Percorsi tra lutto e melanconia Marcello Pedretti M. Pedretti, Percorsi tra lutto e melanconia, Bergasse 19. Cultura e cura psicoanalitica, n. 10 – Marzo 2013, Ed. Ananke Il presente lavoro intende esplorare i rapporti tra lutto e melanconia. Esso parte da “Lutto e malinconia” di Freud, per poi concentrarsi sulla deformazione/scissione dell’io con comparsa di imago inconsce contrapposte, che danno origine alle manifestazioni depressive e maniacali, con particolare attenzione ai disturbi medio-gravi propri dei soggetti con un Sé scarsamente coeso e differenziato, e prosegue con esemplificazioni tratte dal modo della cultura e dell’arte e dal lavoro clinico personale. La psicoanalisi ci segnala la presenza in ogni persona di varie configurazioni o “posizioni” caratterizzate da ansie e difese specifiche, coesistenti, e come la risposta alla perdita sia condizionata dalla configurazione prevalente. Nella posizione contiguo-autistica prevalgono le angosce da perdita di contatto, in quella schizoparanoidea angosce di frammentazione e persecutorie, in quella depressiva angosce con al centro il tema della colpa. Più le angosce sono primitive, più è importante la sopravvivenza dell’oggetto all’esperienza di perdita, cioè la possibilità di ritrovare l’oggetto perduto. È il poterlo ritrovare che consolida la possibilità di ricrearlo dentro di sé e di dare stabilità a questa ricreazione. Capita spesso nel lavoro psicoterapeutico di incontrare nella vita dei nostri pazienti lutti non elaborati. Più raramente emergono nel transfert elementi che rimandano a parti scisse, a lutti non elaborati nelle precedenti generazione, al di fuori della coscienza del soggetto stesso, veri e propri corpi estranei, identificazioni proiettive intrusive, che colorano con la loro presenza le relazioni interne ed esterne, come evidenziato da Haidée Faimberg in Ascoltando tre generazioni. Legami narcisistici e identificazioni alienanti (2006) Franco Angeli, 2006. Lascio ora la parola, aggiungendo solo brevi note, a un gruppo di persone che tra il 2005 e il 2011 hanno partecipato al gruppo di auto mutuo aiuto per adulti “Affrontare le prove della vita”, ove svolgevo in un ottica di volontariato sociale, funzioni di counselor e facilitatore. Talora le persone venivano al gruppo per un aiuto ad affrontare un lutto atteso, talora per un lutto recente da cui non riuscivano a riprendersi, spesso per un lutto avvenuto anni prima. Frequentemente si sono manifestate marcate dipendenze da persone oramai morte che, ancor più che come tali, erano percepite come parti di sé. Frequenti i tratti melanconici. Ma ora prestiamo ascolto alle emozioni che suscitano in noi le parole che andremo ascoltando, emozioni che ritengo la migliore introduzione alla parte riflessiva. “Il mio compagno mi manca fisicamente, come se avessi perso una parte di me, un braccio, una gamba”, “Quando mio figlio si è suicidato sono morta anch’io”, “Non mi mancano gli altri, manco a me stessa”, “Le uniche cose che sento interessanti sono quelle che non ci sono più”. E quando è così le proprie risorse e capacità sono come annullate: “Le cose che so non funzionano, perché non mi sento viva”. Una morte lenta, una lunga malattia, favoriscono l’isolamento dai propri sentimenti, interessi, amici. Fattore aggravante specifico si sono rivelate aree traumatiche infantili, con al centro i temi del riconoscimento, della differenziazione e della separazione, che si riattivano per il sentirsi abbandonati e/o rifiutati da familiari, partners e amici, dal morto stesso. Siamo in uno spazio critico, assolutamente reale, condizionato dalle fatiche collegate al prendersi cura, dalle rabbie e dalle invidie, dalle proprie proiezioni, così come dalle difese che si attivano nelle persone che si vorrebbero vicine.
