Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia _______________________________________________________________________ IX LEGISLATURA - ATTI CONSILIARI - PROGETTI DI LEGGE E RELAZIONI _______________________________________________________________________
CONSIGLIO REGIONALE GM/MN
N. 136-151-A.BIS RELAZIONE DELLA III COMMISSIONE PERMANENTE
(Tutela della salute, servizi sociali, alimentazione, immigrazione, corregionali all’estero, previdenza complementare e integrativa)
(Relatore di minoranza RITOSSA) sulle
PROPOSTE DI LEGGE n. 136
<> Presentata dai consiglieri Molinaro, Blasoni, Ciriani, Guerra, Gottardo il 31 maggio 2005
n. 151
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Presentata dai consiglieri Alzetta, Battellino, Canciani, Degano, Ferone, Malattia, Metz, Zorzini, Zvech il 1° agosto 2005
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Presentata alla Presidenza il 22 febbraio 2006 -----
A conclusione del dibattito avvenuto in Commissione, Alleanza Nazionale ha definito il presente PDL una “legge comizio” nel senso si badi bene, dispregiativo del termine. Di fatto, in esso, sono state elencate solo varie problematiche, i soggetti, l’organizzazione territoriale, i metodi e gli strumenti di programmazione, concertazione partecipazione e le risorse umane, ma ci si è ben guardati dall’indicare, le disponibilità finanziarie su cui fare affidamento, per realizzare…..quanto contenuto nella declaratoria degli articoli di legge in oggetto. Un PDL che ha creato nell’opinione pubblica regionale, una grande aspettativa, perché ha indicato vari settori, tra cui: qualità della vita, autonomia individuale, nondiscriminazione, coesione sociale, prevenzione, riduzione e risoluzione dei problemi relativi alle condizioni di bisogno e disagio. Più che una legge, rivedendola, sembrerebbe un trattato di sociologia, dove si studiano in via teorica tutte le eventuali possibilità, opportunità e strategie, ma poi nei fatti, nel quotidiano, la teoria si scontra con la realtà. Valore e ruolo delle famiglie, auto-aiuto, centralità degli enti locali, sono tutti fattori che dovrebbero concorrere ad un lavoro comune per realizzare un sistema integrato di servizi sociali. Credo che il legislatore non abbia quindi percepito in quale stato calamitoso – usando un termine medico si definirebbe accanimento terapeutico – versi il sistema regionale dei servizi sociali. Anziché ricalibrare le normative sulla realtà esistente, si preferisce garantire stranieri soggiornanti, richiedenti asilo, rifugiati, apolidi, minori stranieri e donne gravide, senza nemmeno immaginare quanti e quali siano i flussi migratori che incidono economicamente sulla nostra regione. E’ pur vero che una legge va a codificare risposte omogenee che devono poi materializzarsi sul territorio regionale, ma è altrettanto vero che le strutture che operano sul territorio magari, a volte non sono in grado di fornire risposte puntuali e correlate. Si potrebbe redarre un trattato sul burocrate se ci si soffermasse ad analizzare l’elefantiasi organizzativa che caratterizza i comitati, gli osservatori, piani vari, carte dei diritti, uffici di tutela, dimenticando ad esempio, che il funzionamento di un sistema richiede notevoli “risorse umane”, nello specifico: ascolto, elaborazione e motivazione nella risposta fornita. Il Capo VIII di tale proposta: “Strumenti di finanziamento”, rappresenta “Il tallone d’Achille” della legge in argomento, perché non basta elencare i soggetti che concorrono al finanziamento del sistema socio-sanitario regionale, bensì, è necessario, perlomeno, quantificare ciò che comporta tale assetto. Tutta la struttura economico-finanziaria della legge crolla poi nel raffrontarsi con la quotidianità, quando si parla, come nell’art. 57 (“Interventi di sostegno economico) e nell’art. 58 (“Redditi di base e progetti di inclusione per la cittadinanza”),
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dove si parla anche di interventi monetari integrativi del reddito, dimenticando che per porli in essere, si necessita, in via preventiva, di una disponibilità finanziaria Questo per evidenziare che questa può anche essere una norma quadro di settore ma per usare una metafora a carattere artistico, più che un quadro …rimane una bella cornice che va a delimitare una “crosta”.
RITOSSA
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Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia _______________________________________________________________________ IX LEGISLATURA - ATTI CONSILIARI - PROGETTI DI LEGGE E RELAZIONI _______________________________________________________________________
CONSIGLIO REGIONALE GM/MN
N. 136-151-A.TER RELAZIONE DELLA III COMMISSIONE PERMANENTE
(Tutela della salute, servizi sociali, alimentazione, immigrazione, corregionali all’estero, previdenza complementare e integrativa)
(Relatore di minoranza BLASONI) sulle
PROPOSTE DI LEGGE n. 136
<> Presentata dai consiglieri Molinaro, Blasoni, Ciriani, Guerra, Gottardo il 31 maggio 2005
n. 151
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Presentata dai consiglieri Alzetta, Battellino, Canciani, Degano, Ferone, Malattia, Metz, Zorzini, Zvech il 1° agosto 2005
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Presentata alla Presidenza il 22 febbraio 2006 -----
Il PDL in esame che ridefinisce il sistema integrato dei servizi e interventi sociali, dovrebbe essere nelle intenzioni di tutti una delle norme di maggiore importanza della legislatura. Il recepimento della 328 nazionale, a cui la modifica del titolo quinto della Costituzione non obbliga la nostra Regione e che tuttavia sentiamo necessario. Una proposta di legge di eccezionale rilievo, e per i contenuti trattati e per il lungo periodo intercorso dall’ultimo Piano Sociale (L. 33/88) che dovrebbe superare la concezione tradizionale di assistenza e rivolgersi a quella, pacificamente più ampia, di Welfare. Il primo e fondamentale quesito che riteniamo debba essere posto è il seguente: la proposta di legge in esame, per contenuti, capacità di innovazione e lungimiranza del legislatore corrisponde alle aspettative della comunità regionale? E’, a nostro giudizio, evidente che la risposta non può essere affermativa. Il PDL rappresenta tutt’al più un maquillage della normativa vigente. Non si colgono le opportunità grandi che una norma di questa portata avrebbe consentito. Mentre la vexatia questio in Commissione è parsa essere l’anacronistica dicotomia pubblico – privato, o la disputa sull’uso di questo o quel termine quasi le parole fossero di destra o di sinistra, si è persa l’occasione per un prodotto normativo di più alto profilo. Evidenziamo alcuni aspetti che ci paiono corroborare questa tesi.
