PROGRAMMA DI INIZIATIVA COMUNITARIA INTERREG IIIA ITALIA-SLOVENIA 2000-2006
OR-WIN “OSSERVATORIO SULLE POLITICHE SOCIALI IN FRIULI VENEZIA GIULIA E SLOVENIA”
Rapporto n. 3
REDDITO DI ESISTENZA E SUA APPLICAZIONE IN ITALIA
Coordinatore: Andrea Fumagalli
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“Bisogna mostrare che una cosa è possibile perché essa lo divenga”1.
0. Introduzione In questo rapporto si vuole discutere nei suoi aspetti pratici e operativi la possibilità di adottare in Italia una politica di reddito di esistenza. Nel corso del 2005, numerose sono le regioni che hanno annunciato l’intenzione di presentare una legge per l’istituzione di ciò che esse definiscono “reddito di cittadinanza”. La regione Campania è stata la progenitrice con un disegno di legge che è già operativo. Nel biennio 2002-2003, invece, sono stati tre i progetti di legge nazionale che sono stati depositati nell’apposita commissione parlamentare finalizzate all’introduzione di misure a sostegno del reddito. In questo primo articolo, si procederà a dare un quadro complessivo dei provvedimenti nazionali e regionali più importanti e più noti per darne una valutazione critica alla luce di una definizione di reddito di esistenza in linea con le trasformazioni biopolitiche e bioeconomiche dell’ultimo quarto di secolo, al di là di una logica meramente assistenzialista e fordista. Nel paragrafo 1 si ricorderà molto velocemente le ragioni sociali ed economiche che giustificano la necessità di un reddito di esistenza all’interno della cornice teorica neo-operaista2. Nel secondo paragrafo, si analizzeranno i progetti nazionali e quindi quelli regionali per procedere poi ad una sintesi critica conclusiva. Nella seconda parte di questo saggio, che vorrà pubblicato nel numero seguente di Posse, si discuterà invece di una possibile proposta alternativa con particolare enfasi agli aspetti relativi al finanziamento e al reddito di esistenza come perno di una politica di welfare metropolitana.
1. Quadro di riferimento Scopo di queste riflessione è discutere le forme e le modalità dell’applicazione di una politica di reddito di esistenza (o basic income) in Italia, alla luce dell’attuale dibattito e della situazione economica presente. A tal fine, è necessario cominciare con il definire la cornice al cui interno si può parlare di reddito di esistenza. Ci soffermiamo su tre aspetti principali, tra i molti che potrebbero essere ricordati. Per reddito di esistenza si intende l’erogazione di una certa somma monetaria a scadenze regolare e perpetua in grado di garantire una vita dignitosa, indipendentemente dalla prestazione lavorativa effettuata. Tale erogazione deve avere due caratteristiche fondanti: deve essere universale e incondizionata, deve cioè entrare nel novero dei diritti umani In altri termini, il reddito di esistenza va dato a tutti gli esseri umani in forma non discriminatoria (di sesso, razza, di religione, di reddito).E’ sufficiente, per averne diritto, il solo fatto di “esistere”. Non è sottoposto ad alcuna forma di vincolo o condizione (ovvero, non obbliga ad assumere particolari impegni e/o comportamenti). I due attributi - universale e incondizionato - sgombrano il tavolo da molti equivoci. Ma soprattutto si tratta di reddito e non di salario (non si può parlare al riguardo, come molto spesso si fa, di salario minimo o salario garantito): il salario, in quanto remunerazione del lavoro, è comunque legato all’organizzazione capitalistica della produzione. Il concetto di reddito rientra invece esclusivamente nell’alveo della distribuzione delle risorse, una volta dato il livello di ricchezza complessiva. Il reddito determina la possibilità di consumo e se il diritto al consumo è universale anche il diritto al reddito deve essere universale e primario (non mediato, quindi, dal diritto al lavoro). 1
A. Gorz,,Miseria del presente, ricchezza del possibile, Manifestolibri, Roma, 1998 Cfr. A.Mantegna, A.Tiddi, , “Reddito di cittadinanza” Infoxoa, 1999. Cfr. M.Hard, T.Negri, “Impero”, Rizzoli, Milano, 2003 2
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L’attualità del reddito di esistenza e la sua praticabilità derivano dall’analisi delle moderne forme dell’accumulazione dominanti nel mondo capitalistico occidentale. La ristrutturazione tecnologica, esito della diffusione di tecnologie di linguaggio che si sostituiscono o sono complementari alle tradizionali tecnologie meccaniche e ripetitive di stampo taylorista, ha profondamente modificato le forme di erogazione del lavoro e di origine del profitto. La nuova organizzazione flessibile del lavoro e della produzione (che chiamiamo “capitalismo cognitivo”) porta alla ridefinizione del rapporto capitale lavoro, in cui la prestazione lavorativa è totalmente subordinata e sussunta al capitale sia nella sua componente materiale che immateriale. Non solo le braccia, ma anche la mente ed il tempo di vita sono diventati fattori produttivi che danno origine a livelli crescenti di produttività, che assume caratteri “sociali” e non più individuali: una produttività sociale che deriva sempre più dalle esperienze e dai saperi soggettivi dei singoli individui e che assumono le più disparate tipologie di “lavoro”. Nel fordismo, il rapporto capitale-lavoro si era sviluppato all’interno di un patto sociale, garantito a livello nazionale, che da un lato legava incrementi di produzione a incrementi dell’occupazione e, dall’altro, imponeva la distribuzione di parte dei guadagni di produttività al reddito da lavoro salariato, consentendo una crescita contemporanea di salario e profitto. Oggi il livello di sfruttamento insito nel rapporto capitale-lavoro produce incrementi di produttività “sociale” che non vengono ridistribuiti ma sono ad esclusivo appannaggio della crescita dei profitti e della rendita finanziaria. In altre parole, il reddito di esistenza non è equiparabile a una politica assistenziale, ma è piuttosto una politica redistributiva a tutti gli effetti, ovvero che restituisce un qualcosa che è stato “già dato”. Nel capitalismo cognitivo, l’antica distinzione tra “lavoro” e “non lavoro” si risolve, quindi, in quella tra “vita retribuita” e “vita non retribuita”. Il confine tra l’una e l’altra è arbitrario, mutevole, soggetto a decisione politica. E’ su questo elemento che è necessario confrontarsi per una ridefinizione attuale del Welfare State. Esso non è più dipendente e, nello stesso tempo, finalizzato a creare le condizioni per entrare nel mercato del lavoro e sancire il dettame costituzionale del “diritto al lavoro”. Piuttosto il nuovo welfare deve creare le condizioni perché ogni individuo residente in un territorio abbia la garanzia, in modo incondizionato, di un reddito stabile e continuativo in grado di consentire da un lato lo sviluppo delle sue capacità cognitive-creative, dall’altro il diritto di scelta alla prestazione lavorativa che più gli aggrada. Il diritto alla scelta del lavoro è concettualmente diverso del diritto al lavoro. Reddito di esistenza e necessità di riforma del welfare sono così due facce della stessa medaglia. Sulla base di questi breve considerazione, si può parlare di reddito di esistenza solo se si è in presenza di almeno quattro requisiti minimi essenziali: • titolarità individuale (e non familiare): individualità • residenza e non cittadinanza, ponendo un vincolo di residenza di almeno 6 mesi per tutti; residenzialità; • inesistenza di contropartite ovvero di precondizioni comportamentali per accedere all’assegnazione: incondizionabilità; • il finanziamento è a carico della collettività nel suo complesso secondo regole di progressività fiscale: fiscalità generale progressiva. Oltre a questi requisiti, sarebbe auspicabile aggiungere anche quello dell’universalità. Ma appare più che evidente che tale obiettivo non è ottenibile nell’immediato, ma in modo graduale, in seguito anche agli effetti che una prima fase sperimentale può comportare.
