Ermanno Detti
Piccoli lettori crescono Come avvicinare bambini e ragazzi alla lettura
Erickson
Indice
Premessa
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Capitolo primo Il piacere del libro
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Capitolo secondo I giovani e la conoscenza. Verso l’e-book
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Capitolo terzo Il cittadino che legge, il cittadino che non legge
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Capitolo quarto Narrazione e qualità dei libri
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Capitolo quinto Scegliere un libro per mio figlio. Il banco delle occasioni
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Conclusioni
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Bibliografia
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privati culturali» c’è la TV, che sembra studiare programmi specifici per raggiungere e coinvolgere proprio questa categoria di persone. Diversa, quasi contrapposta, è la situazione nel campo della letteratura dei ragazzi: anche qui non mancano problemi, ma in generale è migliorata la produzione editoriale, sono nate nuove librerie specializzate e molti buoni scrittori dedicano la loro attività al pubblico giovanile. Come si è detto, i nativi digitali leggono più degli adulti e manifestano gusti nuovi, che guardano oltre la produzione di casa nostra. Gran parte della nuova narrativa, circa il 50%, è infatti di importazione, anche se i buoni autori italiani sono comunque letti e apprezzati (si veda il Rapporto sull’editoria per ragazzi, a cura di Domenico Bartolini e Riccardo Pontegobbi, «Liber», n. 92, ottobredicembre 2011, p. 35). Ci si soffermerà a lungo sulla letteratura per ragazzi, nella consapevolezza che la formazione del lettore avviene in genere soprattutto nella giovane età. Pertanto le opere destinate ai giovani meritano molta attenzione da parte di tutti: scrittori, editori, librai, genitori, insegnanti e operatori culturali. La lettura con tutti i sensi Se all’aumento della scolarizzazione non corrisponde la formazione di lettori, di persone interessate alla lettura oltre i momenti contingenti, sembrerebbe di poter concludere che evidentemente la scuola è stata fino a oggi capace di insegnare a leggere ma non di trasmettere il gusto di farlo. Senza dimenticare che anche le famiglie e tutti gli operatori culturali che si stanno impegnando, o si sono impegnati, nella promozione della lettura hanno fallito clamorosamente. Verrebbe quasi da dire: se questi sono i risultati è meglio chiudere i battenti. Il fatto è che la posta in gioco è troppo alta per arrendersi, ne va dello sviluppo culturale di un popolo. Chi insegna spesso non riesce a far «sentire» che la lettura è lo strumento fondamentale per approfondire il pensiero e per addentrarsi nel mondo della cultura e dell’arte. I «non lettori alfabetizzati» leggono, ma solo per rispondere a bisogni momentanei, come la consultazione di manuali o la lettura di messaggi di carattere infor18
mativo. Manca insomma la passione per la lettura che è ricerca di un buon testo nel quale immergersi per ragionare insieme a un autore o per seguire, nel caso della narrativa, le vicende di personaggi capaci di trasportarci in mondi diversi da quelli in cui viviamo. Tutto quello che manca è semplicemente il piacere di leggere che per certi versi ha una sensualità profonda. Si è difatti più volte parlato di «lettura sensuale» intendendo l’assorbimento completo di un lettore, al punto che, quando egli è immerso nella magia delle pagine, tutti i suoi sensi sono come impegnati. Se noi lo chiamiamo, quel lettore potrebbe non rispondere, come se perfino il senso dell’udito fosse imprigionato nella lettura e utilizzato nelle pagine del testo; potrebbe succhiare una caramella o mangiare un biscotto senza poi sapercene riferire il sapore. Insomma è come se il cervello del nostro lettore «sedasse» i suoi sensi verso l’esterno per concentrarli tutti tra le righe. L’intensità dell’isolamento è pari al coinvolgimento e all’assorbimento di cui un testo è capace. La lettura sensuale è un momento «magico» che ci allontana dal mondo, ci fa dimenticare tutte le preoccupazioni per immergerci in una nuova realtà. È uno straniamento che ci fa seguire percorsi che hanno anche del razionale e che ci