È presente la paura: “Non posso esprimere il mio dolore per paura di fare soffrire quelli che mi stanno attorno e sono sola”, “Temo che il mio dolore renda gli altri meno disponibili”, “Mi capita, ma solo nella solitudine e nel silenzio della mia casa di piangere e urlare”. È presente la colpa, colpa di essere vivi, di essere sopravvissuti: “Avrei preferito morire io”, è presente l’invidia: “Non riesco a sopportare le persone felici”, è presente la rabbia: “Sono arrabbiata con tutti: con Dio, con quelli che non capiscono, con mio marito che mi ha lasciato nella “merda”. Si vive come divisi: “Ci si occupa delle cose di tutti i giorni, ma dentro c’è un senso di vuoto, spesso si pensa al morto e poi ci si accorge che non c’è”. Talora la fatica diventa insopportabile: “A volte sogno di cadere a terra. Forse qualcuno si accorgerà di me o almeno potrò riposarmi”. Quando i vissuti si fanno muti ci si lascia andare e allora l’unica voce è quella del corpo: “Un giorno mi sono guardata allo specchio e ho visto che ero paurosamente dimagrita, che stavo morendo”, “Quando mi avvicino al pensiero della morte mi viene subito il mal di testa”. Una signora dice: “Mi sento esclusa dal futuro, guardo avanti e vedo solo nebbia intrisa di solitudine”. Talora la difesa prevalente è la proiezione, la presa di distanza: “Nella mia disperazione ho proiettato tutto sui figli, non posso pensare a una loro malattia, morte”. È questa una proiezione narcisistica intrusiva che espropria la vita ai figli: non si vive più per sé, ma per loro, privandoli di una presenza viva. Spesso ci si sente diversi, lontani: “Gli altri sentono, provano cose diverse, si occupano di cose diverse”. Anche quando si comincia a riprendersi la propria vita tutto è faticoso: “Riprendere il contatto con la vita è difficile, è come confrontarsi con un vuoto che a tratti si fa incolmabile”, “Devo continuamente ripetermi: sono viva, sono sana, ho un lavoro”, “Non sono più congelata, ma soffro di più. Ora il mio dolore è caldo, fluido, mi squassa, ma è un dolore in cui mi sento viva”. Tutto è fragile: “In alcuni momenti si torna indietro, si perde la voglia di vivere: una ricorrenza, una morte, un cambiamento”, “Ho lasciato andare mio figlio, ho rivoluzionato la casa, ma ieri sarebbe stato il suo compleanno e ho sentito il vuoto”. Indicatori positivi sono quando la persona riesce a portare foto, scritti, ricordi, a condividere ciò che è stato prima dell’evento malattia, morte. Alla fine per alcuni è possibile ritrovare uno spazio sereno nel presente, il rivivere lascia il posto al ricordare, è possibile dimenticare senza paura, senza sentirsi in colpa, il dolore non è più ostacolo alla vita: “Da qualche tempo riesco a ricordare senza angoscia”, “Cambiare le abitudini mi ha permesso di stare meglio, di vivere le feste senza il peso degli assenti”. La morte di una persona, quando si resta vivi, e anche fonte di domande: “Ma tutto questo dolore servirà a qualcosa?” e di riflessioni: “La morte mi ha come obbligato a guardare tutto ciò che avevo lascito in sospeso”. Con il tempo si pongono altri problemi: “Come rapportarsi a una persona che soffre?”, “Come parlare del dopo a una persona che è ancora nel prima?”, “ Cosa dire, cosa non dire, come non ferire?”. Le domande cambiano. “Quale senso ha la sofferenza?”, diviene “Quale senso ha per me questa sofferenza?”. “Cosa potevo fare?”, diviene “Cosa posso fare della mia esperienza?”. Il gruppo di auto mutuo aiuto ha costituito per i partecipanti uno spazio per comunicare, che contiene, ma anche amplifica, le emozioni, uno spazio per pensare, uno spazio per riconoscersi nella propria fatica e nelle proprie risorse, per scambiarsi aiuto riattivando percorsi relazionali, luogo in cui rabbia, rifiuto, depressione, possono essere riconosciuti e il disorientamento può essere individuato come un fenomeno naturale.
Una persona del gruppo scrive: “Quando un mare di dolore ti cade addosso, rimani senza fiato, non capisci il perché di tutto questo dolore. Far parte del gruppo ti aiuta a condividere quello che ti sta succedendo, non risolve la causa del dolore, ma ti aiuta a chiarire i tuoi sentimenti, a pensare e costruire il tuo presente”. Naturalmente non sempre tutto va bene e varie persone o non accettano il gruppo o finiscono per lasciare senza essere riuscite ad utilizzarne lo spazio. Alcuni sentono le loro difese in pericolo: “La partecipazione al gruppo mi crea nuova angoscia, non posso nascondermi”, e ancora: “Non voglio pensare e il gruppo mi obbliga a pensare”. Il fattore di cambiamento centrale è, come anche in una psicoterapia individuale, la possibilità di sentirsi all’unisono con le altre persone senza confondersi con esse. Sentirsi all’unisono toglie dal proprio isolamento e crea una possibilità di relazione. Condividere permette l’ampliamento della realtà soggettiva. È una condivisione che a partire dal dolore si allarga alle altre aree dell’esistenza. Il dolore cessa allora di essere debolezza, mancanza, o motivo di orgoglio: “Il più grande di tutti”, e diviene risorsa: attraverso il dolore si torna ad essere vivi, ci si riapre al sentire, si creano ponti inaspettati. Passiamo ora a una parte più riflessiva. “Lutto e melanconia” scritto da Freud nel 1915 è uno dei testi fondamentali nella storia della psicoanalisi, non solo perché il lutto normale viene differenziato dal lutto patologico, ma perché, pone le basi di una teoria della mente da cui si svilupperà in