2. POLITICHE DI SOSTEGNO AL REDDITO IN ITALIA
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Le politiche di lotta alle povertà e di sostegno al reddito non hanno costituito di certo un tratto qualificante del welfare italiano. Dopo che nel 1996 anche il Portogallo ha introdotto una misura di minimo vitale, l’Italia e la Grecia sono rimasti gli unici paesi a denunciare la mancanza di una rete minima di protezione dai rischi di povertà ed esclusione sociale. E’ anche da ricordare anche che negli ultimi 10/15 anni sono stati molto rilevanti i tagli di spesa e le modificazioni dei criteri di distribuzione, tutto ciò è dovuto ovviamente alle politiche di contenimento della spesa pubblica e di progressiva erosione del welfare state. Ad eccezione delle misure di sostegno al reddito legate all’attività lavorativa, le uniche prestazioni consolidatesi in Italia sono la pensione sociale, la pensione di invalidità civile e l’indennità di accompagnamento. A livello locale esiste invece una grande varietà di prestazioni assistenziali. Ed è su queste misure che ci soffermeremo con maggior profondità. E’ all’interno di questo ambito che si è sperimentato in Italia la politica di erogazione di un minimo vitale. Tale misura, in vigore nel periodo 1999-2001, su base locale limitata, ha interessato circa una quarantina di comuni, tra cui due capoluoghi di provincia., sulla base dell’impalcatura istituzionale del Revenue minimum d’insertion introdotto in Francia nel 1998. Il nostro welfare ha sempre avuto una impostazione familistica e ciò ha anche influenzato lo sviluppo delle misure di lotta alla povertà. La famiglia ha sempre svolto un ruolo di ammortizzatore sociale, compensando l’assenza o la precarietà di una fonte di reddito prodotta dal figlio e dalla madre con il reddito prodotto dal padre e con le prestazioni sociali di cui quest’ultimo è titolare sulla base della sua posizione occupazionale. In seguito a tutte le mutazioni economiche e sociali avvenute negli ultimi anni, ecco che la mappa della povertà ha cominciato a modificarsi ed a disegnare nuovi confini geografici e sociali. Secondo le stime della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale, elaborate sulla base dei dati Istat, la percentuale di famigli povere in Italia sarebbe pari all’11,7% (gli individui, 13,8%) per l’anno 2004. Il dato medio nasconde le ben note differenze tra le varie aree del nostro paese, infatti, l’incidenza della povertà tra le famiglie è pari al 5,7% al Nord, al 6,5% al Centro ed al 24,5% al Sud. In tutti i casi in cui non vi è un reddito da lavoro, o quando quest’ultimo è erogato in misura insufficiente ed in modo precario, il welfare state italiano prevede solo due tipologie di intervento: gli ammortizzatori sociali e gli schemi assistenziali di garanzia del reddito. A fronte di questa situazione è emersa negli anni ’90 la necessità di dotare i cittadini italiani di una rete più ampia di protezione dalla povertà economica e dall’esclusione sociale. Si può affermare che l’impianto del sistema assistenziale italiano soffre di un forte grado di frammentazione legislativa degli istituti tra i diversi livelli di governo e di una altrettanto marcata disomogeneità per quanto riguarda la loro implementazione sul territorio nazionale. Così le amministrazioni comunali hanno messo a punto nel corso degli anni strumenti di intervento locale per le situazioni di bisogno economico manifesto. Nel periodo del governo di centro-sinistra, ovvero sino all’avvento dell’ultimo governo Berlusconi, la misura più diffusa è l’erogazione del minimo vitale, che consiste in un assegno mensile erogato temporaneamente ad individui e famigli in condizione di bisogno economico e sociale. Tale schema, in assenza di standard di prestazione e di criteri di eleggibilità stabiliti per legge a livello nazionale, riveste una funzione di provvedimento tampone, ed è erogato in maniera discrezionale a seconda della disponibilità finanziaria e delle capacità gestionali dei comuni stessi. Il Rmi (Reddito minimo di inserimento) è dunque entrato a far parte del welfare italiano come risposta istituzionale alla frammentazione territoriale ed alla inadeguatezza del sistema socioassistenziale italiano. Per il primo biennio di sperimentazione furono scelti 39 comuni sulla base di un insieme di indicatori (tasso di occupazione, livello dei reati commessi, numero di minori coinvolti, livello di 4
scolarizzazione, condizione di abitabilità delle case) stabiliti dall’Istat. L’individuazione dei comuni ha tenuto anche conto delle disomogeneità territoriali di carattere economico, demografico e sociale, insieme alla valutazione dei livelli di povertà, della varietà di interventi socio-assistenziali già presenti nell’area di riferimento, della disponibilità del comune a partecipare alla sperimentazione. Una volta selezionati, i comuni hanno dovuto predisporre un progetto di attuazione, che hanno presentato per l’approvazione al Ministro per la Solidarietà Sociale. Il Decreto legge precisa che possono accedere alla prestazione di Rmi i residenti in Italia da almeno 12 mesi se cittadini italiani o comunitari (!), da 36 mesi se extra-comunitari o apolidi. L’erogazione del beneficio è soggetta alla prova dei mezzi: il reddito a qualsiasi titolo percepito deve essere inferiore alla soglia di povertà, con alcune variazioni rispetto al numero dei componenti del nucleo familiare. A questo proposito e per quanto riguarda la scala di equivalenza, l’istituto si collegava alla disciplina dell’Ise (Indicatore della Situazione Economica, che è adottato come mezzo di accertamento della condizione economica e come principale strumento per l’applicazione di prestazioni di carattere selettivo). A fronte di un costo complessivo di 360 miliardi di lire dell’epoca (200 milioni di Euro circa), il finanziamento della sperimentazione fu ripartito tra il Ministero per la Solidarietà Sociale e le amministrazioni comunali coinvolte che provvedevano alle spese di carattere organizzativogestionale. L’accoglimento della domanda comportava, oltre all’erogazione della prestazione, la definizione da parte del comune di un progetto di inserimento sociale che doveva essere accettato dal beneficiario. Primo impegno a cui i beneficiari dovevano tener fede, era quello di rendersi disponibili al lavoro attraverso l’iscrizione all’ufficio di collocamento. Il rifiuto o il mancato rispetto del patto sottoscritto dal beneficiario e dall’amministrazione comunale determina la sospensione del beneficio. La durata di tale beneficio fu fissata a 12 mesi, con possibilità di rinnovo. Da questi brevi cenni descrittivi sulla predisposizione di un programma di inserimento sociale emerge che l’istituto del Rmi andava oltre la semplice reintegrazione del reddito di che si trova in condizioni economiche problematiche e prevedeva forme di collegamento con le misure di politica attiva del lavoro. In sintonia con l’approccio di workfare, si trattava quindi di riattivare, laddove erano venuti a mancare, presupposti di integrazione economica e sociale rispondendo ad una varietà di bisogni sociali attraverso l’opportunità di inserimento lavorativo. E’ da questo punto di vista che l’esperimento del Rmi può essere considerato come una misura attiva, all’interno di quella vasta gamma che va sotto il nome di “politiche del lavoro”: nulla a che fare quindi con una politica del reddito di esistenza. Passando ad una valutazione della sperimentazione attuata3, una prima problematica messa in luce ha riguardato il livello organizzativo. I comuni hanno dimostrato grande entusiasmo, ma molto spesso senza un adeguato raccordo tra i vari settori dell’amministrazione comunale facendo emergere gravi deficit logistici. Nell’architettura del provvedimento sarebbe spettata proprio alle amministrazioni comunali l’intera gestione del programma: dall’accertamento dei requisiti per accedere alla prestazione (fase che si è rivelata estremamente difficoltosa) fino alla verifica del mantenimento degli impegni previsti dai programmi di inserimento. Le difficoltà sono riconducibili ad una scarsa dotazione di apparecchiature basilari per il funzionamento degli uffici e ad una carenza e/o impreparazione del personale. La sfida principale di questa misura, cioè la combinazione dell’erogazione monetaria con la predisposizione di programmi di inserimento sociale, non è sembrata totalmente riuscita. Se da una parte vi è stato l’abbandono di una logica puramente assistenziale, dall’altra non sempre i comuni sono stati in grado, ricorrendo alle risorse locali, di offrire una risposta adeguata in termini di progetti di inserimento. In particolare le difficoltà maggiori sembrano essersi registrate proprio nell’offerta concreta di opportunità di inserimento occupazionale. 3
Cfr. T. Alti e F. Maino, in G. Lunghini, F.Silva e R. Targetti Lenti (a cura di), Politiche pubbliche per il lavoro, Il Mulino, Bologna, 2001
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D'altronde, la difficoltà nel creare occupazione per i beneficiari di prestazioni assistenziali è comune agli altri paesi europei dove il reddito minimo è una misura ormai consolidata da anni. La percentuale di beneficiari di programmi di integrazione socio-economica che hanno trovato un posto di lavoro è inferiore ad un valore medio pari al 15% in un grappolo di sei paesi europei (Danimarca, Spagna, Francia, Lussemburgo, Olanda e Portogallo)4. E’ bene chiarire che il legame tra il diritto alla prestazione monetaria e la disponibilità a lavorare conosce diverse forme: dalla semplice iscrizione alle agenzie di lavoro alla cooperazione tra i servizi sociali e le agenzie di impiego, al potenziamento di strumenti formativi, allo svolgimento di compiti utili alla collettività, alla creazione di posti di lavoro nel settore dell’economia sociale, per finire con la creazione di imprese autonome. Tornando all’esperienza italiana, si è evidenziata una pericolosa tendenza ad utilizzare lo strumento del Rmi in modo “passivo” traducendo l’impegno all’inserimento puramente nell’attivazione di borse lavoro o lavori socialmente utili. Pur con tutte le difficoltà emerse nella sperimentazione, l’introduzione temporanea del Rmi in Italia ha avuto il merito di ridurre il ritardo del nostro welfare nella lotta all’esclusione sociale rispetto al panorama europeo. Contemporaneamente l’iniziativa ha rappresentato un primo tentativo per il potenziamento di un settore dello stato sociale italiano, vale a dire quello dell’assistenza, che, come visto, è tuttora in gran parte sottosviluppato rispetto ad altri ambiti di intervento, quale ad esempio il settore previdenziale. Pere quanto riguarda lo stile di policy emergono, in primo luogo, segnali del fatto che le misure di assistenza sociale recentemente approvate sembrerebbero in parte immuni da quel tipo di scivolamento distributivo in direzione particolaristica, che ha caratterizzato la fase di espansione del welfare italiano tra gli anni ’50 e gli anni ‘805. Da questo punto di vista è da sottolineare che la scelta dei 39 comuni è avvenuta sulla base di un indice sintetico di disagio sociale elaborato dall’Istat e che il Ministero non ha tenuto conto delle candidature spontanee dei comuni. In questo modo anche i margini di conflitto fra Ministero ed amministrazioni periferiche dello Stato si sono ridotti in modo consistente. La sperimentazione ha poi prodotto processi di apprendimento da parte dei comuni coinvolti nel progetto. Le 39 amministrazioni comunali sono state costrette in tempi definiti ed all’interno di una cornice comune, ad amministrare attivamente una questione sempre più rilevante quale è quella legata alla crescita di fenomeni di esclusione sociale e di povertà. Il Rmi ha svolto anche un ruolo di raccordo tra le diverse misure di intervento socio-assistenziale già esistenti nel comune e contribuire alla razionalizzazione dell’offerta di prestazioni assistenziali. Il fatto poi che i comuni siano stati sottoposti ad un monitoraggio e ad una valutazione del loro operato li ha costretti a tendere verso uno standard predefinito e li ha spinti verso il confronto non solo con il centro, ma anche con le altre realtà comunali. Non si può nascondere che l’apprendimento è stato vincolato ai livelli di policy già esistenti. Dove era già presente una eredità di policy favorevole all’impegno locale in materia di assistenza, l’introduzione del Rmi ha fatto emergere comportamenti virtuosi. Ciò non si è invece verificato in quei comuni, concentrati soprattutto al Sud, non abituati ad un efficace intervento nel sociale.
