NARRATORI ITALIANI
L’autore assicura formalmente che i nomi dei personaggi di questa storia non sono quelli di persone reali che li abbiano anche solo in parte ispirati. Poiché è possibile – e in alcuni casi probabile – che esistano persone reali con lo stesso nome e alcune caratteristiche dei personaggi di questa storia, l’autore assicura che si tratta di una pura coincidenza: non è di loro che si racconta qui. © 2015 Bompiani / RCS Libri S.P.A. Via Angelo Rizzoli 8 – 20132 Milano ISBN 978-88-452-7915-7 Prima edizione Bompiani maggio 2015
alle mie figlie, Olga e Nora, e alla mia terra
“La parola Heimat non descrive soltanto il luogo della propria infanzia, ma anche la particolare sensazione che colleghiamo alle nostre origini, la sicurezza e la felicità correlate al senso di identificazione, e nello stesso tempo, la percezione di aver perso tale appartenenza.” EDGAR R EITZ
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Un fischio si avvitò tra la folla, rovistando tra le anime pagane di Cividale strette sul sagrato del duomo, come un colpo sparato tra un serpente di respiri. Un istante dopo centinaia di altri fischi raschiavano l’aria, mentre la gente rovesciava applausi disordinati dai balconi. Anche Irma Saldutti si era infilata due dita in bocca e aveva dato fiato a un suono che sapeva di bestemmia. Rompeva la folla nera con i suoi jeans e maglione chiari, spalmati sulla corporatura da acrobata di trapezio, con le cosce e le mani un po’ più grandi del giusto. I vestiti da donna le cadevano addosso come se avessero sbagliato corpo, appoggiati per disdetta su muscoli sgraziati, capaci però di ingrossarsi di una forza speciale. E invece così, mascherata da scugnizzo, le ciocche cotte dal sole sulle labbra malate di pianto, acquistava una femminilità ossimorica, una sensualità volpina. Irma era partita la mattina precedente da Bologna, saltando da un regionale all’altro, per raggiungere Cividale, dove era nata ventitré anni prima e da cui si era affrancata appena il liceo l’aveva maturata con un calcio. Tornava per lanciare una manciata di terra sul legno che custodiva il corpo di Alfredo Bonutti, amico che la morte aveva corroso in un giorno soltanto, poco prima di spegnere quaranta candeline. Lungo come un meridiano, segaligno, rovente di energia, Alfredo aveva bighel9
lonato ai bordi dell’adolescenza stiracchiandola oltre misura, tanto che, quando si era messo a fare l’avvocato, la gente aveva pensato che stesse recitando. “All’improvviso è caduto”, “Non abbiamo potuto fare niente”, “Non ci sono stati sintomi”, si era sentita dire Irma, mentre teneva la cornetta in una mano e con l’altra schiacciava feroce le ultime formiche autunnali, ubriacate dal caldo dei termosifoni. Poi si era alzata e aveva trascinato Dio in un turpiloquio orecchiato fin da piccola nelle strade delle osterie. Guardandosi allo specchio aveva maledetto il naso senza nobiltà e gli occhi di fango che avevano saltellato ai margini dell’esistenza di Alfredo, aspettando sempre dietro l’uscio. Aveva sfilato lo specchio dal chiodo e l’aveva scagliato a terra. Poi con un triangolo tagliente, si era incisa la mano sinistra abbastanza a fondo perché rimanesse una cicatrice, che partiva dal palmo per passare tra il medio e l’anulare, come a disegnare l’anello che non aveva mai ricevuto. La carne si era aperta in due lembi bianchissimi: “Così ti ricorderai,” aveva diffidato se stessa, “che cos’è il rimpianto.” E ora sul selciato di Cividale usava le dita buone, rimaste fuori dalla fasciatura, per ingrassare la battaglia di fischi, preghiera di un popolo barbaro, estremo saluto ad Alfredo, che i paesani avevano amato ciascuno a modo suo. Gli invidiosi, perché nulla avevano dovuto temere da quel ragazzo docile, eternamente fuori corso, cresciuto senza il forcone della fame e del riscatto. I sani, per l’incedere malinconico del suo sguardo privo di male; per la sua risata rara, l’ironia che ogni tanto esplodeva da una sacca interna, tenuta sottovuoto. Una creatura leggera che rimaneva incastrata nell’anima, come era successo a Irma, dopo averne annusato la coscienza senza ombre. Irma da sempre viaggiava alla periferia della socialità, come un’erba solitaria, stordita, sul ciglio della strada. Eppure quel giorno era in armonia con tutti gli altri cividalesi, genìa figlia del silenzio, che esternava la sofferenza ancestrale, sempre sottoco10
