Progetti
Alessandro Gaiani
Il paesaggio contemporaneo propone continuamente problemi e situazioni del tutto nuovi ed è testimone interessato di un paradosso.Da un parte,vi è la coscienza ecologica,per la quale una nuova considerazione della natura e dell’ambiente si è affermata come valore condiviso da gran parte della società; dall’altra, il paesaggio che si apre davanti ai nostri occhi non è più “coerentemente”organizzato come in passato,ma ricco di contraddizioni, conflitti, disomogeneità, eterogeneità. Molto diverso da quello a noi giunto fino ai primi del ‘900, esso è sempre più stravolto da veloci modificazioni che non di rado im-
bruno minardi
Ristrutturazione dell’ex fabbrica Dreher a Venezia
Scorcio dell’edificio con l’imponente ciminiera. Nella pagina a fianco: assonometria di progetto.
FOTOGRAFIE Marco Buzzoni
pediscono di comprenderne le mutazioni in atto e le nuove configurazioni. Il paesaggio diffuso è oramai prerogativa delle viste italiche: la frammentazione del costruito è percepibile ad ogni latitudine del nostro Paese. La città, come entità dimostrabile, ha cessato di esistere; è ormai un collage di frammenti, una sovrapposizione di strati, un vasto panorama assimilabile a un patchwork; è un campo di energie, di flussi, di dinamiche da utilizzare e rafforzare. All’interno di questa superficie fatta di diversità, le differenti parti appartengono ad un ordine complesso, non solo fisico, soggetto a un equilibrio che evolve in virtù delle mutazioni, delle forze politiche, economiche, sociali, storiche, culturali che soggiacciono alla globalizzazione del territorio. In campo urbanistico ed architettonico, questo fenomeno ha fortemente inciso sul panorama delle città, che appare sempre meno coerente ed uniforme, approssimandosi ad un mosaico di
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realtà e di luoghi tra loro lontani, a volte incomunicanti, in insiemi retti dalla semplice giustapposizione, senza regole a sovrintendere e controllare gli accostamenti. Questo fenomeno avviene, ripetendosi con le medesime modalità, in sempre più larghe parti del pianeta. Un fenomeno di deterritorializzazione delle forme, che ha compromesso la riconoscibilità di ampie porzioni del paesaggio, parificando ambiti un tempo differenti, grazie all’introduzione di fattori omogeneizzanti, tipologicamente apolidi, sradicati rispetto ad ogni dove. L’uso e il consumo del territorio in questi ultimi anni, a fini speculativi, è diventato una costante dello sviluppo. Per questo, lavorare sulle preesistenze è non solo un imperativo ma è anche una assunzione di responsabilità nei confronti del futuro. La trasformazione delle ex-birrerie veneziane, poi, Dreher, ad opera di Bruno Minardi, a Venezia, edificate a partire dal 1902 sulla vasta ortaglia compresa fra le fondamenta di S. Biagio e il rio delle Convertite, nelle immediate vicinanze degli antichi magazzini del sale, ancora esistenti sulle fondamenta di S. Biagio, sul Canale della Giudecca, si pone all’interno di questo paradosso enfatizzando l’altro aspetto della globalizzazione, cioè il senso di appartenenza e lavorando su un palinsesto “già scritto”. Da una parte, un luogo inserito all’interno di un contesto che ha una forte connotazione antropizzata; dall’altra, la “fabbrica” moderna, la “fabbrica degli spiriti”, con i suoi volumi massicci in mattoni, un blocco di trenta metri per venti di base e alto ventidue, orientata con il lato corto parallelo al canale della Giudecca, le sue ciminiere, la dimensione a scala urbana più che a scala del costruito circostante, che esprimono la natura “ibrida” di questo paesaggio. La copertura a falda doppia, con inclinazione del tetto accentuata dalla merlatura sul fronte verso la città, l’ampio finestrone archiacuto sotto la copertura, i motivi geometrici decorativi in cotto suggeriscono l’attribuzione del proget-
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to all’architetto Wullekopf, autore del Mulino Stucky. Il progetto di trasformazione e riuso, soprattutto quando deve, come nel caso di interventi sull’esistente in luoghi particolarmente carichi di storia, come l’isola della Giudecca a Venezia, necessariamente instaurare un dialogo con la preesistenza, non può non registrare quindi il fondamentale mutamento dello spazio antropizzato, avvenuto nella contemporaneità, che coinvolge in modo più ampio anche le relazioni, fra le persone, con i loro bisogni ed aspettative, le cose, le informazioni: un universo di flussi che sempre più si svincolano dai tracciati reali, percorrendo vie immateriali, e creando nuove forme di distanza. Lo spazio antropizzato, fino a cinquant’anni fa, era paragonabile ad una funzione analogica, continua in tutti i suoi punti, i cui i singoli elementi stavano fra loro in rapporti di contiguità: il senso di ciascuno di essi era ricavabile dagli altri, ed il luogo era la somma dei singoli elementi. Oggi lo spazio delle attività umane assomiglia, semmai, ad una funzione digitale, che procede per salti ed arrotondamenti, dove un’identità è spesso riscontrabile solo ad una certa distanza, facendo opportune approssimazioni. Sono sempre più rari quei luoghi in cui vi è un’omogeneità di senso, in cui non vi è alcuna presenza di elementi alloctoni, frutto della globalizzazione, e l’isola della Giudecca è uno di questi. È possibile parlare di una forma di deterritorializzazione, per evidenziare questo sopraggiunto mix di vocazioni diverse, spesso in aperto contrasto fra loro: la ricerca di un radicamento, delle ragioni fondative di un luogo, è sempre più difficile. Rimane, comunque, il problema della riconoscibilità, per coloro che accettano la sfida nell’agone globale, e conseguentemente il rischio di perdersi nella vastità del panorama che le tecnologie attuali prospettano. Uno dei possibili antidoti contro l’eventuale crisi d’identità, cui va incontro chi accetta il confronto con idee altrui, può essere il
