Quali politiche e quali governance per i piccoli comuni? di Castellotti T., Gaudio F. e Paciola G1. Posizione: Sessioni parallele di comunicazioni su temi del convegno Tema: 4. Sviluppo rurale e governance Abstract Il 72% dei comuni italiani ha meno di 5000 abitanti.
Si tratta di una ricchezza
insediativa che però conosce da tempo fenomeni di spopolamento, impoverimento e relativo invecchiamento della popolazione che implicano per l’Ente difficoltà sia di tipo gestionale, in termini di servizi da erogare, sia di programmazione economica e sociale. L’obiettivo della relazione è ricostruire le relazioni tra istituzioni, politica ed economia con riferimento ai piccoli comuni e a quelli calabresi in particolare. A tal fine, gli studi di quegli autori che leggono lo sviluppo come risultato di fattori non solo economici hanno rappresentato la base teorica per leggere e interpretare i dati quantitativi raccolti sulle caratteristiche socio-economiche dei piccoli comuni calabresi. Lo scopo è quello di individuare le cause specifiche che hanno determinato la situazione di ritardo di sviluppo dei piccoli comuni calabresi al fine di proporre qualche elemento di riflessione sulle condizioni dello sviluppo dei piccoli comuni alla luce delle politiche e dei modelli di governance che essi hanno conosciuto dal dopoguerra ad oggi. I piccoli comuni sono localizzati prevalentemente nelle aree rurali per cui gli interventi previsti nella nuova programmazione non possono che essere determinanti per un loro sviluppo. Tuttavia è importante che siano utilizzate in un disegno unitario e integrato tutte le opportunità previste dai diversi Fondi. A livello territoriale è necessario unire quello che i regolamenti hanno diviso. Infatti, le politiche di sviluppo dei piccoli comuni non possono che passare attraverso politiche di valorizzazione dei territori.
1
Ricercatori presso la Sede Regionale per la Calabria dell’INEA. La relazione è il frutto del lavoro comune da parte degli autori. Tuttavia, Tatiana Castellotti ha redatto i paragrafi 4, 5 e 6, Franco Gaudio i restanti paragrafi e Giuliana Paciola ha curato l’elaborazione dei dati.
1
1. Introduzione A seguito del recente decentramento di funzioni da parte delle Regioni agli Enti Locali le competenze programmatorie e gestionali dei comuni sono aumentate configurando un nuovo scenario istituzionale. I comuni hanno molteplici opportunità di sviluppo ma, talvolta, si alzano barriere di tipo culturale, economico-finanziarie, amministrative e politiche che non permettono al territorio di innescare circuiti di sviluppo. D’altra parte i processi di cambiamento degli ultimi decenni hanno determinato profonde differenziazioni territoriali. Il 72% dei comuni italiani ha meno di 5000 abitanti.
Si tratta di una ricchezza
insediativa che però conosce da tempo fenomeni di spopolamento, impoverimento e relativo invecchiamento della popolazione che implicano per l’Ente difficoltà sia di tipo gestionale, in termini di servizi da erogare, sia di programmazione economica e sociale. Tali fenomeni si riscontrano anche in numerose nazioni dell’Unione europea che hanno già avviato politiche locali e nazionali d’intervento per frenare i fenomeni di spopolamento dei piccoli centri. In Italia, la Camera dei Deputati, nella seduta dell’aprile 2007, ha approvato un Disegno di legge per la valorizzazione e il sostegno dei piccoli comuni con lo scopo di promuovere e sostenere le attività economiche, sociali, ambientali e culturali nei piccoli comuni. Ciò pone nuovi interrogativi ed esigenze conoscitive riguardo una classificazione dei piccoli comuni e una loro differenziazione territoriale. Vi è infatti una crescente consapevolezza che per poter adeguatamente pianificare il territorio bisogna avere conoscenza delle sue caratteristiche e delle interrelazioni esistenti tra i diversi sistemi territoriali. L’obiettivo è ricostruire le relazioni tra istituzioni, politica ed economia con riferimento ai piccoli comuni e a quelli calabresi in particolare. A tal fine, gli studi di quegli autori che leggono lo sviluppo come risultato di fattori non solo economici hanno rappresentato la base teorica per leggere e interpretare i dati quantitativi raccolti sulle caratteristiche socio-economiche dei piccoli comuni calabresi. Lo scopo è stato quello di individuare le cause specifiche che hanno determinato la situazione di ritardo di sviluppo dei piccoli comuni calabresi al fine di proporre qualche elemento di riflessione sulle loro condizioni dello sviluppo alla luce delle politiche e dei modelli di governance che essi hanno conosciuto dal dopoguerra ad oggi. In Calabria, infatti, sono state sperimentate
sia
politiche
esogene
(incentivazioni
finanziarie
e
interventi
2
infrastrutturali) sia politiche endogene. Queste ultime sono state di due tipi: una di tipo particolaristico e clientelare (Mirabelli, 2001), che spesso si è accompagnata alla politica esogena; l’altra derivante da un cambiamento della politica pubblica che ha sostituito al paradigma dello sviluppo dall’alto quello dello sviluppo locale dal basso, negoziato e concertato. La relazione si compone di tre parti. Ad un’analisi delle caratteristiche socioeconomiche dei piccoli comuni italiani e calabresi segue un’analisi delle politiche e dell’assetto istituzionale e infine si propongono delle riflessioni sulle politiche e le governance . 2. I Piccoli comuni in Italia I piccoli comuni (comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti) in Italia sono 5.835 (72% sul totale dei comuni italiani) e sono per la maggior parte ubicati nel nord (3.453). Le regioni con la più alta incidenza di piccoli comuni è la Valle d’Aosta (73 piccoli comuni su 74 totali), segue il Trentino Alto Adige (92%), il Molise (91%) e il Piemonte (89%). All’opposto la Regione con la più bassa incidenza di piccoli comuni è la Puglia (33%). Gli abitanti dei piccoli comuni sono 10.590.728 (il 18,6% degli abitanti totali italiani). L’incidenza degli abitanti residenti nei piccoli comuni è diversa tra le diverse aree: si passa dal 23% del nord al 12% del centro e al 17% del sud e al 16% delle isole. La Regione con la più alta incidenza di abitanti localizzati nei piccoli comuni è la Valle d’Aosta (71%) seguita dal Trentino e dal Molise (49%), mentre quella con la più bassa incidenza di abitanti è la Puglia con solo il 6%, seguita dal Lazio (9%) e dalla Sicilia e Toscana (10%). Più marcata è l’incidenza della superficie territoriale dei piccoli comuni su quella totale (55%) anche se con valori diversi passando dal nord (65%) al sud (50,5%). Al centro risulta minore la superficie territoriale dei piccoli comuni (45%). I piccoli comuni, rispetto al 1971 sono in calo al nord e al centro (rispettivamente del 5,32% e del 5,45%), mentre al sud il valore è meno marcato (-1,3%). Aumentano in maniera vistosa i comuni oltre i 5 mila abitanti del nord (+21%), in maniera meno marcata quelli del centro (+11%) e restano
3
sostanzialmente invariati quelli del sud (+2,9%). La popolazione in Italia tra il 1971 e il 2001 aumenta del 5% ma con nette differenze tra i piccoli e i grandi comuni. Tabella 1 - Incidenza dei piccoli comuni in Italia per regioni. Comuni totali
Regioni
Piccoli comuni
% piccoli comuni
Abitanti
Abitanti piccoli comuni 85.486 1.283.152 2.220.081 237.774 460.496 308.796 832.900 450.301 5.878.986 344.535 334.352 465.932 137.392 1.282.211 376.143 156.824 721.927 237.570 199.175 687.232 2.378.871 549.750 500.910 1.050.660
Valle D'Aosta Piemonte Lombardia Liguria Trentino A.A. Friuli V.G. Veneto Emilia Romagna Totale Nord Toscana Marche Lazio Umbria Totale Centro Abruzzo Molise Camapania Puglia Basilicata Calabria Totale Sud Sardegna Sicilia Totale Isole
74 1.206 1.545 253 339 219 581 341 4.558 287 246 378 92 1.003 305 136 551 258 131 409 1.790 377 390 767
73 1.077 1.152 183 312 162 329 165 3.453 141 179 259 63 642 253 124 338 87 97 326 1.225 316 199 515
98,65 120.403 89,30 4.277.173 74,56 8.880.324 72,33 1.585.160 92,04 939.788 73,97 1.187.677 56,63 4.627.222 48,39 4.093.645 75,76 25.711.393 49,13 3.445.350 72,76 1.453.704 68,52 5.177.022 68,48 808.188 64,01 10.884.265 82,95 1.253.810 91,18 320.049 61,34 5.553.285 33,72 3.959.500 74,05 603.561 79,71 2.021.271 68,44 13.711.475 83,82 1.616.912 51,03 5.009.100 67,14 6.626.012
Totale complessivo
8.118
5.835
71,88 56.933.144 10.590.728
