Guerra dei Sette Anni. Come dicevamo all’inizio, l’Inghilterra trionfa, ma la vittoria porta con sé enormi spese militari e un ingente debito di guerra. Sull’isola europea si fa largo l’idea che occorra riorganizzare amministrativamente l’impero: vengono promulgati lo Sugar act (dazi sui prodotti importati) e lo Stamp act (tassa su documenti importati e giornali). C’è soprattutto un problema di riconoscimento politico: i coloni si dichiarano fedeli al re, non al Parlamento. Tra 1764 e 1765 iniziano le proteste. In risposta, il Parlamento di Londra, pur revocando lo Sugar act, si proclama legiferante in toto sulle colonie. A questo atto nove colonie si convocano in congresso, a New York, e sanciscono la loro intenzione di non obbedire a un Parlamento in cui non hanno rappresentanti (“No taxation without rappresentation”). Considerata la difficoltà di inviare rappresentanti a Londra, gli americani proponevano di strutturare l’impero come un insieme di autonomie locali. 51
Il Parlamento inglese, a questo punto, passa alla sola tassazione esterna: le colonie dovranno pagare le imposte su alcuni prodotti obbligatoriamente importati dalla madrepatria. La reazione degli americani fu immediata: essi iniziarono a produrre in proprio i prodotti proibiti e, nel 1773, a titolo dimostrativo, venne gettato a mare il carico di tè di una nave inglese (su questo prodotto erano, appunto, gli inglesi ad avere il monopolio di vendita alle colonie). La situazione precipitò. Nel 1774 si riunì a Filadelfia, in Pennsylvania, il primo Congresso Continentale. Nel 1775 gli inglesi inviarono le prime truppe e, nello stesso anno, un nuovo congresso si autoconvocò a Filadelfia: George Washington3 viene posto a capo dell’esercito e i porti americani vennero dichiarati aperti a tutte le navi. Il 4 luglio 1776 è data fondamentale: viene promulgata la Dichiarazione d’Indipendenza4, documento elaborato dal virginiano Thomas Jefferson: il testo è una sorta di trascrizione dei principi di Locke (si parla di diritti inalienabili, di uguaglianza tra gli uomini, di legge naturale e divina, di diritto di ribellione da parte del popolo nei confronti del governo inglese che si era macchiato di gravi abusi). Internamente, comunque, il fronte non fu unitario: gli indipendentisti presero il nome di whigs (come i filoparlamentari, progressisti, in Inghilterra), i lealisti a madrepatria si fecero chiamare tories. E la rivoluzione fu anche guerra civile; molti americani abbandonarono gli Stati indipendenti. A ribellarsi furono tredici colonie5; esse si dotarono di una loro costituzione, in qualche caso laica ma, nella maggior parte dei casi, ancora fortemente anticattolica. 3
G. Washington (1732 – 1779), uomo politico e generale della Virginia, figlio di una ricca famiglia di piantatori. Aveva partecipato come ufficiale alla Guerra dei Sette Anni. 4 Il 19 giugno 1776 era stata promulgata la Costituzione della Virginia; ad essa era stata anteposta una “Dichiarazione dei diritti” in cui veniva sottolineato che l’uomo ha diritti inviolabili. La dichiarazione d’indipendenza venne promulgata nel corso del Secondo Congresso Continentale, cui parteciperanno quelli che gli statunitensi ancora oggi ricordano come Founding Fathers (padri fondatori). Tra i nomi che lavorarono al documento, oltre al già sopra citato Thomas Jefferson, menzioniamo anche John Adams – il padre del bicameralismo americano-, Benjamin Franklin, Robert Livingston, Roger Sherman. 5 Virginia, Massachussetts, New Hampshire, Conneticut, Rhode Islands, New York, New Jersey, Delaware, Pennsylvania, Maryland, North Carolina, South Carolina, Georgia, tutti Stati della costa atlantica. Le colonie si diedero, nel 1776, una bandiera che contava 7 righe rosse e 6 bianche (13 righe a rappresentare le 13 colonie insorte) e, in un quadrato in alto a destra, la bandiera inglese. Il 14 giugno
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Inoltre, le espressioni egalitarie contenute nei diversi documenti non vanno prese in senso stretto: non vi era una reale concezione democratica. Il sistema di voto rimarrà censitario anche se ci si interrogherà sulle diverse nature della democrazia. Da un lato stava la democrazia reale (rappresentanza pura, a suffragio universale, per circoscrizioni), dall’altro quella a rappresentanza virtuale (i deputati rappresentano la nazione quindi, virtualmente, ogni singolo cittadino). Più in generale, si può parlare di paura della democrazia: si temevano l’assalto alle ricchezze da parte dei ceti più bassi e la degenerazione demagogica verso la tirannide6. La Guerra d’indipendenza, iniziata nel 1775, continuò sino al 1783. Gli inglesi, con il trascorrere del tempo, faticarono a far giungere rifornimenti sul territorio americano. Inoltre, in aiuto degli indipendentisti giunsero francesi, spagnoli e olandesi. Gli americani segnarono importanti vittorie al Lago di Saratoga (Stato di New York) e a Yorktown (1781). Si trattò di una guerra aggravata da fame, inflazione e miseria. Le donne conquistarono dignità sociale nelle campagne e nell’opinione pubblica cittadina. Anche gli indiani parteciparono agli scontri: in questo caso lo scontro con i civili divenne cruento. Il 3 settembre 1783 si siglò, a Parigi, la pace: nacque una Confederazione di 13 Stati indipendenti. Il nome Stati Uniti d’America era, comunque, di difficile interpretazione: il potere centrale, infatti, era debolissimo. Nel 1787 si convocò, a Filadelfia, una Convenzione per dare vita ad una federazione e dotarla di una Costituzione7: il potere legislativo venne affidato al
1777 si sostituì al vessillo della madrepatria, nel riquadro, 13 stelle. I colori stavano a rappresentare: rosso, il coraggio, bianco, la purezza, blu, la giustizia. Le stelle vennero aumentate all’aggiungersi di nuovi stati federati. Si giunse agli attuali 50. L’aggiornamento delle stelle avviene durante le celebrazioni per il 4 luglio (Indipendence day). La nascita della bandiera si celebra il 14 giugno (Flag day). 6 Gli intellettuali americani erano filosoficamente figli dell’Illuminismo e del pessimismo antropologico che paventava la degenerazione del popolo. 7 I sette articoli che formano la Costituzione si riferiscono soprattutto alla forma di governo, alla validità delle leggi, ai rapporti tra gli Stati e alla possibilità di modifica e integrazione della Costituzione stessa (emendamento). Alla Costituzione (quella americana è tra le più antiche al mondo ancora oggi in vigore, superata solo da quella della Repubblica di San Marino) si affiancò una Carta dei diritti, costituita dai primi dieci emendamenti ratificati nei primissimi anni di validità della Costituzione stessa. A questi se ne aggiunsero, nel corso dei secoli, altri 17. Negli emendamenti si va nello specifico delle libertà e dei diritti dei cittadini.
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Congresso8, l’esecutivo al Presidente9, il giudiziario alla Corte Suprema (quest’ultima si rese garante della Costituzione). Anche il governo federale non risolse il problema della schiavitù. Ci si interrogò su come contare gli schiavi ai fini di dare il giusto peso di rappresentanza ai diversi Stati. A quelli con un alto numero di africani, desiderosi, quindi, di far contare “uno” il singolo schiavo, rispondevano gli Stati che facevano minor ricorso alla schiavitù dicendo che, a quel punto, sarebbe risultato corretto conteggiare anche i capi di bestiame. Si giunse all’accordo che, in ottica di rappresentanza al Congresso, gli abitanti dei diversi Stati sarebbero stati contati aggiungendo al numero dei cittadini bianchi il numero di schiavi neri nella quota di 3/5.
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John Adams, sostenitore del bicameralismo, ispirò la divisione del Congresso in Senato (una sorta di gruppo di saggi – oggi 100 membri) e Camera dei Rappresentanti (sul modello di Camera del popolo – oggi 435 membri). 9 Al Presidente si affianca un Vicepresidente che subentra in caso di impossibilità a decidere del Presidente. Al vice spetta anche la presidenza del Senato, e qui il suo voto, in caso di parità, può spostare gli equilibri. Al vice, infine, possono essere affidati incarichi speciali.
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6. La rivoluzione industriale
Il take off e la prima rivoluzione industriale. Solitamente, si individua, negli anni che vanno dal 1770 al 1850, quella che viene definita Rivoluzione industriale. Il termine denota, è ovvio, uno stravolgimento nelle tecniche di produzione. In realtà, il cambiamento fu sì profondo e potentissimo, ma non improvviso. Fu l’Inghilterra il Paese a conoscere, per primo, un forte aumento della produzione industriale nel corso del secolo XVIII. L’agricoltura, prima di assoggettarsi ai nuovi modelli di pensiero dettati dalla produzione meccanizzata, provò a reagire con nuove organizzazioni: si eliminarono i territori a maggese (riposo ciclico) e si estesero le recinzioni a tutto il terreno disponibile, eliminando, di fatto, le terre libere e aggravando la situazione di tanti contadini, già poveri. Nel 1780 vi è il vero e proprio decollo (take off): vi fu un repentino aumento quantitativo e un parallelo miglioramento qualitativo dei prodotti. Londra è, nel Settecento, il centro commerciale più importante al mondo: da qui partono e qui arrivano quantitativi enormi di prodotti da Africa e America. Occorre produrre per alimentare questo sistema. E le vecchie tecniche, pseudo-artigianali, non bastano più. È soprattutto il tessile a chiedere novità. Un primo passo in avanti viene fatto inventando nuove macchine per la filatura, comunque ancora collocate in case private (spinning jenny, 1765). Tra 1784 e 1787, Cartwright inventa il telaio meccanico, ma la vera e propria diffusione si ebbe nel corso degli anni Venti dell’Ottocento. E sarà proprio con il nuovo secolo, il XIX, che il modello di produzione cambierà radicalmente: l’utilizzo di mutate fonti energetiche, obbligò a radunare i macchinari in siti più grandi, inizialmente “nomadi” perché legati alla presenza di foreste, il cui legname era indispensabile per produrre il vapore necessario a muovere le macchine. Sarà il passaggio al coke a slegare la produzione dalla presenza di foreste. Si tenga presente che, tra il 1750 e il 1850, l’Inghilterra vide il suo prodotto interno lordo moltiplicarsi di circa sette volte. E nel 1829, non va dimenticato, si inaugura anche la prima ferrovia, privata, definibile come moderna: è la Manchester-Liverpool. 55
Ci si è chiesti perché proprio l’Inghilterra creò le condizioni favorevoli all’esplosione del fenomeno industriale. Tra le molte ragioni, possiamo ricordare: notevoli capitali a disposizione; agricoltura di modello capitalistico; fenomeno delle recinzioni utile a espellere i contadini dalle campagne; ricchezza di materie prime (carbone, ferro); commercio internazionale sviluppatissimo che fornisce materie prime e domanda di prodotti; forti investimenti in infrastrutture e trasporti; classe dirigente moderna e ormai totale assenza di vincoli di tipo medievale. Si diceva poco sopra che energia nuova prevede siti nuovi: nasce, quindi, la fabbrica. L’orizzonte viene tagliato dal simbolo dell’industrializzazione: la ciminiera. Il fenomeno sociale più rilevante fu sicuramente la concentrazione di manodopera e tutto ciò che essa comportò. Donne e bambini si inseriscono nella catena produttiva, ovviamente senza alcuna tutela particolare. Le figure più gracili e agili risultavano più idonee a svolgere determinate mansioni. Folle di operai si spostarono verso le periferie delle città, dando vita a quartieri operai, molto degradati, in cui tanta povera gente andava a cercare riposo dopo turni di tredici o quattordici ore. Qui si diffusero prostituzione, alcolismo e delinquenza. Questo malessere non tardò a produrre fenomeni di carattere politico. Il generale Ludd, ad esempio, tra il 1811 e il 1812, diede vita al fenomeno del luddismo: i suoi uomini distrussero macchine di fabbrica per ribellarsi alle pessime condizioni di vita cui i lavoratori erano costretti. D’altro lato, Robert Owen, proprietario di un cotonificio in Scozia, prova a far nascere, negli USA, un villaggio di modello socialista. Venne fondato New Harmony (1825 – 1827): non vi erano proprietà privata, religione e matrimonio. Inoltre gli operai partecipavano alla gestione della fabbrica vicina e gli utili. Al di là dell’esperienza di Owen, presto fallita, le proteste operaie vennero spesso represse nel sangue. Negli Anni Venti dell’Ottocento nascono i primi sindacati, le Trade Unions. Nel 1833 venne firmato il Factory act: vennero vietati l’attività notturna nell’industria tessile e, comunque, il lavoro, per più di otto ore, ai bambini di tredici anni. Tra i tredici e i diciotto anni, si poteva arrivare a un massimo di dodici ore.
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La crisi e la seconda rivoluzione industriale. Tra il 1870 e il 1890 l’Europa conobbe un ventennio di forte rallentamento, una sorta di grande depressione. La crisi toccò anche il settore agricolo: le granaglie che arrivavano da paesi stranieri portarono a una significativa diminuzione dei prezzi. Ciò portò, da un lato, alla richiesta, da parte dei produttori, di protezionismo doganale, dall’altro al miglioramento delle tecniche produttive. Il liberoscambismo ottocentesco venne meno (e non poche saranno le ripercussioni sul fenomeno imperialista e sugli scontri internazionali) e si aprì la forbice tra agricoltura sviluppata e arretrata. L’industria, nel frattempo, era andata in sovrapproduzione, e anche questo ebbe forti ripercussioni sul fenomeno imperialista e sui flussi migratori. Una vera e propria rivoluzione nelle tecniche produttive si ebbe con l’introduzione dell’acciaio, anche se, a dare la vera scossa, furono chimica, petrolio ed elettricità. E i “grandi del mondo” che gestiscono questi elementi diventano assoluti monopolisti, anche perché chiudono il cerchio tra ingenti capitali e politica. Quest’ultima si lega a filo doppio al mondo degli affari e ciò genera protezionismo, sostegno all’industria pesante e una politica estera molto aggressiva che prese, come già citato, il nome di imperialismo (1870 – 1814). Internamente, invece, nacque la società di massa. Solo per riassumere alcuni degli elementi che la caratterizzarono, ricordiamo: diffusione della tecnologia, sistema scolastico pubblico, nazionalizzazione e integrazione delle masse, diffusione dei quotidiani e libertà di stampa, ricerca del consenso da parte della politica, fotografia, cinematografo, gestione del tempo libero (calcio) e diffusione, prima della bicicletta e, poi, dell’automobile.
