RECENSIONI E LIBRI RICEVUTI
LA 42 (1992) 399-436
RECENSIONI
Joüon P. Muraoka T.
Kelley P. H.
Volgger D.
Naveh J.
A Grammar of Biblical Hebrew, I (M. Pazzini)
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Biblical Hebrew. An Introductory Grammar (M. Pazzini)
405
Notizen zur Phonologie des Bibelhebräischen (P. Dozio)
406
On Sherd and Papyrus. Aramaic and Hebrew Inscriptions from the Second Temple, Mishnaic and Talmudic Periods (M. Pazzini)
409
Berge K.
Die Zeit des Jahwisten. Ein Beitrag zur Datierung jahwistischer Vätertexte (E. Cortese) 411
Briend J.
Dieu dans l’Ecriture (A. Mello)
413
Le Royaume de Dieu dans l’histoire (A. Mello)
414
Matthew’s Missionary Discourse. A Literary Critical Analysis (G. Bissoli)
416
Viviano B. Th. Weaver D. J.
Pitta A.
Adinolfi M.
Adinolfi M.
Boismard M.-É. Kuhn P.
Disposizione e messaggio della Lettera ai Galati. Analisi retorico-letteraria (M. Buscemi) 418 Ellenismo e Bibbia. Saggi storici ed esegetici (G. C. Bottini)
422
Il Verbo uscito dal silenzio. Temi di cristologia biblica (G. C. Bottini)
424
Le Diatessaron: de Tatien à Justin (M. Pazzini) Bat Qol: die Offenbarungsstimme in der rabbinischen Literatur (G. Bissoli)
426
428
402
RECENSIONI
Faostino da Toscolano Arata Mantovani P.
Itinerario di Terra Santa (E. Alliata)
429
Introduzione all’archeologia palestinese (M. Piccirillo)
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Libri ricevuti
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JOÜON – MURAOKA
A GRAMMAR OF BIBLICAL HEBREW
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Joüon Paul, A Grammar of Biblical Hebrew. Translated and Revised by Takamitsu Muraoka, Volume I, Part One: Orthography and Phonetics, Part Two: Morphology (Subsidia Biblica, 14/1), Pontificio Istituto Biblico, Roma 1991, IV-352 pp., 17 × 24 Questa edizione in lingua inglese è basata sulla “Deuxième édition anastatique corrigée” del 1947. Ogni paragrafo è stato rivisto e completato con materiale proveniente da moltissimi articoli pubblicati dopo il 1920. In questo materiale sono compresi anche molti articoli scritti in ebraico moderno mentre sono esclusi contributi dai sempre più numerosi commentari al Vecchio Testamento. L’opera viene definita come una grammatica essenzialmente descrittiva dell’ebraico massoretico che rappresenta “la più completa e solida base su cui lavorare” (p. xiv a). Il testo biblico riportato da Joüon non è quello della BHS perché quest’opera non esiteva ancora. Questo aspetto non è stato controllato a fondo da M. per cui può darsi che il lettore moderno trovi diversità fra il testo biblico della grammatica e quello della BHS. Esaminiamo brevemente l’opera nelle sue varie parti: L’introduzione che in Joüon occupa 9 pagine viene qui ampliata in 17 pagine secondo il metodo seguito in tutto il volume che consiste nell’inserzione di nuove parti nel testo e, in particolare, di bibliografia dopo ogni sottodivisione. In questo capitolo introduttivo vengono inseriti nuovi dati aggiornati sulle lingue semitiche e sull’ebraico in particolare. Queste aggiunte si notano facilmente perché vengono evidenziate in modo diverso rispetto alle altri parti. Si veda ad es. il testo segnato con aa a p. 3 ed il testo fa a p. 7. Altre volte il testo di J. viene ampliato senza che l’occhio colga di primo acchito queste aggiunte. Si veda ad es. l’inserzione delle grammatiche di Lambert (1931-38), Meyer (1966-72) a p. 14; le monografie di Andersen (1970 e 1974), dello stesso Muraoka (1985) e Waltke - O’Connor (1989) a p. 15; i dizionari di BenYehudah (1908-1958), Zorell (1968 [riedizione fotomeccanica]) e l’incompleto Thesaurus a cura di Loewenstamm - Blau - Kaddari per finire con le concordanze di Lisowsky (1958) e Even-Shoshan (19814). Tutte queste opere sono state composte dopo la pubblicazione della grammatica di Joüon. Numerosissimi sono gli aggiornamenti bibliografici (fino al 1989) alla fine di ogni sottodivisione. Queste aggiunte, di capitale importanza per chi voglia approfondire qualche singola parte, occupano, all’incirca, la terza parte di ogni pagina dell’introduzione. Esaminiamo ora il corpo dell’opera nelle sue singole parti notando, all’occasione, le parti aggiunte e la parti tolte. Parte I: Ortografia e Fonetica, §§ 5-33, pp. 18-108 (in J. pp. 10-81). Segnaliamo alcuni fra i principali cambiamenti operati da Muraoka. Nel § 5, oltre ai sempre numerosi aggiornamenti bibliografici, vengono aggiunte le sottodivisioni ga, gb, la e q-s che mancano del tutto in Joüon. Nel § 6 le aggiute si limitano per lo più ad aggiornamenti bibliografici. Si noti, tuttavia, la diversa
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RECENSIONI
organizzazione del materiale in i. Il § 8, in cui non si notano a prima vista cambiamenti nella divisione esterna, è, in pratica, completamente rifatto. Nel § 9 Muraoka toglie la parte b. Nel § 15 vi sono piccole varianti nel testo (ad es. ultime 2 righe di n) e viene aggiunta la parte contrassegnata con o. Nel § 21 Muraoka aggiunge la parte k. Si tratta di due righe che rimandano ad un altro §. Nel § 24 viene aggiunto fa. Nel § 25 viene tolta la parte d. Nel § 26 viene aggiunto g. Nel § 27 le parti c e d vengono divise diversamente rispetto a Joüon e vengono aggiunte le parti da e db. Nel § 28 vengono soppresse le parti d e e. Forse il prof. Muraoka avrebbe potuto rielaborare totalmente tutto il § 5 apportando il contributo di queste ultime decadi. Egli ha aggiunto 6 sottodivisioni (come detto sopra). Con un po’ di coraggio in più molti degli aggiornamenti riportati in nota sarebbero potuti diventare parte integrante del testo. Così, ad es., la definizione di a come “gutturale sorda” mi lascia perplesso; inoltre mi sarei aspettato una più ampia trattazione riguardo a w e a r e alle loro varie pronuncie visto che si trovano diverse opinioni al riguardo già negli scritti dei masoreti. Questa parte della grammatica è oggetto di molte discussioni ed opinioni e forse proprio per questo egli ha preferito aggiungere nel testo, discutere nelle note bibliografiche ma appoggiarsi sull’impostazione voluta da Joüon. Si tenga presente, poi, che nelle università (cattoliche) questa parte della grammatica viene un pò trascurata mentre in altre università viene studiata più nei dipartimenti di linguistica generale che non in quelli di ebraistica. Parte II: Morfologia, §§ 34-105, pp. 109-352 (in J. pp. 82-288). Anche in questa parte vi sono aggiunte e omissioni / accorciamenti. Segnaliamo i cambiamenti più rilevanti. Vengono aggiunte la parti da nel § 44, ca nel § 49, 9 righe nel § 55 b, g e h nel § 59, h nel § 62, d e e nel § 63, ha nel § 72, 7 righe nel § 74, la parte a* nel § 88 C., da nel § 90, ea nel § 91. Il § 38 viene notevolmente incrementato con apporti da altre lingue semitiche. Il § 52, dedicato alla coniugazione Piel, viene raddoppiato rispetto all’originale francese. Il prof. Muraoka spiega perché nel § 40 ha segnato con un punto interrogativo i termini coniugazione / azione intensiva (vedi anche il § 53). Molti paragrafi vengono divisi in maniera diversa rispetto a Joüon. Il § 36 viene diviso in tre parti invece di cinque (le parti c, d, e vengono unite insieme senza cambiare il contenuto); nel § 72 k corrisponde a k e l di Joüon; così pure nel § 73 g contiene le parti g e h di Joüon. Nel § 78 j comprende ciò che nell’edizione francese viene diviso in j, k, l. Nel § 89 o raccoglie o e p di Joüon. Infine nel § 95 viene raggruppato in c ciò che in francese compare sotto c e d. Segnaliamo ora alcuni piccoli errori. Nel § 97 C. (p. 313) occorrerà correggere la sottodivisione c in b; nel § 74 non è necessario segnalare la sottodivisione a visto che non vi sono altre sottodivisioni. Inoltre occorrerà correggere le parole traidtion (p. xiv riga 24), spotaneous (p. xx riga 31 e p. xxi riga 4), duala (p. xxvi riga 11), Pragogic (p. xxvi riga 13), Vcabulary (p. xxxx riga 22), obsrvations (p. 184 riga 17), vatte’ne (p. 112 quintultima riga). Si noti che qualche volta i segni di interpunzione sono sovrapposti in parte alle vocali ebraiche
KELLEY
BIBLICAL HEBREW
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come ad es. a p. 45 riga 28, oppure a p. 294 riga 17. Questo aspetto andrà controllato con cura lungo tutta l’opera. Infine segnalo che nell’indice generale (pp. xix-xxxv) varie volte compaiono parole in grassetto senza motivo. Nei paragrafi che trattano dei modelli nominali Muraoka segue quasi sempre Joüon alla lettera e solo raramente se ne scosta. Uno di questi cambiamenti mi sembra fuori luogo. A p. 245, dove si tratta dei nomi derivati da radici y"l e appartenenti al modello nominale qitl vengono aggiunte 2 righe (31-32), che mancano in Joüon, in cui compaiono alcuni nomi segolati. Questi stessi nomi vengono riportati di nuovo a p. 301 (§ 96A. q) e qui fra le forme qatl (idem in Joüon). Questo ci induce a pensare che l’aggiunta a p. 245 sia fuori luogo. Occorrerà, probabilmente, inserirla nella pagina precedente in e come nell’originale francese. Un giudizio complessivo su questo primo volume è senz’altro positivo. Si può senz’altro affermare che l’opera è di notevole valore. Si tratta del miglioramento di un’opera che è stata sempre ritenuta molto buona. Chiunque abbia già una discreta conoscenza della grammatica ebraica troverà in quest’opera tutto ciò che gli occorre per approfondire, anche da solo, la sua conoscenza della lingua biblica. Questa grammatica è certamente la più aggiornata dal punto di vista della bibliografia dell’ebraico biblico e della semitistica comparata. L’opera si legge con piacere nonostante la scelta dei caratteri non sia delle più felici. L’inserzione di lettere / parole arabe e siriache scritte, in malo modo, a mano (sempre con la sola eccezione delle tavole a p. 32-33 che sono prese integralmente dalla grammatica siriaca pubblicata nel 1987 da Muraoka) andranno corrette, insieme ad altre piccole imperfezioni, in un’edizione futura perché anche l’occhio vuole la sua parte. M. Pazzini, ofm
Kelley Page H., Biblical Hebrew. An Introductory Grammar, William B. Eerdmans Publishing Company, Grand Rapids, Michigan 1992, XIV-453 pp., 19 × 25,5 cm, $ 29.95 Sono lieto di presentare questa che può ben definirsi una grammatica elementare della lingua ebraica. Il libro si divide nelle seguenti parti. Dopo le prime pagine contenenti l’indice generale e la prefazione dell’autore, segue il corpo centrale del libro contenente la teoria grammaticale con i relativi esercizi (pp. 1-373). Il vocabolario (pp. 374-399), le tavole del verbo (400-423), un glossario di termini grammaticali (424-447) e l’indice dei soggetti trattati (448-453) completano l’opera. Il corpo centrale del libro, in totale 373 pp., contiene 31 lezioni di diversa lunghezza. Si va dalle poche pagine delle prime lezioni alle 17 pagine della trentunesima lezione. Ogni lezione contiene una parte teorica ed una parte pratica: non di rado la parte dedicata agli esercizi supera in ampiezza la parte dedicata alla teoria grammaticale. L’opera è dedicata in particolare alla morfo-
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logia. Alla sintassi non viene dedicata alcuna sezione specifica del libro, ma numerose indicazioni sintattiche vengono inserite nel testo subito dopo i paragrafi morfologici. Così ad es. nella lezione XIX, dedicata all’infinito costrutto e all’infinito assoluto e nella lezione XX dedicata al participio e alle sue funzioni. Interessante il paragrafo 63 (pp. 210-216) dedicato allo studio delle sequenze del verbo ebraico. In queste pagine vengono illustrate con numerosi esempi frasi dipendenti nell’ordine da un perfetto, da un imperfetto, da un imperativo, da un infinito assoluto e da un participio. Questo libro è una guida molto particolareggiata per chi si accosta per la prima volta all’ebraico biblico. Ogni particolare viene spiegato senza dare nulla per scontato. Si vedano ad es. le pp. 20-21 dove l’autore esamina una per una le sillabe di quattro parole identificandole come aperte o chiuse. A p. 88-89 l’autore insegna invece come trovare le forme verbali nel dizionario (BDB) e come tradurle. Questi particolari, in genere, non si trovano nelle grammatiche ma vengono spiegati in classe dall’insegnante. Invece questa grammatica, scritta avendo costantemente in mente lo studente, si preoccupa anche di questo aspetto. Perciò molti avranno il piacere di studiare la lingua senza scoraggiarsi e senza annoiarsi troppo. Il libro si legge con piacere, nonostante la mole, e molte volte si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad una lingua viva. La disposizione del materiale e la stampa sono ottime e di questo bisogna ringraziare l’autore e i suoi numerosi collaboratori ricordati nella prefazione. Gli errori sono veramente pochi. Ne ricordo alcuni incontrati casualmente: Biblical (al posto di Biblia) a p. xiii riga 33; into into (dittografia) a p. xiv righe 3-4; tô-vîm (= †ô-vîm) a p. 8 riga 11. Occorrerà ricontrollare la grafia dei nomi di alcuni accenti biblici che non è sempre la stessa: così ad es. a p. 17 nelle righe 3 e 5 ma anche altrove. Si corregga anche il nome di vocale che compare a p. 23 nella riga 21. A p. 36 riga 11 è preferibile la forma rB,DI alla pausale rBeDI e nella pagina seguente nella parola tWkl]m' la lettera k dovrebbe essere senza dagesh. A p. 52 riga 12 occorrerà, forse, precisare che il pronome ˆhe (3 fp) compare solo come pronome suffisso e mai come pronome indipendente. Sono certo che queste e altre piccole imperfezioni, che non sminuiscono il pregio dell’opera, saranno prontamente corrette in una prossima edizione. M. Pazzini, ofm