coinvolgono e molto probabilmente arricchiscono le nostre conoscenze o ci trasportano in mondi creati dalla fantasia. Dalla fantasia di altri magari, nella quale noi ci identifichiamo e dalla quale ci lasciamo cullare, mentre la nostra immaginazione elabora, aggiungendo o togliendo in piena libertà. Tutto questo genera nel lettore partecipazione al testo e piacere del creare, cioè il piacere di leggere. La lettura di un libro, se è coinvolgente, è una sorta di «dialogo astratto» tra autore e lettore. Quando siamo immersi in un testo, infatti, l’autore comunica e il lettore apprende e reinterpreta soggettivamente la sua comunicazione. Il livello di partecipazione è diverso: in una poesia in genere è molto profondo, perché la poesia ha il ritmo e la capacità di farci sentire e fremere più che ragionare; viceversa un saggio filosofico parla di regola alla nostra mente con una logica quasi matematica; un’opera narrativa, se valida, apre spazi di luce nuova e sa parlare sia al cuore che al cervello. È stato scritto più volte che i libri nascono dai libri ed è vero, perché offrono l’opportunità di elaborare nuove idee. Ma non ci si 19
limita a questo, per esempio dal dialogo con un libro di fantasia si può uscire arricchiti, se non altro per l’acquisizione di un forte senso di speranza. Ciò che più importa è il desidero di tornare a ripercorrere le strade di altri mondi per trovare nuova carica, vitalità e voglia di confrontarsi con la propria realtà. Tali aspetti prescindono addirittura dalla comprensione: si può capire un testo senza goderne e in qualche caso si può goderne anche quando non lo si comprende fino in fondo. Il piacere di leggere non è nemico della cultura dunque, né dello studio e della conoscenza. È nemico semmai delle pagine prive di significato e piene di retorica, di quelle pagine che non soddisfano i nostri interessi o che non arricchiscono, non comunicano né sensazioni né conoscenze. Siccome leggere è faticoso non si può provare piacere per ciò che non ci offre niente in cambio di questa fatica. Nel quarto capitolo si tornerà sulla narrazione e sul bisogno umano di storie fantastiche. Per ora occorre dire che la fantasia ci è utile non solo per immaginare mondi diversi dal nostro, ma anche per ritrovare equilibri perduti. Questo concetto può essere supportato da un paio di esempi che, anche se estremi, possono aiutare a comprenderlo meglio. Oggi a furia di parlare in modo esagerato di rispetto per la natura e per gli animali, questione assolutamente giusta e lodevole, spesso soprattutto i più giovani rischiano di perdere la misura del normale rapporto degli esseri viventi tra loro, per cui può accadere che un ragazzo si avvicini a un orso oltre i limiti consentiti da ogni buon senso o finisca sbranato da una belva perché la ritiene «buona». O ancora che durante gite in montagna o in mare non vengano valutati bene i rischi e i pericoli reali nei quali si può incorrere. La lettura delle opere di Jack London, come Zanna Bianca o Il richiamo della foresta, potrebbero riportare il lettore a comprendere quanto siano dure e spietate le leggi della natura. Un’ulteriore esemplificazione si può trovare nell’eccessiva modalità con cui si parla, a cominciare dai media, di perdono e si tende a disprezzare la vendetta, il che ha le sue ragioni: il perdono crea pace con se stessi e pacifica gli animi, la vendetta esaspera, lascia l’amaro in bocca e può essere occasione di odi generazionali senza fine. Ma se si perde l’equilibrio, se si pensa unicamente al perdono come unica soluzione ai torti subiti, c’è il rischio di perdere il senso della giustizia. A questo proposito un’opera come Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas, dove la vendetta è 20