2.1 Le proposte esistenti in Italia di reddito minimo garantito
Ci siamo soffermati a lungo sulla proposta del primo governo Prodi, perché è da questa che partono le proposte che oggi interessano molte situazioni regionali e locali. Per discutere di questo punto, può essere utile ricordare i diversi disegni di legge nazionali, che giacciono al Parlamento, in attesa 4 5
Si veda Commissione europea, New European Labour Markets, Open to All, with Access for All, 2001. M. Ferrera, Le trappole del welfare, Il Mulino, Bologna, 1998.
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di discussione, per poi analizzare i progetti di legge regionale che oggi sono sul tappeto, che portano il nome di “leggi per l’istituzione di un reddito di cittadinanza”. a. I disegni di legge nazionali Occorre subito specificare come, attualmente, un’ipotesi di reddito incondizionato ed universale da erogare alla generalità della popolazione, non rientri nell’agenda politica di alcuna forza politica presente in parlamento. Si può quindi affermare come, almeno nel nostro paese, il dibattito che ruota attorno al reddito di cittadinanza, o di esistenza che dir si voglia, sia confinato nell’ambito della politica culturale più che di quella istituzionale. Eppure, come anche testimoniato dalla seppur parziale e temporanea sperimentazione del Rmi analizzata nel paragrafo precedente, si può notare una certa apertura ed evoluzione dei dibattiti e delle proposte in seno alla sinistra istituzionale verso ipotesi almeno di reddito minimo garantito. I disegni di legge già oggi presentati e che andrò in seguito ad analizzare sono tre. Il primo porta la firma dei deputati Cento e Salvi, il secondo principalmente Bertinotti ed il terzo è una proposta fatta propria da tutto l’Ulivo (oggi Unione). Nessuna delle tre proposte contempla l’introduzione di un reddito di esistenza incondizionato, ma tutte e tre le proposte testimoniano un crescente interesse verso una modificazione delle dinamiche dominanti nel mercato del lavoro del nostro paese. D’altronde è la stessa Commissione Europea, in una pluralità di documenti ufficiali6, a richiamare l’attenzione sulla ricerca di sistemi assistenziali in grado di garantire la continuità del reddito, probabilmente più con l’obiettivo di contenere i rischi di una stagnazione sostenendo i consumi, che quello di attuare una liberazione dal lavoro, ma è comunque un richiamo importante ed apprezzabile. Analizzeremo ora queste tre proposte più in dettaglio: Il DDL C 2575 (Cento-Salvi) La proposta di legge è stata presentata il 26 marzo 2002 e si propone di istituire un “reddito sociale per il sostegno contro la disoccupazione e la precarietà del lavoro”. Nel preambolo vi è un’analisi del processo evolutivo della nostra economia e si afferma che negli ultimi 20 anni essa sia andata incontro ad un forte processo di finanziarizzazione, processo che si è tradotto in un notevole aumento dei profitti, a scapito della remunerazione del fattore lavoro. Da qui si fa discendere l’aumento strutturale della disoccupazione, che a sua volta ha indotto la precarizzazione del lavoro e della vita. I promotori individuano nel reddito sociale lo strumento idoneo a contrapporsi a questa tendenza. Veniamo ora all’analisi dell’architettura del provvedimento. La legge prevede dei requisiti di accesso ed essi sono: la residenza in Italia da almeno due anni, iscrizione da almeno un anno agli elenchi anagrafici, reddito personale imponibile non superiore a 5 mila euro e appartenenza ad un nucleo familiare con reddito imponibile non superiore a 25 mila euro per nuclei di due persone, 30 mila per nuclei di tre e 4 mila euro per ogni membro aggiuntivo. L’erogazione è sottoposta a prova dei mezzi. Il compito di verificare l’idoneità è affidato ad un istituendo Ufficio centrale per il rilevamento dello stato di disoccupazione e per l’erogazione del reddito sociale minimo, ufficio istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali. L’importo del reddito elargito è di 8 mila euro annui, esenti da qualsiasi forma di tassazione e tale importo va rivalutato annualmente sulla base dei dati Istat relativi al costo della vita. La decadenza del diritto a percepire questa forma di reddito è causata solo dall’accettazione da parte del beneficiario di un lavoro a tempo pieno. 6
Si veda a titolo di esempio la Comunicazione COM(97)102 del 12/3/1997, intitolata: “Modernising and improving social protection in the European Union”, oppure la più recente COM(2000)163 del 21/3/2000 intitolata: “Relazione sulla protezione sociale in Europa”.