Le teorie di due economisti: Adam Smith e Thomas Malthus. Adam Smith (1723 – 1790), scozzese, è da considerarsi, di fatto, il padre della moderna scienza economica. Figlio dell’Illuminismo, egli non conobbe la rivoluzione industriale matura. Smith inizia la sua riflessione a partire dalla positività dell’egoismo: si vende il proprio lavoro solo per profitto. C’è una “mano invisibile” che regola i diversi egoismi: si tratta del mercato, dove impera la legge della domanda e dell’offerta. Lo Stato non deve 57
intervenire nelle questioni economiche che il mercato può gestire in proprio. Nasce, così, il liberismo. A ciò si associa il libero scambio delle merci. Smith condanna, quindi, il colbertismo e il protezionismo. Thomas Malthus (1766 – 1834), inglese, si dedicò a studiare la demografia inglese. Egli evidenziò che la popolazione cresce più velocemente delle risorse a disposizione. In questo disequilibrio, i poveri sono le prime vittime. La crescita della povertà porta l’industria a soffrire di crisi di sovrapproduzione. D’altro canto, lo Stato non deve preoccuparsi di assistere i poveri perché, come già detto, loro saranno i primi a cadere sotto i colpi del disequilibrio. Due le riflessioni conclusive di Malthus. Innanzitutto, ben vengano le epidemie e le guerre, perché esse riportano in equilibrio il bilancio tra risorse e abitanti, andando ad abbassare il numero, in particolare, delle fasce più basse della popolazione. Importante è, inoltre, controllare la riproduttività dei poveri, cercando, in qualche modo, di andare in controtendenza rispetto alle dinamiche introdotte dalla rivoluzione industriale che, avendo anticipato l’uscita dalle famiglie e l’età dei matrimoni, aveva fatto venir meno la rigida disciplina sessuale dei secoli precedenti.
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7. IL MARXISMO
I classici: Marx ed Engels. La nuova organizzazione sociale scaturita dalla rivoluzione industriale portò con sé un’ideologia socio-politica che tanto influenzò le vicende politiche del mondo dal secondo Ottocento in poi. Karl Marx (1818 – 1883) non conduce, come invece aveva fatto Kant, la vita del filosofo. Egli si muove per l’Europa tra espulsioni, organizzazioni operaie, attività politica
e
scrittura
(si
dedicherà,
in
particolare, a quell’opera monumentale che è Il capitale). È stato pensatore di culto, una vera religione fino agli anni Settanta (valeva la domanda: “Sei cattolico o marxista?”). E le sue furono opere di culto, appunto. Ricordiamo: Il capitale, Il manifesto del partito comunista, L’ideologia tedesca, I manoscritti economico-filosofici, La sacra famiglia, I lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. Oggi il marxismo non è più punto di riferimento (il postmodernismo ha mostrato il fallimento delle grandi interpretazioni ideologiche della storia), ma sono importanti le sue implicazioni e ciò consente di riconsiderare i testi scritti in modo più sereno. Insieme a Marx lavora un coetaneo, Friedrich Engels (1820 – 1895). I due vivranno a stretto contatto, soprattutto a Londra, anche perché Engels, benestante, finanzierà Marx. Rispetto A Marx, Engels applica le leggi della dialettica, non solo alla società ma anche alla natura. Marx applica le leggi della dialettica hegeliana alla comprensione della storia, mentre Engels sviluppa un materialismo di ispirazione positivistica, intendendo le leggi della dialettica come paradigmi scientifici per spiegare la natura.
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Concetti chiave del marxismo: ideologia. La parola ha origine nel Settecento francese. Nel marxismo essa ha a che fare con la falsa coscienza, che non è, però, sinonimo di bugia. Torna a galla il sospetto: devo considerare vero tutto ciò che ritengo certo, indubitabile? Sì, ma si deve porre l’attenzione sul punto di osservazione, sul livello sociale dal quale si guarda. Se sei un grande capitalista, è pensabile che ciò che ti appare evidente sia funzionale ai tuoi interessi, anche se ti sforzi per non avere storture nella tua lettura della realtà. Ciò avviene anche a causa di radicati pregiudizi etici e sociali. Quindi, potremmo definire l’ideologia come “coscienza certa di sé, del tempo in cui si vive, ma che non si accorge di dipendere storicamente da una condizione economico-sociale di cui è proiezione, o sovrastruttura”. È nel discorso hegeliano che si trovano le radici della riflessione sull’ideologia, in particolare, nelle polemiche tra destra e sinistra hegeliana. La differenza sta nel rapporto tra religione e filosofia di Hegel. Egli pensava allo sviluppo dell’umanità come a una progressiva appropriazione del mondo da parte dello spirito. La filosofia deve innalzare la coscienza umana all’altezza dello spirito del mondo, deve impararne il linguaggio. Il singolo uomo deve comprendere lo spirito dell’umanità nel suo percorso di liberazione dalle catene del mondo. A questo serve la filosofia. E la religione, dove si colloca? Viene, al contempo, confermata e smentita. È vero, dice Hegel, che tutto ciò che la filosofia sostiene c’è già nelle Sacre Scritture. Lo stesso mistero della Trinità sta nella struttura triadica dello spirito. Io sono in un certo modo, faccio delle esperienze fuori di me, torno in me (tesi, antitesi, sintesi). Io mangio del cibo (1) che è altro da me (2) e il cibo diviene parte di me, ma modificato (3). E ancora: io sono in uno stato A (1), prendo coscienza di ciò che è fuori da me (2) e, presa coscienza, sono diverso da prima (3). In questa dialettica si muovono individuo e mondo. Questa struttura triadica, dice la destra hegeliana, è la conferma che la Trinità esiste. La sinistra, invece, sostiene che la verità è quella del filosofo, e la religione viene messa da parte. Marx si sentì legato, oltre che a Hegel , anche a Ludwig Feuerbach (1804 – 1872), autore tra le altre opere, anche di L’essenza della religione (1845). 60
Appartenente alla sinistra hegeliana, egli afferma che Dio è l’uomo alienato, cioè l’immagine della perfezione che l’uomo vorrebbe possedere e che proietta fuori di sé. La religione è fatto del passato; la verità è il presente filosofico dell’uomo. Dio diventa, a questo punto, una sovrastruttura della nostra condizione. Questo concetto di proiezione esterna dei nostri desideri, cui, poi, noi ci sottomettiamo, diventa fondamentale nella nozione marxista di ideologia. La sottomissione a una propria proiezione introduce, infatti, l’idea di alienazione. L’alienato è il pazzo, colui che è fuori di sé, che trova la verità fuori di sé. L’alienazione è anche trovare la verità in una produzione ideologica a sé esterna. Marx riprende questo concetto in un suo brevissimo scritto, Tesi su Feuerbach, e qui muove una critica alla visione feuerbachiana: in Marx l’ideologia è alienazione perché è un’inconsapevole proiezione dei rapporti di produzione delle merci su di un piano ideale e spirituale.
Concetti chiave del marxismo: materialismo storico e dialettico. Marx critica, di Feuerbach e dei materialisti, innanzitutto, l’idea che l’uomo che proietta sia un individuo tra le cose. Per Marx, l’uomo, differenza delle cose, sta agendo, operando, progettando, producendo, realizzandosi (è questa l’attività umana, ciò che Marx chiama “prassi”). È corretto, come dice Feuerbach, sostenere che l’uomo è materialità. Ma questa era ancora una visione legata al naturalismo; l’uomo era ancora visto come un individuo che concretizza la sua materialità nel bere, mangiare,… Per Marx, la concretezza materiale si trova nella relazione con gli altri e questa relazione risulta storicamente determinata, soprattutto dalla problematica economica (l’uomo ha, principalmente, bisogni fisici). Attorno alla nostra materialità nasce una socialità che è parte stessa della materialità. E il tutto cambia nella storia (mentre, per Feuerbach, l’uomo, nella sua concretezza materiale, è uguale in tutte le epoche). Per ricostruire la verità dell’ideologia, occorre quindi, come aveva insegnato Feuerbach, una ricomposizione della sovrastruttura con la verità della materialità, ma quest’ultima non può limitarsi al singolo individuo. Essa deve aprirsi alle relazioni 61
sociali, alla totalità storica. Ciò esclude anche quello che Marx chiamò “materialismo volgare” (ovvero “l’uomo è ciò che mangia”, ma, prima di sedersi a tavola, egli si è relazionato con il mondo, ha lavorato, ha guadagnato, ha comprato,…). Per scoprire la verità che sta dietro l’ideologia, dobbiamo, quindi, ricomporre sovrastruttura e materialità, visto che ciò che dice l’ideologia è falsa coscienza. In questo senso il materialismo storico è detto anche materialismo dialettico. La dialettica era, nella filosofia di Hegel, il modo per ricomporre l’unità degli opposti (tesi, antitesi, sintesi). Anche la concretezza materiale è concepita dialetticamente. La filosofia marxiana è stata tirata a essere anche una filosofia del mondo naturale, proprio nella sua componente dialettica (schematizzazione del mondo fisico attraverso strutture dialettiche, cioè tesi, antitesi, sintesi). Ciò è avvenuto, soprattutto in URSS, dove il materialismo dialettico applicato alle scienze ha fatto notevoli danni in quanto freno alla libertà di studio. Le ideologie sono sovrastrutture: la loro verità è la struttura, cioè la concreta condizione storico/economica. Lo stesso marxismo non dogmatico guardò al materialismo come chiave utile per studiare la società e non il mondo naturale.
Concetti chiave del marxismo: capitalismo, proletariato, lotta di classe. Materialismo storico e dialettico hanno, ovviamente, anche implicazione politica. Il materialismo legge l’uomo come entità materiale, ma la materialità dell’uomo non è tanto data dalla sua fisicità quanto dalla sua fisicità vivente socialmente (i suoi bisogni). Il materialismo storico ha una predilezione per l’economia, perché questo è l’aspetto principale della fisicità vivente socialmente. Nello studio del materialismo in chiave dialettica, Marx elabora alcuni concetti. Studiando la materialità economica, Marx scopre il meccanismo di formazione del capitale. Suo punto di partenza è l’economia politica da approfondire in chiave dialettica. La disciplina aveva sempre interpretato i fenomeni secondo la staticità, come essi fossero strutture naturali (sul modello delle orbite dei pianeti) di cui vanno
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individuate le leggi. Marx, invece, sostiene che quelle strutture sono storicamente divenute, non sono naturali (fisse). Ne Il capitale il filosofo analizza “l’arcano della merce”. Quando ci serve qualcosa, noi agiamo nello schema: M – D –M ovvero merce – denaro – merce. Fuori di schema, devo produrre qualcosa (M) per venderlo, ricavare denaro (D) e comprare qualcos’altro (M). Vendo il mio lavoro per avere denaro e comprare, ad esempio, delle scarpe. E questo è un meccanismo tutto incentrato sul valore d’uso. Normalmente la grande economia funziona, però, in maniera diversa. Essa si muove nello schema: D–M–D ovvero denaro – merce – denaroAvviene che qualcuno abbia del denaro (D), che adopera per produrre delle merci (M) utili per avere altro denaro (D). Qui il focus è sul denaro, sullo strumento di scambio. Siamo indipendenti dalla merce prodotta. Le holding, ad esempio, producono di tutto. E lo stesso schema è seguito dai finanzieri. Il capitalismo lavora sullo schema D – M – D. Possiamo sempre chiederci dove il capitalista abbia preso il primo denaro da cui far partire la dinamica. Marx non accusa il capitalismo, ma sostiene che l’accumulo del capitale, anche di quello di partenza, avviene attraverso il plusvalore. Il lavoratore cede il proprio lavoro al capitalista, che ha denaro per potergli anticipare la paga prima di vendere la merce. Il valore prodotto con il lavoro ceduto non va tutto nelle tasche del lavoratore; una parte rimane all’azienda, al capitalista. Questo è il plusvalore. Questo plusvalore si accumula nel capitale ed entra nel circolo D – M – D. Tale dinamica fa nascere uno schema di sviluppo di possibilità nella storia. Il capitale crescerà su di sé, andando ad aumentare. Aumenteranno con esso i proletari, perché il circolo, per reggersi, avrà bisogno di aumentare gli addetti alla produzione 63
della merce. Questo aumento, con conseguente aggregazione di masse operaie, porterà a una proletarizzazione dell’umanità e a una concentrazione del capitale in poche mani. Da qui la necessità della rivoluzione, Due le conseguenze più evidenti: 1.
I lavoratori, riuniti e numerosi, andranno a maturare una sempre
più forte coscienza di classe. 2.
La classe proletaria è l’unica capace di vedere il mondo libera
dall’ideologia, perché quest’ultima è figlia degli interessi. Il proletario non ha interessi e, quindi, può vedere la verità della struttura. Il filosofo dovrà adeguarsi e rispecchiare la coscienza vera del proletariato. Per Marx la verità sta nella prassi concreta di una classe che è capace di vedere la verità perché è libera dall’ideologia. Il filosofo deve solo aiutare la classe a liberarsi dalle catene (figura dell’intellettuale organico).
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8. L’EUROPA DELLE NAZIONI
Gli echi della rivoluzione francese. Gli avvenimenti di Francia vennero accolti con entusiasmo da molti intellettuali europei, perché in essa videro un vento di novità che avrebbe portato nel continente il concretizzarsi di quei principi che erano stati teorizzati da Locke e dai tanti illuministi francesi. Non mancarono, però, le voci contrarie. Edmunde Burke (1729 – 1797), nel suo libro Riflessioni sulla rivoluzione francese, condanna i fondamenti filosofici dell’avvenimento. La rivoluzione, scrisse, fu tutta teorica nella distruzione di tutto il pregresso: ciò aveva dato il via alla cancellazione dei valori della tradizione e scatenato la follia omicida. Al contrario, le rivoluzioni inglesi avevano lavorato sulla realizzazione concreta di diritti. E se anche là il re era stato deposto e decapitato, ciò non aveva significato, in toto, l’accettazione delle teorizzazioni di Locke. Anche Joseph de Maistre (1753 – 1821), a partire da posizioni di radicato pessimismo antropologico, vide nella rivoluzione il manifestarsi dell’aspetto negativo di un mondo in preda alla violenza. La Natura non è madre. Su questa linea si muoveranno anche poeti italiani a lui contemporanei quali Leopardi e Foscolo, ma, mentre nei due lirici ci fu un profondo ateismo, in de Maistre fu forte il credo cattolico: il dolore ha funzione espiatoria e la violenza di piazza, rappresentata da patibolo e boia, sono fondamentali nel restituire ordine e giustizia.
