Ricordi ……..
Di Franca Cifani
Racconto della Volontaria del MA.SI.SE Franca Cifani al rientro dalla Missione ArcobaArcobaleno. Sinnai 8 maggio Festa della Mamma Incontro con i bambini e loro mamme presso la Sala Consiliare del Comune di Sinnai, gremita di persone. Vi ringrazio per l’invito, soprattutto in questa bella ricorrenza della festa della mamma. Che bello vedere tutte queste mamme con i loro bambini. Mamme siete fortunati ad avere con voi il bene più caro. Voi bambini avete la con voi la mamma che non si dimenticherà mai di Voi, ella vi accompagnerà per tutto il suo e vostro cammino. Lei non vi dimenticherà, mai! Così Voi non dimenticherete mai la vostra mamma! A voi mamme dico, abbracciate i vostri figli, che bel dono ci ha fatto il buon Dio, e voi bambini, date tanti baci alla vostra mamma! Ora vorrei sentire un bel coro che dica: Mamma Ti voglio tanto bene! Sapete bambini che nel Kosovo c’è la guerra? Il Kosovo è una Regione della Jugoslavia, che si trova oltre il mare Adriatico. Molti bambini sono diventati orfani, cioè senza il papà e tante mamme piangono la perdita del loro sposo, la guerra è una brutta cosa! Sarebbe tanto bello poter vivere tutti uniti e felici in famiglia, purtroppo in questo momento terribile per quei bambini non è possibile; allora io sono qui per raccontarvi quello che ho vissuto in Albania in questi giorni. Sono partita da Sinnai per andare con un gruppo di volontari di protezione civile italiani ad aiutare le persone che fuggivano dal loro paese in guerra, per rifugiarsi in un’altra nazione. Siamo sbarcati al porto di Durazzo in Albania il 1^ aprile. Durante la navigazione man mano che ci avvicinavamo alla terra ferma osservavo la costa lontana, le montagne, gli alberi che sembravano sofferenti e striminzite. Le abitazioni apparivano basse e altre grandi, vecchie e incompiute, molte in rovina. Moltissime le antenne paraboliche, tutte orientate verso l’Italia, per poter seguire i nostri programmi, adornavano tetti e balconi di case senza intonaco; in questo modo molti di loro, soprattutto giovani imparavano la nostra lingua. DURAZZO Giunti al Porto di Durazzo lo trovammo vecchio e molto malandato, le imbarcazioni piene di ruggine per la inesistente manutenzione. Scendiamo dalla nave tutti uniti con un po’ di timore per gli ammonimenti che ci avevano dato gli accompagnatori durante il viaggio. A terra, il Capo gruppo verificò la presenza di tutti, ci fece salire sui mezzi raccomandandoci di tenere i vetri e gli sportelli ben chiusi e di non mangiare, di non dare nulla a nessuno, specialmente ai bambini che frequentano la banchina. Che strano mi dico, non posso dare una caramella a questi poveri bambini vestiti di stracci che mi guardano con occhi imploranti. Ho capito subito dopo il motivo. I giovani in breve hanno circondato i nostri mezzi chiedendo e implorando l’elemosina, tentavano di aprire gli sportelli delle macchine per poter ricevere qualche cosa. Il nostro Capo gruppo rimasto all’esterno dei fuoristrada, in breve fu circondato e strattonato da tutte le parti; in particolare un bambino scuro di carnagione si era attaccato alle gambe e non smetteva di baciarle, il mio cuore si era fatto piccolo piccolo, mi rifiutavo di guardare quella straziante scena; non potevo immaginare che molto tempo dopo avrei rivisto quel piccolo, in momenti ben diversi. Finalmente partimmo, attraversammo una città attonita, i passanti ci guardavano con stupore e curiosità quella lunga colonna di mezzi. Arrivammo in una zona periferica e ci fermammo davanti ad una nuova e moderna costruzione che ci disserro dovesse diventare un Ospedale Pediatrico, costruito con i fondi dei Lions Italiani. Ci assegnarono gli alloggi e subito tenemmo una prima riunione, così sapemmo che il nostro compito era di costruire un Campo di Accoglienza per i profughi nella zona di Kavaje una città distante 12 Km da Durazzo. Il mattino sveglia presto, una lavatina in fretta perché l’acqua che era razionata veniva tolta verso le sette sempre che arrivasse.
