RASSEGNA STAMPA di lunedì 16 febbraio 2015
SOMMARIO “Il cuore di Cristo manifesta la compassione paterna di Dio per quell’uomo, avvicinandosi a lui e toccandolo – ha detto ieri mattina Papa Francesco all’Angelus commentando il Vangelo domenicale -. E questo particolare è molto importante. Gesù «tese la mano, lo toccò … e subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato». La misericordia di Dio supera ogni barriera e la mano di Gesù tocca il lebbroso. Egli non si pone a distanza di sicurezza e non agisce per delega, ma si espone direttamente al contagio del nostro male; e così proprio il nostro male diventa il luogo del contatto: Lui, Gesù, prende da noi la nostra umanità malata e noi prendiamo da Lui la sua umanità sana e risanante. Questo avviene ogni volta che riceviamo con fede un Sacramento: il Signore Gesù ci “tocca” e ci dona la sua grazia. In questo caso pensiamo specialmente al Sacramento della Riconciliazione, che ci guarisce dalla lebbra del peccato. Ancora una volta il Vangelo ci mostra che cosa fa Dio di fronte al nostro male: Dio non viene a “tenere una lezione” sul dolore; non viene neanche ad eliminare dal mondo la sofferenza e la morte; viene piuttosto a prendere su di sé il peso della nostra condizione umana, a portarla fino in fondo, per liberarci in modo radicale e definitivo. Così Cristo combatte i mali e le sofferenze del mondo: facendosene carico e vincendoli con la forza della misericordia di Dio. A noi, oggi, il Vangelo della guarigione del lebbroso dice che, se vogliamo essere veri discepoli di Gesù, siamo chiamati a diventare, uniti a Lui, strumenti del suo amore misericordioso, superando ogni tipo di emarginazione. Per essere “imitatori di Cristo” di fronte a un povero o a un malato, non dobbiamo avere paura di guardarlo negli occhi e di avvicinarci con tenerezza e compassione, e di toccarlo e di abbracciarlo. Ho chiesto spesso, alle persone che aiutano gli altri, di farlo guardandoli negli occhi, di non avere paura di toccarli; che il gesto di aiuto sia anche un gesto di comunicazione: anche noi abbiamo bisogno di essere da loro accolti. Un gesto di tenerezza, un gesto di compassione… Ma io vi domando: voi, quando aiutate gli altri, li guardate negli occhi? Li accogliete senza paura di toccarli? Li accogliete con tenerezza? Pensate a questo: come aiutate? A distanza o con tenerezza, con vicinanza? Se il male è contagioso, lo è anche il bene. Pertanto, bisogna che abbondi in noi, sempre più, il bene. Lasciamoci contagiare dal bene e contagiamo il bene!”. “Quando nell’esortazione Evangelii Gaudium abbiamo letto ciò che Papa Francesco scrive a proposito dell’omelia - scriveva sabato scorso Paola Bignardi su Avvenire -, ci siamo sentiti interpretati sia nell’insofferenza che proviamo ascoltando certe prediche sia nella gioia che suscitano in noi altre omelie che alimentano la nostra vita spirituale, suscitano la preghiera, svegliano nel cuore riflessioni e propositi di bene. Ora che quei pensieri hanno trovato una sistemazione organica nel Direttorio omiletico presentato in Vaticano martedì possiamo sperare in una predicazione che dica in modo essenziale il Vangelo e parli il linguaggio del nostro tempo? Qualche volta dobbiamo ammettere che non solo certe omelie ci hanno messo in imbarazzo ma che abbiamo sperato che i nostri figli o i nostri nipoti non fossero a Messa quel giorno, per non essere impegnati, a casa, in discussioni interminabili nelle quali saremmo stati a corto di argomenti. Ma questi sono casi limite. Più frequentemente ci capita di ascoltare omelie che sono inutili, che non fanno che ripetere con scarsa efficacia la pagina della Scrittura ascoltata, senza riuscire a far cogliere di essa l’anima e il rapporto con la nostra vita di tutti i giorni. Sono soprattutto tre i difetti che rendono inutile la predicazione e faticoso l’ascolto. Ci sono omelie che costituiscono divagazioni su temi che poco hanno a che vedere con la Parola che viene proclamata. Sono limiti che anche il Direttorio indica. E poi vi sono omelie astratte e lontane dalla vita, che offrono spunti dottrinali talvolta interessanti, più spesso fuori contesto, difficili da accettare, perché la dottrina, soprattutto quella che riguarda aspetti morali
o questioni sociali, avrebbe bisogno di essere posta in relazione con la vita concreta delle persone, con le loro situazioni, con i loro drammi. Enunciata in maniera fredda e distaccata, rischia di apparire persino violenta e di generare distanza; senza considerare il disagio che si prova quando si ascoltano ad esempio valutazioni della situazione politica, che riguardano quindi aspetti opinabili, su cui sarebbe necessario almeno poter discutere... Ma l’omelia implica una comunicazione unidirezionale. E allora ci si agita sulla sedia, e si cerca di pensare ad altro. E in fondo ci resta il sapore amaro di un appuntamento mancato con la Parola. Poi ci sono le omelie che parlano un linguaggio di altri tempi e che sembrano portarci in una dimensione temporale diversa da quelle quotidiana. Gesù ha spiegato i misteri del Regno ricorrendo alle immagini della vita dei suoi ascoltatori: la semina, la pesca, il banchetto, la famiglia... Ha usato parole piene di umanità, dense, concrete, semplici. E ha affascinato perché in esse le persone hanno colto verità, autenticità, interesse per la loro situazione. Che cosa può capire della vita cristiana un giovane che sente parole come salvezza, redenzione, intercessione, offerta? Solo traducendo queste parole nella realtà umana che esse interpretano, solo riportandole alle dimensioni esistenziali che contengono, potranno risultare comprensibili. Solo chi è aiutato, ad esempio, a riconoscere nella sua vita l’esperienza di essere perduto può comprendere cosa significa essere salvato. Ci sono alcuni preti le cui celebrazioni sono affollate: sono quelli che sanno coinvolgere con il loro linguaggio vivo, semplice, umile, umano. Personalmente, sono soprattutto due le caratteristiche che cerco in un’omelia: il suo radicamento nella Parola di Dio annunciata e la sua umanità. Non mi interessano divagazioni sull’attualità: le sento, se voglio, in molti altri luoghi. Mi interessa essere aiutata a stare in ascolto del Signore che parla a me, alla sua Chiesa, al mondo intero. Non mi interessa ripassare il catechismo, mi interessa sentirmi interpellata dal Signore e dal suo Vangelo, essere aiutata a capire che la sua Parola è anche per me, oggi, nella situazione concreta in cui mi trovo. E la illumina, o mi sostiene nel portarne l’oscurità. E poi si vorrebbe sentire una parola carica di umanità, di passione per la vita, di attenzione a ciò che passa nelle giornate ordinarie. Ogni omelia dovrebbe darci in qualche modo l’emozione di quelle parole del Concilio: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce...» e farci respirare il profumo del Vangelo. Allora ogni celebrazione sarà veramente annuncio di una notizia buona: che nel Signore Gesù la vita raggiunge la sua pienezza, e vale veramente la pena di essere vissuta. Ogni domenica la Chiesa ha la possibilità di far risuonare questo Vangelo per migliaia e migliaia di persone: non può sprecare questa opportunità” (a.p.) 1 – IL PATRIARCA LA NUOVA di domenica 15 febbraio 2015 Pag 23 Giovani evangelizzatori in strada di notte di n.d.l. Incontrano i coetanei con il Patriarca LA NUOVA di sabato 14 febbraio 2015 Pag 21 Questa sera "Luci nella notte" con il patriarca Moraglia di n.d.l. Incontro a San Giovanni Elomosinario 2 – DIOCESI / PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 14 febbraio 2015 Pag XXXII San Simeon Grande: appello per la conclusione dei restuari di t.b. 3 – VITA DELLA CHIESA ZENIT "Non scopriamo il Signore se non accogliamo in modo autentico l'emarginato!" Omelia di papa Francesco nella Messa con i nuovi cardinali
"La misericordia di Dio supera ogni barriera" Parole di papa Francesco durante l'Angelus di domenica 15 febbraio 2015 CORRIERE DELLA SERA Pag 21 Il messaggio del Papa ai cardinali: “Non isolatevi in una casta” di M. Antonietta Calabrò Le parole di Francesco al Concistoro: “Gesù non aveva paura dello scandalo” L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 15 febbraio 2015 Pag 8 Incardinati e docili Durante il concistoro ordinario pubblico nella basilica vaticana Papa Francesco ha creato venti cardinali AVVENIRE di domenica 15 febbraio 2015 Pag 1 L’abito dei testimoni di Mimmo Muolo La Chiesa e i suoi servitori-cardine LA REPUBBLICA di domenica 15 febbraio 2015 Pag 17 L’abbraccio dei due Papi per i nuovi cardinali di Marco Ansaldo Taglio ai “ministeri” e meno porporati, così Francesco prepara la rivoluzione in Curia AVVENIRE di sabato 14 febbraio 2015 Pag 3 Sentirsi interpellati dalla Parola di Paola Bignardi L'omelia che salva e non stanca CORRIERE DELLA SERA di sabato 14 febbraio 2015 Pag 23 Il cardinale George Pell: "In Vaticano 1,4 miliardi extra bilancio. Servono più soldi per aiutare i poveri" di M. Antonietta Calabrò IL FOGLIO di sabato 14 febbraio 2015 Pag 1 Se le parole del Papa sono stampate su un cartello islamista che condanna la nostra libertà d'espressione di Giuliano Ferrara Pag II Il rebus Pio di Matteo Matzuzzi Papa Pacelli, dalla leggenda nera della connivenza con Hitler alla rivalutazione d'oggi. Che passa per gli archivi e per il cinema 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE di domenica 15 febbraio 2015 Pag 2 Le mie battaglie di maestra e madre tra bimbi adultizzati (e adulti bimbi) (lettere al direttore) AVVENIRE di sabato 14 febbraio 2015 Pag 9 Separati, il dramma ignorato. Troppi padri ridotti alla fame di Luciano Moia "Il 15% sopravvive con meno di cento euro al mese". I risultati della prima ricerca che dà voce ai protagonisti 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 12 Don Torta intervistato da Ballarò di m.ch. Usura bancaria, suicidi per la crisi: giovedì assemblea nella parrocchia di Dese IL GAZZETTINO di domenica 15 febbraio 2015 Pag 11 Conti in rosso, servizi a rischio. Venezia ha l'acqua alla gola di Davide Scalzotto IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 15 febbraio 2015
Pag XIV Dopo i mendicanti molesti anche i ladri nella chiesetta di Alvise Sperandio In cimitero IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 14 febbraio 2015 Pag IX L'Expo? La vera sfida è arrivarci di Elisio Trevisan A due mesi e mezzo dall'inaugurazione resta irrisolto il nodo dei collegamenti. E l'albergo per ora resta sulla carta LA NUOVA di sabato 14 febbraio 2015 Pag 21 Ordinanze sul traffico, monta la protesta di Alberto Vitucci Il caso: norme più semplici, controlli e divieti al trasporto turistico … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Cattiva coscienza europea di Ernesto Galli della Loggia La guerra rimossa Pag 1 Attacco agli ebrei e alla libertà di Pierluigi Battista Pag 14 La spinta della base del Carroccio perché Salvini corra (anche) al Sud di Nando Pagnoncelli E la maggioranza degli elettori di Fi lo vedrebbe leader di coalizione LA REPUBBLICA Pag 1 La repubblica extra-parlamentare di Ilvo Diamanti Pag 1 I migranti che Salvini vuol lasciare in mare di Michele Serra Pag 27 Stavolta la campana suona per tutti di Stefano Folli LA STAMPA Ecco perché l’Egitto bombarda l’Isis in Libia di Maurizio Molinari Al Sisi vuole conquistare la leadership del mondo arabo nella lotta contro il Califfo Aprirsi all’altro islam di Roberto Toscano IL GAZZETTINO Pag 1 Ma non siamo pronti alla guerra di Ennio Di Nolfo LA NUOVA Pag 1 L’Europa deve diventare una nazione di Vincenzo Milanesi CORRIERE DELLA SERA di domenica 15 febbraio 2015 Pag 1 Mai stati così insicuri di Angelo Panebianco Ucraina, Grecia e Libia Pag 1 I due campi di battaglia di Franco Venturini La morsa islamista AVVENIRE di domenica 15 febbraio 2015 Pag 3 Sanremo: rivincita generalista di Gigio Rancilio Il Festival di Conti, i conti del Festival IL GAZZETTINO di domenica 15 febbraio 2015 Pag 1 La burocrazia è l'ostacolo alla ripresa di Romano Prodi LA NUOVA di domenica 15 febbraio 2015 Pag 1 L'attesa fa il gioco degli jihadisti di Renzo Guolo
Pag 1 Lega, capi e militanti al bivio di Francesco Jori CORRIERE DELLA SERA di sabato 14 febbraio 2015 Pag 1 Il sonno della ragione di Antonio Polito Prepotenti e rissosi Pag 1 Le schegge avvelenate di Francesco Verderami Pag 6 Mischie da rugby, corse sui banchi. E ognuno urla all'altro: "Fascista" di Aldo Cazzullo Arriva il premier e gli danno del bullo. Ma tutti hanno paura del "voto anticipato" LA STAMPA di sabato 14 febbraio 2015 Il prezzo della pace in Europa di Mario Deaglio AVVENIRE di sabato 14 febbraio 2015 Pag 1 Salviamo la bioetica di Francesco D'Agostino I limiti (e i compiti) della politica IL GAZZETTINO di sabato 14 febbraio 2015 Pag 1 Rotto il patto, rispunta il voto anticipato di Bruno Vespa
Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA LA NUOVA di domenica 15 febbraio 2015 Pag 23 Giovani evangelizzatori in strada di notte di n.d.l. Incontrano i coetanei con il Patriarca Venezia. Dalla chiesa di San Giovanni Elemosinario ai campielli e calli di Rialto. Giovani evangelizzatori di strada sono usciti per incontrare nella notte coetanei, talvolta disorientati e confusi. I ragazzi hanno illuminano la notte di fede. Lui, il Patriarca Francesco Moraglia, li ha seguiti nella loro missione ed è arrivato con i seminaristi per "allontanare la lebbra dell'inferenza". Un mondo così rovesciato non si era mai visto. Nel tempio aperto fino alle due sono entrati anche molti giovani mascherati: «Siamo entrati qui per pregare insieme». LA NUOVA di sabato 14 febbraio 2015 Pag 21 Questa sera "Luci nella notte" con il patriarca Moraglia di n.d.l. Incontro a San Giovanni Elomosinario Nella notte il Patriarca Moraglia in missione a Rialto con i giovani. Mentre il Carnevale e la festa di San Valentino impazzano nei campi e nelle calli il Patriarca spiazza tutti. Ha deciso di stare in mezzo ai giovani e di andare con i seminaristi nei luoghi da loro più frequentati. Monsignor Moraglia stasera si recherà nella chiesa di San Giovanni Elemosinario e benedirà l’iniziativa missionaria “Luci nella notte”. Alle 21 il Patriarca conferirà il mandato ai giovani evangelizzatori di strada che fino all’alba avvicineranno altri ragazzi. I due mondi, distinti e distanti, si troveranno faccia a faccia, poi l’umanità dell’uno si intreccerà con quella dell’altro. Per la prima volta parteciperà un’équipe della Pastorale giovanile diocesana accompagnata dal diacono Pierpaolo Dal Corso. Il coordinatore don Antonio Biancotto, parroco di San Cassiano e San Silvestro, spiega le finalità: «Questo mondo fugge dai valori. E’ importante rafforzare il legame tra parrocchia e territorio, incontrare mondi diversi».
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2 – DIOCESI / PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 14 febbraio 2015 Pag XXXII San Simeon Grande: appello per la conclusione dei restuari di t.b. Venezia - Una chiesa ricca di opere d'arte. Solo che, da più di tre anni, è sempre parzialmente incerottata, poiché i lavori di restauro conservativo, a cura della Regione, non sono ancora ultimati. Siamo a San Simeone Grande, nel sestiere di Santa Croce, e il parroco, don Renzo Mazzuia ci spiega «come vanno le cose»: «All'inizio, la navata di sinistra, poi quella di destra, quindi la prima parte del soffitto ed ora l'altro frammento di soffitto che sovrasta il presbiterio; ma tra un intervento e l'altro, le pause e gli intoppi». Ecco motivati i tanti anni di «lavori in corso» e che tutt'ora proseguono. A San Simeone si possono ammirare un «Ultima cena», di Jacopo Tintoretto, un altare del Massari, con pala marmorea di Morleiter, la «Presentazione al Tempio», di Jacopo Palma il Giovane e un sarcofago duecentesco, con la statua del santo Simeone. Sono opere che richiamano numerosi visitatori i quali, al pari dei parrocchiani, si chiedono quando la chiesa tornerà all'antico splendore. E don Mazzuia risponde così: «Speriamo al più presto».
Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA ZENIT "Non scopriamo il Signore se non accogliamo in modo autentico l'emarginato!" Omelia di papa Francesco nella Messa con i nuovi cardinali Riprendiamo di seguito il testo integrale dell'omelia tenuta da papa Francesco nella Messa di ringraziamento con i nuovi cardinali e il collegio cardinalizio, celebrata questa mattina nella Basilica Vaticana. "Signore, se vuoi, tu puoi purificarmi". Gesù, mosso a compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: "Lo voglio, sii purificato!" (cfr Mc 1,40-41). La compassione di Gesù! Quel "patire con" che lo avvicinava ad ogni persona sofferente. Gesù non si risparmia, anzi si lascia coinvolgere nel dolore e nel bisogno della gente, semplicemente perché Egli sa e vuole "patire con", perché ha un cuore che non si vergogna di avere "compassione". «Non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti» (Mc 1,45). Questo significa che, oltre a guarire il lebbroso, Gesù ne ha preso su di sé anche l’emarginazione che la legge di Mosè imponeva (cfr Lv 13,1-2.4546). Gesù non ha paura del rischio di assumere la sofferenza dell’altro, ma ne paga fino in fondo il prezzo (cfr Is 53,4). La compassione porta Gesù ad agire in concreto: a reintegrare l’emarginato. E questi sono i tre concetti-chiave che la Chiesa ci propone oggi nella liturgia della Parola: la compassione di Gesù di fronte all’emarginazione e la sua volontà di integrazione. Emarginazione: Mosè, trattando giuridicamente la questione dei lebbrosi, chiede che vengano allontanati ed emarginati dalla comunità, finché perduri il loro male, e li dichiara "impuri" (cfr Lv 13,1-2.45-46). Immaginate quanta sofferenza e quanta vergogna doveva provare un lebbroso: fisicamente, socialmente, psicologicamente e spiritualmente! Egli non è solo vittima della malattia, ma sente di esserne anche il colpevole, punito per i suoi peccati! È un morto vivente, "come uno a cui suo padre ha sputato in faccia" (cfr Nm 12,14). Inoltre, il lebbroso incute paura, disdegno, disgusto e per questo viene abbandonato dai propri familiari, evitato dalle altre persone, emarginato dalla società, anzi la società stessa lo espelle e lo costringe a vivere in luoghi distanti dai sani, lo esclude. E ciò al punto che se un individuo sano si fosse avvicinato a un lebbroso sarebbe stato severamente punito e spesso trattato, a sua volta, da lebbroso. E’ vero, la finalità di tale normativa era quella di salvare i sani, proteggere i giusti e, per salvaguardarli da ogni rischio, emarginare "il pericolo" trattando senza pietà il contagiato. Così, infatti, esclamò il sommo sacerdote Caifa: «È meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera» (Gv 11, 50). Integrazione: Gesù rivoluziona e scuote con forza quella mentalità chiusa
nella paura e autolimitata dai pregiudizi. Egli, tuttavia, non abolisce la Legge di Mosè ma la porta a compimento (cfr Mt 5,17), dichiarando, ad esempio, l’inefficacia controproducente della legge del taglione; dichiarando che Dio non gradisce l’osservanza del Sabato che disprezza l’uomo e lo condanna; o quando, di fronte alla donna peccatrice, non la condanna, anzi la salva dallo zelo cieco di coloro che erano già pronti a lapidarla senza pietà, ritenendo di applicare la Legge di Mosè. Gesù rivoluziona anche le coscienze nel Discorso della montagna (cfr Mt5), aprendo nuovi orizzonti per l’umanità e rivelando pienamente la logica di Dio. La logica dell’amore che non si basa sulla paura ma sulla libertà, sulla carità, sullo zelo sano e sul desiderio salvifico di Dio: «Dio, nostro salvatore, … vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,3-4). «Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 12,7; Os6,6). Gesù, nuovo Mosè, ha voluto guarire il lebbroso, l’ha voluto toccare, l’ha voluto reintegrare nella comunità, senza "autolimitarsi" nei pregiudizi; senza adeguarsi alla mentalità dominante della gente; senza preoccuparsi affatto del contagio. Gesù risponde alla supplica del lebbroso senza indugio e senza i soliti rimandi per studiare la situazione e tutte le eventuali conseguenze! Per Gesù ciò che conta, soprattutto, è raggiungere e salvare i lontani, curare le ferite dei malati, reintegrare tutti nella famiglia di Dio. E questo scandalizza qualcuno! E Gesù non ha paura di questo tipo di scandalo! Egli non pensa alle persone chiuse che si scandalizzano addirittura per una guarigione, che si scandalizzano di fronte a qualsiasi apertura, a qualsiasi passo che non entri nei loro schemi mentali e spirituali, a qualsiasi carezza o tenerezza che non corrisponda alle loro abitudini di pensiero e alla loro purità ritualistica. Egli ha voluto integrare gli emarginati, salvare coloro che sono fuori dall’accampamento (cfr Gv 10). Sono due logiche di pensiero e di fede: la paura di perdere i salvati e il desiderio di salvare i perduti. Anche oggi accade, a volte, di trovarci nell’incrocio di queste due logiche: quella dei dottori della legge, ossia emarginare il pericolo allontanando la persona contagiata, e la logica di Dio che, con la sua misericordia, abbraccia e accoglie reintegrando e trasfigurando il male in bene, la condanna in salvezza e l’esclusione in annuncio. Queste due logiche percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare. San Paolo, attuando il comandamento del Signore di portare l’annuncio del Vangelo fino agli estremi confini della terra (cfr Mt 28,19), scandalizzò e incontrò forte resistenza e grande ostilità soprattutto da coloro che esigevano un’incondizionata osservanza della Legge mosaica anche da parte dei pagani convertiti. Anche san Pietro venne criticato duramente dalla comunità quando entrò nella casa del centurione pagano Cornelio (cfr At 10). La strada della Chiesa, dal Concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione. Questo non vuol dire sottovalutare i pericoli o fare entrare i lupi nel gregge, ma accogliere il figlio prodigo pentito; sanare con determinazione e coraggio le ferite del peccato; rimboccarsi le maniche e non rimanere a guardare passivamente la sofferenza del mondo. La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero; la strada della Chiesa è proprio quella di uscire dal proprio recinto per andare a cercare i lontani nelle "periferie" essenziali dell’esistenza; quella di adottare integralmente la logica di Dio; di seguire il Maestro che disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Lc 5,31-32). Guarendo il lebbroso, Gesù non reca alcun danno a chi è sano, anzi lo libera dalla paura; non gli apporta un pericolo ma gli dona un fratello; non disprezza la Legge ma apprezza l’uomo, per il quale Dio ha ispirato la Legge. Infatti, Gesù libera i sani dalla tentazione del "fratello maggiore" (cfr Lc 15,11-32) e dal peso dell’invidia e della mormorazione degli "operai che hanno sopportato il peso della giornata e il caldo" (cfr Mt 20,1-16). Di conseguenza: la carità non può essere neutra, asettica, indifferente, tiepida o imparziale! La carità contagia, appassiona, rischia e coinvolge! Perché la carità vera è sempre immeritata, incondizionata e gratuita! (cfr 1 Cor 13). La carità è creativa nel trovare il linguaggio giusto per comunicare con tutti coloro che vengono ritenuti inguaribili e quindi intoccabili. Trovare il linguaggio giusto... Il contatto è il vero linguaggio comunicativo, lo stesso linguaggio affettivo che ha trasmesso al lebbroso la guarigione. Quante guarigioni possiamo compiere e trasmettere imparando questo linguaggio del contatto! Era un lebbroso ed è diventato annunciatore dell’amore di Dio. Dice il Vangelo: «Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto»
