Dipartimento di Scienze Politiche – Scienze di Governo e della Comunicazione Pubblica Cattedra - Opinione Pubblica e Comportamento Politico
POLITICHE 2013: VERSO UN "MODERN GENDER GAP" ANCHE IN ITALIA? L'INFLUENZA DEL GENERE SUGLI ATTEGGIAMENTI POLITICI E SUI COMPORTAMENTI DI VOTO.
Relatore: Prof. Lorenzo De Sio Candidata: Sveva Biocca Correlatore: Prof.ssa Emilana De Blasio
Anno accademico: 2012/2013
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Sommario INTRODUZIONE
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I CAPITOLO. VERSO IL SUFFRAGIO UNIVERSALE
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1.1 IL MOVIMENTO DELLE SUFFRAGETTE
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1.2 SUFFRAGIO: CONQUISTATO O CONCESSO?
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1.3 LA FINESTRA DI OPPORTUNITÀ
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II CAPITOLO. LE DONNE ALLE URNE: IL TRADITIONAL GENDER GAP
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2.1 L’ASTENSIONISMO POST-SUFFRAGIO
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2.2 IL PROBLEMA SENZA NOME
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2.3 LA TENDENZA DI VOTO A DESTRA DELLE DONNE
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2.4 IL GENDER GAP
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2.5 MARITI CHE VOTAVANO COME LE MOGLI O VICEVERSA?
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III CAPITOLO. IL FEMMINISMO: VERSO IL MODERN GENDER GAP
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3.1 I PRIMI STUDI SUL MODERN GENDER GAP
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3.2 UNA VISIONE DIFFERENTE: LO SPOSTAMENTO DEGLI UOMINI
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3.3 IL MODERN GENDER GAP
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3.4 IL MODERN GENDER GAP IN EUROPA
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IV CAPITOLO. IL GENDER GAP IN ITALIA
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4.1 IL VOTO DELLE DONNE IN ITALIA
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4.2 LE DONNE E LA RELIGIONE
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4.3 LE DONNE E L’ISTRUZIONE
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4.4 LE DONNE E L’ETÀ.
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V CAPITOLO. ELEZIONI 2013: QUALE GENDER GAP?
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5.1 TEMI SALIENTI: MODERN O TRADITIONAL GENDER GAP?
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5.2 LA RELIGIONE E L’INTERESSE PER LA POLITICA
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5.3 IL GENDER GAP NELLE SCELTE ELETTORALI DELLE ELEZIONI 2013
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CONCLUSIONI
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BIBLIOGRAFIA
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Introduzione Obiettivo di questa ricerca è analizzare le differenze nel comportamento di voto degli uomini e delle donne con specifico riferimento alle elezioni politiche del febbraio 2013. Fino ai primi anni ’90, in Italia, questa differenza si è sempre manifestata con una spiccata tendenza del corpo elettorale femminile a votare più a destra rispetto a quello maschile. Dalla fine della Prima Repubblica, l’attitudine conservatrice delle donne iniziò a cambiare fino a che, nelle elezioni del 2006, tra le elettrici più giovani fu registrata una maggiore propensione di voto a sinistra. Questo nuovo orientamento sembrava essere assolutamente in linea con i dati rilevati nei Paesi industrialmente più sviluppati nei quali, da anni, le donne preferivano e continuano a preferire i partiti di sinistra. Nel 2008, quando gli aventi diritto sono stati nuovamente chiamati al voto, questa tendenza cambiò ancora: le elettrici più giovani votarono più a destra. L’analisi del comportamento di voto nella tornata elettorale del 2013 è quindi necessaria per capire se il dato del 2006 abbia realmente manifestato una nuova tendenza o se, al contrario, l’Italia debba essere ancora considerata un Paese nel quale le donne continuano a scegliere partiti più conservatori. Per inquadrare e comprendere le motivazioni di questi cambiamenti di orientamenti dell’elettorato femminile, si è ritenuto opportuno svolgere una analisi comparata tra più Paesi, ampliando le osservazioni sin da quando il diritto di voto venne concesso alle donne. I dati raccolti, sia attraverso l’analisi dei risultati elettorali che grazie ai diversi studi portati avanti dalla metà degli anni ’50, permettono di capire quanto e perché il voto femminile sia cambiato nel tempo. Se negli anni immediatamente precedenti il suffragio omnibus il voto delle donne era visto come una semplice “moltiplicazione per due” del voto maschile 1, in realtà esso è poi risultato un fattore determinante negli accadimenti politici avvenuti nei diversi Paesi.
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Questa, in Inghilterra, era la motivazione più importante mossa contro il movimento delle
suffragette. Le donne, poiché si credeva non avessero una visione indipendente rispetto alla politica, erano in un certo senso già rappresentate dal voto espresso dagli uomini. Inoltre, non potendo possedere una loro proprietà, erano automaticamente escluse dai criteri allora necessari per poter accedere al voto.
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Basti pensare all’Italia della prima Repubblica, nella quale la Democrazia Cristiana, per quarant’anni, riuscì ad essere il primo partito grazie al voto espresso dalla componente femminile dell’elettorato; 2 od anche nelle elezioni statunitensi del ’96 che portarono Bill Clinton alla Casa Bianca attraverso una vera e propria conquista del consenso delle donne. (Inglehart e Norris 2000) L’elaborato si articola quindi in cinque parti; queste seguiranno in un andamento cronologico le ricerche effettuate proprio in merito alla differenza di genere nel voto. Il primo capitolo riguarda il processo di acquisizione del diritto da parte delle donne. Se nei Paesi nei quali si svilupparono i movimenti delle suffragette questo fu un diritto realmente conquistato, nella maggior parte degli altri Stati esso fu più che altro una concessione legata alle convenienze che potevano trarne i diversi partiti in lizza. Verrà inoltre analizzato se e quanto la religione cattolica abbia influenzato l’estensione del diritto di voto, nonché quelle tra il medesimo suffragio esteso alle donne ed i momenti di acquisizione di indipendenza degli Stati. Il secondo capitolo approfondisce la condizione sociale delle donne nel periodo del secondo dopo guerra ed esamina il loro comportamento elettorale a seguito della conquista/concessione del diritto di voto. Grazie agli studi portati avanti da Duverger, risalenti agli inizi degli anni ’50, è stato possibile non solo osservare quanto effettivamente le donne “sfruttassero” questo neo-diritto (astensione/partecipazione), ma anche le conseguenti scelte effettuate nella espressione del voto. Sin dall’inizio della concessione del voto alle donne, si notò una differenza di genere nella scelta elettorale ma, solo a partire dagli anni ’80, questa prese il nome di gender gap in voting. Negli anni 2000 questa espressione venne “raffinata” grazie al contributo di Pippa Norris la quale parlò di traditional e di modern gender gap, il primo espressione di un voto femminile più spostato a destra, il secondo più a sinistra.
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Come scrisse lo studioso Mattei Dogan nel 1963: “Solo grazie al voto delle donne la Dc riuscì a
sopravanzare il Fronte del popolo nel 1948” ed ancora: “Se nelle elezioni del 1958 avessero votato solo gli uomini, il Partito Socialista e quello Comunista avrebbero vinto prendendo molti più voti rispetto alla DC”. (Dogan 1963, 478). Tesi confermata nuovamente nel 2009 da parte di Corbetta e Cavazza “ Le donne, per il ruolo giocato dalla Chiesa in Italia, votavano in larga parte DC.” (Corbetta e Cavazza 2007, 281)
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Il terzo capitolo è strutturato proprio con riferimento al modern gender gap. Vengono esaminati gli studi condotti da Pamela Johnson Conover e Martin Gilens risalenti alla fine degli anni ’80; i due analizzarono il cambiamento dello status sociale delle donne ed in particolar modo Conover evidenziò il cambio di rotta dividendo l’elettorato in uomini, donne e femministe. In questo modo rese possibile una reale differenziazione tra i nuovi valori delle donne più progressiste e quelli delle donne più conservatrici. A seguire viene anche riportato uno studio in “controtendenza” redatto da Karen Kaufmann e John Petrocik; essi sostennero, infatti, che la causa del gender gap non era da attribuire ad uno spostamento delle preferenze femminili, bensì di quelle maschili. Questo punto di vista fu in seguito smentito come evidenziato nell’ultima parte del capitolo, nella quale vengono trattate le analisi successivamente portate avanti negli anni 2000. Pippa Norris con la pubblicazione dell’articolo “The Gender Gap: Old Challenges, New Approaches” ed di un ulteriore scritto realizzato in collaborazione con Ronald Inglehart, “The Developmental Theory of the Gender Gap: Women's and Men's voting Behavior in Global Perspective”, ripercorse il tema del gender gap in maniera approfindita ed innovativa. In conclusione del capitolo viene esaminata la differenza di genere nel voto negli Stati Uniti e nei principali Stati europei, ed infine anche accennato alle preferenze elettorali delle donne nei Paesi ex-comunisti ed in quelli in via di sviluppo. Il quarto capitolo analizza il gender gap nel particolare caso italiano. Per comprendere maggiormente le ragioni che, per lunghi anni, portarono l’Italia ad essere “portatrice” di un così marcato gender gap, vengono evidenziati i tre fattori che con maggior peso influivano sulla scelta di voto, in particolare in quella femminile: la religione, l’istruzione e l’età. Per ognuna di queste variabili è stata riportata la capacità predittiva di esse, vale a dire la capacità delle suddette di spiegare i dati presi in considerazione rispetto al voto. In questo modo è stato anche possibile verificare una eventuale perdita di importanza delle stesse variabili nella spiegazione delle tendenze di voto manifestatesi in ogni tornata elettorale. Grazie alle ricerche realizzate, in particolar modo, da Marco Maraffi, pubblicate nel libro “Gli italiani e la politica” (M. Maraffi 2007) e da Piergiorgio Corbetta e Nicoletta Cavazza, nell’articolo “From the parish to the polling booth: Evolution and interpretation of the political gender gap in Italy, 1968-
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2006” (Corbetta e Cavazza 2007) è stato possibile seguire l’andamento del voto di genere fino al 2008. Il quinto ed ultimo capitolo esamina, con un’analisi di dato originale, proprio quanto emerso nella più recente tornata elettorale successiva a quella del 2008: le politiche del febbraio 2013. Per fare ciò ci si è basati sui dati raccolti dall’Associazione ITANES (Italian National Election Studies) nel periodo marzo-maggio immediatamente successivo alle elezioni del 2013. Queste interviste, realizzate con il metodo CAPI, (Computer Assisted Personal Interviewing) sono state effettuate direttamente nelle abitazioni degli intervistati: 1500 elettori con copertura nazionale. La ragione potrebbe esser dovuta ad una maggiore disponibilità da parte degli elettori di sinistra di concedersi all’intervista ITANES. Sempre al fine di individuare al meglio le condizioni di studio, si è deciso di separare il campione non solo rispetto al genere uomo/donna, ma anche dividendo ulteriormente l’elettorato femminile in donne lavoratrici, più semplicemente denominate “donne” (includendovi anche le pensionate e le studentesse) e le casalinghe, vale a dire donne che non hanno mai lavorato nella loro vita. Questa decisione è stata presa ricalcando quella della studiosa Conover, la quale scelse di dividere l’elettorato statunitense degli anni ‘70 in uomini, donne e femministe. In questo modo, i risultati possono essere espressi tenendo più propriamente conto delle importanti differenze a livello di istruzione ed occupazione presenti all’interno dell’elettorato femminile. L’ultimo capitolo, in definitiva, si aprirà con un’analisi rispetto ad una serie di tematiche indicate dalla letteratura come rilevanti per il gender gap, come immigrazione, aborto, tasse e servizi, ambiente, rispetto alle quali verranno evidenziate le differenze di genere, includendovi anche le casalinghe. In seguito si analizzano temi relativi all’importanza della religione, nella vita e nel voto, ed all’interesse per la politica. In ultimo si rileverà l’effettiva scelta elettorale effettuata nelle politiche del 2013. Ogni tabella sarà preceduta da una serie di ipotesi che, in seguito alla analisi della stessa, saranno confermate o smentite. Le conclusioni sintetizzano i risultati cui la ricerca è pervenuta e offrono una valutazione generale sul cambiamento delle scelte di voto degli elettori nelle elezioni del febbraio 2013.
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I Capitolo: Verso il suffragio universale
In questo primo capitolo viene analizzato il percorso di acquisizione del diritto di voto da parte delle donne. Verranno illustrate le differenze e le somiglianze nella comparazione tra i diversi Paesi identificandone le ragioni. Lo studio si concentrerà nella analisi dei fattori che hanno reso possibile la ratifica del suffragio universale e nel capire se quest’ultimo sia stato un diritto realmente conquistato o più semplicemente concesso. I risultati della ricerca dimostrano che le motivazioni che mossero i governi ad ammettere le donne al voto furono, quasi sempre, dovute a contingenti strategie partitiche mirate ad una ricerca di ampliamento del corpo elettorale. I movimenti suffragisti, invece, giocarono un ruolo cruciale solo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. (Przeworski 2009) Affinché il 96% dei Paesi del mondo ratificasse il suffragio omnibus ci sono voluti esattamente 100 anni: iniziò la Nuova Zelanda nel 1883 e concluse il Sud Africa nel 1993. Fino al 1900, però, soltanto la colonia autonoma inglese della Nuova Zelanda aveva riconosciuto il diritto di voto anche alle donne, ed appena 17 Stati avevano esteso tale diritto limitatamente a tutti i maschi senza differenze di classe, di reddito o di istruzione. A partire dalla seconda metà del XX secolo, il suffragio universale “become an irresistible norm” (Przeworski 2009, 291) È dunque possibile dividere l’acquisizione del diritto di voto femminile in tre fasi: la prima dal 1900 al 1930, la seconda dagli anni ’30 all’inizio degli anni ’50 e la terza fino agli anni ’90. La prima fase interessò principalmente i Paesi europei come Gran Bretagna, Finlandia, Norvegia, Danimarca, Lussemburgo, Cecoslovacchia ed Austria; Paesi per la maggior parte ricchi, costituzionalmente formati e politicamente stabili. (Ramirez, Soysal e Shanah 1997) Nel
secondo
periodo
in
Paesi
appena
decolonizzati,
fu
ratificato
contemporaneamente sia il diritto di voto per uomini che per donne. Esempi furono Brasile, Uruguay e Cuba. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, il diritto di voto si estese in molti di quei Paesi, come la Francia, che avevano ratificato il suffragio universale maschile già da moltissimi anni. (Ramirez, Soysal e Shanah 1997)
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La terza fase vede l’estensione in molti Stati africani ed asiatici. L’unica grande ed eclatante eccezione rimase quella riguardante la Svizzera. Tale nazione ratificò il suffragio femminile nel 1971, ben 123 anni dopo quello maschile. Il ritardo è “giustificato” dal fatto che per modificare la legge era necessaria l’approvazione popolare (maschile) tramite referendum. La maggioranza degli uomini si espresse favorevolmente al voto femminile, come detto, solamente nel 1971. (Giger 2009) In seguito vedremo anche che “a discourse on universal rights for individuals that explicity included women became strongly linked to national independence, national development, and political citizenship.” (Nadelmann 1990, 483) Il fattore religione, e la posizione che le diverse chiese assunsero nel percorso di ampliamento al diritto di voto, è stato, soprattutto in Europa, di rilevante importanza. La Chiesa Cattolica si oppose a lungo al suffragio femminile. Nel 1919 Papa Benedetto XV cambiò posizione e supportò la causa del voto alle donne, molto probabilmente ritenendo che queste votassero compattamente a favore del conservatorismo cattolico. (Przeworski 2009) Questo capitolo è quindi strutturato seguendo, in sequenza: il ruolo giocato dai movimenti femministi, il collegamento tra presenza religiosa e concessione del suffragio, ed infine la correlazione tra acquisizione dell’indipendenza ed allargamento del bacino elettorale.
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1.1 Il movimento delle Suffragette I movimenti femminili per il suffragio universale e per la parità di diritti, nacquero per “contradictions between the abstract individual and the gendered boundaries separating the public domain and the familiar domain” (Connel 1990, 510) Queste contraddizioni ebbero la maggiore evidenza in Occidente, dove i diritti dei singoli cittadini si affermarono in precedenza ed in maniera più diffusa. (Ramirez, Soysal e Shanah 1997) Se prima l’esclusione dal voto era dovuta a fattori legati alla classe ed al censo, dalla fine del XIX secolo la maggiore rivendicazione divenne quella rispetto al voto di genere. (Fig.1)
Figura 1
(Przeworski 2009, 301)
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Fino al 1914 il suffragio venne a mano a mano esteso con il solo riferimento alla classe di appartenenza in 112 Paesi e, in quattro casi soltanto rispetto al genere. Dalla fine della prima guerra mondiale l’estensione per classe perse progressivamente piede, per lasciare sempre più il passo ad una estensione nei confronti di uomini e donne di bassi ceti sociali. (Przeworski 2009) Ogni tipo di estensione del voto collegata o alla classe, o al genere, ovvero ad entrambi, ha infatti sempre seguito delle “regole” o comunque delle costanti; “pure class extensions cannot occur if suffrage is universal for males; extensions by gender alone can occur only if women cannot vote already at the same basis as men; extensions by class and gender can occur only if not all males and females can vote already.” (Przeworski 2009, 303) Fino alla prima decade del ‘900, poiché si riteneva che le donne non fossero capaci di prendere decisioni consapevoli nella sfera politica perché “non indipendenti”, si pensava che concedere il suffragio universale avrebbe significato semplicemente moltiplicare per due le preferenze di voto degli uomini. (Przeworski 2009) Questa convinzione era considerata tanto ovvia ed inconfutabile, che furono registrati casi nei quali i padri legislatori, neppure specificarono la restrizione di genere per il diritto al voto. Ad esempio, nel 1776 nel New Jersey per un errore di trascrizione non si aggiunse la parola ‘man’, invitando così tutti gli abitanti a partecipare al voto. (Johnson 1913) Nel Cile, nel 1874, non venne menzionato il sesso come requisito per ottenere la cittadinanza. (Maza Valenzuela 1995) Altro esempio in Francia, nel 1885, quando una suffragetta chiese di accedere al diritto di voto perché nella dizione tout français “ovviamente” erano comprese anche le donne. (Lloyd 1971) Le origini del movimento delle suffragette devono essere rintracciate nella rivoluzione industriale. A partire dal XIX secolo infatti, le donne, iniziando anche loro in modo massiccio ad entrare nel mondo della produzione, rendendosi ben conto delle disparità presenti tra i due sessi, risposero costruendo una rete sempre più fitta di organizzazioni volontarie promotrici delle “feminine virtues”. (Miller 2008) La nascita del movimento delle suffragette andò quindi progressivamente crescendo attraverso la creazione di queste organizzazioni volontarie che rivendicavano un nuovo ruolo della donna non solo nella vita pubblica (politica e lavorativa), ma anche nella sfera privata.
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Le suffragette di solito appartenevano alla classe media/alta con identità spiccatamente religiose del tipo cristiano-protestante. (Miller 2008). Le donne provenienti dalle classi più povere, da sempre abituate a lavorare nelle fattorie agricole o direttamente nei campi o quali aiutanti domestiche, anche per il fattore analfabetismo, erano assolutamente non inclini ad ogni possibile emancipazione. Le suffragette invece nacquero e crebbero proprio perché la maggiore alfabetizzazione, nonché il lavoro di fabbrica, al di fuori del ristretto ambito domestico, rese loro ampia partecipazione alla sfera pubblica. (Przeworski 2009) Il movimento nacque negli Stati Uniti a metà dell’ ‘800, ma si sviluppò anche in molti altri Paesi, primo fra tutti la Gran Bretagna. Proprio negli Stati Uniti nel 1848, si svolse a New York, sotto la guida di Lucretia Mott e Elizabeth Cady Stanton, la famosa prima convenzione sui diritti delle donne (Miller 2008). La fine della guerra d’indipendenza non vide i risultati sperati, tuttavia la mancanza di questi e la determinazione delle partecipanti al movimento, non fece altro che rinvigorire ed internazionalizzare il movimento stesso. Le suffragette della Gran Bretagna, degli Stati Uniti, dell’Australia e della Nuova Zelanda sin dal 1860, mantennero stretti contatti organizzativi extra-nazionali e l’effetto avuto dall’allargamento del suffragio in questi ultimi due Paesi ed in Finlandia (1907) fu come la rottura di una diga per i movimenti suffragisti internazionali. (Przeworski 2009)
The miracle has happened! On May the 29th the Finnish Diet agreed to an Imperial proposal from the Czar concerning changes in the constitution of Finland, which
changes
also
political
suffrage
and
eligibility
to
the
Dietfor
Women,marriedandunmarried,on the same conditions as for men.... Our vic- tory is in all cases great and the more so as the proposal has been adopted almost without opposition. The gratitude which we women feel is mingled with the knowledge that we are much less worthy of this great success than the women of England and America, who have struggled so long and so faithfully, with much more energy and perse- verance than we. I use this occasion to bring the thanksfrom the women of Finland to our sisters all over the world who have, by their untiring work, educated public opinion and thus enabled us to gain our rights. May we be worthy of them! Alexandra Gripenberg (1906)
(Gripenberg 1906, 155)
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Dalla lettura di questo testo, sembra come se la suffragetta finlandese Gripenberg stesse sì festeggiando per il risultato ottenuto, ma soprattutto intendesse elogiare chi realmente stava combattendo per il diritto di voto: americane ed inglesi. Gli anni cruciali per l’ampliamento del voto, in alcuni casi solo maschile in altri anche femminile, furono proprio quelli successivi alla prima guerra mondiale. Eccetto che per l’Italia, la quale votò con il suffragio maschile nel 1912 affinché venisse supportato l’intervento il Libia, nessuno dei Paesi che parteciparono alla guerra estesero il suffragio prima del 1914. Dal 1918 al 1922 molti Paesi, tra cui la Germania e gli Stati Uniti, concessero il voto alle donne. Le inglesi dovettero aspettare il 1928. Il ritardo in gran Bretagna, piò essere spiegato dal fatto che in questo Paese il movimento femminile ebbe grandi avversari in personaggi quali i primi ministri William Gladstone e Benjamin Disraeli nonché da parte della stessa regina Vittoria, ma il contributo delle suffragette durante lo sforzo bellico, determinò un orientamento positivo nell’opinione pubblica e, dal 1918 al 1928, le donne ottennero un graduale riconoscimento dei diritti politici, fino alla completa parità. (Miller 2008) Lo stesso avvenne per la seconda guerra mondiale. Non ci furono molte estensioni prima della guerra e nessuna durante la guerra, ma queste risultarono numerosissime dopo la fine del conflitto. Bisogna ricordare che in molti Paesi le elezioni furono anche interrotte nel corso della guerra; successivamente più della metà dei Paesi appartenenti alla seconda fase di estensione, ratificarono il suffragio universale. (Przeworski 2009) Anche la figura numero 2 conferma quanto appena affermato. La tabella presenta la correlazione tra alcune variabili dicotomiche (classe, genere, entrambe, nessuna delle due) ed i periodi precedenti e successivi le due guerre mondiali. Volgendo l’attenzione principalmente alla variabile di genere, si nota che il periodo che precede l’inizio delle due guerre mondiali, non determinava mutamenti, mentre gli allargamenti di suffragio che includevano le donne furono molto più presenti nei dopo guerra. È quindi possibile affermare che sia con la fine del primo conflitto mondiale che con la fine del secondo intesi come periodi di grandi sconvolgimenti e ricostruzioni, si siano verificate sempre migliori condizioni per l’allargamento del suffragio femminile, parallelamente all’accelerazione al processo dell’entrata delle donne nel mondo del lavoro. (Przeworski 2009)
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Figura 2
(Przeworski 2009, 306)
Nei casi inglesi e statunitensi, Paesi nei quali i movimenti che auspicavano l’allargamento del diritto di voto si svilupparono più che in altri, le battaglie delle suffragette contribuirono realmente a suddetto allargamento da considerare quindi come una vera e reale conquista delle donne. Negli altri Paesi sembra invece che il movimento suffragista non basti per spiegare le ragioni ed il periodo nel quale si decise per l’estensione. Chiesa Cattolica,
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partiti politici, ed alcuni contro-movimenti, determinarono realmente e con precise strategie il momento dell’ingresso delle donne nel voto. (Przeworski 2009)
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1.2 Suffragio: conquistato o concesso?