La Restaurazione: il Congresso di Vienna (novembre 1814 – giugno 1815). Spento il fuoco napoleonico, era necessario, per le grandi potenze europee, fare un passo indietro rispetto alle concezioni illuministe-rivoluzionarie. Per ottenere questo, i vincitori si riunirono a Vienna per ratificare quanto era già stato delineato, in precedenza, nella Parigi abbandonata da Napoleone sconfitto a Lipsia. Si apriva, così, quella fase della storia europea che passò sotto il nome di Restaurazione e che segnò gli anni che andarono dal 1815 al 1848. Protagonisti del congresso viennese furono coloro che avevano sconfitto Bonaparte: l’imperatore austriaco Francesco II d’Asburgo, 65
e il suo potentissimo ministro degli esteri, principe Clemente von Metternich, il re di Prussia, Federico Guglielmo III, e il suo ministro, barone Hardenberg, lo zar di Russia, Alessandro I, e il suo ministro, duca di Nesselrode, e il primo ministro inglese, lord Castlereagh. Ai potenti d’Europa si aggiunse un uomo che, da un punto di vista diplomatico, costituiva un vero e proprio miracolo sulla scena internazionale: il ministro degli esteri francesi, principe di Talleyrand, servitore di Luigi XVI, il re che aveva lasciato la testa sul patibolo nel gennaio del 1793, nobile strisciato attraverso i mille pericoli della rivoluzione, collaboratore di Napoleone e, ora, plenipotenziario di re Luigi XVIII. A lui spettava il compito di convincere i grandi d’Europa a non infliggere una punizione esemplare alla Francia, magari dilaniandola in più parti e mettendo, di fatto, fine alla sua esistenza. Due furono i principi che mossero, almeno teoricamente, il Congresso di Vienna: legittimità ed equilibrio. In base al principio di legittimità, sui troni europei sarebbero dovuti tornare i sovrani che “legittimamente” vi sedevano prima della Rivoluzione: fu proprio in base a tale assunto che la Francia non subì gravi mutilazioni e tornò, di fatto, a collocarsi all’interno dei confini del 1792, anno in cui aveva dichiarato guerra al resto d’Europa. Per il resto, Ferdinando VII di Borbone tornò sul trono di Spagna, Giovanni VI di Braganza su quello del Portogallo, Ferdinando IV di Borbone su quello di Napoli e Papa Pio VII fece rientro a Roma. Ma fu, soprattutto, il principio di equilibrio a guidare le diplomazie riunite a congresso. I confini dell’Europa andavano ridisegnati in modo tale da evitare frizioni e scongiurare futuri focolai di guerra. Si scelse, quindi, di riportare indietro il tempo agli anni pre-rivoluzionari, di non smembrare la Francia (onde evitare di farla divenire sede di revanscismo nazionalista e punto di contatto tra le altri grandi potenze) e di circondarla di realtà rafforzate quali il Belgio, il Regno di Sardegna (che ottenne la repubblica di Genova) e la Prussia che, ottenuti Renania e Palatinato, andava a toccare i confini francesi. Comunque sia, Nella conservazione dei territori francesi, somma dei 66
principi di legittimità e di equilibrio, va cercato il vero capolavoro diplomatico di Talleyrand, ministro capace di trasformare una potenza sconfitta e oggetto di punizione in una realtà imprescindibile sulla strada della pace continentale a venire. È certo che il principio di equilibrio superò quello di legittimità. Ne è esempio tipico Venezia. La città lagunare avrebbe dovuto tornare a essere indipendente, quale era prima del trattato di Campoformio (atto con cui il “liberatore” Napoleone l’aveva ceduta agli austriaci), e, invece, venne lasciata all’Austria in modo tale che essa potesse rafforzarsi nell’unione con i territori lombardi che già possedeva (regno lombardoveneto). Da un punto di vista diplomatico il risultato cercato a Vienna fu ottenuto: se escludiamo la Guerra di Crimea, comunque combattuta al di fuori del massa continentale, l’Europa non conobbe più conflitti di estensione pan-europea fino allo scoppio della Prima guerra mondiale (1914). D’altro canto, però, il mancato rispetto del principio di autodeterminazione e l’irrigidimento del controllo da parte dei singoli sovrani suscitarono forti sentimenti di ribellione e di desiderio di libertà che sfociarono, ben presto, nei moti europei. Il principio di equilibrio ignorò totalmente la questione delle nazionalità e ciò preparò le rivolte dei decenni seguenti. Il Congresso di Vienna segnò, dunque, il trionfo dell’assolutismo. In quest’ottica di reciproco intervento tra corone va letta la nascita della Santa Alleanza tra Austria, Prussia e Russia: i tre monarchi assoluti si giuravano aiuto nel caso fossero scoppiate, all’interno dei confini, sommosse tali da pregiudicare l’ordine costituito. Erano, soprattutto, Austria e Russia, oltre all’impero ottomano, a sentire in maniera pressante, al loro interno, il problema delle nazionalità. La Prussia, invece, stava crescendo in forza militare e andrà, nel breve volgere di qualche decennio, a cercare un ruolo preminente all’interno dello scacchiere continentale. L’Inghilterra, estranea a questioni di reciproco intervento in caso di sommosse popolari, si limitò ad aderire alla Quadruplice Alleanza (1815): Russia, Austria, Prussia e, appunto, l’Inghilterra, si 67
impegnavano a rispettare la politica dell’equilibrio, pur senza ratificare reciproco aiuto militare. Non si dimentichi, per finire, la particolare situazione di due realtà che uscivano da Vienna ancora molto instabili: l’Italia risultava ancora divisa in Stati occupati da corone straniere e il mondo tedesco, pur semplificato nella sua frammentazione (si era passati dal oltre 300 Stati a 38), era ancora in condizioni di continuo fermento. Due zone d’Europa che, pur se al di fuori di grandi scontri europei, non aspetteranno molti anni a sollevare richieste di unità e indipendenza.
La Francia dopo Napoleone. Abbiamo già detto che, alla sconfitta di Napoleone, era stato imposto sul trono francese il legittimo sovrano, Luigi XVIII (1814 – 1824), fratello di Luigi XVI. Il re, già nel 1814, aveva promulgato una costituzione in cui, pur considerandosi ancora sovrano per volere divino, andava a concedere uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, libertà di culto, inviolabilità della proprietà privata e bicameralismo (una camera aristocratica di nomina reale e una a suffragio censitario). Nel 1824, a Luigi XVIII succede Carlo X (1824 – 1830), suo fratello. Egli riduce gli spazi di libertà e scioglie la Camera dei deputati. In quello stesso anno, il 1830, il popolo insorge e costringe Carlo X ad abdicare. A sostituirlo sul trono è Luigi Filippo d’Orléans (1830 – 1848), legato alla famiglia dei Borboni. Egli si fa nominare “re dei francesi”, accettando così che il potere gli arrivasse dal basso. Dalla Costituzione in vigore venne cancellato il preambolo voluto da Luigi XVIII: dalla concessione si passava, quindi, all’idea di contratto sociale stipulato tra sovrano e popolo. Il voto rimaneva, comunque, censitario.
I moti del 1820-1821. I primi disordini contro l’ordine disegnato a Vienna scoppiarono in Spagna, a Cadice. I rivoltosi ottennero da re Ferdinando VII di Borbone il ripristino della Costituzione del 1812. Moti analoghi seguirono a Napoli, a Palermo e in Piemonte. Si chiedono Costituzioni di modello napoleonico. Assegnare un soggetto al verbo “chiedere” non è operazione semplice. Le popolazioni, infatti, non sono davvero coinvolte nel processo di preteso riconoscimento dei propri diritti politici. Ad 68
agire sono le élite, spesso nobili e alto-borghesi, filo-francesi, organizzate in società segrete su modello massonico. La più attiva, a livello italiano, fu la Carboneria, gruppo organizzato piramidalmente, a più livelli, con segretezza tra i diversi gradini gerarchici e forte di un linguaggio segreto. Nella Carboneria militavano, soprattutto, nobili e militari: il contatto con la popolazione era, di fatto, nullo, e ciò costituì il vero limite della società. Nel corso di questa ondata insurrezionale fu arrestato, tra gli altri, anche Silvio Pellico, direttore, a Milano, della rivista Il Conciliatore: egli, dopo la carcerazione in Moravia, nel famigerato carcere Spielberg, pubblicò il celebre testo Le mie prigioni. Anche in Russia vi fu un tentativo di insurrezione, il movimento decabrista (dicembre 1825): anche in questo caso, come per tutti i tentativi degli anni Venti, si giunse a un nulla di fatto. Il solo caso in cui l’ordine viennese fu modificato da un moto degli anni Venti fu costituito dalla Grecia: il paese, cristiano, si ribellò alla stringente oppressione turca. Violando il principio viennese del non-intervento, Francia, Inghilterra e Russia soccorsero la popolazione greca e ottennero per il Paese l’indipendenza (pace di Adrianopoli, 1829). La corona di Grecia fu offerta a Ottone I di Wittelsbach, nobile bavarese. I moti del 1820-1821, di fatto inutili sul piano socio-politico-istituzionale, ebbero, forse, un solo grande merito: iniziarono a insegnare ai capi della rivolta che la soluzione segreta era improponibile perché destinata a essere soffocata nel sangue di pochi congiurati. Per il resto, la Santa Alleanza aveva mostrato di essere un efficace strumento di intervento militare pronto a spegnere qualsivoglia tentativo di sovvertire l’ordine nato al tavolo delle diplomazie riunite a Vienna.
I moti del 1830-1831. La cacciata di Carlo X dal trono di Francia e la sua sostituzione con Filippo d’Orléans suscitarono grandi speranze in Europa. Primi tra tutti, i belgi, che, cattolici e soffocati dall’obbligo, imposto a Vienna, di far parte di quei Paesi Bassi controllati dall’Olanda, insorsero. E il Belgio, di fatto, ottenne il riconoscimento della propria indipendenza grazie alla neutralità della Francia orleanista. 69
Forti spinte insurrezionali vi furono anche in Italia. A sollevarsi furono Modena, Parma, Bologna e le legazioni pontificie, tutte convinte dell’intervento a proprio favore della Francia. Quest’ultima, però, non tardò a rassicurare le potenze europee riguardo il suo non-intervento. La Santa Alleanza intervenne, quindi, senza timore di mutare l’ordine internazionale e, in pochissimo tempo, sedò le rivolte. Anche le rivolte degli anni Trenta, se escludiamo il Belgio, non ebbero effetto alcuno. Mostrarono, però, che la Francia, pur tornata in mani monarchiche, non poteva più essere considerata un serio alleato nella gestione dell’ordine europeo.
Giuseppe Mazzini. Il fallimento dei primi moti insurrezionali italiani suscitò dubbi e ripensamenti in molti degli intellettuali impegnati nella ridefinizione del ruolo politico della penisola italiana. Tra questi, l’avvocato Giuseppe Mazzini (Genova, 1805 – Pisa, 1872). Egli, medico mancato, laureato in legge, ma, molto più noto come uomo politico, giornalista e filosofo, si convinse che l’Italia aveva bisogno di un progetto unitario, e non di singole insurrezioni. La penisola risultava, in quel periodo, divisa tra Lombardo-Veneto, dominato dagli austriaci, Parma, Modena e Toscana in mano a famiglie imparentate con gli Asburgo, Regno di Sardegna e Piemonte, guidato dai Savoia, il regno della Chiesa e il Regno delle Due Sicilie, in mano ai Borboni. Il popolo, tutto, doveva ribellarsi, all’unisono. Nel 1831, Mazzini fondò la Giovane Italia, un movimento che si proponeva di rinunciare, quanto più fosse possibile, alla segretezza, in modo tale da coinvolgere davvero le masse e spingere verso l’unificazione del Paese. Mazzini non si riconosce nei dettami della Chiesa di Roma, ma crede in Dio e nella Sua volontà di pace e libertà per gli uomini. Qualche storico ha definito l’uomo politico più vicino a un’impostazione protestante della propria religiosità. Comunque sia, costruire la libertà dello Stato è un dovere, dettato dalla stessa Essenza divina. E l’Italia, con la sua complicata situazione, ha un ruolo fondamentale perché deve dare l’esempio a tutte le popolazioni del Vecchio continente oppresse dalla dominazione delle grandi potenze. In quest’ottica va letta, nel 1834, la fondazione della Giovane 70
Europa. Al centro della teorizzazione mazziniana c’è l’idea di nazione, ma non il nazionalismo violento. Mazzini vuole un’Italia unitaria (quindi, non federale), repubblicana (quindi, con potere che appartiene al popolo e non a un sovrano) e democratica (quindi, con suffragio universale). La rivoluzione non dovrà, però, essere di ispirazione marxista, ideologia di cui rifiuta la vena ateo-materialista. La lotta, dovrà, comunque, andare incontro alle esigenze operaie: siamo ben lontani, quindi, dalle posizioni liberali di chi condannava le rivendicazioni dei ceti subalterni, ritenute pericolose perché destabilizzanti nelle loro potenziali derive anarchiche. Mazzini rifiuta, inoltre, il concetto liberale-romantico di esaltazione dell’individuo: ciascuno deve sacrificarsi per lo Stato e non voler brillare di luce propria. I tentativi insurrezionali di Mazzini, collocati tra gli anni Trenta e Quaranta, si risolsero in un totale fallimento. Le idee che muovevano i mazziniani erano ancora sentite come estranee da popolazioni che, spesso, insorsero contro gli stessi rivoltosi. Si pensi al caso dei fratelli Bandiera, morti in Calabria nel 1844, o a quello, più in là nel tempo, di Carlo Pisacane, che dopo aver accusato Mazzini di non aver dato risposte sociali alla popolazione prima di lavorare sull’unità del Paese, si fece socialista e intraprese una spedizione in Campania che lo portò a morire (2 luglio 1857), suicida, per non cadere nelle mani dei soldati borbonici e, comunque, dopo aver lottato anche contro la popolazione locale (sbarco di Sapri). In generale, possiamo affermare che il fallimento dei moti mazziniani è da attribuirsi a due ragioni principali: innanzitutto, il distacco tra gli intellettuali-ideologi e il popolo rimase troppo ampio e, pur se non era più così nelle intenzioni, le insurrezioni rimasero malate di quel germe di segretezza che aveva fatto implodere anche i tentativi precedenti. In secondo luogo, ma con forti legami con quanto appena detto, Mazzini fece dell’unità d’Italia, nazione finalmente libera dagli stranieri, una sorta di idolo in grado di oscurare qualsivoglia altra primaria esigenza, ivi comprese anche quelle riforme sociali senza le quali la popolazione mai avrebbe abbracciato una proposta di cambiamento. Si può dire, insomma, che l’ingegneria delle istituzioni
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superò la proposta sociale, e questo non fece scaturire quell’entusiasmo popolare che, solo, avrebbe creato un’insurrezione dal basso.
Vincenzo Gioberti: il neoguelfismo.
Pur lontana dall’ideologia mazziniana, va
menzionata anche la proposta di Vincenzo Gioberti, sacerdote, autore di Del primato civile e morale degli italiani (1843). Il Gioberti proponeva una federazione di Stati guidata dal Papa. Il progetto pareva trovare riferimento nell’elezione di Pio IX (1846). Il neoguelfismo proposto dal sacerdote trovava, però, una serie di ostacoli. Vi erano contrarie, com’è ovvio, le correnti illuministe e anticlericali diffuse nel paese; quelle, per intenderci, che, da Machiavelli in poi, avevano visto nella Chiesa la principale causa di disgregazione della penisola. Ma alle proposte di Gioberti si opposero anche i gesuiti, convinti com’erano che egli volesse strumentalizzare il ruolo della Chiesa, e lo stesso papato, che sentiva per sé stretto ruolo di unificatore d’Italia dinanzi all’universalità del suo ruolo di evangelizzatore delle genti.
