Psichiatria, psicoterapia e neuroscienze ALBERTO SIRACUSANO, LUCA SARCHIOLA, CINZIA NIOLU Unità Operativa di Psichiatria, Dipartimento di Neuroscienze, Cattedra di Psichiatria Università degli Studi di Roma Tor Vergata
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Sebbene “mente” e “cervello” siano concettualmente inseparabili, la psichiatria si è sempre divisa nelle sue componenti psicologico-sociale ed organicista. Un’impostazione della psichiatria sempre più evidence based ha sottolineato ed accentuato le differenze esistenti tra una concezione neurobiologica ed una psicosociale. I progressivi avanzamenti nel campo delle neuroscienze hanno infatti spesso portato ad un crescente distacco rispetto ad una visione psicodinamica. Tuttavia, la maggiore consapevolezza riguardo la sorprendente plasticità presente a livello del sistema nervoso sta spingendo diversi autori a proporre una “nuova” prospettiva della psicoterapia, più propriamente neurobiologica, che riflette la natura, essenzialmente dinamica, dell’interazione tra geni e ambiente. La psichiatria, oggi, alla luce degli importanti progressi raggiunti negli ultimi anni nel campo delle neuroscienze, deve svolgere un importante ruolo di guida nell’ambito delle ricerca della biologia e delle stesse neuroscienze. Uno dei punti di forza della psichiatria, della psicologia cognitiva e della psicoanalisi è proprio la prospettiva dalla quale osservano e studiano la mente. Il loro compito è quello di riconoscimento e definizione dei processi mentali che dovranno poi essere studiati da un punto di vista biologico. Il contributo della psichiatria, della psicologia cognitiva e della psicoanalisi alle neuroscienze può essere quello di fornire dei modelli teorici del funzionamento della mente che permettano di interpretare i fenomeni biologici osservabili ai diversi livelli di ricerca, “hypothesis generation”, e il contributo delle neuroscienze quello di fornire evidenze sperimentali, dei meccanismi biologici sottesi a questi processi, per poter confermare e sviluppare i modelli teorici proposti, “hypothesis testing”.
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RIASSUNTO
Parole chiave: psichiatria, psicoterapia, neuroscienze, memoria, neurosviluppo, neuroplasticità, trauma, terapia cognitivo-comportamentale, psicoterapia interpersonale.
SUMMARY Although “mind” and “brain” are inseparable concepts, psychiatry has always been divided between its two components, psychosocial and somatic. The growing need of an evidencebased psychiatry has underlined the differences between neurobiological and psychological frameworks. Indeed, the rising awareness about neural plasticity is leading more and more researchers towards a “new” perspective for psychotherapy, more neurobiologically based, which can reflect the dynamic nature of gene/environment interaction. Psychiatry nowadays plays an important role, both in the field of biology and of neuroscience. One of the core strenght of psychiatry, cognitive psychology and psychoanalysis is their peculiar observing point, from which they study mind processes. Their peculiar task is recognising and defining mental processes, which will be later studied from a biological point of view. The tribute of psychiatry, cognitive psychology and psychoanalysis to neuroscience could be building theoretical models of mind functioning, which will enable the understanding of observable biological phenomena (“hypothesis generation”). On the other hand, neuroscience could contribute providing experimental evidences of biological mechanisms underlying these phenomena, as a basis to confirm and develop the theoretical models (“hypothesis testing”). Key words: psichiatry, psychotherapy, neuroscience, neurodevelopment, neuroplasticity, trauma, cognitive behavioral therapy, interpersonal psychotherapy. 67 Indirizzo per la corrispondenza: Cinzia Niolu, Unità Operativa di Psichiatria, Cattedra di Neuroscienze, Università degli Studi di Roma Tor Vergata, via Nomentana 1362, 00137 Roma.
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“Il medico può vedere, toccare e odorare; mentre le realizzazioni con le quali ha a che fare lo psicoanalista non possono essere né viste né toccate: l’angoscia non ha né forma, né colore, né odore, né suono”. (Bion 1970)
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“Come risultato dei progressi delle neuroscienze degli ultimi anni, sia la psichiatria che le neuroscienze si trovano in una nuova, migliore posizione per un riavvicinamento, che potrà utilizzare gli insights della prospettiva psicoanalitica per promuovere la ricerca di una comprensione più profonda delle basi biologiche del comportamento”. (Kandel 1998)
INTRODUZIONE Dalle affermazioni di Bion sulla incompatibilità tra psicoanalisi e medicina1 al lavoro di Kandel che definisce il ruolo scientifico della psichiatria2 non corrono solo trent’anni, ma i progressi delle neuroscienze, delle tecniche di neuroimaging, della genetica applicata alle scienze psichiatriche e psicologiche, che hanno reso possibile cominciare a parlare di rapporto tra neuroscienze e psicoterapia. In che maniera gli elementi citati hanno determinato questo cambiamento rivoluzionario nei rapporti tra medicina e psicoanalisi/ psicoterapia? La risposta a questa domanda ruota attorno ad alcune aree concettuali fondamentali: definizione di mente come risultato dell’attività dei neuroni del cervello, plasticità neuronale, impatto dell’ambiente sulla espressione genetica, relazione ambiente-cervello, effetti della psicoterapia sul cervello, esperienze precoci e formazione dei diversi tipi di memoria. Aree nelle quali negli ultimi anni si sono ottenuti interessantissimi risultati di ricerca, particolarmente significativi a fornire informazioni su possibili spiegazioni delle basi neurobiologiche delle psicoterapie. Bisogna anche aggiungere una ulteriore considerazione: se le neuroscienze vanno fornendoci costantemente nuove informazioni sul funzionamento del cervello, sul collegamento tra strutture e funzioni cerebrali, sul rapporto tra esperienze e processi mentali (vedi ad esempio il ruolo del trauma), possiamo sostenere che ciò che ha determinato questo forte riavvicinamento tra le due discipline è l’imprescindibile concetto di relazione-apprendimento. Lo studio del comportamento umano, del mondo interno, delle emozioni, della mente, del cervello non può prescindere dallo studio delle esperienze interpersonali; ovvero di come le relazioni e la storia personale di ciascun individuo plasmino lo sviluppo del cervello e delle sue connessioni nervose, il cui risultato dinamico è “l’emergere” della nostra attività mentale3. Le prospettive di studio delle basi neurobiologiche delle esperienze interpersonali possono essere sintetizzate in tre punti principali: 1) la mente umana emerge da processi che modulano flussi di energia e di informazioni all’interno del cervello e fra cervelli diversi. Le tecniche di neuroimaging ed elettroencefalografiche permettono lo studio di questi fenome-
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In questo lavoro abbiamo cercato di raccogliere, in diversi punti critici, i possibili rapporti tra psicoterapia e neuroscienze; soprattutto per comprendere i meccanismi di azione delle psicoterapie. Scelta non semplice, in cui il metodo seguito è stato quello di selezionare le zone di contatto, tra le due aree, nelle quali esistono, allo stato attuale, sufficienti prove sperimentali da permettere serie ipotesi di collegamento. Abbiamo scelto di partire dall’impatto della psichiatria/psicoterapia sul cervello, punto di arrivo di una complessa serie di ricerche, ripercorrendone a ritroso le tappe salienti4.
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ni, in quanto le funzioni cerebrali sono legate al consumo energetico dell’eccitazione neuronale, diversa per intensità e localizzazione a seconda della attività cerebrale in azione. 2) La mente si forma all’interno delle interazioni tra processi neurofisiologici interni ed esperienze interpersonali. Le esperienze costituiscono sia il patrimonio informativo della nostra mente sia determinano in vari modi (plasticità sinaptica, priming, pruning) le modalità attraverso le quali la mente sviluppa le capacità di elaborare tali informazioni. 3) Lo sviluppo delle strutture e delle funzioni cerebrali dipende dalle modalità con cui le esperienze, e in particolare quelle legate a relazioni interpersonali, influenzano e modellano i programmi di maturazione geneticamente determinati del sistema nervoso.
