Florindo Agosti
STORIA LOCALE
Ricordi di Corte Madama
Se è vero che il passato dà pienezza al presente, noi ritroviamo nelle tracce e nei documenti che ci sono rimasti la trama della nostra storia. Così è avvenuto anche per Corte Madama, oggi piccola frazione del comune di Castelleone, di circa 200 abitanti,ma che fu comune autonomo fino al 1868.
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La fondazione di questa località, che si trova a 4 Km da Castelleone, sembra avvenuta per opera dei romani già dall’anno 158 a.C. Infatti numerose tombe romane,reperti archeologici e tombe longobarde sono stati rinvenuti nel territorio di Corte Madama. La località era chiamata Monte Colere. Qui, spaziando velocemente nei secoli, troviamo nel 1010 i conti Gandolfo ed Ermengarda, dopo i quali troviamo Richilde, figlia del signore di Bergamo, Gisilberto, che nel 1022 la dona al vescovo di Cremona, Landolfo. Successivamente, nel 1420, la località, mutato il nome in Corte Madama, fa parte del Marchesato di Castelleone,sotto Cabrino Fondulo. Dal 1441 passa ai Visconti di Milano, e indi agli Sforza. Nel 1717 il feudo passa ai marchesi di Corte Madama. Alla famiglia Villani compete il diritto di nominare il Rettore dell’oratorio di San Martino, fino al 1880. Nel 1802 nel comune viene istituita la scuola elementare normale a carico comunale. Nel 1857 la popolazione della Corte è di 388 maschi e 385 femmine;nel novembre1867, essendo inferiore ai mille e cinquecento abitanti, è aggregata, con un referendum, dal primo gennaio 1868, al comune di Castelleone e non a quello di San Bassano, come invece era stato prospettato, contro la volontà degli abitanti. Gli elettori dell’ex comune erano 25, in base al censo, e due di essi sono eletti tra i venti consiglieri comunali di Castelleone. Tra i ventisette parroci di Corte Madama merita particolare rilievo don Francesco Terletti,che nasce nella parrocchia di San Bassano il 24 aprile 1857, due anni prima della seconda guerra di Indipendenza. Egli avrà l’avventura di vivere l’ultima parte del Risorgimento, il periodo dell’Unità, l’era di Giolitti, la fase cruciale della prima guerra mondiale e il sorgere del fascismo, poiché morirà a San Bassano nel dicembre del 1937, alla vigilia dell’ultimo conflitto mondiale. La sua formazione culturale e religiosa, benché egli provenisse da famiglia contadina numerosa, è completa sotto ogni aspetto. Ha come primo maestro di vita e di latino monsignor Carlo Vismara, che coltiva nel giovane Francesco il seme di una autentica vocazione al sacerdozio e lo avvia al seminario di Cremona, tra le cui mura Francesco si adatta, nel trascorrere degli anni. Il seminario cremonese era passato da un’impronta giansenistica ad una direzione gesuitica. Inoltre si andava delineando nella Chiesa una polemica fra i fautori conciliatoristi e gli intransigenti. Ciò non impedisce a Francesco di acquisire una robusta e qualificante impostazione classica che permea di autentica cultura, anche poetica, il giovane sacerdote, destinato a rimanere per circa quaranta anni nella parrocchia della Corte. Ordinato sacerdote il 17 dicembre 1881, dal vescovo Geremia Bonomelli, insegnante di dogmatica e morale, di storia e bibliologia, di diritto e liturgia, viene consolidato nell’esercizio della virtù e avviato al ministero, dapprima come coadiutore a Casalmorano,poi come vicario a Pieve d’Olmi, fino al 31 ottobre 1885. Il primo novembre dello stesso anno, ventottenne, è nominato parroco a Corte Madama. In quali condizioni vivono gli ottocento abitanti sparsi nelle numerose cascine
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La chiesetta di Corte Madama