I prodromi del 1848 in Italia: lo Statuto Albertino. L’Europa pareva aver raggiunto, con gli accordi di Vienna, una stabilità a livello macropolitico: le grandi potenze avevano definito le loro aree di influenza in modo tale da evitare frizioni e conseguenti guerre. Rimaneva, però, a bruciare sotto la cenere, la questione micropolitica
delle
popolazioni soggiogate da
forze
straniere. Il mancato
riconoscimento dell’autodeterminazione dei popoli aveva creato, negli anni successivi al crollo napoleonico, una vera e propria Santa Barbara, le cui polveri presero, tutte assieme, fuoco, nel Quarantotto, anno passato alla storia come “primavera dei popoli”. Nel Regno di Sardegna, dinanzi ai moti scoppiati in gran parte d’Italia, Carlo Alberto di Savoia concesse una legge nota con il nome di Statuto Albertino (4 marzo 1848). Lo Statuto si trasformerà, nel 1861, nella prima Costituzione italiana e rimarrà in vigore sino alla caduta della monarchia (referendum del 2 giugno 1946) e alla successiva promulgazione della 72
Costituzione repubblicana (1 gennaio 1948). Come in Francia, anche qui fu il re a concedere, dall’alto, la carta. Al re stesso continuano a rispondere i giudici (potere giudiziario) e i ministri (potere esecutivo). Egli può, inoltre, respingere le leggi che arrivano dal parlamento. Il sistema è bicamerale e si compone di un senato di nomina regia e di un parlamento eletto a suffragio censitario. La caratteristica, forse, più significativa dello statuo fu la sua flessibilità: esso poteva essere variata con legge ordinaria. Tale flessibilità, virtù in linea di principio, si mostrerà, nel corso della storia, in vizio. Lo stesso fascismo, tra gli anni venti e Trenta del Novecento, facendo leva sugli ampi spazi di manovra concessi dalla Costituzione albertina, fu in grado di far passare pacchetti di legge liberticidi, di volta in volta adeguando lo Statuto e rendendo, così, ad esso rispondenti le leggi stesse. Non fu un caso che il regime mussoliniano, pur al potere per oltre vent’anni, non avvertì l’esigenza di scrivere una propria costituzione, e che la successiva carta repubblicana venne pensata assolutamente blindata dai costituzionalisti, così rigida da risultare difficilmente modificabile se non dopo ripetuti passaggi camerali. Di segno totalmente opposto, invece, la famosa costituzione statunitense: costituita di pochi articoli e successivi emendamenti, definenti ampi principi, essa si fa forte della tradizione consuetudinaria anglosassone (un diritto fondato sulla memoria d’uso del passato più che sulle leggi scritte) e su una radicata convinzione liberale.
Il 1848 in Francia e il secondo impero. Lo scoppio di gravi tumulti a Parigi costrinse il re, Luigi Filippo, ad abdicare. Fu questa la prima occasione in cui si assistette al formarsi di barricate stradali, chiaro indice della natura popolare dell’insurrezione. Alla caduta del re, si istaurò un regime repubblicano e democratico. Le rivendicazioni assunsero presto anche una connotazione di matrice operaia, e ciò preoccupò fortemente la borghesia. È proprio nella Francia del quarantotto che la borghesia francese, spaventata dalle possibili derive socialiste, smise di essere una forza rivoluzionaria e si spostò verso il conservatorismo.
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La paura dell’insurrezione operaia si diffuse in Europa. Il 10 dicembre 1848, Luigi Napoleone, nipote di Bonaparte, imperatore dei francesi, venne eletto presidente della repubblica. All’elezione seguirà, il 2 dicembre 1851, un colpo di Stato che porterà il presidente
a
proclamarsi,
nell’anno
successivo,
Napoleone III, imperatori dei francesi. Inizierà, così, il secondo impero.
Il 1848 in Italia. L’insurrezione parigina trovò esito anche fuori dai confini. I popoli d’Europa si sollevarono: insorsero gli austriaci, gli ungheresi e i cechi. Metternich, il demiurgo di Vienna, fu costretto ad abbandonare il potere. In Italia, è Venezia la prima città a insorgere contro il dominio asburgico (17 – 22 marzo 1848): essa si dichiara repubblica. Inizia così la Prima guerra d’indipendenza. Il giorno successivo, il 18 marzo, sono i milanesi a scendere nelle piazze e a costringere gli austriaci a ritirarsi (cinque giornate di Milano, dal 18 al 22 marzo 1848). A questo punto, re Carlo Alberto di Savoia, per scongiurare ulteriori problemi nel proprio regno, dichiara guerra all’Austria. È in questa fase che si emerge, tra le diverse ipotesi, quella federalista di Carlo Cattaneo: egli, repubblicano, pensa al modello statunitense e rifiuta la centralità del re. Pensa, invece, a una aggregazione di diverse realtà territoriali che, una volta libere, decidano di condividere alcune funzioni, pur mantenendo piena sovranità. E, per iniziare, Carlo Alberto pensa a un regno dell’Alta Italia e obbliga Lombardia e Veneto a unirsi al Regno di Sardegna. I piemontesi, però, vengono sconfitti dagli austriaci a Custoza (25 luglio 1848). Dopo la firma dell’armistizio, vi saranno, comunque, altri scontri tra i soldati dei Savoia e gli austriaci: gli italiani vennero definitivamente sconfitti a Novara, il 23 maggio 1849. Carlo Alberto decise di abdicare a favore di Vittorio Emanuele II. Nel 1849 caddero anche le Repubbliche di Roma (retta da Mazzini) e di Venezia. Insomma, la Prima guerra d’indipendenza (1848
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– 1849) fu, per l’Italia, un vero e proprio fallimento. Rimaneva, in eredità, lo Statuto albertino, che Vittorio Emanuele II non revocò.
L’Italia di Cavour. Dal 1850, il Piemonte iniziò a promulgare una serie di riforme. Il pacchetto più importante è costituito dalle leggi Siccardi: abolizione del foro ecclesiastico (tribunale a uso esclusivo dei religiosi), abolizione del diritto d’asilo nei luoghi sacri (qui si potevano rifugiare i ricercati, sicuri che mai, lì, sarebbero stati arrestati), obbligo di autorizzazione governativa, per gli enti religiosi, nel momento in cui essi avessero dovuto ricevere donazioni. In questa fase, compare sulla scena un nuovo ministro dell’agricoltura, cresciuto in clima inglese, lì resosi ferrato nella riforma agraria
in
senso
proto-industriale
e
avvicinatosi agli ambienti della potente massoneria britannica: Camillo Benso, conte di Cavour (1810 – 1861). Egli è un liberale moderato, convinto della bontà del modello monarchico-costituzionale inglese. Egli, quindi, rifiuta la repubblica e l’allargamento del voto che, secondo il conte, deve rimanere strettamente censitario. Solo le riforme potranno prevenire le riforme. Se l’Italia vorrà liberarsi dall’influenza straniera, occorrerà far lavorare la diplomazia e muovere una guerra piemontese che allontani l’idea delle insurrezioni isolate. Per ottenere il risultato della libertà dallo straniero, serve, innanzitutto, una forte maggioranza politica: ecco perché Cavour promuove il Connubio, ovvero una grande alleanza tra progressisti e conservatori. Nel 1852, Cavour è primo ministro. Inizia, così, la sua opera di modernizzazione. Si apre, innanzitutto al liberismo economico: viene incentivata la produzione agricola piemontese, i cui prodotti verranno esportati in Inghilterra in cambio di manufatti. Vengono, inoltre, potenziati, a carico dello Stato, i primi veri segni della modernità: si potenziano telegrafo, ferrovia e strade. Il nord Italia inizia a chiudere la forbice che lo differenzia dal resto d’Europa. Il divario rimane ancora molto ampio, soprattutto in 75
termini di sviluppo industriale. E c’è un altro elemento negativo che si lega alle riforme cavouriane: il bilancio statale ne risulta pesantemente indebolito.
La Guerra di Crimea. La Grecia, liberatasi, nel 1830, dalla dominazione turca, mostrò al mondo la debolezza dell’impero ottomano. Della situazione volle approfittare la Russia, la quale mirava al libero passaggio negli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, una vera e propria autostrada di mare che collega il Mar Egeo al Mar Nero. Il rifiuto turco all’apertura degli stretti, dovuto anche al timore che i russi possano trasformarsi in protettori dei cristiani ortodossi presenti nella regione, è la scintilla che fa esplodere la polveriera: la Russia dichiara guerra all’Impero ottomano. Francia e Inghilterra, preoccupate dal possibile sconvolgimento dell’equilibrio europeo dovuto a un’eccessiva crescita della Russia, si schierano a favore della Turchia. La guerra si svolge nella penisola di Crimea (siamo nel sud della Russia, nella parte nord del mar Nero), tra il 1853 e il 1856. Francesi e inglesi, forti dei nuovi fucili a canna rigata (si passa dai 200 metri delle armi precedenti a circa 900 di gittata), costringono i russi a chiudersi nella fortezza di Sebastopoli, dove si assistette a uno dei più celebri assedi della storia. Si arrivò a contare circa 250.000 morti, soprattutto a causa di una nuova malattia giunta dall’India: il colera. La guerra si concluse con il trattato di Parigi (1856).
L’internazionalizzazione della questione italiana. La Guerra di Crimea era ben lontana dagli interessi italiani. Nonostante questo, Cavour volle mandare un gruppo militare appena costituito, i bersaglieri, a dare sostegno agli anglo-francesi impegnati nell’assedio di Sebastopoli. La mossa aveva carattere esclusivamente diplomatico: la presenza nel conflitto permise al primo ministro di partecipare al Congresso di Parigi e prendere contatto con i francesi, comunque preoccupati della presenza inglese nel Mediterraneo. La questione italiana diventava internazionale. Gli ammiccamenti di Parigi portarono l’Italia e la Francia di Napoleone III a sottoscrivere gli accordi di Plombiers (21 luglio 1858): la Francia avrebbe soccorso i piemontesi nel caso in cui vi fosse stato un attacco da parte degli austriaci. In caso di vittoria della coalizione franco-piemontese, il Lombardo-Veneto sarebbe passato sotto controllo piemontese, 76
Nizza e Savoia sarebbero andate ai francesi, l’Italia centrale sarebbe stata controllata da un principe francese, il regno delle Due Sicilie sarebbe rimasto ai Borboni e i tre regni d’Italia (nord, centro e sud) avrebbero formato una confederazione avente il Papa come presidente.
La Seconda guerra d’indipendenza. Occorreva, ora, provocare gli austriaci. Cavour non tarda a individuare l’uomo giusto, pur se ideologicamente lontanissimo da lui. Si tratta di un comandante di ventura, distintosi durante i giorni della repubblica romana: Giuseppe Garibaldi. Egli, di idee democratiche, socialiste e repubblicane, ben più vicino al popolo di quanto lo fosse Cavour, venne incaricato di raggruppare un gruppo di volontari. E così avvenne: il 29 aprile 1859, l’Austria, sentitasi provocata, dichiara guerra al Regno di Sardegna. Siamo allo scoppio della Seconda guerra d’indipendenza. I francesi, come stabilito dagli accordi di Plombiers, intervennero a favore dei piemontesi. Le battaglie furono molte e costituirono parte del mito del risorgimento italiano: Palestro, Magenta, Solferino, San Martino. I primi scontri segnarono una chiara vittoria per gli italo-francesi e ciò provocò l’insurrezione anche di Emilia, Romagna e Toscana. Napoleone III, però, dopo le prime fasi della guerra, comprese che non avrebbe potuto sostituirsi agli austriaci e stipulò, così, una pace separata con gli austriaci (armistizio di Villafranca, 11 luglio 1859). La Lombardia passava, sì, al regno di Sardegna, ma il veneto rimaneva austriaco.
La spedizione dei mille. La questione italiana era ben lontana dall’essere risolta dagli esiti dell’armistizio di Villafranca. Il 1° aprile 1860 Napoleone III accetta che Toscana, Emila e Romagna entrino a far parte del Regno di Sardegna.
Tre
giorni
dopo,
il
4
aprile,
esplode
un’insurrezione popolare a Palermo. È l’occasione che Garibaldi aspetta per guardare a un suo progetto più 77
grande: la liberazione del sud della penisola. Garibaldi raccoglie 1100 volontari, un piccolo esercito formato, per buona parte, da intellettuali e uomini privi di formazione militare e, comunque, male armati. Un passo avanti era stato fatto: il numero era ben più considerevole rispetto ai manipoli raccolti da Mazzini. I garibaldini, passati alla storia anche per la camicia rossa che alcuni di loro indossavano, andarono a inserirsi in una rivolta già scoppiata. I mille partirono il 5 maggio 1860 da Quarto, presso Genova, con due piccole navi, e sbarcarono a Marsala, il giorno 11 maggio, dopo aver raccolto, con un espediente, alcune armi durante il viaggio. Sconfitti i borbonici a Calatafimi, i garibaldini arrivarono a Palermo. Ci si potrebbe chiedere come un gruppo di uomini male armati e poco addestrati possa aver potuto attraversare il Mar Tirreno, sbarcare e vincere una marina e un esercito organizzati come quelli di Francesco di Borbone, re delle Due Sicilie. Va, innanzitutto, detto che lo sbarco delle navi garibaldine fu accompagnato dall’occhio attento della marina inglese, fortemente interessata a una rottura dell’equilibrio borbonico-francese in Mediterraneo. In quanto allo scontro tra fanterie, è ormai noto che la resa delle truppe di Franceschiello fu dovuta, soprattutto, alla massiccia corruzione diffusa tra gli alti ufficiali delle truppe borboniche. Garibaldi, comunque, dopo aver sedato con violenza l’insurrezione della popolazione di Bronte, può dire di avere sotto controllo la Sicilia. L’episodio di Bronte, rimasto, di fatto, impunito, è da attribuirsi all’azione spietata di Nino Bixio, braccio destro di Garibaldi: fu questo il segnale inequivocabile che il generale sapeva di aver bisogno della borghesia meridionale e non poteva, di conseguenza, tollerare derive socialistico-egalitarie nella sua marcia di avvicinamento al cuore della penisola. Il 7 settembre 1860 Garibaldi entrò in Napoli da trionfatore. E qui, forse all’apice del successo, subì la sua più grande e, sostanzialmente, definitiva sconfitta politica. Il condottiero, forte dei successi militari, credeva giunto il momento di liberarsi del suo grande avversario di palazzo: Cavour. In quel momento, però, a Vittorio Emanuele II risultava molto più utile l’acume politico del conte e la scelta fu, di conseguenza, quella di escludere Garibaldi dai progetti amministrativi che avrebbero fatto seguito all’avventura militare. 78
Il generale, in questo clima di delusione politica, riuscì a strappare ai borbonici (in realtà tutti soldati italiani pessimamente guidati da ufficiali inetti e poco vogliosi di combattere) la più grande vittoria: i garibaldini vinsero al Volturno e iniziarono una marcia verso nord che avrebbe trovato, come primo baluardo da vincere, i territori papalini. E ciò avrebbe reso la questione ben più seria, perché il Papa era difeso dai francesi e lo scontro, quindi, rischiava di internazionalizzarsi, sì, ma in senso nettamente contrario a ciò che avevano progettato Vittorio Emanuele e Cavour. È in quest’ottica che va letta, innanzitutto, la mutazione improvvisa del credo politica del conte di Cavour, improvvisamente trasformatosi da federalista convinto in cantore primo dell’unificazione. Cavour voleva evitare che Garibaldi marciasse su Roma. Per questo occorreva convincere Napoleone III che i piemontesi avevano bisogno dell’autorizzazione di occupare Romagna, Marche e Umbria, territori papalini, per poter evitare che una rivoluzione vera e propria scoppiasse, sull’onda dell’arrivo garibaldino, nel cuore della Città Eterna. Così avvenne. I piemontesi ottennero l’assenso francese, vinsero i papalini del centro-Italia e arrivarono a incontrare Garibaldi. Il generale non potette fare altro che consegnare il sud della penisola nelle mani del re: si tratta del celebre incontro di Teano (26 ottobre 1860). L’evento non avvenne, comunque, in quel clima di trionfalismo che spesso passa attraverso la retorica risorgimentale. In realtà, giungevano alla resa dei conti una corrente, quella democratico-rivoluzionaria, sconfitta, e un’altra, quella moderata-monarchica, vincitrice su tutti i fronti. A vincere era Cavour. Il 6 novembre Garibaldi schiererà le sue truppe (circa 15.000 uomini) per ricevere, quantomeno, il passaggio in rassegna, da parte del re, di reparti che avevano combattuto da eroi, negli ultimi mesi. Il re preferì entrare in Napoli da trionfatore e ignorare le gli schieramenti garibaldini.