Nuove povertà: un approccio non condivisibile La legge sul Welfare non deve inerire solamente l’assistenza verso minori, anziani, disabili ma deve abbracciare uno spettro di fragilità sociali assai più ampio ed, in particolare, quelle che vengono definite nuove povertà. L’approccio, bocciato, della Casa della Libertà partiva da una definizione del fenomeno, di cosa si intendesse per nuove povertà e da questa definizione faceva discendere strumenti di contrasto quali il reddito di ultima istanza, i voucher e un insieme di servizi a sostegno dei soggetti e dei nuclei familiari in difficoltà. Interventi solo in ultima istanza in denaro e rivolti a soggetti incapaci a far fronte ai propri diuturni bisogni effettivamente per ragioni di salute, di disabilità, di età e talora anche sociali. Ove possibile l’accompagno al lavoro e la temporaneità degli interventi, ciò per non ingenerare un sistema dei sussidi completamente avulso dalle tradizioni e dalla
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cultura del Friuli Venezia Giulia nella convinzione che le difficili compatibilità economiche – finanziarie e la nota scarsità di risorse renda necessari interventi mirati e rivolti a chi ne abbia effettiva necessità. A questo modello, succintamente descritto, se ne è preferito un altro che contestiamo. Il capo relativo agli interventi di sostegno al reddito si compone di due soli articoli in larga parte in contraddizione e sovrapposizione tra di loro. Il primo – articolo 57 – ribadisce i già vigenti interventi di sostegno economico erogati dai Comuni; il secondo – articolo 58 – assieme ad un altro mix di interventi fa scattare mensili erogazioni in denaro per tutti al di sotto di una soglia di reddito annualmente definita. In altre parole, la compresenza necessaria e sufficiente della cittadinanza e di un reddito esiguo fanno scattare il sussidio. Se ciò ha un senso per soggetti in condizioni di elevatissima precarietà già gli interventi di cui all’articolo 57 sarebbero sufficienti. Diversamente l’articolo 58 garantisce sostanzialmente un integrazione di reddito a tutti per il solo fatto di essere nati o essere venuti a risiedere in Friuli Venezia Giulia. La misura è inapplicabile: l’ISTAT ci segnala che sono 50.000 i nuovi poveri in Friuli Venezia Giulia. La misura è demagogica: non a caso verrà, con ogni probabilità, approvata in campagna elettorale creando enormi attese a cui le non infinite risorse non possono oggettivamente far fronte a meno di non drasticamente tagliare quanto utile per l’innovazione, le infrastrutture, il turismo e via dicendo. La misura, altresì, è scarsamente etica poiché accanto a situazioni di effettivo bisogno rischia di premiare altre o di lassismo o di scarsa propensione al lavoro o in realtà astute nella rappresentazione non vera dei propri redditi.
Famiglia: solo sullo sfondo la prima risorsa della rete Al centro del sistema sta il cittadino e la sua famiglia o il servizio e l’ente che lo eroga? Per noi incontrovertibilmente il cittadino. In primo luogo per un approccio culturale che vede il primato dell’individuo sullo Stato ma anche per meno ideologici motivi: la famiglia resta nel nostro Paese il principale erogatore di prestazioni assistenziali e quando invece le prestazioni sono rese
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da Enti della rete formale dei servizi la famiglia resta il soggetto che sostiene la parte principale dei costi, tranne nei casi di indigenza. A paradigma: la parte predominante delle rette nelle strutture residenziali per anziani è corrisposta dalle famiglie così pure per disabili. La famiglia però, tranne che in genericissimi passaggi, viene nell’impianto di questa norma relegata sullo sfondo. Stabiliscono i Comuni la compartecipazione al costo dei servizi, il tipo delle prestazioni da erogarsi e quali, tra le tante forme di assistenza, vanno rese in quell’ambito. Il cittadino non può scegliere, nemmeno quando paga. Si rischia insomma che l’anziano, il disabile siano considerati a fortiori dei malati a cui precludere la facoltà di scegliere, di avere gusti e inclinazioni. E’ del tutto evidente che le prestazioni vanno rese con appropriatezza rispetto agli effettivi bisogni sociali e assistenziali del singolo, nessuno può richiedere prestazioni inappropriate tuttavia l’articolato nega di fatto pressoché ogni libertà di scelta e di fatto annulla, ad esempio, la norma sulle badanti votata solo lo scorso anno. Si consenta una breve digressione: la badante rappresenta una modalità di assistenza a domicilio assai frequente e spesso più efficace dell’assistenza domiciliare prestata dai Comuni che di rado supera i tre accessi settimanali. La badante però nel suo pressoché diretto (ancorché regolato dalla Legge) rapporto con i familiari , sfugge al rigido controllo del sistema e perciò non viene considerata prestazione essenziale dalla norma in esame anche se, restando alle ultime rilevazioni, gli anziani seguiti dalle assistenti familiari sono pari, nella nostra Regione, a quelli ospiti nelle case di riposo. Non vi è la previsione di risorse specifiche per il sostegno alle famiglie che preferiscono l’assistenza a domicilio. Relativamente al ruolo delle famiglie la norma tradisce sia un impianto centralista e sia l’incapacità di cogliere un futuro facilmente preconizzabile. La compartecipazione dei nuclei familiari ai costi delle prestazioni assistenziali, e all’erogazione stessa dell’assistenza si enfatizzerà nei prossimi anni per l’oggettiva insufficienza delle risorse pubbliche. Le famiglie debbono avere però diritto di scegliere. Attivati in un ambito servizi quali assistenza domiciliare, badanti e case di riposo è preferibile un modello che consenta di assecondare, seppur con appropriatezza, le