della parrocchia? Purtroppo le condizioni non sono dissimili da quelle delle campagne dell’agro cremonese di quegli anni: vi trova miseria, pellagra,analfabetismo; la stessa chiesa parrocchiale di San Martino necessita di interventi di restauro, di nuove decorazioni, di un necessario ampliamento. Don Terletti incoraggia innanzitutto il rinnovamento dell’agricoltura, stimolando il risanamento delle terre incolte e acquitrinose del SerioMorto. Si sforza di realizzare nella sua parrocchia gli stimoli che la Chiesa, tra otto e novecento, indica agli strati sociali più umili per rendere possibili l’incontro fra i valori religiosi e quelli più urgenti della quotidianità. Incoraggia una intensificazione delle pratiche religiose basate sul culto di Maria, anche in seguito alla proclamazione del dogma dell’Immacolata (1854) e alle apparizioni di Lourdes (1858). La sua azione pastorale si snoda in sintonia con lo sviluppo dei rapporti StatoChiesa, con l’incardinarsi della questione sociale nelle campagne, alla quale uniforma il suo operato secondo gli insegnamenti della “Rerum Novarum” di Leone XIII (1891), nella quale si afferma la condanna della lotta di classe e la legittimità del raggiungimento di migliori condizioni di vita dei lavoratori. Come già accen-
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nato numerose sono le opere da lui realizzate: l’oratorio, il prolungamento della chiesa, l’innalzamento di due nuovi altari e della statua dell’Immacolata sulla torre, l’orologio e l’acquisto di arredi sacri. Tuttavia egli non esaurisce il suo zelo sacerdotale con il ministero, ma lo arricchisce con una intensa produzione poetica: traduce in versi il Salterio, gli Inni e i Cantici, compone un poema su San Martino, le Ultime Rime e numerose composizioni d’occasione. Fra di esse, ritrovata tra le carte della mia famiglia, l’Omelia della messa, celebrata il 5 aprile 1905, per le nozze d’argento dei miei bisnonni Dalmiro Agosti e Marietta Sperlari. Essi, che si erano uniti in matrimonio nella stessa chiesa di San Martino il 5 aprile 1880, provenivano da due famiglie di agricoltori, originari di Casalbuttano lui e San Martino in Beliseto lei. Abitarono nella cascina Girlo, prima, e nella cascina Lazzaretto poi. Furono agricoltori in un’epoca in cui nelle campagne cremonesi, e non solo in esse, erano presenti i fattori che sfoceranno di lì a poco nelle lotte contadine, per il raggiungimento dei patti colonici, che regolamentassero condizioni di vita e di lavoro più eque anche nelle campagne. L’Omelia, che è di seguito riportata, lascia tuttavia trasparire un rapporto tra i datori di lavoro e i loro salariati imperniato su un rispetto reciproco,essa rappresenta una viva testimonianza della vita di allora, delle sue consuetudini sociali e familiari, della religiosità semplice, ma concreta e profonda, nella comunità, e degli umani rapporti,che appaiono tessuto fertile in un’epoca non facile, ma che ci appare oggi solida nel rispetto di principi e di valori. Le parole di don Francesco, scritte con un sentimento non solo religioso, trasmettono un senso di solidarietà, fanno trapelare una vita serena intessuta di un reciproco rispetto e certezze che fanno rimanere ammirati. “Nelle nozze d’argento dei conjugi Dalmiro Agosti e Maria Sperlari” “La bella e rara festiciuola di stamane, la Fede scevra da umani rispetti che addimostrano i Festeggiati, il rispetto dovuto ai medesimi per l’alta posizione sociale che occupano, l’amicizia che a loro mi lega, la presenza di due coniugi circondati da felice stuolo di buoni figli, quel tutto insieme di luogo, di tempo, di circostanze e di persone che onorano la Festa, suscitano nel petto mio tale un’onda di gioia e di contento, che a mala pena valgo a contenere. Mi sia permesso pertanto dalla religiosa Famiglia che mi sta dinnanzi e dai numerosi fedeli che le fanno corona, dare sfogo agli affetti che provo in questi dolci istanti. Era il 15 d’Aprile dell’anno 1880, i sacri bronzi dall’alto della torre suonavano a festa ed invitavano i fedeli del villaggio ad accorrere in questa umile chiesuola. I giulivi rintocchi delle nuove campane e le note allegre dell’organo facevano dolce soavissima eco alle forti pulsazioni di due cuori, che già si amavano e qui venivano raccogliendosi, per cementare e consacrare, con la benedizione del cielo, i teneri loro affetti. Prostrati dinnanzi all’ara del Dio tre volte santo i novelli Sposi
