PREFAZIONE
AVVOCATURA, UN AMORE INESTINGUIBILE
A
more, una parola troppo importante per una prefazione: eppure il mio cuore di Avvocato ottantunenne ma non vecchio, non imputabile di adulterio verso la più bella professione del mondo, mi ha suggerito di mantenerla anche per questa chiacchierata intorno all’edizione aggiornata del libro “Avvocati a Roma”, da me ideato e curato sul finire degli anni 80 del secolo scorso per ricordare soprattutto alle giovani generazioni la luminosa storia del nostro Ordine. Quando, nel lontano autunno del 1951, alla verde età di 21 anni, fiero della mia laurea con il massimo dei voti, mio Padre mi accompagnò nello studio degli avvocati Bruno e Roberto Ascarelli per iniziare la pratica forense, quegli illustri professionisti che sarebbero stati impareggiabili maestri di diritto e di vita, con mio grande stupore e malcelata frustrazione, non si informarono tanto sui miei studi, ma mi chiesero se godessi di buona salute perché “questa professione – dissero – si fa soprattutto con i piedi e, talvolta, anche col cervello”. Un duro impatto con la realtà per me che uscivo dall’Università dove la mia mente si era arricchita delle sublimi teorie del negozio giuridico e dell’ermeneutica elaborate dal mio sommo Maestro Emilio Betti. Ma un colpo ancora più duro ai miei sogni di emulo di Cicerone mi fu dato il giorno dell’ingresso nello studio dove il mio Maestro mi aveva consegnato gli atti di un giudizio di conciliazione chiedendomi di preparare una comparsa di costituzione dove avrei trasfuso le argomentazioni da sostenere l’indomani in udienza. Ricevuta l’approvazione del mio primo elaborato, una segretaria severa e sbrigativa mi ordinò di preparare il fascicolo per l’udienza del giorno dopo mettendomi in mano un ago da materassaio ed uno spago sottile per trapassare a regola d’arte i vari atti e documenti ben separati per poi legarli elegantemente alle copertine del fascicolo. Alla mia timida obiezione che quello fosse un lavoro da segreteria, quella persona – che sarebbe stata poi mia preziosa consigliera e collaboratrice per oltre mezzo secolo e tuttora – mi rispose che un Avvocato deve sapersela sempre cavare anche da solo e che i giudici appressano gli Avvocati non solo per le loro tesi ma anche per l’ordine e la dignità con cui presentano i propri fascicoli oltre che sé stessi. E, da allora, stoiche lotte contro le micidiali trafitture dell’ago e, in udienza, giacca e cravatta anche col solleone. E l’amore, dapprima incerto perché denso di difficoltà connesse all’inesperienza e alla delusione per sentenze ingiuste, divenne sempre più intenso ed appassionato sull’onda dei successi e delle battaglie di libertà sostenute con tanti miei giovani Colleghi, spesso da avversari divenuti amici, e insieme protesi ad affrontare e tentare di risolvere, attraverso la fondazione dell’associazione italiana dei Giovani Avvocati, gli annosi e, purtroppo, cronicizzati problemi della crisi della giustizia e della riforma della legge professionale.
9
10
Eletto in seno al Consiglio dell’Ordine per un primo biennio, quando ebbi l’onore di sedere al fianco del compianto Maestro Virgilio Andrioli, vi ritornai alcuni anni dopo per altre due legislature in rappresentanza dell’AIGA per prestare un servizio ancor più efficace al nostro Ordine. Incaricato della direzione del Notiziario, gli diedi nuova veste come “Foro Romano” di maggiore interesse anche culturale e, desiderando offrire ai Colleghi un numero unico dedicato al quarantennio della nostra gloriosa pubblicazione, mi accinsi all’improba fatica che si è estesa a ritroso nel tempo fino alla nascita stessa del nostro Consiglio dell’Ordine, scoprendo, con legittimo orgoglio, che di esso, nei primi anni del XX secolo, hanno fatto parte giuristi insigni come Giuseppe Chiovenda, Enrico Ferri, Carlo Schupfer, Vittorio Scialoja Vittorio Emanuele Orlando, antesignani dei più recenti nostri iscritti, tra i tanti illustri giuristi, Arturo Carlo Temolo, Salvatore Satta, Virgilio Andrioli, Cesare Tumedei, Michele Giorgianni, Enzo Gaito, Franco Coppi. Grazie anche alla preziosa collaborazione dell’ottimo Direttore di Segreteria dell’epoca, dottor Franco Verrecchia, e del personale tutto, destinatari della mia riconoscenza imperitura, il numero unico vide la luce come libro intitolato “Avvocati a Roma”, arricchito anche da un massimario disciplinare di grande