(Mc 1,45). Cari nuovi Cardinali, questa è la logica di Gesù, questa è la strada della Chiesa: non solo accogliere e integrare, con coraggio evangelico, quelli che bussano alla nostra porta, ma uscire, andare a cercare, senza pregiudizi e senza paura, i lontani manifestando loro gratuitamente ciò che noi abbiamo gratuitamente ricevuto. «Chi dice di rimanere in [Cristo], deve anch’egli comportarsi come lui si è comportato» (1 Gv 2,6). La totale disponibilità nel servire gli altri è il nostro segno distintivo, è l’unico nostro titolo di onore! E pensate bene, in questi giorni in cui avete ricevuto il titolo cardinalizio, invochiamo l’intercessione di Maria, Madre della Chiesa, che ha sofferto in prima persona l’emarginazione a causa delle calunnie (cfr Gv 8,41) e dell’esilio (cfr Mt 2,13-23), affinché ci ottenga di essere servi fedeli a Dio. Ci insegni Lei - che è la Madre - a non avere paura di accogliere con tenerezza gli emarginati; a non avere paura della tenerezza. Quante volte abbiamo paura della tenerezza! Ci insegni a non avere paura della tenerezza e della compassione; ci rivesta di pazienza nell’accompagnarli nel loro cammino, senza cercare i risultati di un successo mondano; ci mostri Gesù e ci faccia camminare come Lui. Cari fratelli nuovi Cardinali, guardando a Gesù e alla nostra Madre, vi esorto a servire la Chiesa in modo tale che i cristiani - edificati dalla nostra testimonianza - non siano tentati di stare con Gesù senza voler stare con gli emarginati, isolandosi in una casta che nulla ha di autenticamente ecclesiale. Vi esorto a servire Gesù crocifisso in ogni persona emarginata, per qualsiasi motivo; a vedere il Signore in ogni persona esclusa che ha fame, che ha sete, che è nuda; il Signore che è presente anche in coloro che hanno perso la fede, o che si sono allontanati dal vivere la propria fede, o che si dichiarano atei; il Signore che è in carcere, che è ammalato, che non ha lavoro, che è perseguitato; il Signore che è nel lebbroso - nel corpo o nell’anima -, che è discriminato! Non scopriamo il Signore se non accogliamo in modo autentico l’emarginato! Ricordiamo sempre l’immagine di san Francesco che non ha avuto paura di abbracciare il lebbroso e di accogliere coloro che soffrono qualsiasi genere di emarginazione. In realtà, cari fratelli, sul vangelo degli emarginati, si gioca e si scopre e si rivela la nostra credibilità! "La misericordia di Dio supera ogni barriera" Parole di papa Francesco durante l'Angelus di domenica 15 febbraio 2015 Riportiamo di seguito le parole rivolte oggi a mezzogiorno da papa Francesco durante la recita dell'Angelus ai pellegrini convenuti in piazza San Pietro. [Prima dell'Angelus:] Cari fratelli e sorelle, buongiorno! In queste domeniche l’evangelista Marco ci sta raccontando l’azione di Gesù contro ogni specie di male, a beneficio dei sofferenti nel corpo e nello spirito: indemoniati, ammalati, peccatori… Egli si presenta come colui che combatte e vince il male ovunque lo incontri. Nel Vangelo di oggi (cfr Mc 1,40-45) questa sua lotta affronta un caso emblematico, perché il malato è un lebbroso. La lebbra è una malattia contagiosa e impietosa, che sfigura la persona, e che era simbolo di impurità: il lebbroso doveva stare fuori dai centri abitati e segnalare la sua presenza ai passanti. Era emarginato dalla comunità civile e religiosa. Era come un morto ambulante. L’episodio della guarigione del lebbroso si svolge in tre brevi passaggi: l’invocazione del malato, la risposta di Gesù, le conseguenze della guarigione prodigiosa. Il lebbroso supplica Gesù «in ginocchio» e gli dice: «Se vuoi, puoi purificarmi» (v. 40). A questa preghiera umile e fiduciosa, Gesù reagisce con un atteggiamento profondo del suo animo: la compassione. E “compassione” è una parola molto profonda: compassione che significa “patire-con-l’altro”. Il cuore di Cristo manifesta la compassione paterna di Dio per quell’uomo, avvicinandosi a lui e toccandolo. E questo particolare è molto importante. Gesù «tese la mano, lo toccò … e subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato» (v. 41). La misericordia di Dio supera ogni barriera e la mano di Gesù tocca il lebbroso. Egli non si pone a distanza di sicurezza e non agisce per delega, ma si espone direttamente al contagio del nostro male; e così proprio il nostro male diventa il luogo del contatto: Lui, Gesù, prende da noi la nostra umanità malata e noi prendiamo da Lui la sua umanità sana e risanante. Questo avviene ogni volta che riceviamo con fede un Sacramento: il Signore Gesù ci
“tocca” e ci dona la sua grazia. In questo caso pensiamo specialmente al Sacramento della Riconciliazione, che ci guarisce dalla lebbra del peccato. Ancora una volta il Vangelo ci mostra che cosa fa Dio di fronte al nostro male: Dio non viene a “tenere una lezione” sul dolore; non viene neanche ad eliminare dal mondo la sofferenza e la morte; viene piuttosto a prendere su di sé il peso della nostra condizione umana, a portarla fino in fondo, per liberarci in modo radicale e definitivo. Così Cristo combatte i mali e le sofferenze del mondo: facendosene carico e vincendoli con la forza della misericordia di Dio. A noi, oggi, il Vangelo della guarigione del lebbroso dice che, se vogliamo essere veri discepoli di Gesù, siamo chiamati a diventare, uniti a Lui, strumenti del suo amore misericordioso, superando ogni tipo di emarginazione. Per essere “imitatori di Cristo” (cfr 1 Cor11,1) di fronte a un povero o a un malato, non dobbiamo avere paura di guardarlo negli occhi e di avvicinarci con tenerezza e compassione, e di toccarlo e di abbracciarlo. Ho chiesto spesso, alle persone che aiutano gli altri, di farlo guardandoli negli occhi, di non avere paura di toccarli; che il gesto di aiuto sia anche un gesto di comunicazione: anche noi abbiamo bisogno di essere da loro accolti. Un gesto di tenerezza, un gesto di compassione… Ma io vi domando: voi, quando aiutate gli altri, li guardate negli occhi? Li accogliete senza paura di toccarli? Li accogliete con tenerezza? Pensate a questo: come aiutate? A distanza o con tenerezza, con vicinanza? Se il male è contagioso, lo è anche il bene. Pertanto, bisogna che abbondi in noi, sempre più, il bene. Lasciamoci contagiare dal bene e contagiamo il bene! [Dopo l'Angelus:] Cari fratelli e sorelle, rivolgo un augurio di serenità e di pace a tutti gli uomini e le donne che nell’Estremo Oriente e in varie parti del mondo si preparano a celebrare il capodanno lunare. Tali festività offrono loro la felice occasione di riscoprire e di vivere in modo intenso la fraternità, che è vincolo prezioso della vita familiare e basamento della vita sociale. Questo ritorno annuale alle radici della persona e della famiglia possa aiutare quei Popoli a costruire una società in cui si tessono relazioni interpersonali improntate a rispetto, giustizia e carità. Saluto tutti voi, romani e pellegrini; in particolare, quanti siete venuti in occasione del Concistoro, per accompagnare i nuovi Cardinali; e ringrazio i Paesi che hanno voluto essere presenti a questo evento con Delegazioni ufficiali. Salutiamo con un applauso i nuovi Cardinali! Saluto i pellegrini spagnoli provenienti da San Sebastián, Campo de Criptana, Orense, Pontevedra e Ferrol; gli studenti di Campo Valongo e Porto, in Portogallo, e quelli di Parigi; il “Foro delle Istituzioni Cristiane” della Slovacchia; i fedeli di Buren (Olanda), i militari statunitensi di stanza in Germania e la comunità dei venezuelani residenti in Italia. Saluto i giovani di Busca, i fedeli di Leno, Mussoi, Monteolimpino, Rivalta sul Mincio e Forette di Vigasio. Sono presenti molti gruppi scolastici e di catechesi da tante parti d’Italia - vedo i cresimandi di Galzignano… -. Carissimi, vi incoraggio ad essere testimoni gioiosi e coraggiosi di Gesù nella vita di ogni giorno. A tutti voi auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticate di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci! CORRIERE DELLA SERA Pag 21 Il messaggio del Papa ai cardinali: “Non isolatevi in una casta” di M. Antonietta Calabrò Le parole di Francesco al Concistoro: “Gesù non aveva paura dello scandalo” Roma. Davanti a tutto il Concistoro, riunito in Vaticano, quando mancano sei mesi dal Sinodo sulla famiglia, e mentre si continua a discutere della riforma della Curia, Papa Francesco ha lanciato un chiaro messaggio nel corso della solenne concelebrazione in San Pietro con i nuovi cardinali. In un’omelia di grande forza e bellezza. I cardinali, ha affermato con nettezza, non possono essere «tentati di stare con Gesù senza voler stare con gli emarginati, isolandosi in una casta che nulla ha di autenticamente ecclesiale». Non possono essere come quelle persone «che si scandalizzano di fronte a qualsiasi apertura, a qualsiasi passo che non entri nei loro schemi mentali e spirituali, a qualsiasi carezza o tenerezza che non corrisponda alle loro abitudini di pensiero e alla loro purità ritualistica». Gesù «non aveva paura di questo tipo di scandalo». San Paolo «scandalizzò
e incontrò forte resistenza e grande ostilità soprattutto da coloro che esigevano un’incondizionata osservanza della Legge mosaica», «anche San Pietro venne criticato duramente dalla comunità». La Chiesa invece è carità. Per far comprendere che non si tratta di frasi fatte, di parole che ripetono quello che sta scritto nel Vangelo (che naturalmente tutti i cardinali ben conoscono) il Papa ha parlato di una carità affettiva che tocca la carne degli emarginati, dei malati , dei peccatori. Gesù avrebbe potuto guarire il lebbroso anche a distanza, dice Francesco, invece, spiega, lo ha toccato. «Il contatto è il vero linguaggio comunicativo e affettivo che ha trasmesso la guarigione al lebbroso». Saper parlare questo linguaggio è la vera carità. E per questo il Papa ha esortato tutti i porporati a seguire l’esempio di San Francesco d’Assisi che incontrando un lebbroso lo ha abbracciato. Alla fine della Messa, all’Angelus, Bergoglio è tornato di nuovo su questo verbo: «toccare». «Quando aiutate qualcuno - dice davanti a oltre 60mila persone - guardatelo e non abbiate paura di toccarlo, che l’aiuto sia anche un gesto di compassione». Tutta l’omelia è parsa come uno sguardo verso il Sinodo di ottobre, e una risposta ad alta voce alle resistenze dei cosiddetti «conservatori» sulle nuove vie pastorali per divorziati risposati, conviventi, gay. Gesù - dice - ha voluto «integrare gli emarginati, salvare coloro che sono fuori dall’accampamento». Qui ha fatto gli esempi dell’emarginazione economica e sociale (chi ha fame e sete, chi è nudo, chi è discriminato per qualsiasi motivo) e un incisivo riferimento agli atei: «Il Signore è presente anche in coloro che hanno perso la fede, o che si sono allontanati dal vivere la propria fede o che si dichiarano atei», aggiungendo «a braccio» quest’espressione non contenuta nel testo scritto. Per chiarire ulteriormente, il Papa ha infine affermato che ci sono «due logiche di pensiero e di fede». «Quella dei dottori della legge, ossia emarginare il pericolo allontanando la persona contagiata». E quella di Gesù e della Chiesa che «è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero; la strada della Chiesa è proprio quella di uscire dal proprio recinto per andare a cercare i lontani nelle «periferie» dell’esistenza; quella di adottare integralmente la logica di Dio; di seguire il Maestro che disse: «Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori». Senza essere paralizzati dai timore di far entrare i lupi tra il gregge. Guarendo il lebbroso, e si può esserlo, dice, nel corpo o nell’anima, «Gesù non reca alcun danno a chi è sano, anzi lo libera dalla paura; non gli apporta un pericolo ma gli dona un fratello». L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 15 febbraio 2015 Pag 8 Incardinati e docili Durante il concistoro ordinario pubblico nella basilica vaticana Papa Francesco ha creato venti cardinali Durante il concistoro ordinario pubblico per la nomina di venti cardinali, svoltosi sabato mattina, 14 febbraio, nella basilica di San Pietro, il Papa ha pronunciato la seguente allocuzione. Cari Fratelli Cardinali, quella cardinalizia è certamente una dignità, ma non è onorifica. Lo dice già il nome - “cardinale” - che evoca il “cardine”; dunque non qualcosa di accessorio, di decorativo, che faccia pensare a una onorificenza, ma un perno, un punto di appoggio e di movimento essenziale per la vita della comunità. Voi siete “cardini” e siete incardinati nella Chiesa di Roma, che «presiede alla comunione universale della carità» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Lumen gentium, 13; cfr. Ign. Ant., Ad Rom., Prologo). Nella Chiesa ogni presidenza proviene dalla carità, deve esercitarsi nella carità e ha come fine la carità. Anche in questo la Chiesa che è in Roma svolge un ruolo esemplare: come essa presiede nella carità, così ogni Chiesa particolare è chiamata, nel suo ambito, a presiedere nella carità. Perciò penso che l’“inno alla carità” della Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi possa essere la parola-guida per questa celebrazione e per il vostro ministero, in particolare per quelli tra voi che oggi entrano a far parte del Collegio cardinalizio. E ci farà bene lasciarci guidare, io per primo e voi con me, dalle parole ispirate dell’apostolo Paolo, in particolare là dove egli elenca le caratteristiche della carità. Ci aiuti in questo ascolto la nostra Madre Maria. Lei ha dato al mondo Colui che è «la Via migliore di tutte» (cfr. 1 Cor 12, 31): Gesù, Carità incarnata; ci aiuti ad accogliere questa Parola e a camminare sempre su questa Via. Ci aiuti col suo
atteggiamento umile e tenero di madre, perché la carità, dono di Dio, cresce dove ci sono umiltà e tenerezza. Anzitutto san Paolo ci dice che la carità è «magnanima» e «benevola». Quanto più si allarga la responsabilità nel servizio alla Chiesa, tanto più deve allargarsi il cuore, dilatarsi secondo la misura del cuore di Cristo. Magnanimità è, in un certo senso, sinonimo di cattolicità: è saper amare senza confini, ma nello stesso tempo fedeli alle situazioni particolari e con gesti concreti. Amare ciò che è grande senza trascurare ciò che è piccolo; amare le piccole cose nell’orizzonte delle grandi, perché «Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo divinum est»”. Saper amare con gesti benevoli. Benevolenza è l’intenzione ferma e costante di volere il bene sempre e per tutti, anche per quelli che non ci vogliono bene. L’apostolo dice poi che la carità «non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio». Questo è davvero un miracolo della carità, perché noi esseri umani - tutti, e in ogni età della vita - siamo inclinati all’invidia e all’orgoglio dalla nostra natura ferita dal peccato. E anche le dignità ecclesiastiche non sono immuni da questa tentazione. Ma proprio per questo, cari Fratelli, può risaltare ancora di più in noi la forza divina della carità, che trasforma il cuore, così che non sei più tu che vivi, ma Cristo vive in te. E Gesù è tutto amore. Inoltre, la carità «non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse». Questi due tratti rivelano che chi vive nella carità è de-centrato da sé. Chi è auto-centrato manca inevitabilmente di rispetto, e spesso non se ne accorge, perché il “rispetto” è proprio la capacità di tenere conto dell’altro, di tenere conto della sua dignità, della sua condizione, dei suoi bisogni. Chi è auto-centrato cerca inevitabilmente il proprio interesse, e gli sembra che questo sia normale, quasi doveroso. Tale “interesse” può anche essere ammantato di nobili rivestimenti, ma sotto sotto è sempre il “proprio interesse”. Invece la carità ti de-centra e ti pone nel vero centro che è solo Cristo. Allora sì, puoi essere una persona rispettosa e attenta al bene degli altri. La carità, dice Paolo, «non si adira, non tiene conto del male ricevuto». Al pastore che vive a contatto con la gente non mancano le occasioni di arrabbiarsi. E forse ancora di più rischiamo di adirarci nei rapporti tra noi confratelli, perché in effetti noi siamo meno scusabili. Anche in questo è la carità, e solo la carità, che ci libera. Ci libera dal pericolo di reagire impulsivamente, di dire e fare cose sbagliate; e soprattutto ci libera dal rischio mortale dell’ira trattenuta, “covata” dentro, che ti porta a tenere conto dei mali che ricevi. No. Questo non è accettabile nell’uomo di Chiesa. Se pure si può scusare un’arrabbiatura momentanea e subito sbollita, non altrettanto per il rancore. Dio ce ne scampi e liberi! La carità aggiunge l’Apostolo - «non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità». Chi è chiamato nella Chiesa al servizio del governo deve avere un forte senso della giustizia, così che qualunque ingiustizia gli risulti inaccettabile, anche quella che potesse essere vantaggiosa per lui o per la Chiesa. E nello stesso tempo «si rallegra della verità»: che bella questa espressione! L’uomo di Dio è uno che è affascinato dalla verità e che la trova pienamente nella Parola e nella Carne di Gesù Cristo. Lui è la sorgente inesauribile della nostra gioia. Che il popolo di Dio possa sempre trovare in noi la ferma denuncia dell’ingiustizia e il servizio gioioso della verità. Infine, la carità «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta». Qui c’è, in quattro parole, un programma di vita spirituale e pastorale. L’amore di Cristo, riversato nei nostri cuori dallo Spirito Santo, ci permette di vivere così, di essere così: persone capaci di perdonare sempre; di dare sempre fiducia, perché piene di fede in Dio; capaci di infondere sempre speranza, perché piene di speranza in Dio; persone che sanno sopportare con pazienza ogni situazione e ogni fratello e sorella, in unione con Gesù, che ha sopportato con amore il peso di tutti i nostri peccati. Cari Fratelli, tutto questo non viene da noi, ma da Dio. Dio è amore e compie tutto questo, se siamo docili all’azione del suo Santo Spirito. Ecco allora come dobbiamo essere: incardinati e docili. Più veniamo incardinati nella Chiesa che è in Roma e più dobbiamo diventare docili allo Spirito, perché la carità possa dare forma e senso a tutto ciò che siamo e che facciamo. Incardinati nella Chiesa che presiede nella carità, docili allo Spirito Santo che riversa nei nostri cuori l’amore di Dio (cfr. Rm 5, 5). Così sia. AVVENIRE di domenica 15 febbraio 2015 Pag 1 L’abito dei testimoni di Mimmo Muolo La Chiesa e i suoi servitori-cardine
È fissato nella Scrittura, fin dagli albori del cristianesimo, l’inno alla carità di san Paolo. Ma papa Francesco ha auspicato ieri che il mondo del terzo millennio lo possa leggere prima di tutto nella vita dei cardinali. Vecchi e nuovi. E naturalmente anche nella sua, come ha detto in un passaggio dell’omelia del Concistoro in cui ha consegnato 19 berrette cardinalizie ad altrettanti neoporporati dei cinque continenti (il ventesimo della lista, il colombiano Pimiento Rodriguez, non è potuto venire a Roma per ragioni di età avanzata). «Ci farà bene lasciarci guidare, io per primo e voi con me, dalle parole ispirate dall’Apostolo», ha sottolineato il Pontefice, e nello sviluppo del suo discorso ha spiegato che cosa significa «lasciarsi guidare» dalla carità. Magnanimità e benevolenza. Assenza di invidia, vanità e orgoglio. Rispetto e disinteresse di sé e dei propri vantaggi. Rinuncia all’ira e oblìo del male ricevuto. Avversità per l’ingiustizia e gioioso amore della verità. E, infine, capacità di perdonare sempre, di dare continuamente fiducia, di sperare senza limiti e di sopportare ogni situazione, anche la più sfavorevole. Così, attraverso le sue parole, il Papa ha in un certo senso consegnato ai nuovi cardinali le loro autentiche 'vesti' color porpora, i panni da indossare 24 ore su 24 come distintivo di riconoscibilità, anche perché l’abito della carità è forse l’unico che gli uomini e le donne del nostro tempo sono in grado di apprezzare a qualsiasi latitudine. L’abito che – per citare il beato Paolo VI tanto caro a Francesco – contraddistingue i veri testimoni e non solo i generici maestri. Quanto è lontano il tempo in cui l’immaginario collettivo (alimentato anche da qualche comportamento non proprio evangelico) pensava ai cardinali come a qualcosa di molto simile ai principi delle corti mondane. La Chiesa del dopo Concilio si è messa in cammino per ripulire anche questo ruolo dalle incrostazioni dei secoli. E Francesco, che dalla cortigianeria ha già messo in guardia nel Concistoro del febbraio 2014 («il cardinale entra nella Chiesa di Roma, non in una corte. Evitiamo tutti e aiutiamoci a vicenda a evitare abitudini e comportamenti di corte: intrighi, chiacchiere, cordate, favoritismi, preferenze»), ieri ha come completato il discorso. Dignità, certo, quella cardinalizia, ma non onorifica. Cioè né orgogliosamente chiusa nella sua vanità, né tanto meno ornamentale. Al contrario, ha ricordato il Papa, essa designa «un perno, un punto di appoggio e di movimento essenziale per la vita della comunità». Un cardine, dunque, donde la qualifica che ciascuno dei nuovi porporati d’ora in poi vedrà associato al suo nome e cognome. Una qualifica che però, ha in pratica sottolineato il Pontefice, riceve senso e significato solo se è accompagnata dall’abito dell’amore a 360 gradi. Ecco, si potrebbe dire che ieri Francesco ha chiesto ai cardinali vecchi e nuovi di essere degli 'Inni alla carità viventi' in un mondo che ne ha drammaticamente bisogno. Autentici cardinali saranno dunque uomini capaci di «amare senza confini», di «volere il bene sempre e per tutti», di rifuggire dall’invidia e dall’orgoglio, di non essere «auto-centrati» e quindi di rispettare gli altri, di «non reagire impulsivamente e dire e fare cose sbagliate», di non covare rancore, di non godere dell’ingiustizia e di rallegrarsi della verità. In definitiva, capaci di infondere sempre speranza e di diventare «docili allo Spirito», in ogni situazione. Anche quella più estrema, perché se è vero che il Papa, nell’omelia, non ha fatto esplicito cenno all’impegno dei cardinali di spingere la loro fedeltà fino all’effusione del sangue, essere 'Inni alla carità viventi' comporta il darsi completamente, senza riserve, e – se necessario – fino al sacrificio estremo. Proprio sul modello di Gesù che è, egli per primo, «carità incarnata». LA REPUBBLICA di domenica 15 febbraio 2015 Pag 17 L’abbraccio dei due Papi per i nuovi cardinali di Marco Ansaldo Taglio ai “ministeri” e meno porporati, così Francesco prepara la rivoluzione in Curia Cardinali non per «onorificenza o decorazione». Non dignitari. Ma «perni» della Chiesa. Non «autocentrati», ma con «il senso della giustizia». E che, anzi, denuncino «l'ingiustizia». Per servire «la verità». Il secondo Concistoro di Francesco, con la creazione di 20 nuovi porporati di cui 15 elettori per il futuro Conclave, in maggior parte provenienti come lui stesso "dalla fine del mondo", accentua il disegno di una Chiesa attenta agli ultimi. Ma prepara soprattutto, sotto il profilo geostrategico, un Conclave sempre meno eurocentrico e sempre più allargato ad aree lontane, pescando le nuove berrette rosse da Paesi finora mai rappresentati nel Sacro Collegio, come Capo Verde, Tonga o la Birmania. Sono solo 5 i cardinali scelti dall'Europa. Mentre 3 arrivano dall'Asia, 3 dall'America Latina (Messico incuso), 2 dall'Africa e altri 2 dall'Oceania.