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inclinazioni dell’individuo a quello che di fatto la norma propone per cui in ogni caso l’ultima parola spetta all’assistente sociale. Eppure anche Il CNEL ritiene che vada evidenziato il ruolo delle reti informali, in primo luogo della famiglia. Il nostro paese ha una tradizione molto chiara. Sono circa 2.364.000 le famiglie cha hanno in casa una persona con problemi e che vivono questa condizione, mentre sono “solo” 742.000 le persone disabili che vivono sole. I disabili, molto più del resto della popolazione, si trovano come membri aggregati dalla famiglia. Ci sono, inoltre, 300.000 anziani confinati e che vivono da soli. Oltre i 75 anni, poi, tra i disabili il 40% vive da solo, mentre nel resto della popolazione il tasso è del 35%. Le famiglie che sostengono una persona non autosufficiente manifestano la necessità di ottenere una protezione adeguata. Ancora oggi, infatti, la piramide di aiuti si appoggia su una base larghissima che è sempre la famiglia, intesa come la rete familiare; al secondo posto sono i servizi privati; al terzo posto i servizi pubblici. Ad avviso del CNEL, tale protezione deve articolarsi attraverso due modalità. La prima è il sostegno economico. Mentre infatti il 27% delle famiglie italiane ritiene di avere scarse o insufficienti risorse economiche, il dato è del 42% nelle famiglie con disabili, del 41% in quelle con un anziano disabile e quasi del 46% in quelle con disabili più giovani. Si tratta di un dato importante. Dal punto di vista sociale emerge infatti che l’isolamento della famiglia è più marcato quando i disabili sono giovani piuttosto che anziani. La seconda modalità di sostegno alle famiglie deve articolarsi attraverso una rete di servizi adeguata alla domanda. Se infatti si osserva l’uso che fanno dei servizi le persone disabili, si evidenzia che esse hanno un tasso di utilizzo straordinariamente più elevato del resto della popolazione. Ebbene le famiglie con problemi di assistenza, quindi quelle che hanno riportato questo bisogno, ricevono un sostegno del 37% dei casi, quelle con problemi gravi nel 43,3% dei casi, quelle con problemi non gravi nel 32%. Ad avviso del CNEL è di tutta evidenza che si tratta di percentuali ancora insufficienti.
Fondo per la non autosufficienza/autonomia possibile: un occasione persa Il fondo per l’autonomia possibile dell’articolo 41 è paradigmatico della tesi che sottende e nel contempo innerva la presente relazione: il PDL proposto all’aula non coglie le grandi occasioni che potenzialmente avrebbe. Nella concezione comune, nelle proposte di legge presentate al Parlamento nazionale e, soprattutto, nella legislazione concretamente vigente in numerosi Paesi europei, il fondo così può essere sinteticamente delineato.
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Il numero dei soggetti non autosufficienti per l’incremento di aspettativa di vita media è in crescita esponenziale e le risorse destinate a far fronte a questi bisogni sono tali da rendere potenzialmente insostenibile nei prossimi anni la spesa sociale di Stati e Regioni. Diventa allora necessaria l’istituzione di fondi per la non autosufficienza, una sorta di pensionei aggiuntive che interviene all’insorgere dello stato di non autosufficienza. Le modalità di finanziamento sono le più disparate. In Germania e Olanda milioni di persone ne usufruiscono e il fondo si alimenta attraverso contributi obbligatori versati in parti uguali da lavoratori e datori di lavoro. In caso di intervenuta non autosufficienza l’utente decide se ricevere direttamente un contributo in denaro o ricevere servizi. In altri Paesi, gli Stati Uniti ad esempio, si sostituisce al meccanismo contributivo che chiama in causa tutti i lavoratori un piano di accumulo che vede ogni singolo soggetto costituire una autonoma pensione di non autosufficienza. In altri Paesi il fondo si alimenta con un mix di risorse in parte pubbliche in parte dei singoli cittadini. Lo strumento finanziario è direttamente gestito dallo Stato/Regioni ovvero si avvale di assicurazioni private. Plurime modalità, dunque, per uno scopo ben definito: incrementare le ordinarie risorse di bilancio per la spesa connessa alla non autosufficienza attraverso il concorso responsabile dei cittadini. Proposte di legge per la costituzione anche in Italia del fondo per la non autosufficienza/autonomia possibile sono in discussione in Parlamento e in Alto Adige e Trentino. Cosa propone invece il PDL in esame? Puramente una rubrica quella dell’articolo 41. Al di là della locuzione fondo per l’autonomia possibile, infatti, i contenuti dell’articolo sono tutt’altro. Non si fa altro che riallocare una parte delle risorse del fondo sociale regionale in un altro contenitore che ha l’unico elemento di novità una rubrica che evoca tutt’altro. Non si dà però palesemente vita al fondo per l’autonomia possibile.
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Certo l’avvio di un fondo regionale per l’autonomia possibile effettivo sarebbe soggiaciuto a modifiche statutarie – pur sempre possibili – per l’obbligatorietà della contribuzione dei singoli. Un percorso complesso ancorché con ogni probabilità obbligato nei prossimi anni che il PDL in esame nemmeno prefigura. Eppure, i costi della non autosufficienza rischiano di diventare insostenibili. Il 4,9% del Pil nazionale già oggi viene destinato alla spesa sociale, ma poiché, secondo il rapporto Ecofin, nei prossimi decenni la popolazione europea in età lavorativa passerà dai 246 milioni del 2000 ai 203 milioni nel 2050 e gli over 65 da 61 a 103 milioni, tale percentuale salirà in modo esponenziale.