IMPATTO DELLA PSICOTERAPIA SUL CERVELLO I concetti di evoluzione e di sviluppo del cervello e della mente hanno profondamente modificato i criteri di valutazione e cura dei disturbi psicopatologici, sia dell’età evolutiva che dell’adulto. I due filoni più rappresentativi sotto questo profilo, il neurodevelopmental approach e la developmental psychology e psychopathology, pur occupandosi, rispettivamente, di sviluppo neurologico e psicologico-psicopatologico, presentano alcuni punti di intersezione e di interazione reciproca, che potrebbero rappresentare snodi interessanti per la comprensione del ruolo della psicoterapia nelle neuroscienze. Il primo elemento comune è la finalità aggregativa, sociale, evoluzionisticamente orientata alla sopravvivenza dei processi di sviluppo neurologico e psicologico. Nell’ottica del neurosviluppo, ciò è testimoniato dal fatto che alcuni dei sistemi neuronali più potenti e complessi nella specie umana sono preposti alla “aggregazione e comunicazione sociale”5. Sul versante dello sviluppo psicologico e psicopatologico, è noto che i fattori determinanti nella “scelta” della pathway evolutiva di ciascun individuo sono da ricercare nella qualità delle sue prime relazioni significative. Un secondo punto nodale è la relazione diretta, dinamica gene-ambiente, che regola ciascuna fase dello sviluppo neurologico e psicologico, determinando la possibilità di forme diverse, normali e patologiche, sia dell’uno che dell’altro. Un terzo punto, strettamente correlato al precedente, è la reversibilità del69
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NÓOς l’assetto neurologico e psicologico raggiunto, in misura diversa a seconda della fase di sviluppo in cui il soggetto si trova, con la modifica di alcune variabili ambientali. Un ultimo punto, forse il più importante perché in qualche modo fornisce il suggello scientifico che per anni è stato ipotizzato e auspicato dai teorici dei vari approcci psicoterapeutici (Freud per primo), riguarda la possibilità di monitorare, utilizzando tecniche di neuroimaging, le variazioni citoarchitettoniche del cervello durante le diverse tappe del suo sviluppo, in varie condizioni ambientali-relazionali, in parallelo alle diverse tappe dello sviluppo psicologico dell’individuo. Questo sia nello sviluppo fisiologico che in quello patologico. Parafrasando Sroufe, potremmo dire che il senso di considerare sviluppo neurologico (del cervello) e sviluppo psicologico (della mente) insieme, “normal and abnormal”6, sia quello di ribadire una continuità persa di vista tra organo e funzione, all’interno della quale vigono le medesime leggi di stabilità e cambiamento, nella normalità e nella patologia. Ci domandiamo a questo punto, se l’analisi di ciò che diventa patologico in determinate condizioni di stimolazione ambientale è documentabile “scientificamente”, e dunque è validabile, e se allo stesso modo è documentabile una reversibilità della “distorsione d’organo”, oltre che di funzione (comportamento) in seguito al cambiamento delle condizioni ambientali che l’hanno stimolata, la psicoterapia in quanto processo di cambiamento è assimilabile a tutto ciò? In che maniera e con quale specificità? Esiste una “via maestra” attraverso la quale la psicoterapia può esercitare un effetto specifico sulla plasticità neuronale, diverso da quello indotto dal trattamento farmacologico, nella medesima patologia? Sroufe definisce come essenza della developmental psychopathology il concetto che “il cambiamento rimane possibile in ciascuna fase dello sviluppo”, dunque, in altre parole, qualunque sia la pathway e in qualunque punto di questa il soggetto si trovi, esiste un margine di reversibilità. Il passo successivo, tuttavia, altrettanto importante perché si possa parlare di cambiamento, o di reversibilità, è il seguente: “… ma il cambiamento (l’adattamento) è limitato (“constrained”) dall’adattamento precedente. Ciò significa sia che alcuni individui hanno maggiori probabilità di trovare un nuovo adattamento rispetto ad altri sia che, anche dopo i cambiamenti, l’adattamento precedente può sempre essere riattivato…”6. In altre parole, tutto può essere modificato, passando da pathways di sviluppo psicologico normale a patologico e viceversa, ma limitatamente alle caratteristiche dell’organizzazione adattativa di ciascun individuo, plasmatasi nei primi anni di vita in funzione della qualità delle sue prime relazioni significative. I teorici del neurodevelopmental approach, d’altro canto, suggeriscono che la struttura del cervello umano si vada costruendo, suddividendo, plasmando e specializzando, mutando in continuazione in risposta all’esperienza, a partire da un bagaglio determinato geneticamente presente fin dalla vita intrauterina, lungo tutto il life span dell’individuo. Tuttavia, la fase del ciclo vitale in cui il cervello è più recettivo alle esperienze esterne è, come è noto, la prima e seconda infanzia. Durante queste fasi le esperienze sociali, emozionali, cognitive e fisiche direzionano e plasmano i sistemi neurali secondo assetti che in seguito influen-
zeranno il funzionamento dell’individuo per tutta la vita. In queste fasi del ciclo vitale il patrimonio genetico del bambino ha, contemporaneamente, le massime possibilità di svilupparsi e la massima vulnerabilità.
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Bowlby, nel suo ultimo scritto, affermava: “… postuliamo la presenza, all’interno dell’organismo, di un sistema di attaccamento comportamentale, considerandolo un prodotto dell’evoluzione con la specifica funzione biologica di assicurare la protezione; … nel corso del tempo, la strategia di attaccamento biologicamente data nel giovane si è evoluta in parallelo con la complementare strategia genitoriale di cura responsiva, attraverso la comunicazione… una tendenza a mantenere la vicinanza o l’accessibilità a qualcuno considerato più forte e più saggio… rappresenta una parte integrante della natura umana che svolge un ruolo vitale per tutta la durata della vita7. Il trait d’union tra schemi innati e schemi appresi (o tra “nature and nurture” come si diceva) risiede, dunque, secondo il fondatore della Teoria dell’Attaccamento, nella comunicazione tra i soggetti di una relazione mirata biologicamente ad uno scopo. In una relazione di questo tipo le strategie di attaccamento del bambino si evolvono e si modificano in parallelo alle strategie di accudimento del genitore, in una continuità di comunicazione di segnali e risposte che, durante lo sviluppo, porterà alla formazione di modelli operativi interni da utilizzare nelle proprie relazioni interpersonali, nel corso di tutta la vita. La teoria dell’attaccamento offre pertanto una cornice teorica di riferimento in primo luogo per poter affrontare con maggiore chiarezza le problematiche relative alle conseguenze neuromorfologiche, psichiche e comportamentali degli stili disadattativi più estremi (vedi neglect, trauma) che abbiamo eletto a modello paradigmatico. Secondariamente, per meglio comprendere le correlazioni tra target neuroanatomici e neurofunzionali specifici della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) (che sulla teoria dell’attaccamento si basa), il ruolo patoplastico della cognizione sull’emozione, la qualità e il timing della progressione del cambiamento, riscontrati negli studi condotti su soggetti con disturbi psicopatologici trattati con CBT. Accanto ai concetti di vulnerabilità, cambiamento, adattamento, introdotti parlando di sviluppo neurologico e psicologico, aggiungiamo ora anche quello di comunicazione tra le parole-chiave “a ponte” tra cervello e mente. È interessante notare, a questo proposito, come tutto un filone di studi di neuroscienze, che seguono in linea “evolutiva” diretta quelli di MacLean e Pribram, venga sottolineato il ruolo dell’empatia e del comportamento cooperativo accanto a quello competitivo (derivato dall’evoluzionismo classico darwiniano) quali “cues” di sopravvivenza di specie, evidenziando come il comportamento “tend-and-befriend” – cooperativo, empatico, aggregativo – condivida con quello di “fight-and-flight” – iperarousal – e con quello di “freezing-surrend” – dissociazione, il coinvolgimento delle aree cortico-sottocorticali. La scelta del tipo di comportamento, a seconda della situazione contingente (sopravvivenza, amicizia, amore, intimità, ecc.), sarebbe deputa-
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IL RUOLO DELL’ATTACCAMENTO
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IL MODELLO DEL TRAUMA
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ta alla zona della corteccia prefrontale (aree orbitale e mediale). È evidente la centralità di questo discorso nel campo della relazione psicoterapeutica, di cui empatia e collaborazione costituiscono aspetti centrali.