Nessuno dall'America del Nord, gruppo già forte subito dopo quello italiano. E quest'ultimo si allarga a 2 soli nuovi membri, presi non dalle sedi tradizionalmente cardinalizie come le grandi città, ma dalla periferia: l'arcivescovo di Agrigento, Francesco Monterisi, e quello di Ancona, Edoardo Menichelli. Un solo cardinale proviene dalla Curia: il francese Dominique Mamberti, ex ministro degli Esteri vaticano, che ieri a nome di tutti ha rivolto al Pontefice parole di obbedienza: «Siamo invitati ad uscire da noi stessi ha detto - dalle nostre abitudini e comodità». La cerimonia nella Basilica di San Pietro, dopo il rito sacro, è stata festosa e come sempre colorata di rosso per le vesti sgargianti dei porporati. Sarete pastori, li ha avvertiti Francesco, a cui non mancheranno «le occasioni di arrabbiarsi», ma che nei rapporti con i confratelli non saranno giustificati a farlo. Un po' più a lungo il Papa ha parlato con Pierre Nguyen Van Nhon di Hanoi e con Alberto Suarez India del Messico. Ha intrecciato una mezza conversazione con Daniel Sturla Berhouet di Montevideo. Abbracciato a lungo Arlindo Gomes Furtado, prima berretta rossa nella storia di Capo Verde. Al cardinale Bo di Rangoon, neo porporato birmano, ha assegnato la chiesa di Sant'Ippolito a Centocelle, periferia Est della Città eterna. Meno periferico a Roma, invece, il più periferico dei nuovi porporati, il 53enne Mafi, da Tonga (30 ore di volo fino a Roma), titolare di Santa Paola Romana alla Balduina. In buona forma, sorridente ed evidentemente contento di partecipare, il Papa Emerito, Benedetto XVI. Il Pontefice in carica è andato due volte a stringergli la mano. Al termine del rito molti cardinali gli si sono avvicinati per salutarlo. E Joseph Ratzinger ha distribuito sorrisi a tutti. Poi, sostenendosi al suo bastone da passeggio, ha raggiunto l'auto ed è tornato al monastero "Mater Ecclesiae" dentro le Mura vaticane. Città del Vaticano. Meno cardinali in Curia. Tre-quattro grandi poli in cui raggruppare la pletora attuale di dicasteri vaticani. Creazione di un nuovo ufficio dell'Ambiente, caro a un Papa pronto a varare un'Enciclica verde. Più «trasparenza» e «vera collegialità». Questi i punti principali su cui si sta sviluppando la riforma della Curia, nelle linee delineate in questi giorni dal Consiglio ristretto dei cardinali, il cosiddetto C9 guidato dall'honduregno Oscar Andres Rodriguez Maradiaga, e discusse in Vaticano prima della creazione dei 20 porporati. Ma riuscirà Francesco a far passare la sua nuova rivoluzione, tesa a diminuire il potere dei cardinali curiali, e destinata a causare resistenze e polemiche? Vediamone, intanto, una per una le novità. DUE NUOVI POLI - La riforma, per come è stata presentata nell'Aula del Sinodo ai 165 porporati presenti, punta a istituire due Congregazioni che accorperebbero temi e funzioni ora distribuiti in più dicasteri. Una per laici, famiglia e vita, che metterebbe in risalto l'importanza del laicato. E una per carità, giustizia e pace. Questi due nuovi poli raccoglierebbero diversi Pontifici consigli (come ad esempio "Cor Unum" sulla solidarietà, "Iustitia et Pax", Sanità, Migranti, ecc.) e ad essi si potrebbero unire anche l'Accademia per la vita e l'Accademia delle Scienze sociali, come pure la Caritas Internationalis. SUPERMINISTERO CULTURA - Nella riunione del C9 sono stati ascoltati il cardinale Gianfranco Ravasi, sul futuro del Pontificio consiglio per la Cultura da lui presieduto, e monsignor Paul Tighe, segretario di quello per le Comunicazioni sociali. Ravasi ha proposto la creazione di una nuova grande Congregazione che sommi quella già esistente per l'Educazione cattolica alla Cultura, e contempli altri satelliti come le Pontificie accademie delle Scienze e delle Scienze sociali, i Musei e la Specola (entrambi adesso sotto l'egida del Governatorato), l'Archivio e la Biblioteca vaticana. Candidato naturale a reggere un superministero come questo può essere lo stesso Ravasi. Un altro nome che si fa largo è quello di padre Antonio Spadaro, direttore della rivista La Civiltà Cattolica, gesuita come Jorge Bergoglio, primo intervistatore di Papa Francesco, e uomo attento al mondo della letteratura quanto ai nuovi media. DILEMMA ECONOMIA - Ancora in discussione il destino dei dicasteri economici. Smentite le frizioni sul controllo dei bilanci fra la neonata Segreteria per l'Economia del cardinale George Pell e Propaganda Fide del "Papa rosso" Fernando Filoni, chi guiderà in futuro le finanze vaticane? Il dilemma riguarda se i vari altri organismi che godono di disponibilità finanziaria (come Segreteria di Stato, Propaganda Fide, Chiese orientali, Dottrina della fede, Apsa e Governatorato) riusciranno a conservare le loro prerogative. UN UFFICIO PER L'AMBIENTE - Emerge un nuovo settore che riguarda «la salvaguardia del creato, visto da un punto di vista non solo naturalistico ma anche dell'ecologia umana e sociale». L'intenzione di Francesco è di creare un sottodicastero dedicato
all'Ambiente, da far confluire in uno dei due nuovi poli in gestazione, ma comunque dotato di un certo peso. UN CANTIERE APERTO - I lavori della riforma non termineranno prima del 2016. «È un cantiere aperto», commenta il portavoce papale, padre Federico Lombardi. Non è chiaro il destino di altri dicasteri: come quello per il Dialogo interreligioso, o per la Nuova evangelizzazione, guidato da monsignor Rino Fisichella e ultimo ministero vaticano della storia, creato dal predecessore di Francesco, Benedetto XVI. MENO CARDINALI - Meno ministeri significa meno cardinali in Curia, come ha detto ieri monsignor Marcello Semeraro, segretario del C9. Ma questo potrebbe portare in futuro resistenze al Papa, si commenta Oltretevere. Persino dai suoi sostenitori, una volta visto diminuire il loro potere alla testa di dicasteri destinati, presto, a scomparire. AVVENIRE di sabato 14 febbraio 2015 Pag 3 Sentirsi interpellati dalla Parola di Paola Bignardi L'omelia che salva e non stanca Quando nell’esortazione Evangelii Gaudium abbiamo letto ciò che Papa Francesco scrive a proposito dell’omelia, ci siamo sentiti interpretati sia nell’insofferenza che proviamo ascoltando certe prediche sia nella gioia che suscitano in noi altre omelie che alimentano la nostra vita spirituale, suscitano la preghiera, svegliano nel cuore riflessioni e propositi di bene. Ora che quei pensieri hanno trovato una sistemazione organica nel Direttorio omiletico presentato in Vaticano martedì possiamo sperare in una predicazione che dica in modo essenziale il Vangelo e parli il linguaggio del nostro tempo? Qualche volta dobbiamo ammettere che non solo certe omelie ci hanno messo in imbarazzo ma che abbiamo sperato che i nostri figli o i nostri nipoti non fossero a Messa quel giorno, per non essere impegnati, a casa, in discussioni interminabili nelle quali saremmo stati a corto di argomenti. Ma questi sono casi limite. Più frequentemente ci capita di ascoltare omelie che sono inutili, che non fanno che ripetere con scarsa efficacia la pagina della Scrittura ascoltata, senza riuscire a far cogliere di essa l’anima e il rapporto con la nostra vita di tutti i giorni. Sono soprattutto tre i difetti che rendono inutile la predicazione e faticoso l’ascolto. Ci sono omelie che costituiscono divagazioni su temi che poco hanno a che vedere con la Parola che viene proclamata. Sono limiti che anche il Direttorio indica. E poi vi sono omelie astratte e lontane dalla vita, che offrono spunti dottrinali talvolta interessanti, più spesso fuori contesto, difficili da accettare, perché la dottrina, soprattutto quella che riguarda aspetti morali o questioni sociali, avrebbe bisogno di essere posta in relazione con la vita concreta delle persone, con le loro situazioni, con i loro drammi. Enunciata in maniera fredda e distaccata, rischia di apparire persino violenta e di generare distanza; senza considerare il disagio che si prova quando si ascoltano ad esempio valutazioni della situazione politica, che riguardano quindi aspetti opinabili, su cui sarebbe necessario almeno poter discutere... Ma l’omelia implica una comunicazione unidirezionale. E allora ci si agita sulla sedia, e si cerca di pensare ad altro. E in fondo ci resta il sapore amaro di un appuntamento mancato con la Parola. Poi ci sono le omelie che parlano un linguaggio di altri tempi e che sembrano portarci in una dimensione temporale diversa da quelle quotidiana. Gesù ha spiegato i misteri del Regno ricorrendo alle immagini della vita dei suoi ascoltatori: la semina, la pesca, il banchetto, la famiglia... Ha usato parole piene di umanità, dense, concrete, semplici. E ha affascinato perché in esse le persone hanno colto verità, autenticità, interesse per la loro situazione. Che cosa può capire della vita cristiana un giovane che sente parole come salvezza, redenzione, intercessione, offerta? Solo traducendo queste parole nella realtà umana che esse interpretano, solo riportandole alle dimensioni esistenziali che contengono, potranno risultare comprensibili. Solo chi è aiutato, ad esempio, a riconoscere nella sua vita l’esperienza di essere perduto può comprendere cosa significa essere salvato. Ci sono alcuni preti le cui celebrazioni sono affollate: sono quelli che sanno coinvolgere con il loro linguaggio vivo, semplice, umile, umano. Personalmente, sono soprattutto due le caratteristiche che cerco in un’omelia: il suo radicamento nella Parola di Dio annunciata e la sua umanità. Non mi interessano divagazioni sull’attualità: le sento, se voglio, in molti altri luoghi. Mi interessa essere aiutata a stare in ascolto del Signore che parla a me, alla sua Chiesa, al mondo intero. Non mi interessa ripassare il catechismo, mi interessa sentirmi interpellata dal Signore e
dal suo Vangelo, essere aiutata a capire che la sua Parola è anche per me, oggi, nella situazione concreta in cui mi trovo. E la illumina, o mi sostiene nel portarne l’oscurità. E poi si vorrebbe sentire una parola carica di umanità, di passione per la vita, di attenzione a ciò che passa nelle giornate ordinarie. Ogni omelia dovrebbe darci in qualche modo l’emozione di quelle parole del Concilio: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce...» e farci respirare il profumo del Vangelo. Allora ogni celebrazione sarà veramente annuncio di una notizia buona: che nel Signore Gesù la vita raggiunge la sua pienezza, e vale veramente la pena di essere vissuta. Ogni domenica la Chiesa ha la possibilità di far risuonare questo Vangelo per migliaia e migliaia di persone: non può sprecare questa opportunità. CORRIERE DELLA SERA di sabato 14 febbraio 2015 Pag 23 Il cardinale George Pell: "In Vaticano 1,4 miliardi extra bilancio. Servono più soldi per aiutare i poveri" di M. Antonietta Calabrò Cardinale Pell, lei ieri mattina ha svolto una Relazione davanti al Concistoro con il Papa per illustrare un anno di lavoro sulle finanze. I 186 cardinali erano d’accordo o no? «C’è stato un entusiasmo vero. Posso dire che il consenso è stato generale, anche se non la totalità del consenso. Un ben noto cardinale mi ha detto che è stato un giorno importantissimo perché per la prima volta tutti hanno ricevuto una descrizione completa che noi crediamo accurata della situazione economica della Santa Sede, da parte mia, del cardinale Reinhard Marx, di Joseph Zahra e del presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu. Fino a quattro mesi fa alcuni volevano credere che di fatto, cioè sul serio, non sarebbe cambiato niente». Quindi, resistenze? «Se vogliamo utilizzare una terminologia “politica”, i cardinali di tutti gli schieramenti (sinistra, destra, centro) sono stati quasi tutti d’accordo con questo lavoro». Quasi tutti? Il cardinale Napier ha detto che alcune grosse porzioni della Curia hanno fatto resistenza. Ha parlato di Propaganda Fide... «Io direi meglio che è stata una piccola porzione della Curia che ha fatto un tentativo di una grossa resistenza. Certamente ci sono alcuni della Segr eteria di Stato e forse del Governatorato che hanno dubbi sostanziali sulla riforma, ma fino a qualche settimana fa c’è stata una forte cooperazione da parte di Propaganda Fide». Le nuove linee guida in materia finanziaria servono a razionalizzare? «Non solo razionalità ed efficienza. Ma onestà e trasparenza. Per essere chiari: non si deve rubare e non si deve sprecare il denaro. Non vogliamo stravaganze e sprechi. Se facciamo bene le cose ci sarà più denaro per il lavoro della Chiesa e per aiutare i poveri e chi soffre». Lei ha affermato che in Vaticano c’erano centinaia di milioni extrabilancio... «Non erano fondi illeciti o illegali. Ma la citazione dimostra che non sono esagerato quando parlo, perché ho scritto di qualche centinaia di milioni. Invece ieri al Concistoro ho spiegato che alla data odierna ci sono 442 milioni di assets addizionali nei dicasteri (che entreranno nei bilanci 2015), ed essi si vanno ad aggiungere ai 936 che già avevamo individuati in un primo momento». Quasi un miliardo e quattrocento milioni ? «Sì. Direi, qualcosa di sostanziale. Queste informazioni ce le hanno mandate e hanno firmato che le cifre erano corrette. Nessuno conosceva l’esatto ammontare di questi fondi. Anche la Segreteria di Stato non sapeva che non era la sola ad avere da parte, per i tempi cattivi, tanto denaro». I bilanci della Santa Sede sono in salvo? «La Cosea (organismo d’inchiesta, ndr) ha messo in evidenza che da qui a dieci anni, per le pensioni esiste un deficit di 700-800 milioni. Considerando la fluttuazione dei tassi di interesse il deficit potrebbe essere addirittura maggiore». In generale, c’è una resistenza alle riforme del Papa? Alla sussidiarietà, alla devoluzione verso la periferia, al decentramento della Curia? «Per discutere utilmente bisogna dare alcune definizioni. Che significa sussidiarietà? Collegialità? Comunione? Abbiamo appena cominciato a parlare». Resistenze o no?
« Nel sistema dell’autorità della Chiesa ci sono solo due cose di diritto divino: il ruolo petrino (il Papa è il successore di Pietro), e il fatto che i singoli vescovi sono successori degli apostoli. Le Conferenze episcopali sono molto utili dal punto di vista organizzativo, ma sono qualcosa di sociologico. Un Concilio universale, invece, è un’altra cosa. Così come le teologie sono tante e la dottrina è una. La Congregazione della Dottrina della Fede sarà sempre essenziale, perché è lo strumento primario del Successore di Pietro per mantenere una sana dottrina». Lo Ior come va? «De Franssu va bene e il board è composto da persone di primissimo ordine, penso a Sir Michael Hintze, al cileno Mauricio Larrain, all’italiano Carlo Salvatori che è bravissimo...» L’ambasciatore italiano presso la Santa Sede ha ricordato che ci sono ancora problemi finanziari con l’Italia... «Risolveremo anche questo, magari non oggi, ma in un prossimo futuro». IL FOGLIO di sabato 14 febbraio 2015 Pag 1 Se le parole del Papa sono stampate su un cartello islamista che condanna la nostra libertà d'espressione di Giuliano Ferrara Non era una gaffe, quella di Papa Francesco sulla "normalità" della risposta violenta alle offese verso ciò che abbiamo di più caro (il dire male di tua madre, il pugno come risposta eccetera). Lo osservammo qui subito dopo, spaventati per ipotesi più sinistre di un rivelatore incidente di linguaggio, di un lapsus. Vuoi vedere che il capo della chiesa cattolica intende coscientemente fiancheggiare la repulsione islamica verso una nostra libertà occidentale, laica, e sceglie di mettersi da quella parte con la metafora del pugno, che insieme addomestica e giustifica il funzionamento del fucile a pompa di Charlie Hebdo? Purtroppo avevamo ragione, e ne è seguita una tragica prova. Nel corso di una manifestazione a Londra, indetta contro il diritto alla libera espressione della critica satirica delle religioni, un giovanotto issato sulla folla inalberava un cartello con su scritto: "Se parli male di mia madre ti darò un pugno. Firmato Pope Francis". La cosa ha avuto un microscopico rilievo nell' informazione, ma è enorme. E' un marchio madornale di significato su un atto verbale autorevole del Papa. Gli islamici sono gente seria, credente, tenace. Non accettano che si mettano in burla il Dio in cui credono e il suo Profeta Maometto. Non perdonano, come si è visto con la strage del 7 gennaio scorso nella redazione di un giornale satirico di Parigi. Come si è visto con Rushdie e altri atti di persecuzione, non soltanto diretti a reprimere con la morte l'irrisione della religione, condanne della semplice critica per non dire dell' apostasia. Ma non è questione di fanatici isolati, combattenti islamici privi di un sostegno nella umma, nella comunità di cultura e di fede e di legge civile che è la moschea universale. Si sono moltiplicate in queste settimane, dalla Cecenia a Londra, nei paesi arabi, dovunque sia in vigore la legge coranica, Europa compresa, manifestazioni di ira funesta. In un clima da perfetta "Sottomissione" uno psicoanalista spiegava ieri sul Venerdì di Repubblica che la libertà è una miccia d'innesco dello scontro di civiltà, che l'autocensura politicamente corretta nel mondo anglosassone è superiore alle pretese libertine degli intellos parigini, che gli islamici non vogliono ridere delle nostre vignette perché "sono convinti - non sempre infondatamente - di avere nella borsa meno soldi ma più dignità". Dopo la epica sbornia volterriana del "JeSuisCharlie", a freddo, o meglio nel tiepido del poco tempo ch'è passato, viene fuori la verità corretta. La loro violenza difende la loro dignità. Questa può essere una libera opinione, per quanto cinicamente l'argomento disattenda il dettaglio che non si sta giudicando la satira (che è volgare, forse anche insopportabile) ma la reazione stragista contro di essa. Ma il bollo predicatorio del capo della chiesa, che nei cartelli dei manifestanti diventa una seconda lapide sulla sepoltura dei vignettisti, è affare molto più imbarazzante. Mettiamo da parte la celebrata misericordia, che è uscita di scena e si è trasformata in vendetta canonica a favore di telecamera. Fior di gentiluomini laicisti e secolarizzati avevano salutato l'avvento di un Papa progressista, in sintonia con il moderno, capace di restituire l' azzardo spirituale della libertà personale a una religione compressa in forme inumane dalle norme moralistiche di papi teologi. Ci ritroviamo con un cartello che legittima la strage a difesa della dignità della fede, firmato Pope Francis.
Pag II Il rebus Pio di Matteo Matzuzzi Papa Pacelli, dalla leggenda nera della connivenza con Hitler alla rivalutazione d'oggi. Che passa per gli archivi e per il cinema Meschina è stata la storia con Pio XII, il Pastor angelicus, il principe diventato Papa che resse la chiesa santa cattolica e apostolica durante la prova più tremenda, quella in cui sull'Europa le croci uncinate oscuravano quella di Cristo. Tirato da una parte e dall'altra, divinizzato da chi lo ha eretto a bastione contro tutto ciò che di moderno poteva intaccare la sacralità dell'universa ecclesia (quella volta ancora militans) e mostrificato da chi lo vedeva come l'ultimo e solitario custode di un mondo che non c'era più, che sapeva di stantìo come i fanoni e le lunghe falde, i broccati e i riti eterni sedimentati in secoli di gloriosa storia. Morto in una notte d'ottobre, lontano da Roma, con l'archiatra che fotografava e vendeva ai giornali le foto di lui agonizzante e il corpo che subito si disfaceva. Triste epilogo per l'uomo che per quasi vent'anni aveva regnato, spesso in solitudine, sulla chiesa. La sua tomba, un semplice sarcofago, è lontano da tutte le altre sepolture, tanto che non rientra neppure nel circuito delle visite guidate. Ci vanno ancora a pregare, a dire messa. L'ha fatto, qualche cardinale, anche prima del Sinodo dei vescovi sulla famiglia dello scorso ottobre. Un epilogo assai contrastante con lo sfarzoso e barocco corteo che dalle porte di Roma scortò il corpo del Papa fino in Vaticano, con un carro funebre addobbato in una maniera che a Pio XII, abituato a risparmiare su tutto - perfino sulla carta su cui annotare a matita le omelie e i discorsi poi ripetuti a memoria - avrebbe fatto probabilmente ribrezzo. Ma il peggio, per Pacelli, sarebbe arrivato dopo. Sulla pièce Il Vicario, scritta dal drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth nell'anno 1963, fu costruita la leggenda nera sul Papa connivente con Hitler. Così, i suoi presunti silenzi si sono subito trasformati in assensi alla persecuzione degli ebrei, e pazienza se quanto avvenuto in Olanda nel 1940 avrebbe dovuto rendere più comprensibile l'atteggiamento del Pontefice. Dinanzi alla scritta "Voor Joden verbo den", "ingresso proibito agli ebrei", fatta mettere su ogni edificio pubblico, i referenti delle locali comunità calviniste, cattoliche e luterane decisero di ribellarsi. Con una nota comune fatta leggere dai pulpiti d'ogni chiesa, protestarono contro l'infame caccia al giudeo. Il risultato di quell' azione fu che da Berlino giunse l'ordine di far sparire non solo gli ebrei di sangue, ma anche quelli battezzati. E nel più breve tempo possibile, possibilmente senza lasciare alcuna traccia. Eppure, il Papa avrebbe dovuto parlare, mise nero su bianco il vaticanista ed ex sacerdote Carlo Falconi, che ne "Il Silenzio di Pio XII" (Kaos) giunse a scrivere che "il fatto che Pio XII tacque non per paura ma per rispettabili, anche se non sufficienti, motivi, è tale da evitare un giudizio infamante nei suoi riguardi, anche se naturalmente non lo libera da una incontestabile responsabilità". Ora a rendere giustizia a Pacelli arriva un film-inchiesta. "Shades of Truth", Sfumature di verità, sarà presentato in anteprima mondiale il 2 marzo - anniversario della nascita e dell' elezione al Soglio di Pietro del Pontefice romano - oltretevere per poi andare a Cannes (fuori concorso) e a settembre negli Stati Uniti in occasione dell' Incontro mondiale delle famiglie a Philadelphia. Prima di approdare in televisione, sarà proiettato in centinaia di sale cinematografiche, 335 solo in Italia. L' ambizione è di quelle forti: raccontare tutta la verità su Eugenio Pacelli. La conclusione, altrettanto netta: Pio XII fu "lo Schindler del Vaticano". La locandina è d'impatto, con il Papa di bianco vestito e la stella di David, gialla, cucita sul petto. La regista Liana Marabini s'è rifatta all' immensa produzione di sir Martin Gilbert, storico britannico - già biografo di Winston Churchill morto due settimane fa, che da ebreo fu il primo a togliere il fango accumulatosi sulla memoria del Pontefice: "Pio XII - diceva Gilbert in un'intervista del 2012 - ha ritenuto, a mio parere correttamente, che l'intervento diretto avrebbe avuto conseguenze disastrose nelle forme di rappresaglia e un'escalation di persecuzione. Scomunicando Hitler non avrebbe ottenuto altro che aumentare la persecuzione dei cattolici sotto la loro sfera di controllo". Quanto al ruolo del Vaticano, il docente di Storia dell' Olocausto all'University College di Londra, non aveva dubbi: "Quando la strage divenne evidente, il Vaticano incoraggiò i rappresentanti pontifici in Europa a compiere ogni sforzo a favore dei perseguitati. Ebrei inclusi". E' proprio la cattiva fama di Pio XII, sedimentata nei decenni, a fare da perno alla produzione. E' da qui che un giornalista italoamericano di origine ebraica, David Milano, convinto che il Papa fosse un complice di Hitler, indaga su quanto avvenne in quegli anni. E scopre, grazie anche all' aiuto di un sacerdote amico,
Roberto Savinelli, che quella convinzione era falsa. Conosce alcuni sopravvissuti alla Shoah, che hanno avuto salva la vita grazie all' intervento di Pio XII. Emblematica è la vicenda del rabbino capo di Roma Israel Zolli, che si farà battezzare alla fine della guerra e prenderà come nome quello di Eugenio. Racconta la regista che dietro i novanta minuti di pellicola ci sono più o meno centomila pagine di documenti sfogliati e studiati, centinaia di testimonianze poco note o del tutto inedite di ebrei sopravvissuti e salvati dalla deportazione grazie al Vaticano pacelliano. Commentano, i critici e i dubbiosi, che dell'azione silenziosa di Pio XII non v'è alcuna prova scritta. Solo testimonianze orali non si sa quanto vere e credibili. Gli archivi sono parzialmente aperti, ma neanche da lì, fino a oggi, è giunta la risposta definitiva e decisiva su quegli anni. E tutto ciò rallenta l'iter canonico del processo di beatificazione. Francesco lo sa, e nel corso della conferenza stampa aerea tenuta durante il viaggio in Terrasanta, lo scorso maggio, ha ammesso che dire oggi se e quando sarà elevato all'onore degli altari è impossibile: "La causa di Pio XII è aperta. Io mi sono informato: ancora non c' è nessun miracolo, e se non ci sono miracoli non può andare avanti. E' ferma lì. Dobbiamo aspettare la realtà, come va la realtà di quella causa, e poi pensare di prendere delle decisioni. Ma la verità è questa: non c'è nessun miracolo ed è necessario almeno uno per la beatificazione. Questo è come oggi è la causa di Pio XII. E io non posso pensare: 'Lo farò beato o no?', perché il processo è lento". Il rabbino Abraham Skorka, amico di lunga data di Jorge Mario Bergoglio, un anno fa aveva rivelato che l'intenzione del Papa argentino sarebbe stata quella di aprire tutti gli archivi prima di dar seguito alla causa di canonizzazione. Fu padre Federico Lombardi a precisare che "l'orientamento della Santa Sede, seguito da decenni, è quello di procedere all'apertura degli archivi e dei diversi fondi" relativi al pontificato pacelliano. La novità di queste ultime settimane è che forse, in realtà, qualcosa di concreto esiste e a dare ampio spazio alla scoperta è stato l'organo ufficiale della Santa Sede, l'Osservatore Romano. Tra le carte degli archivi di due monasteri romani, quello dei Santi Quattro Coronati e di Santa Susanna, sarebbe spuntato infatti un documento che confermerebbe le numerose testimonianze raccolte nel corso dei decenni. Secondo Antonello Carvigiani, che ha pubblicato le conclusioni della sua ricerca sull' ultimo numero della rivista Nuova storia contemporanea, sembra evidente ipotizzare l'esistenza di "un ordine scritto o orale, ma ugualmente consistente in una formula standard, fatto arrivare a tutte le case dei religiosi e delle religiose, alle parrocchie e a ogni struttura ecclesiale presente a Roma affinché aprano le porte per dare rifugio ai ricercati". Non è tutto, perché "gli archivi dei due monasteri, relativi al periodo ottobre 1943 -giugno 1944, se messi a confronto, rivelano molte consonanze, tanto da far pensare che quei brani derivino da una fonte comune". E la fonte che chiede di "aprire la clausura e di nascondere tutti i ricercati dai nazisti, soprattutto gli ebrei" sarebbe "autorevolissima". Da altri riscontri, pare che all'epoca fosse stato "preparato in centinaia di copie e distribuito in tutte le istituzioni religiose di Roma un biglietto scritto". E questo non sarebbe altro che la "velina" della segreteria di stato di cui parlò otto anni fa il cardinale Tarcisio Bertone e che mai fu divulgata. In pratica, quel biglietto potrebbe essere proprio la circolare mai resa nota firmata dal Pontefice il 25 ottobre del 1943. La pista era già stata indicata tempo fa da padre Peter Gumpel, il relatore della causa di beatificazione di Pacelli. Intervistato nell' autunno del 2013 da Avvenire, il gesuita ricordava "le missioni ufficiose tra il 1943 e il 1944 assegnate alla fidata suor Pascalina Lehnert. Si pensi - diceva Gumpel - a quanto Pacelli fece prima della deportazione degli ebrei di Roma, il 16 ottobre 1943. O al fatto che Pio XII si dichiarò disposto a recuperare dell'oro da consegnare all'allora rabbino capo di Roma Israel Zolli. O la protesta informale che fece all'ambasciatore tedesco Ernest von Weizsäcker per la deportazione degli ebrei nel 1943: una testimonianza da me raccolta dalla viva voce della principessa Enza Pignatelli d'Aragona". Il relatore faceva poi un cenno agli archivi dei monasteri romani, e al contenuto fino pochi anni fa non troppo esplorato: "Nel 2009 è stata rinvenuta una nota del novembre 1943 in cui Pacelli 'chiedeva e ordinava' alle monache agostiniane dei Quattro Coronati a Roma di dare ospitalità agli ebrei perseguitati. Tanti esempi della carità nascosta e silenziosa ma efficace del Pastor angelicus, di cui mai si parla". Presentando nel 2007 il libro del vaticanista Andrea Tornielli "Pio XII. Eugenio Pacelli, un uomo sul trono di Pietro" (Mondadori), il cardinale Bertone citava la testimonianza di Joseph Bancover, tra i capi del movimento sionista laburista, pubblicata il 23 luglio del 1944 sul quotidiano Hahajal Haivri: "Desidero raccontarvi della Roma
ebraica, del gran miracolo di avere trovato qui migliaia di ebrei. La chiesa, i conventi, frati e suore - e soprattutto il Pontefice - sono accorsi all'aiuto e al salvataggio degli ebrei, sottraendoli agli artigli dei nazisti e dei loro collaborazionisti fascisti italiani. Grandi sforzi, non scevri da pericoli, sono stati fatti per nascondere ed alimentare gli ebrei durante i mesi dell' occupazione tedesca. Alcuni religiosi hanno pagato con la loro vita per quest'opera di salvataggio. Tutta la chiesa è stata mobilitata allo scopo, operando con grande fedeltà. Il Vaticano è stato il centro di ogni attività di assistenza e salvataggio nelle condizioni della realtà del dominio nazista". Se il Vicario di Hochhuth ha fatto da apripista alla leggenda nera, alcune accuse contro Pio XII risalivano addirittura all'epoca precedente la guerra. Basta sfogliare il libro dell' americano David Kertzer ("Il Patto col diavolo", Rizzoli) per cogliere qua e là appunti non certo benevoli sulla figura dell' ascetico Pacelli: "Quando partì per Monaco, occupò due scompartimenti del treno, uno per sé e un altro per le sessanta casse di cibo che si portava", si legge. Intervistato dall' Osservatore Romano nel 2008, Paolo Mieli osservò che "il primo a parlare delle titubanze di Pio XII fu infatti Emmanuel Mounier che, nel maggio del 1939, rimproverò garbatamente un silenzio che metteva in imbarazzo migliaia di cuori: quello di Pio XII in merito all' aggressione italiana all' Albania. Della stessa natura fu il secondo indice puntato da parte di un altro intellettuale cattolico francese, François Mauriac, che nel 1951 lamentò, nella prefazione a un libro di Léon Poliakov, che gli ebrei perseguitati non avessero avuto il conforto di sentire dal Papa condanne con parole nette e chiare per la 'crocifissione di innumerevoli fratelli nel Signore'. Va d'altra parte ricordato - notava ancora Mieli - che lo stesso libro - uno dei primi testi importanti sull' antisemitismo avanzava delle giustificazioni a quei silenzi. In sostanza, scriveva l'ebreo Poliakov, il Papa era stato silente per non compromettere la sicurezza degli ebrei in modo maggiore di quanto non fosse già compromessa". Padre Gumpel - che metteva in evidenza il grande ripensamento che di Pacelli si sta avendo in America del nord - si dice convinto che "presto o tardi" Pio XII sarà elevato all' onore degli altari: "So che a un certo punto Dio interviene anche in queste faccende. Sono però convinto di una cosa, e cioè che Pio XII meriti la santificazione non meno di altri pontefici tra i canonizzati".
Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE di domenica 15 febbraio 2015 Pag 2 Le mie battaglie di maestra e madre tra bimbi adultizzati (e adulti bimbi) (lettere al direttore) Caro direttore, le scrivo sull’onda delle emozioni, dopo aver letto l’editoriale di Ferdinando Camon «Imparate anti-maestre» su un caso che coinvolge delle insegnanti venete (“Avvenire” di giovedì 12 febbraio 2015). Oltre alla naturale compassione che muovono storie come questa e alla condanna di comportamenti che – se veri – sarebbero inaccettabili, vorrei con grande umiltà farla partecipe dei miei sentimenti. Ho letto le due colonne dello scrittore tutte d’un fiato, di ritorno da una mattinata a scuola. Sono un’insegnante anch’io o, per dirla come si usava, una maestra di scuola elementare. Sono belle parole quelle scritte in quel commento, ma non sono molti i bambini e le bambine che oggi vengono trattati a casa come tesori preziosi, protetti, coccolati, amati. Molti di più sono i bambini “adultizzati”, sia per le esperienze alle quali sono esposti senza filtri e protezioni (cene davanti al telegiornale, tra notizie di morti, guerre, profughi, rapimenti e decapitazioni o gossip di bassa lega) sia per i modi di relazione familiare. Bambini allevati “come bestioline” in un sistema di premi e punizioni che li porta a non interiorizzare e rispettare alcuna regola, salvo l’essere sotto minaccia di chissà quale castigo o allettati da chissà quale “dono”. Le dirò che non è facile dedicare a ciascuno il tempo e l’attenzione che richiede, sostenere la stima di sé, gestire emozioni e paure, desideri di protagonismo, comportamenti al limite (a volte oltre) dell’accettabile e fare in modo che la lezione proceda decorosamente. E forse è proprio perché è siamo considerate, come scrive Camon, «altre-mamme», un prolungamento di quelle che già hanno a casa, che poi in classe i bambini non reggono la frustrazione di non potersi alzare, sedere e rotolarsi come vogliono. Per farla breve, l’altra mattina due
bimbi, per essere stati ripresi (senza urli e strattonamenti) proprio perché pretendevano di alzarsi e parlare a loro piacimento durante la lezione, hanno buttato tutto ciò che avevano sul banco per terra, hanno (loro sì) gridato fino a farsi andar via la voce, minacciato di morte i compagni, pianto e scalciato. E, sì, anche a me veniva da piangere e avrei voluto la mia di mamma, anche se di anni ne ho quaranta. Mi chiedo se forse non sono più capace di fare questo lavoro che amo e per il quale mi sono sacrificata tanto, e tremo all’idea di altri ventisette anni così. Forse se lo starà già chiedendo, e allora le dico subito: le famiglie sono informate di questi comportamenti, ma per loro va tutto bene: sono io che non li so gestire e devo pure stare zitta, perché prendo 33.000 euro all’anno (lordi) e sto a casa due mesi d’estate (ci vogliono morte?). A fine giornata, una volta a casa, dovrei recuperare forza, lucidità e sorriso per i miei figli, per farli sentire preziosi e amati... Scusi lo sfogo. Faccia di questa lettera ciò che vuole, ma le chiedo la cortesia di non indicare elementi che possano rendere riconoscibile me o i miei alunni. Grazie. (C. T., maestra) Risponde il direttore Marco Tarquinio: Sono figlio – il primo di quattro – di una maestra come lei, cara signora. Anche per questo, ma non solo per questo, ho letto il suo “sfogo” con sincera partecipazione e profonda simpatia. Sentimenti che provo per tutti coloro che affrontano praticamente ogni giorno la grande «questione educativa» che si pone nel nostro Paese, ne sanno il senso, ne comprendono l’urgenza e l’accettano come concreta sfida. Sentimenti rafforzati dalla consapevolezza dei troppi che, sia da genitori sia in altri ruoli di responsabilità verso i più giovani, a questa sfida invece si sottraggono. Per insufficiente comprensione, per indifferenza, per pavidità. Vorrei, perciò, riuscire a dirle quanta bella passione “magistrale” ho trovato nelle sue parole, anche in quelle più amare e apparentemente più sfiduciate. Vorrei farle sentire quanto apprezzo questa sua reazione forte allo stimolante editoriale di Ferdinando Camon che, da par suo (e anche da genitore e nonno che non ha mai abdicato ai naturali doveri educativi propri di queste condizioni), aveva ragionato – a partire da un caso di cronaca ancora da chiarire – sul ruolo di chi insegna alle scuole elementari e sul rischio di capovolgere il senso di una professione che, per me che l’ho vista vivere e attuare così da mia madre, con grande lucidità e anche con sofferenza, è – in sé – una delicata e decisiva missione. Non voglio fare la chiosa di ciò che mi ha scritto, gentile e cara amica, ma dirle grazie per ciò che fa ogni giorno nella nostra scuola italiana, tra difficoltà di cui farebbe a meno, e riconoscimenti (morali e materiali) che le sono negati. Ma non rinuncio a tenermi stretta un’idea che lei articola con rapida efficacia e che, non da oggi, trovo particolarmente acuta e utile: quella dell’«adultizzazione» precoce e aggressiva di troppi bambini. È uno dei paradossi di un tempo in cui tanti adulti amano, invece, bambineggiare o consegnarsi a una dimensione da eterni ragazzi, che molto desiderano (cioè, persino imprecando, rivendicano) e poco e nulla trasmettono (cioè, con generosità, offrono). Vale la pena di rifletterci, per cambiare. AVVENIRE di sabato 14 febbraio 2015 Pag 9 Separati, il dramma ignorato. Troppi padri ridotti alla fame di Luciano Moia "Il 15% sopravvive con meno di cento euro al mese". I risultati della prima ricerca che dà voce ai protagonisti La separazione come anticamera della precarietà, come condizione che apre la strada a una vita comunque più difficile, come punto di partenza per un isolamento crescente, per una situazione esistenziale più fragile, per uno sfaldamento progressivo di tutte le relazioni. Con l’ex partner, naturalmente, ma anche con i figli, con le rispettive famiglie d’origine, con gli amici. Da almeno un decennio a questa parte l’esperienza diretta di migliaia di persone si è incaricata di smentire progressivamente l’assunto mediatico secondo cui 'separarsi è bello'. Atroce banalità di una certa vulgata pseudo progressista che adesso viene cancellata anche dai dati della prima ricerca mai realizzata in Italia con il contributo diretto delle associazioni di separati. Non elaborazioni teoriche né saggistica ideologica. Ma dati concreti, vita vissuta, sofferenze reali e brucianti delle persone, ansie, attese e delusioni tradotte in oltre 300 pagine di dati e di considerazioni. Ne emerge una realtà filmata in presa diretta, con tutto il peso di situazioni quasi insostenibili, all’interno di una cornice in cui parlare di emergenza sembra quasi un
beffardo eufemismo. Difficile descrivere in modo diverso, tra tanti altri dati, la situazione di autentica povertà, anzi di palese indigenza, in cui versano i padri separati. Un terzo di loro (30,6%), pagato l’assegno di mantenimento, dichiara di poter contare su un reddito residuo mensile che va dai 300 al 700 euro. Il 17% dai 100 ai 300 euro. E c’è addirittura un 15,1% a cui rimangono in tasca meno di 100 euro al mese, poco più di tre euro al giorno per sprofondare in una sopravvivenza da clochard, se non ci fossero le reti Caritas e degli altri enti assistenziali a soddisfare, almeno in parte, i bisogni più immediati. Ma confermato – pur con cifre che nessuno immaginava così drammatiche – l’assioma separazione-povertà, la ricerca promossa dall’Istituto di antropologia per la cultura della persona e della famiglia e realizzata dal Centro di ateneo per studi e ricerche sulla famiglia dell’Università Cattolica grazie alla collaborazione dell’Associazione famiglie separate cristiane e di altre circa 40 associazioni di separati, presenta anche sorprendenti smentite. Non è affatto vero per esempio che la maggior parte dei separati acceda poi al divorzio. Ben il 46,2% dei padri e il 49,6% delle madri afferma di non aver fatto domanda per sciogliere definitivamente il proprio legame coniugale. Un dato che deve far riflettere sulla necessità di accorciare i tempi che devono intercorrere tra separazione e divorzio, come vorrebbe la legge già passata alla Camera nel maggio scorso e oggi in discussione al Senato. Oltre la metà dei separati che hanno accettato di rispondere al sondaggio – è bene ricordarlo – non considera questa legge come un bisogno prioritario, mentre ci sarebbero altri interventi legislativi considerati decisamente più urgenti. Quelli per esempio, come la mediazione familiare, finalizzati non tanto ad assestare il colpo di grazia al rapporto coniugale in tempi quanto più rapidi possibile, ma a verificare invece le possibilità di ricostruirlo. La ricerca conferma tra l’altro che non esistono tentativi di conciliazione da parte del giudice. La durata media delle udienze? Quindici minuti, ad indicare, come sottolineato dalla maggior parte degli intervistati, che quando si arriva in tribunale «i giochi sono già fatti». Il tempo di due firme e, forse, della lettura affrettata di un paio di articoli del codice. Sui provvedimenti successivi però le opinioni di padri e di madri divergono profondamente. Mentre un terzo degli uomini ha dovuto subire o accettare qualche provvedimento (consulenza tecnica d’ufficio, indagine psico-sociale, ecc), il 90 per cento delle donne non è incorsa in alcuna decisione del genere. Anche per quanto riguarda il rapporto con i figli le esperienze di padri e di madri sono diametralmente opposte. Mentre il 72,7% delle donne separate vede tutti i giorni i propri figli, questa possibilità è riservata solo al 9.2% degli uomini. La maggior parte dei padri (41.9%) dichiara comunque di poter incontrare i figli «più volte alla settimana», ma c’è un 14,2% che racconta di riuscirci solo «più volte al mese» e addirittura un 13,9% che ammette con sconforto «non ho mai visto i miei figli nell’ultimo anno». Punto culminante di una povertà relazionale e di una legislazione profondamente ingiusta che rende la vita dei padri separati decisamente peggiore rispetto a quella delle donne. Un quinto degli uomini dichiara di non poter contare su nessun parente e c’è addirittura un 10,7 % che sostiene di non aver nessun amico a causa delle lacerazioni successive alla separazione. Evidente come, in questo vuoto di rapporti, l’appartenenza associativa sia spesso l’unico approdo per tanti padri separati, che nella condivisione delle esperienze, cercano soprattutto risposte di tipo informativo, mentre le madri chiedono di socializzare e di scambiare esperienze, anche di fede. La 'militanza' risulta in ogni caso cruciale per tutti gli intervistati. Capacità di mediazione, accoglienza e mutuoaiuto sono elementi che, concludono le ricercatrici, «permettono di affinare la consapevolezza di sé e di sviluppare un atteggiamento di fiducia e di speranza nella realtà sociale e nei propri scopi di vita». Almeno per quella sempre più esigua percentuale di padri separati che riesce a tirare avanti fino alla fine del mese. Ogni anno in Italia circa 90 mila coppie decidono di porre termine al proprio progetto di vita arrivando alla separazione. Nello stesso periodo circa 50mila coppie decidono di divorziare, completando l’iter legislativo previsto dalle normative del nostro Paese. Sommando queste a quelle si arriva a circa 280mila persone che, ogni dodici mesi, vivono sulla propria pelle il dramma della disgregazione familiare. Eppure nel nostro Paese non c’era ancora uno studio specifico sulle condizioni di vita delle persone separate. Uno studio che, partendo dalle esperienze dirette delle persone coinvolte in questa situazione, potesse descriverne i bisogni, le difficoltà, le speranze, le dinamiche. La ricerca che vede la luce in questi giorni – nata dalla collaborazione tra l’Istituto di
antropologia per la cultura della persona e della famiglia e l’Associazione Famiglie separate cristiane – è il primo contributo che va in questa direzione. Il lavoro è stato condotto dal Centro di ateneo studi e ricerche sulla famiglia della Cattolica che ha attivato un’équipe di ricerca coordinata da Giovanna Rossi e composta da Anna Maria Bertoni, Elisabetta Carrà e Raffaella Iafrate. È stato predisposto un questionario sottoposto a circa 1.000 genitori separati, aderenti a una quarantina di associazioni. Non si tratta quindi di un lavoro che fotografa l’intera popolazione dei separati italiani (obiettivo impossibi-le), ma di una scelta a campione, comunque di grande significato. Nella ricerca sui genitori separati c’è un aspetto, solo apparentemente marginale, che riguarda le convivenze. Nel campione indagato la maggior parte dei coniugi – il 78,3% delle donne e il 67,1% degli uomini – arriva alla separazione dopo un matrimonio religioso. E, rispettivamente, l’11,6% e il 13% dopo un matrimonio civile. Ma c’è anche una non trascurabile percentuale di persone – 8% delle donne e 17,4% degli uomini – che decide di porre fine alla propria storia d’amore dopo una convivenza. E addirittura il 2,2% delle madri e il 2,5% dei padri dopo una relazione senza convivenza. Tra coloro che hanno convissuto, oltre la metà (52,4%) avevano deciso di sposarsi ma erano incerti sulla data. C’è poi un 19,2% che avevano già fissato una data e un 22,% che non avevano previsto nulla. Palesemente contrari al matrimonio solo l’1,9% e in attesa di una sentenza di divorzio l’1%. Ora, riaggregando questi dati, si possono trarre due conclusioni. La convivenza in 'prova' – come suggerito anche da altre ricerche – non sarebbe una garanzia di buona riuscita del matrimonio, anzi si potrebbe considerare quasi «predittore di rottura». Anche se per arrivare a questa conclusione – si spiega nelle ricerca – sarebbero necessari altri dati. È vero allo stesso tempo che il desiderio di dare compimento al proprio percorso di coppia con il matrimonio, come espresso dalla maggior parte di coloro che hanno convissuto, confermerebbe la necessità di cogliere, anche nelle convivenze quegli «elementi positivi», sottolineati anche nella Relazione finale del Sinodo straordinario sulla famiglia dello scorso ottobre. Una ricerca pensata, voluta e coordinata per tener fede a un preciso mandato dell’Istituto di antropologia. In particolare la direttiva che indica nella divulgazione, nella formazione e nell’approfondimento a carattere interdisciplinare la cifra caratteristica di un ente che si configura anche come volano delle molteplici attività in campo familiare realizzate da associazioni, aggregazioni, realtà di ricerca, consultori. «In questa prospettiva il ruolo dell’associazionismo, sottolineato dalla ricerca – spiega il presidente Leonardo Salvemini – più che una novità appare una conferma di quanto promosso dal nostro Istituto di antropologia». Come saranno valorizzati i risultati di questa ricerca? Gli spunti sono talmente numerosi che si potrebbero ipotizzare diversi sviluppi. Innanzi tutto altri approfondimenti sempre in area sociologica o psicologica. Vedremo poi se sarà possibile mettere a punto un disegno di legge. Ma non è esclusa neppure una pubblicazione specifica. Tra questi obiettivi rientra anche la formazione? Era uno dei punti fermi indicati dal mio predecessore, l’avvocato Goffredo Grassani, fondatore dell’istituto di antropologia, scomparso nel luglio scorso. Secondo la sua visione, ogni tipo di ricerca doveva costituire lo spunto per una concreta applicazione, anche nell’ambito della formazione. Con grande umiltà ci metteremo su questa strada, attivando tutta quella rete di collaborazioni – università, centri di ricerca, consultori, associazioni – che rappresentano, allo stesso tempo, la risorsa più preziosa e la forza del nostro istituto. Un ruolo di sintesi e di promozione. Sì, sembra che i tempi siano maturi perché chiunque abbia qualcosa di interessante da dire su questi temi possa metterlo sul tavolo. E il nostro Istituto farà appunto da catalizzatore tra le migliori realtà impegnate sul fronte della famiglia. «Questa ricerca nasce da un campione molto particolare. Sono separati, ma anche genitori e appartengono tutti ad un’associazione. Un dato, questo, che se da un lato potrebbe rendere la ricerca un po’ meno 'globale', dall’altro va ad interpellare persone che hanno riflettuto a lungo sulla propria condizione. Da qui il grande interesse per
questo lavoro». Elisabetta Carrà, docente di sociologia della famiglia alla Cattolica, tra le curatrici del dossier, ammette che un’indagine sul campo riserva sempre non poche sorprese. «Tutta la letteratura internazionale ci dice che, nella separazione, la parte debole sono le donne. In Italia i dati che abbiamo raccolto, come l’esperienza empirica, ci dice il contrario. C’è una povertà economica dei padri, che si somma a una povertà relazionale, introvabile in altri Paesi. Pesa sicuramente la crisi, pesa la nostra legislazione, ma non basta». Anche perché la ricerca racconta di donne separate che sembrano in grado di affrontare meglio la ferita della disgregazione. Si mettono in rete, sono più serene, hanno un rapporto migliore con i figli. «La diversità uomo-donna è proprio un punto fermo della ricerca. Anche la loro presenza nelle varie associazione nasce da motivi diversi: cercano solidarietà, amicizia. I padri invece, che hanno alle spalle in misura maggiore, separazioni di tipo giudiziale, cercano soprattutto il modo di affermare i propri diritti». Una differenza sottolineata anche da un’altra curatrice, Anna Maria Bertoni, docente di psicologia della famiglia alla Cattolica di Milano. «Nella ricerca abbiamo visto quanto un genitore, nonostante la separazione, riesca a dare spazio all’altro. Un atteggiamento che in linguaggio tecnico si chiama 'cogenitorialità'. Abbiamo visto anche che i genitori hanno bisogno di essere riconosciuti dall’ex e che la capacità di esercitare ancora insieme, nonostante tutto, il ruolo genitoriale sia legato in maniera stretta al benessere dei figli, soprattutto se minori. Questo vuol dire che la modalità di relazione tra ex-coniugi non è solo 'questione di coppia', ma è 'questione di famiglia', perché il benessere dei figli è necessariamente legato al tipo di relazione di relazione che i genitori hanno tra loro'. «Finalmente qualcuno ci ha ascoltato». Non nasconde la propria soddisfazione l’ingegnere Ernesto Emanuele, presidente dell’Associazione famiglie separate cristiane, di fronte ai risultati della ricerca. «Ho superato gli 80 anni e vivo da quasi trenta l’impegno associativo da separato, al fianco dei separati. Nessuno aveva mai messo in luce in modo così netto e così esplicito il ruolo delle associazioni». Come potrebbe essere valorizzato questo ruolo? Ben pochi di coloro che si occupano di separati conoscono il nostro dramma. Ci sono decine e decine di separati che arrivano a noi dopo aver consultato psicologi e psicoanalisti. Lo scambio di esperienze, la vicinanza e il mutuo-aiuto sono più efficaci di tante analisi. E poi vorremmo poterci esprimere su tutti i processi decisionali che riguardano i separati, un tavolo permanente con le commissioni parlamentari e aiuti regionali abitativi per i separati in difficoltà. La nostra condizione è durissima, ma la legge lo ignora. A cosa si riferisce? Tutta la legislazione sui separati è profondamente ingiusta. Non dobbiamo stupirci se i padri separati italiani sono i più poveri d’Europa. Alla donna toccano ancora, in 8 casi su 10, casa e affidamento dei figli. Ma ora c’è anche di peggio. Parla di un’altra legge? Sì, quella sulla parificazione tra figli legittimi e illegittimi. Tutto giustissimo. Peccato che lì dentro ci sia un paragrafo dedicato alle sanzioni per i genitori collocatari (quasi sempre le madri) che decidono di spostare la propria residenza. Se non danno comunicazione all’altro genitore entro un mese rischiano solo una multa. Ma lei capisce cosa significa per un padre separato ignorare che l’ex moglie ha portato i figli, per esempio, da Milano a Reggio Calabria? Vuol dire non vederli mai più. E non può farci nulla.
Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 12 Don Torta intervistato da Ballarò di m.ch. Usura bancaria, suicidi per la crisi: giovedì assemblea nella parrocchia di Dese Anche le telecamere di “Ballarò” la trasmissione politica condotta su RaiTre da Massimo Giannini sono arrivate fino alla piccola frazione di Dese per ascoltare le parole contro l’usura bancaria del parroco don Enrico Torta. Venerdì il giornalista Alessio Lasta per la
trasmissione di RaiTre ha intervistato l’agguerrito parroco di Dese ma anche Alfredo Belluco e i rappresentanti della Confedercontribuenti Veneto, l’associazione contro l’usura bancaria di cui don Torta è il presidente onorario. L’intervista verrà trasmessa nella trasmissi9one di martedì prossimo. Nell’intervista si sono toccati temi di attualità: i morti causati dalla crisi di molte piccole aziende, l’usura bancaria ma anche il no alle aperture domenicali dei negozi, altra battaglia che impegna Don Torta. Giovedì 19 dalle 20.45 , invece, don Torta ha indetto nella sala del patronato di Dese, a fianco della chiesa della Natività di Maria, una riunione pubblica per parlare proprio delle aperture domenicali e dell'usura bancaria. «Passiamo parola, e cerchiamo di esserci tutti», è il passaparola della parrocchia su Facebook. L’idea della assemblea è arrivata dopo l’ultimo caso di un suicidio in azienda, quello dell’imprenditore mestrino Maurizio Bernardi, i cui funerali a Dese sono stati proprio celebrati dal parroco. L’obiettivo dell’assemblea è quello di mettere assieme gruppi e cittadini per organizzare una manifestazione nazionale di protesta contro le vittime della crisi e per chiedere un serio intervento del governo e delle banche. IL GAZZETTINO di domenica 15 febbraio 2015 Pag 11 Conti in rosso, servizi a rischio. Venezia ha l'acqua alla gola di Davide Scalzotto L’accostamento è impietoso: Venezia rischia di diventare la "Grecia d’Italia". Il Comune che per anni ha beneficiato di una Legge speciale, dei soldi per il Mose, degli introiti di un Casinò, è sull’orlo del baratro, con l’incubo (per ora remoto, ma possibile) di un dissesto dichiarato con tutte le conseguenze del caso. Ancora più impietoso che, mentre la città si ubriaca di Carnevale, una trentina di dipendenti comunali stia occupando da due notti il Municipio per evitare che il dissesto colpisca i servizi e i loro stipendi. L’occupazione proseguirà almeno fino a domani, giorno cruciale, perché in Parlamento nel decreto Milleproroghe dovrebbe essere inserito un decreto "Salva Venezia" promesso dal sottosegretario Graziano Delrio, ma sul quale il premier Renzi non sente ragioni. CITTA’ COMMISSARIATA - Se il Carnevale è l’apoteosi del paradosso e dell’assurdo, la situazione del Comune e della città non è da meno. Venezia è commissariata: lo è il Comune da più di sette mesi, lo è la Provincia da un mese, lo è il Consorzio Venezia Nuova che sta concludendo il Mose. Il ciclone tangenti, l’inchiesta della magistratura e la riforma degli enti locali hanno decapitato una classe politica e di governo e, come quando si ritira la marea, hanno portato in superficie un fondale inquietante, quello del buco di bilancio. Il disastro delle casse comunali si scopre oggi, ma ha sedimenti antichi. LA SITUAZIONE - Il Comune di Venezia per il 2015 ha in carico un "buco" di 90 milioni tra sforamento del Patto di stabilità e sanzioni. Una "scoperta" annunciata già un anno fa, quando l’ex sindaco Giorgio Orsoni riuscì a strappare a Roma un decreto "Salva Venezia" che consentì di garantire il 2014. Ma ora, su un bilancio che vale circa un miliardo (più della metà solo di parte corrente), e senza un nuovo decreto ad hoc che mitighi o cancelli le sanzioni, significa solo una cosa: tagli e sacrifici. I primi a pagarne le conseguenze sono i dipendenti pubblici, 3.146 del Comune, più altri 7mila circa delle partecipate. Cosa farebbe in questo contesto un’azienda privata di 10mila lavoratori? Il commissario Vittorio Zappalorto ha provato a disdire un accordo integrativo siglato la scorsa estate prima del suo arrivo. Ha dovuto fare marcia indietro, raccattando perfino i soldi delle multe (un milione su 19 previsti a bilancio) per pagare le indennità di risultato. I comunali difendono le loro buste paga ma, dicono, «non lo facciamo perché sia un privilegio». Rischiano tagli che possono arrivare anche a 400 e 500 euro al mese, che su una busta paga da 1.500 euro pesano. In discussione non c’è tanto la parte fissa dello stipendio, quanto quella variabile, legata al contratto integrativo con la già citata indennità di risultato. Di fatto diventata, negli anni, componente fissa, perché praticamente è sempre stata concessa a tutti. C’è poi chi, come i vigili urbani, poteva contare su un surplus per "servizi speciali": vale a dire l’impiego prolungato e notturno per i grandi eventi (come Carnevale) o per particolari progetti, come la lotta agli abusivi. Anche questi sono finiti sotto la scure del commissario. Altro fronte, quello dei servizi, con revisione e riduzione del livello dei servizi sociali (dall’assistenza agli asili) e, infine, la leva fiscale. Perché se non arriva "un decreto Salva Venezia bis" l’alternativa è predisporre un piano di rientro pluriennale nel corso del quale i veneziani dovranno
pagare di più per avere dimeno. Sarà una corsa per evitare il dissesto, ipotesi che potrebbe aprire la strada tra l’altro alla incandidabilità e ineleggibilità degli ultimi amministratori. La città nel frattempo percepisce che l’acqua sulla quale galleggia non è poi così limpida. IL COMMISSARIO - In tutto questo, il commissario Vittorio Zappalorto, con la sua squadra di 4 subcommissari, ha ammesso che la stesura del bilancio di previsione 2015 rischia di essere impossibile. Zappalorto si sente sfiduciato dai suoi stessi azionisti: da prefetto di Gorizia era stato inviato in laguna per decreto e su mandato del Governo, ma sente che gli hanno sfilato gli strumenti per intervenire. È un po’ come un allenatore chiamato a salvare una squadra, mentre la società gli toglie uomini e soldi. Il "Donadoni della laguna", come il suo omologo ducale, tiene botta, malgrado ci sia chi (la Cisl) gli chiede di riconsegnare le chiavi al ministro dell’Interno, visto il venir meno dei presupposti che l’hanno fatto arrivare a Venezia. Aveva una missione, Zappalorto, da commissario straordinario: garantire il bilancio e gestire l’ordinaria amministrazione. In sette mesi è andato oltre, governando da sindaco senza un Consiglio eletto: ha rimesso a posto i chioschi degli ambulanti ai piedi del ponte di Rialto, ha approvato una serie di ordinanze sul traffico acqueo in Canal Grande (su sollecitazione della Magistratura, che ha aperto un’inchiesta dopo i tanti incidenti), ha dato "obtorto collo" 3 milioni e mezzo per ricapitalizzare il Casinò e un milione per pareggiare il bilancio di Vela, la municipalizzata dei grandi eventi. Ha "congelato" una ventina di funzionari, bloccandone la qualifica, ma ha anche stabilito che, malgrado la crisi, la pianta organica del Comune debba comunque restare a 3.146 dipendenti. Chi se ne andrà, insomma, sarà sostituito. Perché è vero che il Patto di stabilità è stato sforato e le assunzioni dovrebbero essere bloccate, ma esiste una norma che consente agli enti locali di assumere se il costo del personale è inferiore al 25 per cento del bilancio. E a Venezia, dove il bilancio viaggia su cifre alte, il personale incide per il 24 per cento... Più sindaco che commissario straordinario, insomma. Ma alla fine - per ora - senza aver centrato l’obiettivo primario: risanare i conti e con il rischio di passare alla storia per la norma che vieta i trolley rumorosi nelle calli. Per questo Zappalorto ha manifestato tutta la sua amarezza. Ma resta in sella, sperando che all’ultimo gli arrivi l’ancora di salvataggio. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 15 febbraio 2015 Pag XIV Dopo i mendicanti molesti anche i ladri nella chiesetta di Alvise Sperandio In cimitero "Per favore: un signore alto e robusto tra le 12.30 e le 14.30 entra spesso nelle due chiese e ruba le elemosine. Chi se ne accorgesse, è pregato di avvisare in portineria". Recita così il cartello che il rettore del cimitero, don Armando Trevisiol, ha appeso sulla bacheca di Santa Maria della Consolazione per mettere in guardia i fedeli e cercare di stanare il ladro. Un fatto che - come denunciato dal Gazzettino nei giorni scorsi - va ad aggiungersi ai timori di subire scippi e furti da parte di chi si reca a visitare le tombe dei propri cari, vista la presenza di mendicanti molesti dentro e fuori dal camposanto. Sono sempre come minimo in due, o anche in quattro, e stazionano stabilmente sul cancello, soprattutto dalla parte dell'obitorio. Ad ogni passante che entra o esce si avvicinano tenendo le mani giunte, ma capita anche che si facciano avanti per chiedere con insistenza soldi a chi ha appena parcheggiato l'auto e ancora deve scendere dall'abitacolo. «Talvolta il fare è minaccioso - racconta una signora -. Servirebbe qualche controllo in più con delle pattuglie in zona». IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 14 febbraio 2015 Pag IX L'Expo? La vera sfida è arrivarci di Elisio Trevisan A due mesi e mezzo dall'inaugurazione resta irrisolto il nodo dei collegamenti. E l'albergo per ora resta sulla carta A due mesi e mezzo dall’inaugurazione dell’Expo, la sede veneziana rischia di diventare un monumento ai sogni infranti più che la casa dell’acqua e della vita. Viabilità, parcheggi, fermate Actv, percorsi protetti, pista ciclabile, linea acquea per Venezia... è tutto in alto mare. Il Comune assicura che, assieme ad Actv, Avm, Mobilità, Vega, ha allo studio una serie di interventi per favorire l’afflusso dei visitatori al padiglione in
costruzione in via Pacinotti e via Ferraris. A forza di studiare, però, si arriva a maggio con nulla di fatto, al massimo un po’ di stucco e pittura. La pista ciclabile, si sa, non sarà pronta per maggio e nemmeno per i mesi successivi; inaugureranno il tratto sul ponte della Libertà, in concomitanza con l’avvio della nuova linea del tram,ma sarà impossibile arrivare ai Pili perché mancherà il collegamento tra via Torino, il Vega e il ponte, e contemporaneamente sarà vietato, o comunque rischiosissimo, passare per il cavalcavia di San Giuliano. Escluse le bici, restano macchine, bus e vaporetti. Anche su quest’ultimo versante le notizie sono pessime. Actv sta aspettando una risposta definitiva dalla Capitaneria di porto e dall’Autorità portuale ma se l’ok arrivasse domani si potrebbe ancora realizzare un approdo dell’Actv lungo il canale Brentella e farci arrivare una motonave, se arriverà tra dieci giorni non ci sarebbe più tempo per fare nulla. Perché, ammesso che la Capitaneria sciolga le riserve sul fatto che una linea di trasporto passeggeri è pericolosa a causa della presenza delle navi e della raffineria, e ammesso che l’Autorità portuale decida dove spostare i rimorchiatori, non ci sarebbe il tempo materiale per realizzare l’approdo. Le richieste di Condotte (l’impresa che ha investito 30 milioni di euro evidentemente non solo per i 6 mesi dell’Expo) sono per un servizio di trasporto acqueo permanente, non certo temporaneo, e pure le intenzioni della Giunta Orsoni e del commissario Zappalorto andavano in tal senso. Dovrebbe servire l’area del Vega 2 che, nei progetti, è un polo di interscambio per i turisti, bloccando quindi pullman e automobili in terraferma e portando la gente a Venezia in motonave. Così si libererebbe il ponte della Libertà solo per il tram e i residenti. Il ragionamento non fa una piega, salvo il fatto è bloccato, anzi, è allo studio. Viene da chiedersi, poi, come mai il Comune abbia dato le autorizzazioni per l’operazione immobiliare, lodando Condotte che ha avviato la riqualificazione della vecchia Porto Marghera, se sapeva che quella è una zona pericolosa. Quanto alla viabilità di terra tutti la conoscono: via Pacinotti è appena presentabile, via delle Industrie è un disastro. Il Comune le rifarà completamente solo a partire dal 2016, quando impiegherà parte dei 152 milioni di euro stanziati grazie all’Accordo di programma per Porto Marghera firmato il mese scorso a Roma: allora, oltre all’asfalto e all’arredo urbano, rifarà anche le fognature. Nel frattempo i visitatori dell’Expo saranno fortunati se troveranno ridipinte le strisce per terra, nuovi segnali stradali e poco più. E si spera che, in quel poco di più, ci possa stare pure una nuova fermata dei bus Actv, altrimenti i visitatori finiranno in mezzo a polvere e camion. Invece di favorire l’investimento, ogni giorno salta fuori un problema. Come quello della viabilità, la cui sistemazione secondo il Comune spetta al costruttore, ossia a Condotte che, però, ha già pagato gli oneri di urbanizzazione. Poi c’è la pista ciclabile. Il tratto in terraferma è bloccato perché, dovendo passare per il terreno di Luigi Brugnaro, non si sono ancora messi d’accordo: il Comune dice che Brugnaro non può pensare di poter costruire, in cambio di una piccola fascia di terra, il palazzetto dello sport, tanto per dire. Brugnaro, a dire il vero, aveva in mente un grande polo di interscambio con park per bus turistici e auto, e servizi di prima accoglienza per i turisti. Anche Condotte vuole fare l’interscambio nei suoi terreni. C’è spazio per entrambi? Visto l’incremento costante di turisti, probabilmente sì. A parole il Comune continua a ribadire che l’investimento di Condotte (30milioni di euro) è una manna ma i fatti non seguono. Si sa, ancora, che l’impresa vuole costruire un albergo importante, ma quella zona è destinata a terziario e uffici. Gli hotel sono alla stregua della residenza e quindi servirebbe una variante urbanistica. Ma per arrivarci il Comune deve prima decidere che la vecchia zona industriale può accogliere nuove funzioni (come in realtà sta già accadendo visto che il mercato ortofrutticolo si sposterà in via delle Macchine assieme alla nuova piscina per Marghera), perché un albergo o la residenza devono portare con sé anche i servizi di una città e non di un’area produttiva. Ha voglia l’amministratore delegato del Vega, Tommaso Santini assieme all’architetto Andreas Kipar, a criticare i proprietari delle aree attorno al Parco scientifico perché non investono sulla riqualificazione, se poi chi investe si ritrova da solo. In questi anni il Comune non è nemmeno riuscito a risolvere il problema dei treni carichi di carburanti che passano a fianco di via della Libertà (la principale strada che porta a Venezia), del Vega dove lavorano migliaia di persone, e tra poco anche del padiglione Expo, tra l’altro tagliando l’incrocio tra via della Libertà e via Pacinotti senza uno straccio di passaggio a livello. Il numero dei convogli è diminuito a
causa della crisi e grazie alla trasformazione della raffineria in bio raffineria; l’Eni assicura che ne passa solo uno alla settimana invece di uno al giorno, ma il problema rimane. LA NUOVA di sabato 14 febbraio 2015 Pag 21 Ordinanze sul traffico, monta la protesta di Alberto Vitucci Il caso: norme più semplici, controlli e divieti al trasporto turistico «Andiamo avanti. E vi dimostreremo presto come questi provvedimenti ridurranno sensibilmente il traffico a Rialto». Il governo dei commissari insiste. Incurante delle polemiche. E il subcommissario Natalino Manno, responsabile del Traffico Acqueo, annuncia che le sei nuove ordinanze per la «sicurezza e il controllo del traffico in Canal Grande» diventeranno operative il primo marzo, come annunciato. «Sono provvedimenti che puntano ad aumentare la sicurezza in quel tratto congestionato», dice Manno. Un lavoro prodotto dagli uffici della Mobilità acquea che ha sollevato la protesta di tutte le categorie interessate. Segno che si è colpito giusto, dicono in Comune. Ma le proteste sono generali e differenziate. Gondole. Gondolieri sul piede di guerra per la modifica al regolamento che “declassa” le gondole, anche quelle da parada, cioè i traghetti, e stabilisce che il vaporetto ha sempre la precedenza. «Assurdo, si va contro la tradizione, vogliono uccidere Venezia», tuona il presidente dei gondolieri Aldo Reato. Qualcuno ha proposto ieri di mettere a bordo delle gondole il segnale previsto dal Codice della Navigazione: un cono con due palloni per segnalare «barca con difficoltà di manovra». «Come fa una gondola con 14 persone a bordo a fermarsi in corsa?». Per le gondole divieto di attraversamento e obbligo di procedere in fila. «Come nelle piste ciclabili», ha detto qualcuno. «Ma qui siamo a Venezia, c’è l’acqua. Prima di scrivere le ordinanze dovrebbero venire un po’ in barca con noi». Canoe e kajak. Divieto di passaggio nei canali per le canoe, i kajak e i dragon boat. Protestano gli interessati e la Federazione italiana canoa. «Perché impedire l’accesso ai remi? Il Canal Grande non è un’autostrada». Taxi. Poco cambia per i taxi. A parte il divieto di passaggio dalle 8 alle 12 ad eccezione dei taxi in turno. Ma i motoscafisti sono disposti a ricorrere al Tar. Troppo complicati, dicono, i percorsi da fare, per via dei sensi unici e dei divieti. Contestato anche lo spostamento del pontile della Cerva. Merci. Anche i trasportatori annunciano lo stato di agitazione. Chiedono nuovi limiti di velocità e più pontili. Ma gli orari di accesso ai rii sono stati allargati anche nei giorni festivi. Diporto. È rimasto il divieto di passaggio per le barche da diporto dei residenti dalle 8 alle 12 sotto Rialto. Anche questa limitazione ritenuta «inutile»: il diporto è meno del 5 per cento del traffico circolante.
Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Cattiva coscienza europea di Ernesto Galli della Loggia La guerra rimossa Mentre scriveva nel suo editoriale per il Corriere di ieri che «gli europei sembrano ormai incapaci di pensare seriamente alla sicurezza», Angelo Panebianco non poteva immaginare quanta ragione gli avrebbero dato dopo solo poche ore le notizie giunte da Copenaghen sull’ultima impresa del terrorismo jihadista. E sempre sperando che non facciano lo stesso le notizie provenienti in futuro dall’Ucraina. Alla sua analisi manca tuttavia una premessa importante: gli europei sono incapaci di pensare alla loro sicurezza innanzi tutto perché sono ormai incapaci di pensare alla guerra. Di pensare concettualmente la guerra. Di convincersi cioè che quando in una situazione di crisi una delle due parti appare decisa per segni indubitabili a usare la violenza, c’è un solo modo di fermarla: minacciare di usare una violenza contraria. E quando è inevitabile, usarla. Da settant’anni questa elementare verità all’Europa di Bruxelles ripugna. Non a caso tutto il suo establishment politico-culturale ha appena potuto permettersi di ricordare il centesimo anniversario della Grande guerra solo a patto di farne propria l’antica qualifica
papale di «inutile strage». Inutile dunque l’indipendenza della Polonia, dell’Ungheria o dei Paesi baltici che scaturì da quel conflitto. E perché? In che senso, da quale punto di vista? Inutile pure il risveglio politico di tutto il mondo islamico in seguito al crollo dell’impero ottomano: ma chi può dirlo? Così come inutile, naturalmente, nel suo piccolo, anche il ritorno all’Italia di Trento e Trieste, non si capisce in base a quale criterio. I n base al criterio, si risponde, che tutto questo è costato un enorme numero di morti. È vero. Ma un enorme numero di morti, per fare solo qualche esempio, sono costate anche le invasioni barbariche, le guerre di religione del Seicento, la battaglia di Stalingrado, per non parlare, che so, della colonizzazione dell’America in seguito alla scoperta del Nuovo mondo: si è trattato perciò di avvenimenti «inutili»? Ma via, che modo è mai questo di fare storia, assumendo come criterio chiave il numero dei morti? È peraltro in questo modo, a forza di suscitare emozioni e di consolidare giudizi del genere, che la storia - quella vera, quella che secondo una famosa immagine di Hegel assomiglia inevitabilmente a un banco di macelleria dal momento che gli uomini sono sempre quelli del peccato originale - è in questo modo, dicevo, che la storia si è progressivamente dileguata dall’orizzonte concettuale dell’opinione pubblica europea. E insieme dalla cultura delle sue élite politiche, dopo il ‘45 orientate massicciamente in senso cristiano-socialdemocratico. Il vuoto lasciato dalla storia è stato riempito dai principi. Unicamente i principi devono guidarci nell’arena del mondo: la giustizia, la libertà, l’eguaglianza, il diritto. Ma soprattutto la pace. Peccato che in quell’arena i principi, se non sono sostenuti dalle armi, possono voler dire una sola cosa: il compromesso a tutti i costi, il compromesso sempre e comunque. E alla fine - nella sostanza, anche se ogni sostanza può sempre essere mascherata - quasi sempre la resa. E infatti a cos’altro si prepara se non alla resa un’Unione Europea la quale - c’informava sempre ieri sul Corriere Danilo Taino, immagino con intima soddisfazione di Federica Mogherini, ormai avviata a farci rimpiangere lady Ashton - negli ultimi vent’anni, mentre ai suoi confini crollava il mondo, ha visto dimezzare la propria aviazione tattica, l’artiglieria passare da circa 40 mila pezzi a poco più di 20 mila, e i suoi tre Paesi più popolosi (Germania, Francia e Italia) attualmente in grado di schierare insieme solo 770 (dicesi 770) carri armati? E le altre cifre relative agli armamenti declinare più o meno nella stessa clamorosa misura? Forse, per risultare credibile, un presunto ministro degli Esteri dovrebbe occuparsi anche di queste minutaglie. Niente guerra, invece, niente inutili stragi. L’Italia in specie poi, si sa, è votata alla pace. Se domani andremo in Libia, se mai ci andremo, anche lì, c’è da giurarci, non andremo per fermare con le armi le orde dello «Stato islamico», cioè con la guerra. No. Dimentichi che non c‘è ipocrisia maggiore di quella delle parole, ma decisi a non dismettere la nostra sciocca ideologia, andremo «per mantenere la pace». La guerra, gli europei dell’Ue hanno deciso di lasciarla agli americani. Credendo così, tra l’altro, di poterli comodamente giudicare dei «guerrafondai» schiavi della «cultura delle armi» e di potersi sentire quindi moralmente superiori ad essi: in una parola più democratici. E invece è vero proprio il contrario. Se anche dopo il terribile Novecento gli Usa hanno potuto lasciare posto nel proprio arsenale ideale e politico alla guerra - e continuare a fare delle guerre - è stato anche perché consapevoli del forte legame della loro società con i valori democratici. Un legame che si è dimostrato capace di rimetterli sulla strada giusta dopo ogni guerra sbagliata, di suscitare gli anticorpi in grado di immunizzarli dai pericoli politici e dalle cadute etiche che sempre si accompagnano alla guerra. È per l’appunto questa consapevolezza (degli americani ma anche dei britannici) che gli europei invece, i quali pure si credono tanto più democratici, non possono avere. Oscuramente essi avvertono che il loro rifiuto della guerra, apparentemente così virtuoso, in realtà copre la paura che in qualche modo la guerra possa resuscitare come d’incanto i démoni che affollano il loro passato così poco democratico. È solo un caso se il Paese non da oggi più pacifista di tutti è la Germania? Il nostro amore per la pace, insomma, assomiglia molto a un antico rimorso divenuto cattiva coscienza . Pag 1 Attacco agli ebrei e alla libertà di Pierluigi Battista Dopo gli attentati di Copenaghen, dire che la libertà europea è nel mirino degli jihadisti non è solo una formula retorica, ma la fotografia di una dichiarazione di guerra. Il simbolismo dei bersagli e dei messaggi è chiarissimo oramai. Gli islamisti hanno
attaccato un convegno sulla libertà d’espressione con l’ambasciatore francese presente. Tutto questo a un mese o poco più dalla strage nella redazione di Charlie Hebdo. Poi hanno profanato un cimitero ebraico, hanno distrutto centinaia di tombe, hanno profanato un monumento alla Shoah. Gli ebrei sentono sempre meno l’Europa come la loro casa. Cresce l’istinto di fuga da un’Europa che ha chiuso gli occhi da anni, anche quando gli islamisti hanno fatto strage in una scuola ebraica. La libertà e le sinagoghe devastate. Le parole libere e gli ebrei. L’arte libera e gli «infedeli», i «crociati», i quartieri ebraici, i cimiteri, il ricordo dell’Olocausto. L’Europa viene aggredita nel punto in cui dovrebbe essere orgogliosa: la libertà. La libertà nemica numero uno dei fondamentalisti e dei fanatici. Non vogliono altro che l’Europa rinunci a se stessa. La vogliono soggiogare culturalmente. La vogliono umiliare nei valori che le sono più cari. È una guerra di conquista culturale. Ma l’Europa sembra aver smarrito la sua bussola culturale, la fierezza di sé, la sicurezza nella forza dei propri valori. La libertà europea è sulla difensiva. Se a Londra gli amici dello jihadismo portano cartelli in cui si sbandierano strumentalmente le parole di Francesco sul «pugno» che meritano quelli che offendono la religione, vuol dire che la trincea sta smottando, che il fronte in difesa della libertà è fragile e impaurito. Per qualche giorno tutti hanno portato come un simbolo d’onore «Je suis Charlie». La marcia repubblicana di Parigi è apparsa una prova di compattezza, di solidarietà, di vicinanza non solo alle vittime di Charlie Hebdo e agli ebrei uccisi nel supermercato kosher alla vigilia dello Shabbath. Ma l’unità è durata pochissimo. Si è imposta la retorica dei distinguo. L’oggetto del dibattito si è spostato: non più l’ideologia omicida degli stragisti che fanno una carneficina di vignettisti armati soltanto di una matita, ma «gli eccessi» della satira, l’intoccabilità delle religioni, i limiti che la libertà si deve dare. Il Victoria and Albert Museum ha ritirato e nascosto un ritratto di Maometto, neanche offensivo, ma non si sa mai. Durante il Carnevale di Colonia un carro allegorico di solidarietà a Charlie Hebdo è stato vietato. In America una grande casa editrice pubblica un volume sulle «vignette della discordia» ma evita accuratamente di riprodurle per «non offendere». L’Internazionale degli invisibili, tutti quei vignettisti, scrittori, professori, giornalisti che in Europa e in America sono spariti in questi anni dalla circolazione perché raggiunti da una condanna a morte sono di nuovo tornati nel dimenticatoio, presenze inquietanti. Quando hanno sgozzato Theo Van Gogh, il regista olandese di «Submission» ammazzato in Olanda perché «blasfemo», nessun festival ha voluto ospitare la pellicola. Altro che libertà d’espressione. Lo stesso Michel Houellebecq, che pure si è affrettato a spiegare che il suo romanzo «Sottomissione», in cui si racconta l’ascesa di un presidente musulmano a Parigi, non è contro l’Islam, vive in costante pericolo. Il pericolo che gli ebrei d’Europa vivono oramai con angoscia quotidianamente. Perché c’è un nesso inscindibile tra l’odio per la libertà, le libertà civili, la libertà della donna, la libertà della cultura, la libertà dell’istruzione, e l’odio antisemita. L’Europa è già stata infettata nella sua storia da questo intreccio perverso di totalitarismo e odio antiebraico. Non capire che è questa la posta in gioco, che le bandiere nere che oramai sventolano in Libia, le cellule islamiste che fanno strage nel cuore delle metropoli, gli attentatori che vogliono macchiare il ricordo della Shoah, oggi vogliono che l’Europa si ripieghi in se stessa, che vinca la paura, l’autocensura, il linguaggio prudente e omertoso. E che perciò dare una mano ai fanatici con sottili atti di disamore nei confronti delle libertà così come le conosciamo, con un’enfasi sui «limiti» della libertà, come se le vittime se l’andassero a cercare, come se la critica fosse un’«offesa», tutto questo rappresenterebbe l’anticamera della sconfitta. E la vittoria dei fanatici, degli antisemiti, di chi odia l’Europa e la sua libertà. E che vuole cacciare gli ebrei dall’Europa. Di nuovo, la grande vergogna. Pag 14 La spinta della base del Carroccio perché Salvini corra (anche) al Sud di Nando Pagnoncelli E la maggioranza degli elettori di Fi lo vedrebbe leader di coalizione La svolta «nazionale» impressa alla Lega da Matteo Salvini sta dando frutti sia in termini di popolarità del segretario (apprezzato da un italiano su tre) che di consensi al partito. A questo proposito nelle ultime settimane si sta registrando un testa a testa con Forza Italia per il primato nel centrodestra, con percentuali comprese tra 13% e 14%, di gran lunga il risultato più elevato (sia pure virtuale) nella sua storia. Salvini ha operato un
profondo cambio di strategia facendo uscire la Lega Nord dall’insediamento territoriale originario (la Padania) e proiettandola in uno scenario nazionale. Impresa non facile, tenuto conto delle quasi trentennali posizioni leghiste nei confronti del meridione. Cosa pensa l’opinione pubblica di questa inedita svolta? Quasi uno italiano su due (48%) considera la Lega un partito che guarda solo agli interessi del Nord mentre uno su tre (35%) ritiene che abbia a cuore l’interesse dell’Italia nel suo complesso. Le opinioni divergono nei diversi elettorati: i leghisti e quelli di FI sono in larga misura persuasi della svolta nazionale, quelli del Pd e i centristi non credono al cambiamento di prospettiva. Analizzando i dati per aree territoriali si osserva che il posizionamento padano prevale ovunque ma è interessante osservare che nelle regioni del Sud e nelle isole il 40% crede nella svolta nazionale della Lega. L’ipotesi avanzata dal segretario di presentarsi al prossimo voto nelle regioni del Centro-Sud con un nuovo simbolo («Noi con Salvini») ottiene più dissenso (36%) che consenso (29%); ma, ancora una volta, i leghisti approvano nettamente (78%) come pure gli elettori di FI (59%) mentre tra i residenti nelle regioni centrali e meridionali, pur prevalendo i giudizi negativi, si osserva un consenso niente affatto trascurabile, compreso tra un terzo e un quarto degli elettori. Il cambio di strategia fa presagire più rischi che opportunità per la Lega secondo il 45% degli italiani, mentre, al contrario, uno su tre prefigura un aumento di voti a seguito dell’allargamento del bacino elettorale. Nettamente più ottimisti risultano gli elettori leghisti (70%), a conferma delle forte sintonia della base elettorale con il leader. La previsione di un risultato positivo prevale anche tra gli elettori azzurri (50%) e tra coloro che risiedono nel Sud Italia e nelle isole, cioè nelle regioni che oltre a soffrire della crisi economica, più di altre avvertono un deficit di rappresentanza e di riferimenti politici. E, infine, il tema della leadership del centrodestra. La candidatura di Salvini, con il beneplacito di Berlusconi, è giudicata possibile dal 45% degli italiani, mentre il 36% è scettico. Il dato più eclatante è quello che emerge tra gli elettori di Forza Italia: quasi nove su dieci ci credono, nonostante la fiducia nel loro leader non sia venuta meno, come abbiamo evidenziato nel sondaggio pubblicato dal Corriere la scorsa settimana. Come si spiega questa contraddizione? Da un lato con le difficoltà nelle quali versa Forza Italia: le profonde divisioni interne, lo scontro con Raffaele Fitto e il venir meno del patto del Nazareno sembrano relegare il partito ad un ruolo marginale, con un futuro incerto. Dall’altro c’è il tema del ricambio generazionale. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita di nuove formazioni politiche e i principali partiti hanno cambiato i loro vertici, con l’eccezione di FI. In questo contesto Salvini rappresenta, anche per gli elettori berlusconiani, un leader di coalizione che può rendere competitivo il centrodestra contro il Pd di Renzi. E Salvini attrae innanzitutto parti di elettorato più esposte alla crisi, ma dimostra una crescita del suo appeal anche in segmenti sociali un tempo distanti. È un leader che sta mostrando determinazione, coraggio e fiuto politico. Approfitta di una «rendita d’opposizione», dell’appannamento di M5S e delle divisioni del centrodestra. È consapevole della sempre maggiore personalizzazione della politica e padroneggia con molta abilità le tecniche comunicative. Molti commentatori obiettano che difficilmente potrà attrarre l’elettorato moderato. Ma in Italia la fluidità elettorale è sempre più evidente e il marketing politico negli ultimi anni ha fatto miracoli. LA REPUBBLICA Pag 1 La repubblica extra-parlamentare di Ilvo Diamanti I parlamentari del M5s hanno ingaggiato una lotta serrata, quasi un corpo a corpo, contro la riforma del Senato, progettata dal governo. Affiancati dai parlamentari di Sel e della Lega, insieme ad alcuni dissidenti del Pd. E alla stessa FI, che, in un'altra epoca politica, aveva contribuito a scrivere e a sostenere la riforma. Un'opposizione tanto aspra appare dettata da ragioni di metodo, oltre che di merito. È, cioè, una reazione al rifiuto di discutere gli emendamenti. Dunque, di discutere. Votando a oltranza, giorno e notte. Questa vicenda sintetizza, plasticamente, questa difficile fase della nostra democrazia. Da un lato, Renzi e il "suo" Pd, decisi a tutto, pur di raggiungere gli obiettivi dichiarati, nei tempi più rapidi. Dall'altro, il M5s, specializzato nel fare controllo, resistenza. Intorno, gli altri partiti, di sinistra e, soprattutto, di destra. Poco influenti, se non in-influenti. Da un lato, la "democrazia decisionale e personalizzata", di Renzi. Dall'altra, la "contro-democrazia" (come la chiama Rosanvallon), la democrazia della
sorveglianza di Beppe Grillo. Un modello che spiega, in larga misura, il consenso di cui, oggi, sono accreditati i due principali soggetti politici, dai sondaggi. Non solo il Pd, stimato intorno al 36-37%. Ma anche il M5s. Nonostante che il suo gruppo parlamentare appaia diviso e sempre più ridotto. Nonostante svolga un'azione - prevalentemente - di controllo, difficile da spendere, sul piano del consenso. Eppure, resta il secondo partito in Italia. Stimato, dai principali istituti demoscopici, fra il 18 e il 20%. Lontano dal Pd. Circa la metà. Ma molto sopra gli altri partiti, che non superano il 14-15%. Lega e FI comprese. La relativa ampiezza del bacino elettorale del M5s, in effetti, si spiega, anzitutto, con la base del dissenso verso le istituzioni e gli attori politici, molto estesa in Italia. Un disagio senza voce e senza bandiere. Senza storia e senza utopia. La quota di elettori del M5s che esprime (molta o moltissima) fiducia nei confronti del Presidente della Repubblica appena eletto, per esempio, è circa il 30% (Demos, febbraio 2015). Metà, rispetto alla media della popolazione. Mentre la fiducia verso il Parlamento, fra gli elettori del M5s, scende al 5%. Circa un terzo rispetto alla media degli elettori. Si potrebbe, per questo, parlare di un'opposizione "antipolitica". Ma il discorso non è così semplice. La componente "esterna" allo spazio politico, coloro, cioè, che rifiutano di collocarsi lungo l'asse destra/sinistra, è, infatti, ampia, ma comunque, minoritaria (circa un terzo, Demos gennaio 2015). Mentre, in maggioranza, gli elettori del M5s appaiono distribuiti un po' in tutti i settori "politici". A destra (18%), sinistra (28%) e al centro (20%). Peraltro, il M5s è anche il partito meno "personalizzato". Nel senso che Beppe Grillo è il meno "stimato" fra i leader dei principali soggetti politici. Esprime, infatti, fiducia nei suoi riguardi quasi il 19% degli elettori. Circa 10 punti meno, rispetto allo scorso maggio. Certo, fra gli elettori del M5s la sua popolarità sale al 70%. Ma si tratta, comunque, del livello di fiducia più limitato ottenuto dai leader fra gli elettori del proprio partito. A conferma che il voto al M5s non è "personalizzato". E nemmeno "progettuale". Unito da un'identità comune. Ma, piuttosto, largamente e radicalmente "critico". Verso i principali partiti, verso le principali istituzioni. Insomma, verso la democrazia rappresentativa. E ciò induce a riflettere, di nuovo, su questa particolare fase della nostra storia politica. Della nostra democrazia. Caratterizzata da una sorta di "tripolarismo imperfetto". Dove agisce un solo soggetto politico di governo, il Pd, sfidato da alcuni soggetti che fanno opposizione, in Parlamento e nella società. Ma senza proporre alternative reali. Una situazione che potrebbe evocare la (cosiddetta) prima Repubblica, quando la Dc governava senza che il principale partito di opposizione, il Pci, potesse davvero subentrare al governo. A causa del vincolo internazionale, risolto solo dopo la caduta del muro - e dei regimi comunisti - nel 1989. Oggi, però, la questione è diversa. In quanto il Pd di Renzi appare senza alternativa non per vincoli esterni, ma interni. Anzitutto: per il declino di Berlusconi, che, per vent'anni, ha occupato lo spazio di centrodestra. Personalizzandolo e rendendolo impraticabile per altri soggetti politici liberal-democratici. In secondo luogo, per l'emergere e l'affermarsi di un crescente malessere contro i soggetti e le istituzioni della nostra democrazia rappresentativa, intercettato e canalizzato dal M5s. Così, oggi le opposizioni, in Parlamento e all'esterno, appaiono deboli e im-proponibili. E ciò appare particolarmente critico, mentre si lavora per riformare le istituzioni democratiche - superando, anzitutto, il bicameralismo "paritario". E per ridefinire la legge elettorale. Perché è difficile, oltre che discutibile, riformare la Costituzione e le regole della democrazia senza dialogo e senza condivisione. Tanto più se il partito di maggioranza - l'unico soggetto politico effettivamente organizzato - è, comunque, "minoranza" (per quanto larga) fra gli elettori. E riesce a garantirsi la maggioranza, alle Camere, attraverso alleanze variabili e la transumanza di diversi parlamentari (come hanno segnalato, nei giorni scorsi, Stefano Folli e Roberto D'Alimonte). Mentre le opposizioni sono, fra loro, eterogenee, in parte estranee. Lontane. Da ciò questo strano tri-polarismo imperfetto, che "oppone" il Pd di Renzi - personalizzato come il "suo" governo - a soggetti politici, che oggi non appaiono alternativi. Da un lato, a centrodestra, FI e la Lega sono concorrenti. E nessuna delle due pare in grado di affermare la propria leadership. FI continua a dipendere dal destino di Berlusconi. Mentre la Lega investe sul sentimento anti-europeo e anti-politico. Ma per questo le è difficile proporsi come attore di governo. Anche se si proietta a Sud. D'altra parte, il M5s propone un'alternativa alla democrazia rappresentativa, più che di governo. Per questo, appare in contrasto con il funzionamento stesso del Parlamento. Fino a minacciare le dimissioni dei propri parlamentari, per provocare lo scioglimento delle