Servizi sperimentali: rischiamo una norma incapace di cogliere le peculiarità territoriali Anche con riferimento alla tipologia dei servizi da erogarsi l’impianto della norma denuncia tutta la sua incapacità di rispondere a criteri innovativi. Se da un lato ai singoli ambiti si riconosce una autonoma capacità di scelta sulle modalità di spesa che rischia di rendere labile l’idea di omogeneità delle prestazioni sul territorio, per converso non si ha il coraggio di introdurre adeguatamente il concetto di sperimentabilità dei servizi. La società cambia e non sempre luoghi tipici dell’assistenza come le case di riposo o servizi come l’ADI sono l’unica possibilità. Si affacciano possibilità nuove quali gli appartamenti assistiti che coinvolgono domiciliarità e assistenza. Nascono risposte specifiche e più puntualmente mirate a problemi di disabilità o a patologie quali l’Alzeihmer. Nel contempo, sarebbe miope non comprendere come vi siano peculiarità territoriali. La Carnia con centri abitati di piccole dimensioni e lontani tra loro, è patente, non è Trieste. Il PDL in esame, tuttavia, anziché favorire nel rispetto della qualità dei livelli minimi di assistenza la ricerca di interventi e forme nuove di assistenza sotto il controllo delle aziende sanitarie e dei Comuni le comprime proponendo una visione sistematica e tradizionale che appare già superata ancor prima del voto in aula. Eppure questa dovrebbe, nelle intenzioni, essere legge quadro e durevole nel tempo.
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Le Province ed altro: Alla Regione sono affidati i compiti di programmazione e ai comuni singoli o associati, con massima enfatizzazione del principio di sussidarietà istituzionale, sono attribuite vastissime funzioni di programmazione del sistema integrato, amministrative nonché altre dalla determinazione dei livelli di assistenza alle condizioni di accesso alle prestazioni, alle autorizzazione vigilanze e accreditamento (ma quis custodiet ipsos custodes?) nonché relative alla concreta erogazione dei servizi. Un modello anche condivisibile ove non fosse così sbilanciato sull’Ente territoriale locale pur più vicino al cittadino. Il testo in esame tuttavia comprime senza ragione le funzioni delle Province e delle Aziende per i Servizi Sanitari. Per converso si implementano a dismisura le funzioni delle aziende pubbliche per i servizi per la persona che, esorbitando il proprio tradizionale ruolo, finiranno in forza della legge, se approvata, per fare di tutto, forse a scapito delle proprie primarie funzioni. Le Province che nella originaria proposta di iniziativa della CdL assolvevano la funzione di vigilanza in attuazione di deleghe provinciali e comunali, realizzavano strutture sociali e svolgevano funzioni di studio e monitoraggio sopportano nel testo licenziato dalla Commissione – sostanzialmente quello di maggioranza è lapalissiano – il ridimensionamento più consistente. Non sarà forse che considerazioni relative all’attuale guida politica di questi Enti rischia di pesare nelle scelte del legislatore? Sarebbe un peccato e una contraddizione rispetto all’azione di rafforzamento di ruolo e funzioni adottate dal Friuli Venezia Giulia nella legislazione degli ultimi anni: hanno le Province strutture e organici con cui più ampiamente concorrere alla realizzazione della riforma del sistema di Welfare nella nostra Regione.
La necessità di un testo unico e il proliferare dei regolamenti Ha colpito che, sia in sede di Comitato Ristretto che in sede di Commissione, non sia stato accolto il nostro emendamento tendente alla realizzazione, da parte della Giunta regionale, di un disegno di legge apposito finalizzato al riordino della legislazione regionale in materia sociale che in tanti anni si è sovrapposta, stratificandosi, creando non poche difficoltà tanto agli utenti quanto al legislatore e agli uffici. L’esigenza di razionalizzare e semplificare gli strumenti legislativi è ben nota, ma è innegabile che, di recente, è divenuta una necessità primaria, per favorire un’armonizzazione dell’immensa, variegata e contorta massa di disposizioni legislative che affligge il nostro ordinamento giuridico regionale. Necessità primaria tanto più
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evidente in materie come quella sociale dove l’utente finale, il cittadino in difficoltà, non può essere sottoposto anche ad un calvario normativo. La riorganizzazione di più disposizioni di leggi che spesso e volentieri vengono a trovarsi racchiuse in fonti legislative nate in epoche diverse è, o quantomeno dovrebbe essere, allora, il momento principe di una più meditata riflessione su quanto è gia stato scritto, proprio perché, talvolta, una materia viene regolamentata da più norme ognuna delle quali ha una sua diversa e precisa collocazione temporale; l’opera di sistemazione delle varie norme di legge si confronta, inoltre, con la concreta applicazione delle stesse. La scelta di una completa ed organica trattazione della materia sociale trae il suo spirito ancestrale e più profondo nel dovere offrire ai nostri cittadini un ordinamento regionale chiaramente improntato ad una maggior efficienza e sensibilità per tutti i possibili fruitori del “diritto sociale”: si tratta di rendere maggiormente conoscibile un determinato settore del diritto positivo attraverso una raccolta, o anche una riscrittura, perché no, della legislazione vigente sopra una materia delicata per oggetto e per i destinatari. Auspichiamo che durante i lavori la maggioranza si ricreda, ritornando sulla immotivata, a nostro avviso, preclusione fin qui posta. Dall’altro lato assistiamo in questa legge al proliferare di regolamenti. Si badi bene che non si vuole qui criticare la delegificazione in generale ovvero l'abbassamento di una norma dal livello legislativo a quello regolamentare. La delegificazione può anche, in determinati casi, essere opportuna ma più raramente di quanto sembravano pensare, almeno qualche tempo addietro, alcuni apologeti, che mostravano di voler attribuire alla delegificazione quell'effetto di ampliamento delle libertà individuali e di gruppo, che invece, eventualmente, può conseguire solo ad una deregolamentazione ovvero ad una totale rinuncia - da parte di Stato, regioni, nel nostro caso, ed enti pubblici - ad emanare norme, sia di tipo legislativo che regolamentare, in materie che vengono quindi totalmente lasciate alla autonomia contrattuale dei privati. La delegificazione quindi può anche essere opportuna, ma ricordiamoci che stiamo trattando di diritti primari, l’assistenza sociale, che non può solo essere rinviata ad una fonte normativa di grado inferiore, per assolvere una vicinanza al cittadino. Anzi il più delle volte la conoscibilità di tali fonti e ancor più difficile per il cittadino!