“If parties seek to maximize their vote shares, any party wants to enfranchise women if it expects that the share of the vote it would receive from them would be larger than its current share in the male electorate.” (Przeworski 2009, 315)
L’allargamento del suffragio, dal momento in cui divenne fatto inevitabile, fu anche questione di maggiore o minore convenienza. In un certo senso la domanda che si pone è la seguente: perché, nel rimandare la data di universalizzazione del suffragio, alla fine gli Stati hanno ceduto in un particolare momento storico?. Partiti politici ed ambiti religiosi capirono che, dalla fine della prima guerra mondiale in poi, il voto delle donne non sarebbe stato semplicemente una moltiplicazione per due dei voti degli uomini, ma una vera e propria fonte di vittoria tra schieramenti diversi. Si iniziò quindi a pensare al voto femminile come ad un voto diverso da quello maschile perché mosso da attese, comportamenti e preferenze differenti; a seconda della potenziale inclinazione politica, il suffragio universale venne supportato più dai partiti di destra che da quelli di sinistra e viceversa. Nessuno dei primi sei Paesi che concessero il diritto di voto alle donne, era a predominanza cattolica (Nuova Zelanda, Australia, Finlandia, Danimarca, Norvegia, Paesi Bassi). I primi Paesi Cattolici che ratificarono il suffragio femminile, aspettarono la fine della prima guerra mondiale (Austria, Polonia, Irlanda e Spagna), ma la restante e più cospicua parte degli altri Paesi a medesima confessione autorizzò il voto femminile solo dopo la seconda guerra mondiale (Italia, Francia, Ungheria e gran parte dei Paesi Sud Americani). (Przeworski 2009) Nonostante il fatto che la Chiesa di Roma, dopo anni di forte ostruzionismo, avesse deciso con Papa Benedetto XV , a partire dal 1919, di appoggiare il suffragio universale, molti Paesi ritardarono comunque di molto l’estensione del voto alle donne; quindi la ragione del ritardo non può più essere attribuita direttamente alla Chiesa, (Przeworski 2009) semmai alla tardiva presa di coscienza dei partiti a questa affiliati, vale a dire quelli conservatori.
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Nei Paesi non a maggioranza cattolica, dove il voto delle donne era in previsione considerato più a sinistra degli uomini, i partiti che appoggiarono il suffragio furono quelli di sinistra; nei Paesi a maggioranza cattolica, che vedevano le donne più tradizionaliste, accadde il contrario. (Przeworski 2009) Questa semplificazione è supportata da numerosi esempi. Il Partito Radicale Francese, ritenendo che le donne sarebbero state fortemente influenzate dalla Chiesa Cattolica nel voto a destra, non avanzarono la richiesta di suffragio nel periodo nel quale governarono (anni ’20). I Socialisti belgi nel loro programma politico avevano incluso, come prerogativa proprio quella del diritto di voto, ma quando si trovarono costretti, nel 1906, a coalizzarsi con i Liberali, forti oppositori dell’allargamento, rinunciarono all’idea; ancora nel 1923 un socialista aveva paura che “If you give the vote to women, ... Belgium will become one large house of Capuchins (capucinière).” (Stengers 1990, 87) In Spagna, nel 1931, quando si approvò il suffragio femminile, alcune delle più affermate donne socialiste, nonostante avessero votato a favore, non esitarono nel manifestare il loro scetticismo per la scontata perdita di voti che lo stesso allargamento avrebbe portato al loro partito. (Przeworski 2009) Al contrario nella Finlandia protestante i partiti della sinistra socialista, verificando che potenzialmente le donne sarebbero state più propense a votare a sinistra degli uomini, appoggiarono fortemente l’entrata in vigore del suffragio. Caso opposto in Germania e soprattutto nella “ultracattolica” Italia. (Przeworski 2009) Quindi, per concludere, il suffragio universale nei Paesi Cattolici venne raggiunto principalmente quando al governo erano i partiti cattolici-conservatori. Analizzando meglio i due Paesi presi in considerazione in precedenza, Francia e Belgio, i socialisti non usarono mai i loro poteri per allargare il voto. Ad esempio, nel primo dei due Stati, sia le Cartel de Gauches che le Front Populaire , quando furono al governo nel periodo tra le due guerre, ipotizzando che il voto delle donne avrebbe contribuito alla loro sconfitta, non fecero nulla per far passare qualsiasi tipo di allargamento. Si dovette aspettare l’arrivo dei Cristiano-Democratici, appena dopo la seconda guerra mondiale, per approvare nel 1945 il suffragio delle donne. In Belgio, dove i Socialisti sedettero al governo sia prima che dopo la seconda guerra mondiale, il voto omnibus arrivò solo nel ’49 quando si insediarono i Cristiano-Democratici.
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Nei Paesi a predominanza non cattolica, a loro volta, i partiti di destra non concessero mai il voto alle donne. In Norvegia e Nuova Zelanda il suffragio arrivò sotto governi Liberali, in Danimarca e Svezia sotto la coalizione liberal socialista democratica. (Przeworski 2009) L’unico caso “fuori dal coro” fu la protestante Gran Bretagna, che approvò il suffragio sotto un governo conservatore, ma questa anomalia è in linea con le affermazioni portate avanti nel corso del paragrafo 1.1. In questo Paese il voto per le donne fu davvero una conquista, raggiunta a prescindere dal susseguirsi dei governi. Ma al momento dell’effettiva estensione del voto, realmente i partiti che avevano appoggiato il suffragio riuscirono a vincere? In Finlandia nelle elezioni del 1906, l’SDP, Socialdemokratiska Arbetareparti, la Social-democrazia finlandese, effettivamente andò al governo. In Danimarca, nel 1915, il partito Liberal-socialista, in danese Venstre - Danmarks Liberale Parti, vinse sui conservatori. In Norvegia, nello stesso anno, la Venstre, rappresentata dal Partito liberaldemocratico, vinse sulla Høire (destra). In Svezia, nel 1920, Social-democratici e Liberali ottennero una forte maggioranza. Caso particolare fu quello spagnolo, nel 1931. In questo anno si svolsero le prime elezioni libere dopo la dittatura di Miguel Primo de Riveira (1923-1930) e gli elettori, tutti, non furono chiamati a scegliere principalmente tra partiti di destra o di sinistra, ma più che altro tra repubblica e monarchia. Nonostante il suffragio femminile venne appoggiato da molte forze conservatrici e, numericamente, i partiti monarchici tradizionali ottennero effettivamente la maggioranza, in realtà quelle elezioni portarono all’avvento della così chiamata “Seconda Repubblica Spagnola” a seguito della quale vennero messi in discussioni molti simboli del tradizionalismo, primo fra tutti la Chiesa. 3 Anche per i Paesi a predominanza cattolica, nei quali le destre spingevano molto per un allargamento del suffragio, le previsioni risultarono, quasi sempre, corrette. In
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Proprio quell’anno Manuel Azaña Díaz, fondatore del partito Acción Republicana, all'epoca
ministro della Guerra, a seguito delle violenze contro la Chiesa compiute dalle formazioni politiche radicali, socialiste, anarchiche e comuniste e che portarono alla distruzione di 160 Chiese ed al saccheggio di altre 251, affermò: « Tutti i conventi di Madrid non valgono la vita di un solo repubblicano.» (Thomas 1963, 55)
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Francia il conservatore De Gaulle, protagonista indiscusso della scena elettorale, vinse ampiamente, portando il suo Paese verso la V Repubblica. In Italia, la fine dell’esperienza monarchica, portò al potere la potente, conservatrice, ultra-cattolica, DC guidata da Alcide De Gasperi. In Germania, invece, nel 1919, prima tornata elettorale sotto la Repubblica di Weimar, la Social-Democrazia tedesca (SPD), fu il partito che ottenne più voti in assoluto conquistando 163 seggi su 421. Bisogna notare però che se si sommassero i voti presi dai diversi partiti “tradizionalisti” (Partito Democratico Tedesco, Partito del Centro, Partito Popolare Tedesco-Nazionale) il blocco conservatore, che dopo la seconda guerra mondiale si unirà sotto un unico simbolo, la CDU, pur non andando al governo in realtà conquistò la maggioranza dei seggi. In questo caso, quindi, le previsioni di coloro che appoggiavano il suffragio erano state giuste, ma a causa di una divisone interna alle destre, la sinistra progressista vinse. All’inizio di questo capitolo ci si aspettava che i Paesi a predominanza cattolica, da sempre più chiusi e meno disposti a cambiamenti, avessero sempre contrastato la ratificazione del suffragio. In realtà si è visto che anche in questi Paesi i partiti conservatori spingevano molto per una estensione del voto alle donne poiché avevano previsto che questa avrebbe giocato a loro favore. Da questa affermazione, presupponendo un’alternanza di governi progressisti e conservatori nei diversi Paesi, ci si dovrebbe aspettare che non per forza i Paesi cattolici siano gli ultimi a ratificare il suffragio femminile. Przeworski però dimostrò il contrario. La tabella 5.5 evidenzia che, effettivamente, i Paesi che ratificarono più tardi il voto femminile furono proprio quelli cattolici come Belgio, Italia, Spagna e Francia. Le motivazioni di questo ritardo sono, quindi, di nuovo messe in discussione. Da una parte si presuppone uno scollegamento tra la religione ed il ritardo nell’estensione del suffragio, poiché non si può dire dire che la Chiesa abbia disincentivato l’apporvazione del suffragio universale -basti pensare al monito del Papa nel 1919; dall’altra, di fatto, l’approvazione del voto omnibus nei Paesi cattolici fu effettivamente tardiva.
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Figura 3
(Przeworski 2009, 318)
Le ragioni potrebbero essere ricercate in un combinato disposto di più situazioni: nei Paesi cattolici i movimenti delle suffragette non ebbero quasi alcun tipo di importanza poltica; la classe dirigente dei partiti cattolici, forse, nel trade-off emancipazione delle donne-conservazione dei valori tradizionali, preferiva ancora la seconda opzione; le donne lavoratrici erano, in quei Paesi, una percentuale molto bassa e quindi questa situazione non faceva vedere loro la necessità di far valere la loro voce in campo poltico.
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1.3 La finestra di opportunità
“The Principal of my Reform is to prevent the necessity of revolution. I am reforming to preserve, not to overthrow.” Earl Grey speaking in the 1831 parliamentary debate on extending suffrage. (Przeworski 2009)
La Rivoluzione Francese del 1789 aveva sottoposto la maggior parte dei Paesi Europei a periodi di grandi agitazioni popolari mosse dalla richiesta di una estensione dei diritti; in alcuni casi questa venne totalmente rigettata opponendo una forte resistenza, in altri venne effettivamente portata avanti una parziale ridefinizione dei medesimi. (Przeworski 2009) Fu proprio il caso della Gran Bretagna del conservatore Earl Grey, il quale, insediatosi al governo nel 1930, riuscì a presentare al Parlamento una ambiziosa riforma elettorale (Reform Bill) la cui intenzione era quella del “reform to preserve”. Vari furono gli studiosi che cercarono di spiegare il perché di questa affermazione. Freeman e Snidal affermarono che le élites estesero il suffragio come risposta ad un declino di legittimità del sistema politico che avrebbe portato conseguenze ancora peggiori di quelle determinate dalla estensione del voto. (Freeman e Snidal 1982) Conley e Temini argomentarono che l’allargamento avveniva quando coloro che ancora non possedevano il diritto al voto, entrati in conflitto con coloro che invece già lo possedevano, presentavano a questi ultimi una minaccia credibile realmente in grado di spaventarli. (Conley e Temini 2001) Przeworski schematizzò le diverse affermazioni in quattro principali punti: - qualunque esclusione equivale ad una privazione; - coloro che vengono esclusi prima o poi sicuramente attueranno una rivoluzione e questo equivarrà ad un deficit di legittimità delle élites; - anche se un allargamento dei diritti comporterà conseguenze dirette nella vita delle élites, il trade-off porterà queste ultime a preferire una estensione invece che vedere come concreto il rischio di una rivoluzione; - una volta ammessi, i nuovi cittadini useranno i loro diritti all’interno del sistema, abbandonando la strategia dell’insurrezione, nel senso che saranno assolutamente incapsulati ed integrati dal sistema medesimo. (Przeworski 2009)
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In questo senso, molto probabilmente, Early Grey intendeva il “reform to preserve”. Sembra una impostazione che prevede la scelta del “minor male”: concedere l’allargamento per non incorrere nella minaccia rivoluzionaria. Come visto in precedenza, ogni allargamento del bacino elettorale è stato preceduto da un evento più grande come poteva essere una guerra, i moti rivoluzionari, come la fine dei periodi di colonizzazione. Risulta quindi che i periodi di rivoluzione rappresentino per l’estensione dei votanti una “window of opportunity”. (Ramirez, Soysal e Shanah 1997)
Countries are more apt to reconceptualize citizenship when a regime changes and/or after decolonization. Furthermore,the data illustrate that over time, independence and the enactment of suffrage for both men and women (universal suffrage) become not a string of disparate events, but a single political process. (Ramirez, Soysal e Shanah 1997)
Se nei paragrafi precedenti si è dimostrata la correlazione tra l’estensione del voto e la guerra, i movimenti suffragisti, i partiti al potere e le diverse identità religiose, il prossimo obiettivo sarà quello di studiare la correlazione tra la concessione del voto ed il periodo di acquisizione dell’indipendenza. Si potrebbe giustamente pensare che tutte queste variabili potrebbero essere considerate delle “window of opportunity”, ma sarà evidenziato che solamente il fattore indipendenza è l’unico che abbia costantemente influenzato l’acquisizione del voto. (Ramirez, Soysal e Shanah 1997) Se infatti dividessimo in due parti i 100 anni durante i quali quasi tutti i Paesi del mondo hanno scelto di concedere il suffragio universale, è possibile dimostrare che nel primo periodo (1890-1930) i movimenti femminili abbiano effettivamente giocato un ruolo predominante, mentre nel secondo periodo -dal 1930 in poi, principalmente dopo la prima guerra mondiale- si è assistito ad un cambiamento globale di riorganizzazione politica internazionale, principalmente dopo la II guerra mondiale. (Ramirez, Soysal e Shanah 1997) In entrambi i periodi i cambiamenti che portarono all’allargamento del diritto di voto presupponevano, in molti casi, anche l’acquisizione dell’indipendenza nazionale. In tal senso si evince la correlazione tra allargamento del suffragio ed il momento dell’indipendenza.
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La tabella presente nella figura 4 conferma quanto appena affermato. Guardando i dati riguardanti le battaglie politiche ed i movimenti sociali, bisogna precisare che con la voce “western status” si intendono tutti i Paesi dell’ovest europeo, molti dell’est Europa, ed anche le colonie “white settler” di Australia, Canada, Nuova Zelanda e Stati Uniti. Questa variabile si riferisce alla distinzione tra un Paese politicamente modernizzato o non (1 se lo era 0 se non lo era quasi per nulla). Per “welfare citizenship”, ci si riferisce alle iniziative governative volte al suffragio femminile. La voce “national organization” si riferisce alla forza dei movimenti politici femminili presenti in ogni Paese a livello nazionale. Come notiamo proprio la forza di questa ultima categoria è effettivamente più alta nel primo periodo, mentre la spinta ricevuta da parte delle istituzioni è maggiore nel secondo. Inoltre, il primo dato conferma anche che effettivamente gli Stati dell’Ovest abbiano manifestato prima degli altri una propensione ad attuare politiche meno maleoriented o male-dominated. Nella categoria della “world culture” e dell’ “isomorphism”, le prime due voci, si riferiscono al possibile contagio tra Stati limitrofi e tra le regioni/Stati di un’unica nazione. All’interno di uno Stato composto di vari Stati/regioni, poteva verificarsi un “effetto domino” se le autonomie territoriali iniziavano ad includere nel voto le donne. Nel caso in cui si tratti di un Paese priva di una divisione regionale, la “peer pressure” potrebbe essere spiegata attraverso la vicinanza geografica con altri Stati che già hanno ratificato l’entrata delle donne nel voto. La tabella dimostra che questo “gioco di pressione”, è maggiormente presente dagli anni ’30 in poi poiché, fino al 1930, 14 Paesi europei avevano esteso il suffragio mentre, in Asia, solamente due, non riuscendo quindi a “contagiare” anche altri Stati, relativamente limitrofi. (Ramirez, Soysal e Shanah 1997)
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Figura 4
(Ramirez, Soysal e Shanah 1997, 741)
Il concetto del “contagio regionale” può essere spiegato meglio osservando questa cartina degli Stati Uniti d’America. Risulta subito visibile che negli Stati occidentali, in particolare in Utah, Colorado, Idaho e Wyoming, il voto femminile venne concesso molto prima che nei Paesi dell’Est. Alcuni storici suggeriscono che: “Frontier conditions were amenable to women’s suffrage because women supported restrictions on common western vices (drunkenness, gambling, and prostitution) or because the harsh realities of frontier life made it
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impossible to maintain traditional gender roles” (Miller 2008) Gli Stati orientali, invece, ratificarono quasi tutti intorno al 1920.
Figura 5
(Miller 2008, 1292)
Tornando alla tabella della figura 4, la terza misura dell’isomorfismo, si riferisce alla capacità dei movimenti suffragisti di aiutarsi vicendevolmente e si dimostra che, effettivamente, questa aumentò più di tre volte. Anche in questo campo si conferma quindi che, dagli anni ’30 in poi, il contesto internazionale pesava di più i quello interno. Infine il parametro relativo alla “independence era”, fu l’unica variabile sempre significativa in entrambi i periodi, vera catalizzatrice di cambiamento.
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Figura 6
(Ramirez, Soysal e Shanah 1997, 738)
Quindi, in conclusione, si può affermare che i fattori nazionali furono quelli che influenzarono maggiormente il suffragio universale nel corso del primo periodo, mentre gli eventi internazionali quelli del secondo (Fig. 6). Questa affermazione è resa possibile osservando guardando i tre indicatori di isomorfismo che dimostrano risultati statisticamente più ampi e significativi dal 1930 fino agli anni ’90. Per riassumere, l’era dell’acquisizione dell’indipendenza ha sempre costituito una finestra di opportunità per l’approvazione del suffragio universale. Ma come si comportarono le donne successivamente all’acquisizione del voto? Come “usarono” questo neo-diritto?
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II Capitolo: Le donne alle urne - Il traditional gender gap
Questo capitolo esamina il comportamento di voto delle nuove elettrici comparandolo anche con le preferenze espresse dal corpo elettorale maschile. Si anticipano due aspetti di rilievo: il primo riguardante un generalizzato, maggiore livello di astensione da parte delle donne; il secondo, una più marcata propensione verso i partiti di destra sempre da parte del bacino elettorale femminile.
Public opinion as a whole, therefore, seems rather unfavourable to political activity by women. Alain has excellently described the traces of that primitive mentality which regards war as a ‘sport for men’; there is a similar tendency to regard politics as a man’s affair. The club, the forum, debates, Parliament and political life in general are still considered to be typically masculine activities. Women’s participation in them usually takes the form of an ‘example’ to be followed. (Duverger 1955)
Successivamente alla seconda guerra mondiale, quando nella maggior parte dei Paesi fu decisa la ratifica del suffragio universale, era tuttavia ancora presente una forte componente anti-femminile che non accettava l’idea della donna inclusa nella scena politica. Sicuramente questo sentimento “maschilista” era già sensibilmente diminuito negli anni tra le due guerre, ma il decremento registrava comunque differenze molto ampie tra i Paesi. Una visione più maschilista rimaneva un aspetto peculiare dei paesi latini, mentre perdeva progressivamente importanza nei paesi anglosassoni e nordici. Nei paesi più a sud, infatti, questa differenza era presente non solo nell’ambito famigliare, ma anche in quello più vasto riguardante la posizione sociale e lavorativa che la donna ricopriva o che si accingeva a ricoprire. La sua indipendenza finanziaria era ancora fortemente circoscritta ed assolutamente non largamente promossa. (Duverger 1955) Per questi ed altri motivi, la politica era vista non solo dagli uomini ma anche da molte donne, come uno “sport maschile”. Tralasciando ragioni proprie ad ogni Paese, questa situazione disincentivava buona parte del nuovo corpo elettorale femminile a
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recarsi alle urne con differenziazioni più o meno evidenti a seconda dei diversi Paesi. (Duverger 1955) Le donne che invece sceglievano di esprimere il diritto di voto, differivano dagli uomini per un voto di solito più a destra e le ragioni possono essere cercate nel fatto che di solito erano più “apathetic, parochial, conservative, and sensitive to the personal, emotional, and aesthetic aspects of political life and electoral campaigns.” (Almond e Verba 1963, 325). Prima di approfondire le motivazioni di questo atteggiamento più a destra, bisogna fare una precisazione in merito a cosa si intende per partiti conservatori. Questi non necessariamente avevano una visione effettivamente conservatrice su ogni aspetto politico e neppure i partiti di sinistra, di solito Socialisti, erano progressisti rispetto ad ogni questione; in generale, però, i partiti posizionati a destra erano più interessati nel mantenimento di assetti tradizionalisti sia con riferimento a temi economici che a temi sociali e politici mentre i partiti socialisti tendevano a spingere per riformare detti temi. Per semplificare il lavoro che seguirà, anche se un partito di destra risulterà essere meno conservatore di un partito di sinistra rispetto ad alcuni temi, questo non scardinerà l’assetto generale appena spiegato che vuole i partiti di destra più conservatori di quelli di sinistra. Questo capitolo quindi affronterà prima il tema del voto/astensione ed in seguito riporterà anche alcuni studi sociologici appartenenti al periodo degli anni ’60 e ’70 riguardanti la posizione sociale della donna e ad una iniziale trasformazione della sua scala valoriale come conseguenza del cambiamento nello stile di vita.
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2.1 L’astensionismo post-suffragio
Il primo studioso che cercò di analizzare “The Political Role of Women”, (UNESCO 1955) fu il politologo Maurice Duverger. Nel 1952-53 il Dipartimento delle Scienze Sociali dell’Unesco, condusse delle indagini riguardanti lo status delle donne. I sondaggi furono realizzati in quattro Paesi, diversi per certi aspetti e simili per altri: Francia, Germania Ovest, Norvegia e Jugoslavia. Un punto molto importante che deve essere precisato, riguarda il periodo storico nel quale ogni Paese decise di ampliare il suffragio alle donne: la Norvegia nel corso della prima guerra mondiale, alla fine del conflitto la Germania, dopo la seconda guerra per la Yugoslavia e la Francia. La domanda di partenza fu la seguente: “How, in actual fact, have women exercised the suffrage granted to them?” (Duverger 1955, 14) Duverger, prima di analizzare il reale comportamento delle donne neo-votanti, osservò anche i dati relativi alle astensioni. Lo studioso, conducendo dei sondaggi sia prima che dopo le elezioni, constatò che generalmente le donne decidevano per chi votare “last-minute” o meglio dire “last week”. Ad esempio in un referendum francese svoltosi nell’Ottobre del 1946, circa il 30% delle donne decise per chi votare nel corso dell’ultima settimana, contro il 21% degli uomini. (Duverger 1955) Lo studioso volle constatare se l’indecisione per chi votare, in alcuni casi, non si trasformasse anche in una astensione dal voto e quindi se, una maggiore indecisione delle donne prima dell’election day equivalesse anche ad una loro maggiore astensione. Utilizzando una precedente indagine, effettuata dall’Istituto di ricerca The Hauge, Duverger elaborò tre ipotesi: (a) le donne si astenevano dal voto più degli uomini; (b) la differenza tra i due gruppi non era così marcata; (c) col passare del tempo il gap si assottigliava. Fu la Jugoslavia il Paese nel quale la differenza nell’astensionismo tra voto maschile e femminile, risultò minore; nelle elezioni del 1945, le uniche nelle quali fu possibile la reperibilità del dato, la differenza si attestò poco sopra l’1%. (Duverger 1955) In Germania, nelle 148 elezioni intercorse tra il 1920 ed il 1930 nei diversi Lander, 25 evidenziarono una differenza minore del 5%, in 66 la differenza di attestava
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tra il 5 ed il 10% ed invece in 49 elezioni il gap era compreso tra il 10 ed il 15%. Dal ’45 al ’53, il livello medio scese tra il 5-10%. (Duverger 1955) In Norvegia, con equiparazione di voto uomo-donna già in essere dal 1901, il dato variava da un minimo del 7% ad un massimo del 24%, anche se si constatò che con l’avvicinarsi degli anni ’50, il dato diminuiva. (Duverger 1955) In Francia il French Institute of Public Opinion, nel 1953, dopo aver condotto una specifica ricerca in merito al fenomeno dell’astensionismo, affermò che nelle elezioni avvenute in quell’anno, la differenza si era fermata al 12%, ma che nelle precedenti elezioni si era arrivati ad un 20%. (Duverger 1955) Quindi, alla metà degli anni ’50, vi era un numero più consistente di donne che si astenevano dal voto ed il fenomeno era molto più marcato in Francia, meno in Germania e molto poco rilevante in Jugoslavia. Vi erano però anche delle curiose eccezioni. In Jugoslavia, la Repubblica Popolare della Macedonia era l’unico Stato con una astensione da parte delle donne minore rispetto a quella degli uomini considerando anche che la popolazione femminile era leggermente inferiore di quella maschile. In Germania, nelle elezioni del 1919, le donne parteciparono al voto più degli uomini; una ragione potrebbe essere attribuita al fatto che la popolazione maschile fosse in quel momento lontana dal proprio domicilio ovvero perché i soldati sopravvissuti, moralmente abbattuti a causa della sconfitta in guerra, non avevano desiderio di partecipazione agli eventi politici. (Duverger 1955) In Norvegia, nel 1947, in alcune importanti città, la partecipazione femminile fu più ampia ed anche qui la motivazione fu attribuita al fatto che trattandosi tutte di città portuali, una forte componente di uomini si trovava via da casa poiché impiegata nella pesca e nel trasporto marittimo. (Duverger 1955) Infine in Francia, nelle municipali del ’52-’53, venne registrata una forte differenza tra uomini e donne nella città di Privas, a sud del Paese. Si osservò che l’Union féminine civique et sociale, associazione fortemente cattolica ed avente larga influenza in quella città, aveva svolto una concreta azione di sviluppo ed incoraggiamento al voto femminile, facendo così registrare un astensionismo molto contenuto. Duverger riscontrò questo dato anche alla situazione italiana, nella quale il numero delle donne astenute nei
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piccoli centri, nei quali la Chiesa aveva una maggiore influenza, era minore rispetto ai dati registrati nelle grandi città. (Duverger 1955) Per quanto riguarda l’avvicinamento del gap, lo studioso francese arrivò alle seguenti conclusioni: in Jugoslavia guardando con riferimento al solo periodo 1945-1950, la differenza di genere nell’astensione era variata di pochissimo (statisticamente insignificante); in Norvegia, osservando in maniera sequenziale le elezioni dal lungo periodo che va dal 1901 al 1951, vi è effettivamente un calo progressivo delle donne astenute; parimenti in Germania la tendenza diminuiva ma, a causa della separazione del territorio tedesco in Repubblica Federale e Repubblica Democratica, il periodo di osservazione compreso tra il ’47 ed il ’53 (anno dell’indagine) risultando troppo ridotto non poteva formare elemento d’indagine. Per la Francia non era stato possibile raccogliere informazioni adeguate per giungere ad una conclusione. (Duverger 1955). Lo studio mostrò anche altre due conclusioni. La differenza di astensione decresceva al diminuire del dato totale sull’astensionismo. In altre parole se la percentuale totale di uomini e donne che si astenevano era minore, la differenza tra i due gruppi tendeva sempre a diminuire. Rispetto invece al dato sull’affluenza, si osservò che minore era l’affluenza, maggiore era la differenza tra gli uomini e le donne astenute. Inoltre si fu riscontrato che il livello di astensione risultava maggiore nel caso di elezioni provinciali, minore in quelle nazionali. (Duverger 1955) Per quanto riguarda l’età, a prescindere dal genere, il numero degli astenuti era maggiore tra gli elettori più giovani e parimenti tra i più anziani. Nel primo caso, probabilmente, perché i giovani non erano ancora ben integrati nella comunità e non avevano ancora un preciso giudizio politico, nel secondo caso, con l’aumentare dell’età, si ipotizzò la crescita di un senso di inadeguatezza rispetto alla realtà circostante. In queste due fasce di età, la differenza uomo donna risultò molto poco marcata. (Duverger 1955) Un altro dato interessante riguarda la relazione astensione-professione. Tra la popolazione femminile tedesca, la percentuale più bassa di coloro che andavano a votare era stata registrata tra le donne impiegate nei lavori agricoli. Le più istruite, vale a dire colo che avevano un impiego professionale, votavano in proporzione sensibilmente maggiore.