Fin dagli anni ’40 i ricercatori di ogni campo hanno sempre enfatizzato l’utilità dello studio di ciò che è “abnorme” per la comprensione di ciò che è considerato “ normale”. Gli studi sui maltrattamenti e i traumi infantili, facenti capo alla Child Trauma Academy, offrono alcuni schemi semplici, ma al contempo didattici, su ciò che viene comunemente chiamato il rapporto tra “nature e nurture” e sui possibili pattern di sviluppo neuronale e psicologico legati all’interazione tra patrimonio genetico e stimolazioni ambientali. In effetti tutti gli studi, condotti evidentemente in condizioni di stimolazioni ambientali da gravi (ipostimolazione, maltrattamenti) ad estreme (traumi), giungono alla medesima conclusione: fermo restando il patrimonio genetico che ciascun bambino porta con sé alla nascita, che lo rende unico tra gli altri esseri umani, esistono dei bisogni primari comuni a tutti i quali, se non vengono soddisfatti, possono condurre a conseguenze gravi, spesso durature ed irreversibili, su alcune strutture anatomiche cerebrali in via di sviluppo, sulla relativa funzione specifica e, di conseguenza, sui fenomeni comportamentali osservabili a questi connessi. Si è visto, infatti, in questi studi, che gli effetti dell’ambiente in cui il bambino cresce possono interferire con tempi, modi e conseguenze diverse su tutte le fasi del processo di neurosviluppo: neurogenesi, migrazione, differenziazione, apoptosi, arborizzazione, sinaptogenesi, synaptic sculpting, mielinizzazione. La durata, la stabilità e la gravità di tali lesioni sembrano dipendere da tutta una serie di elementi che hanno a che vedere sia con la struttura di base del bambino (ereditarietà, patrimonio genetico), sia con elementi dell’ambiente esterno: temporali (fase del neurosviluppo, durata della stimolazione), relazionali (presenza di figure di riferimento che svolgano una funzione “tampone”), con la possibilità di un cambiamento radicale dell’ambiente. La diversa combinazione di queste variabili può determinare la reversibilità o irreversibilità dell’alterazione morfofunzionale del cervello, e, di conseguenza, la stabilizzazione e nei casi estremi la cronicizzazione della corrispondente alterazione psichico/comportamentale (da “state” a “trait”). Tutto ciò è riassunto e sintetizzato nei principi nucleari (core) del neurodevelopmental approach: 1) le influenze reciproche genetiche e ambientali; 2) lo sviluppo sequenziale e gerarchico; 3) lo sviluppo “activity-dependent” (principio del “use it or lose it”); 4) il timing. Alcuni di questi principi risultano particolarmente interessanti per quanto riguarda le possibilità di intervento della psicoterapia sulle modifiche morfofunzionali disadattative. In particolare, nell’ambito del principio 1, è importante sottolineare come si passi ad un maggior peso delle influenze ambientali rispetto a quelle genetiche, sulla maggior parte delle modifiche che avvengono dall’adolescenza in
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avanti: il linguaggio, il funzionamento cognitivo ed emozionale, la formazione dei beliefs (corrispondenti ad altrettanti modificazioni delle reti neuronali finali corrispondenti), aprono ampi spazi di riflessione su un ipotetico “impatto” dell’intervento psicoterapeutico. Nel principio 2, il fatto che lo sviluppo del cervello proceda secondo una linea sequenziale e gerarchica (dal tronco encefalico alle aree corticali e limbiche), oltre a significare, in dettaglio, che i neuroni del tronco encefalico devono per forza migrare, differenziarsi e collegarsi prima di quelli della corteccia, corrisponde al dato clinico che i primi anni di vita siano fondamentali per lo sviluppo di alcune abilità socio-emozionali, e che quindi anche semplici deprivazioni sensoriali, in un ambiente non necessariamente maltrattante ma “neglectful”, possano provocare profonde mutazioni sui sistemi neuronali preposti a tali competenze. La reversibilità di tali alterazioni e la modificabilità dei pattern disadattativi correlati da parte di interventi ambientali (adozioni, psicoterapia) sono tuttora oggetto di discussione (si veda oltre). Il risvolto più interessante di questo principio, tuttavia, riguarda le specifiche “pathways” di modifiche seguite, come vedremo, dalla CBT rispetto alla terapia farmacologica: top-down versus bottom-up; è possibile ipotizzare una qualche correlazione tra queste evidenze e il principio 2? Il principio cardine ai fini del nostro discorso, tuttavia, è il 3, ovvero quello che postula l’organizzazione del cervello secondo una modalità “use-dependent”. Il fenomeno di base su cui si poggia il concetto generale è quello dell’apoptosi. Questo step presuppone che, durante tutto il corso dello sviluppo, i neuroni ridondanti (geneticamente) o scarsamente attivati (dalle stimolazioni ambientali) muoiano, mentre gli altri proseguano negli step successivi di arborizzazione, sinaptogenesi, ecc. Stesso principio, chiamato anche “use it or lose it”, regola anche il fenomeno del synapting sculpting8. Entrambi gli step rappresentano momenti cruciali per la creazione delle basi molecolari dell’apprendimento e della memoria, funzioni a loro volta fondamentali nel processo psicoterapeutico (rievocazione, narrazione, comunicazione). Nei bambini maltrattati, profonde distorsioni sulla neuroarchitettura cerebrale si osservano non solo nei casi di violenza e/o di abuso propriamente detti, ma anche nelle situazioni di abbandono e/o ipostimolazione cognitiva ed emozionale (cognitive and emotional neglect). Quest’ultimo aspetto, le sue caratteristiche, le sue conseguenze sul piano dello sviluppo psicologico e le eventuali possibilità di reversibilità sono ciò che ci offre lo scenario più adeguato per poter analizzare alcune possibili caratteristiche dell’impatto della psicoterapia sul cervello, oltre che sulla mente. Gli studi di brain-imaging, effettuati su alcune popolazioni di bambini maltrattati in fasi diverse del loro sviluppo e in condizioni di diversa stimolazione ambientale, ci permettono di “monitorare” le variazioni citoarchitettoniche e di metterle in relazione diretta con gli eventi stressanti della vita del bambino; allo stesso modo avviene il procedimento contrario: il cambiamento ambientale è confrontabile con una reversibilità dell’anomalia cerebrale e con i cambiamenti osservabili sul piano comportamentale. In questo potremmo leggere una sorta di verifica empirica di quei meccanismi di interazione dinamica tra pathway di neurosviluppo e di sviluppo psicologico cui si accennava in precedenza.
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NÓOς Ritorna qui il paradigma di Sroufe, già citato nel paragrafo precedente, a proposito dell’essenza della developmental psychopathology: “… changes remain possibile at each phase of development… but, even following changes, prior adaptation may still have potential for reactivation…”6, che riecheggia la reversibilità delle mutazioni citoarchitettoniche nel corso del neurosviluppo, secondo l’essenza del neurodevelopmental approach, con il variare delle circostanze ambientali e dato il patrimonio genetico di ciascuno (analogo neurobiologico del “constraint by prior adaptation…” di Sroufe). Il gruppo di lavoro di Perry et al.8 ha esaminato diversi aspetti del neurosviluppo in bambini deprivati, distinguendo due tipi di neglect, su base sia quantitativa che qualitativa: global (deprivazione sensoriale in più di un’area: linguaggio, contatto fisico, interazioni sociali), GN, e chaotic (deprivazione fisica o emozionale o sociale o cognitiva) – CN, con o senza esposizione a droghe nel periodo prenatale. Sono state confrontate le misure di crescita tra i gruppi e, successivamente, con valori di crescita standard utilizzate generalmente in tutte le Unità Pediatriche. I valori che si discostavano in maniera più significativa dalla norma erano quelli relativi alla circonferenza frontooccipitale (FOC), considerata nei bambini piccoli come una misura relativa delle dimensioni del cervello. I bambini con GN avevano valori di FOC inferiori al 5° percentile, contrariamente a quelli con CN, nei quali i valori non erano così bassi. Per quanto riguardava le immagini di MRI e CT, veniva interpretato come anormale il 64,7% di quelle dei bambini GN, contro l’11,5% di quelli con CN. Le anomalie riscontrate erano principalmente “allargamento dei ventricoli” e “atrofia corticale”. I dati più significativi per il nostro discorso, tuttavia, provengono dalla prosecuzione dello studio sui bambini GN, allontanati dall’ambiente di origine e riesaminati dopo un anno. I dati significativi erano due: 1) dopo 1 anno dal cambiamento di ambiente, la maggior parte di questi bambini mostrava un miglioramento delle dimensioni cerebrali e delle funzioni lese; 2) il grado di miglioramento era inversamente proporzionale all’età del bambino al momento del cambiamento. Questi dati confermano quelli riscontrati negli studi sulla deprivazione sensoriale e sull’arricchimento dell’ambiente condotti nei mammiferi superiori, che dimostravano come i cervelli degli animali allevati in ambienti più stimolanti erano più grandi, a struttura più complessa e funzionalmente più flessibili. Anche la corteccia umana, pertanto, aumenta di volume, si complessizza, incrementa e ramifica le connessioni sinaptiche in funzione della qualità e quantità della stimolazione sensoriale a cui viene esposta (linguaggio, contatto fisico, interazioni sociali). Perry riporta altri studi che mettono in evidenza alterazioni anatomo-funzionali nei bambini deprivati, in alcuni dei quali il FOC scendeva fino al 3° percentile prima dell’adozione, e rimaneva basso dopo 4 anni nel 13% dei bambini adottati dopo il 6° mese (figura 1). A conclusioni analoghe giungono gli studi di Chugani et al.9 sugli orfani rumeni. In questo gruppo di bambini, le anomalie di riscontro più frequente erano: riduzione del metabolismo nel giro orbito-frontale, nella corteccia prefrontale infralimbica, nell’amigdala e nella parte rostrale dell’ippocampo, nella corteccia laterale temporale e nel tronco encefalico.
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Neglect estremo
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Normale
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Bambino di 3 anni
Figura 1. Anomalie dello sviluppo cerebrale conseguenti a deprivazione sensoria e nella prima infanzia. Queste immagini evidenziano l’impatto negativo della deprivazione sullo sviluppo cerebrale. L’immagine sulla sinistra rappresenta una scan-TC di un bambino sano di 3 anni, con dimensioni normali della testa (50° percentile). L’immagine sulla destra appartiene ad un bambino di 3 anni con grave deprivazione sensoriale. Il cervello di questo bambino è significativamente più piccolo del normale (3° percentile) e presenta dilatazione ventricolare e atrofia corticale (modificato da: Perry 2002).