La sistematicità In altra parte della relazione si è posta in evidenza la considerazione, per altro prossima all’ovvietà, che la norma sul Welfare attiene un ambito oggettivamente più ampio di quello dell’assistenza in senso tradizionale. In conseguenza di ciò, doverosamente nella definizione delle aree di intervento si enumerano in conseguenza di ciò politiche per le famiglie, infanzia, immigrati le dipendenze e molte altre.
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Al di là della lode per l’enumerazione quasi esaustiva, l’articolato evidenzia con forza anche qui tutta la sua genericità. Siano paradigma l’articolo 46– Politiche per gli immigrati – che, in tre righe tre, rimanda alla legge regionale 4 marzo 2005 numero 5, oppure gli articoli 51 e 50 ìrispettivamente per le persone senza fissa dimora e per le persone detenute o ex detenute. Gli articoli contengono elencazioni di interventi e azioni che la Regione dovrebbe promuovere tradendo senza ombra di dubbio sia l’incongruità di liquidare in termini così generici ambiti così complessi sia l’inadeguatezza di una elencazione nutrita di azioni senza nulla dire delle risorse, rinviando a regolamenti (di là da venire) ovvero nemmeno rinviando a regolamenti, quasi che la mera declarazione di un principio (la Regione promuove, sensibilizza, sostiene) avesse come esito l’inveramento delle misure finalizzate a sostenere quel principio. Si perde un’occasione anche con l’articolo 44 a rubrica politiche per le persone anziane. Essere anziani oggi nel sistema di Welfare non è certo soltanto essere destinatari di prestazioni tipicamente assistenziali. L’incremento di aspettativa della vita media prefigura uno scenario attuale e in divenire composto da una pluralità di bisogni sociali, culturali, abitativi che esulano completamente dalle prestazioni assistenziali. Anche in questa occasione sarebbe occorso, ma modidifiche sono possibili in aula, un orizzonte più ampio.
Conclusioni. Non tutto è ovviamente criticabile nell’articolato in oggetto, tutt’altro. Il giudizio negativo che tuttavia permane è motivato però dalla forbice troppo ampia tra gli altisonanti toni con cui il provvedimento era stato preannunciato e la sua attuale consistenza e soprattutto dalla sua inadeguatezza rispetto alle esigenze della comunità regionale. Un prodotto, ci si passi il termine non giuridico, ordinario. Un testo che non coglie a fondo né le complessità di fenomeni come le nuove povertà, né riesce a introdurre criteri innovativi quando affronta i temi tipici dell’assistenza. La complessità del welfare in questi e nei prossimi anni a venire richiederebbe un impianto normativo di ben più alto profilo. Restano temi più ideologici sul ruolo della famiglia e del cittadino, che la norma non pone in primo piano.
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Per brevità un’ultima considerazione: il testo sul sistema integrato di interventi e servizi nulla ci dice delle risorse, essendo norma quadro. Resta questo però uno dei temi politici di maggior rilievo. Confidiamo che dall’aula derivino sostanziali revisioni del provvedimento.
BLASONI
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(Tutela della salute, servizi sociali, alimentazione, immigrazione, corregionali all’estero, previdenza complementare e integrativa)
(Relatore di minoranza MOLINARO) sulle
PROPOSTE DI LEGGE n. 136
<> Presentata dai consiglieri Molinaro, Blasoni, Ciriani, Guerra, Gottardo il 31 maggio 2005
n. 151
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Presentata dai consiglieri Alzetta, Battellino, Canciani, Degano, Ferone, Malattia, Metz, Zorzini, Zvech il 1° agosto 2005
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Presentata alla Presidenza il 22 febbraio 2006 -----
Signor Presidente, egregi colleghi, con il progetto di legge unificato n. 136-151 approda all’Aula del Consiglio regionale uno dei più importanti provvedimenti legislativi di questa IX legislatura regionale, un progetto a lungo atteso per promuovere un salto di qualità nelle politiche sociali del Friuli Venezia Giulia, muovendo da due fondamenti: la legge 328/2000 e la successiva modifica alla Carta Costituzionale, relativa al suo Titolo V, di cui alla legge costituzionale n. 3/2001. Il testo che approda in Aula è il risultato di un lungo percorso di esame congiunto dei due progetti a suo tempo presentati dai Gruppi consiliari della CDL (n. 136 del 31 maggio 2005) e di Intesa Democratica (n. 151 dell’1 agosto 2005) intorno al tema del sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali ovvero al sistema integrato di interventi e servizi per la promozione e la tutela dei diritti di cittadinanza sociale. 1. Un percorso che ha compreso anche numerose udienze conoscitive con i diversi soggetti coinvolti e con le espressioni rappresentative della comunità regionale, le cui risultanze sono state vagliate in più sedute di un Comitato ristretto appositamente costituito, Comitato che ha concluso i propri lavori con un testo unificato trasmesso alla Commissione. Un testo licenziato a maggioranza tenuto conto che le convergenze in ordine alle problematiche trattate sono state soltanto parziali, perché così la maggioranza di Intesa Democratica ha voluto. Infatti, dopo una prima seduta nella quale era evidente lo sforzo di tutti di approfondimento e miglioramento, negli incontri successivi è stato evidente, invece, la volontà di salvaguardare, anche se ciò talvolta era palesemente contraddittorio, un testo frutto di un accordo politico “blindato”. Da ciò una situazione che si è ripetuta poi nel corso dell’esame in Commissione dove si è passati attraverso un preliminare esame del testo e con un accordo sullo stesso a livello di maggioranza, che ha prodotto ben 32 emendamenti su 44 complessivi. Infatti, delle opposizioni sono stati accolto solo 9 emendamenti e su questioni assai marginali. Ancora una volta la ferma volontà “di fare qualcosa di sinistra” ha prevalso sull’opportunità di costruire un progetto normativo importante qual è tutta una legge quadro, che fosse sintesi delle proposte. In tale prospettiva i contributi costruttivi per una correzione di rotta ed un miglioramento significativo del testo normativo che le opposizioni hanno posto all’attenzione, non hanno avuto né considerazione, né ascolto. Non è la prima volta che accade, più recentemente analoga situazione si è ripetuta con l’approvazione della legge quadro in materia di autonomie locali ed evidenzia una patologia per il Consiglio regionale. Beninteso, esiste un diritto-dovere a governare in virtù del mandato elettorale che i cittadini hanno conferito, ma analogamente esiste anche un diritto-dovere al confronto. Ciò è avvenuto solo in piccolissima parte e tra pochi interlocutori.