Volgger David, Notizen zur Phonologie des Bibelhebräischen, (Arbeiten zu Text und Sprache im Alten Testament 36) St. Ottilien: EOS Verlag, 1992, XII + 132 pp., 21 × 15 cm, DM 24,80 Il piccolo volume di D. Volgger fa parte della ben nota collana “Arbeiten zu Text und Sprache im Alten Testament” che dedica molto spazio agli studi di linguistica moderna applicata alle lingue e ai testi antichi. Il presente lavoro è
VOLGGER
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interamente dedicato alla fonologia dell’ebraico biblico e viene suddiviso in 15 capitoletti, anche se possiamo ricondurre a tre i principali momenti dello svolgimento: introduzione sul metodo (capp. 1-4), le consonanti (capp. 5-6) e le vocali (capp. 7-15) della lingua ebraica. Nei primi quattro capitoli viene descritta la base linguistica utilizzata, cioè il modello della Grammatica Generativo-Trasformazionale con alcune puntualizzazioni concernenti le distinzioni: competenza-esecuzione (cap. 1), sincronia-diacronia (cap. 3) e fonetica-fonologia (cap. 4). La linea metodologica accolta è sostanzialmente quella degli studi di N. Chomsky - M. Halle e di L.M. Hyman. Nei capitoli 5-6 l’Autore stabilisce, mediante l’uso delle Minimalpaare, quali siano i fonemi e gli allofoni dell’ebraico biblico e discute, in particolare, i problemi delle sibilanti, delle spiranti e delle gutturali. Dal cap. 7 fino alla fine vengono prese in esame le vocali, le sillabe (cap. 10) e gli accenti (cap. 12). Alcune osservazioni. Mi pare che gli studi di fonologia siano eccessivamente fiduciosi nei confronti di quella che viene talvolta chiamata “prova di commutazione” o ricerca di “coppie minime” per poter stabilire i fonemi e gli allofoni di una lingua. Il suo utilizzo, in special modo nelle lingue antiche, va incontro a dei rischi di non poco conto. In termini funzionali, si definiscono “fonemi” quei foni che hanno la capacità di cambiare il significato di parole, quando tutti gli altri foni sono uguali e disposti nello stesso ordine. In italiano le consonanti l e r, a motivo della esistenza di parole quali lane [la:ne] e rane [ra:ne], si possono definire fonemi. Sembrerebbe perciò corretta l’assunzione della coppia rc' / rs' (p. 24) per poter affermare che ¬in e samech siano due fonemi. Il significato delle parole è diverso, gli ultimi due segmenti (patah e resh) sono uguali e le due parole ebraiche si oppongono per una sola consonante, ¬in e samech appunto. Non sono però rari i termini che hanno un uguale significato e che presentano un semplice scambio tra le due consonanti come: hj;yci / hj;ysi; µyrIk]c / µyrIk]so; Ëc / Ëso; µyfice / µyfise ecc… Anche queste coppie meritavano una certa attenzione. Un esempio tratto dalle lingue moderne ci può aiutare a comprendere quanto sia “labile” l’utilizzo della “prova di commutazione”. Se venisse a cessare l’uso della lingua castigliana e, in un lontano futuro, uno studioso si basasse solo sui grafemi di quella lingua non avrebbe dubbi, utilizzando il sistema delle coppie, a rilevare la presenza di due fonemi b e v in quanto si hanno: vasto / basto, vario / bario ecc. Queste coppie sottostanno alla regola generale (diverso significato, si oppongono per una sola consonante). Di fatto detta lingua non possiede due fonemi, ma uno solo /b/ con il suo allofono [b]. Non voglio sminuire l’importanza di tale sistema ma, ripeto, nel momento in cui la consonante di una lingua non più udibile è “debole”, tale approccio non è sufficiente. Questa delicata situazione ci dà l’opportunità di rilevare quanto sia importante presentare, fin dove è possibile, una fonetica articolatoria della lingua
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ebraica. Lo studio della fonetica non è solo una guida per individuare i fonemi e gli allofoni, ma è essenziale per determinare i “tratti distintivi” di una lingua. Non è irrilevante stabilire se la resh sia dentale o velare. Nel primo caso avremmo presumibilmente il tratto distintivo [+ anteriore], nel secondo [- anteriore]. Purtroppo questa consonante non viene descritta dall’autore, sebbene sia giustamente inserita nell’elenco dei fonemi dell’ebraico (p. 30). Pensiamo anche alle sibilanti. Se è molto probabile che il tratto [+ stridente] accomuni questi possibili cinque fonemi (s, ¬, å, z, ß) rispetto a tutti gli altri (p. 25), tuttavia è necessario definire i tratti che li distinguano fra loro. Tale distinzione attinge dal campo fonetico: /z/ e /s/ si oppongono per la vibrazione delle corde vocali [+/- stim]; /s/ e /å/ per il tratto [+/- ant] in quanto il tratto “anteriore” separa le articolazioni effettuate nella regione anteriore al punto “postalveolare” (seguendo la terminologia dell’IPA = International Phonetic Association), ovvero i foni bilabiali, labiodentali, alveolari e dentali. Poiché /å/ è, sempre secondo l’IPA, una postalveolare, giustamente riceve il tratto [-ant] (cf. p. 24). Purtroppo il tratto distintivo della ¬in rimane velato dall’espressione “ist weder ein reines /å/ noch ein reines /s/” (pp. 24-25). Un’ultima considerazione prende le mosse dai luoghi articolatori faringale e laringale (o glottale). In essi si è soliti inserire i grafemi ebraici ˙et, „ain, ∑alef e he. I primi due foni sono fricativi faringali sordo/sonoro; ∑alef è, secondo l’A., un occlusivo glottale sonoro (il grado di articolazione “sonoro” non è esplicito ma è sotteso dal tratto [+ stim]), mentre he è un fricativo glottale sordo. Questi dati portano l’A. a concludere, seguendo J. Cantineau, che il tratto distintivo debba essere ricercato nella sonorità: “/˙/ und /h/ [stim], /∑/ und /„/ [+ stim]” (p. 29). Vi sono delle incongruenze, purtroppo avvallate anche dall’ultima tabella dell’IPA edita nel 1989. In quest’ultima infatti il simbolo fonetico corrispondente all’∑alef ebraico viene definito “occlusivo glottale sordo”, mentre “l’occlusivo glottale sonoro” viene giudicato impossibile da realizzare (la casella è ombreggiata nella tabella). Solo questo dato compromette l’attribuzione, da parte dell’A., del tratto [+ stim], cioè la “sonorità”, all’∑alef ebraico. L’incongruenza in effetti è pure presente nella tabella dell’IPA. Il simbolo che corrisponde all’∑alef ebraico fa riferimento, in quanto glottidale occlusiva, ad una completa chiusura della glottide, mentre la sua posizione (nella tabella il simbolo è a sinistra) sta ad indicare il carattere sordo e quindi la completa apertura della glottide. In realtà, come giustamente scrivono molti fonetisti, questo contoide non è né sordo né sonoro e neppure bisbigliato. Si articola chiudendo completamente e saldamente le corde vocali che non possono dunque vibrare né lasciar passare liberamente l’aria (Si veda in proposito: L. Canepari, Introduzione alla fonetica, Torino: Einaudi, 1979, 71). Per quanto riguarda la “fricativa glottidale sorda” [h], il discorso è molto più complesso. Questo fono non ha in realtà nessun luogo articolatorio ben definito. Durante la sua realizzazione, gli articolatori sono liberi di assumere la posizione della vocale che segue, per
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cui abbiamo tante realizzazioni di [h] quante sono le vocali. Non desidero entrare nella discussione perché ci porterebbe lontano e nel campo anatomico. Mi limito solo a rilevare l’inesattezza terminologica. Se la si considera come fricativa glottidale, non la si può considerare al tempo stesso sorda, cioè con glottide aperta. Se al contrario la si vuole definire nella sua reale dinamica articolatoria, è corretto considerarla sorda, ma non come fricativa glottidale. Purtroppo molti altri studi e grammatiche non hanno l’accortezza di verificare tutti questi elementi che provengono dalla fonetica articolatoria. Anche la revisione di T. Muraoka della famosa grammatica di P. Joüon pur apportando nuovi e pregevoli paragrafi è rimasta ancorata alla terminologia classica. Anche qui, l’∑alef è una laringale, “voiceless guttural stop” (p. 25) e viene descritta con “closure of the glottis” (p. 26). Nonostante queste osservazioni non posso che apprezzare e gioire per lo sforzo compiuto dall’Autore in un campo non certo facile, nella speranza che lo studio non si fermi alla lingua in sé ma si apra ad una lettura del testo biblico dal punto di vista fonologico, mostrandone così la sua ricchezza. P. Dozio, ofm
Naveh Joseph, On Sherd and Papyrus. Aramaic and Hebrew Inscriptions from the Second Temple, Mishnaic and Talmudic Periods, The Magnes Press, the Hebrew University, Jerusalem, 1992, 239 pp., 16 × 23 cm (in ebraico) Questo libro, utile al ricercatore, allo studente e agli appassionati di epigrafia semitica, presenta un vasto corpus di iscrizioni ebraiche e aramaiche del periodo del Secondo Tempio, della Mishna e del Talmud più propriamente del periodo compreso fra il III secolo a.C. ed il VII secolo d.C. Il titolo del libro indica i due tipi di materiale più frequenti nella scrittura quotidiana. Tuttavia il libro tratta anche delle iscrizioni scolpite su pietra. Il corpo dell’opera è composto da otto capitoli dedicati a otto diversi argomenti. Il primo capitolo (pp. 11-36), un’introduzione generale dedicata alla scrittura e alla lingua, è basato in gran parte su un’opera precedente dell’autore (Early History of the Alphabet. An Introduction to West Semitic Epigraphy and Palaeography, Jerusalem 1982) che tratta della nascita e dello sviluppo dell’alfabeto. Vengono presentati i diversi tipi di scrittura e fatte precisazioni importanti circa la terminologia non sempre appropriata e univoca come nel caso del termine “scrittura assira”. Scrive a questo proposito l’autore: “Il termine ‘scrittura assira’ indica nelle fonti sia la scrittura in cui ‘fu restituita’ la legge nei giorni di Esdra, sia la scrittura che era usata dai Giudei nelle epoche della Mishna e del Talmud. Tuttavia l’esame paleografico ci obbliga a distinguere: il primo tipo è la scrittura aramaica uniforme usata (al tempo di
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Esdra) da tutti i popoli dell’impero persiano, mentre il secondo è la scrittura che i Giudei svilupparono dalla scrittura aramaica uniforme” (p. 13). Il secondo capitolo (pp. 37-82) tratta delle iscrizioni ordinarie, tipiche della vita quotidiana. In questa parte, che è la più lunga, l’autore prende in esame un vasto repertorio. Il materiale su cui questi testi sono scritti è rappresentato per lo più da ostraca. Questo capitolo viene diviso in nove parti. Si va da “gettoni di acquisto” trovati a Masada a liste di nomi, a lettere, esercizi di scrittura, iscrizioni di proprietà su vasi, ecc. Di tutti questi testi viene data la lettura e l’interpretazione e di tanto in tanto vengono aggiunte annotazioni linguistiche che conducono alla piena comprensione del testo. Il terzo capitolo (pp. 83-105) è composto da documenti giuridici (pagamenti di debiti, atti di matrimonio, di divorzio, di vendita di un campo, di una casa, di divisione di terreni) provenienti dal deserto di Giuda. Pur trattandosi di documenti in buona parte frammentari sono testi abbastanza lunghi e leggibili. Anche in questo capitolo la riproduzione di tali documenti e la trascrizione del loro testo occupano la maggior parte delle pagine. Il quarto capitolo (pp. 106-117) tratta delle lettere di Bar Kokhba trovate nel deserto di Giuda. Si tratta di 7 testi in ebraico, in parte ben conservati e leggibili, e in parte frammentari. La lingua di questi documenti è caratterizzata da frequenti aramaismi. Il quinto capitolo (pp. 118-144) riporta molte iscrizioni provenienti da sinagoghe. Questi testi scritti fra il IV ed il VII secolo sono scritti su mosaico o scolpiti su elementi architettonici delle strutture sinagogali. La maggior parte di queste iscrizioni sono dedicatorie; solo alcune sono testi letterari veri e propri. Fra queste ultime eccelle per forma e contenuto la iscrizione legale su mosaico proveniente da Rehob. In questo testo di ben 29 lunghe righe si tratta delle decime e dell’anno sabbatico nelle diverse parti di Israele. La maggior parte di queste prescrizioni ci è nota da altre fonti antiche. Il sesto capitolo (pp. 145-176) è dedicato alle formule di giuramento e ai testi magici. In questa parte l’autore riporta molto materiale proveniente da precedenti ricerche operate in collaborazione con S. Shaked. Il settimo capitolo (pp. 177-189) è dedicato all’epigrafia samaritana. Sono testi per lo più molto brevi parte dei quali scritti su amuleti. Interessanti le pp. 186-189 dedicate ai cinque tipi di iscrizioni samaritane su lucerne di terracotta finora identificate. L’ultimo capitolo (pp. 190-207) tratta delle iscrizioni funebri. Sono iscrizioni incise su sarcofagi e lapidi provenienti da diverse località di Israele compresa la zona di Gerusalemme. In una breve conclusione l’autore fa alcune raccomandazioni che invitano alla prudenza. Raccomanda agli epigrafisti, fra l’altro, di leggere nelle iscrizioni solo le lettere chiare e comprensibili; di accontentarsi delle conclusioni minimali che sono le più sicure; di stare molto attenti quando si tratta di datare