Il correlato funzionale di tali anomalie corrisponde ad altrettanti specifici disturbi nella sfera cognitiva, emozionale, comportamentale e sociale. In particolare, sono stati identificati due quadri specifici di base, corrispondenti ad altrettanti tipi di deprivazione: emozionale e cognitiva. Un capitolo a parte è rappresentato dalla violenza traumatica. - Emotional neglect. Il corrispettivo clinico di questo tipo di deprivazione è caratterizzato da sensazione interna di vuoto, mancanza di empatia, incapacità di formare e/o di mantenere legami emotivi, comportamento violento e assenza di rimorso per le proprie azioni. Il pattern di attaccamento corrispondente è quello disorganizzato. - Cognitive neglect. Clinicamente si manifesta con un discontrollo degli impulsi e dell’aggressività, legato al venir meno delle aree di controllo corticali e subcorticali preposte. - Traumatic violence. Si osserva nei bambini esposti cronicamente ad un ambiente violento. Il trauma influenza il pattern, l’intensità e la natura della percezione sensoriale e dell’esperienza affettiva degli eventi rispetto all’infanzia. L’emozione a cui il bambino è esposto cronicamente nel suo ambien75
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te è la paura, la minaccia, pertanto la reazione da stress è attivata cronicamente, sotto forma di iperattività, ipervigilanza (hyperarousal continuum) o di sintomi dissociativi (dissociative continuum). I sintomi che un bambino può sviluppare in seguito all’esposizione a traumi o violenze, dunque, possono essere molto diversi a seconda di svariati fattori quali la natura, la frequenza, le caratteristiche e l’intensità della violenza subita, lo stile di coping e le capacità di adattamento del bambino, la presenza di fattori protettivi. PSICHIATRIA, PSICOTERAPIA E NEUROSCIENZE
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L’AZIONE DELLA PSICOTERAPIA SUL CERVELLO: IL MODELLO COGNITIVO-COMPORTAMENTALE L’impiego della CBT nei disturbi psichiatrici prende le mosse dagli studi di Beck sulla depressione10, e dallo sviluppo della sua teoria cognitiva (CT) della depressione seguiti da quelli sull’ansia e, successivamente, da altri sui disturbi di personalità sui disturbi alimentari psicogeni e, più recentemente, sulla schizofrenia. Il background filosofico della CT è rappresentato dalla prospettiva fenomenologica centrata sul sé, sull’importanza dell’esperienza soggettiva cosciente e dei processi personali di attribuzione di significato alla realtà. Seguendo tale modello, la CT presuppone che esista una realtà “oggettiva” al di là delle percezioni soggettive, tuttavia ciò che alla fine conta per l’individuo è la capacità di confrontare continuamente la propria “realtà personale” con la realtà oggettiva condivisa con gli altri, e di evolversi insieme ad essa, in un continuo processo di adattamento, definito come un processo di conoscenza adattativa della realtà, in cui il soggetto assimila gli schemi della realtà esterna, li confronta con gli schemi della propria realtà interna, li accomoda ad essi e di conseguenza attribuisce significato all’evento, quale risultato di questo continuo balancing tra assimilazione e accomodamento. Dunque, la premessa fondamentale della teoria cognitiva è che la capacità di processare le informazioni (attribuire significato) e di formare delle rappresentazioni mentali (cognitive) dell’ambiente è fondamentale per l’adattamento e la sopravvivenza umana. Le rappresentazioni mentali (chiamate anche schemi, cognizioni, modelli operativi interni) riguardano se stessi, la realtà esterna, gli altri, il proprio modo di interagire con la realtà esterna. Qualsiasi fallimento di tale processo, a qualsiasi livello avvenga, può determinare disagio emozionale o psicopatologia franca. La realtà alla quale nello sviluppo si impara a dare significato è quella di tutti i giorni, comprese le situazioni di stress, di deprivazione, di violenza. Il momento in cui si inizia a processare l’informazione e a darle significato è quello della nascita, il primo micro-ambiente con il quale il bambino si confronta è quello delle sue prime relazioni significative, primariamente quella con la madre. Il modello dell’attaccamento, con le sue osservazioni dirette del comportamento dei primati e dei bambini in condizioni di separazione dalla madre, rappresenta un pilastro scientifico fondamentale su cui la CT poggia. Secondo Bowlby, una parte del comportamento di attaccamento è innata (geneticamente determinata secondo la specie), un’altra parte è appresa, nel contesto dei primi rapporti che il bam-
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bino ha con la propria figura di attaccamento. La CT presuppone che gli schemi di attribuzione di significato si sviluppino attraverso una continua interazione tra tale ambiente e gli schemi rudimentali innati e che, pertanto, l’ambiente abbia profonde influenze nel modellare l’organizzazione cognitiva degli individui. Il concetto che torna, nel modello cognitivo così come in quello del neurosviluppo, è quello della relazione dinamica individuoambiente, che qui viene descritta in termini di determinismo reciproco, e che procede in maniera sequenziale: durante il periodo di cure parentali, la conoscenza viene costruita e conservata, nell’età adulta, quando si sviluppano gli strumenti di concettualizzazione, tale conoscenza archiviata (memoria) viene decodificata e ampliata ulteriormente. In questo processo di sviluppo della conoscenza, ciascuno step costituisce la base per quello successivo, così come avviene per il neurosviluppo: la memoria della conoscenza archiviata, sollecitata e modellata dagli stimoli ambientali, si riattiva e si amplia. Gli schemi cognitivi che vengono attivati più frequentemente dalle circostanze esterne diventeranno sempre più elaborati fino a diventare dominanti nella organizzazione cognitiva di quel soggetto, e qui troviamo, ancora una volta, un parallelismo con uno dei principi cardine del neurosviluppo: quello della “use-dependent function”. Un’attivazione eccessiva di alcuni schemi a scapito di altri, oppure una loro generalizzazione, può portare alla creazione di cognizioni errate, o distorte, o rigide, su se stessi, il proprio ambiente, il proprio futuro (errori o distorsioni cognitive). Il modello cognitivo, inoltre, presume che esista una strutturazione gerarchica della processazione dell’informazione (in analogia con la struttura gerarchica del processo di neurosviluppo), che, nel corso degli anni e dai diversi autori, è stata variamente concettualizzata. Guidano e Liotti11 propongono una organizzazione cognitiva della conoscenza costituita da: un nucleo metafisico interno – costituito dalla rappresentazione “automatica, tacita e irrefutabile di sé” che si forma durante i primi anni dello sviluppo, nella relazione con le figure di attaccamento, e che contiene le memorie emozionali della relazione di attaccamento (feeling memories, emotional schemata) che influenzano la vita; una cintura protettiva costituita dai modelli rappresentativi di sé (identità personale: self identity, self esteem) in rapporto con la realtà esterna, espressione dell’atteggiamento verso se stessi (attitute toward oneself) in continua interazione col nucleo; i programmi di ricerca costituiti dai modelli rappresentativi della realtà, espressione dell’atteggiamento verso la realtà (attitude toward reality), in continua interazione con la cintura protettiva (regole per l’assimilazione dell’esperienza, procedure di problem solving). L’azione della CBT, secondo tale modello, può avvenire a due livelli: quello periferico, mediante la riorganizzazione dell’atteggiamento verso la realtà (tecniche comportamentali) e quello profondo, cioè la modifica dell’atteggiamento verso se stessi, attraverso la ristrutturazione dell’identità personale (ristrutturazione cognitiva). In altre parole, la CBT funziona a livello conscio (nel senso di accessibile alla coscienza) per determinare dei cambiamenti in quelli che, come vedremo, vengono considerati gli effetti, i prodotti visibili della processazione dell’informazione che avviene ad un livello preconscio: “in un clima di sicurezza e sostegno, il terapeuta cognitivo rende intended i
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NÓOς prodotti della processazione automatica dell’informazione, che sono unintended… in questo modo il paziente può rifocalizzare le memorie e le paure che operano ad un livello involontario dell’esperienza”12. Seguendo il modello di questa organizzazione strutturale, la CT postula che l’attribuzione di significato alla realtà possa essere influenzata da processi sia “top-down” che “bottom-up”, cioè che la processazione dell’informazione possa partire dalla selezione, elaborazione e astrazione degli schemi di grado più elevato (“top down”) e, contemporaneamente in vario modo, dai livelli più rudimentali degli stimoli provenienti dall’ambiente (“bottom-up”). Tali ipotesi trovano riscontro (come si vedrà più avanti) nei dati di neuroimaging sugli effetti e le modalità di impatto della CBT sulla citoarchitettonica cerebrale.
EVIDENZE SPERIMENTALI DELL’EFFETTO DELLE PSICOTERAPIE SUL SISTEMA NERVOSO CENTRALE Diversi sono gli studi che hanno cercato di indagare gli effetti biologici secondari a trattamenti psicoterapici per i disturbi psichiatrici. Sebbene non si siano ancora chiariti i meccanismi che mediano la risposta clinica al trattamento, sia esso farmacologico che psicoterapico, si suppone che differenti trattamenti abbiano target d’azione primari differenti. Per quanto riguarda la depressione, alcuni studi sull’effetto antidepressivo dei farmaci a livello centrale sottolineano una possibile direzione “bottom-up”, con una iniziale azione a livello subcorticale ed una successiva a livello corticale. Le regioni cerebrali coinvolte nel mediare questi eventi non sono ancora conosciute, sebbene i siti primari d’azione sembrino essere il rafe dorsale, il locus ceruleus, l’ippocampo e il talamo, con un secondario interessamento della corteccia frontale. Viceversa i modelli teorici dell’azione della CBT a livello del sistema nervoso centrale ipotizzano un meccanismo di azione “top-down”. La successione temporale con la quale si modifica la sintomatologia depressiva, durante il trattamento con la CBT, è a favore di questa ipotesi. Infatti il miglioramento dell’umore, della tristezza e della percezione di sé, che precedono i cambiamenti dei sintomi vegetativi e “motivazionali”, indica la corteccia come l’iniziale sito d’azione della psicoterapia. L’intervento psicoterapeutico è infatti focalizzato a modificare i sistemi della memoria e dell’attenzione coinvolti nella cognizione, nel bias affettivo e nell’elaborazione di informazioni maladattive. Un recente studio ha analizzato le variazioni del metabolismo del glucosio a livello celebrale successivamente al trattamento cognitivo comportamentale in un gruppo di pazienti depressi. Il miglioramento della sintomatologia era correlato in modo significativo ad un aumento del metabolismo del glucosio a livello limbico e ad una sua diminuzione a livello corticale (figura 2). Sebbene in maniera del tutto speculativa, l’aumento del metabolismo a livello dell’ippocampo e del cingolo mediale e anteriore e la diminuzione dell’attività a livello della corteccia frontale mediale e prefrontale ventro e dorsolaterale sono stati correlati all’aumento, determinato dalla CBT, dell’attenzione verso stimoli ambientali ed emozionali soggettivamente rilevanti, all’acquisizione dell’abilità di ridurre, a livello corticale, il recupero e la codifica di
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Paroxetina
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Terapia CognitivoComportamentale
Figura 2. Cambiamenti del metabolismo regionale del glucosio in pazienti responder trattati con CBT e paroxetina. Nei pazienti trattati con CBT si è evidenziata una diminuzione del metabolismo a Iivello frontale e parietale e un aumento, a Iivello dell’ippocampo. Nei pazienti trattati con paroxetina si è evidenziato un pattern metabolico diverso. Entrambi i gruppi mostrano una diminuzione a Iivello della corteccia prefrontale ventrolaterale (modificato da: Goldapple et al. 2004).
