NARRATORI ITALIANI
Copyright © 2016 by Matteo Cellini Per accordo di Thésis Contents Srl, Firenze-Milano © 2016 Bompiani / RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-452-8113-6 Prima edizione Bompiani marzo 2016
Per lo zio Peppe
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Gordon Copperny Jr corre; ha il casco di Buzz Aldrin incastrato tra il braccio e il fianco, come un cavaliere. E il pigiama a pallini blu, come un ragazzino. Corre per le scale. Il casco ha tutta la superficie a crepe, dentro. Quando è passato davanti alla cucina, la madre si è affacciata, gli ha detto di fermarsi. Il viso di Gordon ha tutta la superficie a crepe, come se avesse pianto. Gordon non si è fermato, anche se la mamma non c’entra. Ha una pala da giardiniere in mano. Come un cavaliere che non avesse trovato di meglio. Dentro il casco non ha messo la testa, ma Moloch, il pesce che avrebbe dovuto essere rosso. Moloch era una lasca. Suo padre è l’assassino. Ora è finita. Gordon chiude la porta della sua camera e come nei film ci incastra la sedia, perché non gli hanno mai permesso di avere una chiave. Rimette l’acquario sul supporto fatto con i bastoncini dei ghiaccioli. Lascia cadere la pala e si infila sotto il letto; tira fuori una cassetta nera di plastica per la frutta. È piena di fogli identici, piccoli e bianchi. Sono allineati sul lato lungo del rettangolo, iniziano dalla sponda sinistra e avanzano come la linea che appare sullo schermo quando si installa un gioco al computer. Ma dall’altra parte non ci sono arrivati ancora. E comunque non è importante. Il limite è il segno fissato con lo scotch rosso lungo il bordo. Ed è stato appena superato. Ora è davvero finita. 7
Gordon ce l’ha messa tutta, per tutta l’estate. Due anni prima suo padre ha smesso di volergli bene. La mamma gli aveva detto che non era vero, suo padre lo stesso, ma Gordon l’aveva capito che non gliene voleva più. Era sempre lui, ma era come una lampadina accesa che non produce più calore. Perché fosse diventato così freddo, Gordon non lo sapeva. Che non gli volesse più bene comunque non era uno sbaglio, perché non c’era scritto da nessuna parte che dovesse volergliene per forza, però quando lui lo abbracciava forte forte non poteva rispondere solo con un sorriso, e quando prendeva un voto altissimo in componimento doveva dirgli bravo, non rimanersene zitto, senza neanche alzare gli occhi. Questi erano sbagli. Questi erano gli sbagli scritti sui cartoncini da disegno che riempivano la cassetta per la frutta. Con loro, i desideri esaudibili che non aveva esaudito: piccoli acquisti, viaggi e permessi non accordati, o concessi troppo tardi. Un pesce rosso. Sette curve di più tornando a casa. Il parcheggio facile, solo quindici minuti in tutto. La felicità del proprio figlio a $ 4,99. Un’occasione. Sprecata. Ogni sera. Gordon avrebbe rinunciato anche questa volta, spegnendosi addosso i desideri, oppure avrebbe fatto tutto da sé, ma l’idea di andarci da solo, al negozio di animali, se l’era data a gambe levate senza nemmeno i pantaloni, tanto era irrealizzabile. Il negozio era lontano poco meno di quattro chilometri, con sette attraversamenti pedonali, di cui soltanto cinque con il semaforo. Per molto meno sua madre aveva opposto divieti assoluti. Ma Gordon non poteva rinunciarvi. Il casco di Buzz Aldrin ritrovato in soffitta l’aveva conquistato come fosse lui stesso la luna; una boccia enorme di plastica, opaca, sporca e con due crepe biforcute e sgocciolanti; un lavoro enorme di ripulitura, le ferite chiuse con la colla, il piedistallo costruito con quarantadue bastoncini di ghiaccioli 8