seguito la teoria delle relazione oggettuali interne inconsce. In questo testo vediamo come il lutto patologico nell’adulto, indicato da Freud con il termine di melanconia, è dovuto alla rottura di una relazione di tipo narcisistico con l’oggetto, cioè fusionale o anaclitica di appoggio, e come la frustrazione narcisistica collegata alla perdita porti da un lato allo sdoppiamento dell’Io, dall’altro a un tentativo di riparazione magica della perdita attraverso l’identificazione inconscia di una parte dell’Io con l’oggetto morto, come descritto nella celebre frase “l’ombra dell’oggetto cadde così sull’Io” (pag. 108). Tra la parte dell’Io identificata con l’oggetto perduto, e ora ricreato e saldamente tenuto, e quella portatrice delle critiche allo stesso, si stabilisce una relazione interna inconscia, sado-masochistica, una diade atemporale, rifugio psichico rispetto al dolore della perdita. Avviene come un corto circuito tra amore e odio ed erotizzazione dello stesso e della relazione sado-masochistica che diviene fonte di godimento narcisistico: ti odio,ma non posso fare a meno di te, ti subisco, ma non posso fare a meno di te. Freud indica la differenza fondamentale tra il lutto, reazione normale alla perdita “nonostante implichi gravi scostamenti rispetto al modo normale di atteggiarsi di fronte alla vita” (pag. 103), e la melanconia nel fatto che: “Nel lutto il mondo si è impoverito e svuotato, nella melanconia impoverito e svuotato è l’Io stesso” (pag. 105), impoverimento associato a vissuti di vergogna e di indegnità “che si esprime in auto rimproveri e auto ingiurie e culmina nell’attesa delirante di una punizione” (pag.103). Se il lutto, come dice Freud, “induce l’Io a rinunciare all’oggetto, dichiarandolo morto, e offrendo all’Io, in cambio di questa rinuncia, il premio di restare in vita” (pag.117), la melanconia ci parla della impossibilità di accettare la perdita e delle conseguenze legate alla introiezione dell’imago dell’oggetto morto. Altra differenza tra lutto e melanconia è che, mentre nel lutto la perdita è “invariabilmente la reazione alla perdita di una persona amata o di una sua astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale, o così via” (pag. 102), nella malinconia abbiamo molto spesso a che fare con “una perdita oggettuale sottratta alla coscienza” (pag. 104). Freud osserva, più avanti nello scritto, che “Nella melanconia, le occasioni che danno luogo allo scoppio della malattia, vanno perlopiù al di là del semplice caso dovuto alla morte, e si estendono a tutti quei casi di mortificazione, di sensazione di avere subito un torto, di delusione che o generano
un contrasto tra l’amore e l’odio o possono rafforzare una ambivalenza già esistente” (pag.110) e aggiunge: “L’auto tormentarsi del melanconico, certamente foriero di godimento, significa proprio […] il soddisfacimento di tendenze sadiche e di odio” (pag. 110-111), attraverso lo spostamento dell’odio dall’oggetto amato e perso alla propria persona identificata narcisisticamente con l’oggetto perso. Egli riferisce all’odio per l’oggetto introiettato le tendenze al suicidio, frequenti e pericolose in questa patologia, e osserva la tendenza della melanconia a trasformarsi in mania, ipotizzando che le due forme “lottano contro lo stesso complesso” (pag.113). Ogden nel suo articolo “Una nuova lettura delle origini delle relazioni oggettuali” (2008, pag. 55) così conclude: “I principi più importanti presentati in questo articolo del 1915 includono: 1. L’idea che l’inconscio sia organizzato a un grado significativo attorno a relazioni interne stabili tra aspetti appaiati e scissi dell’Io 2. La nozione che ci si possa difendere dal dolore psichico per mezzo della sostituzione di una relazione oggettuale esterna con una relazione oggettuale interna fantasticata e inconscia 3. L’idea che i legami patologici di amore mescolati con l’odio siano tra i più forti legami che vincolano gli oggetti interni l’uno all’altro in uno stato di reciproca prigionia 4. La nozione che la psicopatologia delle relazioni oggettuali interne spesso coinvolga l’uso del pensiero onnipotente in una misura che esclude il dialogo tra il mondo oggettuale interno inconscio e il mondo dell’esperienza reale con gli oggetti esterni reali 5. L’idea che l’ambivalenza nella relazione tra oggetti interni inconsci implichi non solo il conflitto tra odio e amore, ma anche il conflitto tra il desiderio di continuare a essere vivi nelle proprie relazioni oggettuali e il desiderio di essere un’unica cosa con i propri oggetti interni morti. La descrizione di Freud della melanconia si attanaglia bene alla depressione maggiore, nelle forme uni e bipolari, e alla psicosi maniaco-depressiva, dove però i fenomeni di scissione e frammentazione sono più accentuati e compaiono i deliri. Da un punto di vista clinico, con riferimento alla classificazione proposta da Bergeret (1979) in “Psicologia patologica”, l’area che più risente dei disturbi depressivi è quella degli stati limite, area caratterizzata da relazioni d’oggetto anaclitiche o di appoggio, ove il soggetto e l’oggetto si sono già differenziati, ma non completamente, e il soggetto mantiene la sua integrità in relazione all’appoggio che riceve dall’oggetto. Bergeret propone come caratteristica degli stati limite il fatto che l’Io, a differenza della psicosi dove predominano meccanismi di scissione e proiezione, invece di scindersi si deforma e distingue in sé un’area