memorie associative erronee e ad una diminuita ruminazione e overprocessing di informazioni irrilevanti13. Altri due studi paradigmatici hanno valutato, invece, gli effetti neurobiologici dell’interpersonal psycoterapy (IPT), sempre su pazienti depressi. Nello studio di Brody sono valutati, tramite PET, i cambiamenti metabolici celebrali, su due gruppi di pazienti depressi trattati rispettivamente con IPT e con paroxetina. Prima del trattamento nei pazienti era evidenziabile, rispetto ai soggetti di controllo, un metabolismo più alto, a livello della corteccia prefrontale, della testa del nucleo caudato e del talamo. Una minore attività era invece osservabile a livello del lobo temporale. Dopo il trattamento, sia nei soggetti trattati con paroxetina che con IPT, si sono evidenziati una diminuzione del metabolismo a livello della corteccia prefrontale e un incremento del metabolismo nell’insula di sinistra e nel lobo temporale inferiore destro14. Nello studio di Martin venivano valutate, invece, le variazioni del flusso ematico cerebrale in due gruppi di pazienti depressi prima e dopo il trattamento con 79
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NÓOς venlafaxina o con IPT. Dopo il trattamento l’intero gruppo di pazienti mostrava un’attivazione significativa a livello del lobo temporale posteriore destro, dei gangli della base di destra e del giro angolare dell’emisfero dominante15. Sebbene ancora non sia chiaro il meccanismo d’azione dell’IPT, è stato ipotizzato, ed in parte confermato da questi studi, che la psicoterapia, teorizzata come esperienza di apprendimento, determini cambiamenti nella plasticità sinaptica tramite un rimodellamento (“retrainig”) dei sistemi della memoria implicita. Dato che uno degli obiettivi dell’IPT è l’aumento della socializzazione, le aree connesse con la socializzazione possono presentare delle variazioni della connettività durante la psicoterapia. Per esempio, per quanto riguarda lo studio di Brody, la diminuzione dell’attività a livello della corteccia del cingolo, che tende ad aumentare in modelli di studio di animali isolati dal gruppo, può essere messa in relazione con il miglioramento del funzionamento sociale conseguente alla IPT ed essere la conseguenza di un potenziamento dei sistemi serotoninergici. La psicoterapia inoltre sembra influenzare i livelli degli ormoni tiroidei nei pazienti con disturbo depressivo maggiore. I pazienti che rispondevano alla CBT mostravano una importante diminuzione dei livelli di tiroxina (T4), rispetto ai non responder che presentavano un aumento di T4. Un altro studio su pazienti depressi ha osservato che i cambiamenti dell’architettura del sonno dopo un trattamento cognitivo-comportamentale erano uguali a quelli indotti dal trattamento farmacologico. Diversi sono gli studi che hanno indagato gli effetti biologici nei pazienti con disturbi d’ansia successivamente a trattamenti cognitivo-comportamentali. Per quanto riguarda il disturbo ossessivo-compulsivo, Baxter e Schwartz hanno studiato gli effetti a livello centrale conseguenti sia ad un trattamento farmacologico che cognitivo-comportamentale. Gli autori hanno studiato le variazioni del metabolismo del glucosio, prima e dopo i trattamenti, a livello dei gangli della base e del circuito orbitoprefrontale-striato-talamico in quanto centrali in questa patologia. I cambiamenti funzionali in queste zone, correlabili al miglioramento della sintomatologia, erano simili indipendentemente dal trattamento effettuato. La psicoterapia, quindi, come il trattamento farmacologico, determina cambiamenti su regioni disfunzionali che sembrerebbero essere alla base dei sintomi ossessivi. Queste strutture infatti pare siano coinvolte nella memoria implicita e quindi nella “procedural learning” le quali determinano l’abilità ad acquisire nuove competenze necessarie a mettere in atto con successo comportamenti di avvicinamento ed evitamento16,17. Uno studio tedesco si è proposto di valutare l’attività celebrale regionale, prima e dopo un trattamento cognitivo-comportamentale, utilizzando fMRI, su un gruppo di pazienti aracnofobici durante la visione di immagini di ragni in cattività. Nei soggetti che avevano risposto con successo al trattamento, non era più evidenziabile, durante lo stimolo fobico, l’attivazione della corteccia prefrontale dorso laterale destra e del giro paraippocampale. Inoltre mostravano alla fMRI una riduzione significativa dell’iperattività a livello dell’insula e a livello della corteccia del cingolo anteriore, due zone coinvolte nelle esperienze emozionali e in alcune funzioni cognitive (controllo dell’attenzione, selezione della risposta)18. Tali modificazioni fanno supporre
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che la CBT ridurrebbe l’evitamento fobico sia de-condizionando la paura appresa a livello dell’ippocampo e del paraippocampo sia diminuendo le interpretazioni cognitive erronee e i pensieri catastrofici a livello della corteccia prefrontale. Il soggetto fobico, quindi, tramite il de-condizionamento riesce a modificare la percezione di “memorie traumatiche” non attribuendogli più un vissuto “fear-evoking”. Il trattamento psicoterapeutico quindi sembrerebbe agire, così come quello farmacologico, sopprimendo l’attività neuronale nelle regioni coinvolte nelle reazioni di ansia e paura, nel consolidamento e nella riparazione di memorie patogene, nell’inibizione del comportamento e nell’analisi contestuale di situazioni angoscianti. Gli studi più recenti mirano ad identificare precocemente endofenotipi diversi ai fini di un trattamento mirato delle diverse sindromi psichiatriche. Uno studio di Siegle et al. Utilizza la fMRI per isolare fattori predittivi di guarigione (recovery) nella depressione unipolare, in pazienti trattati con CBT e venlafaxina, identificati in variazioni di metabolismo nelle parti anteriori e posteriori della corteccia cingolata e nel caudato, corrispondenti alla diversa reattività neurale agli stimoli emozionali prima del trattamento19. Infine, tra i più recenti, ancora uno studio che mette a confronto pazienti depressi responder a CBT e venlafaxina, questa volta utilizzando la PET, era in grado di identificare tre pattern di risposta diversi: 1) cambiamenti comuni ai due interventi, 2) cambiamenti opposti, 3) cambiamenti specifici per ciascun intervento20. I dati di neuroimaging che documentano un parallelismo tra alterazioni del neurosviluppo, alterazioni di pathway fisiologiche dello sviluppo psicologico e disturbi psichici e comportamentali oltre che, in senso inverso, effetti visibili “riparativi” dei farmaci, della CBT e della IPT su specifiche alterazioni morfofunzionali cerebrali in specifici disturbi, possono essere considerate prove di efficacia della CBT? E ancora, l’evidenza di pathway specifiche di impatto della CBT e della terapia farmacologica potrebbero fornire indicazioni utili per la strutturazione di una terapia integrata mirata su target specifici. E ancora, le tecniche di neuroimaging potrebbero avere una utilità impiegate nella scelta di “tailored treatments” partendo dall’individuazione di endofenotipi treatment-relevant, non solo per la depressione, ma per tutti i disturbi psichiatrici? Cerchiamo di ricostruire, di seguito, le tappe attraverso le quali si è arrivati a poter formulare domande di questo genere, impensabili per la ricerca scientifica solo fino a trenta anni fa.