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i reperti e, infine, di guardarsi dai falsari e basare le proprie teorie e conclusioni solo su reperti di sicura provenienza. Un’ampia bibliografia e gli indici degli autori, delle fonti e delle parole concludono l’opera. Il professor Naveh è professore di epigrafia e paleografia semitico-occidentale nell’Università Ebraica di Gerusalemme. L’autore ha il dono della sintesi e aderisce costantemente al tema trattato. Conduce il lettore alla graduale comprensione della problematica. Per questo la lettura è piacevole. La maggior parte di ogni pagina è occupata da fotografie dei reperti o da disegni (si noti in particolare la mano sapiente e delicata di Ada Yardeni) con la corrispondente trascrizione del testo. Anche per questo le pagine scorrono velocemente e la lettura è piacevole. La stampa è chiara e il formato è elegante. Speriamo che quest’opera, praticamente un manuale di introduzione all’epigrafia, venga presto tradotto in una lingua più accessibile per la gioia degli appassionati di epigrafia. M. Pazzini, ofm
Berge Kåre, Die Zeit des Jahwisten. Ein Beitrag zur Datierung jahwistischer Vätertexte (Beihefte zur Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft, 186), Walter de Gruyter, Berlin - New York 1990, XI-329 pp. 16.50 × 23.50 cm, DM 148. Nella maggioranza degli studiosi di oggi si è creato un notevole scetticismo circa il Pentateuco. L’opinione classica, che si indica col nome di Wellhausen e che fino a ieri sembrava la meglio rispondente ai problemi letterari e storici dei primi cinque libri della Bibbia, ha perso credito, ma non per lasciar posto a teorie più soddisfacenti. Si può dire che quello scetticismo, che in passato si diceva causato dalla teoria di Wellhausen, oggi è notevolmente aumentato. Dal punto di vista della storicità, perché, se i documenti del sec X o IX (quelli J-E) ora contestati distavano dai fatti pochi secoli, ora la composizione, messa com’è nel postesilio, è da essi molto più lontana. Dal punto di vista letterario, perché l’aver abolito un paio di documenti non ha affatto semplificato le cose: ridotti i documenti, si sono moltiplicate le redazioni. Berge cerca di rimettere a posto le cose, dopo il passaggio di questa valanga. Il libro è la rielaborazione della tesi dottorale preparata a Oslo sotto la direzione di Bjørndalen (+ 1989) e discussa nel 1985. Il primo capitolo descrive lo status quaestionis, cioè le fasi principali della demolizione di cui abbiamo parlato. Per chi ha seguito queste vicende negli ultimi trent’anni è piacevole leggere lì i nomi, i lavori e le dispute che hanno tentato di far cadere ad uno ad uno i capisaldi della vecchia teoria, come birilli travolti dalla palla da bigliardo.
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Lo studio vero inizia subito dopo e, anche se non lo mostra esplicitamente, verte su due punti: l’analisi dei testi antichi delle storie patriarcali e il confronto delle espressioni dette oggi volentieri deuteronomistiche nelle promesse patriarcali con le frasi corrispondenti della letteratura biblica tardiva. Al primo punto sono dedicati i capp. 2-5; al secondo i restanti: 6-8. Berge studia giustamente sopratutto Gen 12,1-3 e 28,10-22, testi fondamentali e paralleli delle promesse all’inizio della storia dei Patriarchi ad Abramo e a Giacobbe, rispettivamente nei capp. II e V. Per fare i necessari confronti tra gli eventuali strati letterari, si occupa inoltre della storia di Isacco di Gen 26 (e dei famosi due paralleli del rapimento delle mogli di 12,10-20 e 20,1ss.) nel cap III. Nel IV, poi, studia la benedizione di Isacco a Giacobbe (27,27b-29), punto di partenza del tema della benedizione nella successiva storia e cardine per la datazione della medesima. L’analisi dei testi, cioè la prima parte del lavoro, mostra che non ci sono motivi per negare al documento primitivo di Gen 12,1-10 e 28,10-22 le relative formulazioni delle promesse. Inoltre mette bene in evidenza la loro corrispondenza cronologica con l’epoca del regno davidico-salomonico: il fatto che per i discendenti dei Patriarchi si usi il termine “popolo” (gôy), mentre gli altri destinatari indiretti della benedizione sono chiamati “clans” (miåpa˙ot) riflette l’epoca felice e breve della superiorità di Israele sui popoli circonvicini. Notare che questo fenomeno lo abbiamo solo nei due testi antichi, esaminati nei capp. II e V, mentre in quelli degli altri testi (cap. III) si usa “popolo” anche per questi altri popoli. Le argomentazioni sono convicenti; assai più di quelle della valanga di cui sopra. Se c’è qualche dubbio, è a proposito della datazione troppo tardiva di questi ultimi. Lo studio recente di H. Seebass, “A titre d’exemple: reflexions sur Gen 16// 21,8-21 et 20,1-18//26,1-33” (in “Le Pentateuque en question” ed. A. De Pury, Genève, Labor et Fides 1989, 215-230) dovrebbe rendere più cauti nella datazione dello strato E o della redazione JE. I lavori di D.E. Skweres (Die Rückverweise im Buch Deuteronomium, AnBi 79, Roma 1979), di N. Lohfink e, tanto per fare un altro nome, di J. Loza (“Exode XXXII et la Redaction JE”, VT 23, 1973, 31-55) mostrano che gran parte dei brani cosiddetti dtr del Tetrateuco sono anteriori ai paralleli che abbiamo nel Deuteronomio. Le critiche ai primi due autori (pp. 84ss.) e le relazioni di dipendenza che Berge stabilisce tra i capitoli 12,10ss.; 20 e 26 (107ss.) non sembrano altrettanto convincenti. Ma questo, semmai, proverebbe che l’A. nella difesa del suo punto di vista ha più ragione di quanto egli stesso pretenda. Anche i confronti dei temi e delle formulazioni della promessa di assistenza (“Beistandsformel”) e della benedizione per gli altri popoli, fatti nei tre capitoli finali, mostrano che quelle che abbiamo nel Tetrateuco sono anteriori a quelle della letteratura dtr e del DeuteroIsaia (contro van Seters). Forse qualche critica va fatta su alcuni aspetti della disposizione del lavoro. Ci sembra che l’aver dovuto considerare i temi, particolarmente quello della benedizione per gli altri popoli, in due diversi contesti, quello della critica letteraria e quello finale del confronto con l’altra letteratura, porta inevitabilmen-
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te delle ripetizioni. L’inconveniente si sarebbe potuto in parte evitare (ma in parte era inevitabile) separando e distribuendo meglio le parti. Quanto ad altri errori, segnaliamo solo, nell’indice (pag. VII) l’omissione di un sottotitolo nella parte 3 del II capitolo, che va inserita come segue: c) Zu welchen Gruppen-wird Abraham in Beziehung gesetzt. Ma, a parte le riserve accennate, il lavoro ci sembra molto valido. E ci sembra di averlo detto abbastanza chiaramente. E. Cortese
Briend Jacques, Dieu dans l’Ecriture (Lectio Divina 150), Cerf, Paris 1992, 136 pp., 13,5 × 21,5 cm Ancora sull’esperienza di Elia, ma anche di Mosè e di Samuele. Questo in una prima parte: tre capitoli dedicati all’“esperienza di Dio”. E poi, in una seconda parte (“il linguaggio su Dio”), tre aspetti o modi in cui si parla di Dio nella Scrittura: la sua “maternità”, il suo “nascondimento”, la sua “incomparabilità”. In breve, è una piccola teologia biblica in nuce che l’abbé Briend ci offre con questo centocinquantesimo volume di Lectio Divina. L’occasione è invitante per ritornare su certe pagine bibliche fondamentali. E guarda caso si parte proprio dalla voix de fin silence (Levinas) che Elia ha udito sull’Oreb. La rilettura esegetica dell’episodio proposta da Briend è certamente attenta, ma non direi originale. Forse l’autore non ha fatto in tempo a misurarsi con lo studio di M. Masson, Elie ou l’appel du silence (Cerf, Paris 1992), che non sarà altrettanto diligente, ma ha una forza innovatrice decisamente molto maggiore (vedi la mia recensione sul LA 41, 1991, 565ss.). La cosa più interessante che ho trovato qui è l’annesso sulla parola demamà nel testo qumranico intitolato “Liturgia angelica” o “Canti per l’olocausto del sabato” (4Q Shir Shabbat) edito di recente da C. Newsom (1985). A p. 39 se ne citano due estratti: “I cherubini cadono davanti a Lui e benedicono. Quando si alzano, la voce del silenzio divino si fa udire, e vi è un tumulto di giubilo quando le loro ali si alzano: la voce del silenzio divino… Vi è una voce di silenzio di benedizione nel tumulto del loro movimento… la voce di gioioso giubilo si fa silenziosa e vi è un silenzio di benedizione divina in tutti i campi degli esseri celesti”. Nel testo citato, non si dice mai in che cosa consiste questa lode angelica.. Essa è “silenziosa”, dunque non espressa attraverso parole, ma è nondimeno un “tumulto gioioso”, una “voce” chiaramente percettibile. Si può giustamente pensare alla musica, che da sempre è stata associata al coro degli angeli. Quanto alla teofania di Es 33, l’autore rileva che la risposta divina alla domanda esorbitante di Mosè (“Mostrami la tua gloria!”) si snoda in tre tappe (vv. 19, 20, 21). Ci si potrebbe chiedere se la spiegazione del nome divino, in Es 34,5ss, non sia da considerare la quarta tappa, cioè quella conclusiva. Nel
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caso di Samuele infatti è molto evidente: il ragazzo viene interpellato per tre volte di notte finché non diventa capace di discernere la voce del Signore (1Sam 3). Sicché, almeno come ipotesi di lavoro, potremmo forse ritrovare lo schema retorico “tre cose anzi quattro” (ovvero 3 + 1, dove l’ultima è quella decisiva) in tutte queste esperienze teofaniche. Nella seconda parte del lavoro, si tratta per prima cosa del volto materno di Dio. Il problema è soprattutto quello di individuare la chiave adatta a decriptare questo tema nella Scrittura (dal momento che Dio non viene mai chiamato espressamente “madre”). Si può partire dal termine rachamim (associato a rechem, “utero”)? No, perché questo termine astratto si applica altrettanto bene alla “misericordia” di un padre. Ci si dovrebbe allora limitare ai testi deuteroisaiani, che sono i più espliciti al riguardo? L’autore propone una via che mi sembra saggia: quella di partire dall’attribuzione a Dio di verbi prettamente femminili, come “concepire”, “partorire”, “allattare”, ecc…, ciò che consente di aggiungere al dossier dei testi importanti come Num 11,11ss. Circa il tema pascaliano del Deus absconditus ho già avuto modo di esprimere garbatamente il mio dissenso rispetto a questa impostazione del problema in un incontro recente con l’autore presso il centro Ratisbonne di Gerusalemme. Non amo che si continui a parlare, come fa ancora Briend, di Dieu caché, quando egli è un Dio “che si nasconde” (mistatter, un riflessivo) e non “nascosto” (nistar, passivo). Questa è una cosa che è stata elucidata molto bene già da Ibn Ezra, e pare a me che la differenza tra i due modi di dire sia davvero profonda. Dio rimane certo sempre libero di nascondersi, non è tutte le volte a nostra disposizione, però non è neppure un Dio costantemente “nascosto”, inaccessibile, quasi che egli non possa o non voglia rivelarsi (vedi, subito dopo il v. 15 di Is 45, anche il v. 19). In secondo luogo, non separerei nemmeno Is 45,15 dal versetto che lo precede immediatamente: “Solo in te è Dio e non ce n’è altri: sono zero gli altri dei”. “In te” (bakh, un femminile) vuol dire: in Gerusalemme. Perciò, se sappiamo dove Dio si nasconde, in realtà è come se non si nascondesse veramente (ricordate il nipote di Rabbi Baruch che giocava a nascondino?). Infine, il tema dell’incomparabilità (“Non c’è nessuno come te”; “Chi è mai, Signore, come te?”) è solo una variante retorica per esprimere l’unicità del Dio di Israele. A. Mello
Viviano Benedict Thomas, Le Royaume de Dieu dans l’histoire (Lire la Bible), Cerf, Paris 1992, 258 pp., 11,5 × 18 cm Questo a me sembra un libretto importante, ancor prima che per i suoi meriti specifici, per l’idea stessa che lo ha ispirato: saggiare l’incidenza che ha avuto l’annuncio del regno nella storia della chiesa. Infatti il risultato dell’indagine,