interesse anche storico, curato dall’ora Avvocato Simone Ciccotti. Attraverso le numerose massime raccolte emerge l’inflessibile rigore del Consiglio nel vigilare sul corretto esercizio della nostra professione nei rapporti con il cliente, con i Colleghi, con il pubblico, con la stampa e con i Magistrati. Suscitò apprezzamento ma anche critiche la sanzione inflitta ad un nostro Collega, censurato per aver preteso un compenso dalla famiglia di un rapito dalla malavita per l’opera da lui svolta per ottenere il rilascio della persona sequestrata, mentre sarebbe stato suo dovere esercitare gratuitamente il proprio munus in ossequio alle altissime esigenze di solidarietà umana cui l’Avvocato era tenuto in quel particolare momento. Un libro che, arricchito da articoli di grande respiro anche letterario e umano firmati dai colleghi Claudio Schwarzwenberg, Umberto Mariotti Bianchi e Mauro Mellini, ha consentito ai pazienti lettori di gettare uno sguardo anche sul mondo della giustizia amministrata sotto i Papi, oggetto delle satire feroci del Belli le cui più gustose inserimmo insieme a quelle di Trilussa illustrandole con le caricature del Daumier. E la storia del nostro Ordine si è snodata in un grande intreccio di eventi, lieti e tragici come gli anni di piombo, personaggi entrati nella storia, delibere significative. Ma il tempo scorre inesorabilmente e l’attuale Consiglio, presieduto da Antonio Conte, figlio di quel mio carissimo e stimato Amico e Collega Emilio, prematuramente rapito al nostro affetto, ha deciso, anche come contributo alle celebrazioni del 150º anniversario dell’Unità d’Italia, di pubblicare una seconda edizione aggiornata di quel libro, del quale sono stato onorato di curare la prefazione. E mi fa particolare piacere additare alla gratitudine dei lettori, specie dei più giovani, l’intelligenza e l’amore prodigati in questo difficile lavoro dalla giovane Collega Simona D’Alò, anch’essa, come me, figlia d’arte e perciò, accesa di amore inestinguibile per questa straordinaria professione. Ella ha curato, non solo la sintesi dei lavori del con-
siglio degli ultimi 15 anni, ma anche la cronaca dei più famosi processi svoltisi finora nella Capitale nei quali i più famosi penalisti non solo del foro romano ma anche di altri, hanno avuto modo di spiegare le loro eccellenti doti oratorie ottenendo risultati anche clamorosi in quel Palazzaccio, divenuto dagli inizi del XX secolo, l’emblema della Giustizia, oscurata peraltro quando ospitò il famigerato Tribunale Speciale le cui sentenze capitali già scritte eliminarono antifascisti ed ex gerarchi caduti in disgrazia. E la travagliata storia della sede storica del nostro Consiglio, ora definitivamente stabilita per legge dello Stato fortemente voluta dai recenti Consigli, ci viene pure illustrata da Simona insieme all’ingresso della donna nella vita politica e forense, dapprima timidamente e, con molta ostilità, superata oggi vittoriosamente, grazie alla serietà dell’impegno ed alle eccellenti doti di preparazione e morali dimostrate dal gentil sesso che da sempre considero la parte migliore dell’universo. Un affettuoso ricordo desidero rivolgere alla memoria di Gabriella Niccolaj, illustre penalista, prima componente femminile del nostro Consiglio, che mi fu prodiga di incoraggiamenti durante la mia prima esperienza di giovane Consigliere. La seconda edizione della nostra storia consiliare si arricchisce dunque dell’encomiabile lavoro svolto da Simona D’Alò nella quale ho sentito con commozione palpitare le stesse emozioni da me provate quando mi accinsi alla mia certosina ricerca tra libroni polverosi dei verbali dei Consigli scritti a mano con inchiostro divenuto rosso col tempo ma trasudante passione, polemiche, riconciliazioni ma sempre tanto rigore morale e rispetto dei diritti e della dignità di tutti. Desidero pertanto, insieme a lei, far vibrare le corde più sensibili specie dei giovani ai quali anche questo secondo libro di storia forense romana è dedicato come testamento spirituale di un Avvocato anziano ma non vecchio, dal cuore giovane e, per questo, inestinguibilmente innamorato della sua professione svolta con coscienza e onestà. Tra quei ricordi le parole affettuosamente ironiche rivolteci dal Sommo Pontefice Paolo VI in occasione della visita in Vaticano resaGli dagli Avvocati di mezzo mondo convenuti a Roma per un Congresso dell’Union Internationale des Avocats. Papa Montini, che era fratello di un illustre Avvocato, ci ricordò il giudizio che di noi aveva espresso Sant’Ivone, nostro protettore: “Advocatus sed non latro, res miranda populo!”