% abitanti 71,00 30,00 25,00 15,00 49,00 26,00 18,00 11,00 22,87 10,00 23,00 9,00 17,00 11,78 30,00 49,00 13,00 6,00 33,00 34,00 17,35 34,00 10,00 15,86 18,60
Fonte: Istat, 2001
Tabella 2 - Incidenza percentuale della superficie territoriale Area Nord Centro Sud Totale Fonte: Istat, 2001
Superficie territoriale dei comuni < 5000 > 5000 Totale abitanti abitanti 64,90 35,10 100,00 45,00 55,00 100,00 50,50 49,50 100,00 55,20 44,80 100,00
4
Mentre nei piccoli comuni la popolazione complessivamente diminuisce del 9% con punte più alte al sud (-13%) rispetto al nord (-6%), la popolazione nei comuni con più di 5 mila abitanti aumenta in misura minore passando dal sud (+14%) al nord (+5%). Tabella 3 - Variazione percentuale del numero dei comuni negli ultimi 30 anni. 2001 Area < 5000 > 5000 abitanti abitanti Nord 3.454 1.101 Centro 642 362 Sud 1.740 817 Totale 5.836 2.280 Fonte: Istat, 1971-2001
1971 < 5000 > 5000 abitanti abitanti 3.648 906 679 325 1.763 794 6.090 2.025
Variazione (2001/1971) < 5000 > 5000 abitanti abitanti -5,32 21,52 -5,45 11,38 -1,30 2,90 -4,17 12,59
Tabella 4 - Tasso di spopolamento negli ultimi 30 anni per tipologia di comuni. 2001 1971 Variazione (2001/1971) < 5000 > 5000 < 5000 > 5000 < 5000 > 5000 Totale Totale Totale abitanti abitanti abitanti abitanti abitanti abitanti Nord 5.874.391 19.696.396 25.570.787 6.244.847 18.719.164 24.964.011 -5,93 5,22 2,43 Centro 1.281.484 9.624.415 10.905.899 1.415.652 8.882.617 10.298.269 -9,48 8,35 5,90 Sud 3.421.871 17.080.959 20.502.830 3.936.834 14.937.443 18.874.277 -13,08 14,35 8,63 Totale 10.577.746 46.401.770 56.979.516 11.597.333 42.539.224 54.136.557 -8,79 9,08 5,25 Fonte: Istat, 1971-2001 Area
Uno studio condotto da Legambiente in collaborazione con Confcommercio (Legambiente, 2000) evidenzia il disagio abitativo dei piccoli comuni. L’indagine individua 9 gruppi omogenei di comuni. Tre di questi gruppi rappresentano l’area di maggiore disagio insediativo e sono localizzati lungo l’arco alpino (Piemonte, Lombardia e Friuli) e appenninico (dalla Calabria alla Liguria). Sono nella maggior parte comuni interni e montani e rappresentano il 23% dei comuni italiani. Accanto a questi comuni esistono dei comuni che presentano buone performance insediative che sono localizzati nel nord-ovest e nel centro. Appartengono a questo gruppo 1.371 comuni.
5
La differenza tra i comuni con buone performance e quelli disagiati è dovuta al diverso grado di sviluppo e utilizzo delle potenzialità turistiche che portano ad un maggiore livello occupazionale, ad una maggiore frequentazione del territorio e ad una minore dipendenza economica dal settore pubblico. Il disagio insediativo è da imputare al depauperamento tra vocazione rurale e natalità, ad un livello di istruzione più basso, a meno servizi in area appenninica, all’invecchiamento e all’isolamento. La situazione è molto diversa passando dal nord al sud dove la totalità dei piccoli comuni è identificata con disagio insediativo. Tutti i piccoli comuni del sud presentano un indice di disagio superiore al 90% con la punta massima in Basilicata i cui comuni appartengono tutti a questa categoria. I piccoli comuni del nord invece presentano buone performance nella Valle d’Aosta (78%), nel Trentino (70%) e nella Lombardia (64%). La presenza di servizi e infrastrutture nei piccoli comuni è un problema importante al fine di soddisfare le esigenze della popolazione. Molti sono i servizi assenti passando dai comuni con meno di tre mila abitanti a quelli compresi tra i 3 e i 5 mila. I servizi per la vendita di prodotti al consumo (bar, alimentari) sono abbastanza presenti, mentre risultano assenti (soprattutto nei comuni con meno di 1000 abitanti) i negozi di abbigliamento e di casalinghi, mercerie, mercati, distributori di carburante, alberghi. I servizi relativi alla manutenzione domestica ordinaria (falegname, elettricista, idraulico, officina meccanica) scompaiono nei comuni con meno di 500 abitanti. Il servizio di trasporto pubblico è presente in maniera abbastanza diffusa al pari dei servizi di comunicazione, mentre risulta assente nell’84% dei casi gli internet point. I servizi postali e le scuole primarie sono presenti nella totalità dei comuni, mentre quelli bancari sono presenti nei comuni di dimensioni maggiori . Garantiscono il servizio sanitario il medico di base e le farmacie, mentre risultano assenti in più della metà dei comuni gli altri medici specialisti. Tra i servizi ricreativi e culturali più diffusi troviamo la parrocchia e l’assocazione pro-loco. Poco presente una stazione dei carabinieri. 3. Le risorse presenti nei piccoli comuni Una caratteristica da non sottovalutare dei piccoli comuni è quella di appartenere per il 73% dei casi ai borghi più belli d’Italia.
6
Inoltre, Legambiente (Legambiente, 2005) individua nei piccoli comuni la presenza di prodotti DOP2. Circa il 94% dei piccoli comuni italiani presenta almeno una DOP rientrante nella categoria dei formaggi e/o dei salumi. Ma non va sottovalutata la presenza di prodotti tradizionali agroalimentari “i cui metodi di lavorazione, conservazione e stagionatura sono consolidati nel tempo, secondo regole tradizionali, per un periodo non inferiore ai venticinque anni”3. Si contano in Italia oltre 4.000 prodotti tradizionali e di questi oltre il 50% rievoca un territorio. Tabella 5 – Distribuzione dei borghi d’Italia per regione < 5000 abitanti Piemonte Valle d'Aosta Liguria Lombardia Trentino A. A. Veneto Friuli V.G. Emilia R. Marche Toscana Umbria Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Nord Centro Sud Isole Totale
9 1 15 10 4 2 4 6 8 11 14 7 14 1 4 5 3 7 6 0 51 55 19 6 131
> 5000 abitanti 1 0 2 2 2 2 2 2 7 5 7 3 3 0 2 4 1 1 1 2 13 25 8 3 46
Totale 10 1 17 12 6 4 6 8 15 16 21 10 17 1 6 9 4 8 7 2 64 80 27 9 180
Incidenza dei piccoli comuni 90 100 88 83 67 50 67 75 53 69 67 70 82 100 67 56 75 88 86 0 80 69 70 67 73
2
Legambiente, Coldiretti (2005), L’indagine delle qualità agro-territoriali. Primo rapporto sulle qualità agro-territoriali delle regioni ed il contributo dei piccoli comuni, Roma, 24 febbraio. 3
D.M. 18 luglio 2000.
7
Anche i vini (330 DOC e DOCG) realizzati in aree delimitate con le relative strade del vino create e che ammontano in Italia a 98 rappresentano una potenziale risorsa da valorizzare. Le aree a parco che rappresentano il 10% del territorio nazionale vedono al loro interno la presenza di piccoli comuni. L’Italia è il primo paese in Europa per la produzione di prodotti tramite il metodo biologico e in molti casi (salumi e formaggi) sono interessati i piccoli comuni. Tale metodo è spesso associato ad un’azienda all’interno della quale si sviluppa l’agriturismo che negli ultimi anni è diventato un punto di forza del turismo rurale. L’importanza dei piccoli comuni all’interno dello sviluppo di un’area è riconosciuta anche dalle diverse proposte di legge che sono state presentate sia a livello nazionale che locale4. 4. Caratteristiche socio-economiche, politiche e governance dei piccoli comuni calabresi In questo paragrafo sono presentati i risultati di un’analisi delle condizioni per lo sviluppo dei piccoli comuni calabresi individuandone le caratteristiche e le dinamiche sociali ed economiche dagli anni cinquanta ai giorni nostri. Sono stati scelti i piccoli comuni calabresi per 2 ragioni fondamentali: 1) i piccoli comuni calabresi possono essere considerati un caso particolare dei problemi generali dei piccoli comuni italiani: infatti, sono diffusi sul territorio rappresentando l’80% dei comuni calabresi e il 34% della popolazione, somigliando da questo punto di vista più ai piccoli comuni del Nord che a quelli del Sud; sono caratterizzati da una progressiva polverizzazione, che ha portato ad un aumento dei comuni di piccolissime dimensioni (<2000 abitanti); inoltre, è significativa la presenza di piccoli comuni montani e di piccoli comuni in aree parco; infine, sono bassi i livelli di sviluppo;
4
Proposta di legge presentata il 28 aprile 2006 alla camera dei deputati che ha come primo firmatario Ermete Realacci e relativa a “misure per il sostegno e la valorizzazione dei comuni con popolazione pari o inferiore a 5.000 abitanti nonché dei comuni compresi nelle aree protette”. Proposta di legge regionale presentata in Calabria relativa a “misure per il sostegno delle attività economiche, agricole, commerciali e artigianali e per la valorizzazione del patrimonio naturale e storicoculturale dei comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti”.