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In questo caso, non si trattava di modificare obiettivi e priorità di un impianto normativo esaustivo nei suoi contenuti, ma di affinare gli stessi per renderli coerenti con la realtà del Friuli Venezia Giulia e con le prospettive delle sue comunità locali. Il progetto di legge oggi all’esame, purtroppo, mantiene tutte le carenze ed alcuni contenuti sbagliati presenti sin dall’avvio dell’esame, talvolta addirittura peggiorati dagli emendamenti presentati ed approvati. In termini generali, va evidenziata la mancanza di una prospettiva nuova per il welfare del Friuli Venezia Giulia, dal momento che le leggi in vigore già proponevano, in buona parte e da tempo, i contenuti della legge. Certamente sono stati messi in campo alcuni nuovi strumenti ed affinate procedure e modelli organizzativi che già positivamente erano stati sperimentali. Ma una prospettiva, soprattutto per il welfare di comunità, ha bisogno di un “motore” che generi processi virtuosi di condivisione e di inclusione e che consenta di ricondurre ad un unico orizzonte tutta la potenzialità delle comunità stesse, in termini reali e non soltanto formali. Questo si realizza solo con protagonismi nuovi e motivati che “rigenerino” una “rete” che per le risorse di cui oggi dispone non è più in grado di garantire quel ben-essere delle comunità, che è risultato sì di prestazioni di qualità, ma soprattutto e sempre di più di relazioni efficaci. Il progetto, nel suo assetto generale, non è tuttavia condivisibile anche per alcune questioni d’impianto, non risolte a causa di un residuo ideologismo dannoso per i cittadini del Friuli Venezia Giulia e per la incompletezza o l’erroneità di taluni contenuti sostanziali. Tali questioni sono già state tutte evidenziate ed approfondite nelle diverse fasi dell’esame e si può affermare che nessuna di esse, né il loro insieme, stravolge l’impianto generale del progetto di legge. 2. Tre sono le questioni con ricadute sull’impianto, atteso che per le altre (universalismo dei destinatari, integrazione delle politiche e integrazione socio-sanitaria, accreditamento e livelli essenziali delle prestazioni) vi è una adeguata trattazione. 2.1
Accesso al sistema integrato e facoltà di scelta
A seguito di emendamenti sui quali si è convenuto già in Comitato ristretto, sono stati esplicitati un principio ed una modalità importanti e dirimenti: “La Regione riconosce, promuove e sostiene … la facoltà da parte della persona e delle famiglie di scegliere tra i servizi dei soggetti accreditati secondo modalità appropriate rispetto ai bisogni e in coerenza con il progetto individuale” (art. 2 – Principi – comma 6, lettera f). E più oltre “Le persone … fruiscono delle prestazioni e dei servizi del sistema integrato in relazione alla valutazione professionale del bisogno e alla facoltà di scelta individuale” (art. 2, comma 1). Di tale principio e della conseguente attuazione in tutta la restante parte del testo normativo non vi è traccia, rendendo la previsione una mera enunciazione. Questo è
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inaccettabile, dal momento che il principio corrisponde ad un preciso principio di rango costituzionale e quindi la sua attuazione va assicurata nel concreto. E’ bene ricordare che in nessun modo la conseguenza di tale principio comporta il “sopravvento del mercato” né “la monetizzazione dei diritti di cittadinanza”, ma semplicemente impone l’individuazione di una “modalità” che rende il sistema più flessibile, qualificato e con la persona davvero “al centro”. Il principio sotteso è chiaro: il valore della libertà del cittadino di scegliere come e da chi farsi assistere in caso di bisogno. L’articolo 17 della legge 328/2000 disciplina i titoli per l’acquisto di servizi sociali, demandando alle Regioni di fissare la disciplina per i criteri e le modalità di concessione. A questo mandato non si è volutamente dato corso. E’ altresì il caso di ricordare che già oggi, nel territorio regionale, alcuni ambiti socio-assistenziali attuano questo principio, dopo essersi dotati di una disciplina di carattere amministrativo approvata dai Comuni. Si rende quindi necessario introdurre, in coerenza con il principio affermato dall’articolo 2, alcune precise indicazioni in ordine alle competenze della Regione, per assicurare modalità uniformi nel territorio e sui contenuti della programmazione locale, per una puntuale individuazione dei servizi e delle prestazioni che possono essere oggetto di scelta da parte del cittadino. 2.2.
Soggetti istituzionali del sistema integrato e relative funzioni
L’intero Capo III del Titolo II definisce i soggetti del sistema integrato e le funzioni attribuite agli stessi. Tale Capo propone almeno due forti criticità rispetto ai soggetti istituzionali, alla luce delle esperienze attuate in questi anni. Alle Province (art. 9) sono riconosciute soltanto funzioni nell’ambito del sistema informativo dei servizi sociali regionali, nonché l’esercizio coordinato delle funzioni di cui sono già titolari. Nessuna considerazione per il ruolo svolto in termini generali per l’area vasta che la legge regionale 1/2006, legge quadro per le autonomie locali, riconosce espressamente, né per la competenza relativa alla programmazione nel territorio di competenza dei presidi socio-assistenziali già esercitata ai sensi della legge regionale 41/1996 nel settore della disabilità. E’, questa, una non considerazione volutamente ideologica e ed illogica, destinata a ripercuotersi in negativo soprattutto sulla programmazione locale dato che i perimetri istituzionali dei singoli ambiti sono sicuramente inadeguati per una razionale utilizzazione di tutti quei presidi che sono sovrazonali. I Comuni (art. 10) sono il soggetto istituzionale centrale del sistema integrato e agli stessi sono riconosciute funzioni di garanzia, di gestione e di programmazione locale, da esercitarsi in forma associata. Tra le varie funzioni, i Comuni (art. 10, comma 1, lett. d) esercitano anche quelle relative all’autorizzazione, alla vigilanza e all’accreditamento dei servizi e delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale.