. Un giudizio che ab immemorabili si contrappone sotto qualsiasi latitudine all’immagine del defensor libertatis atque iustitiae quasi come le due facce della stessa medaglia e che ha nutrito divertita e divertente letteratura poiché “dell’Avvocato è più facile dirne male che farne a meno”. Forse, a ben riflettere in termini psicoanalitici, nei nostri Clienti, nel momento stesso in cui pronunciano quella fatidica espressione: “ho messo tutto in mano all’Avvocato!”, si scatena una sorta di conflitto interiore tra l’essersi liberati da un incubo ed il dover riconoscere la propria incapacità a risolverlo se non attraverso questo esperto di latinorum, male necessario e costoso da contrapporre – si spera – vittoriosamente al Giudice terrificante e implacabile. Anche se i maligni sogliono affermare che il primo Avvocato apparso sulla terra fu il serpente che, da sprovveduto “mozzorecchi” – come certi legulei vengono chiamati
11
12
a Roma – pensò bene di indurre la malcapitata Eva a cogliere il frutto proibito, ci piace argomentare a contrario sulla scia di illustri pensatori – che, se quel catastrofico consiglio privò i nostri progenitori e noi posteri delle delizie del giardino dell’Eden, tuttavia esso diede loro coscienza del libero arbitrio. E non è poco! Gli è che, come scriveva Piero Calamandrei, Avvocato e Giurista insigne: “L’Avvocatura non è professione facile; può essere un mestiere; può essere un apostolato. Può essere un tormento, ma può essere anche felicità. Vita faticosa, vita combattuta; ma, se uno si convince che l’unico conforto della vita così breve è quello di prodigarsi per gli altri, allora l’Avvocatura è una professione invidiabile e felice”. In quel sublime “prodigarsi per gli altri” in cui si condensano responsabilità, preparazione, onestà intellettuale, dedizione, ardimento, ricerca inesausta della verità, ma, soprattutto, amore sconfinato verso il prossimo bisognoso del nostro aiuto, è infatti l’essenza della nostra professione, chiamata sovente alla tutela di beni materiali, ma ben spesso a scendere nel profondo dell’animo umano per capire e saper rappresentare ad un Giudice inconsapevole e distaccato le scaturigini di certi comportamenti nell’auspicio di una sentenza giusta. E quel “tormento”, legato non sempre all’estasi della vittoria, ma piuttosto allo sconforto per la sconfitta, specie se imputabile ad una nostra inappropriata difesa, ci pone a confronto con quegli altri esseri umani che hanno scelto di assidersi sull’alto scranno del Magistrato, investiti di un potere terribile, quello di giudicare altri loro simili segnandone talvolta in modo irreparabile il destino proprio e dei loro affetti. Ancora Piero Calamandrei, nell’Assemblea del Sindacato Nazionale degli Avvocati e Procuratori di cui era Segretario Nazionale tenutasi a Roma il 21 Agosto 1943, rivendicava la necessità che la Magistratura sia sempre indipendente dal potere politico e, ad un tempo, soleva ripetere ai suoi studenti: “le professioni di Magistrato e di Avvocato sono come vasi comunicanti: quando si abbassa il livello dell’una, fatalmente si abbassa anche quello dell’altra!”. E l’esperienza quotidiana di oltre mezzo secolo di vita giudiziaria ce lo conferma, insieme al dramma della crisi della Giustizia e dell’edilizia giudiziaria da noi sofferto sin dagli albori della professione con la profonda frustrazione di non poter assicurare ai nostri patrocinati una conclusione rapida, certa, non economicamente rovinosa, ma soprattutto giusta, delle loro vicissitudini. È ben per questo che Carlo Fornario, amato Presidente del nostro Ordine, accolse la proposta di Tommaso Bucciarelli, illuminato idealista creatore anche dell’Associazione Italiana dei Giovani Avvocati, di dar vita a Roma, sull’esempio della secolare parigina Confèrence du Stage – prestigioso torneo di eloquenza – alla Conferenza dei Giovani Avvocati della quale abbiamo l’orgoglio di aver inventato uno statuto con lo sguardo rivolto ad un’Avvocatura italiana sprovincializzata e capace di reggere le sfide del futuro in una dimensione universale. Da essa, a partire dal 9 Gennaio 1968, quando la I Conferenza fu tenuta a battesimo nel nostro Palazzaccio dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, sono stati selezionati, nel corso di quarantadue anni, le migliori promesse del mondo forense ro-