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abbastanza inquietante ma difficilmente oppugnabile, è che il tema centrale della predicazione di Gesù si è praticamente inabissato nella storia successiva, salvo riemergere nell’esegesi neotestamentaria e nelle teologie della liberazione contemporanee. Ciò che, in particolar modo, è venuto ad essere così a lungo oscurato, è stato l’aspetto apocalittico del regno, ossia il suo carrattere gratuito (da Dio) e imminente: l’irruzione del regno nella storia del mondo. L’autore, giustamente io credo, mette in relazione la perdita di questo aspetto particolare (ma non secondario) con lo scollamento più generale, da parte del cristianesimo primitivo, rispetto alle sue origini ebraiche. E non è dire poco. Il libro si divide in 5 capitoli più alcune appendici. Il cap. I è dedicato al “regno di Dio nella predicazione di Gesù”. Forse lo si sarebbe potuto mettere anche per ultimo, perché l’esposizione dei dati evangelici che troviamo qui, è quella risultante dall’indagine esegetica moderna, a partire da J. Weiss e A. Schweitzer. Il cap. II è dedicato al “regno di Dio presso i Padri della Chiesa”. Schematicamente, vengono delineate quattro posizioni fondamentali. A) La corrente escatologica, quella rimasta maggiormente ancorata alla prospettiva apocalittica originaria, ma con l’infelice risultato di inquadrarla in uno schema millenaristico (Ireneo). B) La corrente mistico-spirituale, una dottrina che privilegia Giovanni rispetto ai sinottici, e lo sposa con il platonismo. “Io credo che con regno di Dio si debba intendere la felice intronizzazione della ragione e il regno dei saggi consigli” (Origene). C) La corrente politica, che identifica il regno di Dio con l’impero costantiniano (Eusebio). D) La corrente ecclesiale, che invece distingue la “città di Dio” da quella “terrena”, ma per farla coincidere con la Chiesa. “La Chiesa fin da ora è il regno di Dio e il regno dei cieli” (Agostino). Questa sarà la posizione destinata a raccogliere i maggiori consensi in ambito cattolico. Il cap. III si occupa del “regno di Dio durante l’alto Medioevo”. Qui entra in scena evidentemente Gioacchino, con la sua riaccensione della tensione apocalittica, e la posizione dei grandi maestri viene interpretata come una reazione apologetica. L’autore, pur essendo un buon domenicano, non esita a riconoscere i limiti della teologia scolastica segnatamente su questo punto: “L’incapacità della teologia medievale a integrare una escatologia di questo mondo è una delle sue principali debolezze” (p. 122). Il cap. IV, sul “regno di Dio all’inizio dell’epoca moderna”, abbraccia in una sessantina di paginette personaggi e fenomeni di straordinaria complessità: il rinascimento (Savonarola, More, Campanella), la riforma (Lutero, Muenzer, Bucero, Calvino), l’illuminismo (Kant), la reazione all’illuminismo (Schleiermacher, Galura), il romanticismo (Hegel e soprattutto Schelling), il positivismo (Ritschl, Harnack). Il discorso si riduce a poco più che una passerella di nomi illustri, e non va certo molto a fondo. Resta il fatto che, secondo Viviano, il pensiero del re-
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gno di Dio non è veramente centrale in nessuno di questi autori, benché goda di un certo ritorno di interesse da Kant in poi. Al termine di questo lungo arco di tempo, ormai alle soglie di questo secolo, nel discorso di Harnack sull’ “essenza del cristianesimo” (1900), il regno di Dio veniva ancora definito in termini eminentemente mistico-psicologici (leggasi il brano riportato alla p. 182). Eppure pochi anni prima, quasi esattamente un secolo fa (1892), Johannes Weiss aveva già lanciato il sasso che avrebbe incrinato poco per volta certezze secolari. Tutto nasceva da una riappropriazione del dato evangelico primario: “Nell’idea che se ne faceva Gesù, il regno di Dio non è mai qualcosa di soggettivo, di intimo o di spirituale; è sempre il regno messianico oggettivo, abitualmente descritto come un territorio nel quale si penetra, o una terra alla quale si ha parte, o un tesoro che discende dal cielo” (è un testo di Weiss citato a p. 198). Viviano commenta: “Si può dire che c’è voluta una cinquantina d’anni perché le idee di Weiss si facessero accettare nel modo dell’esegesi, e un’altra ventina perché il loro effetto si facesse sentire seriamente sulla teologia sistematica” (p. 199). A questa progressiva conquista di terreno è dedicato precisamente l’ultimo capitolo (“Il regno di Dio nel pensiero del XX secolo”), ed è una storia ancora in corso. L’edizione originale di quest’opera, The Kingdom of God in History, è uscita a Wilmington da Michael Glazier nel 1988. Un’eventuale edizione italiana penso che sarebbe la benvenuta. A. Mello
Weaver Dorothy Jean, Matthew’s Missionary Discourse. A Literary Critical Analysis (Journal for the Study of the New Testament, Supplement Series, 38), Sheffield 1990, 250 pp. 14 × 20 cm, Hardcover Questa è una dissertazione dottorale, elaborata sotto la guida del prof. Jack Dean Kingsbury, noto per i suoi lavori su Matteo. Il tema è dato dal discorso missionario (Mt 9,35-11,1). Nuova è l’applicazione al brano dell’analisi critica letteraria. Come bene scrive l’A. a p. 163, n. 55, la dicitura non deve confondersi con il metodo storico-critico, che ricerca le fonti, bensì va presa nel senso dei critici letterari. Solamente di recente, e precisamente dagli anni 70, degli esegeti americani hanno per primi applicato questo approcio allo studio dei vangeli. In concreto nel I. cap. l’A. presenta tre studi, che usando il metodo storico critico, non possono dare un’interpretazione unitaria al testo perché o devono sacrificare la cornice “galilaica” posta da Mt al discorso oppure devono arrendersi di fronte agli evidenti urti che stanno all’interno del discorso. Fra questi ultimi risaltano particolarmente il divieto di andare fra i pagani e nelle città samaritane (10,5); si parla poi non solo di tribunali, sinagoghe (v. 17) e città di
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MATTHEW’S MISSIONARY DISCOURSE
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Israele (v. 23), ma anche di comparizione davanti a governatori e re, caratteristici del mondo pagano (v. 18). Allo scopo di rispettare il testo com’è, l’approccio offerto dall’analisi letteraria critica prende il testo com’è di fatto e ne fa una lettura sincronica (p. 24). Da sottolineare che l’A. non si limita al brano, oggetto diretto dello studio, ma assumendo le categorie proprie del metodo, riconosce che questo è un segmento entro un “composto sequenziale” di eventi che costituiscono il racconto di Matteo. Quindi prende l’opera nella sua totalità e la chiave interpretativa le è offerta dal suo interno, mettendo a fuoco “ il ‘mondo narrativo’ di persone, luoghi, eventi che sta nel testo e che è infine creazione letteraria dell’autore” (p. 25). Perciò ogni sezione o elemento del racconto va considerato soprattutto in termini di relazione con l’insieme della narrazione. Di fatto l’A. si chiede qual è il ruolo di 9,35-11,1 nel racconto matteano che narra la vita, la morte e la risurrezione di Gesù. Come per ogni racconto, alla base sta lo schema della comunicazione tra ‘emittente’ e ‘ricevente’. Ciò avviene non fra il Matteo in carne e ossa, ma fra “l’autore implicito” e “il lettore implicito” come risultano dalla stessa opera letteraria. La transazione comunicativa avviene attraverso i mezzi offerti dall’opera scritta, quindi mediante il ruolo e le qualità del narratore e nei termini richiesti dalla narrazione, quali i personaggi, l’intreccio e l’ambiente in cui ha luogo ogni evento del racconto. In concreto nel racconto di Matteo l’A. ricerca questi aspetti: 1) quali sono le caratteristiche e il ruolo nel narratore; 2) quale il contenuto della storia raccontata; 3) cosa l’autore implicito comunica al lettore implicito. Siccome il discorso missionario non è che un segmento entro un “composto sequenziale” di eventi che costituiscono l’intero racconto, l’A. nel cap. 2 studia i dati di Mt 1,1-9,34 per conoscere come essi influiscono nel lettore implicito e, dopo aver analizzato il discorso missionario con la sua cornice (cap. 3), ricerca come il resto del vangelo (Mt 11,2-28,20) risponde alle tensioni non risolte di 9,35-11,1 e quali dati della pericope missionaria servono a comprendere la parte seguente del racconto matteano (cap. 4). Non è qui possibile seguire passo per passo lo studio analitico della Weaver. Da parte mia trovo più interessante il cap. 2, che può anche servire come esempio pratico per apprendere il metodo. I frequenti rimandi a studiosi di critica letteraria indicano quali autori sono utili per essere introdotti al metodo. Mi limito a citare Boris Uspensky, A Poetic of Composition: The Structure of Artistic Text and Typology of a Compositional Form, Berkeley 1973; un’opera che troviamo tradotta in italiano: Seymour Chatman, Storia e Discorso: La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Pratiche editrice, Parma 1989, 2 ed.; e soprattutto Susan Sniader Lanser, The Narrative Act: Point of View in Prose Fiction, Princeton 1981. Per quanto riguarda i discepoli di Gesù l’A. mette in luce come nei primi capitoli di Matteo si trova la promessa che saranno pescatori di uomini (4,19) e ad essi direttamente viene indirizzata la beatitudine delle sofferenze e delle
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persecuzioni (5,11). In 9,36-38 si sottolinea l’abbondanza delle messi e la scarsità degli operai: Gesù ingiunge ai discepoli di pregare il Padre perché “mandi operai nella sua messe”. Subito dopo il racconto continua con Gesù che associa i discepoli al potere delle guarigioni (10,1) e anche al compito di predicare ad Israele che “il regno dei cieli è vicino” (10,5-7). Il loro ministero è parte integrante di quello di Gesù, ma finché lui vive non lo esercitano, sempre seguendo il racconto di Matteo. Per questo evangelista l’intero discorso missionario è pari ad una iniziazione all’apostolato sia nell’ambiente giudaico contemporaneo a Gesù, sia dopo la sua scomparsa e infine anche presso i pagani: tutto nella prospettiva del giudizio finale di Dio. Dopo il discorso missionario il racconto di Matteo continua, descrivendo l’attività di Gesù in mezzo alle folle e finisce con gli eventi della passione e morte, allorché i discepoli addirittura scompaiono dalla scena. Dopo la risurrezione Gesù ha pieni poteri e solo allora l’evangelista fa capire che è arrivato il momento in cui si realizza la missione dei discepoli. Concludendo possiamo dire che, seguendo l’analisi critico-letteraria, viene osservata l’intenzione di rispettare il testo e di esso si mette più direttamente in luce il messaggio. G. Bissoli, ofm
Pitta Antonio, Disposizione e messaggio della Lettera ai Galati. Analisi retorico-letteraria (Analecta Biblica, 131), Roma, Editrice Pontificio Istituto Biblico, 1992, pp. 270, 17 × 24 cm, Lit. 30.000, US $ 26 La ricerca di A. Pitta, una tesi di laurea presentata al P.I.B. di Roma sotto la direzione del Prof. Aletti, si inserisce nella vasta produzione riguardante la struttura della Lettera ai Galati e particolarmente in quel filone, che attraverso i procedimenti letterari, epistolografici e retorici, cerca di illuminare il messaggio centrale della Lettera ai Galati. Il procedimento è basato su alcuni principi-base, che l’A. stesso enuclea con chiarezza e precisione: 1) “Retorica contro la retorica, epistolografia contro l’epistolografia” (p. 214): cioè, pur servendosi dei modelli epistolografici e retorici, il messaggio della Lettera ai Galati va al di là di essi e non può essere determinato solo attraverso tali modelli, ma bisogna integrarlo con altri tipi di analisi. 2) “Dalla ‘dispositio’ al genere retorico” (p. 212): tale principio intende rispettare il testo della Lettera ai Galati, non imponendo ad esso nessun modello precostituito o esterno alla Lettera stessa, ma cercando in esso, “attraverso le relazioni delle singole micro e macrounità letterarie, i concatenamenti argomentativi e gli indicatori fondamentali per identificare il suo genere globale” (p. 10); così, dopo un’analisi letteraria e retorica delle micro-unità del testo si passa alla “dispositio” generale e da questa all’identificazione del genere retorico di tutta la Lettera. 3) “Seguire un itinerario sincronico” (p. 214): la priorità spet-
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ta al testo e al suo contesto (p. 81); per questo bisogna cercare il messaggio della Lettera attraverso la sua stessa composizione letteraria e la sua “dispositio retorica”, che ci permettono di individuare “le gerarchie tematiche” e le loro rispettive relazioni e integrazioni. Il piano di lavoro è semplice e si articola in quattro parti fondamentali: Capitolo Primo: Analisi delle strutture di Galati: riguarda la “storia dell’interpretazione” delle strutture proposte per la Lettera e il modello ermeneutico ad esse sottostante (pp. 13-41). Capitolo Secondo: Ermeneutica della retorica classica: vengono analizzati i “generi retorici”, le loro differenze e connessioni, la “dispositio” e le sue parti e infine la relazione della retorica con l’epistolografia e la diatriba classica (pp. 43-79). Capitolo Terzo: La “dispositio” della Lettera ai Galati: seguendo il principio della retorica letteraria: “dalla dispositio al genere retorico” (p. 81), vengono identificate le relazioni tra le diverse micro e macrounità letterarie (pp. 81-151). Capitolo Quarto: Dalla “dispositio” al messaggio: è dedicata all’emergenza del genere retorico e del relativo messaggio in Galati e, in base ad essi, all’analisi del problema della “legge” e degli “oppositori” all’interno della Lettera ai Galati (pp. 153-209). Completano l’opera: una breve e chiara Conclusione (pp. 211-215), un Lessico di Terminologia tecnica (pp. 217-225), la Bibliografia (pp. 231-247) e infine gli Indici (autori, citazioni bibliche, lessicale e generale) (pp. 249-270). A prescindere dai risultati raggiunti, all’opera del Pitta va riconosciuto il merito di averci offerto il frutto di una ricerca ampia, di un’impostazione metodologicamente pregevole e di averci offerto una panoramica interessante dei vari procedimenti retorici applicabili agli scritti del Nuovo Testamento e in particolare alla Lettera ai Galati. Sui risultati raggiunti dall’A. si può certamente discutere, ma resta a lui il merito di averci offerto una criteriologia attenta ed esemplare, per poter continuare il lavoro di approfondimento della Parola di Dio attraverso i mezzi di comunicazioni propri di Paolo e degli altri scrittori neotestamentari. Ciò significa che l’opera, insieme ad alcuni pregi evidenti, presenta anche dei punti deboli che col tempo possono essere benissimo superati o dall’A. stesso o da altri ricercatori che beneficeranno della sua ricerca. Certamente è ammirevole la pazienza certosina dell’A. nell’aver cercato e individuato molte strutture della Lettera ai Galati, riuscendo a far rientrare in tale ricerca persino Cornelio a Lapide e molti commentaristi dell’Ottocento. Io continuo a credere che, nonostante che molti commentaristi offrano dei piani della Lettera, di fatto essi non li hanno stabiliti su base letteraria, ma prevalentemente sui contenuti e solo qua e là hanno indicato qualche elemento letterario che poteva suffragare qualche divisione principale o secondaria. In altre parole, non si ponevano il problema letterario; era sufficiente offrire un piano chiaro e possibilmente aderente ai contenuti della Lettera. Ciò significa che era sufficiente da parte dell’A. prendere in seria considerazione solo quei contributi che espressamente basano le loro ricerche su elementi letterari, epistolografici o retorici. In quanto alle “classificazioni” date dall’A. bisogna