8
2) la Calabria è stata oggetto di politiche d’intervento diverse a partire dagli anni cinquanta che hanno segnato anche i percorsi di sviluppo dei piccoli comuni. Esse costituiscono un buon esempio di come il percorso di sviluppo dei piccoli comuni sono influenzati da politiche con differenti visioni ispiratrici e quindi un’esperienza da utilizzare anche in altri contesti. 4.1 Spopolamento e struttura produttiva Il dato più evidente dell’andamento demografico dei piccoli comuni calabresi è il loro progressivo spopolamento che inizia nell’immediato dopoguerra. Infatti, se la popolazione regionale rimane stabile in cinquant’anni intorno ai 2 milioni di abitanti, cambia nel corso degli anni la sua distribuzione tra grandi e piccoli comuni e sul territorio. Per quanto riguarda il primo aspetto, mentre i grandi comuni acquistano popolazione per mantenerla poi negli anni successivi, i piccoli continuano il loro lento declino.
Grafico 1 Andamento demografico popolazione calabrese 2.500.000
2.000.000
1.500.000
1.000.000
500.000
0 1951
1961 < 5.000
1971
1981
> 5.000
1991
2001
tot pop.
9
Grafico 2 Numero comuni 350 300 250 200 150 100 50 1951
1961
1971
n.comuni<5000
1981
1991
2001
n.comuni>5000
Tuttavia, l’aumento della popolazione nei comuni più grandi è un aumento della densità della popolazione perchè il loro numero diminuisce: nel 1950 si contavano 100 comuni con più di 5000 contro gli 83 del 2001. Al contrario è aumentato il numero di piccoli comuni ed è diminuita la loro dimensione media. Se nel 1950 il numero medio di abitanti di un piccolo comune era pari a 2700 nel 2001 questo numero è sceso a poco più di 2000. Nel 1950 i piccoli comuni erano 306 nel 2001 sono 326. Il comportamento è diverso all’interno dei piccoli comuni. I comuni piccolissimi perdono abitanti mentre i comuni intermedi mantengono costante il loro numero medio di abitanti nel corso degli ultimi 50 anni. Il numero di comuni piccolissimi aumenta mentre diminuisce drasticamente quello dei comuni intermedi. In questo arco temporale si registrano nuovi processi di addensamento (tra Cosenza, Rende e Castrolibero, lungo le direttrici di sviluppo Catanzaro-Lamezia, nuove aree urbane tra Locri e Siderno, Corigliano e Rossano ecc.).
10
Grafico 3 Andamento demografico comuni <5000 abitanti (numero medio abitanti/comune) 3.500 3.000 2.500 2.000 1.500 1.000 500 0 1951
1961
comuni<5000
1971
1981
comuni<2000
1991
2001
>2000<5000
Grafico 4 Andamento piccoli comuni 350 300 250 200 150 100 50 0 1951
1961
comuni<5000
1971
1981
comuni<2000
1991
2001
>2000<5000
I dati sullo spopolamento indicano che è molto facile diventare piccoli ed è difficile diventare grandi. Infatti, se si guarda agli ultimi 30 anni il 77% dei piccoli comuni perde popolazione mentre il 20% acquista popolazione e il 3% è stabile. I comuni che acquistano popolazione hanno un tasso di spopolamento inferiore alla media regionale mentre i comuni che perdono popolazione si spopolano ad un tasso superiore alla media regionale. Il dato sullo spopolamento accomuna i piccoli ai grandi, eccezion fatta per i capoluoghi di provincia.
11
Se si guarda al lungo periodo (dal 1950 ad oggi) la difficoltà di diventare grandi è ancora più evidente: solo l’1% dei comuni acquista popolazione mentre il 53% è in regresso e il restante 46% è stabile. Si assiste, quindi, da un lato ad un polverizzazione dei centri abitati e dall’altro, ad un addensamento della popolazione in e intorno ai pochi centri urbani. Per quanto riguarda la distribuzione della popolazione sul territorio, la crisi dei piccoli comuni inizia negli anni cinquanta come la cosiddetta crisi dei presepi (F. Compagna, 1980, pag. 96), dei centri interni, “vicini ma inaccessibili” ( G. Soriero, 1980, pag. 724). A partire da quegli anni, tale crisi diventa la nota dominante della regione. Essa si riversa a valle, con l’utilizzo intensivo delle pianure e dei litorali: quei centri isolati adesso si toccano, ma si tratta di una contiguità solo edilizia perchè continuano ad essere piccoli e separati dal punto di vista economico e socio-culturale5. Questo squilibrio territoriale, nato in quegli anni e che caratterizza la regione è il risultato delle politiche macroeconomiche che si sono susseguite a partire dagli anni cinquanta che ne hanno accentuato i caratteri e di cui parleremo diffusamente nel paragrafo successivo. I grafici 5,6,7,8 mostrano l’andamento degli indici relativi alla specializzazione nei settori agroalimentare, legno, alta tecnologia6 delle imprese dei comuni calabresi dagli anni settanta ad oggi; mentre i grafici 9,10,11 mostrano i dati relativi alla concentrazione produttiva e al peso dell’agricoltura7 . I dati sulla specializzazione agroalimentare e nel settore del legno mostrano che la debolezza strutturale del settore manifatturiero calabrese è scaricata sui piccoli comuni. Si tratta di settori con forti
vincoli localizzativi, sostanzialmente protetti dalla concorrenza extraregionale che difficilmente possono generare uno sviluppo autopropulsivo. Infatti, a partire dagli anni settanta i piccoli comuni si specializzano in questi settori rispetto ai grandi. Tuttavia, la crescente specializzazione nel settore agroalimentare dei piccoli comuni può nascondere 5
“La crescita edilizia senza regole può essere interpretata come una proiezione del tradizionale isolamento degli spazi; l’isolamento porta alla ricerca di soluzioni individuali, alla dispersione dell’interesse collettivo. L’altra faccia della medaglia dell’edificazione indiscriminata è l’assenza di pianificazione, di governo del territorio e di politiche di sviluppo territoriali dei poteri pubblici. Il settore edilizio riassume ciò che è stato definito la distorsione strutturale del modello di sviluppo dipendente che si è affermato in Calabria. In assenza di solidi orizzonti produttivi, l’occupazione di pezzi del territorio diventa l’unico sbocco dell’economia” (G. Soriero, 1980, pag. 725). 6
Gli indici di specializzazione sono stati così calcolati: (Tot. Add.Set. Attiv. comuni < 5.000 ab./Tot Pop comuni < di 5.000 ab)*(Tot Pop. Reg./Tot Add. Set. Attiv. Reg.). 7 L’indice relativo alla concentrazione produttiva è stato così calcolato: Totale Addetti/Popolazione Residente*100; quello relativo alle aziende agricole per abitante è stato così calcolato: Aziende Agricole/Popolazione residente*100.
12
aspetti positivi ed essere un’opportunità se si considera che il 30% di essi ha un
prodotto tipico, percentuale che è sicuramente superiore se si considerano tutti i prodotti tradizionali espressione del saper fare locale. Lo stesso vale per la specializzazione produttiva nel settore del legno. Ma se caratteristica del sistema economico calabrese è la scarsa specializzazione nelle attività produttive “moderne” libere da vincoli localizzativi, i piccoli comuni sembrano invece differenziarsi rispetto a questa debolezza strutturale: infatti, i piccoli comuni
sono anche high tech, diventano cioè specializzati nell’alta tecnologia anche se in questo caso non superano i grandi. Tuttavia, il trend di crescita è evidente. Anche in questo caso essere piccolissimi non è un ostacolo. Per esempio, i piccolissimi comuni della provincia di Cosenza nel 2001 registrano un tasso di specializzazione nell’alta tecnologia superiore alla media regionale. Altro elemento positivo riguarda la concentrazione produttiva; sebbene l’indice rimanga inferiore a quello dei comuni maggiori, esso aumenta nel corso degli ultimi trent’anni; anche in questo caso i piccolissimi comuni non mostrano debolezze. In particolare, la
metà dei piccoli comuni calabresi in questo arco temporale ha visto aumentare la concentrazione produttiva nel proprio territorio. Tra questi comuni dinamici il 20% registra valori superiori alla media regionale. Tuttavia c’è molta strada da fare perché i comuni dinamici sono ancora incapaci di attrarre lavoro dall’esterno perché solo il 6% è attrattivo8. E poi la restante metà dei comuni è in regresso e anche in notevole ritardo rispetto alla media regionale. I comuni che registrano una certa vivacità imprenditoriale acquistano anche popolazione e riescono così ad invertire la tendenza allo spopolamento che caratterizza i piccoli comuni. Ma la dinamicità economica interessa, salvo eccezioni, i comuni che si trovano nelle zone di pianura e nelle valli, lungo importanti vie di comunicazione stradale oppure i comuni limitrofi ai capoluoghi di provincia. I comuni interni sono sostanzialmente estranei a questo processo. Le eccezioni però ci dicono che l’isolamento fisico non necessariamente condanna alla marginalizzazione economica.
