Percorsi di vita; percorsi di stress; percorsi di lavoro. Stress, soddisfazione lavorativa e qualità dei servizi. di Gianni Del Rio ∗
1. Il rapporto tra stress lavorativo e vita privata. La mia relazione costituisce una prima analisi dei rapporti individuabili tra una prospettiva di Qualità e stress o benessere lavorativi per la persona, operatore o volontario, che "lavora" nelle situazioni di aiuto. Comincerei dal giustificare le virgolette che stanno prima e dopo la parola "lavoro". Dal punto di vista teorico che ho sempre utilizzato come riferimento delle mie riflessioni (Jaques, cfr. bibl.), il "lavoro" corrisponde ad una attività mentale, prima di diventare un azione nella realtà, e ciò vale sia nell'attività lavorativa in senso stretto, sia in tutte le altre circostanze della nostra esistenza. E' questa premessa che mi ha poi condotto ad essere curioso verso il fenomeno del burnout (Del Rio, 1990), il quale sempre più mi appare come un rischio che, pur particolarmente evidente nelle situazioni in cui ci è richiesto di applicarci a un compito e di raggiungere un certo risultato, riguarda tutta quanta l'esistenza di ciascuno di noi: Chi di noi non ha mai fatto fantasie di una professione totalmente diversa in un posto nuovo, magari con un altro partner o un’altra famiglia? Talvolta le fantasie servono a mettere distanza tra noi e le difficoltà a cambiare la spiacevole realtà delle cose, ma ne' fantasie, ne' nuove attività sono in grado di aiutare le persone nell'affare più importante della loro vita: amare e lavorare. Ne' permettono di cambiare personalità. Se si é motivati a riuscire nel lavoro, ci si può sentire ugualmente motivati in un nuovo sport o in un hobby. Se si hanno problemi a porre dei limiti e a dir di no sul lavoro, è facile che lo stesso problema si presenti in un gruppo amatoriale o in un'attività di volontariato. (Grosch e Olsen, 1994, p.103)
Benché ritenga che il burnout sia cosa ormai ampiamente nota, vorrei richiamarne alcuni aspetti di carattere generale ai fini del mio discorso. Il termine "burnout" viene utilizzato per la prima volta nel senso in cui noi lo adoperiamo, nel 1974 da H.G. Freudenberger, psicoanalista, per descrivere una sindrome caratterizzata da "uno stato di affaticamento o frustrazione nato dalla devozione ad una causa, un modo di vita o una relazione, che ha mancato di produrre la ricompensa attesa" (Freudenberger, 1980). Il lavoro Psicologo psicoterapeuta. Milano. Relazione alla Giornata di Studio su “Qualità dei Servizi Sociosanitari”, Trieste, 5.10.1995, promossa dall’Associazione G. de Banfield per la tutela e assistenza agli anziani non autosufficienti, via Caprin,7, 34132 Trieste. In: “Rassegna di Servizio Sociale”, 1995, (4), 26-40; e in: “Prospettive Sociali e Sanitarie”, 1995 (19), 1-6. ∗
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del 1974 (cfr. anche 1975) costituiva la sintesi delle sue osservazioni dell'attività di un gruppo di volontari operanti in servizi di base. La concettualizzazione di uno stress lavorativo specifico delle professioni di aiuto ebbe successo, forse anche perché in essa gli operatori interessati videro un implicito, tardivo riconoscimento dei loro sforzi e delle loro sofferenze. Ben presto (Farber, 1983) apparve chiaro che il burnout andava letto come l'esito possibile di una sinergia di fattori di diversa origine: quelli dipendenti dall'individuo, la sua personalità e la sua storia e quelli derivanti dal suo ambiente lavorativo. Questi ultimi, nella letteratura americana, di solito comprendono anche i fattori più propriamente connessi alle determinanti di natura storico-politico-sociale, che io preferisco tuttavia tenere distinte, poiché esse esorbitano dall'area di influenza del singolo lavoratore e afferiscono al suo status di cittadino, mentre al livello dei fattori organizzativi è possibile ragionare su ruoli individuali, dinamiche di gruppo e di cambiamento organizzativo, che lo vedono direttamente coinvolto in scelte quotidiane con effetti a breve termine. L'esistenza di questa sinergia e l'influenza reciproca dei diversi fattori in gioco è ciò che, per me, rappresenta il fascino di questo fenomeno e lo stimolo alla sua comprensione, ed è anche l'orizzonte - forse inattingibile della sua sfida teorica, poiché il problema della costruzione di un modello integrato che consideri i diversi ordini di fattori, posto a suo tempo, è tuttora irrisolto (Grosch e Olsen, 1994,xii). Nel quadro sintomatologico del burnout ciò che, come dicevo più sopra, mi ha spinto a rileggerlo all'interno dell'intera prospettiva di vita di una persona, è il suo carattere pervasivo, per cui nessuna area del quotidiano, privata o lavorativa, si sottrae al sentimento di fallimento, impotenza, depressione che questo tipo di