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Sono poi previste agevolazioni in favore dei titolari del diritto al reddito minimo nell’usufruire di alcuni servizi essenziali. Si va dalla esenzione del pagamento dei trasporti urbani, alla gratuità dell’assistenza sanitaria, a tariffe speciali per l’utilizzo di gas, acqua, elettricità e telefonia fissa. La copertura finanziaria sarebbe assicurata da una imposta straordinaria chiamata “labor tax”, consistente in una tassazione una tantum del 2,5% sulla tassazione dei redditi d’impresa per il primo anno di attuazione. Dal secondo anno in poi, invece, si dovrebbe provvedere mediante: l’incremento dell’aliquota di imposizione sugli interessi derivanti da titoli pubblici ed equiparati, che arriverebbe così al 30%, la tassazione dell’incremento di valore di titoli azionari, tramite un’imposta ad aliquota unica del 30%, l’inserimento nella dichiarazione annuale dei redditi di ogni reddito da capitale ai fini dell’applicazione delle imposte dirette, la tassazione dei trasferimenti di capitale all’estero riguardanti le transazioni internazionali di carattere finanziario a carattere speculativo (in pratica una cosiddetta tobin tax), con l’applicazione di un’aliquota sino al 3% con riferimento alle operazioni alle operazioni aventi durata non superiore a sette giorni, sino al 2,5% per le operazioni fino a trenta giorni e di un’aliquota dell’1,8% su operazioni di durata superiore a trenta giorni, infine è prevista una tassa sull’innovazione tecnologica che produce decremento occupazionale tramite un’addizionale del 3% sull’IVA dei relativi beni, prodotti o servizi. Dal nostro punto di vista la proposta mostra numerosi elementi d’interesse. In primo luogo sono giustamente inclusi tra i possibili beneficiari non solo i cittadini italiani, ma anche gli stranieri regolarmente soggiornanti e che quindi con il proprio lavoro od anche con la propria attività extra-lavorativa, hanno contribuito alla ricchezza ed allo sviluppo della nostra economia e della società in genere. Anche il tempo minimo di soggiorno previsto per essere inclusi nella platea dei possibili aventi diritto ci sembra congruo e giustificato, da un lato per evitare eccessivi flussi migratori e dall’altro per non discriminare con tempi di attesa eccessivamente lunghi chi nel nostro paese ha scelto di vivere e lavorare. Altro elemento positivo è che non sia prevista alcuna anzianità contributiva per accedere, potranno così beneficiarne anche chi è in cerca di prima occupazione. Il punto forse di maggior interesse, risiede poi nelle condizioni di decadenza. L’unico modo per perdere il sussidio è l’accettazione di un lavoro a tempo pieno; tale condizione non prevede vincoli all’accettazione di lavori, né impone un termine ultimo scaduto il quale si interrompe comunque l’erogazione del reddito. E’ facile capire come la previsione di questa tenue condizione testimonia la volontà di favorire un processo di emancipazione dei lavoratori, si intravede una tendenza a mettere nelle mani dei lavoratori la scelta di sottrarsi eventualmente dal regime di erogazione del reddito, accettando un posto di lavoro che egli in prima persona ritiene vantaggioso; non siamo ancora certo arrivati all’incondizionatezza del reddito di esistenza, ma la strada sembra essere quella giusta. Nella proposta Salvi-Cento è affiancato poi alla erogazione del reddito uno speciale sistema di tariffazione sociale, congegnato in modo da garantire al beneficiario la soddisfazione dei principali bisogni. Questa previsione è molto importante per evitare una monetizzazione dello stato sociale, in base al quale si erogherebbe un sussidio ai bisognosi, privatizzando il resto di tutti i servizi. Il punto più debole della proposta è l’individuazione dei meccanismi di copertura finanziaria. Le misure proposte indicano un criterio secondo cui il reddito sociale minimo non deve essere finanziato dalla fiscalità generale, bensì esclusivamente dalla tassazione sui capitali. Particolarmente negativamente ci pare di poter giudicare l’istituzione di una tassa sull’innovazione tecnologica che produce disoccupazione. In un paese come il nostro, estremamente carente di investimenti in ricerca ed innovazione, l’istituzione di una tassa sull’innovazione, più che per le reali ripercussioni sulla ricerca, sarebbe quanto meno un messaggio poco incoraggiante a chi in ricerca investe ancora. Il DDL C 872 (Bertinotti + altri) 8
La proposta di legge del 15 giugno 2001 è per la “istituzione della retribuzione sociale”. I requisiti di accesso sono: la maggiore età o, se studenti, il termine degli studi, iscrizione alla prima classe delle liste di collocamento da almeno 12 mesi, residenza in Italia da almeno 18 mesi. Anche qui la retribuzione sarebbe corrisposta dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Il compito di verificare il rispetto dei vincoli posti da parte dei beneficiari è affidato ad un nuovo comitato da costituirsi presso la Commissione centrale per l’impiego e supportato da un ufficio istituito presso il Ministero del lavoro. La durata massima della corresponsione è di tre anni, aumentati a quattro per gli ultra quarantacinquenni o per chi risieda in aree particolarmente svantaggiate. Chiunque rifiuti senza giustificazione adeguata una offerta di lavoro con contratto a tempo indeterminato, o anche chi rifiuti l’assegnazione ai lavori socialmente utili, perde la titolarità del diritto. La retribuzione sociale da corrispondere è pari ad un milione di lire mensili, da corrispondere per dodici mensilità in un anno, è soggetta a rivalutazione annuale sulla base degli indici del costo della vita rilevati dall’Istat ed è esentasse. Anche in questa proposta sono previste agevolazioni ulteriori per i beneficiari della retribuzione. Si va dalla gratuità dei trasporti urbani, del servizio sanitario, della scuola pubblica, all’istituzione da parte delle regioni di appositi corsi di aggiornamento e formazione professionale fino alla previsione di tariffe sociali per le utenze di elettricità, gas, acqua e telefonia fissa. Vi sono anche incentivi all’assunzione dei soggetti fruitori della retribuzione sociale. Queste agevolazioni constano di un contributo mensile pari al 50% del sussidio spettante al lavoratore per il periodo intercorrente dal momento dell’assunzione allo scadere del periodo massimo previsto, il contributo è aumentato al 75% per gli ultra quarantacinquenni o per chi abita in zone disagiate. Nel caso poi che il contratto di lavoro a tempo indeterminato, preveda un regime orario di trentacinque ore settimanali, il contributo è elevato al 100%. Vi è poi la previsione di un lavoro minimo garantito. Infatti, chi al termine del periodo dei tre (o quattro) anni non abbia ancora trovato un lavoro deve essere assunto per un periodo minimo di due anni da parte dell’amministrazione pubblica. Per i finanziamento del provvedimento sono contemplate due diverse vie. La prima risparmiando cancellando gli sgravi fiscali, gli incentivi, i crediti di imposta ed i contributi capitali a favore delle imprese a fronte di nuove assunzioni o di avviamento ed ampliamento delle attività produttive. La seconda, attraverso l’istituzione di un fondo a ciò vincolato in cui affluisce una quota dello 0,3% del totale dei capitali trasferiti in paesi esteri, le cui modalità di attuazione saranno definite con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze. L’obbiettivo dichiarato dai promotori della proposta è quello di un drastico abbattimento del tasso di disoccupazione. Proprio per perseguire questo obbiettivo è introdotto il concetto di “lavoro minimo garantito”, raggiunto, con i meccanismi sopradescritti, tramite l’intervento dello Stato, che fungerebbe così da “datore di lavoro d’ultima istanza”. Proprio questa novità è la maggiore pecca della proposta di legge. Essa testimonia, infatti, un marcato ideologismo ed una visione astratta del lavoro, inteso così come unico strumento di integrazione sociale, ben distante quindi da quella tensione verso una liberazione dell’uomo dall’obbligo del lavoro propria del reddito di esistenza. Secondo questo testo è necessario reintegrare quanto prima i beneficiari del sussidio nel mercato del lavoro e laddove non giunga l’attività privata, provvederà l’intervento statale. Altro elemento negativo è l’esclusione degli studenti dal sussidio, penalizzando così quei giovani che pur non provvisti di una famiglia in grado di supportarli adeguatamente, scelgano di investire nella propria istruzione universitaria o post-universitaria. Come detto prima uno dei punti più incoraggianti della proposta Cento-Salvi risiedeva nelle tenue condizioni di decadenza, essendo questo uno degli elementi più importanti per valutare qualsiasi proposta di reddito minimo ed è proprio su questo punto che la proposta di Bertinotti si rivela particolarmente deludente. E’ previsto, infatti, che chi rifiuti una proposta di lavoro a tempo 9