PSICHIATRIA E NEUROSCIENZE: DALL’INCOMPATIBILITÀ AD OGGI Come abbiamo ricordato, è con la pubblicazione del lavoro di Eric Kandell “A new intellectual framework for psychiatry”2, che si può datare l’inizio della rivoluzione dei rapporti tra psicoterapia e neuroscienze. Nel suo articolo Kandell si propone di dimostrare non solo l’importanza e l’unicità della ricerca psichiatrica nel campo medico, ma soprattutto l’importanza rivestita dallo studio dei rapporti tra determinanti sociali e biologiche del comporta81
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NÓOς mento. Dopo alcune interessanti considerazioni sull’origine dello scissionismo tra corrente biologica e psicologica della psichiatria imputabile, anche, alla lentezza di sviluppo delle prime neuroscienze, incapaci di fornire interessanti dati di ricerca per spiegare la complessità dei fenomeni mentali, il premio Nobel per la medicina, affronta la importanza del ruolo scientifico della psichiatria. Il sempre più crescente numero di informazioni riguardo la plasticità cerebrale ha permesso di ipotizzare una visione neurobiologica della psicoterapia. Ricordiamo che per plasticità sinaptica si intende la capacità delle sinapsi di rafforzarsi o indebolirsi in base alla precedente attività, o addirittura di essere eliminate o di formarsi ex novo. Modelli sperimentali su animali hanno apportato un importante valore euristico nella comprensione dei meccanismi coinvolti nell’interazione tra l’ambiente e il cervello; questi modelli hanno evidenziato che la produzione di tracce mnesiche dipende dall’alterazione della forza delle connessioni sinaptiche tra neuroni. In una serie di esperimenti sull’Aplysia, Kandel ha dimostrato come le connessioni sinaptiche possano essere permanentemente modificate e rafforzate attraverso la regolazione dell’espressione genica determinata, a sua volta, dall’apprendimento. In questo organismo, successivamente a fenomeni di apprendimento, si possono osservare modificazioni dell’architettura cellulare, come, ad esempio, l’aumento del numero delle sinapsi. Kandel ipotizza che la psicoterapia, intesa come una forma di apprendimento, possa determinare cambiamenti simili a livello celebrale. Se per lo psicoterapeuta la rappresentazione del Sé e degli oggetti interni può essere modificata attraverso l’intervento psicoterapeutico, per Kandel la psicoterapia è in grado di influenzare l’espressione genica e quindi modificare le connessioni sinaptiche. Oltre agli studi sull’Aplysia, diverse sono le ricerche che sottolineano la plasticità cerebrale in risposta a stimoli ambientali. È noto infatti che topi allevati in gruppi, dove è richiesto l’apprendimento di compiti complessi per la sopravvivenza, hanno un maggior numero di connessioni sinaptiche per neurone rispetto a topi allevati in isolamento. È quindi sempre più necessario un riavvicinamento della psichiatria alla biologia. Come primo passo verso una loro integrazione, Eric Kandel propone un intellectual framework, che lo stesso autore riassume in 5 punti. 1) Tutti i processi mentali, compresi i più complessi processi psicologici, derivano da operazioni del cervello e quindi tutto ciò che noi chiamiamo “mente” è una gamma di funzioni che derivano dal cervello stesso. Le funzioni del cervello quindi non riguardano esclusivamente semplici comportamenti motori come per esempio il camminare o il mangiare, ma anche funzioni cognitive più complesse quali il pensare, lo scrivere e l’arte. Secondo questa visione pertanto i disturbi comportamentali che caratterizzano le malattie mentali sono disturbi delle funzioni cerebrali, anche quando la causa è puramente ambientale. 2) I geni e i loro prodotti proteici sono determinanti importanti sia del pattern di interconnessione tra i neuroni del cervello che della loro specifica funzione. I geni e le loro combinazioni, esercitano un controllo impor-
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tante sul comportamento e di conseguenza contribuiscono allo sviluppo delle malattie mentali. 3) La componente genetica non può da sola spiegare tutta la variabilità di una data malattia mentale. Sia fattori sociali che dell’evoluzione contribuiscono in maniera determinante allo sviluppo delle malattie mentali. Quindi come i geni influiscono sul comportamento, compresi i comportamenti sociali, così i fattori sociali e comportamentali agiscono sul cervello modificando l’espressione dei geni e di conseguenza le funzioni cellulari. 4) Le alterazioni dell’espressione genica indotte dall’apprendimento danno luogo a cambiamenti nel pattern delle connessioni cellulari. Questi cambiamenti non solo contribuiscono alle basi biologiche dell’individualità ma presumibilmente sono responsabili anche dell’inizio e del mantenimento di alterazioni del comportamento secondari a fattori sociali. 5) La psicoterapia e il counseling sono terapie efficaci e vanno a determinare cambiamenti comportamentali a lungo termine. Queste presumibilmente determinano tali cambiamenti attraverso un processo di apprendimento che determina modificazioni nell’espressione genica che conseguentemente altera la forza delle connessioni sinaptiche e determina cambiamenti strutturali sul pattern anatomico delle interconnessioni tra le cellule nervosa del cervello. È superfluo sottolineare l’importanza di questi punti, in particolare degli ultimi due, in quanto forniscono alla psicoterapia, un passaporto a validità illimitata. “Le parole” della relazione psicoterapica/psicoanalitica acquistano la dignità di fattore terapeutico, come altri tipi di intervento, ad esempio quelli psicofarmacologici. L’esperienza del lavoro psicoterapeutico è in grado di operare modificazioni sulla plasticità del sistema nervoso centrale. Altra conseguenza di enorme importanza di questa prospettiva di ricerca è il collegamento che è possibile fare tra l’archiviazione delle informazioni nella memoria implicita e il funzionamento dell’inconscio, in particolare, con le prime esperienze sensoriali ed affettive vissute dal neonato nella sua relazione primaria con la madre.
Gene-ambiente, esperienze, emozioni, relazioni Diverse ricerche di biologia molecolare ed esperimenti con animali hanno dimostrato che le esperienze ambientali non sono in grado di modificare la sequenza genetica bensì di agire sulla funzione di trascrizione genetica, sulla espressione proteica dei geni, con modifiche stabili della trasmissione sinaptica, dovute ad azioni di fissazione proteica a livello sinaptico. I geni “portano” le informazioni che consentono ai neuroni di crescere, di morire, di sviluppare i collegamenti nervosi: i circuiti cerebrali sono, allo stesso tempo, programmati geneticamente e dipendenti dall’esperienza. Il significato di questi esperimenti sottolinea tanto il valore centrale dell’apprendimento, nel collegamento tra neuroscienze e psicoterapia, quanto il ruolo fondamentale svolto dall’ambiente per elicitare l’espressione genetica. Quest’ultimo aspetto è, tra l’altro, capace di spiegare il verificarsi delle differenze delle espressioni fenotipiche tra gemelli monozigoti e il perché, in determinati casi, uno sviluppi una malattia, ad esempio la schizofrenia, mentre l’altro no. 83
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NÓOς Ultimissime ricerche segnalano il ruolo centrale dei polimorfismi funzionali genetici nel contribuire a determinare il formarsi di comportamenti antisociali in bambini maltrattati. I bambini maltrattati con un genotipo favorevole ad una buona produzione dell’enzima per il neurotrasmettitore monoammino ossidasi (MAOA), ritenuto capace di moderare gli effetti del maltrattamento, sono meno a rischio di comportamento antisociale rispetto a quelli che presentano bassi livelli di MAOA. Meccanismo simile, in questo caso però a carico del polimorfismo funzionale per il gene per il trasporto della serotonina (5-HTT Gene), considerato capace di mediare la risposta ad eventi depressogeni, è stato riconosciuto, se presente in forma “short allele”, nell’influenzare lo sviluppo di depressione in seguito a stressors negativi. Rutter21 ha dimostrato, con il concetto di pathway di sviluppo normale e psicopatologico, come la storia di ciascun individuo sia il risultato dell’intreccio delle diverse componenti ambientali, genetiche, ereditarie, sociali, evenemenziali. A questo proposito sono di grandissimo interesse le ricerche di Kendler22 sul rapporto tra rischio genetico e influenze dei life-stress events nello sviluppo di depressione nel sesso femminile, indagato in un campione di oltre 2000 gemelle. Ancora una volta, la risposta individuale e le esperienze di vita, l’adattamento e l’ambiente sono determinanti nella patogenesi dei disturbi mentali, in equilibrio dinamico con le componenti organico-costituzionali. In questo senso confermando quanto la psicoanalisi ha sempre sostenuto: che i disturbi mentali non sono solo “innati”, ma legati all’ambiente e alle relazioni, al modo in cui il singolo vive ed interpreta quella determinata esperienza, dai significati inconsci e consci che gli vengono attribuiti; stabilendo così, per le attuali acquisizioni scientifiche, un stretto rapporto tra fattore ambientale specifico, risposta individuale, espressione genetica. La genetica comportamentale produce di continuo dati di grande interesse per la comprensione delle malattie mentali e, probabilmente, utili per il riconoscimento dei fattori terapeutici delle psicoterapie4.