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fare diverse osservarzioni: 1) spesso non rispecchiano le divisioni offerte dai vari autori: così, per esempio, tutti coloro che si servono della epistolografia coniugata ad elementi letterario-tematici o ad analisi retoriche, difficilmente potranno riconoscersi nelle divisioni tripartite o quadripartite, in quanto la divisione in tre o quattro parti riguarderebbe solo l’analisi del “corpus” della Lettera e non di tutta la Lettera. Quindi, si dovrebbe parlare di divisioni in 5 parti o in 6 parti. 2) Gli “schemi” proposti vengono presentati come se fossero l’uno conseguente all’altro; in realtà, essi non lo sono, perché gli autori che si sono interessati della struttura di Galati, spesso hanno tenuto conto di schemi diversi nel formulare la propria proposta, da ciò l’evidente difficoltà dell’A. a volerle fare rientrare dentro una “classificazione” precostituita. 3) Non si sa perché l’A. sostenga che il semplice fatto di dividere il “corpus” della Lettera in “sezione autobiografica” (cc. 1-2), “seziona dommatica” (cc. 3-4) e “sezione parenetica” sia un privilegiare la seconda sulle altre due parti (cfr pp. 23 e 41 e altrove). Mi sembra che questo sia un presupposto o un espediente poco corretto per raggiungere più facilmente il risultato voluto. In effetti, molti autori definiscono le tre parti come “prove” e certamente non sono lontani dall’idea dell’A. di considerarle come “dimostrazioni” in favore della “verità del Vangelo”. Allo stesso modo, all’A. sembra strano parlare di “parenesi conseguente” (Mussner) nei cc. 5-6 rispetto ai cc. 4-5; eppure ciò, sia da un punto di vista letterario retorico che tematico e dello stile paolino (uso congiunto dell’indicativo e dell’imperativo della salvezza in tutte le sue lettere), creerebbe maggiore unità nell’argomentazione paolina: la “dimostrazione dottrinale” si salderebbe con quella che scaturisce dalla “vita secondo il Vangelo e nella forza dello Spirito”. Mi astengo dal fare una “critica” del “Capitolo secondo” riguardante l’Ermeneutica della retorica classica, non solo perché si tratta di un lavoro di sintesi, ma anche perché non credo di essere all’altezza di poter fare una “critica costruttiva” su tale settore specifico, lontano dalle mie competenze. Qualcosa mi sembra, invece, di poter dire sul capitolo riguardante la ricerca sulla “dispositio” della Lettera ai Galati. Sono pienamente d’accordo con l’A. sul metodo da seguire: dalla “dispositio” al “genere” retorico; dall’analisi letteraria e retorica delle microunità alla determinazione delle macrounità e conseguentemente del messaggio, seguendo il principio ermeneutico della “sincronia”. Non è mio intento contestare i singoli dettagli, più o meno discutibili, dell’analisi dell’A. (non è compito di una recensione), ma di fare anche qui qualche osservazione critica di tipo generale e spero anche costruttiva: 1) “L’approccio retorico non si oppone, ma si fonda su quello letterario” (p. 151 nota 245); la preminenza dell’aspetto letterario è certamente affermata dall’A., ma in realtà praticata spesso in maniera molto discutibile da un punto di vista letterario (analisi sintattica delle forme e delle proposizioni) e “orientata” ad evidenziare dei punti particolari in vista della conseguente analisi retorica. Per non rimanere nell’astratto, porterò un esempio: Gal 2,11-21. Non so con quali
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criteri letterari l’A. possa dividere la pericope in 2,11-14 e 15-21. Forse, più che da criteri letterari, è stato spinto dall’orientamento abbastanza diffuso determinato dalla “divisione ideologica” del Bultmann (seguita da moltissimi esegeti) e dalla “divisione retorica” del Betz, ma in ogni caso già contestata velatamente da Lagrange e Schlier e in maniera più decisamente letteraria da Lambrecht e dal sottoscritto. Anche se la pericope da un punto di vista della forma può essere suddivisa in due parti (racconto e discorso), essa rimane sembra una “pericope narrativa” divisibile in 2,11-14a e 2,14b-21. Nessun altro elemento letterario formale, può essere addotto per spezzare l’unità non solo della pericope, ma anche quella del “discorso” che inizia in 2,14b e finisce in 2,21. Anzi vi sono elementi letterari di vocabolario, di sintassi e di figure retoriche che non permettono tale divisione. Allo stesso modo, non riesco a comprendere la divisione di Gal 3,6-14, quando lo stesso A. ammette che i vv 6-7 rappresentano anche da un punto di vista retorico una “subpropositio” e che solo in 3,8-14 si ha il midrash; non riesco a comprendere lo smembramento della pericope 3,19-25, dove sia la terminologia costante che le articolazioni sintattiche consigliano più l’unità dell’argomentazione paolina che un suo smembramento. Ma la verità mi pare che sia una sola: l’analisi letteraria è poco consistente e in funzione subalterna all’analisi retorica. 2) Come già ho detto, non mi reputo in grado di poter valutare criticamente l’analisi retorica proposta dall’A., ma in ogni caso ho avuto l’impressione che egli attribuisca in maniera poco convincente delle figure retoriche a questo o a quell’altro testo. Tanto per portare un esempio: le “apostrofi” della Lettera. L’A. ne individua tre: 1,6-10; 3,1-5 e 4,8-11. Sono d’accordo sulle prime due, ma non riesco a vedere 4,8-11, una pericope piuttosto calma e abbastanza argomentativa che invita i Galati a riflettere e agire in conseguenza a quanto detto in 4,1-7, come un’apostrofe; né mi risultano chiari i motivi perché Gal 5,7-12, un attacco deciso, forte e violento (sia formalmente che contenutisticamente), venga classificata come un “adinato” e pertanto può rientrare dentro la figura retorica della “peroratio” svolta, secondo l’A., in 5,212. Così, dovendo trovare almeno una forma di “apostrofe” per “la quarta dimostrazione”, la pericope 5,13-15 assume la forma di un “ammonimento”, che in fondo sarebbe “un’apostrofe un po’ più blanda”. Confesso che, pur non essendo un esperto in figure retoriche, ne ho ricavato l’impressione che l’A. attribuisca alquanto arbitrariamente le varie figure retoriche ai singoli brani. Forse, ci sarebbe bisogno di una metodologia più severa per condurre in maniera più appropriata tale analisi. Condivido con Pitta che i problemi della Legge e degli Oppositori di Paolo sono secondari nella Lettera ai Galati e in un certo senso relativi al messaggio centrale della Lettera: il Vangelo paolino. Ma l’accordo con lui finisce qui, di fatti non sottoscriverei assolutamente la conclusione da lui proposta: “Il messaggio centrale di questa Lettera è condensato nel vangelo paolino: questi (sic) non riguarda tanto il Cristo, quanto l’essere in lui; non concerne
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neppure lo Spirito, quanto la sua azione nella vita del credente. In ultima analisi questo vangelo non si riferisce neppure a Dio, quanto all’adesione alla sua “rivelazione” ed alla sua “grazia”. Tali implicazioni rientrano nella categoria escatologica onnicomprensiva della “figliolanza”” (pp 168-169). Se ho ben capito, il centro del “vangelo paolino” sarebbe la “figliolanza” (e per l’A. quella “abramitica”) e tutto il resto, compreso Dio Padre, Gesù Cristo e lo Spirito Santo sarebbe tutto “funzionale” a tale realtà escatologica. Tutto ciò mi pare che contrasti sia formalmente che contenutisticamente sia con le affermazioni di Gal 1,1-5; 3,8-14, 4,26-4,1-11; 5, 16-26; 6,14-15. Inoltre, non riesco ad immaginare assolutamente un ruolo “funzionale” di Cristo, di Dio Padre e dello Spirito Santo in uno scritto paolino. D’altra parte, l’“essere in Cristo”, stando a Gal. 3,28, ha senso solo se il cristiano è attraverso il battesimo “uno in Cristo” e ciò non credo che abbia solo una dimensione escatologica, ma soprattutto cristologica e, dato le insistenze di Paolo in 1,6.15; 3,8.26; 4,1-2.4.6.9; 5,8, anche una dimensione teologica e pneumatologica. Io non credo che l’escatologia della Lettera ai Galati si possa staccare dalla cristologia, ma essa scaturisce essenzialmente dalla cristologia e non viceversa. La costante in Galati, come nel resto dell’epistolario paolino, rimane la cristologia. M. Buscemi, ofm
Adinolfi Marco, Ellenismo e Bibbia. Saggi storici ed esegetici, (Collana Sacra Scrittura), Edizioni Dehoniane, Roma 1991, 200 pp., 14.50 × 21, Lire 22.000 Non si può non condividere quanto Mons. Enrico Galbiati, scrive nella Presentazione: “L’incontro e lo scontro tra ‘Ellenismo e Bibbia’… da sempre formano l’interesse principale degli studi del padre Adinolfi con una varietà di temi che veramente stupisce”. Effettivamente questa dotta monografia ne costituisce una riprova eloquente. Vi compaiono nove studi, di cui uno inedito, pubblicati in un decennio su riviste e miscellanee varie. Il volume si apre con “l’antropocosmismo biblico e l’anticosmismo pagano” (pp. 9-23) e prosegue con l’analisi di due importanti termini greci “eikôn nel De Iside et Osiride di Plutarco” (pp. 25-38) e “metanoia nella Tavola di Cebete alla luce della 1Pietro” (pp. 122-143). Si studiano poi l’obiezione di coscienza in “Il Socrate dell’Apologia platonica e il Pietro di Atti 4,5 di fronte alla libertà religiosa” (pp. 39-57), la “donna e il matrimonio nelle Diatribe di Musonio Rufo alla luce delle lettere paoline” (pp. 7391), “l’autorità civile nelle Diatribe di Epitteto alla luce della 1Pietro” (pp. 93-103), la “deontologia stoica di Ierocle e il codice domestico della 1Pie-
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tro” (pp. 105-122), i “sogni di s. Paolo negli Atti degli Apostoli: un confronto con Erodoto” (pp. 59-72). Chiudono il volume due appendici, la prima su “Tarso patria di stoici” (pp. 145-160), la seconda costituita da un ricco florilegio di testimonianze giudaiche e patristiche sul “Logos spermatikos” (pp. 161-186). Gli indici dei passi biblici, degli autori greco-romani, e degli autori cristiani antichi e degli autori moderni sono stati curati dal biblista G. B. Bruzzone. Le istanze ecologiche moderne si inseriscono nella concezione biblica che vede il cosmo non avulso dall’uomo, ma in vitale religiosa comunione. Una originalità del libro sacro, tenute presenti le molteplici svalutazioni del cosmo in voga nel mondo antico. Lo studio del De Iside et Osiride plutarcheo, al contrario, mostra sorprendenti analogie con l’uso biblico di eikôn vista come riproduzione figurata, come simbolo in azione, come analogia, come proiezione del divino e come incarnazione. Sorprendente anche l’analogia stabilita tra l’obiezione di coscienza di Socrate (“Cittadini ateniesi, io vi sono obbligato e vi amo, ma obbedirò piuttosto al dio che a voi”) e quella di Pietro (“Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini“) nel contesto del processo ateniese e di quello gerosolimitano. Al contrario, il confronto tra i sogni di Paolo e quelli riferiti da Erodoto mostra chiaramente la superiorità del primo sui secondi. Ancora una inattesa consonanza tra lo stoico Musonio Rufo e l’apostolo Paolo, circa la concezione della donna e del matrimonio, concezioni e prassi inficiate nell’antichità da un notevole permissivismo lassista, al punto che il padre Adinolfi adatta a Musonio quanto Tertulliano affermava di Seneca: “Musonius saepe noster”. Sempre sintonia tra un pagano e l’autore della 1Pietro, a proposito dell’autorità civile. Per Epitteto infatti i capi sono inviati da Zeus, devono essere modelli dei sudditi, significa obbedire a Dio obbedire alla legge, a meno ché il comando non scivoli nella stoltezza e nella disdicevolezza. Neppure la deontologia di Ierocle è in contrasto col codice domestico di 1Pietro, anche se le pagine dello stoico restano molto al di sotto del livello spirituale raggiunto dal sobrio dettato petrino. Desta stupore invece il concetto che della metanoia si facevano gli antichi, la ritenevano un semplice rammaricarsi di una parola o di un gesto compiuto in precedenza. Si deve alla Tavola di Cebete la concezione etica della metanoia nel mondo greco-romano, benché si tratti di una conversione puramente filosofica e non anche religiosa, come appare invece dai Settanta e dal Nuovo Testamento. L’autore fa notare che nell’antichità una conversione etico-religiosa era richiesta soltanto dal giudaismo e dal cristianesimo, dato che le religioni pagane ammettevano qualsiasi altra nuova divinità nel loro pantheon e non esigevano nessun mutamento di vita. Soltanto la filosofia ellenistica portava a una vera conversione etica o rinnegamento dei trascorsi di un agire moralmente riprovevole.