indeterminato perda il diritto alla prestazione. In cambio della continuità del reddito, si chiede al lavoratore una disponibilità quasi assoluta verso qualsivoglia proposta di impiego. Non è da nascondere che vi sono anche punti positivi, alcuni comuni alla proposta Salvi-Cento quali: l’inclusione dei non cittadini tra i possibili beneficiari ed un congruo tempo di attesa per gli immigrati (poca la differenza tra le due, diciotto mesi invece dei due anni del disegno di legge Salvi-Cento), un sistema di accesso agevolato ai servizi pubblici e ad altri servizi,utile a scongiurare, come già detto, la tendenza alla monetizzazione del welfare. Punto originale e positivo di questa mozione è la possibilità data ai fruitori della retribuzione sociale di percepire l’intero ammontare del sussidio in un’unica soluzione, da utilizzare per l’avvio di progetti imprenditoriali o cooperativi. Per concludere, il nostro giudizio sul disegno è pesantemente influenzato dall’introduzione del lavoro minimo garantito. Il proposito di piena occupazione che si vorrebbe raggiungere con questo mezzo, può anche essere di per sé meritorio, ma andrebbe sicuramente distinto dall’istituto del reddito sociale. Il DDL C 3134 (proposta dell’Ulivo-Unione) Proposta di legge presentate il 5 settembre 2002 e riguarda un periodo di sperimentazione di due anni, questa sperimentazione può essere prolungata per un periodo non superiore di altri due anni dal Ministro dell’economia, sentiti i pareri delle Commissioni parlamentari competenti e d’intesa con la Conferenza unificata. I possibili beneficiari sono i cittadini italiani maggiorenni e fino ai 25 anni di età, l’altro requisito previsto è l’assenza di condanne penali. Il trasferimento avviene tramite una dotazione finanziaria di 15.000 euro a titolo di credito senza interessi da restituire in quindici anni dalla data di erogazione. Vengono poi anche descritte le possibili finalità dell’erogazione che devono essere dichiarate dal cittadino all’atto della richiesta, esse sono: la formazione post-secondaria qualificata, mediante la frequenza di corsi di laurea universitaria, corsi di formazione riconosciuti, tirocini professionali o similari oppure, l’avviamento di una attività professionale o industriale. Al fine di orientare i programmi di formazione e di avvio di una attività imprenditoriali o professionali, le regioni si devono attivare per rendere noti la domanda prevedibile di figure professionali ed il fabbisogno di nuove attività per la produzione di beni o servizi, ai fini di uno sviluppo equilibrato ed innovativo del sistema economico-sociale del territorio. Per finanziare il provvedimento, il Ministro dell’economia è chiamato a stipulare una convenzione con l’Associazione bancaria italiana relativa all’erogazione, da parte di banche ed istituti finanziari, della dotazione finanziaria di capitali ai beneficiari individuati dalle regioni. In questa convenzione è stabilito un tasso d’interesse omogeneo su tutto il territorio nazionale. L’onere per gli interessi e le garanzie per la copertura dei rischi, sono a carico di fondi creati appositamente dalle regioni con i fondi ripartiti dallo Stato, fondi provenienti dalla reintroduzione della tassa di successione abolita dall’attuale governo. Il riparto è effettuato in relazione al numero di cittadini maggiorenni residenti nelle varie regioni, nonché in base al reddito pro-capite delle regioni. Questi fondi regionali dovrebbero prevedere il cofinanziamento da parte di enti locali e territoriali, privati cittadini, società associazioni ed enti. Le regioni devono anche: monitorare l’effettivo utilizzo delle somme erogate, definire le modalità per il rimborso della dotazione finanziaria, definire le modalità per la compilazione delle graduatorie regionali o provinciali e stabilire eventuali deroghe al limite di età. La proposta di legge dell’Ulivo7 si distingue dalle due precedenti per il maggior grado di elaborazione tecnico-giuridica; essa interviene infatti nell’ordinamento esistente con una serie di 7
Il ddl intitolato: “Diritti di sicurezza sociale in materia di tutela del lavoro e del reddito”, si divide in tre titoli: il primo dedicato alla “promozione della formazione finalizzata all’accesso e al reinserimento al lavoro”, la cui analisi sarà tralasciata perché sostanzialmente estranea al tema trattato; il secondo dedicato al perfezionamento dei “sostegni al
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modifiche specifiche e tecnicamente puntuali; per certi versi propone l’introduzione di istituti completamente innovativi, per altri versi riforma ed adegua altri istituti assistenziali già esistenti quali l’indennità di disoccupazione o la cassa integrazione. Se le altre due proposte esaminate aggiungono all’ordinamento il nuovo strumento di tutela del reddito, non entrano però nel merito degli adeguamenti che si rendono necessari nel sistema complessivo dell’assistenza sociale. Sotto questo punto di vista il disegno di legge dell’Ulivo è invece senza dubbio una vera e propria proposta di governo, con i pregi già accennati, ma anche con il difetto di essere eccessivamente ancorata alle tendenze economiche dominanti. Questo disegno di legge non prevede di affrontare, in alcun modo, la questione del reddito sganciato dall’attività lavorativa e di questo bisognerà tener conto nel dare una valutazione su di essa. Partirò analizzando in primo luogo il secondo titolo dedicato al perfezionamento dei sostegni al reddito. In questa seconda parte del provvedimento, è proposta una riforma, innanzi tutto, dell’indennità di disoccupazione, che è estesa a tutti quanti i lavoratori precedentemente esclusi (pubblici dipendenti, apprendisti, lavoratori del porto); l’ammontare del trattamento passa al 60% dell’ultima retribuzione, concludendo così un lungo processo di riforma che ha visto aumentare l’indennità originariamente fissata a 800 lire al giorno (fino al 1988). L’indennità, secondo questa proposta, è estesa anche ai lavoratori dimissionari per giusta causa, mentre adesso è riservata ai soli lavoratori licenziati. La durata del trattamento è raddoppiata: si passerebbe dagli attuali 6 mesi ad un anno. Qualche modifica è operata anche sull’istituto dell’indennità con requisiti ridotti (c.d. indennità ai precari): per accedere al beneficio bisognerà aver lavorato 70 giorni nell’ultimo anno; non è più richiesta alcuna anzianità assicurativa: ciò significa che basta aver lavorato per la prima volta nella propria vita per due mesi e mezzo con un contratto a termine, per aver diritto all’indennità. Di sicuro rilievo è la novità proposta dall’articolo 18 del disegno, in cui si legge che: “Ai lavoratori che svolgono rapporti di collaborazione aventi a oggetto una prestazione d’opera coordinata e continuativa [….] si applicano le disposizioni vigenti in materia di assicurazione contro la disoccupazione involontaria”; le due indennità sopra descritte (ordinaria e per i precari) sono estese in sostanza anche ai lavoratori co.co.co. E’ un primo timido tentativo, questo, di ricondurre ad unità le molteplici figure contrattuali fiorite negli ultimi anni. Va, però, segnalata, nonostante la presenza di un riconoscimento del diritto alla tutela del reddito, l’assenza di alcuna salvaguardia per i soggetti in cerca di prima occupazione, per gli studenti e per i disoccupati di lunga durata, quindi la misura rimane ancora troppo strettamente legata alla prestazione lavorativa. Delle modifiche sono operate anche all’istituto della cassa integrazione, il quale prevede, come noto, delle integrazioni salariali per le ore non lavorate ed è destinato non già alla generalità dei lavoratori, bensì solo a quelli di una azienda in crisi. Ebbene, il ddl dell’Ulivo prevede l’estensione del trattamento a tutti i rapporti di lavoro subordinato, superando così il gap nei confronti di alcune categorie (dipendenti delle piccole imprese, settore artigiano, imprese portuali), escluse ancora oggi dall’istituto della cassa integrazione. L’ammontare del trattamento è parificato a quello dell’indennità di disoccupazione, essendo così ridotto dall’attuale 80% del salario. Secondo le previsioni dell’articolo 20, le organizzazioni sindacali e padronali potranno costituire di comune accordo dei fondi bilaterali, i quali, operando di fatto alla stregua di istituti assicurativi, potranno versare ai lavoratori delle prestazioni di sostegno al reddito aggiuntive rispetto a quelle previste dalla legge. Il ddl propone, infine, l’introduzione di un nuovo istituto di sostegno al reddito, destinato ai lavoratori precari che, pur percependo l’indennità di disoccupazione, non raggiungono comunque livelli dignitosi di reddito: in tali casi è prevista un’integrazione ulteriore, fino a raggiungere la somma massima di 9.300 euro lordi annui. Ciò significa che in alcuni casi è possibile, grazie alle misure di sostegno, raggiungere livelli di reddito superiori ai 9 mila euro (lordi), pur avendo lavorato per soli 70 giorni in un anno. Quest’ultima è una misura abbastanza interessante, perché reddito”, del quale darò una descrizione sommaria di tipo qualitativo. Il titolo terzo, intitolato “sostegno per i giovani occupati e inoccupati”, è la parte da me prima più puntualmente esposta.