vista come punizione di un’infamia premeditata e terribile, potrebbe aiutare a far chiarezza, attraverso una riflessione e un confronto, sui concetti di perdono, vendetta e giustizia. Leggere sullo schermo Una domanda legittima e utile è se con l’e-book, argomento trattato nel prossimo capitolo, sia possibile o no la lettura sensuale. Questo processo è teoricamente possibile anche con l’e-book, perché la condizione che un lettore venga catturato e trasportato «altrove» dipende in primo luogo dal testo o, se vogliamo, dalle condizioni che rendono quel testo emozionante e coinvolgente. Un bel romanzo o un bel racconto, un articolo di giornale o un saggio su un argomento di interesse personale restano tali anche su un supporto elettronico, non è la carta a renderli più o meno coinvolgenti. Un testo brutto o estraneo alle proprie attrattive, viceversa, non porta da nessuna parte, finisce con annoiare in qualsiasi formato esso si trovi, perfino in un volume dalla veste elegante e corredato di stupende immagini. Tutto questo in teoria. Nella pratica una certa importanza, oltre al testo, ce l’ha anche il supporto, specialmente oggi che si tenta di lanciare sul mercato prodotti sempre migliori e che la stessa editoria ha difficoltà a capire cosa deve offrire un e-book. Il coinvolgimento emotivo in una storia, per esempio, richiede una sorta di «intimità» che ben si sposa con un oggetto fatto di pagine, di fruscii, di odori, di sensazioni. Un supporto elettronico parte in questi casi svantaggiato. Può esistere una lettura sensuale anche utilizzando un supporto tecnologico, solo che questo deve essere all’altezza: comodo prima di tutto e capace di fornire tutte le suggestioni necessarie. Si farà ora riferimento ad alcune esperienze personali che valgono poco ma sono utili per mostrare che nella lettura sensuale esiste una soggettività e anche una casualità. Con i testi brevi è più facile provare piacere su schermo, mi è capitato di essere coinvolto dalla rilettura su e-book dei Sepolcri di Foscolo e dell’Infinto di Leopardi. La lettura di un fumetto su e-book invece è risultata fallimentare perché le vignette e soprattutto i colori non erano ad alta definizione, e poi perché le 21
nella vita quotidiana metodico e puntualissimo, sia addirittura sceso molto in ritardo per la colazione perché rimasto imbrigliato nelle pagine di Émile ou de l’éducation di Rousseau. Non è risultato che la lettura emotiva si sia contrapposta a quella accademica. Negli intellettuali di alto livello essa ha saputo convivere, probabilmente apportando dei vantaggi. L’Ottocento conosce poi la grande diffusione della lettura nel tempo libero. I ceti cittadini aspirano almeno a possedere una cultura di base e nascono in tutto il mondo occidentale le prime leggi sull’obbligo scolastico, magari limitato a due, tre, cinque anni. Larghe fasce di popolazione imparano a leggere e desiderano leggere. Negli Stati Uniti e in Europa nasce la letteratura popolare: dispense e romanzi pubblicati a puntate sui quotidiani (il cosiddetto feuilleton che nasce in Francia e si diffonde nel mondo). Gli anni passano, l’editoria si sviluppa a livello mondiale, ma la concezione di una cultura vissuta come sacrificio ha continuato a dominare buona parte della storia dell’educazione e forse è ancora presente nelle istituzioni, anche nelle università. Queste premesse consentono di affermare che esiste nell’individuo un piacere particolare, quello della lettura. Non si conosce una data precisa per la nascita di questo fenomeno, ma deve appartenere a un’epoca storica in cui l’uomo ha cominciato ad avere una tale dimestichezza con la carta stampata da riuscire a leggere in fretta, come se quello che leggeva gli fosse stato raccontato; ovviamente grazie al supporto cartaceo e ai caratteri a stampa, è difficile immaginare che si possa provare piacere a leggere una stele. L’attenzione sulla lettura nella seconda metà del Novecento Nel 1986 in un tema assegnato dal Ministero della Pubblica Istruzione agli esami di maturità si parlò di «gusto della lettura». Quest’attenzione della suprema istituzione scolastica per un argomento così specifico destò qualche sorpresa. Le nostre istituzioni non avevano mai mostrato un vivo interesse per il problema, anzi si erano preoccupate di bandire dalle scuole testi ritenuti troppo vivaci che avrebbero potuto suscitare allegria perché il divertimento poteva 29