adattiva, che permane in contatto con la realtà, e una area scissa caratterizzata regressivamente dallo sdoppiamento delle imago della realtà, cioè delle rappresentazioni della stessa. All’oggetto di investimento narcisistico perduto si sostituiscono immagini idealizzate e deprivate dello stesso, così come del sé, in relazione tra loro, che parassitano la parte sana dell’Io distorcendone le percezioni. La gravità della depressione dipenderà dalla persistenza o meno di un’area adattiva dell’Io, capace di conservare un sufficiente funzionamento sociale e relazionale e di contrastare l’invasività dei pensieri depressivi e autolesionistici. Lopez in “Terapia psicoanalitica delle malattie depressive” (2003) conia per i soggetti borderline la definizione di istero-schizoidi per evidenziare gli aspetti dinamici di tali soggetti che si muovono tra l’attrazione, una vera e propria fame d’oggetto, e la ripulsa e che presentano una diffusione parziale dell’identità con la presenza di oggetti scissi e di marcati fenomeni proiettivi. Sono questi soggetti narcisisticamente fragili, con rappresentazioni di sé frammentate e scarsamente investite, in cui l’evento depressivo è espressione di una ferita narcisistica o della scoperta che la meta desiderata non dona la completezza cercata o della caduta di un’illusione di
grandezza o del crollo di una falsa vitalità sostenuta da una spinta euforica basata sulla negazione della realtà. È importante tenere presente che l’ipomaniacalità non comporta necessariamente disforia e può essere nascosta all’osservatore, che la confonde con un sano investimento narcisistico del Sé. Depressione ed euforia sono in relazione allo sdoppiamento delle imago della realtà, che da origine a diadi scisse, inconsce e contrapposte. È il gioco tra le stesse che da ragione dei frequenti rovesciamenti all’interno delle relazioni e dei vissuti. L’oggetto anaclitico precedentemente idealizzato, può essere svalorizzato e disprezzato se non corrisponde al ruolo assegnatogli, al vissuto depressivo può sostituirsi un vissuto ipomaniacale, collegato al disprezzo della realtà. Lopez assegna il nome di “Sé luciferino”, all’oggetto scisso narcisisticamente onnipotente e sadico, che si contrappone all’oggetto masochistico, narcisisticamente deprivato, che si rappresenta come cronicamente inadeguato, e osserva: “Tutte le tecniche escogitate dal depresso sono miseramente destinate al fallimento: la rabbia, il tentativo di riprendere il controllo maniacale trionfalistico della situazione, l’identificazione con l’aggressore, l’erotizzazione della mente, le tattiche di compromesso e di corruzione del Super Io e, infine, i rituali ossessivi e la sottomissione passiva e, soprattutto, tentare di combattere volontaristicamente e volontariamente il Sé luciferino. Ovviamente l’identificazione con l’aggressore è l’identificazione con il Sé luciferino. Sono misure difensive destinate alla più bruciante sconfitta, tanto più dolorosa quanto più avevano dato adito all’illusione”. (pag. 200) Se nel depresso l’identificazione con l’aggressore, quella con l’oggetto morto, quella difensiva con un oggetto onnipotente, sono destinate al fallimento, parimenti come terapeuti ci esponiamo al fallimento quando cerchiamo di sostenere la parte deprivata, accettando su di noi la proiezione dell’oggetto scisso ideale, cosa che all’inizio può rivelarsi narcisisticamente gratificante, o quando colludiamo con la parte ipercritica, demonizzando la parte deprivata, spingendo il paziente verso un attivismo volontaristico che non può che confermare la sua incapacità. Come ricorda Lopez (pag. 225): “La crisi depressiva rappresenta quel momento di svolta – scelta – krisis – in cui diventa possibile superare il circolo vizioso della dialettica perversa”. La possibilità del terapeuta di interagire con questi pazienti sta nella capacità di non colludere con gli oggetti scissi, permettendo al paziente di entrare in risonanza con la coesione interna e la spinta profonda verso la vita del terapeuta, nella capacità di porre al centro non sé stessi, ma le proprie capacità di contenimento, di elaborazione, di gioco relazionale e di interazioni creative, così da trasformare le spinte fusionali dei pazienti in momenti empatici di unisono, aperti alla evoluzione verso una sana ammirazione tra persone. È la capacità del terapeuta di non colludere con gli oggetti scissi e di non arroccarsi in un altrove, in una fredda neutralità, che permette al paziente di riconoscersi nello stesso tempo in cui si sente riconosciuto come persona. È un lavoro in cui ci confronta continuamente da un lato con un troppo pieno, il gioco delle diadi contrapposte, e dall’altro con il vuoto, inteso come spazio potenziale, luogo dell’incontro, della fecondità. Sentiamo ancora una volta Lopez (pag. 89): “La soluzione radicale, via verso la genitalità e la persona, passa attraverso quel momento sconvolgente, inatteso e liberatorio, in cui l’oggetto inseguito, braccato e perseguitato dentro la propria mente dalle “cagne materne”, come Oreste nella Orestea di Eschilo, è improvvisamente colpito dal lampo della consapevolezza (Atena): posso eliminare un oggetto d’amore, persecutorio e vampirizzante, identificato con un Super Io sadico, a condizione di eliminare anche questo me stesso a cui rimango così attaccato, questo me stesso che disprezzo profondamente e che, tuttavia, da vero Lucifero, si attacca alla speranza di un trionfo finale”.