Dopo 15 giorni ci fu un nuovo cambio di personale e ci demmo di nuovo disponibili, era la terza partenza, stessi porti, stesse sensazioni. Arrivati a Durazzo trovammo diversi e ottimi cambiamenti, intanto la logistica si era trasferita dall’Hotel Florida al Campo di Miami Beach diretto dal DI.MA e amico Cap. Romeo Riccardo Jasischi, di sera chiedemmo il permesso di recarci a Kavaje dove dopo il controllo pass, ci autorizzarono ad entrare e andare alla tenda comando e a quella dell’accoglienza; Luciano scese dalla Land Rover e salutò tutti i ragazzi presenti c’erano anche gli interpreti i quali lo abbracciarono e gli chiesero di me e mio marito serio serio risponde che ero rimasta a Cagliari. La delusione era così evidente nei loro volti che Luli quasi piangeva, poi uscì dalla tenda e si avviò al buio alla macchina chiamando, mamma Franca? Io non risposi e lui di nuovo Mamma Franca? Si avvicinò al mezzo e finalmente mi vide, aprì lo sportello e mi scese prendendomi in braccio mi fece girare due o tre volte dicendomi: “non potevo credere che mi lasciavi, sapevo saresti tornata! grazie, grazie!”. Poi ponendomi in terra disse: “stai ferma qui ti vengo a prendere io” e corse via verso le tende, poco dopo Luli si riavvicinò, mi prese per mano e mi disse: “Vieni con me la Tua gente ti vuole vedere”! Camminiamo in mezzo a due ali di persone che fuori dalle tende mi chiamano, mi parlano, mi toccano e nella loro lingua mi ringraziano dicendo “bentornata”! Non so più cosa fare né cosa dire, piangere si per quel regalo meraviglioso che mi ripaga di tutto. Così sono tornata a Kavaje per loro, con loro e con Luli il mio interprete, che poi sarà il nostro “figliolo simbolico” tra avventure liete e tristi. Con Luciano avevano un feeling particolare, parlavano in inglese e si intendevano proprio bene e quindi per loro era facile capirsi e rapportarsi. Luli mi informò che nella Tenda n° 20 cera una signora che aveva bisogno di aiuto con due bambini malati senza cure, cosa si poteva fare? Noi cercavamo nel nostro piccolo di soddisfare mini necessità, ma in quel caso … chiedemmo al capo campo una lampada a batteria e così l’ottenemmo fornendole almeno una fioca luce per sorvegliare i suoi bambini, anche di notte.
Kavaje e la loro gente rimarrà sempre nei nostri ricordi più belli.
In formazione serrata partimmo scortati dalla polizia locale in direzione della Città di Kavaje. Arrivammo in un grande campo verdeggiante e piano situato a ridosso del mare, con terreno argilloso e purtroppo anche acquitrinoso; ci dissero che dovevamo montare le tende che erano già state scaricare e posizionate lungo il terreno. Il Capo Campo ci informò che avremmo dovuto montarne circa 600 in pochissimo tempo. Era pur vero che i Volontari presenti erano ben 300 provenienti da più parti d’Italia, ci organizzammo in gruppi omogenei di otto persone, assegnando ad ognuno proprie mansioni. La cosa più difficile fu quella di erigere la prima tenda per quei volontari che non le conoscevano, poi la seconda e via, via, verso un lavoro massacrante ma fatto con allegria e tanta buona volontà. In breve tutti esperti, veloci e precisi. Assembla le palerie, metti il telo, alza la tenda, allinea e picchetta, non ci rendemmo conto del tempo che trascorreva veloce e quindi mi attrezzai con un grande cesto pieno di scatolette e pane carasau e chiamai i nostri volontari gridando “oggi pasta con aragosta e gamberoni”! nessuno cadde nello scherzo. Un panino in fretta e poca acqua razionata, faceva caldo quel giorno e via a montar tende sino al calar del sole. Rientrati al caseggiato assegnato, non potemmo lavarci per l’assenza di acqua, un pasto frugale e subito in branda. Una mattina Gianmario, un Volontario della LOVOS di Oristano mi incontra, mi abbraccia e dice Buona Pasqua! Io allibita di rimando rispondo, Buona Pasqua? Già, era proprio il giorno della Santa Pasqua. Ormai avevamo perso la cognizione del tempo e delle date. All’Ospedale Pediatrico ci tornammo per quattro giorni. Ci informarono che i profughi si stavano avvicinando e quindi dovevamo accelerare il montaggio delle tende, “per quanto possibile”, così eravamo costretti a lavorare anche di notte alla luce delle torce tascabili. Il giorno 6 aprile giunse la notizia dell’arrivo dei primi Kosovari, le nostre donne furono trasferite a preparare l’accoglienza con la C.R.I. e alcuni uomini a fare la spola dal campo alla strada per segnalare il momento reale dell’arrivo e coordinare l’avvicinamento. Io e Luigia eravamo ansiose e preoccupate per la lunga attesa; la sera verso le 17.00 ancora non si vedeva nessuno. Poi un gruppo di