(molti dei quali non li aveva neppure mangiati). Forse un pochino storto. Ma un capolavoro. Concluso coi sassi più belli del giardino, cercati sotto terra e, come quelli lunari, visti per la prima volta da un occhio umano. La richiesta ufficiale per il pesce rosso l’aveva infilata sotto la porta della camera grande, protocollandola come Moloch #1. Insieme, ne aveva messa una copia nella cassetta nera per la frutta, tra il letto e il muro. Quando il pesce fosse arrivato, avrebbe strappato il foglio. In caso contrario sarebbe rimasto, aggiunto a tutti gli altri, un altro passo verso la condanna definitiva dello scotch rosso. Arrivò una comune lasca di fiume; ma Gordon strappò il foglio ugualmente. Scoprì il giorno dopo che suo padre era un assassino; e che l’aveva reso complice di un assassinio. In camera, con il pigiama a pallini blu, l’acquario vuoto e la pala sul pavimento circondata di briciole marroni, Gordon fissa la cassetta sul letto: ecco l’ultimo sbaglio; ecco la condanna per suo padre. Ma non è adesso che la situazione precipita. La situazione precipita subito dopo, quando Gordon comprende che la condanna definitiva è per questo ultimo sbaglio più tutto il resto. Più. Tutto. Il resto. Nella stizza, nella rabbia, nel dolore, Gordon ha confuso la goccia che fa traboccare il vaso con tutto il contenuto del vaso. *** Gordon non ha un’ombra sola. Ne ha due. Solo che una delle due, dove non c’è il sole o non ci sono lampadine accese, sparisce. L’altra, invece, c’è sempre. L’altra è sua madre. Quan9
do, per forza di cose, non può esserci fisicamente – a scuola, in gita o a casa di qualche amico –, la sostituiscono un elenco lunghissimo di raccomandazioni e un kit sistemato in una tasca dei pantaloni di Gordon, all’altezza della coscia. Il kit è una vera e propria opera di ingegneria bellica: una scatola vuota di cotton fioc riempita come nemmeno il campione mondiale di Tetris riuscirebbe con due salbutamolo spray, pastiglie di prednisone e di budesonide, una garza, dei cerotti di otto misure e la piccola pomata per l’herpes, di cui Gordon non ha mai sofferto, ma che nella sua testa di bambino ha messo un senso di ineluttabilità tale da aspettarsela ogni mattino allo specchio, prima dell’acne e della peluria sopra il labbro. Gordon, da quando è nato, ha sempre visto la mamma davanti ai suoi occhi; talmente vicino da occupare metà del suo orizzonte, come una benda da pirata che infila in testa la mattina e toglie la sera, quando va a dormire. Però non è proprio sicuro che non se la tenga addosso anche mentre dorme, perché se ha capito che dopo la buonanotte la mamma va nella camera vicino, a letto con suo padre, gli viene spontaneo pensare il contrario: con tutti e due gli occhi chiusi, come la luna quando il cielo è coperto di nuvole, la sente lì, accanto al letto, immobile come il tappeto, il comodino, la sveglia e l’abat-jour. La madre è sempre lì, a meno di un passo da lui, e sa che tutta la sua vita, così come fa la luna con la terra, ruota attorno alla sua. Non riuscirebbe a immaginare un’orbita diversa per lei, nemmeno un pochino spostata: le stesse azioni, le stesse precauzioni, le stesse parole ripetute ogni giorno. Come se lui fosse un orologio e lei, dopo essere stata per nove mesi la scatola sigillata e piena di plastica spugnosa che lo ha protetto, fosse poi diventata, una volta aperta la scatola, la pellicola che si mette sopra il quadrante perché non si graffi o peggio si rompa. E Gordon non ci crederebbe se sapesse che fino a poco tempo prima della sua nascita la madre, Angela, desiderava diventare 10