8
L’attrattività è stata così calcolata: (Addetti Comune/Occupati Comune)* (Occupati Regione/ Addetti Regione)* 100.
13
Grafico 5 Specializzazione agroalimentare 1,60 1,20 0,80 0,40 0,00 1971
1981
1991
<5000 abitanti
2001 >5000
Grafico 6 Specializzazione produttiva Legno 1,50
1,00
0,50
0,00 1971
1981 <5000
1991
2001
>5000
14
Grafico 7 Specializzazione Alta Tecnologia 1,60 1,40 1,20 1,00 0,80 0,60 0,40 0,20 0,00 1971
1981
1991
<5000
2001
>5000
Grafico 8 Specializzazione Alta Tecnologia Piccoli Comuni 1,00 0,80 0,60 0,40 0,20 0,00 1971
1981 <5000
1991 <2000
2001
>2000<5000
15
Grafico 9 Concentrazione Produttiva 25 20 15 10 5 0 1971
1981 <5000
1991
2001
>5000
Grafico 10 Concentrazione Produttiva Piccoli Comuni 18 16 14 12 10 8 6 4 2 0 1971
1981 <5000
1991 <2000
2001
>2000<5000
L’agricoltura riveste invece ancora un peso preponderante nei piccoli comuni rispetto a quelli di grandi dimensioni. Un cittadino di un piccolo comune ha a disposizione più del doppio di aziende agricole rispetto ad un residente di un comune superiore ai 5000 abitanti. Tale indice nel corso degli ultimi trent’anni è diminuito di poco al contrario di quanto è successo nei comuni più grandi. Esso ci dice della scarsa complessità del sistema economico dei piccoli comuni. A questo dato bisogna aggiungere che il 25% dei piccoli comuni calabresi si trova in aree Parco.
16
Grafico 11 Aziende agricole per abitante 20 15 10 5 0 1970
1982
1991
<5000
2000
>5000
Tuttavia, se si guarda invece alla ruralità9 dei piccoli comuni in Calabria esistono diversi comuni rurali e al loro interno situazioni molto diversificate dove il ruolo dell’agricoltura è abbastanza marginale. La tabella seguente mostra il peso rilevante dei piccoli comuni nelle aree rurali: in media, l’80% dei comuni delle aree rurali sono piccoli. Tabella 6- La ruralità dei piccoli comuni Aree
Tasso di incidenza Comuni con spopolamento
Aree urbane
Tasso di incidenza Comuni con < 5000 abitanti
Tasso di incidenza Comuni con < 1000 abitanti
50,0
0,0
0,0
69,0
61,9
9,5
Aree rurali ad agricoltura intensiva e specializzata
80,0
60,0
6,7
Aree rurali intermedie diversificate
68,8
78,1
12,5
Aree rurali estensiva
64,9
87,7
5,3
80,9
86,2
20,4
75,1
80,4
15,2
Aree rurali urbanizzate intensiva e specializzata
intermedie
ad
ad
agricoltura
agricoltura
Aree rurali in ritardo di sviluppo Totale
Fonte: PSR 2007-2013 Regione Calabria
9
Il concetto di ruralità continua ad essere un oggetto abbastanza misterioso. A tutt’oggi non è stato ancora prodotto un set di indicatori capace di soddisfare tutti (Saraceno, 1993). Quelli più comunemente usati fanno riferimento alla densità della popolazione, alla presenza di attività agricole che si contrappongono alle realtà urbane più densamente popolate e con attività industriali e terziarie.
17
Tuttavia, in una situazione di ruralità diffusa è evidente che alcune di queste aree presentano gradi di sviluppo (Anania, Cersosimo e Costanzo, 2001) superiori a quelli medi regionali: è il caso della Piana di Sibari, della Valle del Crati, dell’asse LameziaCatanzaro, della Piana di Gioia Tauro. D’altra parte se esiste una correlazione positiva tra tasso di occupazione in agricoltura e spopolamento, si evince anche che in alcune aree dove esiste una robustezza economica dell’assetto produttivo agricolo esistono dei comuni che acquistano popolazione. E’ il caso di alcune aree di pianura prima evidenziate. Sono purtroppo esempi isolati come ad esempio nella Piana di Sibari dove esistono segni di distrettualizzazione agroindustriale. Ma importanti appaiono altri centri di vera e propria eccellenza, come il porto di Gioia Tauro, oppure come i poli turistici di Tropea-Capo Vaticano, del Soveratese e di Isola Capo Rizzuto. Non sempre quindi si può associare il piccolo comune con l’arretratezza economica. Quello che manca, e che li accomuna al resto della regione, è il rapporto tra i punti di eccellenza e tra le imprese dinamiche. In altre parole “la strutturazione di sistemi economicoterritoriali coesi, integrati” che non riescono ad espandersi e a dare vita ad effetti moltiplicativi e di diffusione sul territorio (Cersosimo, 2000). D’altra parte, il programma leader II conclusosi nel dicembre 2001 evidenzia che in termini di spesa sostenuta in diverse aree è prevalso il fondo di sviluppo regionale (FERS) che notoriamente finanzia attività extragricole e non il fondo che finanzia interventi nel settore agricolo (FEAOG). Nelle 16 aree selezionate in Calabria, 6 hanno visto prevalere interventi extragricoli e 7 quelli agricoli, mentre in 3 aree i due fondi si sono equivalsi. Questo sta a dimostrare che anche in una regione abbastanza rurale l’attività agricola, come abbiamo visto, sta perdendo l’importanza avuta in precedenza come settore portante dell’intera economia.
4.2. Le politiche e i piccoli comuni calabresi La politica dell’intervento straordinario in Calabria fu caratterizzata da interventi di tipo infrastrutturale e da una scarsa incentivazione dell’attività industriale. Diversi autori (G. Soriero, 1980, A. Graziani, 1979) hanno sostenuto che essa non fu una politica per lo sviluppo ma una politica del lavoro finalizzata a creare circuiti alternativi di mercato del lavoro e non le condizioni per processi di accumulazione moderna. Anzi, con il grande cantiere si tentava di ridurre l’autonomia dei ceti produttivi nelle campagne, rallentare la formazione di nuove imprese e incanalare forza lavoro nei lavori pubblici. Una massa fluttuante di popolazione si rendeva disponibile o per il reimpiego in altri cantieri o per
18
l’emigrazione. Il grande cantiere degli anni cinquanta ha così preparato l’esodo degli anni sessanta verso il Nord e il boom dei lavori pubblici nei grossi centri della regione. Sono stati i centri interni che hanno subito le maggiori perdite in termini di riduzione delle attività economiche e di emigrazione. In particolare, nei centri montani e collinari si interveniva attraverso la legislazione speciale per la realizzazione di opere per la sistemazione dei bacini e dei corsi d’acqua10 che non rimuoveva le cause strutturali del sottosviluppo ma cercava di rispondere alle situazioni d’emergenza. Allo stesso modo, l’Opera di Valorizzazione della Sila, incapace di configurarsi come strumento di politiche strutturali di trasformazione delle campagne, si limitava a far da battistrada all’intervento infrastrutturale della Cassa. L’OVS privilegiava gli acquedotti civili al servizio dei grossi centri urbani mentre non garantiva l’allacciamento diretto alle case coloniche. La stessa legge istitutiva delle Comunità Montane nasceva con la consapevolezza che le aree montane stavano spopolandosi recando gravi rischi all’assetto del territorio complessivo11. Le finalità erano chiare e per l’epoca molto lungimiranti
perché
prevedevano
la
partecipazione
della
popolazione
alla
predisposizione e all’attuazione dei programmi di sviluppo ai fini di una politica di riequilibrio economico e sociale tra aree montane e il resto del territorio. Tutte le finalità della legge a oltre trenta anni dalla sua istituzione sono fallite tanto che oggi ancora si discute dello squilibrio economico e sociale del territorio, della bassa dotazione infrastrutturale, del dissesto idrogeologico. Tanto che si parla di una abolizione delle Comunità Montane. Scarsa consistenza ebbe in Calabria la politica di incentivazione industriale12 che anche in questo caso ebbe una forte connotazione territoriale: il 95% degli investimenti agevolati furono assorbiti dalle zone costiere e dalle aree intorno ai capoluoghi (P. Tino, 1980). Il forte ridimensionamento subito dal settore manifatturiero calabrese negli anni cinquanta, che continuò e si accentuò negli anni sessanta e settanta, riguardò così
10
In particolare, negli anni cinquanta, l’intervento dello Stato nel campo delle opere pubbliche assunse dimensioni di rilievo: all’azione diretta della Cassa per il Mezzogiorno si affiancò l’attuazione della legge speciale del ’55 finalizzata alla realizzazione di opere straordinarie per la sistemazione dei corsi d’acqua e dei bacini montani; coordinato con esso venne avviato un programma per la difesa degli abitati esistenti dal pericolo di alluvioni e di frane. 11 Legge n. 1102 del 3 dicembre 1971 relativa a nuove norme per lo sviluppo della montagna. 12 Quando iniziò la fase dell’industrializzazione della Cassa, la Calabria vi partecipò solo marginalmente assorbendo solo il 2,3% dei finanziamenti (P. Tino, 1980).