III
Il buon funzionamento del sistema di accreditamento è fondamentale garanzia per l’erogazione di prestazioni qualitativamente adeguate e richiede, per la sua natura, condizioni omogenee di esercizio nell’intero territorio regionale. I Comuni, per le loro dimensioni ancorché nella forma associata, non sono nelle condizioni di assicurare questo senza un adeguato supporto che deve essere unico per tutto il territorio. In merito a tale supporto non vi è alcuna previsione. 2.3
Sussidiarietà e terzo settore
Una delle novità più importanti recate dalla legge 328/2000 è la pari dignità, nella gestione dei servizi, del terzo settore rispetto alle istituzioni, in ossequio al principio di sussidiarietà sociale, oggi sancito dall’articolo 118 della Costituzione. Nella realtà del Friuli Venezia Giulia, poi, il rapporto tra enti locali e terzo settore dovrebbe costituire il principale ambito di innovazione ma, soprattutto, la materia nella quale la nuova legislazione regionale è maggiormente chiamata ad incidere, dal momento che ad oggi non esiste alcuna disciplina legislativa. Le previsioni introdotte sono in parte sbagliate e nelle restanti parti insufficienti e contraddittorie. Il principio di sussidiarietà è dichiarato tra i fondamenti del sistema (art. 2, comma 2), ma nel momento in cui si esprime la volontà di riconoscere e valorizzare il suo ruolo si fa una terribile confusione in ordine alla natura del soggetti (Aziende per i servizi sanitari, Aziende pubbliche per i servizi alle persone, famiglie, terzo settore, organizzazioni sindacali), mettendo insieme realtà che nulla hanno a che vedere con la sussidiarietà, neppure intesa in senso molto ampio!!! Nella relazione con i Comuni, poi, l’azione che gli stessi dovrebbero assolvere nei confronti del terzo settore oscilla tra “coordinano i programmi, le attività e i progetti dei diversi soggetti privati operanti in ciascun ambito territoriale” (art. 10, comma 1, lett. e) e “nella funzione di programmazione … promuovono il concorso e agevolano il ruolo dei soggetti” (art. 10, comma 3). Relativamente alla disciplina dell’affidamento dei servizi (art. 35), siamo ad un dirigismo preoccupante: l’atto di indirizzo regionale precostituisce ruoli e ambiti di attività per ciascun soggetto del terzo settore (art. 35, comma 1, secondo capoverso) ma anche, nell’ambito di una norma-quadro, si fissano in dettaglio i criteri per l’aggiudicazione, offerta economicamente più vantaggiosa, valore del ribasso economico non superiore al 15% dei punti totali e, naturalmente, piena applicazione delle clausole dei contratti collettivi (art. 35, commi 4 e 5). Si arriva a ribadire il divieto di subappalto (art. 35, comma 6), ma NULLA si prevede per l’instaurazione del rapporto con quei soggetti del terzo settore che stipulano l’accordo di programma per l’attuazione del Piano di Zona (art. 24, comma 7). E’ questo l’aspetto più innovativo, dove il terzo settore concorre all’esercizio di una funzione pubblica, i servizi sociali, da attuare anche con risorse proprie, superando il tradizionale ruolo di fornitore di prestazioni con contratto d’appalto.
IV
E’ necessario, in questo progetto di legge, delineare ovvero precostituire la fonte normativa per la definizione di specifiche formule di collaborazione sussidiaria nonché di procedure per il raggiungimento delle stesse, che possono poi essere perfezionate in via regolamentare. 3. Oltre alle questioni sopra delineate, il progetto di legge in esame presenta anche alcuni contenuti di portata più circoscritta, nel senso che la criticità è relativa all’istituto giuridico disciplinato, non all’impianto generale del provvedimento. Rientrano nella prospettiva dell’affinamento ed adeguamento del testo normativo, tanto più necessario stante il fatto che lo stesso sarà riferimento anche per un processo di legislazione regionale attuativo o modificativo della legislazione in vigore, nonché di numerosi atti regolamentari e di programmazione. Tra le questioni sono da evidenziare: 3.1
Rappresentanza e partecipazione
La tenuta nel tempo di un sistema complesso come quello degli interventi e dei servizi sociali richiede il concorso e la relazione con una molteplicità di soggetti rappresentativi di istituzioni, professioni, forze sociali e di interessi organizzati. Il progetto di legge articola questa fondamentale relazione a livello locale e a livello regionale, principalmente in connessione con i momenti della programmazione. E’ necessario, tuttavia, che gli organismi rappresentativi previsti esprimano nella loro composizione una compiutezza delle categorie coinvolte: la Commissione regionale per le politiche sociali (art. 27) deve, pertanto, comprendere anche i rappresentanti delle associazioni delle famiglie e, per la componente sindacale, anche la rappresentanza dei lavoratori autonomi (agricoltori, artigiani, commercianti), peraltro da tempo impegnati attivamente in ambito sociale. Come già precisato, il presente progetto di legge è destinato a trovare applicazione unitamente alla previgente normativa di settore che, in alcune sue parti, evidenzia una necessità di adeguamento. Tra queste, le disposizioni relative alla istituzione e competenze della Consulta regionale delle Associazioni dei disabili, di cui all’articolo 13 bis della legge regionale 41/1996. Per tale organismo, stante la peculiarità della condizione di bisogno di cui è espressione, si rende necessario correlare le funzioni ai diversi momenti della programmazione regionale e locale e assicurare maggior incisività alle funzioni stesse, con il riconoscimento di una sua puntuale soggettività per lo stesso. 3.2. termine
Vincoli per il Fondo per l’autonomia possibile e per l’assistenza a lungo
Nelle more di una definizione ed attuazione a livello nazionale del Fondo per la non autosufficienza, si prevede, positivamente, l’istituzione del Fondo per l’autonomia possibile e per l’assistenza a lungo termine (art. 41). Fatta salva la definizione delle modalità di gestione con atto amministrativo, risulta opportuno e soprattutto coerente con l’impianto del progetto che la previsione normativa (comma 2) sia ulteriormente finalizzata anche alla promozione delle risorse materiali e immateriali della comunità,
V
indispensabili nelle azioni di sostegno alla non autosufficienza. E’ opportuno altresì prevedere che il criterio con il quale fissare le priorità sia anche quello della gravità, ancorché rilevata con sistemi di misurazione multidimensionale. 3.3.