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deponevano nelle mani del Sacerdote solenne giuro di mutuo amore, reciproco rispetto, inviolabile fedeltà. Raccolse il buon Pastore la fatta promessa degli Sposi e la depose nelle mani di Dio, nell’atto che ne invocava in corrispettivo le più elette benedizioni; benedisse alla Sposa, benedisse allo Sposo ed augurò che vivessero entrambi la più lunga vita giammai turbata da sinistri dolorosi. Passarono venticinque anni da quel dì, e quegli sposi non più novelli, ma neppure vecchi, io li veggo oggi a me dinnanzi, al posto d’allora, animati da medesimi sentimenti, ripieni ancora degli identici affetti e circonfusi ormai il capo della felice aureola di genitori di numerosa prole che quivi stesso ne fan corona. Chi siano quei fortunati Sposi non occorre dirlo, troppo essendo patente. La presenza delle loro persone ancor sì floride, la bella corona di otto figli, le numerose famiglie partecipanti con giubilo alle Nozze d’argento dei loro Padroni, chiaro dimostra che le preghiere innalzate dal Sacerdote che ebbe l’onore di benedire le nozze di quel memorabile giorno, ebbero eco sonora nell’Aula celeste, d’onde disceser grazie e benedizioni d’ogni maniera. Miei Signori, e non è vera benedizione del Cielo l’avervi conservati sempre uniti in dolce amplesso per cinque lustri interi? E quanti mai nel mondo han ricevuto siffatta grazia? Sono forse pochi coloro che piangono la separazione violenta fatta dalla morte fra coniugi un dì felici? Chi non sa che il mondo risuona di gemiti e di sospiri? Chi non vede i larghi fiumi di lagrime cagionate dalla morte prematura di genitori? Chi non sente i troppo frequenti singhiozzi di fanciulli e di bambini che invano chiamano il padre e la madre che non sono più? Voi stessi, o Signori, avete pianto, non è molto, la scomparsa di persone a voi care, che, pure coniugate, non ebbero la grazia di celebrare codesta festa. Altra benedizione del provvido Iddio è il largo moltiplicato censo che godete, o Signori, mentre non pochi, già ben forniti di beni di fortuna pari ai vostri e forse anche maggiori, percossi dalla sventura, nei passati cinque lustri furono ridotti al nulla o quasi. Ma soprattutto io ritengo come vero dono di Dio questa corona di figli, corona resa centuplicatamene più preziosa per l’indole eccellente da loro sortita, e per la saggezza sovrana alla loro età, sì che ridonda a voi, o Signori, l’onore più invidiabile e la più perfetta consolazione. Quanti pari vostri hanno ambito e tuttora ambiscono il dolce soave nome di padre e di madre, ma il loro non fu e non è che un desiderio giammai appagato, onde a ragione ne vanno dolenti ed avviliti. E quanti che, pure onorati del nome di padre e di madre, tuttavia piangono e gemono sui traviamenti di figli sconoscenti, ingrati. Sì, sì lo confesso, o Signori, sulla vostra Casa il buon Dio ha sparso e va spargendo a larga mano benefici d’ogni maniera. Lungi però da voi la presunzione di pensare che ciò che avete e che siete sia frutto della cieca fortuna, della vostra industria e della avvedutezza vostra. Poiché non tutti quelli che perdettero le possedute sostanze in questi anni furono meno industriosi e meno avveduti di voi. Lungi da voi lo stolto vanto di numerosa ed eletta