rimarcare con forza le proprie peculiarità, in quella combinazione di locale e globale che alcuni chiamano “glocal”: l’essere nella contemporaneità ma senza smarrirsi, rimanendo raggiungibili seppur riconoscibili. Del resto, è questo uno degli aspetti che rende veramente interessante il fenomeno: sapere di poter raggiungere non tanto un nostro clone, che niente può dirci in più di quello che già sappiamo, quanto un individuo diverso, con una propria originalità; solo in questo secondo caso il dialogo diventa proficuo e stimolante. Quindi, una delle alternative percorribili passa attraverso il recupero degli aspetti locali, la sottolineatura dei vari dialetti, il riproporre delle forme vicine, con un atteggiamento che denota una volontà positivista, volta all’agire piuttosto che al subire, nel tentativo di controllare, per quanto possibile, i cambiamenti, o comunque di trarne possibili benefici. Bisogna, a questo scopo, reintrodurre un altro fenomeno generato dalla globalizazione: la nozione di appartenenza (a una tradizione, a una cultura, ad un luogo, ma anche, e ciò è molto importante, a un sistema di interconnessioni). L’attenzione di Minardi si è quindi rivolta allo studio e alla riproposizione dei modi e degli stilemi dei propri contesti, riutilizzando tipologie e morfologie del locale passato: un’operazione che in alcuni contesti ha il pregio di rimarcare i caratteri di un’identità sempre meno riconoscibile, mescolata fra un coacervo di elementi estranei.Vi è quindi, da parte del progettista, la consapevolezza di ridefinire il senso dell’area e accedere a un confronto con le categorie della permeabilità, della discontinuità, della frammentazione, dell’instabilità e della contaminazione assunte come valori al presente e non come semplice distanza dal passato. L’area di progetto è situata in un contesto unico che conserva tuttora importanti caratteri storici e paesaggistici all’interno di un territorio fortemente antropizzato. Questo spazio è temporaneamente un ricordo del passato e allo
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La ex-birreria vista dal Canale della Giudecca.
Sezione longitudinale e pianta di un piano tipo.
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Scorci delle coperture.
Nella pagina a fianco: l’interno illuminato dai grandi lucernari. Veduta parziale. Il complesso sud ovest. Dettaglio dei collegamenti alla ciminiera/scala di servizio.
stesso tempo un luogo dove si accumulano le speranze. Il metodo utilizzato per il recupero di parte della struttura esistente è stato quello di considerare il contenitore come “rovina”, esaltandone quindi la sola “bellezza”, decidendo quindi di non intervenire sullo stesso, ma di ridefinirne il suo spazio interno. La riconversione a fini residenziali si basa su alcuni punti fondamentali e, in generale, ha cercato di definire un “paesaggio ibrido” di spazi progettati e subiti, di rapporti con permanenze e scarti,
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di appartenenze e omologazioni, di continuità con le preesistenze naturali e artificiali e una complessità ed eterogeneità di programma. Appartamenti individuali e duplex, la nuova “calle” con i ballatoi ai piani per distribuire gli appartamenti che partono e terminano su grandi terrazze in ferro – vere e proprie altane che, poste a sbalzo verso l’esterno, sono collegate con i vani scala – sono gli elementi principali del progetto. Il rapporto con la grande dimensione del corpo di fabbrica, con il tipo a
navata centrale e con le preesistenze tipiche di uno stabilimento moderno, è stato brillantemente risolto con i grandi lucernai sul tetto a forma piramidale, con l’introduzione di una scala di sicurezza all’interno della ciminiera, raggiungibile da un ponte esterno in quota, e con quel “sapore” veneziano che la “calle” centrale di distibuzione lunga, alta e stretta riesce a dare all’interno dell’edificio. Il progetto di Minardi si mostra sufficientemente sensibile alle preesistenze e garante della realtà della
vita trascorsa. All’interno della “calle” si riesce a sentire una sorta di sensazione di consapevolezza del tempo che scorre, dove la vita umana si svolge in spazi e luoghi che devono essere vivibili. I materiali utilizzati assumono qualità poetiche, che risuonano e risplendono, e, al tempo stesso, risultano essere semplici e materici. La costruzione riesce a conformare un tutt’uno dotato di senso, a partire da una molteplicità di parti singole. Si nota, nella scelta dei paricolari costruttivi, la capacità del congiungere
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l’abilità dei costruttori, degli artigiani e degli ingegneri. Di un fare architettura basata, quindi, sul costruire, non astratta, ma concreta, per realizzare un elemento appartenente al mondo delle cose, capace di fare a meno della retorica personale. Un approccio progettuale in cui la figura del progettista si fa silenziosa in relazione a un palinsesto già fortemente riconoscibile, in grado di coniugare nozioni come calma, naturalezza, durevolezza, presenza e integrità, ma anche calore e matericità. ¶