Non è questo l’annullamento finale della morte, così tanto sperato e voluto dal depresso, ma l’annullamento del potere della diade e la possibilità di emergere della persona, integrando in sé potenza e limite, aggressività e amore. Un esempio interessante di questo annullamento del potere della diade è presente nel breve scritto di Sören Kierkegaard “Climacus e Anti-Climacus” del 1 agosto 1849, pubblicato in appendice alla “Malattia mortale”, in cui parlando del vero cristiano, mette in guardia da chi nel suo intimo si sente un perfetto cristiano e da chi nel suo intimo si dichiara assolutamente non cristiano. È una contraddizione che egli, di spirito melanconico, ha trovato in primo luogo in sé. Ascoltiamone l’ultima parte (pag. 160 -161): “Noi ci troviamo in un rapporto di affinità, però non siamo gemelli, siamo estremi opposti: c'è fra di noi un rapporto profondo, fondamentale; ma, nonostante i più disperati sforzi da ambedue le parti, non andiamo mai avanti, non ci avviciniamo mai più che fino ad un contatto in cui ci respingiamo. C'è un punto e un attimo in cui ci tocchiamo, ma nello stesso momento ci allontaniamo l'uno dall'altro con l'impeto dell'infinità. Come se dalla cima dei monti due aquile precipitassero giù verso lo stesso punto, o se dalla punta d'uno scoglio un'aquila precipitasse giù e dalla profondità del mare un pesce predatore, con lo stesso impeto, si spingesse in su verso la superficie; così noi due cerchiamo lo stesso punto; avviene un contatto e, nello stesso attimo, ci separiamo e ognuno si lancia verso la sua estremità. […] Se una volta accadesse che noi, nell'attimo del contatto, ci scambiassimo […] non farebbe nessuna differenza. Una cosa sola è impossibile: che noi due veniamo a dire entrambi lo stesso riguardo a noi, è possibile, invece, che noi due scompariamo. Noi abbiamo un'esistenza reale, ma colui che riesce a diventare semplicemente e schiettamente un vero cristiano potrà, come il marinaio racconta dei Gemelli che segue governando la nave, raccontare dei due fratelli che sono estremi opposti. E come il marinaio racconta di aver visto cose fantastiche, così colui che riesce a diventare semplicemente e schiettamente un vero cristiano potrà raccontare di aver visto qualcosa di fantastico. Forse il marinaio mente in ciò che racconta non lo farà il vero cristiano in ciò che racconta di noi; perché è vero che noi due fratelli siamo figure fantastiche, ma vero è pure che egli ci ha veduti”. E in una lettera di alcuni giorni successiva al professor Rasmus Nielsen, pure in appendice (pag. 161), illustra come questa contrapposizione, fantastica e reale nello stesso tempo, caratterizza tutto il pensiero moderno, teso verso un oltre in cui il punto più alto viene a corrispondere con il punto più basso. Propongo ora due situazioni collegate al discorso della creazione artistica. Recalcati in “Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh” parlando della genesi della melanconia dell’artista, che andrà nel tempo incontro a un grave scompenso schizofrenico e che finirà la sua vita suicidandosi, scrive: “Nacque il 30 marzo I853. Lo stesso giorno di quando, un anno prima, sua madre vide morire il frutto della sua gravidanza, il suo primo figlio maschio, il più desiderato. Si chiamava Vincent, Vincent Van Gogh. Inconsolabile, ricercò la via più breve per superare lo scoglio di questo lutto impossibile da simbolizzare scegliendo per il suo secondo figlio maschio lo stesso nome del primo nato morto” (pag. 11). Recalcati pone al centro della patologia melanconica la “Forclusione del nome del padre”, cioè l’assenza di una istanza che permetta di uscire dalla simbiosi narcisistica e di accedere alla triangolazione edipica. In Vincent Van Gogh questa assenza si manifesta come impossibilità a una vita personale: il fratello, in quanto morto idealizzato, fa di lui uno scarto senza valore. Quello che mi preme di più evidenziare è come Recalcati mostra, attraverso la storia di Vincent VanGogh (1853 – 1890), la presenza di due forme di melanconia: una “melanconia depressiva” e