mano confermatesi tutte Avvocati di spicco. E non è piccolo orgoglio considerarli tutti miei figli in spirito di una famiglia sempre più numerosa e affermata anche all’estero: l’Ordine di Roma, unico in Italia, può essere legittimamente orgoglioso di questo fiore all’occhiello. Ma, sempre in piena condivisione della constatazione di Piero Calamandrei, noi tutti Avvocati che abbiamo speso le nostre ore migliori chini su codici e pandette cercando di affinare la nostra preparazione e la nostra conoscenza di norme sempre più numerose e spazianti in dimensioni pressoché impensabili negli anni Cinquanta, auspicheremmo che, al di là di quegli esami obbligatori o facoltativi connessi ai loro avanzamenti di carriera, anche i Magistrati cogliessero il nostro esempio istituendo concorsi di eccellenza tra i giovani uditori, articolati non solo sull’ovvia e profonda conoscenza del giure, ma anche sulla cultura e sulla centralità dell’Uomo e della sua essenza divina. È ormai significativa tradizione dell’Ordine di Roma, puntualmente riferita nella nostra pubblicazione istituzionale, in occasione della premiazione dei vincitori della Conferenza dei Giovani Avvocati, conferire ogni anno, insieme agli avvocati con 50 e 60 anni di esercizio professionale, anche ai Magistrati di Cassazione collocati a riposo una medaglia d’oro al termine di una carriera al servizio dello Stato e del bene supremo della Giustizia. Ai Magistrati ci lega un rapporto che non è solo di rispetto ma anche di affetto e di comprensione per la terribile missione cui si sono votati, costellata di dubbi e necessità di applicare una legge dura ma non di rado intimamente avvertita come ingiusta nel caso concreto. Lo affermavamo nel nostro discorso di ringraziamento quando nel 2004 ricevemmo la medaglia d’oro per i nostri primi cinquant’anni di esercizio professionale e lo ribadiamo ancor più oggi nel clima di tensione generale determinato dal collasso del sistema giustizia, così pernicioso per l’assetto economico-sociale nel nostro Paese: non possiamo sottrarci alla constatazione, lamentata da un lato e dall’altro del fatidico banco iudicis, di una certa sempre più marcata reciproca insofferenza nel rapporto tra Magistrati e Avvocati fondamentalmente conseguente, da un lato, a quel rilevato abbassamento di livello delle due professioni e dall’altro ad una certa arroganza del potere cui si contrappone uno scarso quanto nocivo rispetto per la funzione del Giudice. Avvocati e Magistrati da sempre e per sempre siano indissolubilmente legati in una comune milizia. E vera e propria milizia è stata quella di valorosi Magistrati come Vittorio Occorsio, mio indimenticato compagno di studi, Francesco Coco, Mario Amato, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Antonio Scopelliti e, vivissimi nel ricordo e nell’affetto di tutti, Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, caduti sotto il piombo brigatista e mafioso, martiri di un Ideale di Giustizia al servizio di uno Stato di diritto. Qualcuno ha scritto: “infelice il popolo che ha bisogno di eroi”, ma più infelice quel popolo che ne disperde il ricordo e l’insegnamento. Ci sembra perciò doveroso ancor più oggi che la violenza sembra di nuovo assalire le istituzioni, ricordare, specialmente ai giova-
13
14
ni assetati di punti di riferimento, quegli altri Magistrati sui cui nomi si sta purtroppo depositando la cenere del tempo, anch’essi vittime della ferocia che ha insanguinato il nostro Paese: Vittorio Bachelet, Riccardo Palma, Girolamo Tartaglione, Rocco Chinnici, Emilio Alessandrini, Fedele Calvosa, Agostino Planta, Pietro Scaglione, Francesco Ferlaino, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Bruno Caccia, Gian Giacomo Ciaccio Montalto, Alberto Giacomelli, Antonio Saetta, Rosario Livatino il più giovane assassinato dalla mafia. Ma, accanto a loro si stagliano le figure luminose dei nostri Colleghi trucidati: Enrico Pedenovi, Giorgio Ambrosoli, Fulvio Croce, ucciso il 28 Aprile 1977 dalle Brigate Rosse per aver voluto garantire il diritto di difesa assumendo, come Presidente dell’Ordine di Torino, quella di ufficio rifiutata da alcuni brigatisti: anche l’Avvocatura in milizia comune ha pagato il proprio straziante tributo di