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Questa differenza fu attribuita al fatto che le donne sia di giovane età che più adulte, che lavorano nel settore agricolo e che continuano a vivere a casa, in un ambiente ancora poco emancipato e molto anti-femminista, erano probabilmente meno inclini al ricorso alla espressione del voto. (Duverger 1955) Una ulteriore considerazione riguardala differenza tra donne occupate e non occupate. All’epoca le donne più vicine ad uno status di lavoro professionale maschile erano, di solito, non sposate e senza figli: il tipico esempio di donna emancipata dell’epoca. Le donne sposate, invece, nella maggior parte dei casi casalinghe, erano poco coinvolte e molto meno interessate alle politica. (Duverger 1955) Duverger portando avanti un altro studio relativo lo status di coppia delle donne, fece sorprendenti scoperte. Le donne sposate registravano il minor tasso di astensionismo, queste erano seguite dalle single, ma il fatto curioso riguardava le donne separate che, meno di tutte, partecipavano al voto. Tra gli uomini, invece, il tasso più basso di astensionismo veniva registrato tra i sigle, seguiti da quelli sposati e, molto più in basso, dai divorziati. (Duverger 1955) È possibile evincere che i separati si sentissero meno integrati nella società e quindi meno spinti al voto. Gli sposati, invece, avevano un comportamento di voto pressoché identico ma si vedrà in seguito determinato da quale componente della coppia. (Fig. 7)
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Figura 7
(Duverger 1955, 59)
Qual era quindi il comportamento di voto delle coppie, cioè dei mariti e delle mogli? Questi differivano od erano simili? Se simili quale componente della coppia emulava l’altro?
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2.2 Il problema senza nome Come in precedenza accennato, le donne, appena acquisirono/conquistarono il diritto al voto, manifestarono un comportamento di voto più spiccato a destra. Prima di analizzare i dati che Duverger incluse nella sua opera, bisogna capire perché ed in che modo le donne erano più conservatrici degli uomini. Seymour Lipset, quando nel 1960 pubblicò “The Political Man”, (Lipset 1960) opera riguardante le basi della democrazia nel mondo, parlò di valori conservatori presenti in particolar modo tra le casalinghe: Women, particularly housewives, are less involved in the intra-class communication structure, see fewer politically knowledgeable people with backgrounds and interests similar to their own, and are therefore more likely to retain the dominant conservative values of the larger culture. (Lipset 1960, 217)
Almond e Verba, con la pubblicazione di “The Civic Culture” (Almond e Verba 1963), testo di centrale importanza nella spiegazione delle diverse tipologie di orientamenti politici dei membri di una società, attribuirono il conservatorismo femminile a diverse ragioni: “Women’s conservatism was often attributed to their religiosity, their graeter longevity and differences in their social position, particularly regards to their participation in the paid work force”. (Almond e Verba 1963, 315) Per rispondere compiutamente al quesito inizialmente posto, è necessaria un’analisi sociologica riferita alla vita pubblica e privata delle donne degli anni ’50. È di grande aiuto citare ed approfondire l’opera di Betty Friedan, attivista femminista statunitense, la quale, nel 1963, pubblicò “The Femenine Mystique.” (Friedan 1963). Questo libro è il risultato di una accurata indagine sulla vita delle donne negli anni ’50 e ’60. Esso comprende interviste a numerose casalinghe ed ex compagne di università della autrice. L’importanza sociologica di questa opera non venne subito colta; solamente negli anni successivi Friedan venne riconosciuta come vera e propria precorritrice di studi
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riguardanti una questione che per lunghi anni non aveva avuto un nome: la reale condizione sociale della donna.
The problem lay buried, unspoken, for many years in the minds of American women. It was a strage stirring, a sense of dissatisfaction, a yearning that women suffered in the middle of the twentieth century in the United States. Each suburban wife struggled with it alone. As she made the beds, shopped for groceries, matched slipcover material, ate peanut butter sandwiches with her children, chauffeured Club Scouts and Brownies, lay beside her husband at night –she was afraid to ask even of her self the silent question- ‘Is this all?’” (Friedan 1963, 57)
Come anticipato in precedenza, Friedan decise di scrivere questo libro quando, alla fine degli anni ‘50, nel corso di una riunione del College da lei frequentato, intervistò le sue compagne di classe e si rese conto che nessuna di esse era felice di essere una casalinga. Iniziò una ricerca sociologica che la condusse ad identificare un “problem that has no name” (Friedan 1963) in grado di far emergere e spiegare le numerose problematiche che affliggevano la popolazione femminile americana. Prima di tutto scoprì che il processo di emancipazione delle donne aveva subito un rallentamento. Se, negli anni successivi alla prima guerra mondiale, il livello medio di istruzione delle donne aveva registrato un incremento, all’inizio degli anni ’50 incontrò una battuta d’arresto: la frequenza al college si era ridotta; nel 1958 era pari al 35% delle donne, mentre negli anni ’20, le ragazze che frequentavano gli studi erano pari al 47%. Inoltre, l’autrice, registrò un calo anche nell’età media del matrimonio: scese a 20 anni negli anni ’50 e, rispetto ai primi dati relativi ali anni ’60, circa 14 milioni di ragazze erano ufficialmente fidanzate all’età di 17-18 anni. Oltre a queste problematiche, si notò un aumento dell’uso dell’alcol da parte delle donne, una crescita del numero delle patologie depressive, ed un generale senso si infelicità e di insoddisfazione. (Friedan 1963) Fridman argomentò che la causa generale di questa generale involuzione della condizione della donna, era da ricercare nella idea della mistica della femminilità che direttori di giornali, educatori, psicoanalisti e sociologi, contribuivano a diffondere. (Friedan 1963)
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For over fifteen years there was no word of this yearning in the millions of words written about women, fos women, in all the columns, books and articles by expert telling women their role was to seek fulfillment as wives and mothers. Experts told them how to catch a men and keep him, how to breadfeed children (…) how to buy a dishwasher, bake bread, cook gourmet snails (…) how to dress, how to look. They learned that truly feminine women do not want careers, higher education, political rights. (Friedan 1963, 57-58)
Le ragioni del conservatorismo risiedevano proprio qui: la donna non poteva emanciparsi studiando, lavorando, intraprendendo una vita diversa rispetto ai modelli dati, perché quei modelli venivano continuativamente riproposti senza possibili alternative. L’autrice descrisse da una parte gli Stati Uniti del secondo dopo guerra, in preda al boom economico, al consumismo, ad un benessere trasversale e straripante, ma li dipinse anche come il cuore di questa mistica femminile che costringeva milioni di donne a vivere effettivamente come le immagini di giornali e riviste le volevano: “wives, mothers and housewives – and only wives, mothers and housewives.” (Friedan 1963, 61). Ma come votavano queste in definitiva?
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2.3 La tendenza di voto a destra delle donne Duverger, si interessò anche a questo tema e compì le dovute indagini negli stessi Paesi analizzati rispetto al fenomeno dell’astensionismo. Ovviamente, però, l’autore non incluse la Jugoslavia comunista a causa del voto di lista unico presente sulla scheda elettorale. (Duverger 1955) In Norvegia, la ricerca dimostrò che senza dubbio il voto delle donne era più conservatore.
Dal 1945 al 1949 si registrarono forti differenze: il Partito Popolare
Cristiano incrementò la differenza uomo-donna dai 22 punti percentuali del 1945 ai 30 del 1949; il partito Agrario invece, pur collocandosi a destra già nel ‘45 conquistò maggiormente l’elettorato maschile e questa tendenza si acuì nel ‘49; il partito conservatore raccoglieva più voti femminili, 5 punti percentuali di differenza, e parimenti non venne registrata una variazione significativa per il partito comunista, appoggiato principalmente da uomini. (Fig. 8)
Figura 8
(Duverger 1955, 51)
Anche in Francia il voto delle donne risultò essere più spostato a destra. Nel ’47 la differenza si registrò osservando i dati dei partiti di destra, quello Moderato ed anche il MRP (Movimento Repubblicano Popolare, con orientamento democratico cristiano), ma soprattutto con riferimento al blocco delle sinistre, nel quale la differenza maggiore si registrò nel Partito Comunista con più di 30 punti percentuali in più. Fino al ’52 la
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differenza di genere nel voto dato a socialisti e comunisti scese leggermente aumentando invece nell’altro grande partito progressista, l’RGR (raggruppamento delle sinistre repubblicane). A destra, sempre nel ’52, sia l’MRP che i moderati dell’RPF (Raggruppamento per la Francia fondato dal conservatore de Gaulle nel ‘47) registrarono una differenza di 6 punti percentuali a favore delle donne. (Fig. 9)
Figura 9
(Duverger 1955, 51)
Parimenti in Germania nelle elezioni del ’53, le donne risultarono simpatizzare maggiormente per i partiti di destra; i voti femminili ottenuti dal partito Cristiano Democratico (CDU) furono pari al 45,5% con picchi molto alti nella cattolica e conservatrice regione bavarese, contro il 37,9% dei voti maschili. Il partito Socialista (SPD) ottenne voti per un 26,6% dalle donne e per il 31,7% dagli uomini. (Duverger 1955)
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Altri partiti più piccoli come il Partito Liberale, raccoglieva più voti tra gli uomini, ed anche un altri due partiti storicamente spostati a sinistra come il DVP (Partito Democratico Tedesco) ed il FDP (Partito Liberale Democratico) ricevevano leggermente più voti dalla popolazione maschile. (Fig.10)
Figura 10
(Duverger 1955, 65)
Risulta inoltre interessante guardare alle differenze registrate in base all’età. Il partito del Zentrum (CDU più la CSU bavarese) era votato moltissimo tra le donne over 60, mentre il partito socialista SPD registrava il maggior numero di voti tra i ragazzi sotto i 33 anni. Le preferenze partitiche in Gemania possono essere maggiormente spiegate osservando un’altra tabella riguardante i voti distinti tra cattolici e protestanti, i primi più forti al Sud i secondi nei Lander del Nord. (Duverger 1955) ¾ dell’elettorato della CDU era cattolico; i votanti dell’SPD che predicavano la stessa religione scendevano a poco più di 1/3. (Duverger 1955) (Fig.11)
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Figura 11
(Duverger 1955, 66)
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2.4 Il gender gap Spostando l’attenzione oltreoceano, analizziamo i comportamenti di voto nella società americana; essi appaiono diversi. Non avendo a disposizione delle tabelle di voto simili a quelle usate per i Paesi europei menzionati, si è utilizzato un grafico che pubblicarono gli studiosi Pippa Norris e Ronald Inglehart in uno loro studio pubblicato nel 2000. Per il momento si esamina solo una parte del grafico, quella dal ’52 al ’64, rimandando al prossimo capitolo la visione completa del medesimo. Fino alla metà degli anni ’60 anche gli Stati Uniti confermano la stessa situazione riscontrata in Norvegia, in Francia ed in Germania. Seppur non così marcatamente, le donne -le “wives, mothers and housewives – and only wives, mothers and housewives.” (Friedan 1963, 61)- di cui parlava la Friedan, confermavano, anche in politica, la loro tendenza conservatrice. La differenza nel suddetto periodo si manifestava in un range compreso tra il 3 ed il 5%. (Friedan 1963) Figura 12
(Inglehart e Norris 2000, 445)
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Fino ad ora si è sempre parlato di: differenza di genere nel voto, differenza maschile e femminile nel comportamento elettorale, differenza uomo/donna nelle scelte di voto ma, seppur questo fenomeno sia sempre esistito sin da quando venne legiferato il suffragio universale. Solamente alla metà degli anni ’80 questa differenza venne definita parlando di “gender gap in voting”. (Smeal 1984) La madrina dell’espressione fu la femminista ed attivista Eleonor Smeal, allora Presidente del NOW (National Organization of Women). In seguito, grazie alla pubblicazione del suo libro nel 1984, “How and Why Women Will Elect the Next President” (Smeal 1984), l’informazione iniziò ad interessarsi, massicciamente, del tema the gender gap in voting. La Smeal oltre ad aver aperto la strada sul tema, predisse che il voto delle donne sarebbe stato decisivo nelle elezioni presidenziali degli anni a venire. (Smeal 1984) A partire da quella data, per fare riferimento alle diverse scelte di voto tra uomini e donne, questa espressione diventò la prassi. Inoltre il fenomeno appena osservato nella maggior parte dei Paesi a partire dal secondo dopo guerra, secondo il quale il gap in voting tra uomini e donne vedeva queste ultime più spostate a destra, ricevette un nome solamente nel 2000: traditional gender gap. (Norris 2000) Se formalmente si parlò di traditional gender gap solamente dal XXI secolo, in realtà, come appena analizzato, questo si manifestò sin dalla fine della seconda guerra mondiale e, guardando nuovamente il grafico relativo al gender gap negli Stati Uniti, è possibile constatare che in realtà dagli inizi degli anni ’60 la tendenza di voto delle donne iniziava a cambiare. Prima di analizzare empiricamente il corso (o decorso?) che questo seguì negli anni ’60, bisogna citare lo studioso Ronald Inglehart e la sua teoria della Silent Revolution, formulata proprio nel periodo a cavallo del declino del traditional gender gap. Questi fu uno tra i primi che cercò di spiegare, a livello sociale, il perché di un cambiamento nella tendenza di voto tra uomini e donne che, come vedremo nel seguente capitolo, non sarà un fenomeno circoscritto solamente alla società statunitense. Inglehart realizzò uno studio accurato su nuovi tipi di valori, comparando sei Paesi europei. Osservò che nei movimenti giovanili di protesta di fine anni ’60,
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predominava l’attenzione verso temi trascurati dai partiti tradizionali, come la difesa dell’ambiente, il disarmo, la prevalenza delle esigenze di autorealizzazione degli individui rispetto ai vincoli della logica economica, i diritti delle donne. Inglehart considerò questi orientamenti di valore come effetti del benessere economico in cui erano stati socializzati i giovani dell’Europa occidentale e gran parte della popolazione aveva raggiunto un livello di ricchezza senza precedenti, dalla fine della seconda guerra mondiale in poi. (Inglehart 1971) Il cambiamento culturale, con la modifica delle priorità assegnate alla politica, era quindi un cambiamento alimentato dalla progressiva sostituzione demografica della popolazione, dovuto all’ingresso di generazioni più̀ orientate in senso postmaterialista rispetto alle generazioni anziane, che uscivano progressivamente di scena. (Inglehart 1971) Inglehart fondò la sua tesi sulla teoria della motivazione di Maslow. Questi considerava il principio della gratificazione dei bisogni come principio cardine dell’azione umana, al pari del classico principio della privazione. (Maslow 1954) Lo schema articolato dallo stesso Maslow, era un modello di organizzazione della personalità̀ individuale. Inglehart lo trasformò in un modello esplicativo del mutamento della cultura politica: le generazioni più̀ anziane, cresciute in un clima di povertà economica e di insicurezza dovuta all’esperienza della guerra, erano orientate verso valori materialisti, indotti dai bisogni di sopravvivenza e di sicurezza. I giovani europei, nati dopo la seconda guerra mondiale, erano invece orientati verso valori postmaterialisti. Cresciuti in un periodo di benessere economico senza precedenti, tendevano a considerare come acquisito un certo livello di benessere materiale, sviluppando quindi priorità̀ valoriali tipiche di uno stadio successivo. Essi erano più̀ orientati verso temi come la libera affermazione individuale, la difesa della natura e della condizione della donna. (Inglehart 1971) Nel 1977 il politologo statunitense sintetizzò quanto fino allora spiegato nella così chiamata “Silent Revolution”: ad una perdita di rilevanza dei valori materialisti, corrispondeva una nuova centralità dei valori post-materialisti. (Inglehart 1971) In merito al tema del gender gap, le scoperte di Inglehart saranno attentamente considerate. Questi nuovi valori, oltre ad essere molto più diffusi tra le giovani generazioni, saranno centrali per una distinzione tra i valori più cari agli uomini e quelli
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più sensibili per le donne. Si analizzeranno, dagli anni ’90 e poi negli anni 2000, le correlazioni tra valori e genere (una sorta di gender gap valoriale) utile per la party identification e quindi per la stessa scelta di voto.
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2.5 Mariti che votavano come le mogli o viceversa? Duverger, osservando i risultati delle sue indagini, si chiese se il voto, all’interno delle coppie sposate, fosse uguale o meno. Lo studioso affermò che il 90% delle coppie votavano allo stesso modo. (Duverger 1955) In Norvegia, ad esempio, un sondaggio condotto dall’Istituto FAKTA, evidenziò che l’88.9 per cento delle mogli votavano alla stessa maniera dei mariti; in Francia, il centro di indagini elettorali IFOP, stimò lo stesso comportamento all’89%. (Duverger 1955) La differenza di voto risulterebbe quindi essere presente nei sol gruppi donne non sposate o divorziate ed in quel restante 10% di donne sposate. Riportando una tabella pubblicata nel 1951 dal giornale francese Population, si nota la differenza di voto tra mogli e mariti rispetto all’occupazione di questi ultimi. Tra i business men e le loro mogli, la differenza era nulla, e questo dato Duverger lo spiegò affermando che: “women often idle, frivolous, worldly life and conseder politics as ‘a men’s business’ (…) women who do not work seem slightly more inclined to vote with their husbands.” (Duverger 1955, 47) Nel caso dei professional men, sposati spesso con donne lavoratrici, il dato sulla differenza aumentava notevolmente, probabilmente a causa di una maggiore emancipazione delle loro mogli.
Figura 13
(Duverger 1955, 47)
Duverger, compiendo un altro studio rispetto ai mariti over e under 50, sottolineò la tendenza delle giovani mogli ad essere maggiormente emancipate rispetto a quelle più anziane. Infatti se il marito aveva un’età sopra i 50 anni, il 97% delle coppie votava alla stessa maniera; nel caso in cui il marito apparteneva agli under 50, la percentuale si fermava all’80%. (Duverger 1955)
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Un’altra importante tabella riguardante il caso norvegese, rileva le differenze di coppia rispetto ai partiti presenti in campo Risulta interessante il fatto che la distinzione non si basava sull’asse destrasinistra, poiché il partito agrario si collocava a destra, ma rispetto ad una maggiore o minore eterogeneità sociale ed economica. Gli uomini e le donne che votavano il partito comunista ed il partito agrario, nel primo caso per la maggior parte operai, nel secondo principalmente lavoratori agricoli, votavano sempre “in coppia”. E questa univocità può essere spiegata affermando che nell’ambito di dette classi sociali facenti riferimento al partito comunista ed al partito agrario, moglie e mariti, entrambi lavoratori, venivano mossi dalle stesse ragioni di voto. (Duverger 1955) Nel caso invece di coloro che votavano per i partiti conservatori e soprattutto per quelli cristiani, la differenza percentuale saliva moltissimo, probabilmente a causa di una maggiore vicinanza da parte donne al mondo cattolico che le portava a staccarsi dal voto, probabilmente meno conservatore, prescelto dal marito. (Fig.14)
Figura 14
(Duverger 1955, 47)
Chi influenza il voto di coppia? La moglie o il marito? Duverger in merito compì un’indagine su un campione di persone coniugate cercando di identificare quale componente decideva il voto. Più della metà delle donne rispose che votava come il proprio marito perché, non interessandosi di politica, si fidava della scelta fatta dal coniuge. Nessun uomo rispose al contrario. (Duverger 1955)
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Accertato che la percentuale maggiore di astensionismo veniva registrata tra le donne, in maniera maggiore tra quelle che lavoravano nel settore primario e minore tra quelle che svolgevano professioni “più alte”, e dimostrato che esisteva un voto “di matrimonio”, che si manifestava maggiormente tra le coppie più anziane ed in misura minore tra le coppie più giovani, e che il suddetto voto “di coppia” era più evidente tra coloro che votavano per i partiti che raccoglievano voti da classi sociali aventi una condizione socio-economica più bassa, e che effettivamente il voto delle donne poteva essere ascritto all’interno di quello che verrà chiamato traditional gender gap, quali furono le evoluzioni delle scelte di voto? Il prossimo capitolo analizzerà un cambiamento di tendenza, che porterà alla teorizzazione di una nuova differenza di genere nel voto: il modern gender gap.
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III Capitolo: Il femminismo, verso il modern gender gap
Questo capitolo analizza l’andamento del gender gap dagli anni ’60 in poi attraverso un esame comparato riferito in particolare agli Stati Uniti ed ai Paesi europei; il caso italiano invece sarà approfondito nel quarto capitolo. Le analisi dimostrano che, in tempi differenti nelle diverse realtà nazionali, le tendenze di voto delle donne cambiarono. Se al momento della estensione del suffragio esse esprimevano maggiormente un voto a destra, in seguito, simpatizzeranno sempre di più per i partiti di sinistra. Questo fenomeno, a partire dalla pubblicazione di Norris nel 2000, è stato identificato come modern gender gap. (Norris 2000) Quest’ultimo si manifestò prima negli Stati Uniti e poi in Europa, in particolar modo nei Paesi geograficamente più a nord. (Seppälä 2004) In quasi tutti i Paesi osservati, nello shift dal traditional al modern gender gap, si è verificato un periodo di passaggio, di trasformazione e di assestamento che Nathalie Giger identificò come “gender dealignment” (Giger 2009). In particolar modo, nel caso statunitense, se all’inizio degli anni ’50 la differenza nella espressione del voto uomo-donna era, seppur non marcatamente, comunque evidente, dall’inizio degli anni ‘60 e fino agli anni ’80, la differenza di genere divenne impercettibile o quasi inesistente e quindi ininfluente. Prima di arrivare alla nuova ed in seguito più ampia apertura della forbice, può essere affermato che è come se le donne americane avessero vissuto una fase di transizione, anticipatoria dello shift verso sinistra. (Giger 2009) Questo periodo storico coincise anche con un cambiamento nel modo di fare politica sia da parte del Partito Democratico, che di quello Repubblicano; proprio quest’ultimo, riuscì a trarne i maggiori benefici in termini di successo elettorale. Nel Maggio del ‘70 il New York Times pubblicò un articolo di James Boyd a proposito della così detta “Nixon’s Southern Strategy”. (Boyd 1970) Essa presupponeva che i repubblicani avessero attuato manovre mirate all’accaparramento dei voti tra i bianchi del sud, utilizzando il cambiamento di rotta dei Democratici determinato dalla proclamazione della Great Society. (Boyd 1970)
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La “Grande Società” fu annunciata da parte del Presidente democratico Lyndon B. Johnson e comprendeva un insieme di programmi su scala nazionale mirati a promuovere le riforme sociali. La Great Society voleva somigliare al New Deal rooseveltiano, con minori caratteristiche di tipo economico e maggiori attenzioni ai temi di diritti umani. (Kaplan e Cuciti 1986) L’articolo, descrivendo la vita di una tra le figure più influenti dell’entourage di Nixon, quella di Kevin Phillips, analizzava il voto degli americani, soprattutto negli Stati del Sud. In particolar modo in questi Stati della costa orientale, da sempre veri e propri feudi democratici, veniva rifiutata l’ondata riformista promossa dai democratici. (Boyd 1970) Era inoltre evidenziato che la maggior parte degli elettori votavano “per etnia/cultura”, mantenendo fissa la scelta di voto di generazione in generazione. I figli (dei figli) degli immigrati irlandesi, italiani, polacchi e di altri Paesi dell’Est Europa, da sempre votavano per i Democratici, mentre gli “Yankees” per i Repubblicani. Questa tendenza iniziò a cambiare dalla metà degli anni ’60, quando il Donkey Party si fece promotore, proprio grazie alla Great Society, dei diritti dei “new immigrants”, vale a dire dei neri e degli ispanici. Da quel momento, negli Stati del sud-ovest, cambiò la tendenza di voto. (Boyd 1970) From now the Republicans are never going to get more than 10 to 20 per cent of the Negro vote and they don’t need any more than that… But Republican would be shortsighted if they weakened enforcement of the Voting Rights Act. The more Negroes who registe ras Democrats in the South, the sooner the Negrophope whites will quit the Democrats and become Replublicans. (Boyd 1970, 23)
Nelle elezioni 1968, che vedevano contrapposti Nixon e Humphrey, la vittoria dei Repubblicani venne registrata anche in distretti dove l’elefantino non aveva mai prevalso prima di allora.