perta, fischiando a una bara appena benedetta in chiesa. Pastori di una terra che aveva conficcato dentro una radice becera impedendo di raffinare un sentimento verso Dio; lo spirito era affondato neghittosamente nelle colline, nei boschi di quei lembi che nessuno avrebbe voluto possedere all’infuori di chi vi cresceva in un torpore sonnambolico. Con quei venti a sferza di ghiaccio, liberi di sbattere sulle montagne che guardavano all’umido Est, fine del mondo civile, regno del diavolo, come dicevano i vecchi. Alfredo da morto aveva compiuto il miracolo di spingere davanti all’acquasantiera anche i più restii. Avevano mugolato a mascelle serrate i Pater e gli Ave, in pochissimi avevano cacciato la lingua davanti all’ostia consacrata. Forse per via di quei due arcipreti, fuggiti uno in fila all’altro con l’elemosina e la perpetua. O forse perché nulla si poteva di fronte al panteismo naturalistico, alla signoria delle montagne, che spiegavano meglio delle prediche le mani arrossate e le aspirazioni rincagnate dei friulani. Più di un’invocazione all’Onnipotente poteva la comunione con i campi gerbidi, le salite grigie sulla roccia, la morsa gelata del fiume. Fischiava perfino la vedova di Alfredo, Maria Teresa, ma il suo sembrava più un richiamo per spiriti, per capire se quello del marito fosse ancora intorno. Lacerata da quella visione, agganciata da un senso di tenerezza, Irma si buttò tra la folla per tentare di abbracciarla. Sgusciò in mezzo a stazze di uomini imponenti come guerrieri, scavalcò ragazzette che piangevano chissà quali altri mali dell’età, aggirò bambini che ridevano cimentandosi in sibili acerbi, sfiorò donne che scongiuravano la morte dei propri figli attraverso quella di Alfredo: “Se ha preso lui non guarderà i nostri.” Ma arrivò a un cordone invalicabile che fermava ogni flusso, un’infilata di vecchiette in ossuta difesa del balcone sul dolore altrui, conquistato a suon di spallate. Erano le comari del “Trio della Curva”, famoso terzetto che si radunava tutti i pomeriggi al Caffè della Picca. 11
Jole, la più alta del gruppo, che fungeva da testuggine e serrava i ranghi, piazzò una gomitata tra le costole di Irma appena avvertì una pressione indebita. Irma fu pizzicata da una punta di dolore soprattutto per la primitività del gesto che bucava la larvale solidarietà in cui si bagnavano le timide ossa della piazza. Sentì le ciglia inumidirsi di tristezza e cercò, tra il baluginare degli orecchini ai lobi delle vecchie, lo sguardo confuso dell’unico figlio di Alfredo e Maria Teresa, Giovanni. Secco come l’estate nelle isole pietrose, aveva gli occhi grandi della madre, ciliegie liquorose e vispe, ma bordati della malinconia paterna. Irma la mattina era giunta all’obitorio nello stesso istante in cui Giovanni si accomiatava dal padre, senza poter lenire la prima scudisciata del destino a una creaturina alta nemmeno un metro. Spinto dolcemente dalle mani di Maria Teresa, Giovanni aveva allargato uno stupore incredulo sul volto di cera di Alfredo. Irma sapeva che in quel corpicino si stavano scavando gallerie oscure, dove avrebbe lasciato la sua infanzia come la muta di un serpente. Quando i fischi tacquero, il carro funebre si mosse e si levò una voce senile, alta, di testa, ma non ineducata al canto. Si spendeva in una nenia sconsolata: Povero Alfredo Bonutti, Che amavano tutti, È morto di colpo, Trascinato nel solco, Forse dalle malefatte Del notaio Delle Fratte. Una spina si conficcò nella piazza.