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potrebbe spingere la manodopera post-fordista verso dei comportamenti di rifiuto o auto-riduzione del lavoro. Torniamo ora al terzo titolo del ddl, quello dedicato al sostegno per i giovani. In esso, oltre a ritoccare istituti assistenziali già esistenti, si propone l’introduzione di un istituto completamente nuovo, consistente nella dotazione ai giovani fino a 25 anni di età di una somma di capitale pari a 15 mila euro. La somma è erogata sotto forma di prestito senza interessi, da restituire nell’arco di quindici anni, quale finanziamento per le attività formative o per le iniziative imprenditoriali dei giovani. L’intento dei promotori è quello di supportare il periodo degli studi o dell’avvio delle prime attività lavorative, cioè in quel periodo in cui i giovani compiono scelte spesso decisive per la propria vita futura ed in cui le disuguaglianze di partenza possono precludere alcune strade che si vorrebbero invece perseguire. L’obbiettivo è sicuramente pregevole, come buona l’idea di finanziare parte del provvedimento tramite la reintroduzione della tassa sulle successioni (si palesano così i fini di equità che ispirano la proposta), la forma del prestito assunta dal sussidio, meno. Oltre che con ragioni di equità, il nuovo istituto si giustifica in base a ragioni di efficienza. Viene, infatti, considerata necessaria per uno sviluppo dell’economia e della società la diffusione tra la maggior parte dei cittadini di una istruzione avanzata. Inoltre tra i fini dichiarati del ddl, vi è quello di promuovere capacità, abilità, competenze, piuttosto che risarcire per mancanze, carenze, deprivazioni; l’intento è inoltre quello di “influire, oltre che sulla distribuzione iniziale di risorse, sul prezzo che gli individui possono ottenere per le loro risorse nel momento in cui le scambiano sul mercato”. Soldi ai giovani, dunque, per promuovere competenze liberamente acquisite e per aumentare il peso sul mercato del lavoro. Sono evidenti, a mio giudizio, l’affinità con le intenzioni dei sostenitori del reddito di esistenza, cioè che i soggetti produttivi sono in grado di esserlo senza essere legati alla catena di lavoro. La presa di coscienza del problema esiste dunque, ma questa non sfocia, purtroppo, nella conseguenza per me più logica: l’erogazione di un reddito incondizionato. I limiti del provvedimento sono numerosi: i 15 mila euro sarebbero erogati solo dopo richiesta e non sono quindi assegnati quale diritto soggettivo, il beneficio è previsto solo per i cittadini italiani. Inoltre le regioni sono chiamate a stilare delle graduatorie di accesso, che tengano conto sia della situazione economica del soggetto, sia del fabbisogno di figure professionali presente sul territorio. Appare evidente il rischio da un lato di creare una controllo della società eccessivamente pervasivo da parte dell’amministrazione pubblica, dall’altro l’opportunità per la creazione di un fiorente clientelismo Va comunque detto che la filosofia di fondo del provvedimento è alquanto distante da quella di garantire a tutti un reddito minimo ed è quindi fin troppo facile evidenziarne i limiti se analizzato da questo punto di vista. Per concludere questa panoramica sulle tre proposte di legge, mi sembra di poter affermare che in realtà sono numerose le differenze riscontrabili in questi tre impianti normativi. Il primo, la proposta Salvi-Cento, eroga quasi incondizionatamente reddito ai disoccupati, ma trascura del tutto quei lavoratori “stabili” che vorrebbero emanciparsi dalla propria condizione lavorativa e migliorare la propria esistenza; il secondo progetto, quello a firma Bertinotti, offre alcune soluzioni, ma lega eccessivamente i soggetti al lavoro; l’ultima introduce alcune misure destinate alla condizione di precarietà, ma impone a tutti i lavoratori disoccupati un iter trattamentale, fatto di corsi di formazione, stage, tirocini, volto a “risocializzarla”, ossia a ricollocarla il più rapidamente possibile entro il mercato del lavoro. Il punto più delicato per giudicare qualsiasi forma di intervento in questo ambito, risiede nelle condizioni di decadenza, è infatti da qui che si riesce a comprendere quale sia la scelta politica di fondo, perché è tramite questo meccanismo che si può dotare il percettore del potere di accettare o meno gli impieghi che gli saranno proposti, ovvero se accordare ad un organo burocratico il potere di decidere i destini individuali, non trasformando così il reddito in una fonte di emancipazione della persona. 12
Altri punti decisivi su cui basare il giudizio su queste proposte è: l’estensività dell’erogazione, cioè la possibile platea dei beneficiari e la durata per cui questi soggetti possano godere del trasferimento e l’intensività indicando con questo termine sia l’entità monetaria del trasferimento sia la varietà e la qualità dei beni e servizi garantita ai cittadini.
b. I disegni di legge regionali
Negli ultimi due anni, dopo il progetto pilota della Campania, sono in discussione numerosi provvedimenti riguardo l’erogazione di forme di reddito e indiretto in molte regioni italiane. In alcune di queste, Friuli, Lazio, Marche, Basilicata, la progettazione è già in fase di avanzamento. In altre, a causa della maggioranza di centro-destra, sono state presentate leggi popolari per l’introduzione del cd. reddito di cittadinanza (Lombardia). Proviamo a dare alcuni elementi di analisi. Regione Campania A fine gennaio 2004, la regione Campania approva la legge regionale per l’introduzione sperimentale del reddito di cittadinanza: la misura resterà in vigore per tre anni. Si tratta della prima misura di questo tipo introdotta da una Regione italiana. Potranno accedere ad un reddito di 350 Euro (inferiore alla soglia di povertà relativa) le famiglie con un reddito annuo inferiore ai cinquemila euro, comprese quelle degli immigrati purché residenti in Campania da almeno cinque anni. A tale erogazione di reddito, si accompagnano misure di sostegno indiretto al reddito (dalla gratuita' dei testi scolastici a quella per l'abbonamento al trasporto pubblico) da garantire alle famiglie beneficiarie del reddito di cittadinanza; previsti anche interventi di accompagnamento al lavoro, per evitare che l'erogazione mensile si trasformi in assistenzialismo. Il limite massimo di reddito per fare domanda è di 5000 euro lordi all’anno per nucleo familiare. Il finanziamento per i primi anni è garantito dalla finanza regionale, tramite la redistribuzione di risorse interne e la vendita di alcune proprietà pubbliche. L’aspetto positivo dl provvedimento è che è aperto anche ai residenti, quindi anche alle famiglie degli immigrati. Gli aspetti negativi riguardano la condizionabilità del provvedimento, il fatto che è rivolta di fatto alle famiglie (anche se il titolare del reddito è una persona singola, nella fattispecie il capofamiglia) e l’eseguità delle risorse disponibili, nonché il fatto che l’entità del reddito è inferiore alla soglia di povertà relativa. Ne è conseguito un numero di domande di gran lunga superiore a quelle esigibili (non più di 20.000, secondo le stime della regione), che ha comportato la non universalità per chi ne aveva diritto. Al momento attuale, il provvedimento campano non può annoverarsi tra le misure finalizzate all’erogazione di un reddito di esistenza, ma si tratta, piuttosto, di un provvedimento condizionato, a metà tra assistenzialismo e workfare, sul modello della sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento del governo Prodi.
Basilicata Il dibattito sul reddito in Basilicata e l’iniziativa legislativa è quello più avanti in Italia e segue in modo pressoché analogo l’iter perseguito in Campania. Valgono quindi per la Basilicata le stesse considerazioni che valgono per la Campania.
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Lazio La regione Lazio ha iniziato da poco a discutere di una legge regionale che introduca un sostegno continuativo al reddito. A tale scopo, si sono aperti alcuni tavoli tra i movimenti sociali, le parti sociali e le istituzioni. Il dibattito al riguardo verte sui seguenti punti8: 1. Il reddito per chi? Ossia chi sono i destinatari del sostegno al reddito. Per rispondere a tale questione, si intende valutare due parametri che definiscono l’instabilità e l’insicurezza economica, quindi sociale, degli individui: condizioni di vita attuali e aspettative per il futuro. Per quanto riguarda la prima variabile, i soggetti che maggiormente sono interessati sono il precariato diffuso metropolitano (studenti, immigrati, disoccupati senza rendita), il precariato dei servizi (trasporti, commercio, terzo settore, ricerca, comunicazione), alla persona, alla produzione, al consumo e, infine, gli espulsi dalla produzione 2. Il reddito perché? Ovvero, perché la legge sul reddito di esistenza risponde ai bisogni sociali emergenti e ai problemi posti dalle trasformazioni dell’economia e rimasti irrisolti. L’obiettivo del reddito di esistenza è il perno della nuova struttura di welfare, per diversi motivi: il reddito di cittadinanza è il centro focale su cui progettare una nuova partecipazione sociale e democratica. Il reddito di cittadinanza è un freno alla corsa al ribasso del costo del lavoro, contro il ricatto della precarietà: l’accettabilità di un lavoro al ribasso è inversamente proporzionale alla garanzia di reddito. Il reddito di cittadinanza è uno strumento di protezione contro il ricatto dell’esclusione. Il reddito di cittadinanza è riconoscimento del carattere produttivo della vita sociale indipendentemente dal lavoro, riconoscimento del carattere sociale della produzione. Il reddito di cittadinanza può liberare tempo sociale al fine di favorire il reinvestimento personale e creare uno sviluppo personale e di comunità che inneschi un circolo virtuoso di riqualificazione. 3. Il reddito come, quando e quanto? Ossia quali devono essere le modalità di distribuzione del reddito, quali le condizioni affinché della sua efficacia, sia nelle sue forme di erogazione diretta che indiretta. Bisogni del vivere associato e beni che, se garantiti, sia attraverso l'erogazione di un reddito diretto (quota monetaria) che di uno indiretto (accesso ai servizi), possono assicurare riproduzione e cittadinanza sociale ai precari. Bisogni sociali diffusi
Reddito
Formazione
Informazione
Comunicazione
Mobilità
Socialità
Beni da garantire per la soddisfazione dei bisogni Reddito d'esistenza garantito, erogazione di una quota monetaria per la riproduzione delle vite singolari Disponibilità di strumenti e di luoghi per la formazione, accesso all'istruzione, creazione di spazi per la produzione di sapere collettivo Libero accesso all'informazione e rimozione dei vincoli che lo limitano, quali il "diritto" di proprietà intellettuale Accesso ai canali e ai media attraverso i quali avviene la comunicazione sociale e transita la cultura Fruizione agevolata dei mezzi di trasporto, garanzie dei servizi per il movimento sul territorio e la libera circolazione dei corpi Creazione di spazi comuni d'incontro che consentano a ciascuno la cura delle reti relazionali sociali
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Cfr. Aa.Vv. Reddito garantito e nuovi diritti sociali, Assessorato al Lavoro, Pari Opportunità e Politiche Giovanili della Regione Lazio, Roma, febbraio 2006.