19
soprattutto
le zone interne che registrarono un fortissimo calo demografico13, a
differenza dal resto della regione. L’emigrazione assunse ritmi frenetici: una parte consistente abbandonate le montagne si trasferì nelle aree costiere e nei capoluoghi di provincia attratta dalle nuove possibilità di occupazione nei lavori pubblici e nell’edilizia privata. Il debole tessuto produttivo calabrese era costituito da piccole imprese artigianali del settore alimentare, del vestiario, dell’abbigliamento e del legno che lavoravano per il mercato locale e che in assenza di un’adeguata politica d’incentivazione non ressero all’inserimento nel mercato nazionale (l’Italia del Nord viveva il suo miracolo economico). “Scompaiono così insieme alla miriade di piccole imprese manifatturiere artigianali i potenziali distretti industriali meridionali” (D.Cersosimo, 2000, pag.193). Al contrario cresceva l’attività edilizia grazie alle opere pubbliche. I finanziamenti industriali negli anni sessanta riguardarono, caso unico nel Mezzogiorno, l’industria dei materiali da costruzione trainata dal flusso della spesa pubblica. Alla crisi dei settori tradizionali operanti essenzialmente sul mercato locale non corrispose in Calabria un’espansione dei settori moderni come invece successe nel resto del Mezzogiorno. Alla fine degli anni sessanta si costruiscono le linee longitudinali con l’autostrada ma non quelle trasversali. I centri interni furono estranei allo sviluppo della rete viaria e furono così fornitori di emigrazione. Ed così che negli anni settanta si manifesta chiaramente il divario con i comuni di grandi dimensioni che continuano ad acquisire popolazione. Gli anni settanta sono gli anni in cui in Calabria si attua la politica dei grossi poli industriali, quando questa in altri territori era fallita e da più parti si sosteneva la necessità di sostenere le piccole e medie imprese. Infatti, gli anni settanta sono gli anni della crisi del modello fordista, capital intensive, e della crescita delle piccole aziende singole, o più spesso integrate in “distretti industriali”. Lo spazio apertosi per le piccole imprese ha così posto l’attenzione sulle condizioni non economiche dello sviluppo (Trigilia, 1988). Come spiega Trigilia, lo sviluppo della piccola impresa fa emergere l’importanza
della dimensione locale: il territorio come sistema di interrelazioni
particolari tra fattori economici, socio-culturali e politici che influenzano lo sviluppo (pag. 170). Le nuove opportunità per le piccole imprese hanno una portata generale ma 13
La Calabria interna perse nel decennio ‘51-‘61 82.000 abitanti (P.Tino, 1980).
20
non sono colte ovunque con la stessa intensità: questa differenza territoriale mette in luce l’importanza del contesto istituzionale locale per il processo di sviluppo. Se si tiene conto che la crescita di nuove iniziative e l’incremento della produzione industriale sono venuti negli ultimi anni soprattutto dall’economia della piccola impresa si può ragionevolmente supporre che la crisi delle piccole imprese calabresi degli anni cinquanta che ha colpito soprattutto i piccoli centri e la limitata crescita negli anni settanta e ottanta abbiano contribuito a frenare le possibilità di sviluppo autopropulsivo. Alcuni autori (D. Cersosimo, 2000) si chiedono, visti i risultati della politica degli anni cinquanta-settanta, se fosse possibile allora imboccare una strada diversa, sperimentare un sistema di incentivi e politiche pubbliche rivolte a proteggere quella miriade di piccole imprese manifatturiere di tipo artigianale, quelle che chiama “i nascenti distretti meridionali”. La protezione dei distretti avrebbe dovuto favorire la crescente apertura delle merci verso circuiti di mercato nazionali ed europeo. Altri (A. Graziani, 1979) rispondono che nonostante i suoi limiti la politica economica italiana era coerente con la situazione del paese. Dal punto di vista della programmazione dello sviluppo, il 1992 segna la fine definitiva della politica dell’intervento straordinario, affidato ad istituzioni speciali, con lo scioglimento della Cassa del Mezzogiorno. Alla fine degli anni ottanta si assiste ad innovazioni istituzionali ispirate al federalismo che trasferiscono poteri dal centro agli enti periferici. Questo processo ha inizio con la legge di riforma delle autonomie locali14 e con la legge di riforma dell’elezione dei sindaci15. Un forte impulso al decentramento dei poteri si ha con le leggi Bassanini che accrescono le responsabilità e l’autonomia locale. Con il decreto legislativo del 200016 è rivoluzionato il finanziamento delle regioni a statuto ordinario: tra il 1990 e il 2000 il tasso di autofinanziamento delle amministrazioni locali passa dal 14,5% al 44,6% (Viesti, 2003). Infine, la riforma costituzionale del 2001, che lascia potestà legislativa alle Regione in tutte le materie che non sono di potestà esclusiva dello Stato, stabilisce l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa dei comuni, province e regioni.
14 15
16
Legge n. 142 del 1990 sulle autonomie locali. Legge n. 81 del 1993 sull’elezione diretta dei Sindaci. Decreto Legislativo n. 56 del 2000 sul federalismo fiscale.
21
Gli anni novanta sono gli anni del rigore della finanza che porta ad una riduzione drastica della spesa pubblica, che ha un ruolo importante nel Mezzogiorno. Regioni ed enti locali sono così sottoposti a vincoli amministrativi e finanziari stringenti (Viesti, 2003). Contemporaneamente, tangentopoli rivoluziona il panorama politico nazionale spezzando il legame verticale tra le classi dirigenti locali e periferiche: il punto di riferimento dei flussi finanziari non è più il politico della sede centrale, ridimensionato nei suoi poteri e nella sua legittimazione, e a questa relazione verticale si sostituiscono relazioni orizzontali tra attori politici e sociali (Cersosimo e Wolleb, 2001). Dal punto di vista della programmazione, cambia sia la politica di sviluppo territoriale nazionale che la politica regionale europea. Per quanto riguarda la politica nazionale, gli anni novanta sono gli anni dei patti e dei contratti d’area che prevedono la concertazione a livello territoriale degli interventi. Contemporaneamente, è riformata la politica regionale europea che viene dotata di fondi più cospicui. Essa ha stringenti regole: di programmazione pluriennale, di partenariato istituzionale e sociale, di monitoraggio e di valutazione degli interventi. Essa ha trovato attuazione nella programmazione 20002006, con i POR e, all’interno di questi, con i PIT (Patti integrati territoriali), con i Piani integrati per le Aree Rurali (Piar), il Leader ma anche con le altre iniziative comunitarie quali Equal e Interreg. 4.3. Le Governance dei piccoli comuni calabresi
L’intervento straordinario che ha caratterizzato tutta la politica di sviluppo territoriale del Mezzogiorno del dopoguerra era una politica settoriale, pensata da un ristretto gruppo di tecnocrati, gestita dalla Cassa per il Mezzogiorno, anche per la scarsa fiducia nell’amministrazione ordinaria. La classe dirigente locale (regionale, provinciale e comunale) era completamente estranea sia nella fase di programmazione sia in quella di gestione ed è divenuta negli anni mera mediatrice con il politico di riferimento centrale di risorse finanziarie da ridistribuire anche a scopi clientelari (Cersosimo e Wolleb, 2001; Viesti, 2003). Alla base del nuovo modello delle politiche e degli strumenti di sviluppo locale vi è l’assunzione secondo cui una lunga pratica di interventi pubblici settoriali e dall’alto hanno provocato un deficit di organizzazione e dinamismo a livello territoriale.