Istituire il Fondo sociale regionale per gli investimenti
Nell’ambito del sistema integrato, la disponibilità di strutture adeguate qualitativamente e quantitativamente ma, soprattutto, in prospettiva, in possesso dei requisiti per l’accreditamento, è un traguardo irrinunciabile. Da ciò la necessità che siano previste le azioni regionali di sostegno agli investimenti per le strutture, con modalità promotive per i privati e con la utilizzazione di risorse anche delle Finanziaria regionale Friulia. Lo strumento nuovo da istituire è rappresentato dal Fondo regionale per gli investimenti che si affiancherebbe ai due Fondi per il sostegno delle attività correnti, il Fondo sociale regionale (art. 39) e il Fondo per l’autonomia possibile (art. 41). Il nuovo strumento di spesa dovrebbe sostituire l’attuale legislazione settoriale e funzionare con determinazione della Giunta regionale. 3.4.
Adeguare le aree d’intervento del sistema integrato
L’interro Capo I del Titolo III individua le aree d’intervento del sistema, delineando i principali contenuti delle stesse. Se dal punto di vista sistematico la previsione è giustificata, non può essere condiviso il testo normativo contenuto nel progetto, dal momento che non si pone in correlazione con la legislazione regionale vigente nella specifica materia (disabili, anziani, minori, immigrati). Le incongruenze che si riscontrano (novella parziale o totale di norme in vigore senza modificazione delle stesse, aggiunta di precetti che non sono compresi nelle leggi di settore, rinvio espresso alle normative di settore, ecc.), suggeriscono l’assunzione di un unico criterio di trattazione che deve trovare riferimento per tutte le fattispecie omogenee. Peraltro, per alcune aree d’intervento per le quali non vi è una legge regionale vigente (art. 48) è opportuna la riscrittura completa della previsione. 3.5.
Sostituire il reddito base per la cittadinanza con il progetto di cittadinanza
Il reddito di base per la cittadinanza (art. 58) è indubbiamente la misura d’intervento più discussa dell’intero progetto di legge, al punto che ne è diventato il riferimento a causa dell’azione di propaganda che da mesi la maggioranza di Intesa Democratica ha portato avanti. Il testo normativo contenuto nel progetto è stato modificato due volte nell’ultima giornata di esame dell’articolato in Commissione, segno evidente che la volontà delle singole componenti della maggioranza stessa non riescono ancora a trovare una sintesi. Significative anche le prese di posizione successive al voto finale da parte di RC, PDCI e Verdi, che hanno evidenziato ancora di più le divisioni.
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Si premette che la misura d’intervento è da considerare del tutto legittima, ma sbagliata per la formulazione normativa proposta, che contiene non pochi elementi di contraddizione. Vi è innanzitutto un errore concettuale voluto, che si presta a svariate interpretazioni, ovvero il nome. Reddito in sé non è perché è costituito da un mix di erogazione monetaria e di servizi e/o prestazioni sociali ed anche perché si prevede espressamente che possa essere aggiuntivo a reddito minimo (comma 4, lett. c). La natura più puntuale dell’intervento è quella di essere “un progetto” al fine di prevenire e contrastare fenomeni di povertà ed esclusione sociale (comma 1). Potremmo essere così in sintonia con l’opinione corrente dei nostri concittadini che associano, da sempre, la parola “reddito” con la parola “lavoro” che è altra cosa rispetto ad “assistenza”. Stante l’ampiezza dei potenziali beneficiari dell’intervento (comma 1) - tutte le persone residenti in Friuli Venezia Giulia, cittadini italiani e non -, una elementare prudenza rispetto alla salvaguardia del bilancio regionale consiglierebbe di introdurre già in norma legislativa alcuni paletti quali, ad esempio, la considerazione dell’intero nucleo familiare come riferimento nonché una espressa condizione di temporaneità dell’intervento.. Qualche perplessità desta anche una finalità non omogenea dell’intervento contenuta nelle diverse parti della norma: “prevenire e contrastare fenomeni di povertà ed esclusione sociale … perseguire l’autonomia economica e l’inclusione sociale” (comma 1); “alla valorizzazione delle persone, alla loro inclusione sociale e lavorativa” (comma 2). L’ “inclusione lavorativa” è un ambito diverso di azione, con correlazioni obbligate con la flessibilità del lavoro e l’indennità di disoccupazione. E’ questo che si vuole? Perplessità anche per lo snaturamento del ruolo del Servizio sociale dei Comuni (comma 2), dal momento che il progetto personalizzato dovrebbe richiedere valutazioni professionali mirate, mentre l’integrazione monetaria del reddito avviene secondo un automatismo (comma 4, lett. c) che prescinde da ogni valutazione oggettiva. Da ultimo, ma non meno rilevante, è la totale assenza di un qualsivoglia meccanismo che salvaguardi la coesistenza delle diverse linee di intervento nel sociale da parte della Regione ad avvenuta attuazione di questa misura, il cui impatto sul bilancio regionale non risulta, al momento, valutato. Ciò che è accaduto in occasione dell’approvazione della finanziaria regionale per l’anno 2006, dove il semplice accantonamento di una parte delle risorse per il reddito di cittadinanza, ha bloccato qualsiasi incremento delle altre linee di spesa sociale, non fa ben sperare. In aggiunta alle questioni sopra prospettate, il testo normativo deve essere oggetto di una attenta revisione per una omogeneità tra le singole previsioni poiché la
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coesistenza di terminologie diverse per esprimere il medesimo concetto è la fonte prima delle difficoltà interpretative. Si confida che durante l’esame da parte dell’Aula, per l’insieme delle ragioni sopra esposte, il testo sia adeguatamente modificato.
MOLINARO
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