Il regno d’Italia e i plebisciti. Il 17 marzo 1861, Vittorio Emanuele II è proclamato re d’Italia “per grazia di Dio e volontà della nazione”. Nasce una monarchia costituzionale (è in vigore lo Statuto albertino), censitaria (quindi, non democratica), retta da una classe conservatrice, percentualmente rappresentativa di una fetta davvero molto esigua della popolazione (non più del 2%, all’incirca lo stesso numero dei parlanti 79
italiano), con capitale Torino e mancante di due fette di territorio cospicue quali Veneto e Lazio. Le popolazioni chiamate a far parte del nuovo regno furono formalmente interpellate. La sola componente maschile venne convocata alle urne per esprime la propria opinione sull’ingresso nel nuovo regno d’Italia. Nacque, così, date le altissime percentuali di consenso, il mito dei plebisciti. In realtà, la possibilità di scelta era ben limitata, di fatto nulla, violentemente controllata, e l’annessione venne imposta a popoli che poco capirono della nuova situazione.
Fu piemontizzazione?
Va, innanzitutto, ricordato,
come si presentava quella parte di penisola che i garibaldini avevano conquistato e il re aveva accettato di governare. Le riserve oro del regno delle Due Sicilie erano circa i 2/3 dell’intera totalità del metallo prezioso presente nella penisola. Ciò fa capire perché, già nei primi mesi di controllo, i piemontesi riuscirono a far defluire dalle banche napoletane a quelle torinesi quantitativi ingenti di denaro liquido. Anche la situazione produttiva era di discreto valore. Non vi era, certo, vera e propria industrializzazione, ma ciò mancava anche nella parte nord del paese. L’agricoltura e il manifatturiero erano, comunque, in grado, di produrre a sufficienza per alimentare un buon flusso di esportazioni. I veri fattori di debolezza del regno di Francesco di Borbone erano, essenzialmente, dati dalla forte arretratezza infrastrutturale (strade e ferrovie, poche e pessime, rendevano il territorio difficilmente attraversabile), dalle enormi differenze sociali (vi erano amplissime sacche di povertà, degrado e analfabetismo) e da un elefantiaco, e obsoleto, apparato burocratico figlio della mentalità spagnola e delle posizioni di privilegio ottenute da tanto baronato di origine nobiliare e alto-borghese. Ci si chiedeva: fu piemontizzazione? Certo, la politica dei plebisciti non scioglie i dubbi, dato che il voto fu sostanzialmente pubblico e pilotato con sistemi di coercizione. Formalmente, lo stesso re non rinunciò all’ordinale di “secondo”: Vittorio Emanuele non volle divenire “primo” re d’Italia. La stessa legislatura che iniziò in quel 80
marzo del 1861 venne dominata come “ottava”, a continuazione di quelle sabaude, e non “prima”. Lo Statuto albertino fu esteso a tutto il regno (si rinunciò a istituire una nuova fase costituente) e così avvenne anche per i codici civile e penale, per la legge scolastica (legge Casati) e quella Rattazzi (ordinamento dei comuni, i cui sindaci erano di nomina regia, e delle province, controllate dai prefetti). La leva fu resa obbligatoria anche nei territori annessi, e questo fu uno dei provvedimenti che più alzò malcontento in popolazioni che si ritrovavano a militare in un esercito che non sentivano loro, spesso comandate da ufficiali, del nord, di cui non comprendevano la lingua. A ciò si aggiunga l’innalzamento della pressione fiscale, che, presto, divenne insostenibile per buona parte delle genti del sud, e l’estensione del liberismo doganale che, unito alle guerre economiche di confine con i francesi, resero inesportabili i prodotti meridionali e il sud stesso un vero e proprio mercato vergine in cui il nord poteva vendere le proprie merci. Per finire, l’apparato burocratico fu affidato a uomini del nord, in prevalenza piemontesi, che poco capivano, o volevano capire,, delle dinamiche meridionali. Più in generale, si può dire che la situazione socio-economica delle popolazioni meridionali non migliorò, quantomeno nel breve periodo. Certo, alcuni miglioramenti vi furono. Si alzò, gradualmente, il livello di alfabetizzazione, si diffusero libertà e senso di giustizia, si provò a far arretrare un baronato che lavorava ancora su pratiche medievali e, comunque, si promosse una cultura unitaria che si poneva alla base del concetto di “Italia”. Ma, è fuori di dubbio, vi fu piemontizzazione, vi fu guerra di conquista, per quanto casuale e, forse, non voluta nemmeno da quella Casa Savoia che si trovò a gestire la situazione.
Contemporaneamente, in Germania: Otto von Bismark e la nascita del Secondo Reich. Dal congresso di Vienna la Germania era uscita divisa in 39 Stati, riuniti in una confederazione presieduta dall’Austria. Nel 1848, a fronte delle rivolte scoppiate in territorio austriaco, si riunirono 600 deputati tedeschi e offrirono la corona di Germania a Federico Guglielmo IV, re di Prussia. Egli rifiutò, perché non 81
disposto ad accettare la corona dal basso. Non si dimentichi, comunque, che l’aristocrazia terriera (quella dei grandissimi proprietari terrieri, gli Junker) e l’alta borghesia tedesche avevano già fatto passi in avanti in senso economico: nel 1834 avevano voluto lo Zollverein, l’unione doganale tra gli Stati tedeschi. A ciò si era aggiunta la costruzione di una capillare rete ferroviaria in grado di unire la Germania ben prima di quanto riuscì a fare la politica. Spenta la rivoluzione, lo stesso re di Prussia concesse una Costituzione, ma senza alcuna volontà di far crescere il parlamento. Non è un caso che il nuovo re, Guglielmo I Hoenzollern, scelse quale ministro generale, un vero e proprio nemico del liberalismo: Otto von Bismark (1815 – 1898). Bismark si convince che la Prussia è pronta per diventare la potenza egemone del mondo tedesco, a scapito dell’imperatore asburgico. La Prussia può contare su una formidabile forza militare, costruita negli anni da uno Stato che si era dato come obiettivo quello di rendersi capace dia affrontare nemici territorialmente ben più importanti. Tutto ciò aveva trovato concretizzazione nel piano di riforma bellica approntato dal
ministro della guerra, Albrecht von
Roon. E proprio su questo argomento Bismark mostrò la sua natura: egli, convinto della bontà della riforma stessa, basata su ingenti investimenti in ricerca e tecnologia, sganciò la decisione dal parlamento e la delegò al solo esecutivo. Nel 1866 la Prussia dichiara guerra all’Austria. I prussiani, circa mezzo milione di soldati, vennero, per la prima volta, trasportati alle linee di fuoco attraverso la ferrovia (blietzkrieg, guerra lampo). I fucili utilizzati erano a canna rigata e gli uomini di Bismark possedevano armi a retrocarica (più pratici, affidabili, puliti e, soprattutto, rapidi). Le innovazioni tecnologiche iniziavano a fare la differenza su campo di battaglia e a rendere lo scontro su campo molto diverso.
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A Sadowa, in Boemia, i prussiani ottennero una grande vittoria, poi sancita dalla pace di Praga (agosto 1866). Era la rottura definitiva dell’equilibrio trovato a Vienna, nel 1815, e l’inizio della crisi dell’impero asburgico. Ciò spinse la Francia a incrinare i rapporti con Guglielmo I e Bismark. Ben presto si arrivò allo scontro, e l’esito fu, per i francesi, a dir poco umiliante. Il 2 settembre 1870, a Sedan, i prussiani ottennero una schiacciante vittoria, soprattutto grazie all’utilizzo delle nuove artiglierie a retrocarica, ben più potenti e precise. Lo stesso napoleone III, imperatore dei francesi, venne catturato su campo di battaglia. In Francia si proclama la repubblica e il 1° marzo 1871 il paese si arrende ai tedeschi. In Germania, invece, si procede all’unificazione. Il 18 gennaio 1871 nasce il secondo Reich, Guglielmo I è proclamato kaiser (imperatore) e Otto von Bismark cancelliere. Il nuovo Stato tedesco nasceva senza alcun contributo popolare, con un parlamento privo di poteri effettivi; poteri che, invece, erano tutti nelle mani di imperatore, cancelliere e governo. Si trattava di uno strano modello. Gli storici lo hanno definito “autocrazia democratica”: esisteva, di fatto, un Parlamento, eletto a suffragio universale, ma privo di poteri reali. In linea di principio, va fatto notare che l’unificazione tedesca nasceva con presupposti ideologici diversi da esperienze simili (si pensi a Italia e Grecia): se altri popoli si erano liberati da un oppressore straniero, il mondo tedesco guardava alla propria naturale superiorità che avrebbe avuto, come esito naturale, la vittoria su altri popoli. Bismark si distinse, si è già detto, per un vero e proprio anti-liberalismo. Marxisti e cattolici furono trattati molto duramente. Industrializzazione pesante, autoritarismo e militarismo erano le basi su cui era nato il Reich. Il cancelliere chiuse il Paese in un vero e proprio isolazionismo economico che, a lungo termine, avrebbe spinto alla ricerca di nuovi spazi e condotto la Germania alla corsa imperialistica. Otto von Bismark è noto, anche e soprattutto, per la sua Real politik, termine traducibile con “politica realistica”, ovvero cinismo, calcolo politico, ambivalenza, opportunismo. Egli seppe, a livello interno, appoggiarsi alle istanze della classe più debole, facendovi leva per attenuare il potere della classe più forte, salvo, poi, 83
cambiare posizione una volta raggiunto l’obiettivo. In politica estera, dopo aver utilizzato tutta l’aggressività possibile, si fece garante dell’ordine europeo, proprio quando intuì che ulteriori scatti in avanti avrebbero potuto mettere in pericolo il Reich. Lo stesso Congresso di Berlino (1878), voluto proprio da Bismark per cristallizzare la situazione geopolitica, va letto in quest’ottica.
Ancora in Italia: le annessioni di Veneto e Roma. Si è detto sopra che, per dirsi sostanzialmente completa, l’unità d’Italia doveva passare dalle annessioni dei territori veneti, in mano agli austriaci, e papalini. La sconfitta che gli austriaci subirono a Sadowa, nel 1866, andò a risolvere la prima questione. Gli Asburgo, indeboliti dalla sconfitta, non riuscirono a resistere all’attacco delle truppe italiane. È la terza guerra d’indipendenza. Gli italiani, pur sconfitti per terra (Custoza, 24 giugno 1866) e per mare (Lissa, in Adriatico, 20 luglio 1866), ottennero in dote il Veneto da una vittoria, quella di Sadowa, appunto, ma dei prussiani di Guglielmo I, e non dell’esercito sabaudo. La stessa Ungheria ottenne una forte autonomia amministrativa: si trattava, come già accennato, di qualcosa di più di uno scricchiolio nel gigante imperiale asburgico. Nel frattempo, la capitale del regno d’Italia si era spostata, nel 1865, da Torino (1861) a Firenze. Rimaneva sul tavolo, a questo punto, la sola “questione romana”. Garibaldi aveva già provato, nel 1862 e nel 1867, di prendere la Città eterna, ma era sempre stato fermato dai francesi. La guarnigione di Napoleone III si troverà costretta, però, ad abbandonare Roma al proprio destino nel 1870, a seguito dell’umiliante sconfitta patita a Sedan da parte prussiana. A quel punto gli italiani avevano partita facile: il 20 settembre 1870 i bersaglieri sfondarono le ultime difese ecclesiastiche ed entrarono in una città ormai indifesa. Il papa, Pio IX, si dichiarò “prigioniero nei palazzi vaticani” e rifiutò la “legge delle guarentigie (garanzie)”: al successore di Pietro si offrivano un indennizzo per i danni di guerra subiti e il riconoscimento della sovranità sul solo territorio 84
vaticano. Il pontefice rifiutò questo modello di trattativa, proprio perché ispirato a un modello, quello illuministico-rivoluzionario francese (Costituzioni del clero), che guardava all’imposizione, dall’alto, di regole che il Papa avrebbe dovuto semplicemente accettare. Pio IX, invece, alzò i toni: da un lato pubblicò il Non expedit (Non conviene), documento con cui vietava ai cattolici di partecipare alla vita politica del Paese; dall’altro, aggiunse il Sillabo, un elenco degli errori del mondo moderno, fondato, quest’ultimo su principi illuministici che il Papa riteneva del tutto contrari alla fede cristiana. Va, in generale, affermato che il nuovo Stato italiano si era dato basi apertamente anti-cattoliche. Estesa fu la politica di confische di beni ecclesiastici. Non mancarono, negli anni, vere e proprie aggressioni a uomini di chiesa, soppressione di congregazioni religiose non dedite a istruzione e sanità, e leggi che obbligarono frati e preti a rinunciare ai voti (legge anti-frati). Di contro, non va dimenticato che secoli di pensiero italiano avevano guardato all’unità d’Italia, più teorica che pratica, e accusato il Papa di essere il principale fattore di divisione nella penisola. Un’Italia, rispondono altri, che, invece, frammentata politicamente e incapace di darsi, autonomamente, una veste politica unitaria, aveva visto nel solo credo cattolico un motivo di unione spirituale. A leggere i dati, comunque, rimane evidente che di molto peggiorano le condizioni delle fasce più povere della popolazione che risedeva nei territori papalini. Se il concetto di carità cristiana aveva lasciato ai poveri spazio per godere, magari approfittare, delle offerte private o di quelle gestite dagli enti di carità ecclesiastici, il modello anglosassone-illuministico (quello delle Poor law e del colbertismo, per intenderci), che lasciava unicamente allo Stato il diritto-dovere di assistere gli indigenti, spingendoli, però, al lavoro, lasciò scoperte tante sacche di incancrenito disagio sociale.