22
Per quanto riguarda la sfera socio-culturale dello sviluppo, in questi anni si registra un dinamismo associativo forte che è figlio, in parte, dello sviluppo dipendente che ha caratterizzato l’economia del Mezzogiorno,
attraverso l’aumento del reddito,
dell’istruzione e i cambiamenti della stratificazione sociale che esso ha portato (Trigilia, 1995). Lo studio del fenomeno è stato condotto da Trigilia (Trigilia, 1995) per conto dell’Imes ed ha portato a risultati sorprendenti: innanzittutto, un elevato numero di associazioni attive in linea con le aree più sviluppate; poi, e questo è l’aspetto interessante, autonomia dal sistema politico. Il dinamismo dell’associazionismo meridionale è quindi sintomo di crescita della società civile e non di colonizzazione politica (Trigilia, 1995). Questo è un risultato importante per lo sviluppo meridionale perché questo tipo di associazionismo contrasta il particolarismo familistico come tendenza culturale cui si accompagnano istituzioni pubbliche deboli e amorali (Mirabelli, 2001). Questi risultati sono confermati da altre indagini sui valori associati allo sviluppo in Calabria (Marini, 2001). I valori associati alla crescita economica sono autonomia e responsabilità mentre il valore negativo per la crescita economica è l’obbedienza. Infatti, l’obbedienza nei sistemi economici è l’altra faccia della medaglia della ricerca del potere e dell’autoritarismo delle istituzioni che rendono “deboli” quelle che Sen (Sen, 2002) chiama norme economiche di condotta. L’autonomia deve essere accompagnata dal senso di responsabilità verso il ruolo che si svolge nella società, perché è questo (o etica pratica secondo Sen) che permette di far funzionare le leggi. Secondo i risultati dell’analisi che ha riguardato tutte le regioni italiane, la Calabria negli stessi anni dell’indagine di Trigilia (1980-1996) ha mostrato un buon risultato nella cultura dell’autonomia responsabile situandosi tra le regioni più dinamiche del Mezzogiorno sia in termini di risultati produttivi che di atteggiamenti funzionali alla crescita economica (Marini, 2001). I dati raccolti sui piccoli comuni confortano sulla
loro crescita in termini di capitale umano e di capitale sociale. Infatti, i piccoli comuni calabresi sono sempre più colti perché il tasso di istruzione è andato sempre aumentando nel corso degli anni attestandosi intorno al 30% anche se la distanza dai comuni più grandi deve essere ancora colmata. I cittadini dei piccoli comuni si associano a fini culturali molto di più dei cittadini dei grandi. Anzi, più si è piccoli più si ci associa. Un cittadino dei piccoli comuni ha a disposizione circa 2 associazioni culturali per 1000 abitanti, il doppio di un cittadino dei comuni più grandi. Hanno inoltre musei e biblioteche in linea con i valori medi regionali. Infine, i piccoli comuni
23
vedono una maggiore partecipazione delle donne all’attività politica rispetto ai grandi. In questo contesto di rottura di vecchi equilibri, nelle aree rurali calabresi trova attuazione il Leader II. Il partenariato leader è una delle più originali e strategiche specificità di Leader; esso è una combinazione di attori pubblici e privati associati in un partenariato che identifica una strategia comune e innovativa per lo sviluppo di un’area rurale. Dal partenariato leader ci si attende autonomia decisionale e una capacità di integrare gli interventi nei diversi settori (sviluppo integrato). “Lo sviluppo crea una contrapposizione tra un’offerta di beni pubblici sostenuta da un insieme di forze sociali e una domanda di beni pubblici sostenuta da un insieme alternativo di forze sociali” (Seravalli e Wolleb, 2002). Le istituzioni intermedie non sono chiamate solo a far regole ma a creare un bene pubblico concreto, sicché le differenze tra istituzioni intermedie dipendono dal tipo di bene pubblico da creare.
In Calabria, l’80% dei piccoli comuni è coinvolto nel Programma Leader. Esso ha quindi costituito un’importante opportunità per sperimentare nuove forme di governance territoriale. Gli studi sull’esperienza Leader in Calabria mostrano che i partenariati Leader sono cresciuti nelle capacità di proporre programmi maggiormente legati alle esigenze del territorio; infatti, se si considera il tipo di programma di sviluppo presentato, il passaggio dal Leader II al Leader Plus è forte: scompare la corrispondenza tra programmi e gruppi promotori. I programmi del leader + sono tutti specializzati nelle misure d’investimenti nelle imprese e di valorizzazione prodotti: l’esperienza Leader II, grazie all’animazione sociale, ha permesso di conoscere meglio il territorio, di operare delle scelte e coinvolgerlo nell’attuazione del programma del Leader +
(Castellotti, Gaudio, 2006). Per quanto riguarda, invece, la legittimazione del partenariato Leader sul territorio, la programmazione negoziata in Calabria ha visto il proliferare di diversi strumenti anche all’interno di uno stesso programma. Così accade che all’interno di un medesimo territorio
coesistono
diverse istituzioni e diversi
programmi per lo sviluppo, si forma un partenariato diverso per ciascun programma. Non esiste, cioè, una continuità istituzionale nella politica di sviluppo locale. In particolare, gli enti pubblici locali (i comuni) sono presenti nei partenariati a caccia di visibilità politica e di finanziamenti e non assumono impegni specifici riguardo lo sviluppo dell’area (Castellotti, Gaudio, 2006).
Se si legge la storia dei piccoli comuni calabresi come interrelazione tra istituzioni, politica ed economia si deve concordare con Trigilia quando afferma che “il vincolo alla crescita autopropulsiva del Mezzogiorno è proprio nel suo interno: è nel peso
24
eccessivo della politica cresciuto per proteggerlo dai costi del suo inserimento nel mercato” ( Trigilia, 1988, pag.184). Tuttavia, è doveroso chiedersi se oggi sia possibile invertire la tendenza. Questo cambiamento di prospettiva pone il problema dell’organizzazione delle relazioni, per l’implementazione ed attuazione dei programmi di sviluppo, da un lato tra istituzioni pubbliche e comunità locali, dall’altro tra e intra soggetti pubblici con diversi livelli di
responsabilità e di programmazione (livello comunitario, nazionale, regionale e locale). 5. Quali politiche e quali governance per i piccoli comuni Sulla capacità della programmazione negoziata di produrre cambiamenti nel contesto istituzionale esiste ampia letteratura. Il processo basato sul partenariato impone ad un singolo (individuo oppure istituzione) di assumere la responsabilità di un impegno collettivo, in contrapposizione al comportamento di un semplice operatore che, al contrario, non partecipa all’ideazione e alla gestione di programmi di sviluppo. L’importanza del partenariato nelle politiche di sviluppo rurale è messa per la prima volta in evidenza nei documenti della Commissione nel 198817. Infatti, si delinea per la prima volta la possibilità di creare un’agenzia di sviluppo in cui le associazioni e le autorità locali dovrebbero svolgere un ruolo centrale. Alla base c’è una politica di sviluppo territoriale che si basa sulla diversificazione economica e lo sviluppo endogeno e che si realizza attraverso la creazione di centri intermedi negli spazi rurali in modo da creare uno sviluppo regionale più equilibrato che non punti tutto sui grandi poli. La successiva Conferenza di Cork18 del 1996 individua i cardini della politica di sviluppo rurale nell’approccio integrato e dal basso, nella diversificazione dell’attività economica, nel partenariato, nella programmazione unica. La Conferenza di Salisburgo19, sancisce l’importanza del partenariato locale, quale quella disegnata dal Leader, come il modello di riferimento di tutta la politica di sviluppo per le aree rurali. Le specificità del Leader
17 18
19
Commissione delle Comunità Europee, Il Futuro del mondo rurale, 1988. Tenutasi a Cork (Irlanda) il 7-9 novembre 1996. Tenutasi a Salisburgo il 12-14 novembre 2003.