“… A net GOP gain of 47 House of seats. Only two were from the retrograde North-east; the rest were from the areas he had years ago marked as the seats of a new political dominance –the border states, the South, the interior states ans California” (Boyd 1970, 24)
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In questo senso si parla di una “Nixon Revolution” ovvero di una “Nixon’s Southern Strategy” che, negli anni del gender dealignment, deve essere considerato come vero e proprio fattore di contro-bilanciamento allo spostamento delle donne a sinistra. I successivi paragrafi seguiranno in cronologia le ricerche effettuate in merito al gender gap. I prossimi argomenti trattati riguarderanno la nuova posizione della donna nella società e l’analisi degli affetti che i movimenti femministi di fine anni ’60 ebbero sulle scelte di voto.
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3.1 I primi studi sul modern gender gap Pamela Johnson Conover, nel suo articolo pubblicato nel 1988, riportò un interessante studio condotto all’inizio degli anni ’80 da parte del National Education Pilot Study. Questo mirava a capire il peso delle femministe nella società americana. La domanda alla quale vennero sottoposte le donne protagoniste dell’indagine, fu la seguente: “Sometimes a women might think of herself as a woman, as a working woman, and sometimes as a homemaker. Do you think of yourself as a ‘homemaker’ most of the time, some of the time, occasionally, or never?”. (Conover 1988, 991) Le risposte raccolte fanno capire quanto era cambiato il tessuto sociale femminile rispetto a quei lontani anni ’50 fatti di donne tutte “casa, figli e marito”. (Friedan 1963) Il 26,4% delle donne non pensava mai a loro stesse come femministe; il 30,9% occasionalmente; il 19,8% alle volte; il 22,9% pensava sempre a loro stesse come femministe. (Conover 1988) Poco più di un quarto si dichiarò, quindi, decisamente non femminista, poco meno di un quarto assolutamente femminista, ed la restante metà potremmo dire che non disprezzava l’idea di guardarsi come potenziale femminista. Il femminismo non dilagava, ma era ormai entrato nella mente delle donne, condizionandone in maniera più o meno diretta, i comportamenti. Conover decise di approfondire il tema stilando una scala valoriale degli uomini, delle donne e delle femministe, ma prima di analizzarne i risultati bisogna citare un altro articolo pubblicato da Shapiro e Mahajan, sul quale la stessa Conover basò le sue analisi in merito alla suddetta scala valoriale. I due ricercatori parlarono di un progressivo acuirsi della differenza di voto tra uomini e donne causato da una sempre maggiore diversa sensibilità rispetto a determinati, importanti temi. Shapiro e Mahajan prevedevano, inoltre, che una minima variazione delle preferenze su determinati temi, avrebbe comportato conseguenze ben più ampie in materia di politiche pubbliche. Questo voleva dire che la classe politica, prendendo coscienza del peso del voto femminile, al variare degli interessi delle donne nei confronti di determinati temi politici, avrebbe conseguentemente assunto un diverso atteggiamento nei confronti delle politiche pubbliche più vicine alle donne. (Shapiro e Mahajan 1986)
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I temi più sensibili alle donne, riguardavano principalmente tre campi: una politica di protezione da parte dello Stato, il welfare ed i valori tradizionali Questi temi, con l’avvento dei movimenti femministi di fine anni ’60, acquistarono progressivamente importanza, per poi divenire dei veri e propri “salience issues” rispetto ai quali i politici volgevano sempre maggiore attenzione nelle loro campagne elettorali. (Shapiro e Mahajan 1986) “The salience of issues has increased greatly for women, and as a result differences in preferences have increased in ways consistent with the interest of women and the intentions of the women’s movement.” (Shapiro e Mahajan 1986, 42) Conover, con riferimento a questo articolo, iniziò a portare avanti ricerche più accurate in merito alle “issue preferences”, arrivando così a pubblicare un articolo nel 1988. Riprendendo i valori post-materialisti di Inglehart ed utilizzandoli secondo una distinzione di genere, giunse ad importanti scoperte circa una nuova coincidenza tra i valori storicamente di sinistra e quelli cari alle donne. La studiosa americana parlò di una “woman’s perspective”, il cui minimo comun denominatore era una “ethic of caring”. (Conover 1988) It is important to recognize that the distinctive policy preferences of feminist do not stem solely from a woman’s values perspective; instead, their issue positions are also shaped by a commitment to democratic political values as well as by a strong indentification with the Democratc Party (…) to be politically effective a feminist consciousness must embrace not only a woman’s values but peraphs more importantly, democratic political values. (Conover 1988, 1005)
Ma effettivamente quali temi erano di interesse delle donne, delle femministe e quali degli uomini negli anni ’70? L’autrice decise di procedere nell’analisi facendo una differenziazione tra i maschi, le non femministe e le femministe. Risultò che le femministe differivano dagli uomini in particolar modo rispetto a tre valori: uguaglianza, razzismo simbolico ed ideologia. Le femministe erano più interessate ai temi dell’uguaglianza, evidenziavano meno razzismo simbolico ed erano considerevolmente più liberali degli uomini. Questa ultima scoperta è sicuramente quella
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più sorprendente se rapportata alle abitudini di pochi anni prima che vedevano la donna molto più conservatrice degli uomini. (Duverger 1955) Se uomini e donne non femministe si assomigliavano rispetto all’importante dato sulla “simpatia per i disavvantaggiati”, (.68 per le donne non femministe .67 per gli uomini, Fig.15) le femministe erano molto più interessate all’argomento registrando un mean value pari a .74. Anche il tema dei ruoli fra i sessi, era di maggiore interesse tra le femministe rispetto ala posizione assunta dagli uomini e dalle non femministe. Riguardo ai dati sulla “moral traditional religious” ad andare in coppia erano, in questo caso, le femministe e gli uomini, mentre le non femministe, sicuramente più conservatrici, preservavano una visione più tradizionale.
Figura 15
(Conover 1988, 1001)
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Sempre nello stesso anno, lo studioso Martin Gilens, politologo presso l’Università di Princeton, New Jersey, intraprese alcune ricerche rispetto al gender gap valoriale, ma solamente in riferimento all’epoca reganiana (primo mandato nel 1980). I risultati da questi raggiunti sono assolutamente importanti per evidenziare il comportamento politico più attivo delle donne oltre, che, naturalmente, per marcare il cambio di tendenza nella differenza di genere nel voto. Il gender gap, che già nel primo mandato reaganiano vide le donne votare il candidato repubblicano 9.6 punti percentuali in meno rispetto agli uomini, era causato secondo Gilens da due principali fattori: il diverso interesse di genere rispetto a temi politici e sociali e l’attenzione che Reagan ripose su ognuno di questi temi. (Gilens 1988) For example, women hold more liberal attitudes toward defense spending than men, and attitudes toward defense spending are more strongly related to support Reagan amorng women than amog men. Either of these factors alone is sufficent to produce a difference in the aggregate level of support for Reagan between men and women, and an assessment of the relative contribution of different possible causes of the gender gap must take both factors into account. (Gilens 1988, 34)
Gilens formulò in merito una tabella presente nella figura 16, riguardante l’influenza dei temi politici rispetto all’approvazione di Reagan. Quello che ci si dovrebbe aspettare da questa analisi bivariata è che, rispetto alle considerazioni in precedenza fatte sui feminist values, i political issues presenti nella tabella siano la reale causa del gender gap tra donne e uomini. La tabella dimostra invece che la tesi era vera solo per metà. Il gender gap in una visione pro o contro Reagan, si realizzava principalmente su due punti: nella spesa per la difesa (7.8 punti) e nel social welfare (4 punti). Quindi se gli “women’s issues” erano di solito sempre visti come un importante fattore generatore del gender gap, in questo caso la differenza di genere non era così forte da essere considerata influente. Sull’aborto, sia uomini che donne erano fortemente a favore di leggi permissive. Sull’ambiente, parimenti, soprattutto gli uomini hanno visioni a favore di politiche green, contrariamente ad una politica reganiana non molto interessata sul tema.
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Figura 16
(Gilens 1988, 34)
Per capire in maniera più chiara quali effettivamente furono i fattori decisivi che generarono un gap così ampio, si è riportato anche grafico sovrastante formulato sempre da Martin Gilens e che riguardava, ancora una volta, i temi politici rispetto all’approvazione nei confronti delle politiche di Reagan. Grazie all’aiuto di quest’ulteriore diagramma, possiamo giungere ad alcune conclusioni. Non prendendo in considerazione le motivazioni di carattere generale che fecero “convertire” le donne alla sinistra e guardando alle ragioni che generarono questo fenomeno in quel preciso momento storico, lo shift verso il modern gender gap si verificò rispetto a due fattori: la spesa militare ed il welfare. (Fig. 17). Se a questi due temi aggiungessimo altri argomenti ad essi correlati (come il fronteggiare la questione sovietica per l’argomento difesa ed una valutazione sul programma economico per il welfare), l’ampiezza della forbice nella differenza di voto aumenta ancora e così si spiega la differenza nei dati tra la prima tabella ed il secondo grafico. Quindi, dicendolo nuovamente, il gender gap è concentrato maggiormente intorno a temi politici invece che alle differenze demografiche, o di appartenenza partitica. (Gilens 1988)
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Figura 17
(Gilens 1988, 43)
Possiamo arrivare anche ad altre conclusioni più generali. Passato il periodo dell’ondata femminista di metà e fine anni ’60, il voto a sinistra da parte delle donne
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continuò a crescere fino ad arrivare allo shift, ma questa crescita è proseguita per ragioni differenti rispetto a quelle degli inizi degli anni ’60. (Gilens 1988) La guerra fredda e la speranza di una sua risoluzione, mise in secondo piano temi come l’aborto o come i diritti delle donne che negli anni precedenti avevano già trovato molto spazio e quindi erano stati in parte risolti grazie all’approvazione di importanti leggi sull’emancipazione femminile: quella del divorzio (no-fault divorce revolution iniziata nel 1969 in California) e quella dell’aborto (1973). (Wilcox 2009) Si potrebbe dunque argomentare che alcuni dei valori femministi persero la loro importanza sia nel dibattito socio-politico generale, sia nella loro utilità nello spiegare il gender gap. Nel Novembre del 1991, Elizabeth Adell Cook e Clyde Wilcox, pubblicarono un altro importante articolo sulla “women’s perspective”, utilizzando alcuni dati dell’American National Election Study del 1984. Le due studiose riconsiderarono l’argomento secondo cui il femminismo aiutò le donne a capire quelli fossero i loro valori e le loro preferenze politiche. Risulta molto interessante il fatto che osservarono la differenza valoriale non solo secondo la classica distinzione uomini/femministe, ma anche tra uomini che appoggiavano la causa femminista (“femministi”) e donne femministe, tra potenziali femministi e femministe e tra uomini e donne lontani dal femminismo. Arrivarono alla conclusione secondo cui: “developing a feminist consciousness may lead to more egalitarian values and policy preference, but feminist are also recrited among more liberal and egalitarian women and men”. (Cook e Wilcox 1991, 1120) Ipotizzarono, dunque, una distinzione molto marcata tra valori femminili e valori femministi e quindi, al contrario di quanto affermò la Conover, conclusero dicendo che il gender gap non era dovuto solo ad un aumento delle donne femministe; questo era a sua volta controbilanciato da un numero consistente di uomini che appoggiavano i valori femministi (vedi ambiente, diritti ed assistenza sul lavoro). (Cook e Wilcox 1991) Alla fine degli anni ’90 altri due studiosi portarono avanti un’altra ricerca tesa a smentire, più di quanto avessero voluto fare Cook e Wilcox, la centralità del ruolo della donna nella determinazione del gender gap. Karen Kaufmann e John Petrocik cambiarono la prospettiva rispetto alle cause del gender gap: furono le donne o gli uomini a cambiare rotta
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3.2 Una visione differente: lo spostamento degli uomini
Nel 1999 Karen Kaufmann e John Petrocik, studiosi statunitensi, pubblicarono un articolo riguardante le differenze di genere nella identificazione di partito e nelle scelte di voto degli americane nelle tornate elettorali comprese tra il 1952 ed il 1996. I due, andando contro tutte le ricerche in precedenza citate, affermarono che il gender gap era il prodotto di un cambiamento di sostegno ai partiti da attribuire agli uomini e non alle donne: “Men have moved into GOP ranks as women have retained a traditional Democratic preference”. (Kaufmann e Petrocik 1999, 866) Per spiegare meglio quest’ultima affermazione, bisogna partire dall’analisi compiuta dai due ricercatori; questa si basa su due ipotesi: the Attitude and Salience Hypothesis. La prima affermava che il gender gap nel voto era la risultante di differenti visioni rispetto ad alcuni temi, ad esempio: “self-interenst and social identity considerations make it unlikely that female equality or abortion are as important to political judgment of men as they are to women.” (Kaufmann e Petrocik 1999, 873) La seconda asseriva che oltre a differenti visioni, donne e uomini davano differenti pesi ai temi politici. “Men and women might agree about the condition of the economy, but the opinion might do much more to shape the candidate choices of men because the issue is more salient to them.” (Kaufmann e Petrocik 1999, 873) Partendo proprio dalla Salience Hypotesis, l’obiettivo era quello di scoprire quali siano state le differenti “reveled preferencies” uomo/donna nelle elezioni del ’92 ed in quelle del ’96. I dati raccolti non si basavano su domande dirette come “how important is…”, poiché questo genere di interviste, anche oggi, portano ad un nulla di fatto: tutti sono interessati a tutto. “It is an example, similar to how Chicago’s Museum of Science and Industry measured the popularity of the exhibits: they did no task people what they liked; they measured how frequently they had to replace the floor tiles around the exhibits”. (Kaufmann e Petrocik 1999, 877) Per identificare i differenti livelli di importanza dei temi, il metodo utilizzato, è stato invece quello della comparazione dei risultati provenienti dalle logistic regression.
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Ci si aspetta che le spese sul welfare abbiano più peso tra le donne, mentre quelle sulla difesa determinano maggiore interesse tra gli uomini. Questa tesi però viene confermata solo in parte. Guardando al voto presidenziale, al netto della party identification, il social welfare era il tema al quale sia gli uomini che le donne davano peso più rilevante, soprattutto nella seconda tornata elettorale. Nel ’92, con riferimento a questo tema, il gender gap era molto pronunciato in favore degli uomini; nella seconda tuttavia si assottigliò. Il tema della defense spending, così centrale negli anni ’80, perdeva ora la sua importanza. I social e feminist issues e the approval of Congress, non erano così influenti nello spiegare il gender gap; le valutazioni economiche retrospettive, seppur non così “pesanti” come il welfare, crescono d’importanza, soprattutto tra gli uomini e soprattutto nelle elezioni del ’96. Sia nel ’92 che nel ’96 questo dato era maggiormente saliente per gli uomini, ma se nella prima tornata il giudizio economico sul precedente governo (Bush I) era visto positivamente, nella seconda (Clinton I), oltre a divenire una componente più forte nello spiegare il gender gap, era visto come assolutamente negativo, soprattutto tra gli uomini. (Kaufmann e Petrocik 1999) In tal modo è possibile spiegare, in parte, l’enorme gap che separò Bill Clinton dal voto elettorale maschile proprio nelle elezioni del ’96. L’esito della rielezione di Clinton nel 1996 fu sorprendente: The poll showed that women voters preferred Bill Clinton to his Republican opponent Bob Dole by over 26 points. The same poll indicated that male voters preferred Clinton by only seven points. As women voters continued to move toward supporting Democratic candidates in the 1990s, male voters were quickly moving away from the Democratic Party. This phe- nomenon was seen most dramatically with southern white male voters who felt the Democratic Party was moving too much to the ideological left. Many of these male votes found their new home with the Republican Party, whose support grew in the south in the 1970s and remains strong today. (Grounds 2005, 275)
Quindi, guardando la tabella presente nella figura 18 e tenendo in considerazione le analisi in precedenza fatte, arriviamo a due conclusioni: la prima, specifica delle elezioni degli anni ’90, e la seconda di carattere generale.
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Figura 18
(Kaufmann e Petrocik 1999, 879)
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Per spiegare le elezioni del ’92 e del ’96, è meglio guardare al voto maschile, poiché lo shift nei temi salienti che ha poi portato al voto, è stato più pronunciato negli uomini. (Kaufmann e Petrocik 1999)
Figura 19
(Kaufmann e Petrocik 1999, 867)
Cercando di spiegare il gender gap sin da quando è stato preso in considerazione (primo governo Reagan) possiamo affermare che mentre i temi femministi, quelli economici e quelli sulla difesa, hanno avuto importanza altalenante per cause storicopolitiche contingenti, il welfare sociale, ha sempre avuto un grande appeal sia tra le donne che tra gli uomini, seppur con diversi pesi nel corso delle diverse epoche; questo rappresenta quindi una costante nello spiegare il gender gap.
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Prima di osservare gli altri studi compiuti negli anni 2000, riportiamo un grafico riguardante la copertura mediatica del tema del gender gap. La figura 20 non ha bisogno di grandi spiegazioni: l’uso del termine “gender gap and election” da parte dei media, fu, proprio nelle elezioni del ’96, davvero impressionante, soprattutto in relazione alle tornate precedenti.
Figura 20
(Norris 2000, 21)
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3.3 Il modern gender gap
Nel 2000, come anticipato, grazie al contributo della anglo-americana Pippa Norris, venne dato un nome al fenomeno che vedeva le donne prima più propense verso un voto a destra e successivamente più a sinistra: il traditional ed il modern gender gap. (Norris 2000)
Duverger established the conventional wisdom that prevailed in political behavior textbooks for many decades, namely early polls revaeled that women voters were slightly more right wing than men in many decades, including in Norway, France and Germany. This pattern can be termed the traditional gender gap. (…) During the 1960s and 1970s, the traditional gender gap closed and become insignificant in successive American Presidential and Congressional election. The modern gender gap in voting first became evident in the Reagan v. Carter contest in 1980, since than American women have consistently given stronger support to Democratic candidates in successive Presidential and Congressional elections. (Norris 2000, 4)
Ora è quindi possibile proseguire con lo studio per intero del grafico riguardante il gender gap negli Stati Uniti. (Fig.21). Il periodo successivo rispetto a quello già analizzato nel precedente capitolo, può essere ulteriormente diviso in una seconda e terza fase, quella che va dalla metà degli anni ’60 fino alla fino al ’96. Il secondo periodo potrebbe essere chiamato “di assestamento” poiché le donne si avvicinarono ulteriormente alle preferenze di voto espresse dagli uomini, senza però riportare una tendenza particolare. Nelle elezioni che portarono Ronald Reagan alla Casa Bianca, il gender gap registrò un aumento abbastanza netto delle elettrici che scelsero di votare per il partito democratico. Nelle elezioni del ’96 questa tendenza crebbe maggiormente.
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Figura 21
(Inglehart e Norris 2000, 445)
L’articolo pubblicato dalla Norris, oltre a ripercorrere scoperte e definizioni fino ad allora fatte in merito al gender gap, cerca di capire cause e conseguenze di questo stesso fenomeno. Norris partì da qui: “Why women, who were more rightwing than men in the 1950’s, became more leftwing in the 1980s?” (Norris 2000, 3) Seguendo l’analisi della Norris, si coglie l’occasione per riassumere brevemente gli studi in precedenza presi in considerazione. Iniziò a spiegare il gender gap attraverso la teoria della issue voting intrapresa da Campbell nel 1960 e riproposta anche da diversi studiosi citati nel paragrafo precedente. Campbell teorizzò che, affinché la suddetta teoria fosse valida, dovevano essere soddisfatte tre condizioni: il pubblico ha bisogno di essere diviso rispetto ad un certo tema; questo deve essere considerato dai votanti come “saliente”; i candidati e i partiti devono prendere una posizione netta rispetto a questo argomento. (Campbell, et al. 1960) Tra il ’60 ed il ’72 uomini e donne espressero le stesse preferenze circa l’economia e l’ambiente, invece le donne (soprattutto dal ’68 al’72) privilegiavano il tema della politica estera a causa della situazione in Vietnam. Dal ’76 al ’92, le posizione
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di genere si polarizzarono. Le donne davano maggiore attenzione al welfare e gli uomini ai temi economici. (Shapiro e Mahajan 1986) In particolare, a partire dagli anni ’80 con l’epoca reaganiana (epoca nella quale si verificò lo shift), queste opinioni si accentuarono nella seguente maniera. (Gilens 1988) Il pubblico si divise rispetto alle due “W”, war e welfare. Questi temi, all’epoca, erano assolutamente centrali a causa della delicata situazione che stava attraversando la guerra fredda e per la nuova centralità del welfare a causa dell’ormai comune entrata della donna nel mercato lavorativo. Reagan ed il partito repubblicano non lasciavano dubbi rispetto ad una posizione fortemente aggressiva nei confronti dell’URSS ed anche per l’ipotesi di importanti tagli nel welfare. (Kaufmann e Petrocik 1999) Support for reproductive rights, affirmative action and childcare, which had previously been bipartisan, became more strongly linked with the Democrats. Moreover President Reagan's commitment to cutting back government services, the welfare state, and particularly AFDC, greatly increased the salience of these issues on the policy agenda. (Norris 2000, 8)
Pippa Norris, sintetizzò in poche righe gli argomenti salienti che portarono allo shift dal traditional al modern gender gap. Il primo si manifestava, negli Stati Uniti, dal ’52 al ’60, il secondo a partire dagli anni ’80. Se nel primo periodo le donne che votavano a sinistra erano, di solito, più giovani, più istruite e lavoratrici, nel secondo periodo il voto a sinistra era diffuso tra tutte le categorie di donne. …Althought research has challenged the idea that feminist issues per se was responsible for the gender gap (…) Women and men differ most consistently in issues related to the use of force and violence (…) Moreover women have also been found to be more strongly in favor of environmental protection and recycling initiatives, and opposing nuclear power stations (…) On ‘compassion issues’, women are generally more supportive of welfare programs for the elderly, sick and poor, as well as government speding on education, health and urban development. (Norris 2000, 7)
Norris, oltre ad analizzare le ragioni che muovevano le donne verso determinati comportamenti elettorali, osservò anche la loro affluenza alle urne dalla metà degli anni
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’60 fino alla fine degli anni ’90. Anche in questo caso si può parlare di shift: dagli anni ’80 in poi le donne parteciparono al voto in misura maggiore rispetto agli uomini. (Fig. 22)
Figura 22
(Norris 2000, 17)
Nello stesso anno proprio Pippa Norris, insieme a Ronald Inglehart, pubblicò un altro articolo di centrale importanza. Questa volta i due studiosi espansero la ricerca verso una prospettiva globale. Utilizzarono i dati del World Values Surveys rispetto a sessanta Paesi dagli inizi degli anni ’80 fino alla metà degli anni ’90. Differenziarono i Paesi industrializzati, da quelli in via di sviluppo e dalle società post-comuniste.