Una riflessione interessante: le unioni del conservatorismo. Alcuni storici hanno guardato con interesse all’unificazione, parallela, di due realtà che vivevano, da secoli, divise, nel cuore dell’Europa: Germania e Italia. Pur con dinamiche diverse, esse 85
hanno u denominatore comune: la presenza di un demiurgo che, raggiunta la carica di Ministro generale, seppe condurre le realtà divise all’unità. Parliamo, è chiaro, di Camillo Benso di Cavour e di Otto von Bismark. Al di là delle specificità, vogliamo chiudere questo capitolo con una stimolante interpretazione. Entrambi i primi ministri si trovavano a essere rappresentanti di una classe sociale che, sostituitasi all’antica nobiltà feudale di spada, non aveva alcuna intenzione di rinunciare al proprio potere. Sullo sfondo si andavano, invece, ad addensare minacciose nuvole democratico-socialiste, createsi a seguito delle prime concentrazioni industriali e ispirate a quel Manifesto del partito comunista, pubblicato, nel 1848, da due filosofi tedeschi, Marx ed Engels. Ebbene, in quest’ottica, le azioni di Cavour e Bismark potrebbero essere lette come l’ultima chiamata utile per unificare due realtà territoriali, quali quelle italiana e tedesca, in chiave conservatrice, garantendo, cioè, che vi fosse sì un’operazione di ingegneria istituzionale e geopolitica, ma senza alcun stravolgimento nella gestione del potere. Era quello il momento, cioè, per creare due nuovi paesi senza passare da esperienze di modello francese: vecchia aristocrazia e nobiltà avrebbero guardato un mondo cambiare, senza che, di fatto, nulla cambiasse nella reale distribuzione del potere. A pensarci bene, una strada diversa si mostrerà possibile: ci vorrà una guerra mondiale, è vero, ma, a seguito dello scoppio di questa, un Paese enorme, quale la Russia, si troverà a veder mutare un modello assolutistico in una vera e propria dittatura comunista (novembre 1917).
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9. LA GUERRA CIVILE AMERICANA
Le due sponde dell’Atlantico. Mentre l’Europa conosceva le guerre di indipendenza di popoli che reclamavano libertà e di governi che volevano ridisegnare il proprio assetto istituzionale, sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico gli Stati Uniti d’America vivono un periodo di ridistribuzione degli equilibri economici che chiama a sé questioni di tipo sociale e politico e sfocia con una guerra civile da noi nota come “guerra di secessione”.
L’indipendenza dell’America latina e la dottrina Monroe.
Il continente
americano viveva, nei primi decenni dell’Ottocento, un’epoca di ridefinizione dei propri rapporti con i conquistatori dei secoli precedenti. I territori dei paesi-latino americani, per buona parte controllati dagli spagnoli, iniziarono un processo di indipendenza dai castigliani. In particolare, i creoli, coloni bianchi nati in Sud-America, non erano più disposti a sopportare di essere dominati dagli europei e di dover commerciare esclusivamente con la Spagna. Furono uomini come Simon Bolivar e José de San Martin a guidare le popolazioni locali a cercare l’indipendenza. Pur ottenendola, il sogno di creare, in America Latina, una federazione di Stati su modello statunitense fallì miseramente e il potere passò nelle mani di piccole oligarchie locali. Il nuovo assetto territoriale, creatosi tra 1806 e 1822 e da cui nacquero paesi come la Colombia, la Bolivia e il Perù, portò il presidente americano James Monroe a definire la propria teoria: gli americani non si sarebbero immischiati nelle diatribe europee, ma, d’altro canto, non avrebbero tollerato ingerenze del Vecchio Continente sul loro territorio.
Due mondi economici. Territorio che venne a trovarsi al centro di una spaccatura insanabile. Le economie degli Stati del Nord e del Sud dell’Unione vennero a trovarsi su versanti totalmente differenti. Il Nord, sulla lezione della Madrepatria, aveva avviato a pieno un processo di industrializzazione; dall’altra parte, il Sud continuava a rimanere 87
un territorio quasi esclusivamente agricolo, forte di enormi piantagioni di cotone. Le differenze economiche si trasformarono, ben presto, in diversità radicali rispetto alle esigenze politiche e sociali che dovevano accompagnare le sorti commerciali delle due realtà. Il Nord, infatti, necessitava di leggi protezionistiche che potessero rendere i prodotti delle industrie americane fortemente competitivi sui mercati interni. Ciò andava a cozzare con la volontà, del tutto opposta, di chi, nel Sud pretendeva che continuasse a imperare un liberismo spinto che consentisse la libera circolazione delle merci verso l’Inghilterra. Quell’Inghilterra che si mostrava essere il concorrente più temibile per i nuovi capitalisti nord-americani.
Lo schiavismo. Lo iato economico andava a ripercuotersi anche sul diverso atteggiamento nei confronti del problema della schiavitù. Vietata la tratta a livello internazionale, la richiesta degli schiavi andò a salire, soprattutto perché legata a un forte aumento della produzione del cotone. Il bene “schiavo” era divenuto raro e costoso e, di contro, assolutamente indispensabile per l’economia agricola del Sud. Le condizioni di vita dei neri erano migliorate, ma i diritti degli stessi erano ancora ridotti a zero. I bianchi continuavano a considerare gli schiavi animali da lavoro, brutali, selvaggi, incapaci di auto regolamentarsi. C’era, per loro, un disprezzo ben più profondo di quello provato per i pellerossa: pur essendo anche quest’ultimi considerati inferiori, essi avevano avuto la possibilità di mostrarsi degni avversari in battaglia, e ciò aveva portato con sé una certa qual aurea di rispetto. Il problema della schiavitù era strettamente connesso alle differenti esigenze delle due anime degli Stati Uniti. L’economia industriale del Nord, con le sue città che andavano crescendo a dismisura, non contemplava l’utilizzo degli schiavi e, anzi, avrebbe goduto l’enorme vantaggio della liberazione dei neri i quali, in gran numero, si sarebbero spostati verso le fabbriche del Nord, una volta ottenuta la libertà. Abolire la schiavitù avrebbe significato, quindi, drenare risorse umane dal Sud, dopo averne indebolito l’economia, e spenderle nelle proprie fabbriche. Ben poco spazio rimaneva, quindi, per gli aspetti umanitari. Si tenga conto del fatto che gli schiavi, a metà
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dell’Ottocento, erano, negli Stati Uniti, 4 milioni su circa 31 milioni di persone e costituivano il 40% della popolazione degli Stati del Sud. Tra gli uomini che predicavano l’immediata abolizione della schiavitù si mise in evidenza un predicatore puritano, John Brown. Favorevole all’uguaglianza tra gli uomini, ma ben più attento alle conseguenze pratiche che una radicale abolizionismo avrebbe provocato, era anche il nuovo presidente repubblicano, Abrahm Lincoln.
La secessione e il conflitto (1861 – 1865).
All’elezione di un presidente
moderatamente abolizionista, alcuni Stati del Sud lasciarono l’Unione e si riunirono negli Stati Confederati d’America (C. S. A.). Per i confederati, l’uscita dall’Unione era legittimata da una Costituzione, quella del 1776, che, in nessun passaggio, negava alle nazioni d’origine la libertà di autodeterminarsi. Da parte loro, invece, gli Stati del Nord consideravano l’Unione una nazione vera e propria e la secessione veniva a costituirsi atto di ribellione. Le ostilità presero il via il 14 aprile 1861. Gli Stati confederati combattevano per difendere la loro indipendenza, mentre gli Stati del Nord volevano obbligare i secessionisti a rientrare nell’Unione. Fino al 1862 i sudisti, in divisa grigia, ebbero la meglio sulle giubbe blu nordiste; a guidarli erano due generali, Lee e Jackson. In seguito furono i nordisti, guidati dal generale Grant, a ribaltare le sorti del conflitto, fino a giungere alla capitolazione del Sud nella battaglia di Appomattox, il 9 aprile 1865. A influire pesantemente sugli esiti della guerra furono, soprattutto, due fattori: innanzitutto, funzionò ottimamente il blocco navale messo in atto dal Nord. Inoltre, la potenza produttiva di quest’ultimo (quasi il 90% del potenziale produttivo prebellico), in tutto nettamente superiore a quella del Sud, si rivelò arma insuperabile nelle mani dei soldati blu.
La prima guerra moderna. Più di un cenno meriterebbero i caratteri innovativi che il conflitto assunse. L’utilizzo di armi a canna rigata trasformò radicalmente la guerra. Fucili, pistole e artiglierie vennero ad avere una gittata e una precisione molto più lunga e resero gli scontri ben più sanguinosi. Questo portò la guerra ad assumere i 89
caratteri del conflitto di logoramento, con un numero di vittime molto elevato e con il diretto coinvolgimento della popolazione civile. A questo va ad aggiungersi la connotazione fortemente ideologica dello scontro. Tutto ciò contribuisce a far sì che quella di secessione americana possa essere definita la prima guerra moderna; le caratteristiche che essa assunse anticiparono ciò che l’Europa conobbe nel corso del primo conflitto mondiale.
Il razzismo. La vittoria, si è già detto, sorrise agli Stati del Nord. Con la schiavitù fuori gioco (Lincoln l’aveva abolita con il proclama del 1° gennaio 1863), i neri si ritrovarono a essere oggetto di violentissimo razzismo nei territori del Sud e a subire forti discriminazioni in un Nord che li aveva voluti liberi ma che era ben lontano da considerarli cittadini a tutti gli effetti. Nel Sud nacque, a questo proposito, nel dicembre del 1865, il Ku Klux Klan, un’organizzazione segreta che voleva proteggere i privilegi dei bianchi. I sei fondatori, tutti scozzesi, vollero affiancare alla parola Clan, l’adattamento della parola greca “cerchio”. Un nome, insomma, che ribadiva, in due momenti diversi, l’elitarismo dei componenti e di tutta la “razza bianca”. Al di là delle violenze perpetrate dal Klan, che nel corso degli anni colpì anche immigrati quali italiani e irlandesi, fu tutto il Sud a continuare con una politica dichiaratamente discriminatoria e segregazionista: la stessa Corte Suprema ratificò la prassi dei “servizi separati ma uguali”, riconoscendo la correttezza del separazione drastica tra bianchi e neri in luoghi pubblici e su mezzi di trasporto.
La conquista dell’Ovest e le guerre indiane. Parallelamente alla guerra civile, e dopo la fine di quest’ultima, tanti uomini dell’Unione iniziarono a muoversi verso le terre dell’Ovest alla ricerca di territori da sfruttare e, soprattutto di oro e di altri metalli preziosi. Gli insediamenti dei coloni vennero accompagnati dall’esercito, il quale si misurò, sul terreno con i nativi pellerossa. Tribù quali gli Apache, i Sioux e i Cheyenne resero difficile la conquista delle posizioni da parte degli uomini bianchi, ma alla fine furono costretti a soccombere dinanzi alla potenza di fuoco dei soldati dell’Unione e a 90
strategie
di
infiacchimento
quali
l’eliminazione
delle
mandrie
di
bisonti,
l’avvelenamento delle riserve d’acqua, la diffusione di malattie per le quali gli indiani non possedevano anticorpi e la corruzione delle diverse popolazioni attraverso denaro e alcool. Più in generale, non va dimenticato che la conquista dei territori degli indiani era giustificata da quello che venne definito “darwinismo sociale”: un popolo più forte doveva “naturalmente” procurarsi sopravvivenza fagocitando quello più debole. I pellerossa, al termine delle guerre indiane, vennero sostanzialmente cancellati; i superstiti si ritrovarono a vivere in riserve e a essere del tutto dipendenti dalla popolazione bianca.
Il flusso migratorio. La notevolissima crescita industriale rese gli Stati del Nord punto di arrivo privilegiato per i migranti delle parti più in difficoltà d’Europa. Tanti uomini e donne arrivarono anche dall’Italia. Le condizioni in cui si trovarono a vivere e lavorare furono pessime. Oggetto di discriminazione, gli italiani si trovarono a essere manodopera sfruttata, considerata la peggiore, obbligata a turni di lavoro massacranti, e costretta a vivere in quartieri-ghetto. L’immigrazione spinse l’urbanizzazione a ritmi vertiginosi.
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10.
I GOVERNI DELLA DESTRA E DELLA SINISTRA STORICHE
Generalità
Chiariamo, innanzitutto, le origini delle denominazioni: destra e sinistra stettero a indicare le posizioni che gli schieramenti assunsero di fronte al presidente dell’assemblea parlamentare. L’aggettivo “storica” indicava la partecipazione dei suoi membri alle imprese risorgimentali. Il sistema elettorale previsto dalla carta costituzionale allora vigente, lo statuto Albertino, si organizzava su criterio censitario (la massa, si credeva, era troppo addomesticabile da clero e sovversivi). Gli organi eletti rappresentavano una percentuale assolutamente esigua della popolazione; in tutto erano circa 600.000 gli aventi diritto al voto (2%), e a questi vanno tolti i tanti cattolici che, per scelta, non partecipavano la voto10. La distinzione tra i due schieramenti era, quindi, frutto di visioni politiche diverse sì, ma a partire da uno zoccolo sociale uguale: destra e sinistra, quindi, non debbono far pensare a scontro di classe. Precisato questo, i programmi politici delle due formazioni erano, certamente, distinguibili. La destra si riconosceva nelle idee liberiste e conservatici del conte Cavour. I suoi rappresentanti, provenienti dall’aristocrazia agraria settentrionale, dal mondo dell’imprenditoria e degli affari, credevano nel processo diplomatico, guidato dalle intelligenze del paese, per ottenere il completamento del processo unitario. Situazione finanziaria al collasso e caos amministrativo erano, secondo la destra, i problemi più gravi da risolvere. La Sinistra storica credeva, anch’essa, nel liberismo, ma pensava che occorressero anche dei provvedimenti protezionistici per lanciare l’economia del nuovo paese unito. I suoi elettori, provenienti dalla piccola e media borghesia, dalla 10
Va notata la distinzione, fondamentale, tra il paese legale, quello rappresentato nelle istituzioni, e il paese reale.