una “malinconia attiva”, e descrive, in accordo con Lacan, due vie di compenso della melanconia e di difesa dalla psicosi: la “compensazione immaginaria” e la “supplenza simbolica”, strade tentate ma non riuscite in Van Gogh, in quanto schiacciato dal rifiuto della madre di accettare la morte del primo figlio. Con il termine compensazione immaginaria egli intende la costruzione di un legame narcisistico con figure dello stesso sesso o dell’altro sesso, ricercate in funzione di un supporto anaclitico, con supplenza simbolica il tentativo di supplire alla mancanza fondamentale di senso della propria vita attraverso un farsi padre di sé stessi, una auto legittimazione di fronte al mondo, un riconoscimento sociale, legato all’apertura di nuove vie al pensiero e all’umanità, apertura facilitata proprio dall’assenza del “nome del padre”, come istanza limitatrice oltre che ordinante. Le “compensazioni immaginarie” tentate da Van Gogh, il rapporto con il fratello Theo, i suoi innamoramenti, il rapporto con Gauguin e il tentativo di creare con lui una casa per artisti ad Arles, falliscono miseramente a fronte delle resistenze delle persone scelte a lasciarsi inglobare in un rapporto narcisistico, segnato da una assenza di confini. Il primo grave scompenso schizofrenico è legato alla rottura del sodalizio con Gauguin, prodromi allo scompenso finale e al suicidio sono il matrimonio del fratello e la nascita di un nipotino, che avrà il suo stesso nome, Vincent. La presenza di un legame narcisistico tra lui e il fratello è segnata inoltre dal fatto che Theo, dopo la morte di Vincent, impazzirà a sua volta giungendo in breve a morte. Le “supplenze simboliche” tentate sono state in particolare due. La prima il tentativo, respinto dalle autorità del suo tempo, di farsi predicatore evangelico, in quanto vocazione in totale opposizione al cristianesimo formale del tempo, aspirazione a farsi ultimo con gli ultimi, a sacrificare la sua vita, in una donazione che diventa dissoluzione della vita stessa. Qui possiamo vedere una profonda differenza da Kierkegaard, che pur partendo da simili posizioni di critica radicale della religiosità del suo tempo, riesce a realizzare una adeguata supplenza simbolica e, nel tempo, a porsi nella posizione terza, rappresentata nel breve scritto citato, dal marinaio, capace di cogliere sia l’illusorietà della chiamata alla perfezione, sia l’illusorietà della posizione contraria. Ciò non è possibile a Van Gogh che aspira a una perfezione che comporta necessariamente l’annullamento di sé, un annullamento in cui lo scarto senza valore, si trasfigura nell’immagine di Cristo, confusa con l’immagine idealizzata del fratello morto. Mentre la religione cristiana, come molte altre, chiama al superamento dei confini delle auto rappresentazioni del Sé in un continuo processo di conversione, qui la chiamata è all’annullamento della morte. La chiamata di Vincent è assoluta, al centro non è la relazione con l’altro, ma l’identificazione con l’altro. La supplenza simbolica trova il suo limite nell’assenza di un desiderio di riconoscimento personale. La seconda “supplenza simbolica” è stata la scelta di diventare artista. È una supplenza in stretta continuità con la prima: non sarà più predicatore tra gli ultimi, sarà ultimo tra gli ultimi, pittore senza casa, senza dimora, senza riconoscimento, non artista per scelta, ma, come dice Recalcati, per chiamata: “È l’Arte che lo chiama, lo ossessiona, lo assilla, lo obbliga ad esporsi” (pag. 69). L’assenza a sé stesso lo spinge, in una vera e propria frenesia creativa, a confrontarsi senza protezioni con l’irrappresentabile, la forza che sottende alla natura, alla vita stessa, una forza che è anche fuoco che consuma. La supplenza simbolica sarà nuovamente, in quanto non orientata al riconoscimento, ma all’annullamento, contemporaneamente difesa dalla follia ed espressione della follia stessa. Dice Recalcati: “La pittura di Van Gogh appare[…]come una pittura che esige di essere innanzitutto una pittura dell'assoluto, dell'infinito. Non semplicemente pittura illustrativa del visibile, ma pittura dell'irrappresentabile, pittura della struttura ultima del visibile, pittura di ciò che sfugge al visibile, pittura del reale della Natura” (pag. 58) e ancora: “Secondo Lacan l'attività artistica, diversamente
da quella scientifica e da quella religiosa, è l'attività che sfida l'accostamento più prossimo alla Cosa. Se quella religiosa tenderebbe a evitare il reale scabroso della Cosa, in quanto concepirebbe il mondo come un ordine di senso compiuto e immutabile, come la manifestazione della volontà di Dio, e se quella scientifica tenderebbe a sopprimere lo scandalo del non-senso interpretando i fenomeni della natura come l'espressione di leggi causali determinate, operando così una saldatura del vuoto di non-senso della Cosa attraverso il sapere, la sublimazione artistica porrebbe invece l'opera d'arte come un costeggiamento della Cosa, come una sua circoscrizione, poiché, sempre secondo Lacan, un'opera d'arte non sarebbe altro che l'organizzazione del vuoto [di senso, in quanto ci oltrepassa] della Cosa. Il vuoto […] è per Lacan un nome del reale, è un nome della Cosa” (pag. 59). Scelgo in particolare quattro quadri per presentificare quanto sopra esposto: Mangiatori di patate (1885), Pietà (1889), Notte stellata (1889), e il suo ultimo quadro, Campo di grano con corvi (1890).