distogliere i discenti dalla serietà degli studi. È noto che perfino i libri di Collodi, alla fine dell’Ottocento, erano stati sconsigliati nelle scuole italiane da una Commissione ministeriale, perché «han pregi molti di sostanza e di dettato, ma son concepiti in modo così romanzesco, da dar soverchio luogo al dolce, distraendo dall’utile; e sono scritti in stile così gaio, e non di rado così umoristicamente frivolo, da togliere ogni serietà all’insegnamento» (La scuola primaria dall’Unità alla riforma Gentile, Catalogo della mostra omonima, Roma, 18 marzo-13 luglio 1985, p. 105). Questo pregiudizio si è mantenuto nel tempo, tanto che Pinocchio, pur essendo tra le opere più diffuse al mondo, nelle nostre scuole è sempre stata ritenuta poco educativa proprio per gli aspetti umoristici delle avventure del celebre burattino. Chissà perché, dunque, era venuto in mente ai dirigenti di viale Trastevere di parlare di «gusto» che, oltre a essere uno dei cinque sensi, in lingua italiana significa anche piacere e soddisfazione? Forse era stata l’iniziativa di qualche funzionario illuminato che aveva voluto rompere con la tradizione? Nel 1979 nei nuovi programmi della scuola media era stata introdotta l’adozione del libro di narrativa e nelle indicazioni metodologiche si riconosceva il valore della «lettura libera e corrente non mortificata da commenti minuti», ma poi immediatamente dopo si raccomandava la «lettura guidata dall’insegnante in ordine alla comprensione dell’insieme e dei particolari, ampliando i contenuti del testo attraverso conversazioni, esercitazioni orali e scritte sul significato generale, sugli aspetti essenziali, su elementi lessicali». Non che queste raccomandazioni fossero scorrette, ma erano diventate il pretesto per introdurre nelle opere narrative schede complicatissime. È molto probabile che il Ministero della Pubblica Istruzione abbia recepito nel 1986 istanze di rinnovamento che nella seconda metà del Novecento stavano, sia pure sommessamente, emergendo. Sul piano pedagogico Luigi Volpicelli, già a metà degli anni Sessanta, aveva tuonato contro una letteratura definita «lacrime e sangue» e aveva accennato all’importanza di letture comico-umoristiche più rispondenti alla natura del bambino; aveva osato perfino valorizzare la lettura del fumetto, all’epoca ancora considerato «pericoloso» da insegnanti e genitori. In breve sul gusto o piacere di leggere il dibattito culturale aveva cominciato a proporsi tra alcune avanguardie 30
e perfino nelle cattedre universitarie. A partire dagli anni Sessanta, erano avvenute poi trasformazioni profonde nel campo dell’editoria e del mercato del libro e certe concezioni tradizionali avevano iniziato a vacillare. Scrittori, editori e qualche libraio avevano cominciato a rumoreggiare contro una cultura vecchia e contro idee assurde della lettura e della cultura in generale. Le loro preoccupazioni erano legate alla scarsa diffusione della lettura, dove i processi di scolarizzazione avanzavano e allo stesso tempo si registrava un’alta percentuale di analfabetismo di ritorno. In Italia il fenomeno aveva assunto la connotazione particolare che abbiamo già visto, la percentuale dei lettori restava stabile e in certi momenti sembrava addirittura abbassarsi, mentre aumentavano laureati, diplomati, giovani che terminavano la scuola dell’obbligo. Bisogna dare atto alla battaglia condotta da Gianni Rodari che si impegnò a fondo nello svecchiamento delle viete concezioni che si annidavano nelle accademie e nella pedagogia ufficiale. Si annidavano perché anche nelle nostre università qualcosa si stava cominciando a muovere: dopo Luigi Volpicelli, Franco Frabboni, con il suo sistema formativo integrato, prese in considerazione il ragazzo nel suo insieme, nella sua vita quotidiana reale. Non era più considerato solo come scolaro o studente ma anche come figlio o telespettatore, come partecipante alle manifestazioni culturali o ai gruppi dell’associazionismo giovanile. Frabboni e Antonio Faeti scrivevano nel 1983 il prezioso libretto Il lettore ostinato. Libri, biblioteche, scuole, mass media, che affrontava la questione della lettura a scuola e nel tempo libero, e si apriva anche allo studio del rapporto tra libro e nuovi mezzi di comunicazione di massa. Qui il concetto di lettura come divertimento e passatempo era chiaro. La proibizione che crea un obbligo In questo contesto Rodari, oltre a scrivere romanzi e filastrocche per ragazzi, si impegnò come giornalista per lo svecchiamento della cultura italiana. Così, quando nel 1964 pubblicò sul «Giornale dei genitori», rivista da lui fondata e diretta, i Nove modi per insegnare 31