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proprietà agraria centro-meridionale e dagli apparati burocratico-amministrativi dello Stato, si riconoscevano nelle idee democratiche garibaldine di ispirazione mazziniana (alcuni suoi elementi avevano militato nelle schiere di Mazzini) e volevano il coinvolgimento del popolo nelle dinamiche di unificazione della parte restante del paese. La sinistra, più progressista, era più preoccupata di problemi sociali quali l’analfabetismo e l’arretratezza del sud d’Italia. Dopo la proclamazione ufficiale del Regno d’Italia (seduta parlamentare del 27 marzo 1861), il paese si trovò privo della sua guida naturale: il 6 giugno 1861 moriva, a causa di una febbre cerebrale, Camillo Benso conte di Cavour11. Il governo dello Stato passava nelle mani della Destra storica.
La Destra storica (1861 – 1876)
La crisi finanziaria. Il primo governo della Destra fu affidato al barone Bettino Ricasoli. Il vero organo decisionale risulta essere la Camera; il Senato si limita a ratificare. La situazione finanziaria si mostrava gravissima. Le sconfitte subite dall’Austria e un’industrializzazione ancora tutta da far partire costituivano un pesante fardello per il nuovo paese. Al problema lavorarono, a più riprese, i ministri delle finanze Quintino Sella e Antonio Sciajola. Il Sella parlò di “politica della lesina” (risparmio): si adottò una pesantissima politica tributaria, fatta di imposizioni fiscali dirette su beni immobili e capitali. A questo si aggiunse una tassazione indiretta sui beni di prima necessità che affamò gli strati più bassi della popolazione12. Tra il 1866 e il 1867 si adottarono, inoltre, un pacchetto di provvedimenti atti a confiscare i beni ecclesiastici e a venderli per rimpinguare le casse dello Stato. I terreni andarono a rendere ancor più ingente il patrimonio di alcuni, pochi, latifondisti. 11
Il Cavour si stava occupando della questione romana e, in questo senso, aveva già stabilito il principio di “libera Chiesa in libero Stato”. In più, per stabilizzare la situazione interna, aveva dichiarato lo scioglimento delle truppe garibaldine; questo lo aveva portato ad avere un violentissimo scontro parlamentare con Garibaldi. Nel 1872 si spense Mazzini, nel 1878 Vittorio Emanuele II e Pio IX, nel 1882 Garibaldi. 12 Tra queste tasse, si ricordi almeno la tassa sul macinato (sulle farine), chiamata anche tassa sul pane (1868).
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Si introdusse, infine (1866), il “corso forzoso” del denaro: si vietò, cioè, di convertire la cartamoneta in oro. Quest’ultimo, infatti, risultava essere scarso nelle casse dello Stato. Il provvedimento, ovviamente, portò ad una svalutazione del denaro ma consentì al governo di salvaguardare le riserve d’oro e di garantire base alle manovre economiche. Pur nella loro cecità sociale, le manovre attuate portarono l’Italia ad ottenere il pareggio di bilancio. Non si dimentichi, inoltre, che la piemontizzazione del sud significò anche occupazione di tipo economico. I governi del nord vollero, infatti, creare un mercato unico, senza introdurre alcuna protezione per il debole meridione. La ricca borghesia nordista si trovò a fare affari d’oro al su; di contro, il sistema economico sudista non resse l’impatto e ne uscì devastato, assolutamente incapace di inserirsi nel nuovo sistema italiano.
Il brigantaggio. Altro grave problema che la Destra si trovò a risolvere fu quello della cosiddetta “questione meridionale”. Il sud risultava essere economicamente e socialmente molto arretrato rispetto al nord del paese. I governi si mostrarono miopi rispetto al problema. L’unica risposta che arrivò alle terre del Mezzogiorno furono rivolte ad un’autentica piemontizzazione delle regioni meridionali. A gestire l’apparato burocratico furono inviati amministratori piemontesi. Vennero introdotte la leva obbligatoria, un’organizzazione fiscale che aboliva il regime feudale ancora in atto e una tassazione molto elevata. E ciò, ovviamente, ben lontano dal risolvere il problema, incrementò il malcontento che, ben presto, sfociò in rivolte armate e in moti autonomisti. Molti ex-ufficiali dell’esercito borbonico si schierarono contro quelle truppe piemontesi che venivano riconosciute come occupanti; a questo si aggiungeva il favore che la popolazione riconosceva a quelli che il governo chiamava “briganti”. Ai “briganti” (molto più correttamente filoborbonici – antipiemontesi) la Destra rispose con il pugno di ferro. La legge Pica (1863) affidò ai tribunali militari la gestione
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dell’ordine. La repressione fu violentissima ma non riuscì a far spegnere i fermenti antiunitari nel sud dell’Italia. Roma capitale e i rapporti con la Chiesa. Dopo aver annesso il Veneto13, il governo piemontese riuscì ad entrare militarmente in Roma (breccia di Porta Pia, 20 settembre 1870) a seguito della pesante sconfitta che i francesi, protettori dei possedimenti papali e già vincitori delle truppe garibaldine a Mentana (1867), subirono a Sedan da parte delle truppe prussiane. Il papa, già violentemente scagliatosi contro l’anticattolicesimo del nuovo Stato italiano14, si dichiarò prigioniero in Roma. Nel 1874 Pio IX pubblicò il Non expedit: si vietava a tutti i cattolici di partecipare alla vita politica d’Italia e si apriva, di conseguenza, la “questione romana”, ovvero la difficoltà di trattare con quella parte della popolazione, anche possidente, che aveva giurato piena ostilità alle nuove istituzioni statali. Al Non expedit venne aggiunto, in coda all’enciclica Quanta cura, il Sillabo, ovvero un elenco degli errori teologici e sociali commessi dai governi italiani. Nel 1871 il governo Lanza promulgò la “legge delle guarentigie (garanzie)”: al Papa veniva concessa piena libertà di movimento, l’extraterritorialità e il possesso del Vaticano, dei palazzi apostolici del Laterano, della basilica di san Pietro e della tenuta di Castelgandolfo. A questo si aggiunse un versamento annuo, da parte dello Stato, nelle casse papali. Anche la legge delle guarentigie va letta attentamente: vi era, in essa, la visione, tutta settecentesca, di controllo della Chiesa da parte degli apparati laici. E il Papa, infatti, rifiutò la legge.
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Il Veneto, austriaco, si ritrovò ad essere italiano dopo che l’impero subì dalla Prussica la pesantissima sconfitta di Sadowa (1866). L’annessione al regno d’Italia venne ratificata attraverso la politica dei plebisciti: le popolazioni vennero chiamate ad esprimersi sul gradimento del passaggio alla nuova corona dei Savoia. Sulla regolarità delle consultazioni rimangono seri dubbi. 14 L’Italia “piemontese”, quella che, inizialmente, guardava alla sola parte settentrionale, era nata in netta opposizione alla Chiesa (unico caso in Europa). Eppure il cattolicesimo costituiva, a ben guardare, l’unico elemento unificante la penisola. In quell’Italia, che già aveva promulgato leggi quali le Siccardi (1850) e la Rattazzi (1855), direttamente rivolte contro i preti, i frati e i loro beni, riuscì a costruire il suo progetto, proprio nel cuore torinese del governo, il sacerdote don Giovanni Bosco (Società dei salesiani, 1859).
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A metà degli anni Settanta la Destra storica aveva esaurito la sua spinta politica. Il governo Minghetti cadde su una questione economica molto importante: nel tentativo, infatti, di nazionalizzare le ferrovie15 (un’autentica miniera d’oro per gli affaristi del nord), la Destra perse il consenso di alcuni suoi elettori e questo portò all’istaurarsi della sinistra storica.
La Sinistra storica
Il governo di Agostino Depretis. Ex mazziniano, uomo della Sinistra moderata, Depretis cercò l’appoggio della Destra per evitare la rivoluzione parlamentare. Si parlò, quindi, di “trasformismo”, di un sistema, cioè, di spostamento da uno schieramento all’altro dei parlamentari per garantire un ampio gruppo moderato in grado di mantenere lo Stato liberale e monarchico, lontano da repubblicani sovversivi e da reazionari ecclesiastici. Si andò ad ampliare la piattaforma elettorale al 7% della popolazione: il voto venne esteso a tutti coloro che avevano la terza elementare (circa 2 milioni di persone). Si consideri che, all’inizio degli anni Sessanta, i parlanti italiano erano, in tutta la penisola, circa 600.000; a corte sabauda si usava il francese. Tra i primi provvedimenti di Depretis, vanno ricordate l’abrogazione della tassa sul macinato e del corso forzoso del denaro. Per andare di pari passo con l’allargamento della piattaforma elettorale, si promulgò la legge Coppino, atta ad estendere la possibilità di studio alla terza classe elementare16.
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Negli anni Sessanta la ferrovia italiana, assolutamente in ritardo rispetto ad altre nazioni europee, triplica il proprio chilometraggio (da 2.000 a 6.000 km). 16 La scuola italiana era stata regolamentata dalla legge del ministro dell’istruzione, Gabrio Casati (1859 – 1860). Il nuovo ordinamento regolò la scuola sino alla riforma fascista.
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Anche per la Sinistra storica la questione meridionale fu un grave problema. Si volle, innanzitutto, conoscere a fondo la situazione: l’inchiesta Jacini17, prolungatasi dal 1877 al 1884, si articolò in 15 volumi e denunciò la situazione drammatica di un popolo, quello del sud Italia, colpito da malaria, denutrizione e analfabetismo. A questo si aggiunse anche un ulteriore aggravarsi dell’economia latifondista, messa in crisi dall’importazione del grano americano. L’arrivo di quest’ultimo spinse il governo al protezionismo attraverso l’applicazione di tariffe doganali sui prodotti in entrata. I vecchi latifondisti meridionali trassero sicuramente vantaggio da un tale provvedimento, ma, più in generale, i piccoli proprietari del sud vennero schiacciati dalla nuova situazione. I contadini, infatti, a causa delle reazione dei paesi stranieri al fenomeno protezionistico, si ritrovarono a veder vanificati i loro investimenti destinati alla vendita di prodotti all’estero. A questo si aggiunse il fatto che gli Anni Ottanta dell’Ottocento fecero conoscere al nord della penisola una prima crescita industriale, in particolare nel settore tessile. Le popolazioni del sud, ancora una volta a causa delle politiche protezionistiche scelte dal governo, si trovarono obbligate ad acquistare i nuovi prodotti industriali del nord, competitivi rispetto a quelli artigianali del meridione e a quelli stranieri, rincarati dai dazi. Il sud divenne una sorta di mercato coloniale del nord e il divario tra le due parti d’Italia crebbe. Le nuove dinamiche economiche provocarono anche un forte aumento della disoccupazione. Dagli Anni Novanta iniziò una pesante ondata di emigrazione dalle regioni del meridione d’Italia verso le Americhe. Si trattava, in realtà, del secondo flusso migratorio: già negli Anni Settanta, infatti, tanti abitanti del Veneto avevano lasciato le loro terre a causa della tragica condizione delle campagne. Nel 1887 Agostino Depretis morì.
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Stefano Jacini, economista e politico italiano (1827 – 1891), patriota di tendenze liberali, ottenne da Cavour il ministero dei Lavori Pubblici. Diede alle stampe, nel 1885, Relazione finale sui risultati dell’inchiesta agraria. I volumi guardavano a tutto il paese ed evidenziavano la difficile situazione di ampie zone agricole anche al nord; nel Veneto, in particolare, la pellagra –mancanza di vitamine – colpiva fette significative della popolazione.
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I governi di Francesco Crispi. A succedere ad Agostino Depretis fu Francesco Crispi18. Egli volle, da subito, un serio rafforzamento del governo, arrogandosi poteri che lo portarono a sfiorare la dittatura. La scelta di politica interna trovò conferma anche sul panorama internazionale. Il primo ministro, infatti, rafforzò l’alleanza con la Germania del cancelliere Bismark. Ciò provocò un’immediata crisi con la Francia che, peraltro, faceva da importante interlocutore all’Italia in termini di import – export. La guerra doganale fece sì che le esportazioni italiane subissero un gravissimo contraccolpo. La crisi sociale si fece ancor più pesante e si offrì da brodo di coltura per alcuni movimenti – partiti che andavano a catalizzare il malcontento. Dopo una breve esperienza di governo di Antonio di Rudinì (destra storica, 1891 – 1892), giunse alla presidenza di Consiglio il piemontese liberale Giovanni Giolitti (1892 – 1893), poi obbligato a dimettersi dallo scandalo della Banca Romana19. Fu proprio nel 1892, con Giolitti primo ministro, che, grazie soprattutto all’opera di Filippo Turati, nacque, a Genova, il Partito dei Lavoratori, poi Partito Socialista. Di evidente ispirazione marxista, la nuova coalizione politica rifiutava la lotta anarchica e cercava, invece, l’impegno sindacale attraverso la scelta della via legale che portasse ad un accrescimento della rappresentanza parlamentare. Si fece strada, tra i socialisti italiani, la concezione gradualistica della lotta sociale: la rivoluzione, per via pacifica, sarebbe stata il tassello finale da porre in coda all’ottenimento delle riforme.
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Francesco Crispi (Agrigento 1819 – Napoli 1901), avvocato e membro del comitato insurrezionale palermitano, dopo l’esilio conobbe Mazzini e militò con Garibaldi. Si ritirò dall’attivismo non condividendo le idee annessionistiche di Cavour. Fu, dopo la morte di quest’ultimo, leader dell’estrema sinistra mazziniana. Sposatosi, poi, verso posizioni più moderate che prevedevano l’accettazione della monarchia, divenne ministro dell’interno con Depretis. Dovrà rassegnare le dimissioni a causa di uno scandalo scoppiato dopo essere stato accusato di bigamia. Altri scandali finanziari ne minarono la carriera politica; ciò, comunque, non gli impedì di raggiungere la carica più alta. 19 La Banca Romana, a pieno coinvolta nelle operazioni di speculazione edilizia verificatesi dopo l’Unità, si ritrovò immersa in un enorme scandalo causato dalle irregolarità legate all’emissione di carta – moneta, di cui aveva l’autorizzazione alla stampa insieme ad altre cinque banche. La Banca, inoltre, aveva accordato favori ad alcuni uomini politici, tra cui Crispi e Giolitti. Crispi aveva insabbiato la pratica.