“Mangiatori di patate” rappresenta la vita dei più poveri, dei negletti dell’umanità, con cui Vincent si identifica, la vita dei minatori, scarto di umanità nascosto alla vista degli altri, simbolo degli ultimi a cui si rivolge la predicazione del Vangelo. “Pietà” pone al suo centro attraverso l’autoritratto del volto, l’identificazione di Van Gogh come artista con il Cristo colto nel momento della morte. Se osserviamo attentamente, al di là del titolo, non è un corpo sostenuto amorevolmente, ma un corpo lasciato cadere. “Notte stellata”, Starry night, è un quadro in cui la forza è tuttora contenuta dalla forma, una rappresentazione delle forze vorticose della natura in un delicato equilibrio con la presenza dell’uomo, significata dal villaggio degli uomini. Riporto una osservazione di Karl Jasper tratta dal suo libro “Genio e follia”, citata da Recalcati (pag. 26), che evidenzia come con la comparsa dei primi sintomi prepsicotici, a partire dal 1888, nella pittura di Van Gogh “si impone la dissoluzione della superficie pittorica in pennellate di forma geometrica regolare, ma di immensa varietà; sono linee e semicerchi, figure tortuose e spirali […]. Basta questo impiego del pennello per dare ai quadri un movimento inquietante. La terra dei
paesaggi pare vivere, si solleva e si abbassa in onde, gli alberi sono come fiamme, tutto si torce e si tormenta, il cielo palpita. I colori ardono”. “Campo di grano”, suo ultimo quadro in quanto al termine di esso si sparerà un colpo di pistola, presenta invece il prevalere della forza sulla forma non c’è più traccia di umano, la forza nascosta della natura assume aspetti persecutori, mentre tutto sembra sussultare e frammentarsi. Prendendo spunto dal piccolo libro “Dalle opere di Albretch Dürer. L’immagine della melanconia tra psicopatologia e arte”, parlerò ora di Albrecht Dürer (Norimberga, 21 maggio 1471 – Norimberga, 6 aprile 1528), pittore, incisore, matematico e teorico dell'arte, massimo esponente del Rinascimento nell’area di lingua tedesca. Sulla sua tomba è ancora leggibile l'epigrafe dettata dall'amico Willibald Pirkheimer: "Quanto vi era di mortale in Albecht Dürer giace in questa tomba". Silvia Huober, storica dell’arte , ci dice (pag. 49), a partire dagli scritti di Dürer stesso: “…si evince la presenza di una certa ambiguità; infatti la sua vita è un intreccio affascinante, tra un’attività febbrile e frenetica, alternata a stati di inerzia, la consapevolezza quasi esaltata di essere un artista di successo e il baratro di una cupa e solitaria depressione”. È questo un uomo in cui possiamo osservare sia il tormento presente in ogni artista caratterizzato da una componente melanconica, sia la potenza che può assumere la supplenza simbolica. Possiamo pensare che sia la forza della supplenza simbolica, che fin dalla antichità ha fatto si che la melanconia non parlasse solo di sofferenza e follia, ma fosse considerata “malattia sacra”, temperamento proprio degli uomini caratterizzati dal loro ergersi sugli altri uomini, dei geni e degli eroi. La melanconia si presenta infatti come una convulsione dell’anima, un furore, che può spingere oltre che verso il basso, verso l’alto. Nel Rinascimento viene considerata, al pari della tristezza, attributo di ogni spirito investigatore, di tutti coloro che si spingono oltre i limiti del conosciuto, assumendo il volto della “autocoscienza”, facendosi porta alla perfezione, alla vita speculativa, all’ascesi, alla sovranità dello spirito umano. A mio giudizio è comunque importante differenziare la tristezza dalla melanconia. La tristezza più che attributo della melanconia è attributo del lutto, riconoscimento e accettazione del limite, e la comparsa della tristezza sulla scena analitica è segno positivo, in quanto indice di una possibilità di distacco e di separazione, del sostituirsi del ricordo alla negazione o alla identificazione, e presupposto a nuovi investimenti vitali. Bion a questo proposito parla di “capacità negativa”, come capacità di sostare nell’incertezza, al di là di memoria e desiderio, nell’attesa di quell’esperienza emotiva, che in quanto “fatto scelto”, permette la riorganizzazione della conoscenza, una riorganizzazione in cui la conoscenza si fa esperienza personale. È questo un processo accompagnato da angosce, angosce di perdita di contatto, angosce di frammentazione di ciò che è dato, angosce di colpa per tutto ciò che escluso nel momento della riorganizzazione, processo che lungi dal “farsi da soli” è apertura a ciò che ci circonda, è riconoscimento e gratitudine. È un movimento che termina con il piacere della nuova scoperta, del nuovo brandello di sapere, del sentirsi partecipi della vita che ci circonda. Il melanconico, invece, più che dal piacere della scoperta è guidato dalla pena di non potere andare più oltre e in questo è come Faust che cede l’anima al diavolo pur di raggiungere le sue aspirazioni. Ho scelto di presentare tre incisioni di Dürer, coeve, del 1514 per evidenziare, attraverso il gioco degli opposti presenti in esse, le connessioni tra melanconia e mania. Quella che propongo è una lettura istintiva, e quindi staccata in parte dalla lettura dello storico dell’arte, dagli scritti di Dürer, attento cronista di sé stesso, e dai canoni simbolici propri del Rinascimento, ma spero non troppo arbitraria. Le tre incisioni sono parte di un trittico ideale dedicato alle virtù morali, teologiche ed intellettuali.