ai ragazzi a odiare la lettura, a chi si occupava del tema sembrò aprirsi davvero un nuovo mondo, uno di quei mondi surreali in cui lo scrittore aveva fatto muovere i suoi personaggi, da Cipollino a Gelsomino. Quei nove modi sono la base su cui si innestò il dibattito successivo: 1. Presentare il libro come un’alternativa alla TV 2. Presentare il libro come un’alternativa al fumetto 3. Dire ai bambini di oggi che i bambini di una volta leggevano di più 4. Ritenere che i bambini abbiano troppe distrazioni 5. Dare la colpa ai bambini se non amano la lettura 6. Trasformare il libro in uno strumento di tortura 7. Rifiutarsi di leggere al bambino 8. Non offrire una scelta sufficiente 9. Ordinare di leggere. Oggi queste lapidarie indicazioni in negativo ci appaiono di grande attualità perché testimoniano come una certa mentalità fosse in realtà alla base del «blocco» dei ragazzi verso la lettura. Rendono evidente quanto sia nocivo non solo quello che non si fa, ma soprattutto quello che si può fare in maniera sbagliata. Se dico a un bambino di non guardare la TV è naturale che gli venga voglia di vederla, se poi chi la vieta la guarda può creare confusione. Se si proibisce a chicchessia di pensare una cosa, c’è il rischio che gli tornerà sempre in mente in modo ossessivo, sarà impossibile non pensarla. Gli anni successivi furono martellati da convegni e dibattiti su libro e biblioteche, libro e TV, libro e nuovi mezzi di comunicazione di massa, libro e gusto della lettura. Cominciarono a essere pubblicati sull’argomento titoli importanti, come si può vedere in bibliografia. Lo spazio ci impedisce di tracciare qui una storia particolareggiata di quegli anni, riferiamo comunque alcuni principali eventi. A Milano nel 1972 Roberto Denti dà vita alla libreria per ragazzi. Le librerie specializzate si moltiplicano, mentre quasi ogni libreria inizia a riservare sempre più spazio per il settore dedicato ai ragazzi. Viene organizzata, dal 1964, ogni primavera la Fiera del Libro per ragazzi di Bologna dove editori, autori e disegnatori si incontrano per discutere di editoria giovanile. Nel 1988 nasce la Biblioteca Centrale per ragazzi di Roma.
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Capitolo quarto
Narrazione e qualità dei libri
Il bisogno di storie di fantasia Perché mai gli esseri umani hanno bisogno di romanzi, di poemi, di favole, insomma di storie? Davvero narrare e ascoltare storie è un bisogno? E a cosa possono servire le storie, se si sa che sono opere di fantasia, quindi non vere, spesso lontane dalla realtà e da ciò che si vive? Gli esseri umani hanno utilizzato le storie fantastiche per rispondere a bisogni diversi a seconda delle tante forme di narrazione. O forse c’è un «bisogno generale» al quale si risponde con la filastrocca, la fiaba, la favola o con i grandi poemi come l’Odissea, l’Iliade, l’Eneide, la Divina Commedia o l’Orlando Furioso, con il teatro greco e romano, la poesia e il romanzo antico (L’Asino d’Oro, il Satyricon) o con i grandi romanzi moderni dal Settecento a oggi? Fino ai tempi attuali, nei quali si narra, senza distinzione di generi, anche con mezzi nuovi, come il cinema, il fumetto, la TV, il computer, la pubblicità, il videogioco? Non è facile capire quale funzione svolga un’opera narrativa sugli individui e quale utilità pratica essa possa apportare. A prima vista pare che le storie possiedano funzioni diverse. La favola per esempio possiede una valenza pedagogica, serve a mettere in risalto i vizi e le virtù e allo stesso tempo insegna una condotta morale; la fiaba ha invece avuto, tra le sue molteplici finalità, il compito di intrattenere e di divertire e allo stesso tempo di rappresentare, attraverso archetipi, ruoli umani tra i più diffusi. Anche i grandi poemi possono rientrare nell’intrattenimento, ma essendo destinati a persone colte si è sempre 75
pensato che avessero anche il compito di istruire, ovvero di presentare uno spaccato di realtà, contemporanea o storica, in modo esplicito o attraverso metafore poetiche (tant’è che la loro composizione è stata affidata a persone dotate di elevata cultura, pensiamo a Virgilio, Ariosto, Tasso, ecc.). Anche il romanzo moderno, destinato al ceto medio con chiari intenti di svago, può offrire interessanti spunti di riflessione e trattare tematiche più profonde. Insomma sembra che le opere narrative posseggano da sempre funzioni formative e, se pure più o meno esplicitamente, veicolino stili linguistici, contenuti culturali e modelli di vita. Tutto