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E ancora sotto il ministero Giolitti, nel sud Italia, nascono, invece, alcuni movimenti noti con il nome di Fasci dei lavoratori (1891 – 1896). I gruppi cercavano di dare unità ai diversi movimenti per poter rafforzare l’impatto delle rivendicazioni contrattuali in un mondo del lavoro in cui le condizioni erano disastrose 20. Nei Fasci non vi era una chiara coloritura politica; il collante era dato da una netta linea antipadronale. E proprio in quest’ottica, le proteste divennero presto violente, spesso coadiuvate dai movimenti proletari del nord Italia. La debolezza dimostrata dinanzi ai movimenti sociali21, insieme all’idea del piemontese di introdurre un’imposta progressiva sul reddito (ovviamente non gradita alla borghesia) e alla già citata questione della Banca Romana, portò alle dimissioni di Giolitti. L’incarico di primo ministro fu nuovamente affidato a Crispi (1893 – 1896). La repressione crispina nei confronti dei Fasci meridionali fu durissima (arresti, limitazioni della libertà di stampa, annullamento del diritto di voto). Ma, forse, il capitolo più ampio, e controverso, del libro dell’avventura di governo di Francesco Crispi fu quello dedicato all’esperienza coloniale. Il primo ministro era convinto che l’espansione nelle terre straniere fosse la via giusta per porre l’Italia tra le grandi potenze. La prima presa di contatto con l’Africa si ebbe attraverso l’acquisto di alcuni terreni in Eritrea e l’occupazione del porto di Massaia. Il primo tentativo di occupazione, però, si trasformò in fallimento: gli italiani vennero sconfitti dall’esercito etiope a Dogali (in Eritrea; è il 1887, cadono 500 soldati italiani). L’episodio di Dogali venne ingigantito dalla stampa di casa nostra: “Occorreva” si scrisse, “punire i barbari”. In realtà l’impresa coloniale si andava a risolvere in una semplice ricerca di prestigio sul palcoscenico internazionale: l’Italia non aveva ancora raggiunto uno sviluppo industriale tale da giustificare la ricerca di nuovi mercati e, inoltre, incanalare l’emigrazione verso l’Africa significava rinunciare alle ricche rimesse,
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Si pensi, quale solo esempio, alle pessime condizioni dei carusi, i ragazzini impiegati nelle miniere di zolfo. A queste situazioni tante pagine dedicò la letteratura verista. 21 Ricorda che questa linea di ricerca di accordo sociale che potesse offrire alternativa agli scontri di piazza fu proprio la principale caratteristica dei futuri governi giolittiani (si parlerà di parlamentarizzazione del conflitto sociale).
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in valuta pregiata, che arrivavano dai connazionali trasferitisi in Europa e nelle Americhe22. Nel 1889, l’Italia riaprì il dialogo con l’Etiopia; si firmò, infatti, il trattato di Ucciali, accordo commerciale che Crispi volle, però, interpretare come una delega sulla politica estera del governo africano lasciata nelle mani dei ministeri romani. Il colpo basso del governo italiano portò allo scontro: Crispi, assolutamente convinto dell’inconsistenza dell’esercito etiope, inviò in Africa alcune decine di migliaia di uomini che dovevano, in teoria, avere facile ragione dell’avversario. Il contingente italiano si trovò inaspettatamente dinanzi circa due milioni di uomini. La guerra si trasformò in un disastro per l’aggressore europeo: il 1° marzo 1896 si arrivò alla decisiva battaglia di Adua. Per la prima volta, un esercito europeo, quello italiano, veniva sconfitto da truppe africane. Adua rimase, nella storia d’Italia, un’onta incancellabile su cui fecero leva, per le successive imprese coloniali, i governi Giolitti (Libia, 191 – 1912) e Mussolini (Etiopia, 1936). All’Italia rimase solo l’Eritrea: la gestione fu incardinata attorno a logiche di assoluta rigidità e spietatezza. In questo senso va detto che il fascismo, quarant’anni più tardi, si mosse in linea di assoluta continuità con i governi liberali.
Dopo Crispi: la crisi di fine secolo. La disfatta africana portò alle dimissioni di Crispi Gli anni della fine del secolo furono segnati da violente repressioni nei confronti delle masse popolari e, più in generale, dalla volontà di tornare ad un sistema costituzionale puro, con i ministri, cioè, obbligati a rendere conto solo al re, e non alla Camera23. Nel 1896 tornò al potere la destra storica di Antonio di Rudinì. Il nuovo primo ministro scelse la via della spietata repressione dei movimenti dei lavoratori. L’episodio più noto fu quello legato al nome del generale Bava Beccaris: le truppe affrontarono, 22
Il fallimento di forzare l’emigrazione italiana verso le terre d’Africa sarà una costante per tutto il Novecento italiano. Lo stesso governo fascista, negli anni Trenta, non riuscì ad indirizzare un flusso che continuò a muoversi in direzione America. 23 Sidney Sonnino, in un articolo del 1897, scrisse “Torniamo allo Statuto”. Le forze progressiste, comunque, impedirono la degenerazione politica reazionaria.
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nel maggio 1898, una folla di dimostranti nel corso di uno sciopero a Milano. Vennero uccisi 80 manifestanti e il comandante ricevette un’onorificenza da re Umberto I (al trono dal 1878 al posto di Vittorio Emanuele II). Lo stesso Filippo Turati fu arrestato. Nel paese, nel frattempo, le condizioni economiche peggiorarono. Si assistette ad un rincaro del pane e, in termini di politica estera, si firmò la pace di Adis Abeba con l’Etiopia e ci si avvicinò alla Francia, paese con il quale si pose fine alla guerra doganale. Nel 1898 il governo passò nelle mani di Luigi Pelloux. Egli tentò di imporre al paese una netta svolta autoritaria. Venne proposto un pacchetto di leggi eccezionali: proibizione di sciopero per il pubblico servizio, lo scioglimento prefettizio delle adunanze ritenute pericolose, la limitazione della libertà di stampa. I socialisti risposero, in Parlamento, con la tecnica dell’ostruzionismo, ricorrendo, cioè, ad interventi – fiume che impedissero l’approvazione delle leggi. Pelloux, dopo aver tentato di modificare i regolamenti della Camera e di ottenere l’approvazione dei provvedimenti attraverso decreto regio, rassegnò le dimissioni, obbligato, peraltro, dal ritiro dal parlamento dell’opposizione (3 aprile 1900)24. La linea autoritaria di Pelloux fu bocciata alle elezioni del giugno 1900. L’incarico di governo fu affidato a Giuseppe Saracco, avvocato di comprovata onestà istituzionale: a lui fu affidato il compito di riportare il clima alla normalità mediante il ritiro dei provvedimenti liberticidi del governo Pelloux. L’Italia, comunque, era ben lontana dal ritrovare serenità sociale: il 29 luglio 1900, un anarchico, Gaetano Bresci, uccise re Umberto I per vendicare i caduti milanesi del 1898. Al trono sabaudo salì Vittorio Emanuele III. Il nuovo re, coadiuvato dal direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini25, garantì al paese la forza della monarchia costituzionale di stampo liberale.
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Ricorda questa particolare tecnica di protesta. Ciò avverrà anche nel 1924, dopo l’omicidio del socialista Giacomo Matteotti (secessione aventiniana). In quell’occasione, però, Mussolini, capo del governo, non rassegnò le dimissioni e, anzi, sfruttò l’occasione per imprimere una sterzata assolutistica al suo potere.
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L’ETÀ DELL’IMPERIALISMO
Il fenomeno imperialista trova sua definizione più semplice nell’individuazione di un periodo di tempo, a cavallo tra i secoli XIX e XX, nel corso del quale le grandi potenze corrono tra mari e terre emerse alla conquista di un impero. Un tentativo di collocazione cronologica si può abbozzare indicando come data d’inizio la nascita del Reich tedesco (1871) e come data di chiusura lo scoppio della prima guerra mondiale. Se la potenza tedesca, infatti, risultò la vera grande novità sullo scacchiere internazionale e, di conseguenza, il vero motivo di rottura degli equilibri, il primo conflitto mondiale venne individuato da molti storici ed analisti (tra questi anche Lenin) come l’atto terminale, ed inevitabile, della serie di conflitti, palesi e latenti, di cui si era caricata l’atmosfera colonialista. Va detto che il fenomeno non era nuovo: l’appropriazione di territori oltre confine, con susseguente sfruttamento, era già nota alle grandi potenze (si pensi ad inglesi, spagnoli e francesi nelle Americhe e in Africa), ma dal 1871 la corsa divenne frenetica. Le grandi protagoniste dalla corsa imperialista furono la Francia, l’Inghilterra, la Germania e l’Italia (pur se in misura decisamente ridotta). Nel Pacifico si mossero, invece, arrivando in diversi casi allo scontro, gli Stati Uniti d’America, la Russia, la Cina e il Giappone che, da potenziale territorio libero e, quindi, oggetto di conquista, si trasformò in potenza nascente. Le grandi potenze rivali in campo divennero Inghilterra e Germania, quantomeno in ottica di scontro territoriale europeo. Sui mari, invece, a fronteggiare la dominatrice di sempre, la Gran Bretagna, rimaneva la Francia. Non a caso l’Inghilterra si dotò della legge denominata “two power standard”: la flotta britannica non avrebbe
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Luigi Albertini, dopo aver appreso, presso la redazione del Times londinese, le tecniche di gestione di una grande redazione, tornò in Italia e fece divenire il Corsera il quotidiano più letto d’Italia. Pesantemente critico nei confronti dei successivi governi Giolitti, Albertini appoggiò, in prima battuta, il fascismo, per poi passare a criticarlo pesantemente, prima dalle colonne del giornale (da cui fu allontanato) e dai banchi del Senato.
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mai dovuto scendere al di sotto, in termini numerici, della somma di quelle russa e francese. Gli Stati Uniti, nel frattempo, superato lo shock della guerra civile degli anni Sessanta dell’Ottocento, iniziarono ad espandersi nell’America latina e sposarono la teoria di Monroe, la quale prevedeva che non vi fosse alcuna ingerenza europea nel continente americano. Quali le motivazioni che spinsero i paesi a lanciarsi nella corsa imperialistica? L’appoggiarsi alle sole motivazioni economiche (sovrapproduzione europea ed investimento di capitali in eccesso) risulterebbe limitativo, troppo legato ad una lettura marxista della storia. È necessario invece guardare anche alle ragioni politicodiplomatiche: in particolare, la manifestazione di potenza, cui non erano certo interessati uomini d’affari e banchieri, sarà una delle leve che mossero il fenomeno coloniale. In questo caso, è assolutamente evidente la preponderanza dell’elemento politico. A questo va aggiunto un dato di matrice puramente economica: una bassa percentuale dei flussi di denaro uscenti dalle potenze occidentali si mossero in direzione coloniale. Questo rafforza la visione di chi tende a sminuire la lettura totalizzante di taglio materialistico marxista. Sempre seguendo questa linea di lettura marxista, vale la pena di ricordare che Lenin definì l’imperialismo l’ultima fase del capitalismo: a questa era seguita, necessariamente, la guerra (il primo conflitto mondiale) e, a seguito, con la nascita dell’Unione Sovietica, sarebbe giunta la fine del capitalismo stesso. Tornando all’aspetto cronologico, una data fondamentale per comprendere le nuove linee delle politiche espansionistiche europee è da fissarsi nel 1869, anno di apertura del Canale di Suez ad opera dei francesi. I 163 km di bacino artificiale navigabile, colleganti il Mediterraneo al Mar Rosso, permisero il trasporto dall’Europa all’Asia senza obbligo di circumnavigazione dell’Africa. E fu proprio quest’ultima a subire le maggiori conseguenze. L’apertura del canale, infatti, facilitò la penetrazione in Africa orientale e, di conseguenza, in tutto il continente. Tra il 1875 e il 1900 si assistette ad una vera e propria occupazione dell’Africa: la Francia ottenne quasi tutte le terre nord-occidentali (Marocco, Tunisia, Algeria, Mauritania, Senegal, Costa 103
d’Avorio); gli inglesi si impadronirono di Egitto, Sudan, Kenya, Uganda, Rhodesia, Africa del Sud, e Nigeria; la Germania colonizzò Camerun, Tanganica, Namibia, Togo e l’Italia giunse, tra mille difficoltà e conoscendo cocenti sconfitte (Adua, su tutte – 1896) in Libia e Somalia.. Nel sud dell’Africa si ebbe la colonizzazione olandese con forti connotazioni razziste. L’arrivo inglese portò a pesanti tensioni con gli olandesi. Quest’ultimi si spostarono verso l’interno alla ricerca di nuove terre, inseguiti, però, dagli inglesi (guerra anglo-boera, 1899 – 1902). Gli inglesi utilizzarono alcuni campi di concentramento, che la storia, comunque, aveva già conosciuto a Cuba, costruiti dagli spagnoli, e nelle Filippine, laddove sorsero per opera degli americani. Rimane da sottolineare che la stampa inglese criticò apertamente, e liberamente, la decisione del governo di utilizzare tali campi. Alla vera e propria spartizione a tavolino del continente, per buona parte ratificando su carta ciò che già si era determinato sul territorio e, ovviamente, senza tener conto della volontà degli indigeni, si giunse attraverso la Conferenza di Berlino (1884). Un primo scontro frontale tra potenze nel Novecento si ebbe con la guerra Giappone – Cina (1894). Quest’ultima venne sconfitta, ma l’esito portò all’intervento della Russia, fortemente preoccupata dall’espansione giapponese e dal loro primo interlocutore, l’Inghilterra. La Russia si avvicinò alla Cina, ottenendo una prima spartizione delle zone di influenza nell’area cinese (Break – up of China, mentre gli Stati Uniti invocano la politica della “porta aperta”). Nel 1904 scoppia la guerra Russia – Giappone con la vittoria di quest’ultima potenza e un forte ridimensionamento dell’impero zarista (non è certo un caso che dal 1905 iniziarono a muoversi, in Russia, quei movimenti che porteranno, di lì a 12 anni, allo scoppio della rivoluzione leninista). La guerra russo – nipponica ebbe anche un’altra importante conseguenza: lo schieramento delle potenze in due blocchi contrapposti. Da un lato Gran Bretagna, Francia e Russia diedero vita alla Triplice Intesa; dall’altro Germania, Austria-Ungheria e Italia si unirono nella Triplice Alleanza. L’Italia si avvarrà della natura puramente 104
difensiva dell’accordo per entrare in prima guerra mondiale a fianco delle forze dell’Intesa. Non va dimenticato che il fenomeno imperialista si sviluppò avendo sullo sfondo una grande protagonista: l’energia. Nel 1859 iniziò la perforazione per l’estrazione del petrolio. Le città iniziarono a conoscere l’illuminazione e si svilupparono i primi grandi cartelli petroliferi, primo fra tutti la Standard Oil di Rockfeller (le grandi estrattrici giunsero ad un accordo sul prezzo del greggio nel 1928). La raffinazione del petrolio portò all’ottenimento della benzina e all’alimentazione della Ford T, la prima macchina di massa. E con essa si assistette anche ai primi esperimenti di specializzazione del lavoro (il taylorismo e il fordismo come sua applicazione pratica) e di concentrazione di grandi masse operaie nelle fabbriche. All’energia vanno aggiunti i passi avanti negli studi sulla trasmissione delle onde. Si inventarono il telefono (1876) e la radiotelegrafia. E il progresso conobbe i suoi primi disastri: nel 1912 affondò il transatlantico inglese Titanic nelle acque dell’Oceano Atlantico settentrionale. Era, di fatto, iniziato il Novecento.
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