Il risultato dell’indagine fu l’elaborazione della Developmental Theory del Gender Realignment. Questa teoria confermava quanto ipotizzato proprio dalla Norris nel suo
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articolo pubblicato lo stesso anno. Ad un maggiore sviluppo (development) politicoeconomico dei Paesi, corrispondeva una trasformazione dei ruoli di genere e dei valori, che a sua volta portava ad una ricomparsa del gender gap nel voto (gender realignment), ma che in questo caso vedeva le donne più spostate a sinistra (modern gender gap). (Inglehart e Norris 2000) Verificarono, quindi, che nella maggior parte delle società post-industrializzate, le donne avevano spostato il loro voto da destra a sinistra, com’era accaduto venti anni prima negli Stati Uniti. Il processo, però, non è stato uniforme nei vari Paesi per molteplici cause: la situazione partitica, i diversi sviluppi avuti dai movimenti femministi, i differenti temi predominanti nelle agende politiche. Norris e Inglehart comprovarono inoltre che, in queste democrazie, il fenomeno si verificò soprattutto tra le generazioni più giovani. Nei Paesi in via di sviluppo ed in quelli post-comunisti, con un minor livello di istruzione, minore o quasi assente attenzione nei confronti dei diritti femminili, basso livello di integrazione femminile nel lavoro, il traditional gender gap, eccetto che in Argentina e in Germania Est, era ancora fortemente presente. (Inglehart e Norris 2000) Lo spostamento verso sinistra non era quindi un fenomeno esclusivamente statunitense, ma evidente, seppur in ritardo, anche nei Paesi più sviluppati. Quindi può esser data ragione a Pippa Norris quando, nel 1988, portando avanti importanti ricerche in questo campo, scrisse: We can conclude that there was no voting gap in European countries in recent years; overall women and men were very similar in their electoral choices and ideological positions. There is a potential gender gap, however, as women and men disagree significantly on a range of issues. These policy differences have not yet translated into voting differences, but they could, given certain circumstances. (Norris 2000, 13)
Mentre negli Stati Uniti il trend nel voto iniziò a mutare agli inizi degli anni ’60, per svoltare definitivamente nei primi ani ’80 in Europa, nonostante i movimenti femministi, le manifestazioni giovanili, l’approvazione delle leggi sull’aborto e sul divorzio, il cambiamento del trend fino alla vera e propria futura svolta a sinistra si sono verificati solo agli inizi degli anni ’90. Il caso è curioso perché la “post-material
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revolution” era già in atto alla fine degli anni ’60, lo shift iniziò a manifestarsi ben più tardi. (Inglehart e Norris 2000) Possibili spiegazioni di questo “slittamento” possono essere cercate in un ritardo nella secolarizzazione, nella presa di coscienza delle donne, nella capacità di cambiamento della società. Questa mancanza di uniformità, probabilmente riflette particolari circostanze interne ad ogni Paese, come ad esempio, la competizione fra i partiti, i temi predominanti dell’agenda politica e la forza di dei movimenti femministi (basti pensare alla eco avuto in Italia o in Francia, rispetto a quello del nord Europa). (Giger 2009) Individuiamo ora le ragioni che hanno portato allo spostamento verso il modern gender gap che, come negli Usa e seppur in ritardo, sono dovute a fattori strutturali.
Women’s support for parties of the left may be encouraged by pervasive patterns of the horizontal ad vertical occupational segregation. Working women are often overrepresented in low-paid job and as public sector professional and service providers in education, health care and welfare services. Women also experience continued pay disparities an lower socioeconomic status, with cosiderably higher levels of female poverty. The increased membership and activism of working women in trade unions can also be expected to move women leftwards politically, while increased participation by professional women in higher education may have encourage more liberal attitudes. (Inglehart e Norris 2000, 446)
Secondo questi studi dovremmo quindi aspettarci che i Paesi del nord Europa, notoriamente più sviluppati e secolarizzati, cambino in anticipo rispetto a quelli del sud la propria rotta verso il modern gender gap. (Seppälä 2004) Nella figura 23 è riportata la tabella con una regressione lineare in merito agli effetti del genere rispetto ad un voto sinistra/destra. I differenti modelli prendono in considerazione diverse variabili; confrontandoli è possibile capire quale modello spiega maggiormente il voto destra/sinistra rispetto al genere. L’esempio uno (Fig. 23) evidenzia che l’effetto-genere era un fattore significativo per la scelta di voto negli anni ’90 e conferma che le donne fossero più propense a votare a sinistra. Nell’esempio due (Fig. 23), nel quale viene presa in considerazione anche la struttura sociale, viene dimostrato
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che quella del genere rimane una variabile molto importante per spiegare il gender gap, pur mantenendo sotto controllo la social structure. Quindi, secondo queste ricerche, il modern gender gap “cannot be explained, as some previous research suggests, as simply the result of gender differences in religiosity, class, age, or participation in the labor force.” (Inglehart e Norris 2000, 447) Nell’esempio tre (Fig. 23), includendo le variabili comportamentali, l’effettogenere si riduce, pur rimanendo significativo.
Figura 23
(Inglehart e Norris 2000, 455)
Inglehart e Norris sono quindi arrivati alla seguente conclusione: il modern gender gap non deriva tanto da variabili strutturali, come l’appartenenza religiosa, l’educazione, l’età, lo status socio-economico, quanto invece da comportamenti individuali che riguardano i valori post-materialisti, il supporto nei confronti del movimento femminile e dell’aborto, l’atteggiamento nei confronti della scala destra-sinistra. Quindi le donne,
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nelle società avanzate degli anni ’90, tendevano a sinistra verso comportamenti più vicini all’uguaglianza e maggiormente associati al post materialismo ed al femminismo. (Inglehart e Norris 2000) Ultima importante scoperta dei due studiosi statunitensi, riguarda quello che potrebbe essere definito come “gender generation gap”. In riferimento alla figura 24 circa la retta dei Paesi industrializzati, capiamo che il fenomeno del modern gender gap è ascrivibile alle generazioni dei più giovani. Infatti, a partire dalle nate negli anni ’60, le donne votavano a sinistra, ed il dato incrementava al diminuire dell’età. Per quanto riguarda le altre due categorie di Paesi, anche qui ritroviamo interessanti andamenti. Negli ex Paesi comunisti, coloro che erano state socializzate a cavallo della fine della seconda guerra mondiale, optavano per un voto più progressista. Per spiegare questo dato bisogna tenere conto del fatto che il regime comunista cercò di sopprimere i modelli tradizionalisti, soprattutto quelli legati alla Chiesa, ed inoltre era assolutamente promotore di una posizione quasi paritetica della donna rispetto all’uomo; ad esempio, nel corso della rivoluzione russa del ’17, venne caratterizzata da un’attiva partecipazione femminile e dagli anni ’20 in poi le donne lavoratrici non erano un’eccezione. (Suchanov 1967) Coloro che invece furono socializzate negli anni della crisi del comunismo sovietico, fine anni ’70 inizio anni ’80, dopo la caduta del muro tendevano a votare marcatamente più a destra. Questo probabilmente perché la crisi del regime era collegato al riemergere di un sentimento religioso a lungo , forzatamente, represso; basti pensare al ruolo di Papa Wojtyła nella Polonia degli anni ’80. Situazione, sorprendentemente, totalmente inversa per le ultime generazioni: le ragazze vissero in prima persona la caduta del muro di Berlino, votavano più a sinistra. Sarebbe però necessario approfondire maggiormente cosa voglia dire destra e sinistra nei Paesi post-comunisti dopo la caduta del Muro perché, sicuramente, hanno un’accezione diversa rispetto a quella dei Paesi industrialmente più avanzati. Per ora accontentiamoci di registrare questo dato. I dati relativi ai Paesi in via di sviluppo, fanno registrare un andamento sempre compreso nel traditional gender gap. Sembra che questi siano ancora totalmente “immersi” in un tradizionalismo e conservatorismo culturale che si riversa anche in nelle scelte politiche.
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Figura 24
(Inglehart e Norris 2000, 454)
Dopo aver constatato che non solo negli Stati Uniti, ma anche negli altri Paesi Occidentali si affermò il modern gender gap, si proceda ora con un’analisi più approfondita rispetto ai singoli Paesi europei.
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3.4 Il modern gender gap in Europa
La giovane Nathalie Giger, nel più recente 2009, ha pubblicato un articolo relativo al gender gap in voting esclusivamente rispetto all’Europa Occidentale. La studiosa svizzera ha messo a confronto, grazie ai dati dell’EuroBarometro, differenze e/o somiglianze nella comparsa del modern gender gap in dodici Paesi europei nel periodo ’74-2000. L’obiettivo era quello di confermare se le differenze di genere nel voto seguissero, anche in Europa, la developmental theory del gender realignment formulata dal Norris ed Inglehart. Con il termine gender dealignment si fa riferimento a quella fase “di passaggio” che va dagli anni ’60 agli anni ’80, nella quale si verificò un annullamento della relazione fra genere e voto. A posteriori si può dire che è stata una fase “di preparazione” verso lo shift che si concretizzò negli anni ’80 e che vide un nuovo processo di riallineamento, vale a dire “una nuova relazione tra genere ed orientamenti politici, per la quale le donne risultavano collocarsi più degli uomini sul versante progressista.” (Corbetta e Ceccarini, 2010) La seconda parte dell’articolo, si focalizza sulla spiegazione del gender gap a livello nazionale ed individuale. Secondo quello nazionale, all’aumentare del livello di istruzione aumentava lo spostamento a sinistra della popolazione femminile. A livello individuale è stato scoperto che la struttura della società era ovunque decisiva per spiegare il fenomeno del modern gender gap. (Giger 2009) La Giger però ha evidenziato come alcuni Paesi Europei stiano ancora vivendo la fase del gender dealignment, ma ha ipotizzato anche che, ad un eventuale aumento delle donne nella forza lavoro, corrisponderà l’emergere del modern gender gap anche in quelle società. (Giger 2009) I grafici sottostanti dimostrano che questa ipotesi è vera, anche se evidenziano che il gender gap nei diversi paesi si sposta con modi e velocità multiformi (a volte fluttua, a volte si muove costantemente, a volte muta improvvisamente). “It should be stressed that the process is far from uniform, probably reflecting particular circumstances within each country, such as the pattern of party competition, the predominant issue agenda, and the strength of the organized women’s movement.” (Inglehart e Norris 2000, 444)
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Riportando i grafici della Nathalie Giger, analizziamo le differenze di voto nei seguenti Paesi. Francia, Paesi Bassi ed, in particolar modo, Danimarca, registrano il più grande gender gap, sia nella “size” (la Danimarca sfiora all’inizio degli anni ’90 -10 punti di gender gap in favore delle donne a sinistra), ma soprattutto nella precocità di inversione della “direction”: già alla fine degli anni ’80 le donne si convertirono alla sinistra molto più degli uomini. Il gap, con l’avvicinarsi degli anni 2000, diminuisce per poi assottigliarsi sempre di più. (Giger 2009) Altri Paesi del nord Europa che però non sono così costanti come quelli appena analizzati, sono Gran Bretagna, Irlanda e Lussemburgo. Se alla fine degli anni ’80 sembravano propendere verso il modern gender gap, negli anni ’90 subirono non poche variazioni. L’Irlanda si è riconvertita al traditional gender gap (un caso che l’aborto sia stato legalizzato solo nel luglio del 2013?), il Lussemburgo ha avuto fortissime oscillazioni nell’arco di soli cinque anni, e la Gran Bretagna non ha mai fatto un vero salto verso il modern gender gap. Ciò che accomuna i tre Paesi, oltre ad un’instabilità del voto delle donne, è rappresentato dal fatto che negli anni 2000 sembra che il fattore genere non sia più così importante per spiegare il voto elettorale. (Giger 2009) Andando verso il sud dell’Europa, troviamo dati interessanti, oltre che ad un outliner. Il cambiamento di opinione delle donne verso la sinistra è avvenuto, in Grecia e Portogallo, durante seconda metà degli anni ’90. In Spagna, invece, è avvenuto tutto il contrario: a ridosso degli anni 2000 le donne, dopo anni di voto a sinistra, iniziarono a votare più a destra e questa tendenza continuò ad acuirsi anche nel nuovo secolo. Infine analizziamo tre Paesi: Italia, Germania (fino alla caduta del muro i dati si riferiscono alla Germania Ovest) e Belgio. Essi sono accomunati principalmente da due fattori: la presenza di forti partiti Cristiano-democratici ed un gender gap compreso in un range simile a partire dalla seconda metà degli anni ’90. (Giger 2009)
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Figura 25
(Giger 2009, 479)
Figura 26
(Giger 2009, 478)
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Figura 27
(Giger 2009, 479)
Figura 28
(Giger 2009, 480)
Dalla fine degli anni ’80 fino ad oggi lo shift, anche se in modi e tempi diversi, anche se a volte non in maniera così netta, anche se in casi isolatissimi non si è verificato (Spagna), è avvenuto proprio rispettando quella “developmental theory” formulata da Inglehart e Norris:
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The repeated cross-national analyses of 12 countries in Western Europe over 25 years have demonstrated that differences in gender voting exist also in Europe, and are thus not confined to the U.S. This paper illustrates that a reversal of the electoral gender gap has taken place in Europe and that the electoral gender gap in Europe follows the developmental process as defined by Inglehart and Norris (2000). Although a modern gender gap is not (yet) visible in all Western European countries in the sample, none of the countries show a traditional gap anymore and the developmental process is visible everywhere. Furthermore, we find the pace of gender realignment to differ across European countries. (Giger 2009, 486)
Per concludere, per quanto riguarda l’Europa, lo shift verso il modern gender gap sembra quasi una certezza. Nei prossimi anni bisogna aspettarsi che le donne votino più a sinistra non solamente in Stati come Germania, Paesi Bassi, Svezia e Norvegia, ma anche nei Paesi geograficamente più a sud.
Ma quale è stato l’andamento di voto delle donne nella ultra-cattolica Italia?
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IV Capitolo: Il gender gap in Italia Questo capitolo mira ad analizzare l’evoluzione del gender gap politico in Italia dal 1968 al 2006. Lo studio della differenza di genere nel voto sarà rapportato ad alcuni fattori strutturali come l’occupazione, l’istruzione, l’età e la religiosità. Attenzione particolare sarà riservata a questo ultimo fattore data la forte influenza che giocò la Chiesa Cattolica nella scelta di voto, in particolar modo, femminile. Attraverso studi specifici sull’importanza delle relazioni sociali sul voto, si dimostrerà che l’ascendenza della Chiesa derivava proprio dalla figura più vicina ai credenti: il sacerdote. (M. Maraffi 2007) Rispetto all’istruzione e l’occupazione, spesso considerate come una sola variabile poiché il più delle volte la seconda è la risultate della prima, si è notato che nel corso della prima Repubblica ad un maggior livello di istruzione/miglior tipo di occupazione corrispondeva un voto più a destra, invece negli ultimi anni la tendenza si è invertita. (Ceccarini e Corbetta 2010) Per quando riguarda il fattore età, è più giusto osservare le differenze attraverso un’analisi per generazione che per fasi della vita, poiché l’essere stati socializzati in un’epoca invece che in un’altra, fa si che determinate scelte di voto siano portate avanti “per la vita”. Per quando riguarda il bacino elettorale femminile, anche in Italia le donne under 45, negli ultimi anni, hanno effettivamente scelto maggiormente i partiti di sinistra. (Corbetta e Cavazza 2007) Ognuna di queste variabili con il passare del tempo, ha subito un calo di importanza nella spiegazione delle scelte elettorali. Se prima il voto poteva essere “facilmente” spiegato poiché seguiva comportamenti elettorali abbastanza fissi nel tempo, adesso, le nuove generazioni, sembrano scardinare continuamente le tendenze che per anni sono state in grado di spiegare efficacemente le scelte degli italiani. (M. Maraffi 2007) (Ceccarini e Corbetta 2010) Nonostante il fatto le donne continuino ad essere sempre più vicine alla Chiesa di quanto non lo siano gli uomini, in generale la percentuale di praticanti diminuisce ogni anno ed, oltretutto, la religione sembra essere sempre più una pratica “individuale” e sempre meno di rilievo politico. (M. Maraffi 2007)
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Il gap scolastico e professionale che prima separava le donne dagli uomini ed i ceti più bassi da quelli più agiati, continua ad esistere, ma il processo di secolarizzazione ha reso l’accesso all’istruzione ed alla carriera professionale accessibile –quasi- a tutti, creando quindi meno differenze di genere e classe. (Corbetta e Cavazza 2009) Lo studio sull’età ha effettivamente portato a scoprire nuove tendenze, però ha anche dimostrato una maggiore volatilità tra le ultime generazioni e questa non consente di poter parlare di nuovi comportamenti di voto di lungo periodo. (Ceccarini e Corbetta 2010) Poiché l’analisi verrà condotta nel corso di periodi che vedono profondi cambiamenti sia dei partiti che delle leggi elettorali, bisogna soffermarsi nel disegnare un quadro sintetico e semplificativo sulla collocazione dei partiti sull’asse destra-sinistra e sui cambiamenti da questi subiti in seguito alla variazione del sistema elettorale. Viene collocata a destra la Dc ed i partiti minori che la supportavano, dai Social Democratici, ai Repubblicani, al Partito Liberale e, dalla metà degli anni ’90 in poi, i vari partiti fondati e rifondati da Berlusconi quali Forza Italia (1994), Popolo della Libertà (2007) ed ora, di nuovo, Forza Italia (2013). Attorno a questi hanno orbitato, pur senza continuità, altri partiti considerati di destra come la Lega, ed Alleanza Nazionale ed in alcune tornate elettorali anche l’Unione di Centro. La Democrazia Cristiana, partito più votato nel corso della Prima Repubblica, pur avendo una vocazione centrista, è, nel corso di questa analisi, classificata come partito di destra. Tale collocazione inquadra un posizionamento politico riferito ad un quadro di assoluta protezione dei valori conservatori e tradizionalisti. Con la vicenda “Mani pulite”, nella prima metà degli anni ’90, la Dc cessò di esistere. Oltre alla breve esperienza del Patto per l’Italia di Segni, la nascente Forza Italia verrà considerata come il principale partito della destra italiana; l’UdC, vero erede della Dc, sarà una forza marginale, il più delle volte alleata proprio con la destra berlusconiana. Per sinistra si intende prima il Partito Comunista Italiano insieme al Partito Socialista –quest’ultimo molto importante negli anni ’80- e poi, dal dopo “Mani pulite”, l’Ulivo. Dal 2007, nacque il Partito Democratico e questo fu supportato principalmente da Italia dei Valori e Sinistra Ecologia e Libertà. Oltre che nello spettro partitico, il cambiamento si verificò anche nel sistema elettorale. Nel 1993, questo mutò da un proporzionale ad un (parziale) maggioritario. Nel
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2006 venne reintrodotto il sistema proporzionale, seppur modificato per favorire non tanto un bipartitismo quando un bipolarismo.
The 1993 adjustment was particularly influential, in that it triggered a fundamental transformation in Italian politics. In fact, by forcing parties to converge into bipolarized system, the new electoral law accelereted the decline of the Christian Democrats who had dominated the centre of the italian political system since the end of World War II. (Corbetta e Cavazza 2007, 276)
L’analisi sul gender gap verrà di seguito portata avanti esaminando, una ad una, le tre variabili indipendenti prima citate: religione, istruzione (visti anche come social roles) ed età. All’inizio sarà analizzata brevemente la relazione tra ognuna di queste variabili ed il voto, a prescindere dal genere. Successivamente si osserverà il comportamento di voto femminile rispetto a queste variabili. Infine si considererà l’influenza che queste variabili hanno avuto sul voto. In ultimo, per sintetizzare i risultati, sarà riportata la regressione lineare fatta da Corbetta e Cavazza riguardante l’effetto del genere sul voto nelle elezioni del 1968 e del 2006 rispetto a tre variabili: educazione, impiego e religione. La struttura di questo capitolo dedicato all’Italia prevede un’introduzione sul comportamento di voto femminile, ed in seguito un’analisi secondo le tre variabili sopra citate: religione, istruzione ed età.
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4.1 Il voto delle donne nell’Italia
Analizzando il gender gap negli Stati Uniti ed in diversi Paesi europei, si è sempre affermato che il maggiore o minore “attaccamento” a certi valori, risultava determinante in termini di espressione di voto. (Inglehart 1977) Negli Stati Uniti, nei primi anni del dopo guerra e fino alla fine degli anni ’60, le donne erano più vicine a temi tradizionali e poiché questi erano maggiormente supportati dai partiti conservatori, il corpo elettorale femminile risultava molto più propenso a votare a destra. Dagli anni ’70 questa componente di genere, iniziò ad essere meno tradizionalista di quella maschile, abbracciando temi più di sinistra, come ad esempio il welfare, per cause principalmente legate ad una situazione sociale ed occupazionale che stava cambiando: “Gender-based attitudinal and behavioural differences arise from the veriety of roles that men and women originate occupy in the society, primaly within the family and in the workplace.” (Corbetta e Cavazza 2007, 275) Questa spiegazione è valida per interpretare il gender gap statunitense pari, fino agli anni ’60, a circa 4-5 punti percentuali; nell’Italia del dopo guerra, invece, la differenza di voto tra uomini e donne superava i 20 punti percentuali. L’ampiezza della forbice risultava di grande evidenza fino agli anni’70, ed anche dopo questo periodo, seppur in diminuzione, il traditional gender gap rimaneva comunque alto intorno ai 10 punti percentuali. Se a metà degli anni ’80 sembrava che anche l’Italia stesse avviandosi verso una, seppur non marcata, minore tendenza delle donne a votare a destra, all’inizio degli anni ’80 la tendenza di voto a destra tornò ai livelli di fine anni ’60. Infatti, nonostante l’implosione del principale partito di destra, la Democrazia Cristiana, il gender gap non variò molto ma in generale sia uomini che donne nel ’94 votarono più per la nuova destra di Silvio Berlusconi. Dalla seconda metà degli anni ’90, la differenza di genere nel voto sembra perdere di importanza, segnando un avvicinamento quasi totale delle scelte elettorali di uomini e donne. (Fig. 29)
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Figura 29
(Corbetta e Cavazza 2007, 277)
Ma perché le donne votavano con tanta maggiore ampiezza per i partiti di centrodestra? Quali erano i fattori che influenzavano maggiormente le loro scelte? E soprattutto dalla fine degli anni ’90 si sta vivendo una fase di transizione verso il modern gender gap o di definitivo gender dealignment? Facendo delle previsioni, ci aspettiamo che il fattore religioso sia quello che provochi maggiormente la differenza di genere.
In Italia il genere è una variabile che è sempre stata fortemente correlata al voto, soprattutto ai tempi della Democrazia Cristiana (Dc), al punto che Mattei
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Dogan poteva scrivere nel 1963 che solo grazie al voto delle donne la Dc riuscì a sopravanzare il Fronte del popolo nel 1948. (Corbetta e Cavazza 2009, 368)
Come anticipato, bisogna tenere però tenere conto di altre variabili prese in considerazione solo negli studi degli ultimi anni.
La ricerca, soprattutto quella che si è applicata al caso italiano, si è eccessivamente concentrata sulle fratture sociali individuate da Stein Rokkan (1970) –con riferimento all’Italia: classe, religione, territorio- trascurando altre variabili ascritte (o comunque sociali) che hanno molto concorso alla definizione degli orientamenti politici dei cittadini. Ci riferiamo in particolare a genere, età e istruzione. (Corbetta e Cavazza 2009, 368)
Corbetta e Cavazza, esaminano genere, età ed istruzione ma poiché il genere costituisce l’obiettivo di questo studio, consideriamolo come variabile dipendente e sostituiamolo quindi con la variabile (indipendente) religione.
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4.2 Le donne e la religione Il rapporto tra religione e popolazione, è sempre stato di centrale importanza negli studi sociali. La correlazione tra questa ed i valori tradizionali è stata anche dimostrata da Inglehart sulla base delle indagini valoriali da lui stesso condotte:
Le società che mettono un’enfasi relativamente forte sulla religione sono caratterizzate da norme molto specifiche quanto a comportamento sessuale, educazione dei bambini, ruolo delle donne e tassi di fertilità; hanno atteggiamenti specifici verso il divorzio, l’aborto e l’omosessualità; enfatizzano in misura relativamente forte anche la deferenza verso l’autorità e presentano norme tipiche per quanto riguarda il successo economico e motivazioni al lavoro caratteristiche. (Inglehart 1977, 34)
Negli anni ’60, tre quarti degli italiani, ritenevano che le religione giocasse un ruolo molto importante nella loro vita.
Anche oggi “nonostante i processi di
secolarizzazione, e il declino marcato della pratica religiosa (…), gli italiani possono dirsi un popolo <>” (M. Maraffi 2007, 19) Considerando i valori tradizionalisti come tipici del centro–destra, vediamo quanto la pratica religiosa ed il voto verso questo schieramento politico fossero collegati, soprattutto negli anni della Prima Repubblica. Alla fine degli anni ’60 circa l’80% degli elettori di centro-destra si dichiaravano praticanti regolari, e con questo si intende che andavano a messa almeno una volta a settimana. Con gli anni la differenza tra le tre categorie è andata diminuendo. (M. Maraffi 2007) (Fig. 30)
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Figura 30
(M. Maraffi 2007, 19)
Anche Corbetta e Cavazza studiarono il fenomeno religione e provarono quanto, fino agli anni ’90, la differenza tra i non praticanti ed i praticanti fosse molto visibile.