Camere. Dove, per motivi diversi, "non" siedono Renzi, Berlusconi, Grillo e Salvini, i leader dei principali partiti, di maggioranza e opposizione. È l'ennesima singolarità (per non dire anomalia) della nostra democrazia. Di questa Repubblica extra-parlamentare. Pag 1 I migranti che Salvini vuol lasciare in mare di Michele Serra Uno dei pochi veri vantaggi di chi fa politica è che il mondo è complicato, e dunque nessuno si aspetta soluzioni facili. Sopprattutto su questioni che impiegano anni e a volte secoli per essere sbrogliate. Di questo vantaggio non ha fatto uso Matteo Salvini, che perfino di domenica si è sentito in dovere di intervenire sull'esodo epocale dei barconi nel Mediterraneo. Tradito (anche) dalla superficialità tentatrice di Twitter, il segretario della Lega ha diramato una manciata di parole dalla logica molto precaria: soccorrere i migranti, sì, ma lasciandoli in alto mare. Ammesso che quella tragedia consenta una lettura comica, si immaginano bastimenti carichi carichi di coperte e cibo che riforniscono quelle macchie galleggianti fatte di umani in fuga e poi salutano cordialmente, «torniamo domani, aspettateci qui e mi raccomando copritevi, che fa freddo». Altro sviluppo del piano di Salvini, dal punto di vista operativo, non è intuibile. Più intuibile, forse, è la molla psicologica che ha fatto scattare quel curiosissimo tweet: uno scrupolo umanitario (se preferite: la paura di sembrare troppo cinico) che fa breccia nel muro ideale con il quale il segretario di uno dei più antichi partiti xenofobi europei vorrebbe cingere i confini nazionali. L'idea di donne e bambini, e comunque di esseri umani in larga parte innocenti e deboli, lasciati alla morte per assideramento o annegamento non è facile da gestire per nessuno, e dunque portiamo cibo e coperte; ma ancora più difficile da gestire è il proprio elettorato spaventato dall'arrivo dei migranti in generale e dei potenziali criminali in particolare, e dunque lasciamoli in mezzo al mare. Con i panini e le coperte. Sia un furbo compromesso da politicante, sia lo svarione ingenuo di una domenica che era meglio trascorrere in silenzio, il lodo Salvini almeno un pregio ce l'ha. La sua stessa goffaggine illustra quanto l'enormità del dramma dei migranti sovrasti, e di molto, qualunque intenzione di speculazione politica. È un cataclisma che cambia storia e geografia, gonfio di conseguenze funeste (specie per chi migra), di cozzi tra identità culturali e religiose, di problemi giganteschi, come pure di vitalità e cambiamento. È del tutto legittimo, come fanno la Lega e le forze omologhe in Europa, essere contrari all'accoglienza e considerarla un mero strumento di invasione e assoggettamento da parte, soprattutto, dell' Islam. Ma bisogna, allora, avere il coraggio delle proprie opinioni, dunque il coraggio di far pagare a loro, e non a noi, il prezzo intero dello sconquasso in atto nei loro Paesi d'origine, in Africa, nel Medio Oriente, nel Magreb. «Che affoghino e non ci disturbino mai più» è una posizione odiosa, ma comprensibile. «Soccorriamoli ma lasciamoli in mare» assomiglia terribilmente a una facezia. Le politiche umanitarie hanno un loro costo (anche politico) e una loro coerenza, espongono al rischio di infiltrazioni dolose non di migranti ma di nemici; e chi le pratica, se non è uno sciocco, deve conoscere il prezzo del soccorso. Allo stesso modo le politiche anti-umanitarie, di rifiuto e di chiusura, hanno il prezzo dell' egoismo. Si capisce che, di fronte a certe immagini di quei gusci nel Mediterraneo in tempesta, anche il capo di un partito xenofobo possa sentirsi in difficoltà. Ma quel prezzo, se si è contro gli sbarchi, tocca pagarlo fino in fondo. Pag 27 Stavolta la campana suona per tutti di Stefano Folli La politica estera torna di prepotenza al centro della scena e spazza via le confuse polemiche domestiche sui patti violati e gli Aventini parlamentari. Non si tratta dell'Ucraina, dove l'Italia non ha voce in capitolo, ma della Libia, dove invece è in prima linea. Unica ambasciata dell'Unione fino a ieri aperta, ultima bandiera di fronte all'avanzare dello Stato Islamico. Ma anche unico paese, l'Italia, che presta soccorso ai migranti in mare, mettendo in campo gli uomini e i mezzi della sua Marina Militare e della Guardia Costiera nonostante le infinite lacune europee. Non solo. Quello di Roma è il governo che ha dovuto subìre un attacco frontale e diretto dai fondamentalisti, nella persona del ministro degli Esteri definito un "crociato" e un "nemico". La colpa di Gentiloni è di aver detto la verità in un'intervista a SkyTg24: e cioè che le forze armate italiane sono pronte ad andare in Libia per una missione internazionale sotto la bandiera
dell'Onu. Anzi, Gentiloni ha usato l'espressione «sono pronte a combattere», che non è politicamente corretta ma oggi è molto pertinente. Il presidente del Consiglio e il ministro della Difesa hanno poi confermato il progetto e si capisce che le alternative sono quasi inesistenti, benché l'ultima speranza sia, come è ovvio, la soluzione diplomatica. La minaccia è reale e incombente, tocca da vicino gli interessi italiani e si somma all'emergenza dei profughi. L'Europa sembra ancora gravemente inerte, ma sono gli Stati Uniti che dovrebbero sollecitare un'iniziativa internazionale e chiedere la copertura delle Nazioni Unite. Il governo di Roma è e resterà il più esposto, quello su cui peserà un'importante e primaria responsabilità negli sviluppi della crisi. L'interrogativo è se questo determinerà conseguenze nei rapporti politici e parlamentari. Dovrebbe essere così. Con una missione militare alle porte in uno scenario di guerra sembra improbabile che si possa ristagnare nel solito "tran tran" polemico. La stessa tentazione delle elezioni anticipate, peraltro inconsistente fin quando non sarà in vigore la nuova legge, l'Italicum, viene di fatto accantonata. Ma c'è di più. Fino a ieri l'opposizione rifiutava persino di sedersi in Parlamento e si preparava a recarsi da Mattarella per denunciare le trame "autoritarie" di Renzi. A loro volta i deputati e i senatori Cinque Stelle annunciavano di volersi dimettere per far saltare la legislatura. La Libia ha creato quasi all'improvviso un fatto nuovo che rende obsoleti certi comportamenti e richiama tutti alla serietà. Compreso il premier che finora ha usato le riforme costituzionali anche come un grimaldello per allargare le lacerazioni parlamentari e mettere in difficoltà la minoranza del suo partito. Lo scenario cambia nel profondo, come sempre quando sono in gioco scelte essenziali che toccano la politica estera e di sicurezza. È tradizione che su questi temi il Parlamento si ritrovi concorde, salvo le forze che si pongono fuori del sistema. Non c'entra il patto del Nazareno, vivo o morto che sia, bensì la Costituzione. Il ruolo del presidente della Repubblica acquista la sua naturale centralità come garante dell' unità nazionale, mentre spetta al governo parlare con chiarezza al Paese e cercare di fronte alle Camere il massimo del sostegno. Sarà una prova di maturità per tutti. Per il presidente del Consiglio e la sua maggioranza, ma anche per le varie opposizioni. Berlusconi è stato lesto a comprendere la posta in gioco e a dichiararsi pronto a sostenere l'azione dell'esecutivo. Segno che si rende conto dei limiti dell' Aventino e desidera uscire in qualche modo dall'isolamento. Ma la Libia è un terreno scivoloso anche per lui: non a caso Romano Prodi gli ricorda, con malizia, il coinvolgimento dell'Italia nella campagna franco-inglese che portò alla caduta di Gheddafi. Quanto alla Lega, ecco un autentico bivio. Se Salvini imbocca la via della responsabilità, si troverà ad appoggiare il governo; se si arrocca nel "fronte del no", magari insieme a Grillo, diventerà marginale e renderà ancor meno credibile l'alternativa di destra a Renzi. La campana della Libia suona per tutti. LA STAMPA Ecco perché l’Egitto bombarda l’Isis in Libia di Maurizio Molinari Al Sisi vuole conquistare la leadership del mondo arabo nella lotta contro il Califfo Con la decisione di lanciare raid aerei contro lo Stato Islamico (Isis) in Libia, il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi punta a prendere la leadership del mondo arabo impegnato a combattere il Califfo Abu Bakr al-Baghdadi. La decapitazione di 21 lavoratori copti egiziani da parte dei jihadisti libici è stata percepita dal Cairo come una minaccia diretta alla sicurezza nazionale in quanto Al Sisi ha fatto della difesa dei diritti dei cristiani un simbolo dell’Egitto impegnato a rifiutare l’ideologia della Jihad. Davanti alla sfida subita, Il Cairo teme di trovarsi davanti ad una sfida militare su due fronti: Isis in Libia e Baiyt al Maqqdis nel Sinai. Entrambe espressione del Califfato. Da qui la scelta di un massiccio ricorso alla forza: se nel Sinai la mossa è stata di inviare unità blindate e truppe speciali sin da settembre, in Libia viene impiegata l’aviazione in raid intensi su molteplici obiettivi. È un Egitto all’offensiva, forte del sostegno politico e militare con l’Arabia Saudita del nuovo re Salman, convinto di dover applicate su larga scala la stessa reazione avuta dalla Giordania di re Abdullah dopo l’orrenda esecuzione del pilota Muath al-Kasasbeh. Quella di Al Sisi non è una reazione limitata ad un singolo evento terroristico bensì l’inizio di un impegno più vasto, militare e politico, per sradicare i jihadisti dai propri confini. Al fine di impedire che possano allearsi con i Fratelli Musulmani dentro l’Egitto per provare a conquistare il potere al Cairo.
Aprirsi all’altro islam di Roberto Toscano L’emozione suscitata dagli attentati di Parigi aveva indotto qualche commentatore a parlare iperbolicamente di un «11 settembre europeo». Purtroppo non è così, nel senso che nelle stesse dimensioni di quell’attacco all’America e nella complessità della sua organizzazione era insita una difficile ripetibilità. Negli attentati di Parigi e Copenaghen ci troviamo invece di fronte a qualcosa di tragicamente ripetibile, di facile organizzazione e a basso costo, e soprattutto di impossibile prevenzione. Corriamo il rischio di entrare in una sconcertante fase in cui – se dovessimo mantenere quell’improprio paragone – potremmo avere, se non un 11 settembre quotidiano, un 11 settembre mensile. C’è da chiedersi comunque se sapremo tenere i nervi a posto e soprattutto contrastare e reprimere senza per questo abbandonare i nostri principi di legalità e libertà. Cerchiamo per prima cosa di rispondere ad alcune domande. Gli attentati di Parigi e Copenaghen sono stati prodotti dalla questione della blasfemia? E se è così, non sarebbe bene mettere un limite di natura legale alla libertà di satira, e più in generale alla libertà di espressione? Vi è, in questo modo di porre la questione, un grave rischio. Se lasciassimo alla potenziale «parte lesa» la possibilità di definire la soglia dell’offesa, il permissibile e l’impermissibile, finiremmo forse per garantire la nostra tranquillità, ma a prezzo di un silenzio generalizzato, di un impoverimento culturale, di una regressione politica difficilmente compatibile con la democrazia. Diverso è invece il discorso su quella «etica della responsabilità» che ci dovrebbe imporre una valutazione degli effetti della nostra azione, inducendoci in alcune circostanze ad astenerci dall’esercitare un diritto che pure rimane nostro. E poi, questo discorso su offesa e blasfemia può essere fuorviante, se pensiamo che sia a Parigi che a Copenaghen sono stati presi contestualmente di mira non soltanto i blasfemi caricaturisti, ma anche gli ebrei – ancora una volta colpiti, come tante volte nella storia, per quello che sono piuttosto che per quello che fanno. E questo come facciamo a prevenirlo? Chiudendo le sinagoghe o forse, come Netanyahu torna demagogicamente a proporre, facendo emigrare in Israele le comunità ebraiche europee? Sorge anche un’altra domanda: chi sono i terroristi e cosa li ispira? Negli ultimi tempi è capitato spesso di sentir dire che gli attentatori «non sono musulmani», ma solamente pazzi criminali. Lasciamo che a questa affermazione risponda la dichiarazione di un gruppo di intellettuali musulmani (fra cui Tariq Ramadan, un moderato ma pur sempre islamico, se non islamista): «Affermare che gli atti terroristi commessi in nome dell’islam non hanno niente a che vedere con la religione è come dire che le crociate non avevano niente a che vedere con il cristianesimo». Vengono qui subito in mente le recenti dichiarazioni di Obama che, ad un «breakfast di preghiera» alla Casa Bianca, ha affermato – citando in particolare crociate e Inquisizione – che tutte le religioni, storicamente, si sono rese colpevoli di crimini contro l’umanità. Cosa che ha suscitato una violenta reazione settaria da parte degli ultrà repubblicani, «cristianisti» piuttosto che evangelicamente cristiani. Il fatto è che le religioni non possono pretendere di essere giudicate soltanto sulla base dei principi dei loro fondatori e dei loro testi sacri, e non sul comportamento dei loro fedeli e sul concreto impatto sulle società in cui si radicano. Come dice il Vangelo, «dai loro frutti li riconoscerete». Tutte le religioni, tutte le ideologie politiche, possono avere versioni intolleranti e anche violente. Versioni che – con una definizione forse storicamente impropria ma politicamente centrata – si possono definire come «fasciste». Da tempo imperversa la polemica sull’uso del termine «islamofascismo». Per i musulmani si tratterebbe di un’inammissibile e razzista denigrazione della loro fede, di un’ennesima manifestazione di islamofobia. Certo, hanno torto quando pretendono di chiudere la bocca a qualsiasi critica che viene loro rivolta definendola islamofoba, ma hanno senz’altro ragione nei confronti di quelli che (esistono, e come) usano il termine in modo indiscriminato nei confronti di tutta una religione, appiattendo ogni differenza fra islamici, islamisti, islamisti radicali e terroristi. In modo paradossale e perverso sembra oggi che, come conseguenza del terrorismo e della sfida jihadista in Medio Oriente e Nord Africa, l’opinione pubblica occidentale tenda a prendere per buona la definizione dell’islam che viene data dai wahabiti assassini: un islam intollerante, violento, retrogrado. Servirebbe un po’ meno d’ignoranza su una civiltà che, del resto come la nostra, attraverso i secoli ha prodotto il peggio ma anche il meglio. Non tutti hanno il tempo di approfondire la storia dell’islam, ma basterebbe
guardare uno straordinario documento che in questi giorni circola su internet. In una registrazione fatta con un cellulare si vede una donna molto anziana che, in una zona controllata dallo Stato Islamico, affronta con il coraggio della fede religiosa e della umana indignazione una pattuglia di jihadisti accusandoli di essere assassini e di non rispettare i precetti di misericordia di Allah. Lo fa citando a memoria brani del Corano (che certo, pur essendo chiaramente una persona semplice, conosce molto meglio dei bruti che l’ascoltano sghignazzando) e persino testi di poesia. Un altro islam. Un islam che dobbiamo rispettare ed accogliere. Un islam che dovrà prevalere. IL GAZZETTINO Pag 1 Ma non siamo pronti alla guerra di Ennio Di Nolfo Qualcuno ha detto che «la Libia è la nostra Ucraina». Si tratta di una enfatizzazione per ora ingiustificata. Tuttavia sarebbe un terribile errore sottovalutare i pericoli che l’avanzata dei fondamentalisti islamici in Libia, fino a Sirte e, fra poco, fino a Misurata e magari Tripoli presenta per l’Italia e per tutta l’Europa. Quando, in un solo giorno, 12 gommoni carichi di immigrati clandestini vengono intercettati e salvati dalle navi che pattugliano il Mediterraneo centrale, nulla vieta di pensare che in un altro giorno, forse non 12 gommoni ma alcune motovedette armate del Califfato si affaccino nelle acque di Lampedusa, di Malta o di Siracusa con intenzioni meno angosciate. Naturalmente anche questa è pura enfatizzazione. Il Califfato non ha (ancora) i mezzi militari per compiere imprese così azzardate e così lontane dalle sue basi di partenza. Sarebbe semplicistico immaginare che in questo modo avesse inizio il ritorno dei fedeli di Maometto sul continente europeo, dal quale furono cacciati nel 1492. Ma meno semplicistico è immaginare una rapida infiltrazione di elementi capaci di diffondere ovunque, da Parigi a Copenhagen, violenza, disordine, ingovernabilità, rese ancora più dirette dal gran numero di fedeli islamici che, pur pacificamente, già vivono in Europa. In Libia la situazione non è mai migliorata, a quattro anni dalla cacciata del dittatore Gheddafi. Con la sapienza del tempo è oggi sin troppo facile osservare che quello fu un grossolano errore di pianificazione compiuto da francesi e britannici con la collaborazione degli Stati Uniti. Un errore non per l’eliminazione del dittatore ma per la inconcepibile mancanza di progetti sul futuro della Libia, per la mancanza di poteri forti in grado di assumersi la responsabilità di governare un paese che tutto aveva, tranne la solidità istituzionale e che era tenuto assieme dalla crudezza del regime gheddafiano. Sia chiaro. Non si intende con questo affermare che la fine di Gheddafi non fosse auspicabile e giustificata ma affermare che quando si aizza una rivoluzione, i governi responsabili dovrebbero sapere che cosa accade dopo di essa. In Libia, dal 2011 in poi vi è stato solo il caos politico e istituzionale: al punto che oggi esistono due governi: uno che si dichiara legittimo per essere il frutto di elezioni alle quali prese parte solo il 20 per cento degli aventi diritto; e un altro che invoca la legittimità formale, poiché ritiene di essere stato sostituito da un potere privo di base democratica. Il primo, respinto da molte forze e costretto a rifugiarsi a Tobruk per governare con un minimo di appoggio egiziano; l’altro insediato a Tripoli e sorretto dal mondo islamista. Fra questi due soggetti, decine di tribù attente alla tutela dei propri interessi e, come oggi è chiaro, un numero crescente di gruppi di fondamentalisti islamici, probabilmente provenienti dal Chad,o dal Niger o dalla Nigeria e capaci di affermare la loro autorità prima a Derna, senza incontrare visibili ostacoli, poi a Sirte, dove hanno osato affermare di essere i proseliti e i rappresentanti del Califfato proclamato in Iraq da al-Baghdadi. Contro l’affacciarsi di questo pericolo, prima il ministro Gentiloni e poi il ministro Pinotti hanno reagito in maniera netta, affermando, il primo, che l’Italia è “pronta a combattere in Libia in un quadro di legalità internazionale”; e la seconda confermando la disponibilità dell’Italia a partecipare in maniera significativa e numericamente impegnativa alle missioni che verranno decise. Si tratta di reazioni precipitose? La risposta è sin troppo semplice: pensare che l’Italia sia pronta “a combattere” contro il Califfato vuol dire enunciare un proposito che allo stato attuale l’Italia non è in grado di mantenere e che richiede, in ogni caso, una preparazione meno frettolosa di quella che nel 2011 gli alleati dell’Italia fecero dimostrazione. A questo proposito la risposta ufficiale è semplice: sarà l’ONU che dovrà legittimare un’azione militare contro il Califfato. Ma anche questa affermazione appoggia più sulla speranza che sul realismo, poiché ben difficilmente le Nazioni Uniti agiranno
con rapidità e univocamente. Invece esiste una diversa via da percorrere e sorprende che, a quanto pare, essa non sia ancora stata evocata. Questa via è la NATO. Non si deve dimenticare che l’Italia, la Turchia, la Grecia, l’Albania, la Spagna e, indirettamente, Malta (cioè gli Stati minacciati dal Califfato) fanno parte del sistema atlantico e che questo prevede consultazioni in caso di pericolo e azioni militari comuni in caso di necessità. Si tratta di una formula collaudata, per citare un solo esempio, nel Kosovo, dinanzi a una minaccia meno vasta. Ma di una formula che potrebbe servire da esempio anche oggi. LA NUOVA Pag 1 L’Europa deve diventare una nazione di Vincenzo Milanesi Resta poco tempo per trovare un’intesa tra il Governo greco di Alexis Tsipras e l’Unione Europea. La deadline è la fine di questo mese. Dopo la Grecia sarà perduta. La riunione ai massimi livelli a Bruxelles di oggi potrebbe essere decisiva. Ma la questione non è tecnica, com’è ormai chiaro. È tutta politica. Ad avere problemi non è solo la Grecia. In molti Paesi dell’Eurozona la crisi si è fatta pesante, trasferendosi dal piano economicofinanziario a quello sociale. Con fratture generazionali profonde, dati i tassi di disoccupazione giovanile, dove la crisi morde di più. E con l’Unione sempre più a due velocità. Anzi, a velocità costantemente variabili tra Stati che soffrono e si arrabattano, trasformandosi da “reprobi” in “virtuosi”, e viceversa, da un anno all’altro, per rientrare in parametri imposti da trattati sottoscritti quando il mondo era diverso, più di 20 anni fa. Per quanto liberamente sottoscritti, quei trattati sono oggi ciò da cui ci si vuole “liberare”. Immense praterie elettorali si schiudono dunque ai partiti e alle aggregazioni politiche che di questa nuova, pretesa “guerra di liberazione” hanno fatto bandiera. E si superano le antiche dicotomie destra/sinistra. È lo spettro del populismo. Quello spettro sempre più vistosamente si aggira per l’Europa. Perché è proprio “partendo dal popolo”, dalle sue esigenze, e dalle sue sofferenze causate dai vincoli imposti da quei trattati, che si intende combattere la nuova guerra di liberazione. Ma in questi anni, sia detto senza ironia, ed anche senza retorica, parafrasando Garibaldi, «qui si fa l’Europa o si muore». Garibaldi combatteva militarmente per “fare l’Italia”. Per “fare l’Europa” non c’è bisogno, oggi, per nostra fortuna, di eserciti schierati e di guerre. La storia europea è stata la storia di tentativi mai riusciti di unificarla manu militari. Ora per “fare l’Europa” sono, e sono stati, in azione i governi, le diplomazie. Ma non bastano i trattati, per quanto necessari, per quanto ben congegnati. Prima ancora che politico, il problema è culturale. C’è bisogno di altro. Occorre lavorare perché si formi una coscienza nuova, quella dell’appartenenza alla “nazione europea”, a un’unità che va al di là dell’essere cittadini di Stati “sovrani” diversi e ancora tra loro l’un contro l’altro armati. L’Europa si struttura in nationes all’inizio dell’età moderna, con la nascita di quelle monarchie dette, appunto, “nazionali”, dopo la dissoluzione dell’ideale di un’Europa unita del Sacro Romano Impero. La “nazione europea” sembra un’astrazione, e forse certo anche un’utopia. Ma è l’unica strada che può portare l’Europa fuori dal vicolo cieco in cui si è infilata, andando al di là del progetto di superamento dell’Europa degli Stati sovrani tra loro contrapposti da contrastanti interessi economici, cercando soltanto di comporre tra loro quegli interessi. L’Europa dei Governi di Stati “sovrani” sta fallendo nel suo obiettivo di dar vita a un’Unione vera e non fasulla. Creando le premesse per il trionfo della cultura politica del populismo. Nel marzo del 1882, nel pieno della stagione del nazionalismo tardoromantico europeo, Ernest Renan, rispondendo alla domanda «che cos’è una nazione?», scriveva una frase sulla quale dovrebbero meditare i governanti dell’Europa di oggi: «Una nazione è un principio spirituale, dunque una grande solidarietà, costituita dal sentimento di sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L’esistenza di una nazione è un plebiscito di tutti i giorni». Senza questo plebiscito, non vi sarà alcun efficace antidoto ai populismi. Che disgregheranno di nuovo, e forse definitivamente, l’Europa. Con una guerra ai suoi confini orientali, e un attacco terrorista ai fondamenti della sua civiltà, oltre che alle persone che in essa liberamente vivono. Una catastrofe da evitare ad ogni costo.
Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di domenica 15 febbraio 2015 Pag 1 Mai stati così insicuri di Angelo Panebianco Ucraina, Grecia e Libia Puoi cercare quanto vuoi di evitarla ma prima o poi la politica ti troverà. E se non sarai pronto ad afferrarla ti travolgerà. È stata felice e fortunata la lunga epoca in cui l’Europa poteva evitare di occuparsi del principale aspetto della politica: il suo rapporto con la sicurezza (che poi riguarda, al dunque, la sopravvivenza fisica delle persone). Della politica in questo senso se ne occupavano altri: le due superpotenze durante la Guerra fredda e, per qualche lustro, nell’era unipolare, i soli Stati Uniti. Ora non è più così, ma gli europei sembrano ormai incapaci di pensare seriamente alla sicurezza. Ucraina, Grecia, Libia: tre diverse crisi che hanno a che fare tutte (anche quella greca) con la sicurezza e rispetto alle quali gli affanni dell’Europa sono fino ad ora apparsi evidenti. I complimenti di tanti ad Angela Merkel per il piglio con cui ha condotto le trattative con Putin sono stati prematuri. Dallo Zar di tutte le Russie la Merkel ha ottenuto poco, solo una tregua resa fragile e precaria dal fatto che le posizioni delle parti sono tuttora antitetiche, non c’è stato, almeno fino ad oggi, neppure lo straccio di un compromesso. Putin non sembra avere rinunciato alla volontà di creare un corridoio che colleghi direttamente la Russia alla Crimea passando per i territori controllati dai filorussi. E dunque a che cosa mai si brinda quando si brinda? Registriamo invece quanto sia stata debole, fin dall’inizio, la posizione negoziale dei franco-tedeschi. escludere a priori l’invio di armi a Kiev prima dei negoziati non ha giovato a tale posizione negoziale. Né hanno giovato altre dichiarazioni più o meno improvvide. Per esempio, l’affermazione della Merkel secondo cui la Russia è un «vicino di casa» e in quanto tale bisogna per forza accordarsi con essa, è sembrata, più che altro, una voce dal sen fuggita, di una persona cresciuta nella Ddr (la Germania comunista) e segnata psicologicamente da quell’esperienza. Che la Russia sia un vicino, infatti, è un’ovvietà geografica che nulla però dice su ciò che dovremmo fare. Anche l’Unione Sovietica, infatti, era un «vicino di casa» ma non per questo entrammo nel Patto di Varsavia. Entrammo invece nella Nato, l’organizzazione che era nemica mortale del suddetto vicino. Sfortunatamente, dire, prima del negoziato, che la Russia è un vicino di casa con cui dobbiamo accordarci, è una dichiarazione preventiva di resa: fai ciò che vuoi, noi poi accetteremo il fatto compiuto (come è già accaduto con la Crimea). Anche la negoziazione sul debito greco, contrariamente alle apparenze, ha molto a che fare con la sicurezza. Chi dice che bisogna usare criteri «politici» nel trattare con i greci dice il vero anche se intende qualcosa di diverso da ciò che qui si intende. In realtà, bisognerebbe mettere in gioco criteri geopolitici: la Grecia è politicamente un sodale della Russia e questa circostanza dovrebbe entrare a pieno titolo nelle valutazioni di chi tratta con i suoi governanti. Come gli uomini di Syriza hanno precisato subito, essi sono pronti a porre il veto se altre sanzioni contro la Russia venissero decise dall’Unione nel caso di un ulteriore aggravamento della crisi ucraina. Per non dire che hanno anche chiarito che voterebbero contro, facendo andare a picco l’accordo, se mai dovesse fare progressi il trattato Ttip (Transatlantic trade and investment partnership), per il libero commercio fra Stati Uniti ed Europa. Ci sono ottime ragioni - a sentire le autorità di Bruxelles e anche diversi economisti - per trovare un compromesso e «tenere dentro» i greci. E se esistessero anche ottime ragioni per buttarli fuori (non solo dall’Euroclub ma anche dall’Unione)? Forse è meglio che la Grecia diventi apertamente un alleato della Russia (che, peraltro, al momento, avrebbe qualche difficoltà a soccorrerla, essendo essa stessa economicamente stremata) piuttosto che permetterle di giocare impunemente il ruolo di quinta colonna in seno all’Unione. Se fossero capaci di pensare politicamente, gli europei dovrebbero porsi questi interrogativi nelle sedi appropriate. Non c’è solo il fatto che se ad Atene viene concesso ciò che non è stato concesso a nessun altro, si prepara la fine certa dell’euro (nessuno si farà mai più imporre niente). Ci sono anche alcune robuste ragioni geopolitiche. E veniamo al caso che, drammaticamente, ci riguarda più da vicino, la Libia. Va dato atto a Matteo Renzi di avere sollevato il tema per tempo, e con la consueta energia, nelle sedi europee e in altre. Fino ad oggi, però, a quanto sembra, senza grandi risultati, soprattutto a causa del disinteresse americano e dell’impoliticità
dell’Europa. Adesso, le conquiste dello Stato islamico hanno reso il quadro ancora più cupo. Come dimostrano anche le minacce provenienti dal Califfato contro il ministro Gentiloni, il «crociato» reo di avere ribadito la disponibilità dell’Italia a guidare una missione militare internazionale per riportare la pace in territorio libico. Mentre l’Onu prende tempo e l’Europa, fino ad oggi inerte anche sulla vicenda libica, lascia intendere che l’Unione politica forse non esisterà mai, ci conviene restare realisticamente abbarbicati al poco che abbiamo e a ciò che siamo. Dovremmo, ad esempio, domandarci se riusciremmo a intercettare e a neutralizzare un eventuale missile proveniente dalla Libia. Dovremmo chiedere al ministro competente e ai vertici delle forze armate di spiegare agli italiani quali siano, al momento, le nostre possibilità di difesa. Pag 1 I due campi di battaglia di Franco Venturini La morsa islamista La morsa del terrorismo islamista si stringe sull’Europa, e sbaglierebbe chi non vedesse lo stretto legame esistente tra quanto è accaduto ieri in Danimarca e quanto accade ogni giorno in Libia. Le etichette terroristiche possono esserlo o diventarlo, disorientando ancor di più chi vuole difendersi. Ma se l’Europa e l’Occidente intero non capissero per tempo di essere oggetto di un micidiale conto alla rovescia, il prezzo da pagare in termini di civiltà e di sicurezza diventerebbe esorbitante. In prima fila ci siamo tutti. Ed è essenziale - anche se alcuni accenti governativi vanno corretti - che l’Italia lo capisca superando la sola e fuorviante paura dell’immigrazione. In un caffè di Copenaghen era stato organizzato un dibattito per ricordare l’attacco a Charlie Hebdo del 7 gennaio e i suoi tragici seguiti. Per questo c’era l’ambasciatore francese, per questo c’era il vignettista svedese Lars Vilks, autore di ben note caricature su Maometto pubblicate nel 2005 e poi nel 2007. Nella più recente, il Profeta aveva il corpo di un cane. Ed è aperto in Occidente il dibattito sulla correttezza di simili volute provocazioni, se il sacro valore della libertà di espressione debba trovare qualche limite davanti alle religioni e al loro potenziale esplosivo, se viceversa sia giusto difendere la satira fino all’estremo. Sono della prima opinione, ma era soltanto di opinioni, appunto, che in quel caffè danese si discuteva. Ci si confrontava, si esercitava la più basilare delle nostre libertà senza nemmeno impugnare una matita. Ciò non è bastato a fermare le armi automatiche, e a salvare la vita di un avventore. Come già dopo Parigi, dobbiamo ricordare che i milioni di islamici che vivono in Europa non sono tutti né terroristi né loro fiancheggiatori. Chi spara vuole esattamente questo, una guerra contro «tutti» gli islamici che trasformerebbe l’Europa in campo di battaglia. Se non siamo caduti nella trappola dopo Parigi, non lo faremo dopo Copenaghen. E la nuova sirena d’allarme servirà, speriamo, ad accelerare quei progressi nella sicurezza comune che per loro natura non possono esserci noti. Ma non è soltanto questa, non è soltanto l’opera dell’intelligence a doversi adeguare alle nuove realtà che bussano alle porte dell’Europa e, con maggior forza, alle porte dell’Italia. In Libia i terroristi, del tutto assimilabili a quelli di Parigi o di Copenaghen, continuano a guadagnare terreno e potere. In un Paese ormai privo di istituzioni credibili ieri hanno consolidato le loro posizioni a Sirte, avvicinandosi a Tripoli e annunciando di voler espugnare Misurata, dove ha sede una delle due milizie più forti che si sono spartite (ma ora sempre meno) il territorio libico. Continuano i massacri, le esecuzioni (pare anche dei 21 egiziani copti rapiti a gennaio) , e segnano il passo i negoziati tra le parti che l’inviato dell’Onu Leon da mesi tenta di avviare. Il premier Matteo Renzi e il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, in questi giorni, hanno reagito con due iniziative. La prima, sacrosanta, è consistita nel ricordare all’Europa intera che esiste un fronte sud, che in Libia l’Isis sta creando un trampolino da usare contro l’Europa (forse anche sfruttando i flussi migratori), e che vanno assunte decisioni conseguenti perché lo sforzo diplomatico dell’Onu non basta più. Tardi perché tutto era prevedibile e previsto, ma bene. Poi è stato detto che l’Italia è pronta ad intervenire militarmente in Libia «in un quadro di legalità internazionale» , cioè dopo una risoluzione delle Nazioni Unite. Qui non ci siamo, perché la materia richiede il massimo della chiarezza e soprattutto richiede una strategia preventiva che non sembra esistere. Parliamo di una forza sotto le bandiere Onu? Composta da soldati di Paesi islamici, oppure dagli ex colonizzatori italiani, dai francesi e da altri europei? Ci rendiamo conto che in ogni caso, e soprattutto nel secondo, le fazioni libiche potrebbero provvisoriamente unirsi contro gli
stranieri, che dovrebbero fare una operazione di peace enforcing, non di peace keeping perché non ci sarebbe alcuna pace da tutelare? Comprendiamo che potremmo avere più perdite in Libia di quante ne abbiamo avute in Afghanistan? E poi, non ci è chiaro che comunque Russia e forse Cina bloccherebbero la risoluzione evocata? In questo campo le fughe in avanti sono sconsigliate, anche perché qualcuno potrebbe prenderle alla lettera come ha fatto ieri l’Isis definendo Gentiloni «ministro dell’Italia crociata». Un linguaggio che non promette nulla di buono. Sulla Libia, è vero, qualcosa va fatto con urgenza. Ma oltre all’ardua ipotesi Onu esistono opzioni diverse, le sanzioni, il blocco navale, l’interruzione degli acquisti energetici (certo, l’Italia ne soffrirebbe) per ridurre alla ragione coloro che oggi si contendono i proventi delle esportazioni. Alcune di queste opzioni potrebbero essere decise contemporaneamente. Ma stiamo attenti: se alziamo la bandiera di guerra, dopo dobbiamo essere pronti a farla davvero. AVVENIRE di domenica 15 febbraio 2015 Pag 3 Sanremo: rivincita generalista di Gigio Rancilio Il Festival di Conti, i conti del Festival Nek, il Volo o chiunque sia, il vero vincitore di Sanremo è un altro. Perché il Festival della canzone – indipendentemente dai risultati d’ascolto o dal gradimento del pubblico che ottiene l’edizione – da anni vale meno del 2% del mercato musicale. Certo, qualche artista dopo esserci passato diventa (un po’ più) famoso e tanti altri si fanno rivedere dal grande pubblico, ma in quanto a vendite tutte le canzoni di Sanremo messe insieme sono una goccia nel sempre meno florido fiume della musica. Eppure, in mancanza di alternative davvero competitive, il Festival resta la più importante manifestazione musicale italiana. E ogni anno i discografici ci tornano nella speranza che un santo che non esiste (Remo) riporti la canzone italiana ai successi dei bei tempi. Per questo – non si offenda nessuno – ha sempre meno importanza quale canzone vinca il Festival (a proposito: quanti si ricordano chi ha vinto l’anno scorso?). Ciò che conta davvero a Sanremo, ormai ha ben poco a che fare con la musica. Tralasciando i pur lauti guadagni che il Festival porta nella cittadina ligure (e ancor di più la convenzione con la Rai, che riguarda decine di programmi da far svolgere in città), tutto ruota attorno alla televisione. I veri vincitori di questo Sanremo appartengono tutti a quel mondo. Sono loro che hanno davvero vinto. Innanzitutto Carlo Conti, con il suo stile misurato che punta a far sempre felici tutti (dalla destra alla sinistra, dal Nord al Sud) e a stemperare qualunque situazione. In un’Italia fiaccata dalla crisi e attraversata ogni giorno da conflitti, il suo stile da pacificatore ha reso più che mai il Festival sereno e la sua visione un atto tutto sommato rilassante, poco impegnativo e per nulla stressante. A vincere, poi, è stata anche la Rai. Per la prima volta da anni, Sanremo ha rappresentato per il Servizio Pubblico un guadagno economico importante: 4 milioni di euro di attivo. Da 'carrozzone' che bruciava risorse, si è trasformato negli ultimi anni in una macchina capace di produrre sempre più soldi. A ben vedere, però, la vera vittoria di questo Sanremo è stata soprattutto un’altra. Gli ascolti in crescita di questa edizione, con uno share sempre vicino o superiore al 50% (cioè, un italiano su due, davanti alla tv, guardava il Festival) hanno ridato vitalità alla cosiddetta televisione generalista. Quella prodotta da Rai e Mediaset e che si rivolge ad un pubblico molto ampio. Quella tv generalista che da quando è arrivata Sky (che oggi è il più ricco gruppo televisivo italiano) e tutti sembrano vivere connessi alla Rete, su social, web e chat, era considerata alla pari di certe anziane zie. Simpatica, importante, ma non certo alla moda o moderna. Tutti proiettati a guardare le ultime novità, a seguire Master Chef, X Factor e le grandi serie tv americane a tinte sempre più forti, ci stavamo dimenticando che la tv generalista può e ha ancora un ruolo determinante. Conti e il Festival le hanno ridato grande dignità, anche agli occhi dei media. L’hanno rivitalizzata, avvicinando per una settimana Raiuno a un pubblico più giovane. L’hanno portata ad avere una fetta di attenzione importante persino sui social network. Insomma, le hanno ridato se non la bellezza fragorosa dei 20 anni, almeno quella consapevole dei 40-50. Ora, a luci spente, resta solo una domanda: sapranno Conti, la Rai e tutta la tv generalista fare davvero tesoro di tutto questo? IL GAZZETTINO di domenica 15 febbraio 2015
Pag 1 La burocrazia è l'ostacolo alla ripresa di Romano Prodi Finalmente venerdì scorso l'Eurostat, abbandonando il tradizionale linguaggio prudente, ha comunicato che la zona Euro sta uscendo dalla crisi. Non si tratta certo di un rimbalzo forte come quello americano ma il quadro attuale è certamente diverso dal precedente perché le previsioni per l'anno in corso parlano di una crescita media dell'1,3 per cento, nonostante il crollo del mercato russo e l'ancora persistente crisi nei rapporti con la Grecia. La ragioni di questa ripresa si fondano soprattutto su eventi a tutti noti ma che, fino ad ora, non avevano ancora pienamente esercitato le loro conseguenze positive sulle nostre economie. Si tratta del programma di acquisto di titoli di Stato da parte della Banca Centrale Europea, del forte abbassamento del cambio dell'Euro nei confronti del dollaro ( in parte correlato alla politica della Bce) e del crollo del prezzo del petrolio, anche se negli ultimi giorni vi è stato un processo di leggera, anche se probabilmente temporanea, risalita dei prezzi del greggio. Questo insperato cumulo di eventi positivi ha finalmente svegliato l'economia tedesca che, nel 2014, è cresciuta dell'1,6%, con forte accelerazione nell'ultimo trimestre. Le previsioni sono ancora più positive per l'anno in corso nel quale l'aumento del PIL germanico supererà largamente il 2%. Non si tratta di una crescita cinese ma certamente di una novità. Una novità che ha toccato finora in modo molto marginale l'economia italiana, che rimane tra le ultime della classe dell'Eurozona e che, solo nell'ultimo trimestre, ha smesso di calare ed ha raggiunto finalmente lo zero. Le cose andranno meglio quest'anno: le nostre prospettive di crescita oscillano infatti tra lo 0,5 e l'uno per cento. Personalmente tendo a credere più vicino all'uno che allo 0,5%. Non è tuttavia facile spiegare la lentezza della nostra reazione ai messaggi positivi della caduta dell'Euro e del prezzo dell'energia quando, con la variazione del cambio, vengono molto favorite le nostre esportazioni e, con il basso prezzo del petrolio, stiamo già risparmiando miliardi di Euro. La principale spiegazione è che, negli ultimi due anni e mezzo, il consumatore italiano è stato dominato da un pessimismo crescente per cui, contrariamente a quanto era avvenuto in precedenza, la propensione al risparmio è aumentata di due punti, sottraendo un enorme quantità di risorse ai consumi. In parole semplici il pessimismo nei confronti del futuro ha spinto le famiglie ad astenersi dagli acquisti anche nei pur non frequenti casi di aumento del reddito disponibile. I famosi ottanta euro non hanno esercitato l'effetto sperato proprio perché sono arrivati quando le famiglie erano così preoccupate del loro futuro che tendevano più a risparmiare che a spendere. Tutto ciò non è però sufficiente a spiegare perché un paese come l'Italia debba arretrare più degli altri in tempi di crisi e camminare più lentamente nei periodi di ripresa. In generale se ne attribuisce la colpa alla nostra scarsa produttività: questo può spiegare una certa lentezza nei confronti della Germania ma non certo riguardo alla Spagna o alla Francia, che naviga con un costante deficit della bilancia commerciale, al contrario dell'Italia che, nonostante l'assoluta mancanza di materie prime e fonti energetiche, mantiene un modesto ma costante attivo nei suoi rapporti commerciali con l'estero. La vera grande differenza sta tutta nel funzionamento delle nostre strutture pubbliche. Gli operatori economici non possono contare non solo sui tempi della giustizia ma sulla certezza del diritto. Dato che tutto questo riguarda non solo il bilancio delle imprese ma la vita stessa di coloro che in esse operano, a questa tragedia è da imputare la causa maggiore del nostro costante ritardo. Segue a ruota l'inestricabile groviglio degli adempimenti burocratici: gli adempimenti nel campo edilizio, della sicurezza, della sanità e di tutti gli altri settori che necessariamente toccano la vita di un'impresa oscillano sempre più spesso tra il tragico e il ridicolo, con una sovrapposizione di competenze di difficile comprensione anche per coloro che ne sono responsabili. Tutto questo crea un clima di incertezza per cui si tende sempre di più a distribuire tra un crescente numero di organismi la responsabilità delle decisioni, in modo che ne vengano poi diluite le eventuali responsabilità. Se poi si riesce a rinviare la decisione finale a qualche tribunale ancora meglio, perché allora proprio nessuno può essere chiamato a risponderne. Mi sono chiesto in questi giorni ( senza trovare una risposta) perché sia stata demandata al Consiglio di Stato la decisione sulla legittimità o meno di mettere a coltura nel nostro paese le sementi geneticamente modificate. Dato che una tale decisione coinvolge enormi problemi di carattere sanitario e economico dovrebbe essere il governo a decidere, consultati ovviamente gli organismi scientifici di cui il governo stesso ampiamente dispone. Immagino le mille motivazioni
(tutte perfette dal punto di vista formale) perché questo non avvenga e ad esse mi inchino ma aggiungo subito che con questi comportamenti si distrugge un paese. Ho ricordato questo caso solo perché è di importanza enorme ed è l'ultimo che mi è capitato sotto gli occhi, ma gli incroci e le incertezze decisionali a tutti i livelli (centrale, regionale, comunale) aumentano e si moltiplicano ogni giorno con l'accumularsi di nuove leggi. Porre termine a questa confusione è il primo passo perché si possa invertire la fuga all'estero degli specialisti e degli operatori qualificati italiani e stranieri. Naturalmente perché la ripresa diventi stabile e perché i consumatori riprendano piena fiducia è necessario lavorare a fondo e a lungo sulle risorse umane e su una politica economica attenta a utilizzarne il contributo in tutte le attività produttive. Ma questo è un altro capitolo: intanto diamoci da fare per normalizzarci. LA NUOVA di domenica 15 febbraio 2015 Pag 1 L'attesa fa il gioco degli jihadisti di Renzo Guolo Lo Stato islamico evoca minacciosamente Gentiloni, definito il «ministro dell’Italia crociata». Termine, quello di crociato, che nel linguaggio jihadista definisce una figura del Nemico verso il quale l’ostilità è assoluta. Del resto, l’Italia è in prima linea nella coalizione che si batte contro il Daesh, l’acronimo arabo dello Stato Islamico, e nel contrasto politico, militare, culturale del terrorismo internazionale. Ma in queste ore il vertice della Farnesina si è spinto più in là, annunciando la disponibilità italiana a combattere in Libia in un quadro di legalità internazionale. Dunque, a guidare una forza militare sotto l’egida Onu che contrasti l’avanzata delle forze del califfato sulle sponde del Mediterraneo. La Libia, infatti, è sempre più terra di conquista dell’Is. Le milizie che hanno giurato fedeltà a al Baghdadi hanno conquistano anche Sirte. Dopo Derna è la seconda città a finire sotto i vessilli nerocerchiati. Ma l’influenza dell’Is si estende anche a Bengasi, sino a poco tempo fa incontrastato regno della qaedista Ansar al-Sharia. Ora, sotto la possente spinta simbolica della proclamazione del califfato, molti dei seguaci di Ansar cominciano a affluire nei ranghi dell’Is. A Sirte la radio trasmette già i discorsi del Califfo Nero, sintomo del nuovo e cruento ordine che si annuncia. E, come ha mostrato anche l’attacco all’hotel Corinthia, gli jihadisti sono anche a Tripoli. Che la situazione sia precipitata lo dimostra anche l’invito a abbandonare il paese rivolto ai nostri connazionali dall’ambasciata italiana, ultima sede diplomatica occidentale a restare aperta in un paese con due governi e due parlamenti ma senza Stato. Il califfato a poche centinaia di miglia dai confini costituisce un rischio enorme per l’Europa, in particolare per l’Italia. Può diventare il magnete per gli jihadisti del Maghreb, dell’Africa subsahiarana, dell’area egiziana e sudanese. Oltre che un mito politico per la gioventù musulmana radicalizzata in Europa. Una sorta di Somalia davanti alla Sicilia. Gli uomini in nero sullo sfondo azzurro del mare non sarebbero, allora, solo un mero effetto cromatico ma una seria minaccia. Persino i traffici umani che partono dalle sponde libiche, potrebbero essere gestiti dagli jihadisti, come attiva forma di destabilizzazione dei Paesi europei. Con le tante katibe che controllano le coste della Tripolitania al servizio, in una logica di convenienza e sopravvivenza, degli obiettivi strategici del Califfo Nero. Una missione di peace-keeping sotto mandato Onu, come ipotizza il governo italiano, appare comunque difficile in un contesto in cui gli schieramenti, le alleanze, gli interessi delle mille fazioni e milizie locali sono assai mutevoli. Qui più che mantenere la pace, bisognerebbe imporla. Ma un’operazione di peace-enforcement, un intervento militare sotto forma dell’ennesima “coalizione dei volenterosi”, sarebbe ancora più problematica. Difficilmente Stati Uniti e Europa potrebbero assumersi un simile rischio. Il califfato, però, è ormai alle porte e urge una risposta a questo dilemma tragico. All’Italia per gli storici legami, gli interessi economici, i vincoli geopolitici, che la legano all’antica Quarta sponda, compete una responsabilità particolare. Ma la Libia non può essere solo questione italiana. In gioco ci sono la sicurezza delle società europee e gli equilibri nel Mediterraneo. Serve uno sforzo della comunità internazionale. La linea attendista, divenuta la regola dopo l’avventurosa iniziativa della Gran Bretagna di Cameron e della Francia di Sarkozy, che fecero cadere Gheddafi senza un disegno sul dopo, rischia di consegnare il paese all’Is. Il tutto mentre il terrorismo jihadista rialza la testa in Europa. Come annunciano gli spari a Copenhagen contro il convegno su blasfemia e libertà d’espressione al quale erano presenti Lars Vilks, uno degli autori delle vignette sul Profeta pubblicate nel 2005 dal
quotidiano danese Jyllands-Posten, più volte minacciato di morte, e l’ambasciatore francese Zimeray. Attacco che puntava a replicare la strage a Charlie Hebdo. Pag 1 Lega, capi e militanti al bivio di Francesco Jori L’antica Gallia di Cesare, in formato padano: la Lega «est omnis divisa in parte tres». Demolita l’egemonia di un Bossi ridotto a malinconica comparsa, le terre un tempo da lui controllate con feroce egemonia si ritrovano frammentate in tre tronconi. Due dei quali l’un contro l’altro armati, divisi come sono in tutto, dalla tattica alla strategia: il partito che ha in testa Salvini e quello a cui guarda Tosi divergono radicalmente negli obiettivi e nel modo di raggiungerli; al punto da risultare difficilmente conciliabili non solo nel personale politico, ma anche e soprattutto in larga parte dell’elettorato. Tra le due realtà si stende una terra di mezzo: il Veneto che ha come simbolo Zaia, dietro il quale convivono impostazioni diverse tra loro, alcune delle quali non si identificano forse con nessuno dei tre nomi in campo. E che risultano singolarmente silenti fin dai tempi della rovinosa uscita di strada del vecchio Carroccio targato Bossi. Pur rimanendo in ombra rispetto ai primi due, questo terzo settore è oggi il più importante, viste le ormai imminenti elezioni, che coinvolgeranno la sola grande regione del Nord chiamata alle urne. Un primo confronto è alle porte, già domani a Vicenza nel faccia a faccia fra i tre protagonisti. C’è da credere che alla fine un’intesa si troverà, perché neppure i pasdaràn delle rispettive posizioni possono essere così stupidi da portare al voto una Lega a pezzi; o almeno lo si deve presumere, ricordando il vecchio ma sempre valido avvertimento di Longanesi, essere intelligenti non è un obbligo. Si tratta però di verificare la solidità dell’accordo che alla fine verrà raggiunto: perché non si tratta solo di vincere le elezioni, ma anche e soprattutto di garantire al vincitore la possibilità di governare sul serio per cinque anni, senza perfidi trabocchetti e devastanti guerriglie interne. Per renderlo possibile, bisognerà peraltro sgombrare il campo da una serie di equivoci, magari già dall’incontro di domani. Il primo riguarda le regole sulle liste. Inutile girarci intorno: la Lega di Bossi al proprio interno è stata spietatamente iper-centralista, con uno che decideva e gli altri che si adeguavano a pena di epurazione. Salvini vorrebbe fare altrettanto senza averne la statura: al massimo è un Bossi formato bonsai. Sta ai leghisti veneti stabilire se allinearsi anche ora, dopo aver pagato dazio per tanti anni, oppure pretendere che lo statuto non venga riscritto “ad usum bonsai”. Il secondo equivoco da sciogliere verte sulle alleanze, anche qui scegliendo tra autonomia e dipendenza. Ma soprattutto, evitando di considerare gli elettori degli automi decerebrati che in cabina usano una matita telecomandata. Che senso ha pretendere che un alleato (Ncd) ci sia ma sotto falso nome? O c’è chi pensa che i votanti siano cretini? E che coerenza c’è nel dire no in Veneto a un partner che contemporaneamente sta sostenendo il governo leghista in Lombardia? Infine, visto che si vuole mettere in pista un Carroccio in versione sud, come si fa ad accettare per Napoli ciò che si rifiuta per Venezia? Ma dietro a questi interrogativi, e al derby casalingo tra Salvini, Tosi e Zaia, c’è un punto fin qui trascurato eppure non meno rilevante; e sta ancora una volta in Veneto. Dove migliaia tra sindaci, assessori, consiglieri, semplici militanti leghisti si sono conquistati il consenso elettorale sputando l’anima giorno per giorno, sgobbando in silenzio, rifiutando in larghissima maggioranza (salvo rare quanto stonate eccezioni) la smania dei primi piani. La Lega sono loro, almeno quanto e magari ben più dei capi; anche perché quando c’è da tirar su i voti sono loro a pedalare. E anche a spingere e rimettere in carreggiata il Carroccio, quando qualche maldestro conducente lo porta rovinosamente fuori strada.
Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di sabato 14 febbraio 2015 Pag 1 Il sonno della ragione di Antonio Polito Prepotenti e rissosi Non è stata una buona idea far lavorare il Parlamento di notte. Certo, si è offerto in pasto al pubblico il supplizio degli odiati onorevoli inflitto con la privazione del sonno. Ma si è anche prodotto il sonno della ragione. Lo spettacolo andato in scena a Montecitorio
in queste ore è del genere che un tempo si sarebbe detto da Parlamento balcanico. Forse ha ragione chi dice che la Costituzione andrebbe riscritta alla luce del sole. Anche perché l’incursione notturna del premier è stata così tenebrosa che ora rischia di produrre effetti devastanti sul processo delle riforme. Almeno in questa materia il Parlamento non è infatti alle dipendenze del governo, né può esserne messo in mora. D’altra parte, si tratta del Parlamento più disossato della storia della Repubblica, in cui sono uniti solo i partiti il cui obiettivo è spaccare gli altri, mentre i partiti che dovrebbero unire sono spaccati. Questa sorta di Dieta polacca, tenuta insieme esclusivamente dall’istinto di sopravvivenza, vede ancora in Matteo Renzi il suo deus ex machina, il domatore che la tiene in vita; ma ha appena perso il suo principio ordinatore, il motore primo che le aveva consentito di incamminarsi sull’impervio sentiero costituente. La morte del patto del Nazareno, a dispetto degli ingenui che ne hanno minimizzato gli effetti, è infatti qualcosa di più che un cambiamento numerico, non è solo la fine del banco di mutuo soccorso parlamentare Verdini-Lotti. Ha anche una conseguenza politica. Se l’obiettivo di cambiare la Costituzione smette di essere comune alle più grandi forze popolari, e diventa il progetto di un solo partito dominante, la conseguenza quasi inevitabile è che le opposizioni si coalizzino, e si radicalizzino. Per questo il mantra di «andiamo avanti da soli» che ripetono i renziani non è convincente. Perché più si va avanti da soli più si dà un alibi agli estremismi di chi è rimasto fuori. E in circostanze come queste il giochetto dei due o tre forni non funziona: pur dopo aver litigato con Berlusconi, il Pd sta infatti litigando con M5S, ha fatto a botte con Sel, ed è di nuovo gravemente diviso al suo interno. C’è poi un danno collaterale di questa bagarre. Ed è che il pubblico ne ricava l’impressione che la Carta comune sia diventata oggetto di scontro partigiano come qualsiasi altra cosa. Il che indebolisce le riforme prima ancora che escano dal Parlamento. Già due volte abbiamo commesso questo peccato, e ci è andata molto male: con la riforma del Titolo V pretesa a colpi di maggioranza dal centrosinistra del tempo, e con il famigerato Porcellum imposto dal centrodestra berlusconiano. Entrambe le leggi sono state percepite nel Paese come trofei di una guerra civile, e alla fine sono fallite. La capacità di riformatore di Matteo Renzi non si misura con il numero di sedute notturne che è capace di imporre al Parlamento o per la efficacia delle minacce di scioglimento con cui tiene a bada i parlamentari. Bisogna che il premier ridia presto un senso a questa storia: costruendo un nuovo asse politico per le riforme e accettando le conseguenze, di metodo e di merito, che ne deriveranno. Altrimenti rischia di intestarsi il fallimento del progetto sulla cui base ha preteso e ottenuto la guida del governo. Pag 1 Le schegge avvelenate di Francesco Verderami Guerra o pace. Il romanzo che Renzi e Berlusconi stanno scrivendo insieme ormai da un anno è una storia di cui non si conosce ancora il finale. Lo scontro sulle riforme non è detto infatti che sia l’ultimo capitolo, somiglia piuttosto a un braccio di ferro - dopo il Quirinale - tra chi dice di esser stato tradito (Berlusconi) e chi temeva di venir tradito (Renzi). La trattativa sul successore di Napolitano è stata la tomba del loro vecchio Patto, seppellito da reciproche incomprensioni ed errori diplomatici, con il capo di Forza Italia che si è sentito «umiliato» per l’imposizione di Mattarella, e il leader del Pd che a sua volta si era sentito «accerchiato» quando l’interlocutore - pensando di tranquillizzarlo - gli aveva rivelato di aver già stretto un’intesa su Amato «anche con D’Alema». Così si è arrivati alla rottura che sembra un punto di non ritorno. Il capogruppo azzurro Brunetta, aventinista, chiama al telefono il suo comandante da Montecitorio: «Presidente, tutto bene. Puoi esserne or-go-glio-so». Il premier compatta le truppe democratiche in Aula e chiede l’ultimo sforzo: «Si vota fino all’alba». Ma davvero Renzi immagina di proseguire nella legislatura con un Parlamento trasformato in palude? E davvero Berlusconi pensa così di arrivare alle elezioni con il Consultellum? In bilico tra guerra e pace, non si vedono al momento avvisaglie di tregua. Anzi, negli ultimi giorni proprio sui quotidiani si è avuta la prova che l’escalation non ha raggiunto l’acme. Dopo che il Giornale aveva preso a sparare su Palazzo Chigi per il caso delle banche popolari, sul Messaggero è apparsa la notizia che il premier si è rivolto a una trentina di personalità - tra politici, manager e tecnici di settore - per avere idee e suggerimenti da utilizzare nello schema di riforma della Rai. Da tempo Renzi coltiva il
progetto, ma sa che la sua ambizione si scontra con la difficoltà di trovare il tempo per realizzarla. Se ha rispolverato il piano, è perché il leader del Pd voleva trasmettere un segnale a Berlusconi, evidenziando che il nodo del sistema televisivo non è un tema settoriale ma politico, che intende gestire di persona. Rompendosi il Patto, è come se si fosse rotto quel vaso di Pandora, caro al fondatore del Biscione. E gli indizi sono così tanti da assurgere ormai a prova. L’emendamento sulle frequenze tv è stato il primo atto dell’escalation, e non è stata una coincidenza, dato che è toccato al sottosegretario Giacomelli agire personalmente in Parlamento: siccome i tempi per presentare il testo erano scaduti, il titolare della delega sull’Emittenza ha aggirato l’ostacolo facendo proprio un emendamento già depositato, e annunciando che il governo lo avrebbe accolto «previa debita riformulazione». Da quel momento nell’esecutivo è iniziato il gioco dei cassetti. Al ministero dello Sviluppo economico si racconta sia stato accantonato un dossier finora posto «in evidenza»: è il documento presentato (anche) da Mediaset contro il dumping Rai sullo sforamento degli spot pubblicitari, che ha un forte impatto per le aziende concorrenti della tv di Stato. Chiuso quel cassetto, su mandato del premier se n’è riaperto un altro, a Palazzo Chigi, dove dall’autunno scorso giace l’idea di Renzi di dimezzare il canone Rai: è chiaro che una simile operazione farebbe presa sull’opinione pubblica, ma presupporrebbe una Rai più competitiva sul mercato perché «affamata» di inserzioni pubblicitarie... In attesa di capire se la rottura con il leader di Forza Italia sia irreversibile o ricomponibile, gli uomini del presidente del Consiglio sono impegnati nella trincea televisiva, e gli «specialisti» dell’emittenza hanno spiegato a Renzi cosa si può celare dietro la vendita di una quota azionaria di Mediaset appena decisa da Berlusconi: è una sorta di «messa in sicurezza» - questa l’interpretazione - in vista di un possibile accordo strutturale del Biscione con altri players del settore. Gli esperti ritengono che i prossimi mesi saranno «chiave», ed è chiaro che una simile operazione - semmai si verificasse - non potrebbe non passare per un rapporto «non ostile» con il governo. Guerra o pace. Il romanzo di Renzi e Berlusconi che sembra giunto alla pagina finale, potrebbe invece proseguire con un altro, sorprendente capitolo. Spesso in uno scontro l’escalation è il miglior deterrente per evitarlo. Pag 6 Mischie da rugby, corse sui banchi. E ognuno urla all'altro: "Fascista" di Aldo Cazzullo Arriva il premier e gli danno del bullo. Ma tutti hanno paura del "voto anticipato" Finalmente consapevoli della situazione del Paese e delle attese dei cittadini, i parlamentari lavorano alla riscrittura della Carta costituzionale in un clima di collaborazione e di rispetto reciproco. «Idioti! Maledetti! Fascisti! Ti spacco la faccia!». Dietro le pudiche annotazioni del verbale - «confuse grida», «proteste», «vivaci proteste» - si nascondono i peggiori insulti della storia repubblicana, a volte molto elaborati - «dove sei seduto tu era seduto Togliatti, deficiente!» -, a volte diretti e irriferibili. Alle 2 di notte arriva il presidente del Consiglio, accolto con simpatia. «Renzi cosa sei venuto a fare?» gli chiedono dai banchi di Forza Italia. «Siediti!» gli intima l’on. Latronico. Renzi indispettito si gira verso destra. «Cosa c. hai da guardare? Imbecille!» gli gridano. L’on. Bianconi, che ha preso sonno disteso - per lungo - sugli scranni, si alza disturbato e se ne va: «Mi pare di essere a una riunione di un condominio rissoso». Per fortuna provvede a ricucire il capogruppo Brunetta, che di Renzi è grande estimatore: «Anche stavolta si conferma il peggior presidente del Consiglio della storia unitaria. Non si era mai visto il capo del governo venire alla Camera nottetempo a fare il bullo…». L’epiteto ricorrente è «fascista». Ormai sono saltati gli schemi: non è più sinistra contro destra, o maggioranza contro opposizione; tutti urlano fascista a tutti; La Russa si guarda intorno, non si capisce se lusingato o ingelosito, «non si erano mai visti tanti fascisti in quest’Aula». Inoltre i parlamentari usano come insulti mestieri che all’evidenza considerano riservati alla plebe, per cui Verdini diventa «macellaio» e la Boldrini «cameriera», che i 5 Stelle amici del popolo traducono simpaticamente in «serva». Il mattino dopo, sui divani del Transatlantico si ricostruisce la rissa notturna. I peones hanno individuato due facili capri espiatori: «È stata tutta colpa di Daniele Farina di Sel, il picchiatore del Leoncavallo, e di Marco Miccoli del Pd, noto ultrà della Roma». L’on. Miccoli in effetti si è battuto come un leone contro l’arbitraggio di Roma-Juve, anche con un esposto alla Consob per turbativa di Borsa, ma si professa innocente: «Io stavo
dall’altra parte dell’emiciclo. Presidio il confine con i 5 Stelle. La lite è scoppiata sul lato opposto, al confine con Sel; io sono andato a fare da paciere. Certo, se tieni sedutefiume notturne, e per ore hai nelle orecchie i 5 Stelle che sbattono le tavolette sui banchi gridando onestà-onestà, a qualcuno possono saltare i nervi…». Le immagini mostrano una mischia tra deputati tipo partita del torneo Sei Nazioni di rugby, con l’on. Airaudo di Sel che si getta nella rissa camminando sui banchi con agilità sorprendente, tipo Benigni sulle sedie nella notte degli Oscar. Matteo Richetti del Pd conferma di aver visto un duello impari: «Farina, che viene dai centri sociali, se l’è presa con il mite Taranto, che viene dalle camere di commercio, e gli ha tirato un parpagnone…». Prego? «Una castagna…». Scusi? «Un cazzotto. Non è stato bello». L’on. Farina nega e si appella alla moviola: «I questori della Camera hanno le loro immagini, più dettagliate di quelle dei siti. Mi scagioneranno. Stava parlando il nostro capogruppo, Scotto. Ha criticato i 5 Stelle per il frastuono, e il Pd per aver provocato tutta questa confusione. Quelli sono saltati su, a noi restavano solo 25 minuti per parlare, io ho gridato: “Che cosa volete?”. Ok, non ho detto “cosa”. C’è stato un confronto con Taranto e qualcun altro, mani contro mani, braccia contro braccia. Poi sono arrivati i commessi. Sono cose che capitano in un clima del genere, con Giachetti che presiede la seduta inoltrandosi in distinguo sul fascismo, Renzi che gira tra i banchi con fare provocatorio… Ma non c’è stato nessun cazzotto». Fatto sta che alla ripresa dei lavori l’on. Sibilia, grillino, evoca i padri costituenti: «Ve li immaginate Calamandrei, Terracini, Li Causi che nell’Assemblea che scrisse la Costituzione si prendevano tranquillamente a mazzate?». In tre giorni si passa dal patto del Nazareno, alla rissa, all’Aventino. Sel, 5 Stelle, Lega, Fratelli d’Italia si accordano per uscire dall’Aula. Forza Italia prende tempo: bisogna riunirsi e sentire Berlusconi, che è a Cesano Boscone. «Non potete telefonargli?». «No, non può portare il cellulare». Alla fine escono anche gli azzurri, tranne l’on. Romano che preferisce restare. La Camera, che poco prima ribolliva di grida e lanci di faldoni, è ora semideserta, in un silenzio surreale; sui banchi vuoti, uno zainetto dimenticato, copie della Gazzetta dello Sport spiegazzate, altri giornali intonsi. Brunetta lancia un ultimo grido accorato: «Per l’amor di Dio, ripensateci. Per l’amor di Dio!». Anche Saltamartini, ex Ncd, si unisce all’Aventino. Seguono interventi addolorati di solidarietà: Fassina e Civati annunciano che non parteciperanno al voto, Cuperlo chiede una pausa tecnica. Si alza Tabacci: «Non potevate pensarci prima?». Il numero legale appare in bilico. La Bindi suggerisce che il gruppo del Pd si riunisca per decidere se è proprio il caso di andare avanti da soli. Anche un proto-renziano come Richetti ammette che qualcosa non va: «Non possiamo fare le riforme in questo modo…». Conferenza stampa congiunta delle opposizioni, con appello al capo dello Stato. L’on. Scotto: «Siamo qui per difendere la Costituzione da coloro che la vogliono stuprare». Mancano però i 5 Stelle, che indicono una conferenza a parte, per non mischiarsi a Forza Italia «che ha scritto la riforma con Renzi». Civati è seduto tra i giornalisti ad ascoltare. Parte subito forte l’on. Fraccaro, quasi completamente afono: «Abbiamo perso la voce per difendere la democrazia!». Il quadro è come di consueto sereno e ottimista: «Avremo un Senato di mafiosi e di ladri, con l’unico obiettivo di salvare la casta e consentire a una nuova classe dirigente filorenziana di poter continuare a rubare ancora più agevolmente agli italiani». L’intervento dell’on. Fico pare un trailer di 50 sfumature di grigio : «Il Pd provocherà molto dolore a tutte le cittadine e a tutti i cittadini italiani…». L’on. Dadone racconta che il capogruppo democratico Speranza le ha suggerito «di fare un pochino di caos, così si poteva sospendere la seduta e discutere liberamente. Ma non si fa così». Fico insiste sulla linea sadomaso: «Il Paese soffre, i cittadini soffrono…Renzi è tutto chiacchiere e conferenze stampa. Il re della metafisica, il re del nulla. Quest’uomo è venuto di notte a fare smorfie, mandare messaggini e controllare che i suoi facessero il loro sporco lavoro…». L’on. Toninelli: «La riforma del Senato farà aumentare le tasse!». In Aula le votazioni proseguono. Se esce la Boschi, entra Lotti, e viceversa. Mara Mucci, 5 Stelle dissidente, interviene quasi piangendo: da quando il blog di Grillo ha intercettato la sua trattativa con Mariano Rabino sul passaggio a Scelta civica, è subissata di insulti e minacce: «Continuate pure con la macchina del fango, ma sappiate che i grillini prendono dallo Stato 6 milioni di euro l’anno!». La Boldrini le toglie la parola. «Pensavamo che perdendo i due matti, Buonanno e Barbato, il leghista e il dipietrista, si sarebbe creato un clima diverso - si sfoga un veterano -. Ma ora i deputati che insultano sono centinaia. L’Aula è fuori controllo…». Il punto è che i parlamentari ormai si ignorano l’un l’altro. È Buttiglione a
farlo notare: «Qui nessuno ascolta o parla più con nessuno; ognuno si rivolge all’opinione pubblica, non bada all’Aula ma alla tv, pensa solo all’impatto mediatico di quel che dirà. E questo rischia di non giovare». In effetti no, non giova. La Boldrini invita le opposizioni a ripensarci. Renzi riunisce i deputati Pd per dire che si va avanti. Alla buvette infuria la discussione: il voto anticipato è più vicino se la riforma salta, o se la riforma procede? La parola «voto anticipato» è pronunciata con un’ombra di terrore. LA STAMPA di sabato 14 febbraio 2015 Il prezzo della pace in Europa di Mario Deaglio Giovedì mattina moltissimi europei hanno tirato un grosso sospiro di sollievo: dopo una maratona notturna a Minsk, capitale della Bielorussia, contrassegnata da molte notizie contraddittorie, si è saputo che il governo ucraino e i separatisti filo-russi avevano acconsentito al «cessate il fuoco» e posto le basi di un timidissimo processo di pacificazione. E forse quegli stessi europei hanno anche provato un briciolo d’orgoglio, dal momento che questa vittoria – certo reversibile – della diplomazia sull’uso della forza militare è stata ottenuta esclusivamente da statisti europei, ossia senza la presenza degli Stati Uniti al tavolo delle trattative. Occorre avere ben presente che dietro a questo sospiro di sollievo c’è un fruscìo di soldi: una delle strutture portanti dell’accordo è lo sblocco - per il momento non ancora ufficiale ma sufficientemente credibile, in quanto annunciato dal direttore del Fondo stesso, la francese Christine Lagarde - di un prestito del Fondo Monetario Internazionale all’Ucraina pari a circa 15 miliardi di euro in quattro anni. A quest’annuncio ha fatto immediatamente seguito un’altra notizia: la Banca Mondiale si impegna a versare altri 2 miliardi e quest’organizzazione internazionale sarebbe la prima di un gruppo di possibili finanziatori per cui è circolata la voce che si potrebbe raggiungere la quota di 40 miliardi. 40 miliardi - si potrebbe aggiungere - forse non proprio facilmente restituibili. Si può legittimamente sostenere che questi prestiti vadano valutati dal lato politico prima ancora che da quello finanziario. Si tratta del «prezzo» dell’avvio di un processo di pace in luogo di una guerra civile di una ferocia senza precedenti nel Vecchio Continente negli ultimi settant’anni. Questo prezzo comprende anche, e forse soprattutto, la realizzazione di riforme radicali in un Paese che non è solo un disastro politico ma anche un autentico disastro economico. La combinazione «soldi in cambio di riforme» è stata usata frequentemente, con risultati incerti, nelle aree mondiali di maggior povertà e ora arriva in Europa. Questi precedenti possono non farci piacere ma occorre valutare che i finanziamenti all’Ucraina sono poca cosa se paragonati all’aumento delle spese militari che i Paesi europei della Nato dovrebbero sostenere per un surriscaldamento delle tensioni europee. Questi finanziamenti devono avere come contropartita non solo il cessate il fuoco e il processo di pace ma anche l’avvio di una politica economica che preveda, prima di tutto, la privatizzazione di Naftogas, il colosso energetico ucraino, con oltre 175mila dipendenti, considerato l’epicentro della corruzione in un Paese che nell’indice mondiale di percezione della corruzione calcolato a partire dal Paese meno corrotto occupa il 134esimo posto. Se è ragionevole che l’Europa favorisca con strumenti economici l’instaurarsi della pace e la trasformazione dell’economia ai suoi confini, perché non estendere il ragionamento alla Grecia, che ha solo problemi economici e si trova dentro ai confini dell’Unione Europea e della zona euro? Giustamente il commissario dell’Unione Europea all’economia, Pierre Moscovici, ha affermato che, riguardo alla Grecia, non ci si trova di fronte a questioni tecniche ma a un problema politico: la rapidissima estensione nell’opinione pubblica non più solo della piccola Grecia ma di una consistente porzione dell’Europa, di un rifiuto viscerale di debiti pubblici troppo gravosi e di piani di rimborso di tipo esclusivamente tecnico. Occorre quindi andare oltre la tecnica e dare la precedenza, come ha detto Moscovici, al problema politico; occorre valutare che una Grecia incattivita e disperata che cambiasse le proprie alleanze potrebbe provocare uno sconquasso nel Mediterraneo Orientale. Naturalmente i debiti sono debiti e vanno restituiti, ma sul quando e sul come si può e si deve discutere in maniera operativa. A cominciare dalla riunione, ovviamente tesissima, che inizierà a Bruxelles lunedì mattina. Ps. In ogni caso tanto di cappello alla signora Merkel. AVVENIRE di sabato 14 febbraio 2015
Pag 1 Salviamo la bioetica di Francesco D'Agostino I limiti (e i compiti) della politica La crisi economica europea, tra i suoi tanti diversi effetti, ne ha portato uno, che pochi hanno sottolineato: essa ha vistosamente depotenziato il dibattito pubblico sui temi strettamente bioetici e su quelli a questi in qualche modo riconducibili (penso, ad esempio, alle questioni di diritto di famiglia, che sorgono dal diffondersi pressoché inarrestabile delle pratiche di fecondazione artificiale). Non che questo dibattito sia scomparso dalla scena – non mancano del resto notizie di cronaca che incentivano ciclici ritorni di fiamma mediatici – ma c’è da dubitare che l’opinione pubblica se ne lasci coinvolgere più di tanto: troppo difficile è diventato, infatti, seguire con cognizione di causa le sempre più intricate questioni bioetiche, per dominare le quali sono ormai necessarie competenze sottilissime, spesso precluse perfino ai laureati in medicina. Il risultato è che la bioetica di cui si continua a parlare è ormai una 'bioetica liquida', come quella dello spot (tecnicamente impeccabile) con cui l’Associazione Luca Coscioni ha chiamato a raccolta una settantina di personaggi noti al grande pubblico (intellettuali, artisti, giornalisti...) che non esitano a fare propaganda esplicita a favore di una sollecita legalizzazione in Italia dell’eutanasia. Il punto è che tale propaganda fa appello a un concetto, appunto, estremamente 'liquido', quello della pretesa «autonomia» dei malati terminali. Non c’è chi voglia mancare di rispetto all’«autonomia», ma non c’è nemmeno chi riesca davvero a definirla col rigore che sarebbe necessario quando la si vuol porre a fondamento di un testo di legge così scottante, come quello che abbia per oggetto le situazioni di fine vita. Se vogliamo consolarci, portiamo l’attenzione Oltralpe e vedremo come alla liquidità concettuale si sia ormai inestricabilmente congiunta una nuova dimensione della liquidità, quella lessicale. Per il governo francese il termine 'eutanasia' in senso proprio non dovrebbe essere più utilizzato: il presidente Hollande, che pure in campagna elettorale si era sbilanciato a favore, sta promuovendo una normativa che continuando a punire l’eutanasia si limiti a legalizzare una sedazione profonda per i malati terminali, insistendo sulla radicale differenza etica e linguistica tra il 'dare la morte' (sia pure col consenso del malato), pratica che resterebbe appunto illegale, e l’assecondare il naturale e ormai irreversibile processo del morire, accompagnandolo con terapie compassionevoli, come appunto la sedazione, ma di per sé non intenzionalmente letali: la legalizzazione di questa pratica (peraltro descritta in modo nebuloso) dovrebbe mettere finalmente d’accordo tutti (!). Come si vede, tornano continuamente alla ribalta temi di delicatezza estrema, dibattuti appassionatamente, ma mai compiutamente messi a fuoco, come quelli dell’accanimento (o dell’abbandono) terapeutico, della palliazione, della sospensione più o meno concordata (e con chi?) delle terapie, del suicidio assistito. La bibliografia non solo divulgativa, ma anche strettamente scientifica in merito, è immensa; lo smarrimento della pubblica opinione (facendo eccezione per quella ormai caduta preda di pregiudizi ideologici che niente e nessuno potrà mai scalfire) è altrettanto immenso. Una cosa appare a questo punto sicura: è giunto il momento di depoliticizzare questo dibattito. La vita e la morte non possono essere misurate facendo riferimento a maggioranze parlamentari più o meno variabili e puntellate da spot pubblicitari, sia pur promossi con le migliori intenzioni. Bisogna che i Comitati di bioetica (nazionali e internazionali) abbiano il coraggio di mettere all’angolo i dibattiti politici e di riassumere senza timidezza quel ruolo da protagonisti, per il quale sono stati pensati e istituiti. Quando infatti nel 1983 il presidente francese Mitterrand istituì in Francia il primo Comitato nazionale di etica, con una decisione che venne rapidamente imitata prima in tutta l’Europa, poi praticamente in tutti i Paesi del mondo, lo fece partendo da una lucida intuizione, quella – appunto – della necessaria e indifferibile depoliticizzazione della bioetica, in analogia alla necessaria depoliticizzazione di tutti i grandi 'sistemi' a rilevanza antropologica, propri della modernità, dall’arte allo sport all’istruzione superiore... Legiferare in materia bioetica ovviamente si può e si deve, non però per stabilire e vincolare penalmente i contenuti materiali delle pratiche biomediche (cosa aberrante, come sarebbe aberrante che fosse una legge dello Stato a dettare le regole del football o i canoni estetici), ma per salvare la biomedicina da pressioni e deformazioni soprattutto speculative e mercatiste (come ad esempio avviene con la legislazione sui trapianti, il cui primo obiettivo è quello di prevenire e sanzionare il commercio di organi). In termini più tecnici, il 'sistema politica' deve rispettare
l’autonomia di tutti i sistemi etici e, in primis, del sistema bioetico. Mai come in questo momento siamo stati lontani da tale obiettivo, ed è davvero desolante vedere come un tema che tocca letteralmente tutti, come quello della fine della vita umana, sia ridotto a una misera disputa tra fazioni di partito e 'conservatori' e 'progressisti', alla stanca caccia dei voti di un elettorato ancora più stanco. IL GAZZETTINO di sabato 14 febbraio 2015 Pag 1 Rotto il patto, rispunta il voto anticipato di Bruno Vespa Diceva Indro Montanelli che compito del giornalista è di spiegare agli altri quello che nemmeno lui stesso ha capito. Temo che questo acrobatico esercizio toccherà la settimana prossima al vostro cronista. quando la politica italiana – provvidenzialmente anestetizzata dalla crisi ucraina, dal terremoto greco e, si parva licet, dal festival di Sanremo – tornerà in primo piano. Dopo la rottura del Patto del Nazareno Matteo Renzi è più forte o più debole? Ha ingabbiato la minoranza del Pd o ne è stato ingabbiato? E Berlusconi sta stringendo Fitto e Verdini o dipende da loro? Il centrodestra nel suo complesso ha deciso di correre per vincere in Campania e nel Veneto o vuole farsi ancora del male? Cominciamo dall’inizio. Il segretario–presidente, sceso personalmente in campo durante la battaglia parlamentare (anche fisica) di queste ore per rincuorare il proprio partito - sembra il Signore che rimproverava i suoi discepoli intimoriti dal mare in tempesta (“Uomini di poca fede”, l’altro Matteo 14,22-36). Invincibile, incrollabile. Deciso ad allargare la maggioranza a qualunque costo (“Se qualcuno vuole venire dietro di me, prenda la sua croce e mi segua”, naturalmente con la prospettiva del Paradiso. Sempre Matteo, 16-21-27). E se l’opposizione abbandona l’aula, se ne fa una ragione. Tutto questo in apparenza. Perché se si scava, si scopre che quando parla di elezioni anticipate (anche con l’odiato sistema proporzionale in vigore) Renzi non favoleggia più di tanto. Anche perché difficilmente può fare le riforme senza l’appoggio di Forza Italia, visto che lo scouting al Senato non sta dando grandi frutti. C’è allora qualcuno che vede all’orizzonte un succoso zuccherino per il Cavaliere e per l’intero centrodestra nella nuova legge elettorale: la possibilità per le liste di apparentarsi al secondo turno, quello del ballottaggio. Berlusconi potrebbe ripetere l’alchimia del ’94, quando si alleò con la Lega al Nord e con An al Sud. Oggi al Sud potrebbero esserci il Nuovo Centrodestra e perfino un eventuale nuovo partito di Raffaele Fitto. Anzi, meglio che nel ’94, al primo turno le liste potrebbero correre in autonomia salvando l’identità e misurando la propria forza o confluire in un listone se hanno paura dei numeri. Per poi unirsi al round decisivo. Ma Berlusconi non può perdere troppi pezzi per strada se vuole fare a Renzi “il viso dell’arme” (Boccaccio, Decamerone, 15,31). Non può essere strattonato a sinistra da Verdini, nostalgico del Nazareno e a destra da Fitto, che quel patto ha sempre visto come il fumo negli occhi. Perché in politica contano i numeri e la prima occasione per mostrarli sono le elezioni regionali di maggio. Nel Veneto Luca Zaia non può seriamente rinunciare ai voti di Forza Italia e anche di Ncd se vuole essere rieletto. Così come in Campania Stefano Caldoro non può fare a meno di Alfano. Il quale ha detto, ovviamente, che lui non può stare a tavola con Berlusconi al Sud e mangiare in cucina da solo al Nord. Se invece di accanirsi a tormentare il dito tutti quanti, a sinistra come a destra, alzassero lo sguardo alla luna del mondo che ci sta intorno, questi discorsetti da comari non avrebbero senso. E’ tardi per sperare?
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