IL RUOLO DELLA MEMORIA Il fenomeno della long-term potentiation (LTP), osservato nel 1973 da Bliss e Lomo nei neuroni dell’ippocampo, struttura coinvolta nei meccanismi di apprendimento e della memoria23 preceduta dai lavori di Hebb24, era stata in qualche modo già anticipata da Freud nel Progetto per una Psicologia Scientifica (1895)25. In questo scritto, nel tentativo di fornire delle basi neurobiologiche alle funzioni psichiche, aveva, tra l’altro, ipotizzato concetti precisi circa la possibilità di rappresentare la memoria in termini di alterazioni durature della trasmissione sinaptica. Allo stesso tempo, sul fronte psichico, lo stesso Freud presupponeva che le esperienze traumatiche, e le memorie inconsce ad esse correlate, fossero patogene per il soggetto, e responsabili delle nevrosi. Il ruolo patogenetico delle memorie disfunzionali è unanimemente accettato in ambito psichiatrico e psicoterapeutico, così come in campo neurologico diversi studi successivi hanno indagato le basi neurali della memoria, identificate in modificazioni a lungo termine della trasmissione sinaptica, 84
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La scoperta dei neuroni specchio, una specifica popolazione neuronale che viene attivata sia quando il soggetto osserva movimenti biologici finalizzati compiuti da un simile, sia quando lo stesso movimento viene eseguito dal soggetto – e che, pur avendo una funzione motoria e sensitiva, non è strettamente necessaria né per l’esecuzione dei movimenti né per la loro percezione – ha permesso di formulare alcune ipotesi che coniugano tanto gli assunti psicoanalitici sull’importanza delle esperienze precoci quanto i postulati neuroscientifici sull’intersoggettività e i loro collegamenti con la psicopatologia. Le principali dimensioni dell’intersoggettività studiate in quest’ottica sono principalmente l’empatia, la capacità di comprendere lo stato mentale altrui (“Teoria della Mente” o mentalismo), i comportamenti di imitazione, tali dimensioni, tutte, sono implicate nella genesi di diversi disturbi psichici. I primi esperimenti sui neuroni specchio sono stati condotti su primati non umani in cui è stata registrata l’attività dei singoli neuroni; riguardo l’esistenza di un sistema di neuroni specchio nell’uomo esistono delle dimostrazioni solamente indirette, che tuttavia sono concordi nell’indicare che l’uomo sembra possedere un ampio sistema mirror, ubiquitario, coinvolto in diverse funzioni e attività psichiche legate all’intersoggettività28. Ad esempio, in psicoanalisi i sistemi mirror vengono considerati come il correlato neuro-anatomico della “simulazione incarnata”29, meccanismo che si ipotizza essere alla base dell’imitazione e dell’empatia30. Ulteriori dati sull’esistenza di un sistema mirror nell’uomo provengono da studi di brain-imaging, che hanno mostrato come durante l’osservazione di azioni biologiche vengano attivate aree cerebrali corticali deputate al movimento, come il lobulo parietale inferiore e il giro inferiore frontale. Questi dati suggeriscono la presenza di un sistema nell’uomo che collega l’esecuzione del movimento alla sua osservazione; questo sistema sembra essere responsivo, a differenza di quanto accade nei primati non umani, anche ad azioni non finalizzate31.
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I NEURONI SPECCHIO E L’INTERSOGGETTIVITÀ
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determinatesi in seguito ad un’attivazione sinaptica ripetitiva (facilitazione)26. Curiosamente, lo stesso Freud, parlando degli effetti a lungo termine del trauma, parlava di “facilitazione tra neuroni”27. Allo stesso modo, meccanismi di cancellazione della traccia mnesica sono identificabili nel depotenziamento, che favoriscono l’inibizione del consolidamento, del riconsolidamento, e l’estinzione delle tracce mnesiche. Questi meccanismi potrebbero invece essere considerati i substrati neurali del meccanismo d’azione della psicoterapia, intesa come esperienza interpersonale “correttiva” che sfrutta la plasticità neuronale e che, attraverso la rievocazione e rielaborazione delle memorie disfunzionali, può aiutare ad estinguerne la patogenicità.
Neuroni specchio e implicazioni psicoanalitiche I neuroni specchio sembrano essere il substrato sottostante diverse attività mentali accomunate dall’identificazione tra soggetto e oggetto. È quindi da questa iden85
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NÓOς tità tra soggetto e oggetto, da questa mancanza di discriminazione che si deve partire per interrogarsi e chiedersi a quale scopo sia stato conservato filogeneticamente un sistema atto allo stabilirsi di una matrice intersoggettiva tra individui. Come si è detto, da un punto di vista psicologico e psicoanalitico, la prima matrice intersoggettiva è quella che si crea tra madre e bambino: questa interazione diadica, che è dinamica e bidirezionale, presuppone un flusso di informazioni che coinvolge simultaneamente sia la madre che il bambino, ed è fondamentale per la formazione e lo sviluppo del sé del bambino e per la formazione di un pattern di attaccamento sicuro. Secondo Fonagy32 un attaccamento sicuro fornisce “una base relativamente solida” per l’acquisizione di una piena comprensione della mente altrui (Teoria della Mente, mentalismo). Secondo Beebe et al.33, il mirroring facciale è una delle strutture interattive che permette la rappresentazione presimbolica del Sé e dell’oggetto; l’importanza della corrispondenza visuo-facciale tra madre e bambino era già stata postulata da Winnicott che, in Playing and reality, scrive: “il precursore dello specchio è il volto della madre. Che cosa vede il bambino quando guarda la madre? Vede se stesso”. Il mirroring facciale è un fenomeno precoce, presente nel neonato già poche ore dopo la nascita (figura 3), ed è anch’essa un’attività bidirezionale in cui madre e bambino riflettono ognuno i cambiamenti dell’altro; la sua funzione sarebbe quella di permettere a ciascuno di entrare nello stato affettivo dell’altro, e di permettere al bambino, vedendo la risposta della madre, di vedere chi è lui per la madre, e quindi per se stesso
Figura 3. Fotografie di neonati di 12-21 giorni che imitano le espressioni facciali di un adulto. L’imitazione è un comportamento innato nell’uomo, che gli permette di condividere stati comportamentali con altri simili (da: Meltzoff e Moore 1977). 86
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nel processo di formazione del Sé e della separazione tra soggetto e oggetto. La madre, agendo come uno “specchio psicobiologico”34, riflette (imita) certe azioni che fanno parte del repertorio motorio naturale del neonato e, offrendo al bambino una copia delle sue azioni, stabilisce un dialogo con lui che favorisce una sua imitazione più consapevole. La madre, in questo primitivo dialogo, diventa quindi un partner attivo perché il bambino sviluppi le prime capacità sociali e inizi ad avere la consapevolezza della rappresentazione di sé. La corrispondenza tra le espressioni facciali della madre e del bambino, pur non essendo un fenomeno assoluto, è tuttavia un fenomeno indispensabile: alcuni dati sperimentali indicano che c’è un matching perfetto tra madre e bambino per circa il 30% del tempo di osservazione; tuttavia dopo non più di due secondi di mismatching, madre e bambino devono assumere le medesime espressioni. Se ciò non avviene, se il sistema diadico non permette questo meccanismo di “riparazione interattiva”35, che causa l’alternarsi di matching e mismatching tra le espressioni facciali, il bambino avrà un rischio maggiore di sviluppare un attaccamento insicuro. Un deficit di questo sistema di riparazione sembra presente nelle madri depresse. Ulteriori dati sperimentali sembrano supportare la teoria espressa da molti psicoanalisti che il mirroring materno è un importante fattore causale per lo sviluppo della personalità e delle emozioni. Da quanto scritto sopra, si nota come il mirroring sia strettamente legato all’imitazione, e come un sistema di neuroni mirror, attivatisi tanto durante l’esecuzione di un movimento, quanto durante l’osservazione a scopo imitativo, permetterebbe la realizzazione di questo matching facciale madrebambino.
Il ruolo dell’empatia L’empatia è una funzione psichica fondamentale nei rapporti tra simili che è stata oggetto nel tempo di diverse definizioni e spiegazioni da parte sia di psicologi che di filosofi e neuroscenziati. Il termine (o il suo corrispettivo Einfühlung) è stato coniato da Robert Vischer per descrivere la proiezione dei sentimenti umani nel mondo naturale nell’ambito della filosofia estetica. Una definizione e una concettualizzazione più moderne sono state fornite da Theodor Lipps, che parla di una “spinta imitativa” che porta l’uomo a riprodurre automaticamente le espressioni facciali degli altri, a provare in prima persona le emozioni associate a queste espressioni e ad attribuirle infine agli altri individui: attraverso quindi un processo di imitazione l’uomo può arrivare a comprendere le emozioni altrui36. Le interazioni umane sono caratterizzate dalla capacità di empatizzare, di sentire come si sente un altro individuo, e di conoscere il suo stato affettivo; questo meccanismo è molto importante da un punto vista evolutivo, “l’uomo deve essere capace tanto di vedere dentro gli altri quanto di essere visto dentro per sopravvivere e prosperare”37. Non è chiaro quando l’uomo sviluppi la capacità di empatizzare, che tuttavia sembra essere assente nel neonato che ancora non ha la capacità di discrimi87
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NÓOς nare il sé dal non sé, o, secondo i termini della Mahler, che non ha ancora compiuto il processo di separazione-individuazione. La comunicazione empatica tra individui richiama quella primitiva, mutuale e profonda empatia che caratterizza il rapporto madre-bambino; una madre empatica è una madre, richiamando Winnicott, “sufficientemente buona”, che, di fronte all’angoscia del bambino, né si ritira, né si identifica completamente, in una fusione che aumenta il senso di helplessness del neonato: la madre è partecipe dell’angoscia del bambino, si identifica con lui rispecchiandone lo stato mentale, ma conserva la propria separatezza. Un deficit delle capacità empatiche è presente nei pazienti narcisisti, che hanno la tendenza a fondersi con l’oggetto e difficoltà a mantenere un senso di separatezza; nei loro rapporti affettivi hanno la tendenza ad essere possessivi, ad essere richiestivi nei confronti del partner, e a reagire alle separazioni in modo ansioso. L’empatia è una componente importante della relazione psicoterapica: secondo alcuni autori, lo stabilirsi di una comunicazione empatica è favorita da tutta quella comunicazione non verbale (attività motoria: posture, movimenti delle mani, ecc.) presente nel setting, veicolo anch’essa delle fantasie inconsce del paziente. A sua volta, l’attività motoria dell’analista sembra costituire la sua risposta empatica all’attività mentale inconscia del paziente. Da quanto scritto sopra si evince come empatia, identificazione e imitazione siano tre attività strettamente correlate, e come l’imitazione (attività necessaria per il processo di identificazione, insieme all’introiezione) preceda e sia fondamentale per lo svilupparsi di una comunicazione empatica. Inoltre è necessario sottolineare l’importanza dei comportamenti motori in questo processo: attraverso l’imitazione dell’altro è possibile quindi accedere allo stato affettivo dell’altro. Preston e deWaal38 postulano l’esistenza di un sistema di risonanza motoria basato su un meccanismo di percezione-azione (PAM – perception action model); secondo le teorie motorie dell’empatia, gli stessi neuroni premotori che sono attivati durante la generazione dei movimenti facciali collegati alle proprie emozioni scaricano quando le stesse emozioni sono riconosciute negli altri. Questo legame empatico tra soggetti, creato sulla base dell’imitazione, sarebbe possibile grazie ad un sistema di neuroni specchio situati nell’area di Broca, nelle aree premotorie dorsali e ventrali bilaterali, e nel giro temporale superiore destro. Altre aree coinvolte sono il giro orbitofrontale e il precuneo. Il substrato neuronale dell’empatia sembra essere localizzato prevalentemente nell’emisfero destro: si è visto infatti come soggetti con danni cerebrali estesi nell’emisfero destro mostrano dei deficit nel riconoscimento delle emozioni altrui. Nei bambini autistici è presente, all’interno di una disfunzione generalizzata dell’intelligenza sociale, anche un marcato deficit di empatia e di comprensione dello stato d’animo altrui che, secondo alcuni autori, è collegato ad anomalie citoarchitetturali e funzionali cerebrali localizzate nell’amigdala e nel sistema limbico in generale.