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Dalmiro Agosti in un ritratto di Francesco Arata
Marietta Sperlari in un ritratto di Mons. Monti
Don Francesco Terletti
prole, siccome frutto unico di vostra potenza generatrice e di vostra educazione morale. No, la Fede e l’esperienza ci ammaestrano che il solo Iddio concede la prole ai genitori ed Egli solo dà a questi ed a quella il buon sentimento. “Quid habes quod non accepisti?” ammonisce l’apostolo Paolo; che mai possiedi tu, o uomo insensato che ti vanti? Nulla. Dio solo è il creatore e il vero padrone dell’intero mondo e di quanto nel mondo si trova. Di una sola cosa è proprietario l’uomo: del peccato e dell’inclinazione a medesimo; ma chi vorrà vantarsi di ciò che forma la più vergognosa umiliazione dell’uomo? Ma voi, o Signori, non siete presuntuosi, il so; anzi non per altro vi siete raccolti qui stamane se non per riconoscere la protezione speciale del cielo a riguardo vostro e ringraziarlo cordialmente di quanto ha fatto per voi. Io sono lieto di questi vostri religiosi sentimenti, essendo essi la dimostrazione più eloquente della fede vostra assai profonda. Se bramate per altro che il vostro ringraziamento sia accetto maggiormente a Dio e sia prodromo di altri benefici ancor maggiori, io vi esorto a rientrare nel segreto della vostra coscienza e riandare in questi santi momenti la vostra vita, affine di confrontare se le azioni vostre in tutto il tempo della maritale vostra unione siano state degne di Dio e di voi; se avete corrisposto alle grazie senza numero elargitevi dal Signore; in siffatto umile atteggiamento forse potrete trovare alcun che non rispondente alle premure di Dio per voi; sì che ammirati del molto che ha fatto Iddio per voi e dolenti del poco che voi avete fatto per Lui, vorrete chiederne perdono e bramare di rientrare nella dolce amicizia sua. Oh l’amicizia del buon Dio! Chi può apprezzarla? Chi può esprimere la gioia e la pace
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che appresta l’amicizia di Dio’? “Pax multa diligentibus legem tuam,” esclamava il santo Re Davide. Amare Iddio, ecco tutto; è nulla il resto: “vanitas vanitatum et omnia vanitas, praeter amare Deum”, così ripeteva, disilluso, Salomone, che pure avea gustate tutte le cose di questo mondo. Signori, ho finito. Io procedo nella celebrazione dell’augusto Sacrificio, e quando sarà disceso dal cielo l’amabile Gesù, quando l’avrò in queste mie mani, voglio dirgli tante belle cose per voi. Voglio pregarlo si degni continuare quella dolce, benigna assistenza che vi usò fin ora. Voglio pregarlo che ribenedica voi, o Signori, benedica i vostri cari figli, affinché si conservino sempre buoni e siano sempre l’onore della vostra Casa; voglio pregare Gesù che vi benedica tutti e nell’anima e nel corpo e nelle sostanze vostre e nei vostri desiderii. E se Egli, che tutto conosce, prevede che il vivere sia utile per le anime vostre, lo pregherò ancora che voi, o Signori, possiate giungere a celebrare, dopo quelle d’argento, anche le Nozze d’oro, sicchè pieni di anni felici ed arricchiti di opere buone, possiate finalmente Signori, eternare in cielo quell’amore che vi ha congiunti sulla terra. Benignissimo Iddio, esaudite il voto ardente dell’umile vostro servo. Corte Madama, 15 Aprile 1905
Don Francesco Terletti, Parroco”