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Lo sguardo sull’antica Tarso fa risultare la città sul Cidno come autentico centro universitario, da cui sono usciti numerosi letterati e filosofi, soprattutto stoici come Crisippo, Zenone, Antipatro e l’amico di Augusto Atenodoro il Calvo, del quale Seneca riporta questo pensiero: “Tu saprai per certo di essere libero da tutte le cupidigie quando giungerai a questo punto di pregare Dio solo per chiedere cose che tu possa chiedere pubblicamente”. Gli ebrei Aristobulo, Filone e Flavio Giuseppe e i cristiani da Giustino a Teodoreto di Cirro sono addotti nella seconda appendice come voci di un’autentica apertura ecumenica. A essi fa eco il decreto Ad Gentes 11 del Vaticano II: “Si familiarizzino con le tradizioni nazionali e religiose degli altri; scoprano con gioia e rispetto i germi del Verbo in esse nascosti”. Si può dire che padre Adinolfi ha fatto di questa grande idea una ispirazione costante del suo insegnamento e della sua ricerca, senza per questo mettere tra parentesi gli interessi spirituali e culturali dell’uomo di oggi. Il quale resta sempre, pur nelle mutate condizioni di tempo e di luogo, l’individuo che si interroga sul rapporto da instaurare con il cosmo, con i propri simili, con le autorità e con Dio. G. Claudio Bottini, ofm
Adinolfi Marco, Il Verbo uscito dal silenzio. Temi di cristologia biblica, (Collana Sacra Scrittura), Edizioni Dehoniane, Roma 1992, 190 pp., 14.50 × 21 cm., Lire 20.000 “C’è un solo Dio, il quale si è manifestato per mezzo di Gesù Cristo suo Figlio, che è il suo Verbo uscito dal silenzio e che in ogni cosa è stato di compiacimento a chi lo ha mandato” (ai Magnesii 8,2). Questo stupendo pensiero di Ignazio di Antiochia ha suggerito a padre Marco Adinolfi, professore di teologia biblica al Pontificio Ateneo “Antonianum” di Roma, il titolo suggestivo della monografia che presentiamo, nella quale egli raccoglie il frutto di un decennio di ricerche. Quattro saggi approfondiscono altrettanti testi evangelici illuminando il celibato di Gesù (pp. 9-21), la preghiera del Signore, “Padre nostro” (pp. 23-35), il Servo di Yhwh nel loghion del servizio e nei tre annunci della passione (pp. 37-62), Gesù e lo Spirito nel Vangelo di Giovanni (pp. 6384). Altri cinque contributi tentano un’analisi approfondita di 2 Cor 8,9 (Per voi diventò povero essendo ricco) (pp. 85-94), Rom 8,3 (L’invio del Figlio) (pp. 95-117), 1Pt 1,1.2 (Eletti… all’obbedienza e all’aspersione del sangue di Gesù Cristo) (pp. 119-129), Rom 5,1,2a (Cristo e la pace) (pp. 131-142), 1Cor 1,23 (Cristo crocifisso… stoltezza per i pagani) (pp. 143-155). Completa la
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serie degli studi un’Appendice su “Il Verbum abbreviatum nell’esposizione di S. Bonaventura” (pp. 155-164). Chiudono l’opera gli indici a cura di G. B. Bruzzone dei passi biblici, degli autori greco-romani, degli autori cristiani antichi e degli autori moderni. Il contributo che apre la serie mostra la originalità del celibato scelto da Gesù “per” il Regno, celibato che si differenzia da quello “angosciato” di Geremia e da quello “anacoretico” di Giovanni Battista. “La straordinaria carica di affettività e sensibilità aliena da ogni introversione, la serenità di equilibrio che gli permette di agire con estrema libertà documentano il carattere assolutamente volontario e libero della sua feconda rinunzia al matrimonio” (p. 21). Quanto al “Pater noster” viene messo in risalto il suo orientamento escatologico e il sinergismo Dio-uomo. Né si tralascia di notare il passivo teologico della prima parte della preghiera in forza del quale le tre domande potrebbero rendersi con “santifica il tuo nome, vieni a regnare, compi la tua volontà”. Il contributo sottolinea la originalità del “Pater” sia per quello che dice, cioè l’essenziale circa i rapporti uomo-Dio, sia per quello che non dice, vale a dire per il suo carattere universale che si pone al di sopra delle contingenze di tempo e di spazio. Il terzo saggio illumina il Servo di Yhwh nel loghion del servizio con il testo isaiano nella sua redazione masoretica e in quella targumica. Mostra anche la genesi e lo sviluppo in Gesù della previsione della sua morte violenta e il significato sacrificale e diaconale che egli vi imprime. Dei tre vaticini della passione poi è messa in risalto la loro sostanziale autenticità. In prospettiva schiettamente cristologica si colloca pure il capitolo relativo a Gesù e lo Spirito, in quanto, come afferma l’autore “è la cristologia a condizionare per così dire, la pneumatologia, in quanto è proposta alla luce della concentrazione cristologica tipica di Giovanni”. Altri due studi tentanto di precisare fin dove si è spinta la “kenosi” del Verbo Incarnato: si è fatto povero; Dio lo ha mandato “in somiglianza di carne di peccato”. Si tratta di analisi molto dense di due testi paolini, di cui i Padri della Chiesa e gli esegti moderni conoscono la difficoltà. Studiando il testo petrino padre Adinolfi mostra come la soteriologia neotestamentaria trova eco autorevole e fedele anche in questo scritto ritenuto un “crocevia” delle teologie del Nuovo Testamento. Esponendo Rom 5,1-2a l’autore prova come sia da preferire all’indicativo il congiuntivo “abbiamo pace (eirenên echômen)” nel senso che non basta che Cristo ci abbia donato una volta per sempre la grazia della pace con Dio. L’ultimo capitolo ricorda gli ostacoli che i pagani hanno incontrato lungo il cammino della croce di Cristo e non hanno saputo superarli dal momento che per essi era assurdità un Dio patetico, incarnato, crocifisso, morto e risorto.
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Costituisce un abbellimento l’appendice bonaventuriana secondo cui il “Verbum abbreviatum”, di cui parla S. Francesco nella Regola è o la dottrina etica di Cristo, o la carità, o Cristo stesso. Il tema del “Verbo uscito dal silenzio” è onnipresente nel volume con i tratti di un uomo che rinuncia al matrimonio per gli interessi del Regno, che insegna a stabilire autenticamente i rapporti con Dio, che fa della sua vita e della sua morte un servizio e un dono sacrificale, che assume tutti i limiti della natura umana ad eccezione del peccato, che è e dona la pace in una religione dell’avere, che promette ai suoi l’invio dello Spirito divino, che diventa “figlio dell’uomo per abituare l’uomo ad accogliere Dio ed abituare Dio ad abitare nell’uomo” (S. Ireneo). Anche in questo volume padre Adinolfi rivela la sua competenza e riconosciuta maturità. Inoltre come in altri suoi contributi scientifici non si perde “nei meandri di una ricerca scientifica astratta” (Giovanni Paolo II), ma cerca di attualizzare il dato biblico. Egli fa ciò o indirettamente - si vedano ad esempio il primo e secondo contributo - o esplicitamente, come ad esempio nel capitolo settimo che si chiude con “Bisogna porsi alla sequela del redentore, credere al sacrificio espiatorio e vicario della sua morte angosciante e aderrivi esistenzialmente” (p. 129), o nel capitolo ottavo “(Cristo) continua a influire su di noi perché non vanifichiamo nell’ignavia del peccato il dono ricevuto, ma ci impegnamo, in sinergia con il nostro Signore glorioso a conservarlo e a viverlo sviluppando alcune almeno delle sue potenzialità infinite” (p. 142). G. C. Bottini, ofm
Boismard M.- É. (collab. A. Lamouille), Le Diatessaron: de Tatien à Justin, (Études Bibliques, nouvelle série 15), Librairie Lecoffre, J. Gabalda et Cie Éditeurs, Paris 1992, 171 pp. + 2 tavole, 16 × 24 cm, F 156 Per chi conosce padre Boismard e il suo metodo di lavoro il significato di questo titolo, a prima vista un po’ misterioso, diventa subito chiaro. In effetti l’A., seguendo un metodo a lui caro, cerca di rispondere alla domanda circa le edizioni / redazioni antiche del Diatessaron. Da sempre tale composizione è attribuita a Taziano, ma un attento esame delle fonti potrebbe portare a conclusioni diverse. Vi sono elementi che ci spingono a cercare l’origine del Diatessaron in una generazione anteriore a Taziano, quella del suo maestro Giustino. Questo volume avrebbe dovuto formare un capitolo di un’altra opera il cui fine è la ricostruzione di un testo del quarto vangelo basandosi sulle citazioni fatte da Crisostomo nelle sue omelie e sul Diatessaron. Data la notevole estensione del capitolo e le importanti conclusioni a cui l’A. è pervenuto, ha preferito pubblicarlo a parte.