poliziotti Italiani ci raggiunse annunciando l’arrivo di tanti profughi. Si fece ancora più buio e cominciarono a venire avanti 1 -2 -3 …. carri e trattori con rimorchi allestiti alla bene e meglio per la loro protezione, i più coperti da teli di plastica, con all’interno paglia sparsa sul piano del cassone. Spaventati e visibilmente stanchi, chiedevano cose che non erano da noi comprensibili. Fortunatamente si avvicinò un giovane ragazza di nome Zana che fece da interprete e ci spiegò che avevano marciato per quattro o cinque giorni e che necessitavano di bere e mangiare qualcosa. La Croce Rossa Italiana aveva predisposto un tavolo con dei contenitori di The e Latte e così iniziò la lunga fila dei profughi stremati dal lungo precario viaggio e che non terminava mai!. Mi spostai verso la Pineta che costeggiava la strada bianca e mi spaventai; tra gli alberi c’erano donne, bambini e tante persone anziane, pochissimi i giovani. Tornai al Campo avvisando l’accoglienza che erano tanti, tantissimi e che non ce l’avremmo fatta ad assisterli tutti in breve tempo. Fu così che si lavorò giorno e notte, chi all’accoglienza (rifocillare - registrare - assegnare un n° di tenda ) chi ad accompagnare il nucleo familiare con i loro bagagli all’alloggio assegnato, spiegare loro come trattare la tenda, a non accendere fiamme libere e come gonfiare i materassini e utilizzare il sacco letto, e chi continuava a montare tende a tutte le ore.
Eravamo costretti a ricevere queste persone di notte perché loro preferivano viaggiare al buio in quanto così si sentivano più al sicuro. Queste ore di paura ci davano il tempo di organizzarci meglio e montare più tende di giorno. Non dimenticherò mai il primo incontro con una Signora magra con tanti bambini grandi e piccoli, l’interprete parlò con loro e ci riferì che non avevano documenti strappatigli dai soldati, bruciata la loro casa, derubati dei pochi oggetto d’oro e dovuto pagare ben 5 milioni di Lec per salvare se stessa e i suoi figli. E gli uomini? Le chiese Zana Dhroso. Lei con un sospirò chinò il capo e si mise a piangere e disse che di loro non si sapeva più nulla, sperava che si fossero salvati, ma in genere venivano catturati e sgozzati o sparati. Mi avvicinai per abbracciarla, lei si ritrasse e i bambini cominciarono ad urlare, non capii che cosa avessi fatto ma Zana mi rassicurò dicendomi: “Sono tanto spaventati, temono di essere di nuovo picchiati e bastonati”. Io mi posi in disparte per tranquillizzarla. Zana la rassicurò spiegandole che eravamo tutti Volontari italiani che stavano costruendo il Campo per loro e che non doveva temere nulla da noi. Allora la donna raccolse il proprio bagaglio sistemato in una coperta con dentro un poco di acqua, pane e biancheria e faticosamente si diresse accompagnata da un volontario alla tenda assegnatale circondata dai bambini, io mi avvicinai piano piano e con dolcezza le tolsi il suo fagotto e l’aiutai a raggiungere la Tenda. Le insegnammo a gonfiare i materassini ed ad aprire i sacchi a pelo, ci guardava ma non comprendeva quello che noi le stavamo dicendo. Il Volontario gonfiò i materassini e sistemò i bambini nei sacchi letto. Uscita, mi sentii prendere per un braccio, mi voltai era la Signora che mi ringraziava ponendo le sue mani sul petto e proferendo frasi che non capii, mi abbracciò ed io piansi insieme a lei. Quanti bimbi ho accarezzato e abbracciato, non ne ho idea; tutti belli, con occhi azzurri e capelli biondi ricci, decisi che non avrei più usato i guanti e la mascherina, mi sembrava di offendere ancora di più questa gente dignitosa e sfortunata. Quei bambini volevo vederli di nuovo sorridenti, mi ricordai che un nostro Volontario aveva con se dei giocattoli, cercai nella tenda (adibita a deposito) li trovai e c’erano anche dei palloni. Il mattino successivo andai in giro per il Campo distribuendoli e con l’interprete mi raccomandai di utilizzarli per giocare insieme ad altri bambini. Non fu così, allora decidemmo di fare una piccola colletta e con quei soldi comprammo altri palloni ma i bambini erano tanti e tutti volevano il pallone. Escogitai una mini gara e feci girare la voce che il bambino che avesse fatto il disegno più bello avrebbe avuto in premio il pallone. Distribuii qualche pennarello, delle matite e diverse penne biro con fogli in A4, ero certa che li avrei tenuti impegnati per un po’ di tempo, invece non avevo ancora raggiunto la nostra area del campo che già alcuni bambini mi avevano riconsegnato il foglio con il loro disegno finito, non sapevo cosa fare, loro volevano i palloni e così Zana comprò ancora palloni per giorni e giorni.