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“Non c’era traccia di alcol nel sangue di Alfredo Bonutti.” Biascicava, seduto nella veranda del Caffè della Picca, Nerino, vecchio barbuto, un occhio spento dalla nascita e quello buono appannato dal vino. Con l’animo bruciato da una medusa, lo sguardo allagato, Nerino proclamava quel bollettino medico, passato di bocca in bocca, a una folla di bicchierini vuoti e a un’ascoltatrice casuale, Irma. Coperta da una cerata gialla adatta per un naufragio, attendeva ormai da mezz’ora Giuliana, l’amica storica, fuori dal locale con l’ansia di un insetto imprigionato tra i vetri. Le lacrime per Alfredo erano già state sepolte e la catena della maldicenza aveva addirittura già toccato i gangli spenti di Cividale. Punta dal tormento, entrò nel bar e si mise in coda per pagare. “La mattina Alfredo è arrivato qui con un pallore strano… Mi ha detto: ‘Ines mi sembra di svenire,’ e io: ‘Fatti un caffè, Alfredo…’” Una folla attorniava la cassiera, che adombrava la sua nuova carica tribunizia con una punta di sussiego. “Ma a me sembrava piuttosto alterato,” aggiunse con gli occhi di chi guarda più lontano di quello che dice. Irma rastrellò con irritazione gli spiccioli, strappando di mano a Ines lo scontrino. Si spostò verso 13
il bancone, preda di un umore spettrale, simile a quello che incubava Cividale, risucchiata in una mestizia da Controriforma, complici le mura ampie di pietra vecchia, tirate a lucido alla maniera perfezionista che i friulani hanno di tenere le proprie cose. Intanto il vento, inciampando sugli stendardi e gli stemmi araldici per la festa del patrono, si mangiava solitario vie e piazze. A novembre il Friuli, inghiottito da piogge incessanti, espandeva la sua malinconia ovunque, strangolando perfino Cividale, macchia carsica medievale, austera e vaga come le femmine di gran razza. Cividale, addossata sul confine, rimaneva pressoché sconosciuta al resto dell’Italia, in cui il Friuli s’incastonava come una perla orientale. Il nome della cittadina era perlopiù taciuto sulle riviste turistiche – un trafiletto, un grassetto al massimo – come si evita di pronunciare il cognome di uno iettatore. “Oh, chi abbiamo qui? La bella Sinistra!” Irma si trovò ad attendere la sua comanda spalla contro spalla con il notaio Giorgio Delle Fratte, intabarrato in una mantella nera, lunga fino ai piedi, una gabbana sotto cui cercava di nascondere un corpo gonfiato di cibo dalle premure materne. Quell’esorcismo, fatto di burro e farina per allontanare la morte che aveva ghiacciato in una notte il fratello maggiore, lo aveva dilatato, reso inabile a calciare un pallone o ad accennare una corsa; ridotto a un cane di pietra, che rimbalzava sulla punta della lingua degli altri bambini. Si era fatto però di cemento tra le maglie della scuola, per schiacciare con lo studio quelli che non era riuscito a scheggiare con un canestro. In poco era diventato notaio con uno scacco matto al capitano della squadra di calcio che quel posto lo avrebbe dovuto ereditare dal padre, se mai si fosse laureato. Delle Fratte aveva negli anni acquistato un ghigno sonnolento, che celava un animale rabbioso sotto l’ingannevole pelliccia morbida di orso letargico. Gli occhi piccoli erano recintati da un arco sopraccigliare unico, una muraglia da cui non 14