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Alloggio
Abitazione garantita, possibilità per tutti di disporre di uno spazio per la realizzazione e l'organizzazione della propria vita
Ciò che abbiamo presentato in questa sede è per il momento la posizione dei movimenti. Tale posizioni si deve scontrare con impostazioni più “classiche” di natura fordista, finalizzate a creare mera assistenza in cambio di un contributo più o meno forzoso all’attività produttiva. Le diverse posizioni possono essere rappresentate nella seguente tabella, che riclassifica le modalità di erogazione del reddito sulla base dell’intensità retributiva (quanto?) e della universalità del provvedimento (a chi?)9 Estensione sociale
Intensività redistributiva
Limitazioni di accesso al reddito in base a discriminanti di ordine sociale (etnico, di genere, generazionale, socio-economico) Erogazione monetaria (reddito diretto) e di beni e servizi primari (reddito indiretto) rispetto alla capacità di autosufficienza dei soggetti
Vincoli per il mantenimento dell’erogazione legati all’accettazione di lavoro, di formazione coatta e di means test (forme di controlli sociali) Limiti temporali all’erogazione di reddito relativamente alla condizione degli individui percettori
Basilicata La Basilicata ha promulgato il 19 gennaio 2005 una legge (n. 3) dal titolo: “Promozione della cittadinanza sociale” in cui vengono previsti all’interno di politiche attive per la cittadinanza anche sussidi monetari di integrazione al reddito. Si tratta di un intervento sperimentale della durata di due anni, dal momento dell’entrata in vigore dei decreti attuatori, promulgati il 23 gennaio 2006. I referenti sono “persone appartenenti a nuclei familiari in particolare stato di difficoltà ed esposti al rischio di marginalità economica e sociale” (art. 3, comma 1). E’ richiesto il parametro della residenza (minimo di 24 mesi). Può avanzare richiesta di sussidio monetario uno di componenti maggiorenni del nucleo familiare. Non può essere presentata più di una domanda per nucleo familiare, il che fa sì che il reddito erogato non sia a livello individuale, bensì familiare (come nel caso campano). Per famiglie di una sola persona, il limite di reddito annuo – misurato dalla certificazione ISE – non deve essere superiore alla soglia di Euro 3961. Per famiglie composte da più di una persona, la soglia ora indicata deve essere moltiplicata per un coefficiente apposito10, che può essere aumentato a seconda della presenza di handicap, di un solo genitore et similia. Per l’anno in corso, 2006, primo anno di sperimentazione sono stati stanziati 41 milioni di euro, alla cui copertura “si provvederà con le risorse individuate nelle leggi di approvazione del bilancio regionali per gli esercizi finanziari in corso” (Art. 13). Si tratta di un sostegno monetario che è comunque condizionato dalla “disponibilità immediata, pena l’esclusione di tutti i benefici, a partecipare ai programmi di inclusione sociale” (art. 3, comma 4). Tali programmi, descritti nell’art. 5, comma 2, sono di tipo “sociale, scolastica, formativa, occupazionale del richiedente e degli altri componenti il nucleo familiare”. Essi spaziano dalla frequenza di corsi, a interventi di inserimento lavorativo (tramite borse e voucher), che comunque non possono “essere svolti presso pubbliche amministrazioni e loro emanazioni” (Art. 5, comma 5).
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Per queste osservazioni sono grato ad un documento preparatorio redatto da Andrea Tiddi e dal gruppo Infoxoa, entrambi impegnati nel tavolo laziale di discussione della legge sul reddito di cittadinanza. 10 Per due componenti, il coefficiente diventa 1,57, per tre 2,04, per quattro 2,46 e così via.
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Di fatto, l’inserimento lavorativo viene favorito promuovendo forti riduzioni del costo del lavoro per le imprese private, che sono così incentivate e domandare lavoro. Il sussidio monetario al reddito rischia così di essere sostitutivo di salario.
Friuli Venezia Giulia In Friuli Venezia Giulia, a differenza delle altre regioni fin qui analizzate, si sta seguendo un percorso metodologicamente diverso e per questo, forse, più interessante. In primo luogo, sfruttando le risorse messe a disposizione dalla Comunità Europea in quanto regione transfrontaliera (con la limitrofa Slovenia), si è costituito un Osservatorio sulle Politiche Sociali del Friuli e della Slovenia, denominato OR-WIN (ovvero, Osservatorio Regionale Welfare Innovation). Tale osservatorio è costituito nella sua fase iniziale da due gruppi di ricerca. Il primo ha lo scopo di fornire una fotografia dell’attuale situazione socio-economica e delle tendenze in atto in regione e per provincia, quindi proporre nuovi indicatori di qualità e sviluppo umano e ipotizzare delle proposte di interventi di policy sul welfare regionale, sulla base delle risultanze ottenute. Il secondo gruppo di ricerca, che lavora in parallelo, ha invece la funzione di quantificare l’entità delle spese sociali attuate negli ultimi anni, divise per assessorati e competenze. Le finalità di tale attività di ricerca è, da un lato, fornire il quadro qualitativo e quantitativo della realtà sociale friulana, al fine di individuare la nuova composizione sociale e della ricchezza, condizione necessaria per implementare una politica di reddito di esistenza e definire le sue forme di finanziamento, dall’altro, verificare e monitorare il tipo di prestazione sociale già esistente, eventualmente sostituibile dall’introduzione di un reddito di esistenza e creare le premesse per la costituzione di un bilancio sociale, come parte consistente dell’intero bilancio regionale. E’ utile ricordare che la costituzione dell’Osservatorio è contemplata dalla legge quadro 328/2000 relativo al riordino delle politiche locale di protezione sociale, all’interno dei nuovi spazi decisionali che il processo verso il federalismo consente. Tale metodo, tuttavia, richiede tempo. La giunta Illy ha approvato ai primi di marzo 2006 un provvedimento in materia di reddito di esistenza, mettendo a disposizione una somma di 11 milioni di Euro, stornati dal bilancio regionale, ma senza nessun intervento che vada a modificare la struttura fiscale e contabile all’interno del bilancio regionale. Tale somma dovrebbe diventare operative nell’ultimo trimestre 2006. E’ importante aspettare i decreti attuativi per capire meglio come tale provvedimento si implementi sul territorio e quanti residenti possa coinvolgere.
Lombardia In Lombardia, nel corso del 2005 alcuni forze politiche e di movimento hanno costituito il Tavolo contro la precarietà e la legge 30. Una delle iniziative partorite è stata la raccolta di firme per una legge popolare, denominata “Legge regionale in tema di reddito sociale” La proposta di legge prevede lo stanziamento di un’erogazione monetaria integrata da un pacchetto di servizi ai soggetti precariamente occupati al momento della perdita del lavoro, ai disoccupati in cerca di occupazione e agli studenti universitari che vivono fuori dal nucleo familiare. I soggetti beneficiari devono essere residenti in Lombardia, mentre non costituisce requisito il possesso della cittadinanza italiana. L’obbiettivo è quello di garantire una continuità di reddito a fronte della discontinuità occupazionale, consentendo così anche la continuità dei versamenti contributivi ai fini previdenziali. Nel pacchetto di servizi sono comprese, a carico anche dei comuni, agevolazioni per i trasporti, per la fruizione di beni e servizi culturali e artistici, per la casa, facilitazioni per l’accesso al credito. La copertura finanziaria della legge non peserà indistintamente sulla fiscalità generale, ma sarà a carico di quei soggetti economici (imprese utilizzatrici, somministratrici…) che traggono profitto 16
dalla fornitura e dall’utilizzo di lavoro precario. In questo senso costituirà altresì un disincentivo concreto all’utilizzo delle tipologie contrattuali precarie, rendendole relativamente più costose.