Salpiamo da Durazzo per Bari, durante il viaggio il capitano della nave si avvicinò a noi ci salutò e ci fece i complimenti per quanto stavamo facendo per i Kosovari e gli Albanesi, gli raccontammo qualche aneddoto e quando stava per salutarci gli chiedo: “Capitano mi scusi, vorrei avere notizie su quel bambino che poco fa era a bordo della nave, vorrei saper l’età per portargli un po’ di vestiario quando torno di nuovo a Kavaje”, mi guarda e dice: “Chi, Calimero?” “Si, rispondo proprio lui.” “Signora disse l’Ufficiale, io quel bambino l’ho visto due volte ed ogni volta che lo incontro è sempre vestito con gli stessi abiti che gli ha visto indosso oggi, perché quando lui scende dalla nave gli altri ragazzi più grandi lo picchiano, gli rubano i vestiti e le scarpe per venderle e guadagnare qualche soldino per vivere. Quel bambino mi disse che era stato violentato e che i finanzieri del porto, quando era a terra lo facevano dormire sotto un porticato per cercare di non farlo stare a contatto con quella gentaglia”. Rimasi sbigottita e come me tutti i volontari presenti; che tristezza! Cosa poteva fare il Capitano? Senza avergli chiesto nulla disse: “Niente, non si può fare proprio nulla! Abbiamo fatto parecchie segnalazioni, spero che presto lo affidino alle suore Italiane che sono a Durazzo”. La mia partenza da Kavaje fu molto sofferta, staccarmi dal gruppo di donne e bambini con i quali avevo fatto amicizia tramite l’interprete Luli (Luaras Oseku) che mi accompagnava nel campo a visitare le famiglie più bisognose e mi riferiva in un italiano stentato le loro storie, le angosce e le loro necessità, fu una sofferenza per me. Da quelle persone ho imparato a colloquiare con gesti, a scherzare, a bere il loro caffè lungo che non sapeva certo di caffè, il loro “pane”che chiamano FLIN (rotoli di pasta di pane riempiti di verdure condite con jogurt acido, il riso cotto con il latte); quante volte mi sono soffermata durante le ore del pasto a guardare le signore e a fare con loro il FLIN. Bene io ho la ricetta, si fa in questo modo: Latte, olio, sale, uova, si miscela il tutto poi si mette a fuoco in un teglia bassa tonda con un coperchio a forma di imbuto chiuso, la prima con il bordo alto, mentre il coperchio più piccolo fatto a forma di cono deve entrare nella teglia, quando tutti e due sono ben caldi si versa il miscelato con un mestolo nella prima teglia e si ricopre con il secondo come se i due messi insieme potessero formare un piccolo forno e così via per parecchi strati sino a raggiungere un’altezza di circa 10/15 cm. E questo è il “FLIN”, il loro pane. Tornata a casa le due mie figlie vollero sapere tutto, la grande, Gabriella era al termine della gravidanza e dopo pochi giorni diede alla luce una bellissima bambina di nome Silvia, la nostra gioia fu intensa anche se il mio pensiero e quello di mio marito era a Kavaje tra quella gente sfortunata, quei bambini e persone anziane senza affetti e lontane da casa.