Allora i praticanti votavano centro-destra 25 punti percentuali più del voto di tutto l’elettorato nel suo complesso (e 60 punti percentuali in più dei non praticanti). Oggi i praticanti si differenziano pochissimo dalla tendenza media della popolazione (votano a centro-destra 5 punti percentuali in più). Mentre i più lontani dalla chiesa votano a centro-sinistra circa 15 punti percentuali in più rispetto al voto complessivo. (Corbetta e Cavazza 2009, 379)
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Figura 31
Se alla relazione religione-voto aggiungessimo la componente donne, capiamo quanto la pratica religiosa influisse sul risultato elettorale in Italia. Le fugure 30 e 31 pongono in risalto due cose: la prima è il “peso” delle donne cattoliche praticanti nel partito di centro destra (nel 1968, più dell’80% delle cattoliche praticanti votavano Dc); la seconda è la ininfluenza del fattore età rispetto a questo aspetto della scelta di voto (anche le under 45, se assidue frequentatrici della pratica religiosa, votano a destra). (M. Maraffi 2007) “Nel 1968, nell’insieme, c’erano 20 punti % di differenza fra uomini e donne nel voto al centro-destra (a favore ovviamente delle donne, 42% a fronte di 62%); tuttavia,
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fra gli elettori cattolici praticanti, la differenza di genere si riduceva a soli sei punti (79% contro 73%)." (Maraffi, et al. 2010)
Figura 32
(Maraffi, et al. 2010, 170)
Per riassumere: in Italia la componente religione influenzava moltissimo il comportamento di voto, sia tra gli uomini che tra le donne. Poiché però queste ultime erano molto più numerose tra i praticanti regolari, la quantità di donne che votavano a destra poiché vicine alla Chiesa era di gran lunga maggiore. Oggigiorno, seppur l’Italia continua ad essere considerato un Paese Cattolico, il collegamento tra religione e voto non è più significativo. Rimane invece tale nel caso delle donne praticati, senza distinzione di età, anche se la percentuale di queste nella popolazione sia diminuita moltissimo. Ma in che modo la Chiesa influenzava le donne nella Prima Repubblica? Con quali mezzi?
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Corbetta e Cavazza condussero un altro studio da prendere in considerazione rispetto a questo aspetto del tema religioso. Uno degli elementi che, a loro avviso, intervenivano, e quindi intermediavano la relazione genere-voto, era proprio quella delle strategie di informazione. Se adesso la fonte di maggiore influenza è rappresentata dai media, precedentemente i social network, intesi come vere e proprie relazioni sociali, concrete e corporee, erano la vera causa dell’intermediazione. Infatti, i social network “was by far the most important (indirect) way in which gender affected voting decisions.” (Corbetta e Cavazza 2007, 279)
Figura 33
(Corbetta e Cavazza 2007, 280)
Questo vuol dire che, per larga parte, donne e uomini differivano nelle scelte politiche a causa delle diverse relazioni sociali alle quali si esponevano/erano esposti. Esse contribuivano per un 90% sull’effetto totale del genere sul voto; vale a dire che donne e uomini, non solo erano influenzati moltissimo da dette relazioni sociali, ma queste inoltre contribuivano enormemente nello spiegare le differenze nella scelta di voto. (Corbetta e Cavazza 2007)
86
Figura 34 Table 3. Decomposition of the gender effect on vote in 1968, and the role of relational and value variables
%
on
total effect Total effect
0
100%
0
89.9%
0
4.8%
0
12.6%
0
30.9%
.207 Indirect effects operating through: Social network .186 Information search strategies through media .018 Moral traditionalism .024 Egalitarian values .064 Source: data file Itanes.
(Corbetta e Cavazza 2007, 280)
La domanda che ci si pone è quindi, quali erano i soggetti che all’interno di questi social network influivano maggiormente?
87
I due studiosi inserirono cinque categorie di potenziali intermediari politici: amici, famiglia, sacerdoti, sindacati, colleghi. Ora possiamo quindi chiudere il cerchio dal quale eravamo partiti: l’importanza della religione in Italia. La tabelle presente nella figura 35 dimostra che l’opinione dei sacerdoti appariva come il fattore che più influenzava il voto. (Corbetta e Cavazza 2007) L’opinione che possiamo sintetizzare in “opinione di contesto lavorativo” riguardante colleghi e unioni sindacali, e che verrà analizzata nel prossimo paragrafo, anch’essa contribuiva considerevolmente.
Figura 35 Table 4. Decomposition of the gender effect on vote in 1968, and the role of social network
% on total effect Total effect
0.2
100%
−
0.9%
0.0
1.4%
0.0
44.4%
0.0
35.3%
07 Indirect effects operating through: Friends 0.002 Family 03 Priests 92 Trade unionists
88
73 Colleagues
0.0
20.8%
43 Source: data file Itanes.
(Corbetta e Cavazza 2007, 280)
Quindi, al riassunto precedentemente fatto, possiamo aggiungere che il prete era considerata una figura autorevole ed affidabile la cui opinione era molto tenuta in considerazione; poiché le donne erano le più assidue frequentatrici della Chiesa, l’opinione dei sacerdoti (sicuramente schierati a favore della Dc, partito dei cattolici) influenzava moltissimo le loro decisioni di voto.
Following our analyses, in Italy the Catholic Church exerted its influence on people’spolitical deicsions not so much by promoting a specific set of values, but rather by encouraging the cutivation of close relationships between priests and churchgoers in those communities centred on the Parish. This conditions established a rich social network which gravitated politically around the centreright party, the Christian Democrats. (Corbetta e Cavazza 2007, 282)
L’ultima domanda che poniamo per spiegare la relazione voto-genere-religione e in definitiva: empiricamente, quanto ha influito la religione nella scelta di voto? Lo studioso Marco Maraffi nel libro “Votare in Italia: 1968-2008” (Maraffi, et al. 2010) studiò proprio l’influenza specifica della religione sul voto. Prima di commentare i risultati della tabella, bisogna spiegare i dati contenuti nella medesima. La prima tabella nella figura 36 mostra il coefficiente di determinazione R2. ; questo, in statistica, è una proporzione tra la variabilità dei dati e la correttezza del modello statistico utilizzato. Questo varia tra 0 e 1. Quando è zero il modello utilizzato non spiega per nulla i dati; quando è 1 li spiega perfettamente. Nel blocco 1
non è presa in considerazione la variabile religiosa, ma altre
variabili come età, genere, istruzione ecc. Nel blocco 2 l’autore inserisce la variabile
89
religiosa e vediamo come R2 aumenti. Questo significa che, aggiungendo la componente religiosa, il modello è capace di spiegare maggiormente il voto. Il blocco 2-1 è il blocco che a noi interessa di più, vale a dire quello che analizza il voto al netto delle variabili del blocco 1, dove quindi si comprende realmente il peso della religione. Se nelle elezioni del 1968 l’influenza di questa era determinante (14,6 punti percentuali), nelle tornate elettorali del ’06 e ’08 il peso era quasi nullo. La seconda tabella presente nella figura 36 si occupa della predizione corretta delle variabili indipendenti del blocco 1 e 2 in precedenza illustrate, ma questa volta rispetto alla variabile dipendente voto a centro-destra. Dal blocco 1, dove quindi non è compresa la religione, si nota che nei 40 anni presi in analisi vi è una riduzione nella capacità di predizione, ma non un crollo della capacità predittiva del modello. (Maraffi, et al. 2010) Questo vuol dire che le variabili socio-demografiche (ad esempio istruzione, genere età ecc..), e le fratture sociali (come per esempio classe e zona geopolitica) giocano ancora un ruolo importante (soprattutto in riferimento al dato del 2008), seppur in calo. (Corbetta e Cavazza 2007) L’aggiunta, nel blocco 2, della frequenza al rito religioso, fa aumentare la capacità predittiva (percentuale dei casi al 73,3%, vale a dire che il voto al centro-destra può essere spiegato attraverso queste variabili nel 73% dei casi).
90
Figura 36
(Maraffi, et al. 2010, 167)
Ma ciò che più interessa è la variazione della percentuale di casi predetti in maniera corretta quando si considera il voto al centro-destra al netto delle variabili indipendenti eccetto che quella religiosa. La capacità di predizione, quando si aggiunge la componente religiosa, aumenta di 6 punti percentuali nel 1968. Da questo dato, seppur non da considerare così basso, forse ci aspettavamo di più, ma questo confermerebbe quanto ipotizzato in precedenza. Il gender gap non può essere spiegato guardando coloro (senza differenza di genere) che vanno a messa che in generale votavano centrodestra, ma tra coloro che andavano a messa (maggioranza donne) e coloro che non la frequentavano (maggioranza uomini). (Corbetta e Cavazza 2009)
91
Figura 37
(Corbetta e Cavazza 2009, 380)
Cosa succede rispetto alla relazione voto-istruzione?
4.3 Le donne e l’istruzione Prima di addentrarci nel tema istruzione, bisogna fare due precisazioni: la prima in riferimento all’importanza del titolo di studio con il passare degli anni, la seconda rispetto ai livelli di istruzione.
92
La valenza ricoperta da una laurea di oggi, non è la stessa di quella di quaranta anni fa. Il conseguimento della laurea negli anni ‘60 potrebbe essere rapportato ad un Phd degli anni 2000. Il raggiungimento della laurea negli anni 2000 potrebbe corrispondere al diploma liceale negli anni ’60. Nella figura sovrastante non è presente il periodo storico al quale proprio questa precisazione fa riferimento. Nel 1963-64, infatti, entrò in vigore la riforma della scuola media unica, “della quale ha iniziato ad usufruire la coorte dei nati nel 1952.” (Corbetta e Cavazza 2009) La seconda precisazione riguarda la suddivisione dei livelli di istruzione: inferiore, cioè la scuola dell’obbligo, che era considerata tale fino alla scuola elementare per i nati fino al ’51 e alla scuola media per i nati dal ’52; medio, equivalente a licenza media per i nati fino al 1951 diploma per la coorte dal ’52 in poi e superiore, cioè diploma fino ai nati del ’51 e laurea dal ’52 in poi. Dal grafico è chiaro che, col passare degli anni, l’influenza dell’istruzione sul voto scenda moltissimo. Le ragioni possono essere individuate proprio nel processo di secolarizzazione che ha dato la possibilità, non solo ai ceti più agiati, di accedere all’istruzione. (Corbetta e Cavazza 2009) Il grafico di seguito riportato, seppur non preveda una differenziazione di genere, è quello che però inizia realmente ad anticipare il rapporto voto femminile-livello di istruzione. All’inizio degli anni Settanta la relazione fra istruzione e voto era nettissima: nel 1968 le persone con licenza elementare davano il loro voto al centro-destra nella misura del 48%, mentre questa percentuale raggiungeva per diplomati e laureati il 69%, oltre 20 punti percentuali in più, una differenza notevole. In questi anni, dunque, nel cuore della contrapposizione fra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, il possesso di un titolo di studio superiore orientava fortemente verso l’area centrista costituita attorno alla Dc (Ceccarini e Corbetta 2010, 119)
Si divida questo grafico in due parti: pre e post metà anni ’90. Analizzando la prima parte, è evidente che, come specificato anche da Ceccarini e Corbetta, coloro che possedevano un alto livello di istruzione, votavano centro-destra. Sorge però un dubbio: poiché la maggioranza degli elettori del centro-destra erano donne, e poiché il livello medio di istruzione era più alto proprio in questo schieramento, di
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conseguenza le donne sarebbero dovute essere anche le più istruite. Affermare questo però significherebbe smentire tutti gli studi sociologici finora portati avanti. L’unica via per spiegare questa affermazione -che avrebbe una sua logicità, ma che non trova fondatezza storica- è quella per la quale le reale differenza sull’education gap, esisteva rispetto agli uomini di centro-destra e gli uomini di centro-sinistra. Tra i primi la maggioranza possedeva una laurea, mentre tra i secondi la professione più comune, che non presupponeva nessun titolo di studio, era quella dell’operaio: “gli operai negli anni Settanta ed Ottanta si orientavano compattamente a sinistra” (Maraffi, et al. 2010). L’istruzione delle donne era una sorta di componente a somma zero nel senso che, anche se queste, numericamente, superavano gli uomini nel voto a centro destra, e quindi contribuivano a diminuire il livello medio di istruzione di quello schieramento, quest’ultimo non si sarebbe mai abbassato a quello del centro-sinistra dove l’indice generale medio era basso sia per gli uomini che per le donne. In questa prima fase storica ci troviamo quindi in quello che viene chiamato traditional gender gap: i più istruiti votano a destra. (Fig. 38) Se per comprovare lo shift verso il modern gender gap si necessitano studi più approfonditi, nel caso del modern education gap, l’inversione di tendenza è assolutamente manifesta già da questo grafico. Dalla seconda metà degli anni ’90 coloro che possiedono un titolo di studio più alto votano più a sinistra (modern education gap). “Nelle ultime elezioni del 2008 i laureati hanno votato al centro-destra nella misura di 14 punti percentuali in meno rispetto alle persone aventi il solo titolo di scuola dell’obbligo” (Ceccarini e Corbetta 2010, 129)
94
Figura 38
(Corbetta e Cavazza 2009, 387)
Quindi, per sintetizzare quanto fino ad ora esposto, è possibile dire che fino alla metà degli anni ’90, tra le fila degli elettori di centro-destra, la maggioranza aveva un alto titolo di studio. Seppur la maggioranza di quell’elettorato fosse composta proprio dalle donne, da sempre soggette a maggiori limiti nell’accesso all’istruzione, potremmo risolvere il dilemma ipotizzando che “nonostante” la loro presenza, lo schieramento di sinistra avesse un indice di istruzione medio più basso perché anche gli uomini, spesso, frequentavano fino alla scuola dell’obbligo. Non avendo a disposizione un grafico che evidenzi la correlazione genereistruzione-voto, si analizzino le seguenti regressioni lineari presenti nelle figure 39 e 40 che, al tema dell’educazione, aggiungono quello dell’impiego e della religione. “Until the 1990s, in fact, Italian women had lower levels of education, were more frequently unemployed, and attended church more often than men.” (Corbetta e Cavazza 2007, 282), ma come cambio questo nel corso degli anni 2000?
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Nella prima tabella presente nella figura 39 si mostrano gli effetti del genere variabile indipendente- rispetto all’educazione, allo status occupazionale ed alla religione –variabili dipendenti-. La seconda tabella della figura 40 pone queste ultime come variabili indipendenti ed il voto come dipendente. Poiché ogni coefficiente esprime la differenza in punti percentuali tra uomini e donne, nella tabella prima tabella (Fig 39) risulta evidente come sia un maggior livello di istruzione, che, soprattutto, il fatto di possedere un impiego lavorativo, erano elementi più comuni tra gli uomini ma, in entrambi i casi, la differenza nel corso degli anni è di gran lunga diminuita. Nel caso della religione la relazione è opposta ma, anche questo elemento, dimezza la sua forza dalla fine degli anni ’60 alla metà degli anni 2000. (Corbetta e Cavazza 2007) Nella seconda tabella (Fig 40) i dati che più colpiscono sono educazione-voto e religione-voto. Nel primo caso gli individui più educati erano considerevolmente più propensi a votare partiti conservativi (+21.9 punti percentuali), mentre nel 2006 erano leggermente meno propensi a supportare la grossa coalizione del centro-destra (-3.6 punti percentuali). (Corbetta e Cavazza 2007) Inoltre nel 1968 le persone che con regolarità andavano in Chiesa erano molto più propense a votare a destra (+41,8 punti percentuali), invece nel 2006 questa differenza è diminuita a 13,7 punti percentuali, registrando quindi un decremento fortissimo: - 28,1 punti percentuali. Ergo il genere non ha più un forte effetto sul voto attraverso la religione. (Corbetta e Cavazza 2007) L’impiego, infine, soprattutto a causa dell’incremento delle donne nel mondo lavorativo, ha significativamente ridotto le differenze di genere in quest’area e quindi anche l’impatto che questo ha sul voto. L’istruzione è quindi stata la variabile meno efficace nell’influenzare la differenza di genere rispetto al comportamento elettorale. Questo è confermato anche attraverso il seguente grafico.
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Figura 39
Strength of the relationship between gender and social roles
1 968 Gender
Gender
Gender Religion
− 0.053
−
−0.030
−
−0.267
0
−0.134
0.023
–
Employment
Strength diminution between 1968 and 2006
006
–
Education
2
− 0.501
0.234
–
0 .286
.152
Source: data file Itanes.
(Corbetta e Cavazza 2007, 281)
Figura 40
Strength of the relationship between social roles and vote 1 968 Education –Vote
.219
ent–Vote
-
−0.183
0
−0.091
0.036 −
0.104
Strength diminution between 1968 and 2006
006 0
Employm
2
.013
97
Religion – Vote
0 .418
0
−0.281
.137
Source: data file Itanes.
(Corbetta e Cavazza 2007, 281)
Nonostante l’indice globale di influenza della religione sul voto, che nel 1968 si attestava attorno a circa 25 punti percentuali, incide ed incideva di più, anche la variabile istruzione aveva una sua importanza. In particolare nelle elezioni del 2008 si osserva una piccola ripresa.
Figura 41
(Corbetta e Cavazza 2009, 384)
In generale si può affermare che le donne, avvicinandosi ad una condizione sociale più simile a quella degli uomini, come accesso all’istruzione ed al mercato
98
lavorativo, vengono sempre meno influenzate dal livello di istruzione rispetto alla scelta di voto. (Fig. 41)
This suggest that in today’s Italy, women vote more like men not because thay have become ‘socially’ more similar to men, but rather because social differences no longer affected voting decisions. Educational attainment only weakly affects political preferences. Furthermore, over time the sign of this effect has changed (shifting from the centre right to centre left). Similarly, over the course of the last forty years, the effect of labour participation and church attendance on voting patterns has significantly declined. (Corbetta e Cavazza 2007, 281)
Dopo tutte queste considerazioni, si arrivi ora all’analisi dell’ultima variabile presa in considerazione: l’età. Questa, nel caso italiano e non solo, è la reale potatrice del modern gender gap. Citando, nuovamente, i due studiosi italiani, è possibile capire il perché:
As shown in the second part of our study, this change is primarly due to the fact that gender differences in education, occupational status and religiousness now have a fairly weak effect on political views. In other word, today’s young men and women’s voting behaviour is essentially the same not so much because gender social equality has increased, but rather because social differences no loger shape individuals’ political decision. (Corbetta e Cavazza 2007, 282)
99
100
4.4 Le donne e l’età. All’inizio del VI Capitolo è stato riportato il grafico che riguarda la proporzione di voti per i partiti di centro-destra dal 1968 al 2006 valido sia per uomini che per donne. Da questo risulta che, a metà degli anni 2000, lo shift verso il modern gender gap non era avvenuto ed è anche evidente che il fattore genere avesse perso la sua importanza nello spiegare la differenza di voto tra uomini e donne. (Corbetta e Cavazza 2007) Il vero spartiacque sono le elezioni del 1996. Appena due anni prima, nel ’94, il gender gap toccò quasi 10 punti percentuali ed inoltre la percentuale delle donne che votarono a destra fu pari a quella registrata negli “anni d’oro” della Dc. A partire dal ’96, invece, sia uomini che donne diminuirono il loro supporto nei confronti del centro-destra ma, poiché questo fu di gran lunga più accentuato nel fronte femminile, il risultato fu un avvicinamento fortissimo tra le due scelte di voto, il tutto accompagnato ad un lento ma progressivo allontanamento dai partiti conservatori. (Corbetta e Cavazza 2007) Se riprendessimo lo studio portato avanti da Pamela Johnston Conover, potremmo spiegare il fenomeno ipotizzando che questa sia una fase di stallo o, detta in altre parole, di passaggio che somiglia a quella avvenuta negli anni ’70 negli Stati Uniti. È come se, per procedere dal traditional al modern gender gap, sia necessario un periodo di tempo nel quale la conversione possa realmente compiersi. Viene naturale pensare che, come ogni sorta di cambiamento, questo si manifesti principalmente, o in alcuni casi solamente, tra le generazioni più giovani. Da qui l’ipotesi in precedenza formulata del generation gender gap. Questo si era visto in maniera evidente rispetto all’analisi più generale riguardante i Paesi industrializzati, quelli in via di sviluppo e quelli appena usciti dall’era comunista. Si era notato che le donne, nei Paesi facenti parti del primo gruppo, dai 35 anni in giù, votavano più a sinistra. Il fenomeno era presente, seppur in ritardo, anche nei Paesi excomunisti per le donne dai 25 anni in giù. (Inglehart e Norris 2000) In riferimento all’Italia Corbetta e Cavazza notarono lo stesso fenomeno. Divisero il campione dei votanti a centro destra non solo in uomini e donne ma anche tra gli under ed over 45. Il gender gap può essere quindi spiegato per generazioni.
101
Nel 1968 il comportamento di voto tra gli over e gli under 45 è simile; ci sono circa 20 punti percentuali di differenza, anche se il gap è più accentuato tra le generazioni più giovani forse perché una piccola parte invece che votare Dc, votavano MSI, ovviamente non compreso nel centro-destra preso in analisi. “Anche in Italia i partiti più estremi sullo spettro politico presentano un suffragio più maschile che femminile” (Ceccarini e Corbetta 2010, 111) ed è facile pensare che questo avvenisse soprattutto tra i giovani. Gli effetti del ’68 si mostrarono in maniera molto marcata tra le donne e soprattutto quelle giovani. Tra le under 45 infatti il voto a destra calò di 15 punti percentuali mentre tra quelle le over 45 “solo” di 10. (Corbetta e Cavazza 2007) (Fig. 41) Ricordiamo che proprio in quegli anni furono legiferati aborto e divorzio, rispettivamente nel ’70 e nel ’78. Dagli anni ’80 fino alla metà degli anni ’90, il fenomeno del modern gender gap non prese piede poiché, anche se in misure diverse, in entrambi i gruppi le donne ripresero progressivamente a votare più a destra. In entrambi i casi nelle elezioni del 1994, le donne votarono nuovamente, compattamente centro-destra (che, da qui in poi, era rappresentata da Berlusconi). Ricordiamo inoltre che proprio da questa tornata, entrò in vigore la nuova legge elettorale (più comunemente chiamata Mattarellum) pensata in senso maggioritario. Il cambiamento fu generale. È, infatti, curioso notare anche il comportamento degli uomini: nel primo gruppo questi “rincorsero” le donne, facendo registrare un lievissimo gender gap, mentre nel secondo caso la forbice si riaprì nuovamente di più di 20 punti percentuali. Furono le elezioni successive che videro l’ulteriore appiattirsi del gender gap tra gli under 45, che portò alla successiva conversione nel 2001. Se il gruppo degli over 45 si reimmerse nel traditional gender gap, le generazioni più giovani, vale a dire quelle che nel 1994 avevano socializzato nel ’68 o poco prima, si stavano preparando allo shift. Il gap sparì nelle elezioni del 1996, e lo shift si manifestò con quelle del 2001: le donne under 45 che votavano a destra erano inferiori degli uomini. (Corbetta e Cavazza 2007)
102
Figura 42
103
Proportion of votes for centre-right parties for men and women under 45 years: 1968– 2006. (b) Proportion of votes for centre-right parties for men and women over 45 years: 1968– 2006. Source: data file Itanes.
(Corbetta e Cavazza 2007, 278) Nel 1996 uomini e donne sotto i 45 anni mostrano un identico orientamento di voto; nelle due elezioni successive le giovani donne sorpassarono a sinistra i maschi. Questa inversione di tendenza non è però confermata dal dato del 2008, che vede di nuovo i giovani uomini un po’ più a sinistra delle donne coetanee. (Ceccarini e Corbetta 2010, 106-7)
Se si potesse fermare l’analisi ai dati del 2006, potremmo sostenere che il modern gender gap rispecchi effettivamente le scelte politiche future; potremmo infatti affermare che l’attuale orientamento a destra delle donne più anziane sia il residuo di quella tendenza conservatrice e tradizionalista che dilagava tra le donne nel corso della prima repubblica. Se, quindi, fermassimo l’analisi al 2006, verrebbe confermata la tesi che voleva spiegare il voto in Italia non tenendo conto del “corso della vita”, ma piuttosto guardando alle scelte elettorali come ad un fatto generazionale. (Fig. 41) Questo nuovo shift del 2008, confermerebbe però quanto detto all’inizio del capitolo: le nuove generazioni tendono ad essere più volatili e meno “barricate” dietro a schemi che si erano conservati, dal dopo guerra, per più di quaranta anni. Altra ragione che potrebbe spiegare questo nuovo traditional gender gap, è di natura più circostanziale: la campagna elettorale messa in campo dai diversi candidati del 2008, ha fatto avvicinare più giovani donne alla coalizione di centro-destra guidata da Berlusconi. (Ceccarini e Corbetta 2010) (Fig. 42) Sicuramente la nuova forbice non è così ampia da poter affermare che vi sia un effettivo ritorno ad un voto delle donne più a destra e potremmo guardare al dato del 2008, come ad un’anomalia dovuta a circostanze contingenti di quella tornata elettorale. Bisogna ricordare che quelle furono votazioni nelle quali la coalizione di centro-destra vinse con un distacco di quasi 10 punti percentuali rispetto alla coalizione di Walter Veltroni e quindi la scelta delle giovani donne di votare a destra è stato forse frutto di una
104
più generale capacità di attrarre più elettorato femminile da parte della coalizione di Berlusconi.
