TAGLIAGOLE
© 2015 Bompiani / RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 – 20132 Milano ISBN 978-88-452-8005-4 Prima edizione Bompiani giugno 2015
Hate the Living, love the dead Smashing embryos, cut off heads The Misfits And I long to be by my Savior’s side, Just over in the Gloryland The Broken Circle Breakdown
JIHAD CORPORATION
Un uomo colto, elegante. Un manager in completo scuro e cravatta, accomodato dietro una scrivania. Gli occhi, fissi sulle quotazioni di borsa, emergono da un cappuccio nero, che copre tutto il resto del viso. Viene da immaginarselo così, il califfo dello Stato islamico. Come un grande imprenditore del terrore, capace di dare vita alla Islam Inc. immaginata da William Burroughs nel Pasto nudo. Un personaggio che fonde l’ultramodernità liquida della finanza alla ferocia antica del jihad. Due forme di violenza apparentemente opposte ma complementari. Il cuore nero dell’Occidente al servizio dell’islam radicale. A uno sguardo superficiale, il califfo potrebbe ricordare il personaggio di Bane, anta-
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gonista di Batman nel film Il Cavaliere Oscuro – Il ritorno di Christopher Nolan. Un feroce capopopolo mascherato, che inneggia alla rivoluzione e scioglie come cani rabbiosi per le vie della metropoli Gotham City i suoi uomini, una banda variegata che appare come un miscuglio di jihadisti e black bloc. Bane, per prima cosa, attacca la borsa di Gotham. Si pone come un radicale anticapitalista, e così fanno anche il califfo e i suoi uomini. Nei loro testi di propaganda contestano la finanza internazionale, si presentano come alternativi al sistema capitalista. In realtà, proprio come Bane, sono quanto di più funzionale al sistema possa esistere. Non sono l’alternativa radicale: sono una versione ancora più spietata del sistema, il jihad-capitalismo. Lo Stato islamico è uno specchio oscuro dell’Occidente. Lo aveva capito molto bene l’intellettualle francese Philippe Muray, purtroppo poco conosciuto in Italia. Nel 2002 pubblica un libro intitolato Chers djihadistes (Cari jihadisti), di cui Francesco Forlani ha tradotto alcuni brani significativi, pubblican-
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doli sul sito Nazione Indiana. Rivolgendosi direttamente agli estremisti, Muray scrive: “Voi sopravvalutate alla grande la posta in gioco della battaglia in cui vi siete buttati a capofitto. Apparite come le prime vittime della nostra propaganda. Credete di mettere sotto attacco una civiltà e le sue tendenze profonde, secolarizzanti, seducenti, desacralizzanti, oscenizzanti e mercatizzanti. Vi sbagliate di mulino a vento. Non c’è nessuna civiltà. (…) Prendete le nostre lucciole per lanterne. Vi precipitate contro specchi per allodole e manifesti che noi stessi abbiamo costruito a nostro uso interno, e vi riponete quella energia inconsapevole da cui siete posseduti quando vi abbattete sulle nostre torri al comando di aerei imbottiti di kerosene. (…) Le vostre risposte non faranno altro che nutrire la nostra determinazione. La vostra violenza, per quanto sempre più folle e omicida, non smetterà di rafforzarci legandovi dialetticamente, e ogni volta più strettamente, a noi”. Muray ha compreso perfettamente la natura fasulla di questo terrorismo, la falsa al-
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terità radicale che rappresenta. “Nel nostro altro mondo senza l’Altro”, scrive rivolto ai combattenti del jihad, “potrete essere per qualche tempo quest’altro posticcio che, in ogni caso, e con diverse vesti, ci sarà sempre necessario. Vi siete voluti scontrare con noi. Avete voluto entrare in gioco, nel nostro gioco. E ora bisognerà giocarlo questo gioco, e giocare a questo soltanto, e giocarlo fino in fondo, anche se vi ostinate a colorarlo con riferimenti pittoreschi al califfato, alla umma, agli antichi splendori di Granada, all’età dell’oro di Cordova e tante altre turqueries che vi danno ancora nella vostra lotta l’illusione d’una sostanza, di un contenuto, di un’autonomia, di un’origine e di uno scopo. Eppure il vero segreto è che ciò contro cui ve la prendete è senza contenuto. E se ci tenete a rimanere all’altezza della situazione senza precedenti che avete creato, vi toccherà imitarci. Da questo momento, quindi, il vostro orizzonte assegnato è l’assenza di significato.” Il primo aspetto dello Stato islamico che richiama il nostro mondo è l’affinità con un