Dopo pochi minuti due ragazzi arrivarono ala tenda con lo scatolone e mi chiesero cosa farne, gli intimai il silenzio con il dito indice sulla bocca, presi un panno e lo posi nello scatolone adagiandovi il piccolo addormentato. Continuai il mio lavoro con un occhio controllavo il bambino che proseguiva a dormire tranquillo. Sentii all’esterno un trambusto e un gran vociare, mi affacciai e mi dissero dell’arrivo della Cologgi. Non mi potevo allontanare, attesi che la funzionaria concludesse il suo giro, poi la chiamai. Ci conoscevamo bene con Patrizia, si avvicinò con al seguito altri colleghi e volontari, ci abbracciammo e mi chiese cosa stavo facendo, senza parlare la presi in disparte per un braccio e la condussi dentro la tenda dove su un tavolo era posto lo scatolone, la invitai a guardarvi dentro. Aprì e vide il bambino, mi guardò e chiese chi fosse, le spiegai quello che sapevo e glielo posi in braccio, lo stringe a se, lo baciò e piangendo mi pregò di comunicargli tutto quel che potesse servire, poi si rivolge al suo seguito e diede disposizioni in merito. Quanta gente si è data da fare per quel pargolo, la polizia italiana, i volontari tutti, era già buio quando nella mia tenda entrò mio marito con la polizia e mi dissero: “abbiamo trovato la mamma in ospedale a Durazzo, stanno tutti cercando il piccolo, grazie sei veramente la mamma di tutti noi!” Gli consegnai il piccolo e finalmente lo riportarono alla legittima genitrice. E’ la storia dell’esodo; durante l’avvicinamento al confine tra il Kosovo e l’Albania le carovane che fuggivano dalla guerra, venivano bloccate dalle truppe regolari o irregolari che fossero; gli anziani le donne ed bambini venivano separati dagli uomini validi; perquisivano tutti, togliendo loro i documenti e requisendo soldi e gioielli. La mamma del piccolo riuscì ad avvicinarsi alla fila delle donne già perquisite e lasciò momentaneamente il bambino in braccio ad una signora, poi tornò nella sua fila. La prima fila partì e lei che era nella seconda dovette aspettare il suo turno, così si persero; la fortuna volle che entrambi i gruppi fossero diretti a Durazzo. Il nostro Gruppo dovette rientrare in Italia per il cambio turno, aspettammo qualche ora per l’imbarco al porto di Durazzo, alle 7 di sera salimmo a bordo e ci vennero assegnate le cabine, finalmente riuscimmo veramente a lavarci. Tornati al salone Bar, la nave non era ancora in movimento, ci spostammo nella sala mensa dove trovammo il personale gentile e cortese. Dopo 20 giorni di campo in attesa di un pasto decente, scorgo nel tavolo vicino un bambino scuro di pelle vestito di stracci che stava finendo di mangiare, mi avvicino e gli chiedo: “posso sedermi vicino a te per farti compagnia?” E lui mi fa di si con un cenno della testa, riconosco in lui il bambino che il giorno dell’arrivo al porto, sporco e mal messo chiedeva insistentemente l’elemosina attaccato ad una gamba di mio marito. Subito dopo arriva un inserviente che gli dice: “dai Calimero finisci il pasto che tra poco salpiamo e tu devi scendere!” L’inserviente ancora: “dai sparecchia e poi vatti a prendere il gelato!” Lui in silenzio ubbidisce, porta via il vassoio e poi torna da me e mi offre il suo gelato. Lo ringrazio ma non avendo ancora cenato dissi che non potevo accettare e lui mi rispose : “E’ per te, io devo andare via. Tu torni di nuovo in Albania?” Risposi di si e lui allora:”ci rivediamo presto!”e si allontanò. E chi ha mangiato quella sera? La mia gola era chiusa, un bambino liso, privo di tutto mi aveva offerto il suo gelato!