La vasta esperienza psicologica di don Francesco, arricchita dall’incessante osservazione e meditazione del vivere attraverso la fede, lascia trasparire nell’omelia una tenerezza e una delicatezza di sentimenti, quasi una penetrazione dell’animo e della vita quotidiana dei due “non più novelli sposi”, che non sono rappresentati come due personaggi schematici, ma come persone singolari, ciascuna con un suo carattere e un suo aspetto peculiare. Presentati nei loro reciproci rapporti sociali e affettivi, con una evidenza di verità, di autenticità tale che, seppur appartenenti ad una generazione passata della famiglia in senso lato, ci rappresentano la società rurale e lombarda e sembra ci invitino allo spettacolo del crescere, dell’agire, dell’invecchiare negli intrecci naturali della sorte. Si intuisce che nell’autore sono prevalsi i ricordi e le impressioni rischiarati da quella esperienza, che solo l’età può maturare, arricchita dei segreti delle anime e dei travagli interiori, religiosi e morali. Il linguaggio è quello di una vita calma, ma attiva, di gente sì campagnola, ma ricca di vigore e di carattere. Purtroppo l’auspicio espresso da don Francesco di poter celebrare tra altri venticinque anni le nozze d’oro di Dalmiro e Marietta non si realizza, poiché “lo sposo” muore nel 1911. L’amico don Francesco, anche in questa triste occasione,
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non manca di esternare ai familiari, e in particolare a Marietta, tutto il suo dolore con una poesia di ben quarantasei terzine, strutturando il primo verso in endecasillabi sdrucioli, il secondo in endecasillabi piani e il terzo in quinari, secondo lo schema Abb. La intitola “Un fiore sulla tomba di Dalmiro Agosti, dieci giorni dopo”, con il pietoso intento di riproporre il tema cristiano della vita ultraterrena, pur con suggestioni foscoliane, il sopravvivere delle memorie e degli affetti umani e familiari oltre il senso della morte... “Un fiore su la tomba di Dalmiro Agosti, dieci giorni dopo...” “Fu vista un dì la Maddalena piangere del Redentor al monumento intorno; Ahi fiero giorno! Quei ch’essa amava e di cui piè di lagrime bagnati avea e rasciugati in fine col biondo crine; Quell’ospite divin adusa accogliere nella ricca magion ed ascoltare e venerare; L’amico che il fratello già dai vincoli funerei di morte tratto aveva, più non viveva! Ed essa che il seguì dall’Orto al Golgota, cantandone, coi passi e con gli accenti, tutti i tormenti; Essa che di Gesù raccolse l’ultimo respiro e ne compose il frale amato ben profumato; Ora lo cerca e non lo trova. Trepida il guardo, fisso nella tomba vuota, quella devota Sol pensa al suo Gesù; sicchè né ad Angeli · né a giardiniere attende, e chiede ansante: dov’è l’Amante?! E solo allor terge le calde lagrime e balza dalla gioia, quando ha scorto Gesù risorto. _ lo veggo in questo giorno pur mestissimo altra Maria dolente, appassionata, e desolata. Che avvenne mai’? La falce inesorabile
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della morte troncò lo stel prezioso di caro sposo. ll buon consorte di Marietta, il tenero amico dolce del cuor suo, Dalmiro, il gran desiro, La vera speme, il perno ancor dell’inclita magione ed il più grande suo conforto purtroppo è morto! E come mai potrebbe senza lagrime la Sposa contemplar quel frale amato ed adorato? Essa che per sei lustri felicissimi visse col suo Dalmiro indisturbata e rispettata? Essa che ricevette insieme a nobili prove d’amor, gentil delicatezze, mille carezze? Che ne ammirò l’industre ingegno fertile, onde scorge adesso in bel compenso esteso il censo?... Veggo la mesta, sconsolata vedova, vestita di gramaglie, avviarsi intanto al Camposanto; E là coi figli insiem stemprarsi in lagrime intorno al monunento maestoso del caro sposo; Veggo che spia, osserva, ascolta e trepida domanda al passeggier: dov’è Dalmiro?!... E dall’empiro Intanto veggo discendere l’Angelo di Dio a consolar la derelitta vedova afflitta. “Che fai? Chi cerchi, o Donna, in questo lugubre, deserto loco? E perché piangi ancora? Su, su, t’incuora. Pagò Dalmiro alla natura il debito, che tutti voi pagar dovrete un giorno. Poiché soggiorno Stabil non v’ha quaggiù e fugge rapido · il tempo, quale di fiumana è l’onda. E voi circonda