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certo capitalismo. Gli uomini in nero si sono imposti sul mercato del terrore come una corporation, come capitalisti particolarmente aggressivi decisi a schiacciare la concorrenza: sono squali e i coltelli da tagliagole sono i loro denti affilati. Lo stesso Abu Bakr al-Baghdadi appare come una sorta di venture capitalist. È un intellettuale, con una solida preparazione dottrinaria alle spalle. Ha imparato il mestiere in una grande azienda, la migliore del settore, a suo tempo, cioè al-Qaeda. Poi si è messo in proprio, ingrandendosi sempre di più. Adesso, l’Is è in piena espansione. Assume giovani, offrendo un’ampia gamma di posizioni lavorative (pare lo facesse anche al-Qaeda: nel covo di Bin Laden, dicono fonti americane, sarebbero stati trovati “moduli di assunzione per terroristi” mutuati da quelli delle grandi multinazionali). C’è la manodopera della guerra santa, reclutata in Medio Oriente e nelle zone d’Occidente in cui domina il disagio. Ma ci sono anche personalità di alto profilo, con una formazione in prestigiosi atenei americani ed europei.
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L’Is fa pubblicità. Ha uno straordinario ufficio comunicazione. Utilizza i social network, internet, è presente su tutti i media. I guerriglieri per proporsi al mondo utilizzano i mezzi di qualunque start up. Rimproverano agli americani la vigliaccheria sotto forma di drone killer, a cui loro opporrebbero la maschia lotta corpo a corpo col coltello. In verità, si limitano a massacrare civili inermi, si eccitano sacrificando vittime indifese. Poi montano il video come un reality di Real Time e spediscono il tutto a televisioni e siti web. Va riconosciuto che l’Is ha avuto successo. È stato capace di ottenere finanziamenti da mezzo mondo, ha allargato i confini del suo dominio: quando è balzato all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, con l’esecuzione di James Foley, aveva già eliminato gran parte dei competitor nell’area. E, presentandosi come leader globale nell’ambito del jihad, ha invaso con prepotenza anche il mercato americano ed europeo, suscitando l’ira (e la preoccupazione) dei concorrenti, che si sono trovati tutt’a un tratto surclassa-
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ti. Per rimanere concentrati sull’Occidente, si potrebbe dire che il califfo è lo Steve Jobs dell’islamismo. Di nero non ha soltanto il dolcevita, ma l’impatto sull’immaginario è stato altrettanto forte. Il Califfato è la Apple dell’omicidio. Fino al 2014, era al-Qaeda ad attirare tutta l’attenzione. Ma l’Is ha fatto un grande balzo in avanti, dopo la morte di Bin Laden. Ha scacciato al-Zawahiri e i suoi dalle menti degli occidentali, ed è divenuto il nuovo cavallo vincente. La sua comparsa sulla scena ci ha dimostrato l’esistenza di una borsa del jihad, ovvero il luogo in cui si affrontano le Spa del terrore, le multinazionali della macelleria e in cui le quotazioni salgono e scendono in base al numero di morti ammazzati. Ecco perché è sbagliato credere che la guerra degli estremisti musulmani sia contro l’Occidente e il suo modello di civiltà: perché il modo in cui agiscono gli sgozzatori dell’Is, la stessa al-Qaeda e gli altri vari gruppi sparsi nell’orbe terracqueo è una brutta copia del peggio del capitalismo, uno
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