Il mio incontro con Arian, un bambino di 6 anni che ancora non andava a scuola, ospite nella Tenda n° 4D mi sento prendere la mano, guardo e vedo Arian con un foglio che gli avevo dato poco prima, già disegnato, che bello! Presi il foglio e guardai il suo disegno,rappresentava un cerbiatto in mezzo ad un prato, tutto verde ma con gli occhi spaventati. Chiamai Zana e volli sapere che cosa rappresentava quel disegno. Lei mi spiegò che mi raffigurava in quanto tentavo in tutti i modi di far felici quei bambini ma io ero triste perché non riuscivo a fare di più. Questa creatura di 6 anni ci dava lezioni di vita. Una tragedia per un bambino così piccolo che nonostante il grande dolore tentava col suo modo di vivere nuovamente in quel campo di tende, senza sogni, senza comodità. Trascorsero alcuni giorni lavorando sempre a montar tende, tra spostamenti delle persone e riceverle all’accoglienza. La mattina dopo un paio di ore di riposo, in quanto andavamo via dal campo verso le due di notte e la sveglia al mattino era alle sei per poterci lavare un poco, colazione con quello che si trovava e poi via al Campo con il nostro gruppo impegnati al montaggio tende, poi io e Luigia venimmo convocate dal Capo Campo Piero Moscardini che con un cenno mi invita ad avvicinarmi e mi fa gli auguri “sei diventata nonna” sentii il cuore scoppiarmi dentro di gioia, perché avevo lascato a Cagliari la prima figlia (Gabriella)che era in attesa di un bambino, poi mentalmente feci i conti e mi dissi: non è possibile “manca ancora un mese”, lo dico a Piero che risponde: “siamo tutti diventati nonni perché nel campo è nato il primo bambino profugo, la mamma ha sedici anni e il padre 22. Il bambino si chiama Italo Fabio”. Andiamo nella tenda della giovane famigliola e vediamo questo esserino avvolto nel lenzuolo tra le braccia della mamma; che meraviglia nella tragedia! Una nuova vita che infonde speranza e continuità in questo mondo così violento. Noi due, abbiamo pensato di dare un segno a questo neonato, che possiamo fare? Proposi: “Un grande fiocco per annunciare a tutti questa nascita”!. Luigia mi guarda e risponde: “Con che cosa lo fai un grande fiocco”? Ed io la invito a seguirmi alla tenda dove tenevamo qualche provvista per i volontari, ricordavo di avere ancora un po’ di vestiario, cercando trovai un vestitino celeste; con un coltello preparammo strisce di stoffa e confezionammo un fiocco da appendere alla tenda del neonato. “Per me quel simbolo è stato ed è il più bello di tutti i fiocchi che si possano trovare in vendita per le nascite”. Seguì una gara di solidarietà per quella famiglia, nel Campo raccogliemmo una modesta somma tra i volontari; il responsabile a sua volta aveva segnalato al Governo Italiano questa nascita e si aveva la speranza che qualche cosa di meglio potesse realizzarsi a loro favore. Dopo un paio di giorni Piero Moscardini ci chiamò per andare insieme alla tenda di Italo Fabio e ci disse: consegniamo il ricavato della raccolta fondi con i quali potranno raggiungere i loro parenti in Germania. Nella tenda ci attendevano un fotografo e due poliziotti italiani. Il fotografo immortalò la consegna a memoria della donazione eseguita, poi la famigliola poté partire. Nel campo fervevano le attività e le continue difficoltà, stavamo aspettando la visita già annunciata della responsabile nel D.P.C. del Volontariato, Dott.ssa Patrizia Cologgi che sarebbe dovuta arrivare in mattinata, l’attesa si protrasse oltre e noi continuammo le nostre attività giornaliere. Lavoravo presso la tenda della registrazione preparando qualche biscotto per i profughi che sarebbero giunti, come sempre, di notte. Il pianto di bambino attirò la mia attenzione, uscii e vidi un volontario dei carabinieri che tentava di calmare il piccolo; rivolgendosi verso di me disse: “mi hanno portato questa creatura così disperata che non so come fare a calmarla, avrà fame, vuoi pensarci Tu che sei la mamma di tutti noi? Sono certo che riuscirai a fare meglio di quel che io non riesco a fare”. Gli domandai: E la mamma? Rispose: “non lo so, credo che la polizia Italiana la stia cercando, fai Tu qualche cosa, perché io sto male a sentirlo piangere, mi sento impotente in questo momento! Se poi hai bisogno di qualche cosa chiedi che io farò tutto quello che potrò”. Mi consegnò il bambino che era posto dentro una sacca, mi incamminai pensando a come fare per calmarlo, non ho un succhiotto, non ho latte e nemmeno un biberon, lo accarezzai piano con delicatezza, girai il suo visino verso il mio corpo e lo cominciai a cullare, il bambino progressivamente si calmò e smise di piangere. I volontari carabinieri mi dissero: non avevamo detto che solo tu potevi farlo smettere di piangere? Sei una donna e sai meglio di noi come comportarti. Chiesi ai Volontari di procurarmi una scatola di cartone abbastanza ampia e capiente.