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ln ogni tempo quella morte impavida, che a niun perdona. Sì, cessate il pianto; ma al Camposanto Redite spesso insiem; e qui nel funebre silenzio delle tombe meditate la vanitate Delle mondane cose, che hanno termine qui tutte e presto, e sol fia fortunato chi fia salvato. Qui l’ossa si confondono del povero, del dovizioso; qui ripon sua stanza vera uguaglianza. Su questa polve il superbo fassi umile, il ricco stende al povero la mano e fassi umano; Rammenta quel Dio che i morti suscita, e i mesti con fatidica parola presto consola. Tu, Donna, mesta fra le meste, vedova di tanto sposo, il vedrai un giorno a te d’intorno. Dal seno tuo speme cotal dipartasi giammai, o Donna. Intanto il suo sembiante ti sta d’innante, Tu il vedi, lo rimìri in questi docili figli, che ti circondan riverenti, e in dolci accenti A te parlano, a te parole dicono d’affetto, di pietade e d’ogni stima più di prima. Ed essi che col latte già succhiarono la tua profonda Fede e le più belle virtù sorelle, Circonderanno premurosi, o Vedova, la tua canizie e suppliranno il morto. a tuo conforto. Sì del buon padre sull’avello giurano i figli a te, dall’intimo del cuore, eterno amore.” Sì disse, e verso il ciel con volo celere partì lo Spirito celeste, lasciando
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nel venerando Stuolo già mesto che l’udia, l’unica soave letizia d’ogni cuor che geme, la santa speme. Ed io che testimonio fui del fervido parlar dell’Angelo, gioiva in cuore, ed al Signore Alzai questa preghiera: dall’Altissimo trono, dove tu siedi, o Dio, il detto del tuo diletto Angelo ne conferma; deh nell’inclita · Famiglia mai non venga men l’amore a te, Signore; Né si raffreddi mai la Fede vivida, espressa nei recenti gran perigli da questi figli; E con la Fe’, tua Religion santissima, i tuoi voler, i tuoi divini detti sien lor diletti. Si che in un giorno assai lontano passino, dal suol d’esiglio, alla patria insieme. Questa è la speme, questo il fervente voto, che dall’intimo _ del cor riversa in oggi, o gran Signore, l’umil pastore.”
Don Terletti lascia la parrocchia di Corte Madama nel gennaio 1924, ritornando nella sua casa di San Bassano, continuando instancabilmente nell’opera pastorale e dedicando ogni suo sforzo anche alla realizzazione e all’abbellimento delle chiese del suo paese natale. Muore ottantenne il 19 dicembre 1937. Bibliografia S. Corada, “Memorie di Corte Madama” (1987) Cugini, “Storia di Castelleone” dal 1700 al 1946 Si ringraziano: prof Angelo Lacchini, dr. Elia Ruggeri
In questi versi si esalta il senso dell’humanitas e il relativo corollario legato al pater familias, il sublime mondo naturale della morte appare trasformato dai più delicati sentimenti dei propri cari, degli amici, esso opera ancora sui vivi, destando ricordi e forse illusioni. La morte apre la via ad un ritorno dei sentimenti religiosi più intimi, la materia del vissuto appare quasi immortale e dimostra, fino in fondo, che non è vero che la morte dell’uomo sia il nulla. Restano dell’amico Dalmiro le idee, i fatti, la memoria, gli affetti: in essi i viventi cerchino conforto.Il pietoso lamento di Marietta fa apparire l’uomo nella sua intimità, nei delicati sentimenti della sua natura familiare. Il verso, composto da tenace perizia, si sostanzia, senza perdere spontaneità, come frutto lirico di un mondo morale e religioso che esalta l’elevazione degli affetti privati dell’animo,concretandosi nel pensiero e nel sentimento. L’iter finale, anche lasciandoci il sapore di un precipitato di poesia foscoliana, esalta l’amore per la vita: pensare, operare, saper morire, affidando sé stessi all’affetto dei cari e all’armonia confortante di un “Requiescat in pace”.
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