ciò però non è sempre chiaro e vero. A partire dall’Ottocento e ancor di più dalla seconda metà del Novecento molti canoni si sono confusi con la diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione e con l’utilizzo di storie di intrattenimento fini a se stesse. Pensiamo alla narrativa popolare e, oggi, alle soap opera che sono seguite da un pubblico vario, riconducibile a tutti i livelli di istruzione: c’è da chiedersi quale cultura esse possano veicolare. Si sono confusi anche i destinatari. Manzoni scrisse I Promessi Sposi per una fascia ristretta: era rivolto a un pubblico di soli 25 lettori ipotetici. Ai giorni nostri il suo libro viene fatto leggere fin dalla scuola secondaria di primo grado, mentre un poema come la Divina Commedia lo troviamo a volte, specie in Toscana, recitato a memoria da persone prive di titolo di studio. Insomma se ci si sofferma sui destinatari e sulle funzioni è difficile tirare delle conclusioni, non si riesce a capire fino in fondo il motivo generale per cui l’umanità abbia bisogno di storie. Conviene piuttosto partire dal rapporto che si instaura tra il narrare e il fruire di storie. La ricerca di altri mondi e di equilibri stabili Jerome Bruner è stato tra i primi a offrire una convincente definizione della narrazione: la creazione di mondi lontani da quello che conosciamo, ma naturalmente basati su elementi conosciuti. Si tratta, secondo Bruner, di un’operazione molto complessa della nostra mente perché deve tener conto del mondo così com’è e allo stesso 76
tempo alienarci dal mondo al punto da invogliarci a cercarne altri diversi. In fondo la grande questione sembra esaurirsi nel «salto» dal mondo reale al mondo fantastico. Questo avviene prima di tutto in chi narra, ma anche chi ascolta deve essere disponibile a seguire il narratore e a effettuare il salto. Alla fine, sostiene Bruner, la «sfida» ci porta a poter credere in ciò che è reale, ma un reale idealizzato. In certi casi, può addirittura essere pericoloso perché può sradicare i dettami della legge di ciò che costituisce la realtà tradizionale, in quanto chi inventa crea mondi alternativi e chi ascolta lo segue con piacere; e quando si torna al nostro mondo si torna ovviamente arricchiti e si può metterlo in discussione (Bruner, 2002, pp. 100-119). Sarà per questo pericolo di sradicamento dalla realtà che le storie hanno creato sempre preoccupazioni nella classi dominanti? In effetti sono in molti a pensare che siamo attratti dalle storie fantastiche perché ci «illudono», perché contengono elementi di utopia. Se non credessimo in un futuro migliore chi si sottoporrebbe a un intervento chirurgico? Certe volte anche se non ci crediamo realmente ci piace immaginare l’impossibile. Quando si partecipa a una lotteria si spera di vincere, ma la speranza è tenue. L’importante è che questo ci renda possibile immaginare cosa faremmo con quella vincita e il piacere di quell’illusione ci compensa almeno in parte del denaro speso. Sull’utopia nelle storie Jack Zipes affronta di petto la questione, anche se inizialmente è molto cauto: «Sarebbe sleale sostenere che qualsiasi storia raccontata sia utopistica oppure dichiarare che ci sia nella narrativa una “essenziale” natura utopistica» (Zipes, 2008, p. 11). Tuttavia subito dopo lo studioso americano aggiunge che, in generale, c’è una «tendenza illusoria» nelle storie e che questo è il principale motivo per cui ne siamo attratti. Rifacendosi a Ernst Bloch, aggiunge che dato che la vita di tutti i giorni non è esattamente ciò che noi vogliamo che sia, fantastichiamo con una certa intenzionalità e intravediamo un altro mondo che sprona e stimola la nostra indole creativa a raggiungere uno stato vitale più idoneo. Le storie svelano all’interno dei nostri affanni vere e proprie intuizioni, ma fanno anche luce su alternative e possibilità in grado di riorganizzare il nostro stile di vita e le nostre relazioni sociali. Attraverso l’arte, l’utopia, dipinta come un luogo da noi mai
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visto né realmente sperimentato, è da considerare come un posto realmente abitabile per gli esseri umani, un vero luogo animato diverso dagli spietati mondi artefatti nei quali abitiamo e dalla terra che siamo sul punto di distruggere con la nostra errata opinione sul progresso. (Zipes, 2008, pp. 11-12)