25
sono quelle elencate dalla Commissione Europea nel Libro Bianco sulla Governance20: apertura, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza. Si tratta pertanto di un approccio che ha ampia diffusione anche a livello istituzionale nei documenti strategici e programmatici. Anche la nuova programmazione relativa al Fondo Europeo per l’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale (FEARS) 2007-2103 pone molta enfasi all’approccio Leader sia negli Orientamenti Strategici21 sia nel Regolamento22: da Iniziativa Comunitaria diventa un Asse (asse IV) dei Programmi di Sviluppo Rurale (PSR). Tuttavia, nonostante l’enfasi, la nuova programmazione nella sua impalcatura generale ha introdotto elementi di criticità nell’attuazione dell’approccio Leader. Innanzitutto, la separazione tra Fondi: l’approccio Leader richiede la necessità di poter intervenire in tutti i settori delle aree rurali e quindi di poter accedere a tutti i Fondi; aver creato per ciascun Fondo un Programma e aver inserito il programma Leader all’interno del solo fondo Fears ne ha, di fatto, notevolmente limitato la capacità di programmazione e di attuazione dei Programmi di Sviluppo Locale (PSL). Inoltre, tenendo conto delle misure che esso può attivare all’interno del Fondo Fears esso perde la sua caratteristica di approccio multisettoriale perchè la possibilità di agire in settori extra-agricoli è notevolmente limitata. Possiamo sintetizzare dicendo che l’Iniziativa Comunitaria è entrata nel Programma di Sviluppo Rurale ma non è accaduto il contrario. Da una prima e generalizzata lettura, emerge quindi una situazione molto composita, ma che comunque permette di formulare delle prime riflessioni. La programmazione negoziata ha visto il proliferare di diversi strumenti anche all’interno di uno stesso programma. E’ possibile, (e in alcune aree succede), avere la presenza di strumenti diversi che si occupano dello sviluppo di quell’area23 attraverso la creazione di partenariati. Ognuno di questi prevede la formazione e la partecipazione di partner sociali, economici ed istituzionali, anche se con un diverso grado di coinvolgimento. A questo bisogna aggiungere che all’interno di un’area limitata esistono diverse istituzioni 20
COM(2001) 428 definitivo/2. COM(2005) 304 del 5 luglio 2005. 22 Regolamento CE 1698/2005, 23 Si fa riferimento a Programmi territoriali integrati (PIT), progetti integrati di filiera (PIF), progetti integrati per le aree rurali (PIAR e PIR), alle iniziative comunitarie (Equal, Interreg, Leader) per le politiche dei fondi strutturali; ai patti territoriali generalisti e agricoli per le politiche a livello nazionale. 21
26
preposte allo sviluppo. Propongono (o potrebbero proporre) programmazione i comuni, le comunità Montane, i consorzi di bonifica, gli enti parco, e infine, a livello più ampio, le province. Si tratta di strumenti pensati per innescare processi di sviluppo e non per la concessione di finanziamenti che, pertanto, mirano a privilegiare interventi immateriali. Una governance adeguata implica una forte capacità di coordinamento tra i diversi responsabili della programmazione a livello regionale, gli enti locali e i gruppi di animazione sui territori. L'amministrazione pubblica può essere considerata la fonte
delle norme e delle regole e, nello stesso tempo, il luogo terminale di pratiche e procedure. Essa si configura come fonte alla quale attingere, ma anche punto di arrivo di istanze e di esigenze da parte degli operatori (Gaudio, Zumpano, 2006). Tuttavia, in alcune realtà regionali, per ragioni che abbiamo cercato di spiegare nei paragrafi precedenti, l’amministrazione pubblica non è solo la fonte normativa ma anche un attore in campo, interessato all’accesso ai finanziamenti che può quindi influenzare i risultati delle politiche. Dai documenti di valutazione delle politiche di sviluppo dei POR e dei PSR emerge un quadro deludente degli interventi: essi si limitano a offrire infrastrutture (strade rurali, elettrificazione) e sono lontani dal saper integrare le risorse sui territori, innalzare la qualità della vita, offrire alternative di reddito alle popolazioni (Lucatelli, Monteleone 2005). Questa è forse la sfida più difficile per le amministrazioni nazionali e regionali le quali, al loro interno presentano spesso competenze verticali troppo rigide, poco collaborative, che producono interventi disorganici e frammentati sul territorio. Infatti, questo modello così costruito dovrebbe compensare le criticità a livello locale con una forte e autorevole capacità di governo a livello regionale. Che significa, rigore nella selezione dei progetti e nella valutazione della loro coerenza con la strategia del POR, rispetto dei criteri di concentrazione e integrazione delle risorse e degli interventi, capacità di verifica in itinere de risultati. Da questo punto di vista, il campo delle regole deve essere chiaro e dettagliato soprattutto rispetto ai metodi di costruzione delle politiche, agli strumenti di attuazione e di monitoraggio, alle procedure di valutazione dei progetti. Inoltre, l’efficacia dei partenariati locali e dei progetti di sviluppo locale proposti dipendono dalla capacità a livello centrale di innescare un processo competitivo tra aree e tra queste e l’amministrazione regionale. Ciò significa lasciare
27
aperta la possibilità di trasferire risorse aggiuntive ai sistemi organizzativi che dimostrano migliori capacità gestionali (Soda, 2004). Il percorso con il quale realizzare le politiche pubbliche è riassunto nella nozione di sussidarietà, dalla quale discende direttamente la concertazione tra gli attori istituzionali al livello più adeguato all’obiettivo da raggiungere. Nella stessa logica, va interpretato, nell’attuale fase di programmazione, il rafforzamento della presenza delle parti economiche e sociali sin dalla prima fase di implementazione delle politiche. Il Partenariato Economico-Sociale è la sede fondamentale in cui i Comuni sono chiamati a partecipare alla definizione delle politiche regionali. Le modifiche introdotte nei regolamenti che prevedono meccanismi di programmazione e di gestione sempre più complessi (coinvolgimento di più Dipartimenti/assessorati e forte raccordo con le istituzioni nazionali), spingono verso una revisione dei modelli organizzativi regionali; in tal senso, l’impatto della Bassanini, 55/97 e 143/97, determina
sui
modelli
organizzativi
regionali
grosse
novità
(decentramento
amministrativo). Tale processo con percorsi, modalità ed intensità diverse, a seconda delle regioni, interessa anche gli interventi strutturali e richiede un’accentuata attività di coordinamento finalizzata a garantire medesimi criteri istruttori e parità di trattamento tra i diversi beneficiari, nonché ad assicurare la regolarità dei flussi informativi da tali enti alla Regione. Le diverse regioni hanno fatto fronte a questa esigenza di riordino in maniera non omogenea sia per quanto riguarda i tempi che i contenuti, passando da un modello tradizionale (parte del procedimento amministrativo è delegato alle strutture periferiche regionali), a quello accentrato (tutto il procedimento rimane in mano alle strutture centrali regionali) fino ad arrivare a quello decentrato (responsabilità e coordinamento alla regione, tutto il resto agli enti delegati). L’analisi dei processi organizzativi può rappresentare il primo passo per comprendere come e quanto essi possano influenzare positivamente o negativamente l’efficacia e la qualità degli interventi. Per l’analisi dei processi organizzativi a livello comunale bisogna tener conto sia della legge di riforma dell’elezione dei sindaci sia della legge che prevede l’isitituzione dell’Unione dei Comuni. In particolare, la prima attribuisce ai sindaci nuovi poteri che ne aumentano le capacità decisionali. Da indagini condotte (Catanzaro et al., 2002) emerge che essa indebolisce il legame del sindaco con i partiti
28
mentre accresce la personalizzazione della politica. Diventano importanti le caratteristiche del sindaco (autorevolezza, carisma, capacità amministrative). La partecipazione dei Comuni (singolarmente e in associazione con altri) nei Partenariati Economico-Sociali sia a livello regionale che a livello locale per la definizione delle politiche territoriali può quindi essere maggiormente efficace rispetto al passato. L’intento auspicato dalla normativa di promuovere innovazione spesso non si realizza perché finiscono con il pesare tutte le debolezze strutturali esistenti a livello istituzionale. L’opportunità offerta dagli strumenti in termini di modernizzazione delle istituzioni è stata colta quindi solo parzialmente. Al contrario, tali strumenti avrebbero potuto rappresentare un’occasione per accelerare il processo di decentramento, per trasformare strutturalmente ed organizzativamente la pubblica amministrazione (Gaudio, Zumpano 2006).
6. Conclusioni Occorrono strumenti per promuovere le aree oggetto di disagio insediativo intervenendo sui principali settori di potenziale sviluppo economico e occupazionale. I costi di mantenimento dei servizi nelle aree rurali sono ingenti, ma molto più ingenti sono i costi da supportare in materia di catastrofi ambientali causate dallo spopolamento di queste aree. Un possibile settore su cui intervenire è sicuramente quello ambientale che si esplica in termini di manutenzione del territorio attraverso attività di prevenzione e di costituzione di nuove micro-imprese capaci di contenere il dissesto idrogeologico. Ma anche il settore turistico rurale può dare un impulso positivo allo sviluppo di queste aree. C’è una maggiore domanda di spazi rurali sia in termini di residenzialità che di attrattività turistico-ricreativa. “Quanto più cresce la standardizzazione e l’omologazione offerta dalla città, tanto più i cittadini, ghiotti di particolarismi, scelgono spazi alternativi, spazi non omologati, spazi verdi, spazi rurali”24. Si è evidenziato come alcune regioni italiane e, in particolare, i piccoli comuni al loro interno riescono a svilupparsi grazie alla presenza turistica che genera ricchezza. Il 24
Legambiente, Confcommercio (2000), L’Italia del disagio insediativi. Investire sul belpaese: servizi territoriali diffusi per la competizione globale, Indagine serico-Gruppo Cresme, Roma, 27 settembre.