Altre regioni italiane Il dibattito sull’introduzione di un reddito di cittadinanza interessa, oltre alle regioni citate, anche le Marche, la Puglia, la Sardegna, l’Emilia Romagna e la Toscana. In queste due ultime regioni si sta studiando un articolato di legge regionale che è sulla falsariga di quello campano. Nella Puglia, il discorso è solo all’inizio e nel febbraio 2006 è stato approvato un disegno di legge, recante il titolo: “Disciplina del sistema integrato dei servizi sociali per la dignità e il benessere delle donne e degli uomini di Puglia”. In tale legge, non viene fatto esplicito riferimento al “diritto al reddito”, che rimane, piuttosto, subordinato alla necessità di inserimento al lavoro. Tuttavia nell’art. 14 si fa espressamente riferimento alla istituzione di un Osservatorio regionale delle politiche sociali, anche se poi nel comma 4 ci si sofferma sulla necessità di costituire un Osservatorio permanente sulle famiglie e sulle politiche familiari, come perno sul quale costruire una politica di protezione sociale. L’enfasi sulla famiglia (sia quella tradizionale che “di fatto”) è ribadita anche negli articoli iniziali, in particolare art. 2, comma e): “valorizzazione del ruolo della famiglia quale nucleo essenziale delle comunità locali per la crescita, lo sviluppo e la cura della persona”. Diversa appare invece l’impostazione seguita nelle Marche, dove è in procinto di essere organizzata una raccolta popolare di firme a sostegno di un Progetto di legge denominato: “Istituzione del diritto al reddito sociale”. Il “reddito sociale” si compone di una retribuzione erogata direttamente dalla Regione ai singoli soggetti che rientrano nelle condizioni previste dalla proposta di legge e di un “pacchetto” di servizi gratuiti offerti agli stessi soggetti dagli Enti locali nell’ambito delle proprie competenze (dalla formazione ai trasporti, alla sanità, all’istruzione, all’accesso a manifestazioni culturali). E’ interessante notare che l’istituzione di un reddito sociale è quello di sottrarre disoccupati e precari dall’incertezza quotidiana, ponendoli nella condizione di scegliere un lavoro che risponda alle loro esigenze. Se un lavoratore non ha la possibilità di far maturare le proprie competenze nel luogo in cui lavora, se entra tardi nel mondo del lavoro, e permane in una situazione reddituale di primo impiego, si creano effetti deleteri per l’intero sistema economico: viene meno la forza contrattuale di tutti i lavoratori, aumenta il ricorso al lavoro straordinario, si diffonde un senso di passiva subalternità, si diffondono sfruttamento e alienazione; infine diminuisce la produttività. Il lavoro precario non costituisce una risorsa che crea ricchezza. Viene quindi privilegiato il diritto a scegliere il lavoro, piuttosto che il tradizionale “diritto al lavoro”. La proposta di legge prevede un’erogazione monetaria pura e semplice (a carico dell’amministrazione regionale), mentre la parte dei servizi funzionerebbe in questo modo: rispetto ai trasporti, sarebbero i Comuni, che poi sono i titolari del trasporto pubblico locale, a dover erogare uno sconto del 50% sul trasporto pubblico urbano a chi già risulta beneficiario di questa proposta di legge. Nel pacchetto dei servizi rientrerebbe anche l’esenzione per i ticket sanitari e dei benefici rispetto ai beni culturali, alla fruizione dei beni culturali di competenza dei Comuni tramite il meccanismo delle convenzioni. Infine, come elemento di novità rispetto alle altre proposte di reddito di cittadinanza, è prevista un’esplicita norma finanziaria per il finanziamento (art. 7): in essa si prevede la costituzione di un Fondo per il finanziamento del reddito sociale alimentato da risorse regionali individuate sulla base della programmazione economico-finanziaria della Regione e quantificate annualmente con legge finanziaria nel rispetto degli equilibri di bilancio; da eventuali incrementi dell’addizionale regionale IRE sulla base di un sistema a scaglioni da stabilire con apposito provvedimento legislativo, ai sensi delle disposizioni vigenti in materia; da risorse derivanti da eventuali tributi regionali in attuazione dell’art. 119 della Costituzione nell’ambito del federalismo fiscale; da risorse versate dai Comuni attraverso eventuali appositi incrementi delle aliquote ICI comunali su immobili non adibiti a prima abitazione ed eventuali appositi incrementi delle addizionali comunali IRE, sulla base degli studi condotti da un apposito Osservatorio. A tal fine, infatti, la Regione istituisce un apposito 17
Osservatorio in linea con quanto previsto dall’art. 8 della legge 8 novembre 2000, n. 328 che provvede anche all’analisi di ulteriori forme di finanziamento del reddito sociale. Questa analisi è volta a ricercare forme di fiscalità che colpiscano le nuove rendite e ostacolino i nuovi meccanismi di sfruttamento posti in atto dalla riorganizzazione tanto dei luoghi della produzione quanto dei luoghi esterni alla produzione (ma ad essa funzionali). Un lavoro che presuppone una mappatura attenta del territorio, delle città, degli spazi sottratti alla cittadinanza dalle logiche produttive e speculative, quindi una ricostruzione della storia dei luoghi, degli immobili, delle dismissioni, delle proprietà 11.
3. Prime conclusioni Dall’esame delle tre leggi sul reddito depositate in parlamento e dei progetti di legge a livello regionale si può dedurre un quadro complessivo che vale la pena riassumere. Per quanto riguarda i parametri di base che definiscono l’ipotesi di reddito di esistenza, ovvero individualità, requisito della sola residenza (invece che cittadinanza), incondizionabilità (assenza di mean test), finanziamento a carico della collettività generale, non sempre essi risultano presenti e presi in considerazione. Per quanto riguarda il metodo, il più delle volte si propone un articolato di legge senza che si sia sviluppato un processo di monitoraggio della realtà sociale in grado di quantificare i soggetti destinatari e l’ammontare delle risorse necessarie e soprattutto senza essere in grado di avere una mappatura dei flussi di ricchezza che sono generati nel territorio e dalla cui esistenza dipende il processo di finanziamento della misura stessa. Non è un caso che nella maggior parte dei casi o manca del tutto una norma finanziaria oppure si fa riferimento ad un generico bilancio regionale o a eventuali trasferimenti di reddito come fonte di finanziamento oppure all’introduzione di nuove forme di tassazione, che non vengono però quantificate Nella seguente tabella si opera una sorta di riassunto finale. Confronto tra le varie proposte legislative nazionali e regionali Individualità
Residenza
Incondizionabilità
Legge CentoSalvi Legge Rifondazione Legge Ulivo Unione Basilicata
Capofamiglia
Si, da 24 mesi Si, da 18 mesi
No
CampaniaEmilia, Toscana Friuli Venezia Giulia Lombardia
Capofamiglia
Si
NO, dai 18 ai 25 anni, solo due anni NO, obbligo accettazione contratto di inserimento No
Si
Si
Si
Si
Capofamiglia Si
Solo un compo- Si, da 24 nente familiare mesi
No, solo 3 anni
Fiscalità Norma finanziaria generale Si, tassazione mkt finanza No 0,3% di tassazione capitali verso estero No Credito in accordo Abi Si Legge finanziaria regionale
Monitoraggio territorio No No No No
No
Dismissioni e privatizzazione
No
Si
Si
Ancora da decidere
Si
No
No
Tassazione precarietà
No
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Ci sia concesso un esempio: è assurdo che i Comuni facciano a gara a dare incentivi fiscali in merito alla concessione di costruzione di un iper-mercato, quando la grande distribuzione utilizza una struttura logistica, di area, territoriale, che è frutto dell’evoluzione economica di quel territorio. Non è un caso che nessuna multinazionale della distribuzione intende costruire un iper-mercato sul cucuzzolo di una montagna. E non è un caso che gli iper-mercati sorgono essenzialmente dove ci sono gli svincoli autostradali. Essi sfruttano le esternalità positive del territorio, che sono un bene comune, per ottenere profitti privati.
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Puglia Marche
Capofamiglia Si
Si Si
No Si
No Si
No Si
Si Si
In conclusione abbiamo un quadro complessivo e variegato, in parte dovuto a diverse concezione del reddito di esistenza, che certe volte diventa erogazione salariale al capofamiglia (e non all’individuo) legata e dipendente dalla prestazione lavorativa, altre volte fa riferimento ad un generico “reddito di cittadinanza”, sganciato sì dalla prestazione lavorativa, ma tuttavia ancora sottoposto a criteri di condizionabilità. Le due ragioni nelle quali la tematica del reddito di esistenza vede la compresenza dei parametri da noi individuati come imprescindibili sembrano essere le Marche e il Friuli Venezia Giulia: non a caso, due regioni che hanno cominciato da poco il percorso di discussione di un progetto di legge in tal senso. Un secondo elemento di differenziazione sta o nell’assenza di norme finanziarie che definiscano i criteri di finanziamento o, viceversa, in un riferimento alquanto aleatorio e provvisorio. Laddove si fa riferimento alla problematica del finanziamento (come in Lombardia, Campania, o nella legge Ulivo-Unione) non si parla di riferimento alla fiscalità generale. Ciò dimostra che non è ancora chiara la necessità di legare interventi che sanciscano il diritto al reddito come il pilastro principale di una qualsiasi politica di welfare e, di conseguenza, con la volontà di intervenire sul piano della riforma fiscale.
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