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L’opera è così suddivisa. Dopo le pagine introduttive (7-12), nelle quali viene messa a fuoco la problematica e viene scelto il metodo di lavoro, il I capitolo è dedicato ai “testimoni del Diatessaron” (pp. 13-28). La più grande difficoltà nell’utilizzazione dell’opera di Taziano - sottolinea l’A. all’inizio di questa parte - consiste nel fatto che i testimoni di tale opera sono tardivi e indiretti. L’A. fa l’inventario dei principali testimoni del Diat. dividendoli in orientali (Versione araba, Commento di S. Efrem, Antica versione siriaca dei vangeli e il piccolo frammento greco rinvenuto a Dura-Europos) e occidentali (i testi latini e le assai numerose armonizzazioni medievali). Non poca meraviglia desterà in molti sapere che nel Medioevo l’opera fu tradotta in dialetto toscano e in dialetto veneziano. Il II cap. (pp. 29-66) è dedicato interamente all’armonizzazione medievale chiamata, col nome di un possessore del manoscritto (Samuel Pepys), armonizzazione di Pepys. In questo importante capitolo, centrale nel corpo dell’opera, l’A. studia i dettagli di sette racconti evangelici e delinea i rapporti fra i vari testimoni. Alla fine della sua analisi conclude che i diversi testimoni possono dipendere da diverse edizioni / redazioni antiche del Diat. Il III capitolo (pp. 67-82) ci permette di tirare le prime conclusioni: nell’antichità dovevano esistere almeno due redazioni / armonizzazioni del Diat., l’una conosciuta e usata da Giustino e l’altra propria di Taziano. Il IV capitolo (pp. 83-91) consiste nello studio del frammento greco di DuraEuropos. L’A. stabilisce la relazione fra questo frammento e le fonti antiche. Il V capitolo (pp. 93-125) è uno studio della pericope del battesimo di Gesù. In queste pagine l’A. tenta di ricostruire il testo del Diat. di Taziano e quello dell’armonizzazione di Pepys per terminare con l’analisi delle particolarità dell’armonizzazione conosciuta da Giustino. Questo capo vuol essere un esempio pratico di come si possa applicare la teoria dell’A. ad un testo evangelico. Le conclusioni sono ovvie. Al tempo di Giustino (e forse anche prima) doveva esistere una armonizzazione dei vangeli composta in greco conosciuta e citata da Giustino con il nome “Memorie degli apostoli”. Questa fonte - di cui non conosciamo l’autore - venne a conoscenza di Giustino a Roma, oppure fu da lui stesso portata a Roma, da dove si diffuse rapidamente in tutto l’occidente (ma fu conosciuta e usata anche in oriente). Verso il 175 Taziano rimaneggiò, completò e tradusse in siriaco la fonte citata da Giustino. Ne è scaturita l’opera che viene comunemente chiamata Diat. Anche questa fu tradotta in latino e passò in occidente assumendo caratteristiche ben definite: venne data la priorità al vangelo di Matteo, a differenza della versione orientale che privilegiava Luca e Giovanni, e nel V secolo il testo latino primitivo fu sostituito dal testo della Volgata. Le armonizzazioni medievali, infine, sono di origine complessa e dipendono dall’una o dall’altra tradizione. L’importanza di questo studio sta nel fatto che l’A. riesce a distinguere tradizioni differenti dei vangeli dalle quali dipenderebbero le varie edizioni del Diat. Per l’A. è dunque possibile ricostruire testi evangelici basandosi sulle
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citazioni degli autori antichi. Questo specifico tema verrà svolto dall’autore in un’altra opera di prossima pubblicazione. Il Boismard è semplice e chiaro nella sua esposizione. Pur trattandosi di un tema molto tecnico in alcune sue parti, tuttavia l’opera è molto scorrevole e si legge volentieri. Siamo riconoscenti all’A. che si è preoccupato di comporre il testo col suo computer pensando alla tasca di coloro che avrebbero dovuto comprare il libro. Il risultato giustifica la fatica e non possiamo non incoraggiare il P. Boismard a continuare su questa via. Raramente abbiamo trovato qualche piccola imperfezione come ad es. justin (al posto di Justin) a p. 125 (ultima riga del testo), oppure harmoni (invece di harmonie) a p. 157 (riga 9). Qualche problema c’è stato anche con le lettere finali del siriaco come ad es. a p. 55 riga 15; p. 120 riga 4; p. 138 riga 1; ma, tutto sommato, gli aspetti positivi redimono facilmente questi peccati veniali. M. Pazzini, ofm
Kuhn Peter, Bat Qol: die Offenbarungsstimme in der rabbinischen Literatur. Sammlung, Übersetzung und Kurzkommentierung der Texte (Eichstätter Materialien, Bd. 13: Abteilung Philosophie und Theologie, 5) Verlag Friedrich Pustet, Regensburg 1989, 110 pp., 16 × 24 cm Nella premessa l’A. ci informa che i primi lavori della presente raccolta di testi è iniziata nel 1963, quando si propose di ricercare le principali linee di pensiero sull’immagine che i rabbini si facevano di Dio. Questo interesse l’ha portato a redigere varie monografie, l’ultima delle quali è apparsa col titolo Offenbarungsstimmen im Antiken Judentum, Tübingen (Mohr/Siebeck), 1989, opera che in buona parte tratta di alcuni aspetti della bat qol nei rabbini. La raccolta comprende 116 testi, presi dalla letteratura rabbinica, nei quali ricorre il termine tecnico ebraico bat qol, che tradotto letteralmente significa “figlia di una voce”. L’espressione è volutamente vaga e serve ad esprimere la voce della rivelazione che, una volta terminata la profezia, permette che la rivelazione da livello trascendente scenda a quello terreno e umano. Lo stesso fenomeno appare anche nei targumim con l’espressione aramaica berat qala, ma l’A. distingue questo tipo di letteratura da quella rabbinica e solo nella più ampia monografia citata ne studia 11 unità testuali alle pp. 217-253. Nella letteratura rabbinica l’A. distingue il corpo legale (Mishna, Tosefta e i due Talmud), dal quale desume i testi 1-76; le opere midrashiche (in ordine di redazione: Midrashim tannaiti, espositivi e omiletici) che compaiono nei testi 77-110; infine alcuni midrashim posteriori al sec. VI, ma contenenti materiale tradizionale di molto precedente la redazione scritta (testi 111-116). Già nel secolo scorso il fenomeno della bat qol ha interessato studiosi sia giudei che cristiani. Sinora la raccolta più ricca era quella di P. Billerbeck,
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Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash, Bd. I, München 1926, ed. 1, 125-134. Inutile dire che la presente collezione è più esauriente, rispetta l’ordine di importanza delle fonti e facilita la comprensione dei singoli testi per mezzo di abbondanti note. Gli studiosi di letteratura del Giudaismo antico e del Nuovo Testamento trovano qui un sussidio che aiuta ad entrare in un mondo che non è puramente fenomeno letterario. Siamo certi che i lettori vorranno approfondirne la conoscenza sia utilizzando la monografia citata del Kuhn sia risalendo alle stesse fonti giudaiche, che devono sempre essere intese secondo una attenta lettura sincronica. G. Bissoli, ofm
Faostino da Toscolano, Itinerario di Terra Santa (Biblioteca del «Centro per il collegamento degli studi medievali e umanistici nell’Università di Perugia», 6), a cura di Walter Bianchini, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1992, 12+613 pp., 24 × 17 cm “Havendo ormai necessità il P. nostro Guardiano di aiuto per scrivere chiamò a sè da Nazaret per tal effetto il P[adre] fra Faostino di Toscolano sodetto, qual per la sua pratica, habilità et infatigabilità nello scrivere elesse per segretario di Terra Santa”. Così il noto cronista francescano della custodia di Terra Santa padre Francesco da Serino (Croniche ovvero Annali di Terra Santa, edizione a cura di T. Cavallon, tomo I, Biblioteca Bio-Bibliografica della Terra Santa e dell’Oriente Francescano 11, Quaracchi 1939, p. 44) introduce la figura dello scrittore dell’itinerario che presentiamo. Nell’ottenere questa carica non gli giovò solamente l’amicizia che lo legava al nuovo Guardiano e Custode di Terra Santa padre Andrea D’Arco, ma contarono in primo luogo le capacità personali del padre Faostino già ampiamente dimostrate nei suoi primi quattro anni di permanenza in Terra Santa. Questo incarico, insieme con quello di maestro del coro, fu sostenuto “intrepidamente e con soddisfazione comune” per gli altri sei continui anni, nei quali rimase al fianco del medesimo padre Custode: “nelli quali conveniva assiduità cottidiana, e nel scrivere, copiare, notare libri, cifre e lettere … fui sempre solo, e per la Dio gratia n’uscii honorevolmente, conforme al mio povero talento” (Itinerario 217: incarico confidatogli al suo terzo arrivo a Gerusalemme il 30 marzo 1637). Per quanto riguarda le lettere che partivano dalla segreteria di Terra Santa va sottolineato che si tratta spesso di corrispondenza non banale ma tenuta con personalità religiose e politiche al più alto livello: col papa, curia e principi cristiani. Faostino è conosciuto giustamente come lo scrittore (materiale) del voluminoso quaderno delle cronache del da Serino; ma anche padre Pietro Verniero da Montepiloso si era avvalso in precedenza del suo riconosciuto talento, come riferisce lo stesso Faostino “di aver ricevuto l’incarico che dittante il predetto padre Pietro, io in forma lo scrivessi, come feci, prin-
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cipiandolo li 3 febraro e conclusi li 27 luglio del medesimo anno [1636]”(Itinerario 196). E’ proprio a queste cronache gerosolimitane che assomigliano di più tante pagine dell’Itinerario del padre Faostino, quelle pagine almeno che riguardano direttamente le vicende dei conventi di Terra Santa e la spinosissima questione della proprietà dei santuari, scoppiata in quel tempo e nella quale Faostino stesso ebbe una parte non disprezzabile con compiti di responsabilità. Alcuni episodi sono a volte maggiormente sviluppati nelle Cronache o nell’Itinerario così che queste opere si completano a vicenda. E’ da notare che il da Serino si diffonde, in qualche caso, sui meriti e attività del nostro padre Faostino più di quanto egli stesso non faccia nel suo proprio Itinerario. Questo avviene, ad esempio, nella vicenda dei frati presi schiavi dai pirati nel 1638 o, in generale, trattando dei periodi di tempo nei quali il padre Guardiano era costretto a prendere la fuga da Gerusalemme per non poter resistere alla tirannia del bassà o governatore locale e la responsabilità di governo della famiglia francescana ricadeva sulle autorità minori (Itinerario 233 e 242). Nella descrizione dei luoghi santi così come in quella dei costumi orientali l’opera del padre Faostino da Toscolano è lontana dalla sistematicità erudita del Quaresmi o del Morone, come anche dall’analitica espositiva del Roger, né si fregia delle illustrazioni che contribuiscono al pregio del volume del medesimo Roger, dello Zuallardo o dell’Amico (citiamo qui alcuni dei contemporanei le cui opere furono a loro tempo date alle stampe). La lingua italiana è spesso aprossimativa, risentendo alquanto del dialetto nativo. Ma lo stile di Faostino è vivo, capace di dare in poche righe il quadro di una città o il succo di una vicenda, e si avvale costantemente della forma in prima persona nel riferire dei viaggi, pericoli passati, cose curiose viste e udite particolarmente nei suoi undici anni passati in oriente. In tutto questo l’autore si rivela narratore appassionato ed appassionante, facendosi alla fin fine leggere con più gusto di tutti gli autori più famosi citati sopra. Ci sono passi da segnalare come rare e piacevoli annotazioni di vita o di costume: il passaggio della dogana in Alessandria d’Egitto; la preparazione del “cauhè” (cioè del caffè - una delle primissime menzioni di questa bevanda); la parata dell’esercito del Sultano; la vita del “chan” (albergo pubblico turco); la straodinaria neve del 25 gennaio 1637; il pellegrinaggio dei musulmani alla Mecca… (Itinerario 22-24; 45; 125-134; 161; 210-211; 485-507). Altri passaggi sono notevoli per la loro drammaticità: la peste in Constantinopoli (provata anche nel proprio corpo per aver assistito un confratello malato); il coinvolgimento dei frati di Nazaret nella guerra tra i locali e gli abitanti di Sefforis; gli incontri per mare coi corsari; l’aspro scontro tra il pascia ed il cadi di Gerusalemme sul modo di trattare i francescani e la relazione di vari generi di pene capitali le più crudeli applicate in oriente “che, si tali si facessero da nostri, forsi non si esponerebbono tanti e tali a peccare” (Itinerario 115-116; 229; 234; 239-242; 255; passim).