29
loro sviluppo non può essere solo un fattore esogeno, ma necessità di una valorizzazione delle risorse endogene. Oggi le politiche agricole sono basate su un uso sostenibile delle risorse e non sullo sfruttamento del suolo e quindi viene riservata una importanza notevole all’ambiente. E’ lì dove esiste un ambiente di qualità si avranno i maggiori vantaggi competitivi. Nelle zone rurali esistono fattori esogeni in termini di vincoli (regolamenti, norme) e di incentivi (sovvenzioni, agevolazioni) in grado di favorire le attività economiche durature e sostenibili. Ma esistono anche fattori endogeni costituiti dalle risorse potenziali presenti (prodotti tipici, biologici, aree parco, mestieri tradizionali, usi e costumi) che se sapientemente valorizzate permettono uno sviluppo di queste aree. Esistono grosse opportunità di sviluppo delle aree rurali che però scontano un grosso limite che è quello di generare massa critica. Non casi isolati, ma progetti più ampi che investono l’intero territorio. Si tratta di inserire singole specificità locali in un’offerta più allargata, in contesti più ampi in grado di connotare il prodotto con il territorio. L’agricoltura biologica è un tipico esempio. La riconversione andrebbe condotta su scala più ampia e non concentrarsi su singoli interventi e interessare l’intero territorio. Questo comporterebbe la nascita e/o crescita di attività di trasformazione e commercializzazione di prodotti su scala più ampia ed economicamente convenienti. Questo comporterebbe anche la crescita di attività commerciali che come evidenziato nel libro verde sul commercio costituiscono “un sistema efficiente per cercare di ridurre il rischio di marginalizzazione delle popolazioni rurali, che devono poter disporre di un’ampia gamma di servizi in loco”25. D’altra parte anche questo settore è abbastanza incentivato attraverso leggi nazionali e locali26 ma che purtroppo non vengono colte. La creazione di reti di piccoli negozi locali viene indicato come uno dei 17 settori di intervento in materia di inziative per lo sviluppo locale dell’occupazione. I piccoli negozi locali potrebbero svolgere al loro interno una pluralità di funzioni che riguardano non solo la vendita di prodotti tipici agroalimentare e artigianali, ma anche l’erogazione di servizi pubblici e di promozione turistica27. 25
Commissione delle Comunità Europee, Il libro verde sul commercio, 1996. Decreto Legislativo n. 114 del 31 marzo 1998 relativo alla riforma della disciplina del commercio; Legge n. 97 del 1994 sulla montagna. 27 L’Ente Poste può stipulare all’interno dei comuni montani contratti per l’affidamento dei propri servizi a soggetti privati (art. 53 della legge n. 449 del 1997). 26
30
I piccoli comuni sono localizzati prevalentemente nelle aree rurali per cui gli interventi previsti nella nuova programmazione non possono che essere determinanti per un loro sviluppo. Tuttavia è importante che siano utilizzate in un disegno unitario e integrato tutte le opportunità previste dai diversi Fondi. A livello territoriale è necessario unire quello che i regolamenti hanno diviso. Infatti, le politiche di sviluppo dei piccoli comuni non possono che passare attraverso politiche di valorizzazione dei territori. La programmazione negoziata ha contribuito ad avviare una mobilitazione culturale, promuovendo il confronto tra istituzioni ai diversi livelli e attori locali. Tuttavia, non si è prodotta finora una mobilitazione in grado di riprodurre veri e propri processi di sviluppo istituzionale. I diversi partenariati creati sembrano andare alla ricerca di propri spazi autonomi per accedere alle risorse, così vale per i Gal nel programma Leader e per le istituzioni nei POR. Manca una prospettiva di lungo periodo che faccia leva su interventi immateriali al fine di costruire governances diverse da quelle sperimentate. La partecipazione ai tavoli della concertazione ha probabilmente accresciuto negli attori la consapevolezza di poter contribuire alla determinazione del proprio sviluppo. Spesso, però, questa consapevolezza, almeno per il momento, non si è tradotta in comportamenti concreti. Infatti, continuano a prevalere logiche di distribuzione, di gestione del potere, di privatizzazione degli interessi che ostacolano la nascita di reti collaborative verticali (Cersosimo, 2006; Gaudio, Zumpano, 2006). Si evince dall’esperienza che favorire l’interazione tra diversi soggetti, incentivare un aumento del capitale sociale, favorire forme di reciprocità sono condizioni necessarie, ma non sufficienti per costruire sistemi forti e capacità di governance. Determinante appare la capacità di risposta e di adattamento del contesto istituzionale rispetto a questi nuovi strumenti della programmazione negoziata. In altri termini, è necessario che le istituzioni siano in grado di recepire il cambiamento e di mediarlo con le condizioni preesistenti. Per quanto riguarda le relazioni tra istituzioni e partenariati locali si pone sicuramente l’esigenza di regolamentare la proliferazione di soggetti e agenzie al livello locale valorizzando le esperienze passate e il ruolo dei soggetti già operanti sul territorio. Concretamente per sviluppare la complementarietà a livello locale, occorre puntare anche su azioni di animazione territoriale, di assistenza tecnica alla progettazione degli
31
enti locali. Tali processi a livello regionale possono essere favoriti dalla definizione di aree prioritarie su cui concentrare gli interventi e includendo gli enti gestori che hanno operato in passato come potenziali promotori della programmazione integrata (Storti, 2005).
Riferimenti bibliografici Anania G. - Cersosimo D. - Costanzo G. D. (2001): Le Calabrie contemporanee. Un’analisi delle caratteristiche dei sistemi economico-produttivi sub-regionali, in Anania G. (a cura di), Scelte pubbliche, strategie private e sviluppo economico in Calabria, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore.
Castellotti T. e Gaudio F. (2006): I Gal in Calabria tra tradizione e innovazione: learning by doping, in Cavazzani A., Gaudio G. e Sivini S. (a cura di), Politiche, governance e innovazione per le aree rurali, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. Catanzaro R. - Piselli F. - Ramella F. e Trigilia C. (2002), Comuni nuovi. Il cambiamento nei governi locali, Bologna, Il Mulino. Cersosimo D. (2000): Sulle tracce dei distretti, in Cersosimo D. - Donzelli C. (a cura di), Mezzo Giorno, Roma, Donzelli editore. Cersosimo D. - Wolleb G. (2001): Politiche pubbliche e contesti istituzionali. Una ricerca sui patti territoriali, in Stato e Mercato, n. 63.
Cersosimo D. (2006): La programmazione negoziata tra vincoli istituzionali e sviluppo partecipativo, Cavazzani A. – Gaudio G. – Sivini S. (a cura di), Politiche, Governance e Innovazione per le aree rurali, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. Commissione delle Comunità Europee (1988): Il Futuro del mondo rurale, Bruxelles. Commissione delle Comunità Europee (1996): Il libro verde sul commercio, Bruxelles. Commissione delle Comunità Europee (2001): La governance europea, Bruxelles.
32
Compagna F. (1980): Sibari rivisitata, in Placanica A. e Bevilacqua P. (a cura di), Storia d'Italia. Le regioni dall'Unita' a oggi. La Calabria, Torino, Einaudi. Gaudio G. - Zumpano C. (2006): L’iniziativa comunitaria Leader in Italia: fattori di successo e criticità, Cavazzani A. – Gaudio G. – Sivini S. (a cura di), Politiche, Governance e Innovazione per le aree rurali, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. Gaudio G. – Zumpano C. (2006): Coalizioni istituzionali e sviluppo locale in contesti rurali. Apprendimenti da un caso di studio nel Mezzogiorno, Cavazzani A. – Gaudio G. – Sivini S. (a cura di), Politiche, Governance e Innovazione per le aree rurali, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane. Graziani A. (1979): (a cura di), L’economia italiana dal 1945 ad oggi, Bologna, Il Mulino. Legambiente, Confcommercio (2000), L’Italia del disagio insediativi. Investire sul belpaese: servizi territoriali diffusi per la competizione globale, Indagine serico-Gruppo Cresme, Roma, 27 settembre. Legambiente, Coldiretti (2005), L’indagine delle qualità agro-territoriali. Primo rapporto sulle qualità agro-territoriali delle regioni ed il contributo dei piccoli comuni, Roma, 24 febbraio. Lucatelli S. – Monteleone A. (2005): Gli esiti del seminario “Valutazione e sviluppo delle aree rurali”, Lucatelli S. – Monteleone A. (a cura di), Valutazione e sviluppo delle aree rurali: un approccio integrato nella valutazione delle politiche di sviluppo, Materiali UVAL, n. 7. Mantino F. (2001): La complementarietà tra il Leader e le altre politiche per le aree rurali italiane: opportunità e vincoli, Rivista reteLeader, n.7. Marini M. (2001): Valori culturali e crescita economica: un’analisi esplorativa dei dati regionali italiani, in Anania G. (a cura di), Scelte pubbliche, strategie private e sviluppo economico in Calabria, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore.
Mirabelli M. (2001): L’istituzionalismo amorale, Soveria Mannelli, Rubbettino editore. Saraceno E. (1993): Dall’analisi territoriale dell’agricoltura allo sviluppo rurale, in La Questione Agraria, n. 52. Sen A. (2002): Globalizzazione e Libertà, Milano, Mondatori.
33
Seravalli G. - Wolleb G. (2002): Economia dello sviluppo locale, dattiloscritto.
Soda G. (2004): Territori di progetto, progetti di territorio: luci ed ombre della progettazione integrata in Calabria, Meridiana, nn.50-51. Soriero G. (1980): Le Trasformazioni recenti del territorio, in Placanica A. e Bevilacqua P. (a cura di), Storia d'Italia. Le regioni dall'Unita' a oggi. La Calabria, Torino, Einaudi. Storti D. (2005): L’approccio integrato, Monteleone A. (a cura di), La riforma dello sviluppo rurale: novità e opportunità, Quaderno n.1, Roma, INEA. Tino P. (1980): L’industrializzazione sperata, in Placanica A. e Bevilacqua P. (a cura di), Storia d'Italia. Le regioni dall'Unita' a oggi. La Calabria, Torino, Einaudi. Trigilia C. (1988): Le condizioni “non economiche” dello sviluppo: problemi di ricerca sul mezzogiorno d’oggi, in Meridiana, n. 2, gennaio. Trigilia C. (1995): (a cura di), Cultura e sviluppo. L’associazionismo nel mezzogiorno, Catanzaro, Meridiana Libri. Viesti G. (2003): Abolire il mezzogiorno, Bari, Editori Laterza.
34