sì una mamma e una moglie come poi era diventata, ma una mamma diversa da quello che era e la moglie di un uomo che non era Lowell, suo padre. Lo aveva sempre desiderato tantissimo; distesa nel letto di camera sua, nella casa dove abitava con il padre, Angela fantasticava con così tanta intensità che sentiva il proprio corpo sollevarsi leggerissimo e crudele, scendere rapido dal letto e correre: attraverso la finestra e poi l’aria, verso l’alto, fino alle nuvole e tra le nuvole, dove, fermo sull’ingresso di una casetta bianca a due piani in legno di noce, col vialetto curato e una Dodge St. Regis beige e marrone parcheggiata davanti, avrebbe dovuto attenderla Jeremy, con una fede nuziale al dito brillante come un faro. Invece, giù in basso, Jeremy suonava timidamente il campanello, sorrideva piano e la baciava sulla guancia, con un riguardo tale che poteva essere stato anche il vento. Arrossiva mentre le teneva aperto lo sportello di una Ford Fairlane in disgrazia, a un punto tale di disfacimento che un qualsiasi carrozziere avrebbe acconsentito all’immediata rottamazione. Jeremy era candido e pulito, e quando sedeva alla guida la Fairlane riconquistava le gale e il lustro delle origini, come anche i suoi abiti flosci e frusti sui gomiti; era onesto: il lavoro interinale all’università, le tre ore mattutine da commesso alla libreria Billy Budd, le lezioni private di letteratura latina non gli permettevano ancora di sposarla. Non chiedeva tempo, sapeva bene che Angela desiderava una casa, una famiglia, una sicurezza economica; lui semplicemente c’era, con le sue mani troppo rosee, troppo delicate, e ben aperte, pronte a offrirle tutto quello che aveva. Angela si sentiva amata. Jeremy le recitava poesie incomprensibili, le faceva complimenti che lei non riusciva a capire. Lasciava fiori dovunque. Era uno spreco di gesti, di frasi, 11
di attenzioni. Sul sedile, dove facevano l’amore, c’erano libri e dispense; nel suo portafogli le monete bastavano per tutti i jukebox, Angela danzava e ricadeva esausta sulla poltroncina accanto a lui. Sospirava felice, lo guardava fumare e resisteva al desiderio di appoggiarsi dolcemente alla sua spalla, perché sapeva che avrebbe chiuso gli occhi e visto la loro vita come un rullino fotografico incautamente esposto alla luce, in una sequenza di rettangoli neri. Tornata a casa, dalla sala il padre l’accoglieva sempre con le stesse parole: “Ancora con quel buono a nulla, Angelina?” Lei correva per le scale fino in camera, si stendeva sul letto e fissava il soffitto dove immaginava un foglio quadrettato; si metteva a fare calcoli. Per la colonna col suo nome era semplice, fin troppo: lavorava da sette anni alla Copperny Attaccapanni, dove ogni giorno avvitava, con quattro decise rotazioni del polso, centinaia di ganci di alluminio ai corpi legnosi; ammonticchiava in banca tre quarti dello stipendio ed era pronta a fare la sua parte nell’acquisto di una casa; era prontissima pure a mettere al mondo dei figli, ed era già tardi, anche se il suo proposito era di non averne più di due (le era successo di rinunciare segretamente ai contraccettivi, perché, fosse nato un bimbo dentro di lei, forse Jeremy avrebbe trovato le forze per sposarla, anche se non sapeva dove). Metteva il segno meno davanti al proprio viso schiacciato e alla gamba sinistra, di pochi millimetri più corta dell’altra; sottraeva ancora una piccola quantità per qualcosa di indefinibile che sapeva dover togliere: aveva la pelle sbiadita, infatti, era sciatta nel modo di vestire, antica, e quando passava non faceva girare nessuno. Sul soffitto quadrettato poteva definire tutto questo come paura di rimanere sola, di essere abbandonata sullo scaffale delle cose brutte; eppure Jeremy trovava sempre modi nuovi e parole diverse per esaltare la sua bellezza, ed era così dolce, premuroso, e la faceva stare bene, come una princi12