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Leggiamo episodi tipo “Fioretti”: le sassaiole dei ragazzini al Getsemani; la pia morte di un pellegrino penitente; la corsa nei campi di fra Bernardino romano; le innumerevoli umiliazioni, carcerazioni, bastonature e minacce di morte ricevute, con tanto di scuse per i suoi aguzzini (ad es. i gabellieri ebrei, indiscreti ed esosi, diventano compatibili “perché molti gli hanno gabbati” e i tirannici governatori di Gerusalemme lo sono anch’essi “perché comprano… li loro offici e non sono stabili”); ma fanno parte di questo tipo di episodi anche i racconti con le prodezze personali dello stesso Faostino, dove è manifesto il suo personale coraggio e furbizia, doti che permettono all’ardito francescano di uscire alla meglio dalle situazioni più pericolose (Itinerario 159; 198; 199; passim ma in particolare 23 e 303). I capitoli dedicati alla visita dei luoghi santi sono un esemplare autentico degli appunti di viaggio di un pellegrino non affrettato o addirittura le tracce originali di una guida che ha compiuto più volte il delicato incarico di condurre i pellegrini (Itinerario 92, 444). Vivissima e piena di partecipazione è la descrizione dei luoghi e misteri venerati nella basilica del S. Sepolcro, particolarmente della deposizione della croce ed unzione di Cristo morto, nella cui descrizione traspare chiaramente la toccante teatralità della tradizionale paraliturgia francescana del Venerdì Santo (Itinerario 336; 342). Non ultimo dei pregi dell’opera di Faostino è quello di riferire fatti e notizie utili alla storia dei luoghi santi, della Custodia francescana e di altre entità religiose e politiche (Regno di Francia, Repubblica di Venezia, Cavalieri di Malta, lo stesso Impero Ottomano…), dati che richiedono naturalmente di essere valutati da uno specialista nel campo. L’Itinerario di padre Faostino è però anzitutto un documento autobiografico di primaria importanza e la sua pubblicazione pone nella meritata luce una figura prominente di francescano e di missionario; una fisionomia originale che alle caratteristiche comuni di un autentico figlio del suo tempo unisce l’entusiasmo e la voglia di vivere proprie del suo personale carattere e la perfetta letizia dei figli di Francesco. La pubblicazione del grosso tomo è stata curata con scrupolosità dallo studioso che l’ha edita e dotata di un’utile premessa (p. 1-52) nella quale vengono sintetizzate opportunamente le vicende biografiche dell’autore e offerte informazioni essenziali su alcune persone o fatti menzionati nell’Itinerario. Numerose illustrazioni arricchiscono il volume, prese da rare stampe o consistenti in carte geografiche (sfortunatamente non preparate ad hoc). A p. 1 impropriamente si parla di “scoperta” del manoscritto nella Biblioteca Comunale di Todi, mentre con la sua precisa collocazione viene già citato dall’editore del da Serino alla nota 4, p. 44 del tomo I (Biblioteca Bio-Bibliografica della Terra Santa e dell’Oriente Francescano 11). La bibliografia offerta alle pagine IXXI è alquanto disordinata e largamente incompleta non essendo menzionate nemmeno le più conosciute opere a stampa contemporanee dell’Itinerario e principalmente il Quaresmi (1626), una fonte dalla cui abbondanza attinsero tutti coloro che scrissero sulla Terra Santa. Il difetto si ripercuote naturalmente
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soprattutto nel paragrafo dedicato al “Pellegrinaggio di devozione nella tradizione francescana” (p. 34-52). Grazie alle informazioni raccolte nella premessa le note nel corpo del volume hanno potuto essere ridotte a semplici annotazioni di carattere testuale, ma il lettore si sentirà spesso lasciato del tutto solo a interpretare parole strane, a figurarsi luoghi sconosciuti, a cercare informazioni su tanti personaggi meno noti, a valutare dettati approssimativi ed informazioni incomplete o forse addirittura inesatte. Qualche nota di questo tipo non sarebbe stata fuori luogo. Un indice analitico sarebbe stato ugualmente un sussidio di grande aiuto, data la quantità, varietà, ripetizione e a volte il disordine dei temi trattati. Occorre però segnalare che il volume conta già complessivamente 625 pagine di buon formato! “Volendo concludere questo libro, scrive Faostino (Itinerario 508), mi è parso bene metterlo al retto e caritativo giudicio di chi lo leggerà, quale prego a compatir il rozzo stile tenuto in raccontar e descrivere le cose che ho narrate, havendo havuto più a cuore la verità e realtà del fatto che polizia e bellezza di parole”. E. Alliata, ofm
Arata Mantovani P., Introduzione all’archeologia palestinese. Dalla prima età del Ferro alla conquista di Alessandro Magno (1200 a.C. - 332 a.C.), Brescia 1992 Con piacere presentiamo questo agile vademecum dell’archeologia palestinese “biblica”. L’autrice raggiunge lo scopo per cui è stato preparato: informare e aggiornare il lettore non specialista sulle ricerche archeologiche in terra di Palestina riguardanti i periodi biblici della storia di Israele dal 1200 al 332 a.C. La regione limitata a nord al monte Carmelo è divisa in tre subzone: la regione costiera e la regione costiera meridionale (Filistea), la regione interna di Giudea e del Negev con un’appendice per la regione transgiordanica “glueckamente” intesa come Palestina orientale. Credo che anche il più pacifico dei membri dell’OLP reagirebbe leggendo che la Cisgiordania è lo Stato di Israele! A parte queste minuzie, l’autrice evita accuratamente gli scogli imposti dalla moderna esegesi storica dei testi biblici e si limita a presentare con chiarezza e vocabolario appropriato la cultura materiale delle differenti zone dividendo il lungo periodo in subfasi. La bibliografia un po’ più nutrita anche se riferita a opere di divulgazione non avrebbe nuociuto. M. Piccirillo, ofm
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Amit David - Hirschfeld Yizhar - Patrich Joseph, The Aqueducts of Ancient Palestine. Collected Essays, Yad Izhaq Ben-Zvi, Jerusalem 1989, 340 pp., 21,50 × cm (ebraico) Basetti-Sani Giulio, Maria e Gesù figlio di Maria nel Corano (“Linea”. Collana di studi cattolici), Editrice I. L. A. Palma, Palermo 1989, 223 pp., 15 × 21,50, cm Lit. 28.000 Berge Kåre, Die Zeit des Jahwisten. Ein Beitrag zur Datierung jahwistischer Vätertexte (Beihefte zur Zeitschrift für die alttestamentliche Wissenschaft, 186), Walter de Gruyter, Berlin - New York 1990, XI-329 pp. 16,50 × 23,50 cm, DM 148 Bellia Giuseppe, Elogio del frammento. Invito all’etica conversando con Bonhoeffer (Collana: teologia / saggi), Cittadella editrice, Assisi 1992, 256 pp., 13 × 20 cm, Lit. 25.000 Bianchini Walter (a cura di), Faostino da Toscolano. Itinerario di Terra Santa (Biblioteca del “Centro per il collegamento degli studi medievali e umanistici nell’università di Perugia”, 6), Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1992, XI-613 pp., ill., 17 × 24 cm Boismard Marie-Émile (coll. A. Lamouille), Le Diatessaron : de Tatien à Justin (Études bibliques, Nouvelle série n. 15), J. Gabalda et Cie, Éditeurs, Paris 1992, 171 pp., 2 pl. 16 × 24 cm, FF 156 Boorer Suzanne, The Promise of the Land as Oath. A Key to the Formation of the Pentateuch (Beihefte zur Zeitschrift für die altestamentliche Wissenschaft, 205), Walter De Gruyter & Co., Berlin - New York 1992, XV-470 pp., 17 × 24 cm, cloth., DM 184.00 Carbone Sandro, La comunità cristiana nel Vangelo di Matteo. Un sussidio per le letture della Domenica, Anno A, Edizioni San Lorenzo, Tascabili, Reggio Emilia 1992, 178 pp., 11 × 18 cm, Lit. 12.000. Carbone Sandro - Rizzi Giovanni, Le Scritture ai tempi di Gesù. Introduzione alla LXX e alle antiche versioni aramaiche (Testi e commenti - Sez. “La Parola
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e la sua tradizione”, 1), Edizioni Dehoniane, Bologna 1992, 154 pp., 17 × 24 cm, Lit. 18.000 Clifford Richard J. - Collins John J. (Eds), Creation in the Biblical Traditions (The Catholic Biblical Quarterly. Monograph Series, 24), Washington, DC 1992, vi-151, 15 × 22,50 cm Contreras Enrique - Peña Roberto, Introducción al estudio de los Padres. Período pre-niceno, Editorial Monasterio Trapense, Azul 1991, xxxi- 325 pp. 15,50 × 22,50 cm Egeria, Diario di viaggio. Introduzione, traduzione e note di Elena Giannarelli (Letture Cristiane del Primo Millennio, 13), Edizioni Paoline, Milano 1992, 12,50 × 20 cm, Lit. 30.000 Fanin Luciano, Come leggere “il Libro”. Lineamenti di Introduzione biblica (Strumenti di Scienze Religiose), Edizioni Messaggero, Padova 1992, 221 pp. 14 × 21 cm, Lit. 20.000 Franco Martínez César Augusto, Jesucristo, su persona y su obra, en la Carta a los Hebreos. Lengua y cristología en Heb 2,9-10; 5,1-10; 4,14 y 9,27-28 (Studia semitica Novi Testamenti, 1), Editorial Ciudad Nueva - Fundación San Justino, Madrid 1992, 423 pp., 16 × 23,50 cm Frediksen Paula, De Jésus aux Christs. Les origines des representations de Jésus dans le Nouveau Testament (Jésus depuis Jésus), Les Éditions du Cerf, Paris 1992, 349 pp., 13,50 × 21,50 cm, FF 165 Gal Zvi, Lower Galilee during the Iron Age.Translated by Marcia Reinse Josephy (American Schools of Oriental Research Dissertation Series, 8), Eisenbrauns, Winona Lake, Indiana 1992, IX-118 pp., folding map, 21.50 × 28 cm, US $ 20.00 Gelander Shamai, David and his God. Religious Ideas as Reflected in Biblical Historiography and Literature (Jerusalem Biblical Studies, 5), Simor Ltd, Jerusalem 1991, 206 pp, 13,50 × 21cm, US $ 24.00 Gonen Rivka, Burial Patterns and Cultural Diversity in Late Bronze Age Canaan (American Schools of Oriental Research Dissertation Series, 7), Eisenbrauns, Winona Lake, Indiana 1992, VI-168 pp., 21,50 × 28 cm, US $ 25.00 Goranson Stephen Craft, The Joseph of Tiberias episode in Epiphanius: Studies
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in Jewish and Christian relations, University Microfilms International Dissertation Information Service, Ann Arbor 1992, II-203 pp., 16,50 × 20 cm Grappe Christian, D’un Temple à l’autre. Pierre et l’Eglise primitive de Jérusalem (Etudes d’histoire et de philosophie religieuses, 71), Presses Universitaires de France, Paris 1992, 373 pp., 15,50 × 24 cm Kaye Alan S., Semitic Studies: in honor of Wolf Leslau on the occasion of his 85th birthday, I-II, Otto Harrassowitz, Wiesbaden 1991, LXVIII-1719 pp., 17 × 24 cm Luis de León, Cantar de los Cantares. Interpretaciones: literal, espiritual, profética. Texto bilingüe. Traducción, Introducción, Notas J. M. Becerra Hiraldo (Biblioteca “La Ciudad de Dios” I. Libros, 52), Ediciones Escurialenses, Real Monasterio de El Escorial 1992, XVIII - 14* - 454 pp., 17 × 24 cm Millard Alan, Archeologia e Bibbia. Edizione italiana a cura di G. Ravasi (Guida alla Bibbia, 8), Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1988, 192 pp., 19,50 × 24,50 cm Molinari Paul - Hennessy Anne, The Vocation and Mission of Joseph and Mary, Veritas Publication, Dublin 1992, 59 pp., 21×14 cm Naissance de la méthode critique. Colloque du centenaire de l’École biblique et archéologique française de Jérusalem (Patrimoines, christianisme), Les Éditions du Cerf, Paris 1992, 349 pp., 14,50 × 23,50 cm, FF 200 Naveh Joseph, On Sherd and Papyrus. Aramaic and Hebrew Inscriptions from the Second Temple, Mishnaic and Talmudic Periods, The Magnes Press, The Hebrew University of Jerusalem, Jerusalem 1992, 239 pp., 144 figs., 16 × 23 cm Nodet Etienne, Essai sur les origines du Judaïsme. De Josué aux Pharisiens, Les Éditions du Cerf, Paris 1992, 296 pp., 18,50 × 13,50 cm, FF 120 Pitta Antonio, Disposizione e messaggio della lettera ai Galati. Analisi retorica-letteraria (Analecta Biblica 131), Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1992, 270 pp., 16,50 × 24 cm, Lit. 30.000; US $ 26.00 Poppi Angelico, Sinossi dei quattro Vangeli. Greco-italiano. Testo greco dal Codice Vaticano (B, 03). Duplice e Triplice Tradizione in evidenza. Volume I: Testo, Edizioni Messaggero, Padova 1992, 638 pp., 16,50 × 23,50 cm, Lit. 55.000
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Rodríguez Díez José (ed.), Fr. Luisii Legionensis Opera VIII (segunda serie) Quaestiones Variae (“Biblioteca La Ciudad de Dios” I. Libros, 50), Ediciones Escurialenses, Real Monasterio de El Escorial 1992, L-282 pp., 16,50 × 24,00 cm Le Saint Prophète Élie d’après les Pères de l’Église. Textes présentés par les carmélites du Monastère Saint Élie Saint-Rémy-les-Montbard (Spiritualité orientale - Série Monachisme primitif, 53), Abbaye de Bellefontaine, Bégrolles-en-Mauges 1992, 700 pp., 15 × 21,50 cm, Hardcover Shereshevski Joseph, Byzantine Urban Settlements in the Negev Desert (BeerSheva. Studies by The Department of Bible and Ancient Near East, 5), Ben Gurion University of the Negev Press, Beer-Sheva 1991, xvi-277 pp., 70 pls, 7 sheets, 17 × 24 cm Stowasser Martin, Johannes der Täufer im Vierten Evangelium. Eine Untersuchung zu seiner Bedeutung für die johanneische Gemeinde (Österreichische Biblische Studien Nr. 12), Verlag Österreichisches Katholisches Bibelwerk, Klosterneuburg1992, 271 pp., 15 × 21 cm Willaime Jean-Paul, La précarité protestante. Sociologie du protestantisme contemporain (Histoire et Société, 25), Labor et Fides, Genève 1992, 215 pp., 15 × 22,50 cm Viñas Román Teófilo (Coord.), Fray Luis de León IV Centenario (1591-1991). Congreso Interdisciplinar Madrid, 16-19 de Octubre 1991. Actas (Biblioteca “Ciudad de Dios”. Libros, 51), Ediciones Escurialenses, Real Monasterio de El Escorial, Madrid 1992, 450 pp., 17 × 24 cm