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Fonagy, psicologo e psicoanalista inglese, in alcuni scritti ha formulato un modello che unisce il mirroring, l’attaccamento, e il mentalismo (o, secondo la sua definizione, la funzione riflessiva). L’attaccamento sicuro è l’“acquisizione di strategie d’azione razionale finalizzate alla regolazione di stati di eccitazione avversivi all’interno delle relazioni”; lo sviluppo di un pattern di attaccamento sicuro è strettamente collegato alla capacità del genitore di rispecchiare lo stato emotivo del bambino e alle sue capacità di contenimento, in modo da dimostrare la consapevolezza dello stato mentale del bambino6. Se da un lato lo sviluppo di un attaccamento sicuro nel bambino è determinato tanto dal modello operativo interno del genitore, quanto dalle sue capacità di riflettere sullo stato mentale del bambino (mentalismo), dall’altro una relazione sicura di attaccamento è legata nel bambino alle capacità di poter esplorare la mente del genitore. La funzione riflessiva, o mentalismo, è quindi un processo intersoggettivo: “il bambino riesce a conoscere la mente del genitore mentre questi tenta di capire e contenere lo stato mentale del bambino”32. L’attaccamento sicuro sembra essere predittivo, in un periodo successivo della vita del bambino, dell’estensione delle capacità di mentalizzare ad altri contesti interpersonali, ovvero dello sviluppo della Teoria della Mente, intesa come capacità di comprendere stati d’animo e determinanti dei comportamenti altrui. Questo modello, sviluppato da parte di Fonagy alcuni anni prima della scoperta dei neuroni specchio, unito alla Teoria della Simulazione e alle teorie sul mirroring tra madre e bambino, trova convincente spiegazione e possibile substrato neuronale in un sistema di neuroni specchio che abbia una sua completa e funzionale maturazione in un ambiente favorevole costituito da una madre sensibile e adeguatamente “rispecchiante”, e che porti, conseguentemente, allo sviluppo di capacità mentalizzanti; viceversa, una madre distanziante, oltre a favorire un pattern di attaccamento insicuro, potrebbe, in via speculativa, bloccare o rallentare la maturazione del sistema di neuroni specchio e portare a insufficienti capacità mentalizzanti ed empatiche. Le evidenze descritte sono il risultato di esperimenti condotti con primati non umani in cui è stata registrata l’attività dei singoli neuroni; riguardo l’esistenza di un sistema di neuroni specchio nell’uomo esistono delle dimostrazioni solamente indirette, che tuttavia sono concordi nell’indicare che l’uomo sembra possedere un ampio sistema mirror, ubiquitario, coinvolto in diverse funzioni e attività psichiche legata all’intersoggettività. La prima evidenza al riguardo risale al 199528. Questi risultati sono stati confermati in esperimenti successivi condotti da ricercatori. Ulteriori dati sull’esistenza di un sistema mirror nell’uomo provengono da studi di brain-imaging, che hanno mostrato come durante l’osservazione di azioni biologiche vengano attivate aree cerebrali corticali deputate al movimento, come il lobulo parietale inferiore e il giro inferiore frontale. Questi dati suggeriscono la presenza di un sistema nell’uomo che collega l’e-
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secuzione del movimento alla sua osservazione; questo sistema sembra essere responsivo, a differenza di quanto accade nei primati non umani, anche ad azioni non finalizzate.
L’imitazione dei comportamenti altrui è un’attività fondamentale delle dinamiche sociali tra conspecifici: attraverso l’imitazione si apprendono nuovi comportamenti, si replicano comportamenti di fuga immediati di fronte ad un pericolo imminente, o semplicemente, si stabilisce un legame intersoggettivo. L’imitazione dei movimenti facciali degli adulti si verifica nel neonato già poche ore dopo la nascita attraverso una procedura di mapping intermodale innata, che prevede la formazione di una rappresentazione interna dell’azione osservata che viene comparata alle afferenze propriocettive dell’azione imitativa compiuta dal neonato. Alcuni studi mostrano come, se il soggetto osserva un’azione con lo scopo di imitarla, vengano attivate aree cerebrali diverse rispetto ad un’osservazione semplice, molto simili alle aree che si attivano durante l’esecuzione della medesima azione da parte del soggetto. Queste evidenze sperimentali sono altamente suggestive del fatto che l’imitazione nell’uomo sia resa possibile da un sistema di neuroni specchio analogo a quello dimostrato nei primati non umani.
Teoria della Mente e mentalismo La Teoria della Mente è la capacità di attribuire a se stessi e agli altri stati mentali indipendenti per poter spiegare e predire i comportamenti; ovvero è la capacità di capire che le altre persone possono avere un’opinione sulla realtà e dei desideri diversi dai propri, e che proprio queste opinioni e desideri sono i determinanti del comportamento altrui. Strettamente collegata alla teoria della mente è il mentalismo, cioè la capacità di comprendere gli stati d’animo e i comportamenti altrui. Queste abilità sono fondamentali nei comportamenti sociali e nella comunicazione e vengono sviluppate già in età infantile. Tanto il mentalismo, quanto la Teoria della Mente sembrano funzioni assenti o fortemente deficitarie nei bambini affetti da autismo, e compromesse nei pazienti affetti da schizofrenia. Secondo la Teoria della Simulazione, che è uno dei due approcci alla comprensione dello sviluppo del mentalismo, la comprensione dei desideri e delle opinioni degli altri avviene attraverso un processo di simulazione in cui il soggetto usa il proprio apparato mentale per predire le azioni dei propri simili, mettendosi quindi nei “loro panni”; imita quindi l’attività e i processi mentali degli altri per prevedere cosa succederà nel futuro. Se questa base teorica del mentalismo è corretta, allora il sistema dei neuroni specchio fornirebbe il substrato biologico più adatto per l’imitazione dello stato mentale altrui, perché stabilisce immediatamente un legame tra un attore e un osservatore, attivando in quest’ultimo le medesime rappresentazioni motorie dell’attore. Dalle evidenze sperimentali sui sistemi cerebrali preposti al mentalismo, si 90
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I progressi delle neuroscienze, della psichiatria e della ricerca nel campo della psicoterapia stanno permettendo di superare le storiche barriere comunicative tra le diverse discipline. Sono sempre più evidenti gli sforzi dei diversi autori di integrare i risultati delle ricerche delle neuroscienze con quelli delle psicoterapie. È quindi possibile cominciare a prospettare un lavoro interdisciplinare finalizzato alla costruzione di un linguaggio comune.
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CONCLUSIONI
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deduce che un ruolo molto importante appartiene alla corteccia prefrontale, soprattutto la porzione mediale: individui con lesioni di quest’area cerebrale mostrano importanti deficit nella comunicazione sociale e nella previsione dei comportamenti degli altri; il coinvolgimento della porzione mediale della corteccia prefrontale è stato confermato da esperimenti su volontari sani, mediante risonanza magnetica funzionale, in cui si chiedeva loro di immaginare lo stato mentale dei personaggi di alcune storie. Il sistema dei neuroni specchio avrebbe invece la funzione di fornire al soggetto una rappresentazione delle azioni osservate e del loro scopo.
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