Insomma l’arte, in particolare quella narrativa, avrebbe la capacità di farci immaginare una società sì illusoria, ma questa illusione avrebbe la possibilità di eliminare nell’uomo le pulsioni distruttive o addirittura innescare processi catartici. Le fiabe in particolare, secondo Zipes, possiedono questa forza di illusione e di speranza, perché le azioni eroiche appartengono a personaggi spesso semplici e ingenui che riescono tuttavia a vincere avversari capaci di architettare i più diabolici trabocchetti. Gli eroi sono gente comune con nomi comuni, come Hansel e Gretel, Giuseppe e Maria, Peter e Molly. A volte questi personaggi si muovono in contesti straordinari dove la realtà può essere capovolta. È il caso del mondo alla rovescia o del paese di Cuccagna. La nostra tendenza all’illusione utopistica non ci fa smettere mai di credere in un mondo migliore. «Mentre interagiamo con gli altri, i racconti ci aiutano a posizionarci e a localizzarci nel tentativo di creare delle condizioni di vita ideale. Aiutano a decifrare il terreno delle illusioni. A volte rievocano messaggi che dimentichiamo» (Zipes, 2008, p. 13). Mondi lontani e vicini, mondi reali e immaginari, utopie che avrebbero ricadute sulla realtà. Tutti sono concordi che nelle storie c’è una sorta di «principio attivo» che lega vita e fantasia e che favorisce la comunicazione tra gli esseri umani. Anzi il narrare è una comunicazione più completa perché parla sia alla ragione sia al sentimento, scioglie i nostri pensieri a volte aggrovigliati e li fissa con la forza delle emozioni. Scrive Anna Oliverio Ferraris (2005, p. 9): Come nella vita anche nelle storie c’è un principio attivo. Il loro pregio consiste nell’inviare dei messaggi espliciti e dei messaggi impliciti e raggiungere così sia l’intelligenza sia il cuore. Alcuni messaggi parlano alla ragione, altri ai sentimenti. Alcuni fanno appello alla consapevolezza, altri all’inconscio.
Con le storie quindi riusciamo non solo a immaginare mondi diversi dal nostro, ma anche a ritrovare equilibri perduti nell’esisten78
za. E questo non solo a livello individuale, a volte, quando un’opera ha un grande diffusione e fa riflettere, a livello di intere comunità. D’altra parte è noto che spesso un bambino mentre ascolta una storia (o vede un film o un cartoon) si chieda — e spesso lo chiede all’adulto — chi tra i personaggi si comporta bene e chi si comporta male, chi ha ragione e chi torto. Egli cerca nel mondo della fantasia cose della vita pratica: il senso della giustizia e dell’ingiustizia, modelli di comportamento o modalità per affrontare i pericoli. In conclusione pare che con le storie la comunicazione sia più completa perché esse contengono una doppia struttura, una più superficiale e una più profonda, una razionale e una emotiva. Ed è una comunicazione più efficace perché si imprime nella nostra coscienza. Narrazione orale e letteratura popolare È impossibile sapere quale forma narrativa sia stata usata per prima nella storia dell’umanità. Alcuni sostengono — e forse hanno ragione — che la prima sia stata la filastrocca. Si pensi al movimento della madre che culla il bambino o lo fa saltellare sulle ginocchia e che su quel ritmo sia stata costruita una sorta di narrazione immaginaria, quasi un nonsense. Se così stanno le cose, la narrazione sin dai primordi avrebbe avuto due scopi: nella ninna nanna c’è il piacere (il voler far stare bene il bambino) e allo stesso tempo l’intento di farlo addormentare. Questa è un’ipotesi molto suggestiva e molto probabile, però non è dato saperlo con certezza. La narrazione orale è venuta prima di quella scritta e quelle storie si sono dissolte nell’aria. La narrazione orale ha la forza del legame che si crea tra ascoltatori e contastorie, il quale proprio per questo non racconta mai una storia identica alla precedente. Il vero contastorie deve possedere la «saggezza» che dia fiducia all’ascoltatore e allo stesso tempo un guizzo di «follia» che lo renda imprevedibile anche quando racconta la stessa storia. È il bello della narrazione orale che ha la forza dell’improvvisazione, dell’adattamento all’uditorio (gli attori di teatro sono bravissimi in questo) e della parola piena di calore umano. Ma è anche il suo limite: il calore è energia che si trasforma rapidamente, non si mantiene. 79