Inizio con “Melancholia I”, dedicata alle virtù intellettuali, presa in esame da Silvia Huober nel libro citato (pag. 49). Il pensatore in primo piano, figura dell’uomo che lotta per elevarsi dal suo stato attraverso la ragione e la scienza, porta in sé una duplicità: alle ali per volare si contrappone il corpo seduto e la testa pensosa, immobile, appoggiata a un pugno chiuso. Anche il viso, un autoritratto di Dürer, contiene una duplicità: al colore scuro del volto si contrappone il chiarore e la lucentezza degli occhi. La borsa vuota ai suoi piedi, le chiavi che scivolano abbandonate sul fianco, per Dürer simbolo di ricchezza e potere, il libro chiuso, gli strumenti del lavoro mauale che giacciono a terra, sembrano rimandare alla vanità di ciò che è, e fanno da contrappunto al compasso, alla sfera, al poliedro, figure della razionalità, del potere della mente, di una ragione a cui è chiesto non di conoscere e fare proprio ciò che è, ma di andare oltre tutto ciò che è, verso l’essenza ultima delle cose. Il piccolo putto alato che freneticamente lavora con il suo bulino, trova il contrappunto nel cane emaciato, ai piedi dell’uomo, vere e proprie figure della melanconia attiva, frenesia che consuma, e della melanconia passiva, depressione che consuma. Sulla torre, alla perfezione del quadrato magico, eterno nella sua costanza, si contrappongono la campana e la clessidra, segno dello scorrere del tempo. I due piatti della bilancia rimandano a un equilibrio instabile, in cui ad ogni ascesa corrisponde una caduta e viceversa. Alla possibilità di salire offerta dalla scala, si contrappone l’impossibilità di accedere ad essa. La luce e l’arcobaleno sullo sfondo, figura di uno spazio sereno e vitale, si pongono in un aldilà rispetto al tentativo di innalzarsi della melanconia, che trova espressione nel cartiglio tenuto alto dal volo di un pipistrello, già in sé stesso portatore di una duplicità: creatura volante e nello stesso tempo amante del buio e dei luoghi chiusi. In “Il cavaliere, la morte e il diavolo”, illustrazione della virtù morale, ispirato alla figura del soldato cristiano descritta nel Miles Christianus di Erasmo da Rotterdam, la selva e le rocce fanno come da barriera alla città sul monte sullo sfondo, simbolo della Gerusalemme celeste. È nell’ aldiqua, segnato dalla presenza del tempo, il teschio e la clessidra, si contrappongono Bene e Male, Vita e Morte. Il Cavaliere, su uno splendido e fiero cavallo, armato delle armi della fede avanza con una determinazione, che nell’immagine del cane che corre si fa frenesia, la Morte, a contrasto, è in groppa a un povero e stanco ronzino, il Diavolo accompagna il viaggio a piedi, come uno scudiero. Virtù e peccato camminano a fianco, come pure energia e spossatezza, senza che appaia possibile trovare un equilibrio. La pace è solo nell’aldilà. Anche in questa opera mi sembra trasparire la scissione profonda presente nell’animo dell’artista, la contrapposizione già vista in VanGogh tra malinconia attiva e malinconia passiva. In “San Girolamo nella cella”, rappresentazione delle virtù teologali, la cella è rappresentata come una grotta, luogo di ritiro dal mondo, come a fondere le due rappresentazioni principali del santo (347–420), traduttore della Bibbia dal greco e dall'ebraico al latino, nella forma da noi conosciuta come “Vulgata”, attivo moralizzatore della Chiesa: uomo dedito alla preghiera e alla meditazione, uomo di temperamento ascetico, dedito all’astinenza e alla penitenza, da taluni accusato di fanatismo. Grande sostenitore della introduzione del celibato per i preti, morì nello stesso anno in cui l’imperatore Onorio promulgò la legge che impediva ai preti di sposarsi.
Riporto tre opere che si riferiscono all’ indole ascetica del santo e che, accanto al rigore, sottolineano la assoluta sottomissione richiesta al corpo. Le opere, della seconda metà del ‘400 e della prima metà del ‘500, sono nell’ordine di Hieroymus Bosch, di Cosmè Tura e del Caravaggio.
Tornando a “San Girolamo nella cella” di Dürer, il teschio, a mio parere, oltre a rimandare alla caducità della vita, allude alla impossibilità di risolvere la scissione tra animalità e razionalità , tra ciò che è sentito come corporeo e ciò che è sentito come spirituale. Il cane e il leone, segni di fedeltà e forza, contrastano nella loro immobilità, torpida, con il vigore che promana dalla figura del santo. Queste contrapposizioni, così ben evidenti nei riferimenti letterari ed artistici sopra esaminati sono le stesse che prendono corpo nella clinica psicoanalitica. […] Bibliografia Bergeret J.e coll. (1979), Psicologia patologica, Masson, Milano, 1979 Faimberg H., Ascoltando tre generazioni. Legami narcisistici e identificazioni alienanti, Franco Angeli, 2006. Freud S., Opere, Vol VIII, 1915 – 1917, Boringhieri, Torino Huober S., Pazzagli A., con introduzione di Graziella Magherini, Dalle opere di Albretch Dürer. L’immagine della melanconia tra psicopatologia e arte, Nicomp, Firenze, 2005 Kierkegaard S., Climacus e Anti-Climacus, in “La Malattia mortale”, Oscar Mondadori, 2001 Lopez D., Zorzi L., Terapia psicoanalitica delle malattie depressive, Raffaello Cortina, Milano, 2003 Ogden T. H, L’arte della psicoanalisi, Raffaello Cortina, Milano, 2008 Pedretti M., Perversione sado-masochistica e relazioni oggettuali interne, in Bergasse 19, Ananke, n. 8, 2012 Recalcati M., Melanconia e creazione in Vincent Van Gogh, Bollati Boringhieri, 2009