sangue in nome degli stessi Ideali. A tutti loro va dedicato l’epitaffio scritto da Tucidide per Pericle, padre della democrazia: “giudicando che la felicità è nella libertà e che la libertà è nel coraggio, non guardate con ansia il pericolo che vi recano i nemici”. Nello stesso tempo, questa consapevolezza di una comune missione, minacciata da un potere politico-economico sempre più invasivo e corruttore, sempre più insofferente dei legittimi controlli, deve rendere avvertita anche e soprattutto l’Avvocatura, sistematicamente emarginata dai centri decisionali del Paese a causa della propria mancanza di coesione, piaga ricorrente da qualche tempo, purtroppo, anche all’interno del nostro Ordine, deve rendersi promotrice di una sorta di comitato di salute pubblica che unisca – come è già accaduto in passato sia pure per breve tempo – in unità di intenti anche la Magistratura, i giovani e tutte le forze sociali solleciti del bene comune per individuare rimedi rapidi, semplici e poco onerosi, idonei a curare e debellare il cancro della giustizia ingiusta. Gli ausili tecnologici sempre più sofisticati e alla portata di tutti, neppur lontanamente immaginabili negli anni verdi della mia professione possono e debbono essere utilizzati a tal fine, ma anche per migliorare la preparazione e la qualificazione dei giovani avvocati, finalmente sottratti a mortificanti forme di sfruttamento. L’Avvocatura in Italia e nel mondo ha subito un continuo processo di evoluzione: angolazioni impensabili solo qualche decennio fa (basti por mente al c.d. Avvocato d’impresa, agli studi multinazionali, alla informatica giuridica, madre del processo telematico), ma, senza volerci atteggiare a laudatores temporis acti, ammalati di nostalgico e retrivo conservatorismo, dobbiamo purtroppo registrare che il distacco generazionale – normale in ogni tempo – separa oggi con sempre maggior velocità i giovani dagli anziani; sicché i primi, sollecitati dall’ efficientismo e dalla smania del successo, tipici della nostra epoca, sono già immersi nel futuro senza però aver consolidato le radici nel passato. Ma l’uomo senza tradizioni è come pianta di breve vita, destinata a soccombere alle prime folate di vento. L’Avvocato del terzo millennio, invece, ancorché in Italia mutilato, nella maggior parte dei casi, del prezioso ausilio culturale del latino e del greco, ha necessità imprescindibile di tener sempre ben presente il significato non solo letterale
(da tradere = consegnare, trasmettere, confidare) ma simbolico della parola tradizione, l’autentico DNA del nostro essere che dobbiamo custodire lontano dai falsi idoli per trasmetterlo incontaminato ai posteri così come ci fu confidato dai predecessori. Da sempre e per sempre l’Avvocato (da advocatus = chiamato a) è destinatario di una missione, la più alta e la più delicata su questa Terra: quella della affermazione e della difesa della libertà e della dignità dell’Uomo. Una missione che non si esplica soltanto nelle aule dei Tribunali ma anche e – diremmo – soprattutto nella società più intensamente quanto più questa ci si presenta opulenta, apparentemente progredita ma in realtà soffocatrice degli ideali più puri, permanente patrimonio dei giovani. A loro dunque dedichiamo questa nostra chiacchierata intorno al caminetto, sperando che non si siano addormentati. Il premio a questa non lieve fatica sia la speranza di aver consegnato ai gagliardi staffettisti forensi del 2000 un testimone valido perché pregno di un sentimento di amore per una professione che è la più bella ed esaltante e tale può e deve rimanere se sapremo apprezzarne e difenderne i valori fondamentali. Salvatore Satta, insigne giurista e nostro iscritto, ma, anche, profondo scrittore dal grande rigore morale, concludeva la sua stupenda autobiografia, «Il giorno del giudizio», con l’esortazione: «Per coscienza bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso, e agli altri come in un giudizio finale». Lungi da noi la presunzione di volerci anche per un momento accostare ad un simile gigante, ci basti l’aver indotto i nostri amati Colleghi a quel giudizio, a quella pausa di riflessione che ci aiuti a rispondere all’interrogativo di sempre: chi siamo, donde veniamo, dove andiamo, in una parola, a conoscere noi stessi. Per essere migliori. Virgilio Gaito Avvocato del Foro di Roma già Consigliere dell’Ordine degli Avvocati
15