Figura 42
(Ceccarini e Corbetta 2010, 107)
105
Per analizzare meglio la divisione di genere all’interno dei singoli partiti, si faccia riferimento ai seguenti due grafici, identificativi del voto femminile e maschile nei partiti presenti alle elezioni del 2006 e del 2008. Nel 2006 il principale partito di centro-sinistra non registrò differenze di genere. La differenza presente tra Fi e An si compensava, poiché in quest’ultimo votavano più uomini mentre per il partito più grande più donne. Se dividessimo tutti i partiti in schieramento di destra e di sinistra, le donne continuerebbero, anche se di poco, ad essere più numerose a destra. Ma poiché, come dimostrato in precedenza, il modern gender gap era presente tra gli under 45, ci saremmo aspettati che alle successive elezioni, anche a livello generale, si compiesse lo shift. Nel 2008 questo invece non accadde. (Fig. 42) . Si poteva ipotizzare che le elezioni erano troppo ravvicinate per garantire ad un gran numero di elettori di poter acquisire il voto e continuare sulla scia dei loro predecessori, ma in realtà ci fu proprio un cambio di tendenza. Le donne under 45 che votarono a destra furono maggiori, ed accadde anche ad un livello “macroscopico”: erano più gli uomini che votarono PD e più le donne che votarono PdL (gap di quasi 10 punti percentuali con gli uomini del PdL).
106
Figura 43
(Ceccarini e Corbetta 2010, 103)
107
Figura 44
(Ceccarini e Corbetta 2010, 104)
Anche guardando all’andamento dell’indice globale di influenza dell’età sul voto, ci accorgiamo che nel 2006 si era registrato il livello minimo, nel quale quindi il gender gap si pensava avesse perso la sua validità. Nel 2008 questo invece ricominciò ad incrementare, ma non manifestando o comunque confermando l’inversione di tendenza, ma ritornando, tra i giovani, al traditional gender gap. (Fig.44)
108
Figura 45
(Corbetta e Cavazza 2009, 384)
Riassumendo brevemente: andando alla ricerca del modern gender gap anche in Italia, si è deciso di dividere lo studio del voto non solo per genere ma anche per età, tra gli under ed over 45. Il comportamento di voto tra questi era simile fino all’inizio degli anni ’70 ma poi iniziò a diversificarsi leggermente; sembrava che donne e uomini under 45, avvicinandosi sempre più, si stessero preparando al modern gender gap; tra gli over rimanevano invece sostanziose differenze. Nelle elezioni del ’96 gli over 45 si avvicinarono moltissimo (si pensava ad una perdita di importanza del gender gap) per poi riallargarsi sia nel 2001 (quasi 10 punti percentuali) che, in misura minore, nel 2006. Discorso differente per gli under 45, portatori del modern gender gap dal 2001 al 2006 ma di nuovo “traditional” nel 2008. In generale, per spiegare il voto in Italia Corbetta e Ceccarini affermarono che l’orientamento politico in Italia è un fatto di generazione e non di corso di vita. In quest’ultimo caso si fa riferimento a tendenze, di solito più moderate, che possono palesarsi con l’avanzare degli anni e spesso è più utile per spiegare la volatilità intrablocco.
109
Quando si parla di “fatto per generazione”, invece, si intende dire che coloro che vennero socializzati nel ’68 voteranno sempre a sinistra, chi invece negli anni del fascismo sempre a destra. Questo spiegherebbe pienamente l’atteggiamento delle donne over 45, ma non molto quello delle giovani generazioni. Il cambiamento manifestato dal 2006 al 2008, non può essere giustificato attraverso un ulteriore cambio generazionale poiché in due anni questo è impossibile che avvenga. Quel che è certo è che l’Italia si sta sicuramente “avviando verso una stagione nella quale le donne risulteranno essere politicamente più a sinistra degli uomini” (Ceccarini e Corbetta 2010, 107) ma è come se il traditional gender gap non fosse più valido per spiegare il comportamento di voto, ma neppure il modern risulta efficace; è come se questo stentasse a manifestarsi. Le ipotesi che potrebbero spiegare questa strana tendenza sono due: o l’Italia si trova ancora in quella fase di passaggio verso una manifestazione netta modern gender gap, ovvero anche nei prossimi anni continueremo ad assistere a continue alternanze che presupporrebbero la fine dell’importanza della differenza di genere come importante fattore nelle predizioni di voto. Accreditare quest’ultima ipotesi risulterebbe utile per spiegare l’altalenante tendenza di voto delle nuove generazioni. La fine delle ideologie, del voto di classe, dell’attaccamento alla religione, al territorio, alle abitudini di voto famigliari, portano la scelta di voto ad essere scevra di costanti che per decenni hanno aiutato a spiegare il voting behaviour. Il voto sembra essere, più di prima, attaccato a fatti e fattori contingenti che influenzano, in maniera particolare, le nuove generazioni poiché prive di vincoli ideologici-famigliari che canalizzerebbero il voto verso specifici e “storici” atteggiamenti. Per terminare e riassumere le analisi scientifiche in merito al caso italiano, risulta utile riportare le seguenti regressioni. (Figg. 46 e 47) La prima (Fig. 46) analizza l’effetto genere sul voto nel 1968 e la seconda, oltre ad una comparazione 1968-2006, aggiunge anche la variabile degli over 45. Nel 1968 l’effetto totale del genere è pari a 0.207, vale a dire 20.7 punti percentuali, risultante dalla differenza di voto tra uomini e donne (0.623 – 0.416). Questa è misurata, come sempre, rispetto alla maggiore tendenza delle donne a votare centrodestra e quindi un segno positivo manifesta la suddetta propensione, uno negativo palesa il contrario. Gli studiosi Corbetta e Cavazza, nell’impostazione della regressione,
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decisero di testare il reale peso del genere sul voto, ponendo questo al netto di altre componenti: educazione, impiego e religione. L’effetto reale si ferma infatti ad uno 0.059, cioè 6 punti percentuali in più di tendenza delle donne a votare centro-destra. L’effetto dell’educazione è quello meno rilevante: le donne tendono, per un minor livello di educazione, a votare centro-destra 1,2 punti percentuali in meno degli uomini. A causa di una minore partecipazione nella forza lavoro, le donne votano right wing più degli uomini per 5.1 punti percentuali. Infine l’effetto delle religione è confermato essere anche qui il più rilevante: le donne, per una maggiore frequentazione della Chiesa, votano più a destra degli uomini per quasi 11 punti percentuali. L’effetto indiretto del fattore religione aveva un peso doppio rispetto a quello diretto del genere.
Figura 46 Table 1. Decomposition of the gender effect on vote in 1968 Variables
b Regression coefficient between gender and vote
G
0.207
Total effect: 0.207
G + Ed
0.219
Education
effect:
0.207 − 0.219 = −0.012 G + Ed + Em
0.168
Employment
effect:
0.219 − 0.168 = 0.051 G + Ed + Em + Re
0.059
Religion
effect:
111
0.168 − 0.059 = 0.109 Direct effect: 0.059
(Corbetta e Cavazza 2007, 279)
Nel 2006 “our results confirmed the absence of a distinct relationship between gender and voting decision.” (Corbetta e Cavazza 2007, 280) Le donne tendono più degli uomini a votare centro-destra per 1.5 punti percentuali. Questo dato si abbassa ulteriormente arrivando ad un insignificante 0.2 punti percentuali se consideriamo il genere controllando gli altri fattori indiretti. Ad una minore educazione le donne propendono verso destra per 0.1 punti percentuali più degli uomini (piccolo cambio di tendenza che confermerebbe il modern education gap). Ad una maggiore partecipazione nel mondo lavorativo, le donne votano meno i partiti di centrodestra per 0.3 punti percentuali (maggiore interesse su temi democratici quale, per esempio, l’assistenzialismo sociale). Il dato sulla religione rimane quello più significativo rispetto agli altri due, ma è di gran lunga meno rilevante rispetto a quello di 40 anni prima: propensione di voto a destra da parte delle donne “più religiose” pari ad 1.5 punti percentuali più degli uomini. I dati del 2006 sul totale della popolazione sono però in controtendenza rispetto a quelli che presuppongono una differenziazione per età. Guardando alla popolazione over 45, troviamo tendenze simili a quelle del 1968, seppur molto meno rilevanti (minori punti percentuali di differenza uomo-donna). La differenza totale è di 5.5 punti percentuali, ma questa si dimezza tenendo ferme le altre variabili. La religione ha un effetto doppio rispetto all’intera popolazione del 2006, ma diminuito di ¾ in riferimento a quello del ’68. In conclusione si può affermare che in Italia esistono tutti i presupposti per far si che anche questo Paese si adatti definitivamente alla tendenza che vuole, nei Paesi maggiormente sviluppati, le donne più a sinistra: presenza del modern education gap, vale a dire all’aumentare del livello di educazione, aumenta la propensione di voto a sinistra; espansione del numero delle donne lavoratrici le quali decidono di votare per valori più democratici; diminuzione dell’importanza della religione, ora più “individuale”
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che collettiva. Manca solamente lo shift definitivo che classificherebbe anche l’Italia tra i Paesi con un modern gender gap stabile ed assodato. (Fig.47)
Figura 47 Table 2. Decomposition of the gender effect on vote in 1968 and in 2006 T otal
Di rect effect
Indirect due to education
Indirect due to employment
effect 1 968
.207
006
.015
006 more .055 than
due
to
0.
−0.012
0.051
0.109
0.
0.001
−0.003
0.015
0.
−0.003
0.007
0.026
059 0
2
ct
religion 0
2
Indire
002 0 025
45
years old
(Corbetta e Cavazza 2007, 279)
La verità è che questo, per ora, sembra effimero. Stenta a manifestarsi perché le generazioni più anziane sono ferme alle tendenze del ’68 e quelle più giovani sono volatili e quindi poco prevedibili e “catalogabili”. È vero che tra gli elettori di sinistra vi è un maggiore livello di istruzione, ma non in maniera così marcata. Si è verificato che le donne lavoratrici votano più a sinistra, ma non ai livelli degli altri Paesi. Si è dimostrata
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l’assoluta perdita di importanza della religione, ma è anche vero che potrebbe non essere più giusto calcolare la sua importanza nel comportamento politico in base alla frequentazione della messa. Nonostante vi sia un progressivo allontanamento dalla Chiesa Cattolica, è anche vero che i valori da questa incarnati rimangono punti fermi della società italiana, ma soprattutto della maniera di fare politica in Italia.
È evidente che tale diffusione di orientamenti tradizionali all’interno delle coalizioni (anche quella di centro-sinistra) e dei partiti (anche di sinistra) è un freno rilevante a politiche ispirate a valori di stampo laico e secolare (aborto, eutanasia, coppie di fatto, ecc. Poiché stiamo parlando di tratti culturali consolidati e persistenti, ciò non è privo di conseguenze politiche durature. (M. Maraffi 2007, 38)
Per vedere se i dati registrati nel 2008 siano stati effettivamente un’anomalia o se in realtà sia l’inizio di un nuovo ritorno al traditional gender gap, non resta che analizzare le elezioni del 2013. Le donne hanno votato più a destra o a sinistra in questa tornata elettorale? È possibile parlare di un modern gender gap o no?
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V Capitolo: Elezioni 2013, quale gender gap? Quest’ultimo capitolo prende in esame la tornata elettorale del 2013. L’analisi, come già spiegato nell’introduzione, si basa sui dati dell’Associazione ITANES, raccolti principalmente nei due mesi immediatamente successivi alle elezioni. Prima di entrare nel vivo dell’indagine statistica, bisogna soffermarsi sulla proposta elettorale offerta nelle elezioni del febbraio del 2013, elezioni che hanno visto il numero di elettori più elevato cambiare voto nella storia della Repubblica. (ITANES 2013) Sulla base di un’accurata analisi degli esiti elettorali, l’utilizzo dei dati ITANES permette di chiarire le dinamiche di un voto che ha rivoluzionato il panorama politico italiano, ma che ha anche di fatto prodotto un risultato così indeterminato da rendere necessario il ricorso ad un governo di larghe intese. Se i risultati elettorali non hanno consentito di indicare una chiara direzione di governo del Paese, la causa non è da rintracciare solo nel malfunzionamento della legge elettorale, bensì anche nei cambiamenti ben più profondi avvenuti nel comportamento di voto degli italiani. Il confronto con le elezioni del 2008, del resto, non lascia dubbi. Sono stati addirittura 11 i milioni voti persi complessivamente dalle coalizioni di centrosinistra e di centrodestra: quasi la metà degli elettori di destra ha deciso di non rivotare lo schieramento di centro-destra, mentre la sinistra è stata abbandonata da più di un quarto dei suoi elettori. (ITANES 2013) Si è avuta, dunque, una vera e propria destrutturazione del sistema partitico, con il dissolvimento delle tradizionali appartenenze e fedeltà da parte sia di chi si è recato ai seggi, sia di chi si è astenuto dal farlo. Il dato che mostra la mobilità elettorale, cioè la volatilità elettorale, è infatti quadruplicata rispetto al 2008, raggiungendo un livello mai registrato in Italia perfino superiore a quello toccato nelle elezioni del 1994 dopo il crollo della cosiddetta Prima Repubblica. (ITANES 2013) Ma, in definitiva, dove sono andati a finire i voti espressi? In piccola parte verso due nuovi soggetti politici, vale a dire Scelta Civica di Monti (10,6% alla Camera) ed il grosso verso il Movimento 5 Stelle di Grillo (primo partito alla Camera – se si esclude la circoscrizione Estero – con il 25,6%, quota, fino a quel momento, mai raggiunta da
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nessun partito alla sua prima competizione elettorale), entrambi capaci di pescare in maniera trasversale nei bacini elettorali delle due principali coalizioni. (ITANES 2013) In pratica, il risultato è stato quello di un passaggio da un sistema politico fondato su una competizione bipolare –emersa sin dalla fine della Prima Repubblica- ad un altro caratterizzato da un preciso assetto tripolare: centrodestra, centrosinistra, M5S. Prima delle elezioni, in realtà, prevendendo una buona riuscita della coalizione guidata da Monti, si pensava ad un assetto a quattro capi, ma ad elezioni concluse ed a risultato ottenuto, lo scenario politico si è strutturato su tre “soli” poli. Questo risultato, frutto di un radicale disallineamento nel rapporto partiti-elettori, ha però determinato una vera e propria paralisi istituzionale: il Pd, vincitore designato e mancato, il Pdl, orfano di metà del proprio elettorato, il centro di Monti, rimasto ben al di sotto delle aspettative, ed il movimento di Grillo, protagonista di un successo tanto ampio quanto inaspettato. In questa fluttuazione di voti, di cambi di abitudini elettorali, di mutamenti delle scelte “storiche”, quali sono state le conseguenze rispetto alle preferenze politiche ed elettorali degli uomini e delle donne? Come ha influito il fattore Grillo rispetto al posizionamento destra-sinistra? Da quale componente di genere tale movimento è riuscito ad ottenere più voti? Oltre al conseguimento di informazioni relative alle scelte di voto, il campionario ITANES, composto da oltre 1500 intervistati, è stato interrogato anche in merito ad una serie di temi salienti che riguardavano, volendo riprendere la terminologia di Conover, sia political values che basic values. Nel primo caso si è fatto riferimento a temi quali l’intervento dello Stato nell’economia, la protezione sociale nell’ambito lavorativo, la questione relativa a tasse e servizi, la identificazione sinistra-destra. Nell’ambito dei valori “di base” si è fatto riferimento, per esempio, al tema della religione, dell’ambiente, dell’aborto, della simpatia per i disavvantaggiati, come gli immigrati. Il capitolo V parte, quindi, da questi temi considerati, proprio in questa tornata elettorale, di prima importanza. In seguito verranno osservate le posizioni riferibili alla “questione religione”, tanto rilevante negli anni della Prima Repubblica, ed in ultimo saranno analizzate le scelte di voto. Per rendere più immediata la lettura delle tabelle, si è scelto di analizzare i risultati per schieramenti politici e non per singoli partiti, dividendo l’elettorato in:
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centro-sinistra, centro-destra (accorpando in ambedue anche altri partiti identificabili nella medesima area politica) Monti e Grillo. Più precisamente nel centro-sinistra sono stati posizionati Partito Democratico, Sinistra Ecologia e Libertà, Centro Democratico, Megafono –Lista Crocetta, Rivoluzione Civile, Südtiroler Volkspartei, Radicali Italiani; nel centro-destra si è incluso Popolo della Libertà, Lega Nord, Fratelli d’Italia, La Destra, Partito Pensionati, Grande Sud, Movimento per le Autonomie; il premier uscente Monti guidava uno schieramento di centro composto da Scelta Civica, Unione di Centro, Futuro e Libertà. Grillo, come noto, correva da solo ed inoltre non è possibile collocarlo in nessuno degli schieramenti precedenti. Nell’elaborazione dei dati, tutti gli altri partiti, comunque di piccolissime dimensioni, come per esempio “Fare per Fermare il Declino” guidato da Oscar Giannino, sono stati considerati come mancanti (“missing”). Per meglio identificare le differenze di genere nel voto, si è scelto di dividere il campione in: uomini, donne e casalinghe. Con la denominazione donne si è intesa la componente dell’elettorato femminile attualmente al lavoro, o che ha lavorato o, comunque partecipi agli studi superiori, poiché si prevede entrino nel mondo del lavoro. Con casalinghe si è fatto riferimento a tutte le donne che non hanno mai avuto un lavoroimpiego. Dividendo in tal modo il corpo elettorale femminile, si è mirato a rendere maggiormente visibili le differenze nelle preferenze di voto tra chi vive quotidianamente in un ambiente di lavoro esterno e non nel ristretto ambito familiare. È stata effettuata un’ulteriore divisione dell’elettorato tra gli under e gli over 45. Al fine di evidenziare di evidenziare con maggiore semplicità le differenti scelte effettuate dalle generazioni più giovani, da sempre maggiormente soggette ad un più alto tasso di volatilità, è stata effettuata un’ulteriore divisione dell’elettorato tra gli under e gli over 45.
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5.1 Temi salienti: modern o traditional gender gap? Proprio a causa del fattore Grillo, parlare di un voto femminile spostato più a destra o più a sinistra, risulta poco congruente poiché, dividendo le scelte di voto secondo il tradizionale asse destra-sinistra, si perde 1/3 dell’intero corpo elettorale votante nelle elezioni 2013.
La ricerca dell’eventuale modern gender gap deve riguardare
conseguentemente i temi che dividono l’elettorato seguendo una visione più progressista, quindi di sinistra, ed una più liberal/conservatrice, e quindi più di destra. Nella tabella che segue sono stati riportati soltanto i giudizi positivi espressi dal campione intervistato. Nella maggior parte delle domande poste, la risposta determina maggiore vicinanza ai valori di sinistra. Come già accennato, anche in questo caso si è scelto di dividere l’elettorato in uomini, donne e casalinghe. Rispettando lo schema proposto da Corbetta e Cavazza, prima di osservare la tabella, si formulano una serie di ipotesi rispetto ai temi presi in considerazione. H1. Con riferimento ad una estensione del welfare, la categoria donne risulta più favorevole, poiché, per le loro condizioni socio-lavorative, sono più sensibili all’argomento. H2. In merito al tema della comprensione delle vicende politiche, le casalinghe, poiché meno istruite e meno interessate alla politica in generale, risultano avere maggiore difficoltà. H3.a In merito al tema dell’aborto, la categoria donne, rispetto a quelle delle casalinghe, risulta più favorevole poiché più emancipata, H3.b Stesso atteggiamento rispetto alle unioni delle coppie di fatto. H4. Le questioni di immigrazione (H4.a) ed ambiente (H4.b) trovano maggiore spazio sia tra donne che tra casalinghe poiché accomunate da quella ethic of caring, di cui parlava Gilens, propria delle donne in generale. H5.
Il tema riguardante la necessità di un leader forte, presupponendo una
maggiore componente autoritaria, è più “popolare” tra gli uomini. H6. Rispetto alla domanda sul posizionamento destra-sinistra, secondo quanto affermato sul modern gender gap, le donne votano più a sinistra delle casalinghe.
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Figura 48
(dati ITANES 2013)
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L’ipotesi H1 è largamente confermata osservando, in particolar modo, la domanda numero 3 che registra una differenza di 10 punti % tra le donne e le casalinghe, indice, probabilmente, di necessità molto diverse tra le due categorie. Gli uomini si trovano in una posizione intermedia con il 55% delle risposte favorevoli. In merito alla domanda numero 10, non vengono registrate sostanziali diversità ed invece nella domanda successiva, in merito alla riduzione sulle differenze di reddito, le casalinghe si dimostrano più sensibili, forse perché sempre dipendenti dallo stipendio dei marito. L’ipotesi H2, conferma una generalizzata poca capacità di stare al passo con i fatti politici e, nello specifico, le casalinghe dimostrano di avere una maggiore difficoltà: la differenza con gli uomini segna 10 punti% di differenza. Anche l’ipotesi H3.a è confermata: agevolare le pratiche abortive è un tema maggiormente appoggiato dalle donne e dagli uomini ed invece di gran lunga meno sostenuto dalla componente più conservatrice: le casalinghe. In merito alle coppie di fatto invece (H3.b), contro ogni aspettativa, la tesi non trova effettivo riscontro poiché sono proprio le casalinghe ad avallare maggiormente la causa, facendo registrare un netto distacco con le donne di quasi 10 punti %. Gli uomini si posizionano più vicino a questa seconda categoria. Anche le ipotesi in H4 incontrano risultati diversi. Se la H4.b è effettivamente confermata, registrando consenso univoco nei confronti del tema ambientale in ogni categoria (particolarmente tra le casalinghe), la H4.a, osservando in particolar modo la domanda 4, deve essere sementita. Uomini e donne sono le categorie che più appoggiano una maggiore accoglienza degli immigrati nel nostro Paese, mentre le casalinghe, forse avvertendo l’arrivo di essi come pericolo alla sicurezza, registrano una differenza con gli uomini di quasi 10
punti percentuali. In generale, comunque, il tema è visto
sfavorevolmente dalla gran parte dell’elettorato. Per quanto riguarda l’adattamento degli immigrati alle tradizioni culturali italiane, non vengono riscontrate differenze tra le tre categorie ed in generale l’elettorato si dimostra contrario. La H5, sul tema del leader, viene smentita dalla domanda numero 13: le casalinghe sono coloro che più ritengono necessaria la presenza di un leader forte. È pur vero però, che l’intero elettorato si dimostra, sul tema, assolutamente favorevole.
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Sono state lasciate per ultime le considerazioni in merito alle opinioni politiche distribuite sull’asse destra-sinistra. La domanda numero 7, poiché di fatto è al netto della componente Grillo, può essere considerata il vero indicatore dell’eventuale presenza del modern gender gap. La tesi H6 è confermata: le donne si collocano più a sinistra delle casalinghe registrando una differenza di ben 15 punti %. Tra gli uomini la differenza tra chi si colloca a destra e chi a sinistra è quasi nulla. Anche se il collocarsi a livello destra/sinistra non presuppone una identificazione ideologica con i partiti che fanno parte di quelle aree, effettivamente si può affermare che le donne lavoratrici si riconoscono maggiormente nei valori propri della sinistra. Seppur in alcuni casi isolati le casalinghe abbiano un atteggiamento abbastanza progressista (ad esempio riguardo al tema delle nuove forme di unione familiare), questa categoria controbilancia fortemente quella delle donne in senso conservatore. Questo risultato porta a due conclusioni: gli uomini e le donne, poiché accomunati da uno stile di vita spesso simile, su molti argomenti manifestano opinioni analoghe; le donne, in generale, al di là di una effettiva presenza del modern gender gap nella loro espressione del voto, si trovano ancora in una fase di passaggio tra un maggiore attaccamento a valori più conservatori ed a quelli di tipologia progressista. Poiché la categoria casalinghe è più esigua e soprattutto facente parte delle generazioni più anziane, può affermarsi con sicurezza che negli anni a venire si manifesti un modern gender gap non “in voting” bensì “in thinking”.
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5.2 La religione e l’interesse per la politica Prima di ricercare l’eventuale presenza del modern gender gap nel momento in cui gli elettori si recarono alle urne nel febbraio 2013, devo essere osservati gli atteggiamenti di genere in merito al tema religioso ed a quello dell’interesse per la politica. Partendo proprio da questo ultimo, si ipotizza che le donne, in particolar modo le casalinghe, manifestino sensibilmente minore attenzione nei riguardi di quella che Duverger, 60 anni fa, chiamò “sport for men” o “men’s affaire”: la politica. (Duverger 1955)
Figura 49
IN GENERALE, LEI SI INTERESSA DI POLITICA?
(dati ITANES 2013)
L’ipotesi è largamente confermata: negli indici che manifestano maggiore lontananza dalla politica, “poco” e “per niente”, le casalinghe risultano essere le più numerose. È bene notare che è presente un generalizzato scarso interesse verso le vicende politiche ed inoltre, in ogni indice di gradimento, le donne si trovano in una posizione mediana rispetto agli uomini ed alle casalinghe. La politica, quindi, guardando in particolare all’enorme gap presente tra uomini e casalinghe, può essere ancora definita
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“uno sport per uomini” anche se, tuttavia, la differenza tra le due categorie di lavoratori uomo-donna è di gran lunga minore. Questo lascia intendere che un più elevato livello di istruzione ed una maggiore vicinanza alle problematiche relative al lavoro, sono fattori certamente avvicinano alla politica. Spostando l’attenzione sul tema religione, può osservarsi l’importanza che questa detiene nella vita delle persone. In genere si ipotizza, anche in questo caso, maggiore religiosità tra le donne, soprattutto nella loro componente più conservatrice.
Figura 50
QUALE POSTO OCCUPA LA RELIGIONE NELLA SUA VITA?
(dati ITANES 2013)
L’ipotesi, anche in questo caso, è confermata. In particolare nei due indici posti alle estremità, “molto importante” e “per niente importante”, si registra il gap più alto tra gli uomini e le casalinghe mentre, negli indici “intermedi”, le differenze si assottigliano ed in particolare tra gli uomini e le donne sono quasi nulle. In generale si nota che i due indici che denotano maggiore attaccamento alla pratica religiosa, sono quelli maggiormente prescelti da parte dell’intero campione. Questo, sicuramente, mostra di
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fatto che l’Italia, seppur in maniera assolutamente minore rispetto agli anni della Prima Repubblica, è ancora un Paese nel quale la religione gioca un ruolo importante.
Rimanendo sul tema religione, quanto questa ha influito sul voto? L’ipotesi è un diffuso e minore attaccamento al coinvolgimento della religione nel voto ed, ove presente, una maggiore vicinanza delle casalinghe alle posizioni “politiche” clericali.
Figura 51
HA TENUTO CONTO DELLE POSIZIONI DELLA CHIESA CATTOLICA SU COME VOTARE?
(dati ITANES 2013)
La tesi è confermata anche se in maniera più radicalizzata di quanto si era ipotizzato. L’indice “per niente” è talmente diffuso da presupporre un totale distaccamento della religione non tanto dalla politica quanto dalla pratica del voto. Le differenze sono quasi inesistenti, soprattutto tra gli uomini e le donne. Volendo riprendere il tema dei social network, centrale nell’articolo pubblicato da Corbetta e Cavazza nel 2007 con riferimento alle analisi del fattore religione, quali sono
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state, nel 2013 le “reti sociali” che hanno influenzano maggiormente il voto degli elettori?
Figura 52
CHI È LA PERSONA CON CUI PARLA PIÙ FREQUENTEMENTE DI POLITICA?
(dati ITANES 2013)
Ciò che risulta immediatamente evidente è che le donne, ma ancor di più le casalinghe, considerano il loro partner come principale interlocutore in materia politica. Questo dato induce ad una considerazione: le donne, in generale, tendono a seguire l’opinione politica del loro marito/compagno. Volendola rilegge questo aspetto “alla Duverger”, nel voto “di coppia” è ancora la donna che segue l’uomo e non il contrario; nelle famiglie nelle quali la donna è una casalinga questa tendenza è maggiore, molto probabilmente perché la percezione di una politica come “sport of men” è ancora più alta. Tra gli uomini è molto comune parlare di politica con un amico ed, in misura minore, con un collega di lavoro. La figura del “prete” è totalmente scomparsa; rispetto a quel 44% rilevato da Corbetta e Cavazza relativamente alla fine degli anni ’60, la figura del prete, come d’altronde della religione in generale, ha importanza quasi nulla nell’ambito politico.
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Questo sta a confermare la tesi avanzata da Maraffi quando parla dell’affermarsi di una religione “personale” sganciata dal contesto istituzionale e ciò principalmente a causa dei processi di secolarizzazione ed individualizzazione, tipici delle società postmoderne. (Maraffi, et al. 2010)
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5.3 Il gender gap nelle scelte elettorali delle elezioni 2013 Si esaminano ora le scelte elettorali effettuate nella cabina di voto. Come anticipato, queste vengono analizzate prima secondo una semplice divisione di genere uomo/donna, successivamente includendo anche la categoria delle casalinghe, ed infine dividendo il campione rispetto alla variabile età: under ed over 45. Le ipotesi relative alla prima cross-tabulation, solo le seguenti: H1. Rispetto alle coalizioni di centro-sinistra e di centro-destra, tenendo conto dei risultati ottenuti nel primo paragrafo, si ipotizza, ancora, la presenza del traditional gender gap. H2. A causa di una forte componente autoritaria presente all’interno del M5S, Grillo è stato votato in larga parte da uomini. H3. Monti, conducendo una campagna elettorale più moderata e provenendo da un ambiente meno legato alla politica, ha ricevuto più voti dalle donne. Figura 53
(dati ITANES 2013)
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La prima ipotesi deve essere smentita. Analizzando prima gli uomini, questi votarono per la colazione di centro-sinistra e centro-destra in maniera pressoché uguale: 33% progressista, 33% conservatore (il restante terzo è distribuito tra Monti ed, in particolar modo, Grillo). Osservando il comportamento di voto delle donne, queste scelsero in maniera maggiore di votare per la colazione guidata da Bersani ed inoltre, all’interno del blocco della sinistra non si registra alcuna differenza uomo-donna. Quindi il gap sinistra-destra è quasi nulla tra gli uomini mentre, tra le donne, si registra una differenza di oltre 5 punti %. Esaminando questa tendenza progressista delle donne, è ora possibile sostenere che in Italia, nelle elezioni del 2013, si è affermato un modern gender gap. Anche la H2 deve essere screditata: all’interno del M5S, la componente dell’elettorato femminile è maggiore di quella maschile. Il gap, di 3 punti percentuali, seppur non molto marcato, evidenzia una tendenza assolutamente contro intuitiva ed inaspettata. La ragione potrebbe essere individuata riprendendo i dati relativi ai temi salienti: la politica risulta di difficile comprensione soprattutto tra le donne ed in misura maggiore alle casalinghe; il modo di fare politica di Grillo, nonostante sia poco moderato ed in alcuni casi fortemente provocatorio, si basa su una forma di comunicazione semplice, diretta e soprattutto alla portata di tutti. È come se quella di Grillo sia una politica “semplificata”, capace quindi di attrarre maggiormente quella parte dell’elettorato che, da sempre, ha incontrato maggiori difficoltà nella comprensione dei fatti politici. La ipotesi H3 è confermata. La coalizione di centro ha raccolto più voti tra le donne, con un distacco di poco più di 2 punti%. Di certo, però, le aspettative pre-elettorali erano di gran lunga maggiori. Dopo aver verificato la presenza del modern gender gap anche in Italia (tenendo sempre a mente il fatto che non si è tenuta in considerazione la variabile Grillo), si analizza adesso la seconda cross-tabulation che divide il campione in uomini, donne e casalinghe. Le ipotesi formulate sono tre: H1. Poiché le donne sono più attente alle politiche di welfare difese dalla sinistra, segneranno un più marcato modern gender gap. Le casalinghe, invece, poiché più conservatrici, evidenzieranno una tendenza inversa.
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H2. Osservati i dati della precedente tabella, a causa di una più spiccata capacità nel rendere facilmente comprensibili i temi politici, Grillo ha avuto maggiore successo tra le donne e soprattutto tra le casalinghe. H3. Monti, entrato in politica in qualità di tecnico e portando avanti la propria campagna elettorale con toni più “istituzionali”, moderati, formali e che, in un certo senso, presupponevano maggiore sforzo di comprensione da parte degli elettori, ha raccolto più voti tra la componente lavoratrice femminile dell’elettorato.
Figura 54
(dati ITANES 2013)
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L’ipotesi H1 è confermata: le donne hanno votato per la coalizione guidata da Bersani 10 punti % in più rispetto alla coalizione guidata da Berlusconi. Questo distacco può essere spiegato anche grazie a cause circostanziali che vedevano il leader di questa coalizione fortemente legato ai sindacati e quindi apparentemente in difesa dei diritti dei lavoratori meno avvantaggiati. Osservando invece il dato relativo alle casalinghe, si conferma un fortissimo traditional gender gap: questa pare dell’elettorato femminile sceglie un voto conservatore ben 13 punti% in più rispetto ad uno progressista. In questa maniera è possibile spiegare l’abbassamento del gap nella tabella precedente: quando le casalinghe non sono estrapolate dall’intera categoria donne, queste controbilanciano fortemente le preferenze delle donne lavoratrici e quindi il gap uomo-donna diminuisce a 5 punti %. Tutte le casalinghe “mancate” al centro-sinistra, si sono orientate sia verso un voto a destra ma, in maniera maggiore, verso Grillo. L’ipotesi H2 è quindi confermata ed in particolar modo i 14 punti % che separano le donne dalle casalinghe nella scelta per il Movimento5Stelle, confermano la tesi avanzata in precedenza: Grillo ha più successo li dove la politica non aveva successo. Oltre ad avere molti followers tra i delusi, soprattutto di destra, e tra gli ex-astenuti, (ITANES 2013) bisogna aggiungere che ha conquistato chi, da sempre, era più lontano e meno interessato alla politica. Nel caso della coalizione di Monti, la H3 è confermata, marcando un distacco tra le casalinghe e le donne di circa 6 punti%. In definitiva si può affermare che dividendo l’elettorato semplicemente in uomini e donne, i risultati, seppur eclatanti in alcuni casi, non evidenziavano gap di genere così ampi; separando il campione femminile in donne e casalinghe, vengono messe in luce le reali differenze di genere nel voto. Il dato più sorprendente è sicuramente quello che vede la maggior parte delle casalinghe votare non per l’ala destra più conservatrice come, storicamente, era sempre avvenuto, ma per il polo più rivoluzionario e meno moderato dei quattro schieramenti presentatisi alle elezioni. Come fecero sia Cobetta e Cavazza nell’articolo redatto nel 2007, che Maraffi nella pubblicazione del 2009, viene ora analizzato il voto di genere diviso per fasce di età. Le ipotesi avanzate sono le seguenti: H1. La coalizione di centro-sinistra raccoglie più voti tra le donne under45 poiché più attenta alle politiche di welfare soprattutto nella prima età lavorativa.
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H2. Il centro-destra ha più successo tra gli uomini e le casalinghe over45 perché, come nelle precedenti elezioni, raccoglie più voti tra gli imprenditori e tra chi fa un largo uso del mezzo di comunicazione attraverso il quale il leader Berlusconi è più forte: la televisione. H3. Grillo, conducendo la propria campagna elettorale principalmente attraverso i nuovi social network, ha “appassionato” più under 45, in tutte le categorie. H4. Per le ragioni elencante anche nella prima tabella di questo paragrafo, Monti, è riuscito ad avere più appealing tra gli over 45.
Figura 55
UNDER45
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Figura 56
OVER 45
(ITANES 2013)
Nel centro-sinistra la differenza di voto tra gli uomini e le donne under 45, a parità di livello di istruzione, è sorprendente. Quasi 10 punti% di gap, che possono essere spiegati solo grazie ad una maggiore attenzione delle donne under 45 ai temi “di sinistra” legati alle pari opportunità ed a quella “ethic of caring” citata più volte. In maniera esattamente speculare, il centro-destra è più forte tra gli uomini e le casalinghe under 45 ma la tesi H2 deve essere smentita perché, sorprendentemente, le casalinghe over45 che votano a destra sono minori delle under 45. Se quindi si smentisce la tesi che il leader del centro-destra riesca a prendere, più di tutti, più voti tra le casalinghe in età avanzata, si conferma quella che vuole, in generale, l’elettorato
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berlusconiano meno istruito rispetto agli altri poli (tra le casalinghe under45 saranno presenti molte ragazze che non hanno proseguito gli studi universitari). Guadando i dati relativi a Grillo, si può affermare che questi abbia vinto grazie ai giovani. In ogni categoria supera le percentuali registrate dai due principali avversari. Gli uomini under 45, ma soprattutto le casalinghe, sono state le categorie più numerose. Principalmente l’ultima ha registrato un sorprendente 48%: la metà delle casalinghe under 45 ha votato Grillo. Osservando lo stesso dato anche nelle over 45, si può affermare che quello che era lo “zoccolo duro” dell’elettorato berlusconiano, le casalinghe over 45, è stato quindi in larga parte afferrato da Grillo. Il M5S, infatti, ottiene scarso successo tra gli uomini e le donne over 45, registrando dati ben al di sotto delle altre due grandi coalizioni, però tra le casalinghe sopra i 45 anni raggiunge un incredibile 37%, superando Berlusconi di 5 punti % e Bersani di ben 16 punti %. L’ipotesi numero 4 è confermata poiché si osservano grandi differenze tra l’elettorato montiano under/over45, soprattutto nell’intero corpo elettorale femminile. In definitiva possiamo sintetizzare i risultati di queste ricerche a quattro punti fondamentali:
1.
Prendendo in considerazione solamente l’elettorato delle coalizioni destra-sinistra, è presente un modern gender gap perché una percentuale maggiore di donne ha scelto di votare più progressista.
2.
Questa tendenza è ancora più netta se sono analizzate solamente le donne lavoratrici ed invece è assolutamente inversa nel caso delle casalinghe: queste votano nettamente più a destra.
3.
Al contrario di ogni pronostico, Grillo ha raccolto più voti tra le donne ed, in particolar modo, tra le casalinghe.
4.
Tra gli over 45 il centro-sinistra rimane il più forte tra le due categorie di lavoratori, mentre Grillo primeggia tra gli uomini over 45 e le casalinghe sia under che over 45.
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Conclusioni La ricerca ha analizzato sin dalle origini e nei diversi ambiti internazionali, il gender gap ed in particolare l’aspetto moderno del fenomeno. Obiettivo specifico era accertare l’eventuale presenza di esso nelle ultime elezioni politiche svoltesi in Italia nel febbraio 2013. Nel corso dello studio, utilizzando ed elaborando i dati raccolti da ITANES, proprio con riferimento a detta tornata elettorale, sono emersi alcuni interessanti aspetti inattesi che, insieme con i risultati più generali, vengono in sintesi esposti in queste pagine conclusive del lavoro. Nel corso della stesura di questa tesi, sono emerse alcune scoperte, spesso inaspettate, di maggiore rilievo. In queste pagine conclusive si cercherà di riassumerle partendo proprio da quelle relative l’epoca della concessione del suffragio, periodo con cui, per ragioni già esposte, si è scelto di iniziare l’elaborato. L’analisi comparata svolta nei primi tre capitoli, ha permesso di comprendere ed evidenziare i cambiamenti di orientamento dell’elettorato femminile. Con il suffragio universale, si sono registrate due tendenze, una dovuta alla presenza importante del movimento delle suffragette, l’altra al fattore religione cattolica nei diversi Stati nei quali questa risultava più radicata. Si è osservato che, nel caso in cui i movimenti suffragisti abbiano avuto una larga eco, come negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna, il suffragio è risultato essere un diritto conquistato; diversamente, negli altri Paesi, esso è risultato essere più una concessione dovuta a motivi di convenienza per i partiti al governo che una reale conquista. Si è osservato infatti che la lungimiranza dei partiti che prevedevano che l’allargamento del suffragio avrebbe giocato loro favore, è stata poi effettivamente premiata: il voto delle donne ha largamente contribuito alla vittoria elettorale dei medesimi. Con riferimento all’aspetto riguardante i Paesi a maggioranza cattolica, si è verificato un generale ritardo nell’approvazione del diritto di voto alle donne, dovuto probabilmente al fatto che la classe dirigente dei partiti cattolici, nel trade-off allargamento del bacino elettorale-conservazione dei valori tradizionali, per lungo tempo ha preferito la seconda opzione. Un aspetto particolare emerso, riguarda un “effetto domino” tra Paesi limitrofi nei quali si è verificato un “contagio regionale” nella estensione del suffragio. Negli Stati
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Uniti d’America, ad esempio, come in Utah, Colorado, Idaho e Wyoming, il voto femminile venne concesso molto prima che negli Stati dell’Est (fin ‘800 in poi) a causa di problemi “di frontiera” che rendevano le donne maggiormente partecipi ed attive nella vita familiare e sociale. Fattore che ha sempre constituito una “finestra di opportunità” per la concessione del diritto di voto alle donne, è risultato essere l’acquisizione dell’indipendenza politica dello Stato: si è riscontrato, infatti, che in molti Paesi, sull’onda del forte cambiamento istituzionale dovuto alle dichiarazioni d’indipendenza, si è aggiunta anche la ratifica del diritto di voto femminile. Un dato assolutamente soprprendete relativo alla concessione del suffragio, è stato registrato in una delle più antiche democrazie continentali: la Svizzera. Eppure, in questo Paese, il diritto di voto alle donne venne concesso solo nel 1971 poiché, per modificare la legge era necessaria l’approvazione popolare, “ovviamente” solo maschile, tramite referendum e la maggioranza in tale ambito venne espressa, come detto, solo nel 1971. Nel secondo capitolo, riguardante il comportamento di voto delle donne negli anni immediatamente successivi al suffragio, grazie agli studi di Duverger, state evidenziate, principalemte, due realtà, oltre a quella che chiaramente indicava una maggior tendenza a destra del voto femminile. La prima riguarda il tema dell’astensionismo: le donne, inizialmente, fecero registrare un tasso di non partecipazione maggiore rispetto a quello degli uomini, anche se il gap decresceva al diminuire del dato totale sull’astensionismo. La seconda riguarda la situazione socio-familiare nella quale la donna veniva a trovarsi nei primi anni ’60. Attraverso gli studi di Betty Friedan, si è scoperto che, incredibilmente, l’emancipazione femminile subì una forte battuta d’arresto negli anni ’50 e ’60. In questo periodo diminuisce la frequenza femminile al college, parimenti l’età media del matrimonio, aumenta l’abuso dell’alcol da parte delle donne e si verifica un accrescimento del numero delle patologie depressive femminili. Per questo la Friedan parlò di un “problema senza nome” del quale nessuno si era mai interessato. Nel capitolo terzo, vengono evidenziati due indici di centrale importanza riguardanti il cambiamento nel comportamento di voto degli elettori americani. Il primo è un fattore che ritarda la comparsa del modern gender gap, il secondo inquadra le cause che lo determinano.
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Attraverso l’analisi di un articolo pubblicato nel maggio del 1970 dal New York Times, si è scoperto che a seguito dell’ondata riformista della Great Society, sponsorizzata principalmente dal partito democratico, gli Stati del sud-ovest, da sempre veri e propri feudi del Donkey Party, cambiano significativamente rotta verso il partito dell’elefantino e la causa risulta essere la paura di perdere privilegi e poteri da sempre radicati in quei territori. Questo evento fa si che il modern gender gap, a causa di una conversione dell’elettorato (anche) femminile verso un voto maggiormente repubblicano negli Stati del South-East, tardò a manifestarsi. Il secondo indice di cambiamento, si riferisce al fatto che con l’elezione di Reagan, nel 1980, si palesò per la prima volta il modern gender gap e questo fu dovuto principalmente ai due fattori “W”: war e welfare. Reagan ed il partito repubblicano non lasciavano dubbio alcuno sia per una posizione fortemente aggressiva nei confronti dell’URSS, sia per le ipotesi riguardanti importanti tagli nel welfare. Questo portò le donne a preferire largamente il partito progressista dei democratici. Rispetto alla situazione europea, il modern gender gap, si manifesta in maniera più “multiforme” di quello che ci si aspettava. In generale si può affermare che nei Paesi a maggioranza cattolica, come Germania e Belgio, esso si manifestò molto più tardi che in quelli a maggioranza protestante. In Spagna, addirittura, negli ultimi anni si è verificato un acuirsi del traditional gender gap. Anche in Italia, negli anni ’90, il modern stentava a manifestarsi. Alcuni Paesi, come Gran Bretagna, Lussemburgo e Irlanda, hanno avuto fasi molto altalenanti con un continuo shift tra traditional e modern gender gap, non consentendo di poter parlare quindi di un cambiamento stabile nel comportamento di voto delle donne. Prima di analizzare gli aspetti tipici in ambito italiano, risulta importante menzionare un’ulteriore scoperta emersa negli studi effettuati da Norris ed Inglehart, ribattezzata, in questa tesi, “gender generation gap”. I due, studiando il gender gap nei Paesi industrializzati, ex-comunisti ed in via di sviluppo, rilevano alcuni punti in comune tra questi tre gruppi di Stati. Il dato più sorprendete è relativo al secondo gruppo di Paesi nei quali, se da una parte le donne socializzate negli “anni d’oro” del regime comunista votavano più progressista mentre quelle socializzate durante la crisi del comunismo maggiormente a destra, le giovani che
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vissero in prima persona la caduta del muro di Berlino, sorprendentemente votavano più a sinistra. Questo dato, per l’importanza che sottende, potrebbe essere oggetto di un nuovo e ben più ampio studio. Per il momento una conclusione deducibile sul fenomeno potrebbe essere quella per la quale il concetto di destra e sinistra, nei Paesi dell’Est, è sicuramente diverso rispetto a quello dei Paesi occidentali. Affrontando il gender gap in Italia, è bene dividere l’analisi in due fasi: una prima al pre disfacimento della DC, nella quale le donne manifestarono una spiccata tendenza di voto a destra, ed una seconda post anni ’90, nella quale il comportamento di voto femminile manifestò diverse fluttuazioni. I tre aspetti più importanti afferenti il primo periodo, riguardano la componente religiosa e quella del grado di istruzione. In merito alla componente religiosa, l’opinione espressa dalla Chiesa attraverso i sacerdoti, veniva considerata dalle donne come la più autorevole e quindi l’orientamento politico espresso da tale rappresentate nel territorio, influenzava moltissimo le decisioni del voto di genere. Nel secondo caso, attraverso le tabelle elaborate da Maraffi, si è compreso che la differenza di voto non era semplicemente spiegabile in un aspetto di genere. Infatti, sia gli uomini che le donne che seguivano assiduamente le funzioni religiose, il voto alla Dc risultava unanime. La differenza si spiegava invece tra coloro che seguivano con assiduità le funzioni religiose a maggioranza femminile, e coloro che non si recavano in Chiesa a maggioranza maschile. La terzo aspetto deriva da un interrogativo che, seppur marginale, arricchisce le nozioni relative al traditional gender gap. Fino alla metà degli anni ’90, come dimostrato da Corbetta e Cavazza, il livello medio di istruzione era più alto tra i partiti conservatori. Seppur la maggioranza dell’elettorato di questo schieramento fosse composta proprio da donne, da sempre soggette a maggiori limiti nell’accesso alla istruzione, il quesito può essere risolto affermando che “nonostante” la loro maggiore presenza a destra, lo schieramento di sinistra aveva un indice di istruzione medio più basso perché anche gli uomini, per la maggior parte operai, risultavano avere una istruzione limitata alla sola scuola dell’obbligo. Con riferimento al periodo successivo gli anni ’90, gli aspetti da evidenziare risultano essere due. Il primo riguarda il fatto che le donne, al contrario di quanto
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avveniva in altri Paesi industrializzati, continuavano a scegliere maggiormente i partiti di destra. Il secondo riguarda una sostanziale parità di genere nell’elettorato di centrosinistra: la % di uomini e di donne che votavano per questo schieramento, particolarmente nelle elezioni del 2006 e del 2008, era pressoché uguale. Le elezioni del 2013, come già detto, a causa della componente 5Stelle, determinano un precedente mai verificatosi in Italia: una divisione dell’elettorato in tre poli molto simili. Riducendo la ricerca solamente alle coalizioni di destra e di sinistra, effettivamente, si è verificato, nella differenza uomo/donna, un modern gender gap. Questo è risultato essere molto accentuato tra le donne lavoratrici ed invece quasi del tutto assente assente tra le casalinghe. Complessivamente però si registrato un voto sicuramente più progressista. Se vengono compresi anche
gli elettori del M5S, le
ricerche portano a risultati assolutamente sorprendenti: nonostante questo sia un movimento avente caratteristiche fortemente
autoritarie,
esso
è
stato
votato
principalmente da donne, soprattutto nell’ala più conservatrice: le casalinghe. Le ragioni sono state attribuirsi al fatto che, poiché le donne hanno maggiore difficoltà nella comprensione dei temi della politica, Grillo, attraverso una comunicazione diretta e di facile intendimento, ha maggiormente avvicinato al movimento proprio questa parte dell’elettorato. Per quando riguarda la divisione under/over 45, il più forte nella prima categoria rimane sempre Grillo, mentre nella seconda, lo schieramento guidato da Bersani, ha conquistato gran parte dell’elettorato che lavora. Seppur questa tesi abbia sollevato dei temi che potrebbero essere esaminati in altri elaborati, a partire da un maggiore approfondimento sulle differenze di gender gap nei Paesi europei, l’obietto inizialmente preposto è stato raggiunto: anche l’Italia può essere inclusa tra i Paesi con un, seppur non molto marcato, modern gender gap.
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