sofferenza porta con sé. Questo punto di vista è già contenuto, del resto, nelle prime riflessioni teoriche che quindici, vent'anni fa compaiono sul burnout, nelle sottolineature delle importanti interferenze che sono osservabili in chi svolge una professione d'aiuto tra lo stress registrabile in essi a riguardo della loro attività di lavoro, e la vita privata (Maslach e Jackson, 1979; Cray e Cray, 1977), e nell'uso della categoria del "tedium" (Pines e Kafry, 1980) come più adatta a descrivere/definire il fenomeno che non quella del burnout. In questo senso, oggi il burnout mi appare sempre più come la punta dell'iceberg di una realtà personale molto più complessa e tendenzialmente sovrapponibile all'intero corso dell'esistenza. Nel corso della vita peraltro, esistono circostanze fisiologicamente stressanti - e sarebbe strano, diagnosticamente significativo, che non lo fossero - che corrispondono a degli step che siamo chiamati ad affrontare. Levinson e coll. (1978) li hanno riassunti in un saggio ormai classico. Essi sono specifi-
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ci per ogni stadio della nostra vita; grosso modo, ogni decennio della nostra esistenza, e nell'età adulta anche più frequentemente, configura nuove difficoltà di vita e problemi esistenziali cui si accompagna una certa quota di stress. Tutto questo è noto; ancor più: è noto a ciascuno di noi per la nostra personale, dolorosa o felice esperienza di vita. Proviamo ora a guardare la stessa cosa da un altro punto di vista: in ogni momento dato della nostra vita noi disponiamo, per così dire, di un certo capitale umano da investire. Che cosa io intenda con ciò risulta evidente se, ad esempio, pensiamo alla situazione dell'innamoramento, in cui i pensieri e gli sforzi sono diretti verso l'oggetto pervasivo del nostro amore al punto che sentiamo poca o nessuna voglia di occuparci d'altro; è tutto investito lì. Il nostro capitale attuale è espressione del nostro passato di conoscenze e di affetti e la scelta di come amministrarlo e investirlo dipende dalle nostre motivazioni, anch'esse espressione di ciò che noi siamo in quel momento come risultato della nostra storia personale. Nella teorizzazione di Jaques quest'idea di capitale umano è implicata nel suo concetto di "capacità di lavorare", inteso come capacità globale di applicarsi a un compito - etero o autoassegnato - in modo realistico, creativo e non eccessivamente interferito da conflitti inconsci (1970). In tal senso, esso contiene tutta la nostra storia individuale, e quindi anche il nostro stile di lavoro in senso stretto: il nostro personale modo di interpretare ciò che ci è richiesto di fare, colorito dei nostri sentimenti consci e inconsci. In uno scritto successivo (1976, p.149) Jaques sottolinea il carattere complessivo del concetto di capacità: Non c'è un nome per questa qualità. E' certamente qualcosa di più di quanto è espresso dalle parole intelligenza, capacità, destrezza, competenza, iniziativa, motivazione. Ha a che fare con lo stato e la dimensione psicologica della persona nella sua interezza.
Anche la scelta lavorativa ha la stessa origine: noi scegliamo un certo mestiere anziché un altro sulla base delle nostre capacità attuali, e in particolare dell'idea, più o meno consapevole, che è in quel modo che si ha il miglior equilibrio costi/benefici rispetto a un incremento del nostro personale capitale umano. Dobbiamo procurarci il sostentamento, ma anche una possibilità di investimento e una prospettiva di crescita delle nostre capacità; così, la scelta professionale costituisce la risultante di numerosi fattori, consci e inconsci, presenti in noi in quel modo, in quel momento. Ciò ha forti conseguenze sul piano dell'attività professionale: significa che è possibile in ogni momento stabilire un bilancio in termini di soddisfazione/insoddisfazione,
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che è altrettanto se non più significativo di quello di stress/non stress 1. La letteratura sulle helping organizations e la verifica empirica sottolineano il carattere soggettivo della soddisfazione e dello stress e evidenziano l'inscindibilità di questi due fattori ai fini di una corretta comprensione della situazione della persona: mostrano che è possibile che esistano persone stressate o non stressate nello stesso servizio; oppure molto stressate e contemporaneamente molto soddisfatte; o ancora che, soprattutto in lavoratori dei servizi con una notevole anzianità, ci sono persone che hanno imparato a sopportare una quantità non irrilevante di stress, ma che si dicono poco o nulla soddisfatte del proprio lavoro, ossia, che hanno la sensazione che il proprio investimento non dia o non abbia dato i frutti sperati. Questa varietà fenomenologica indica i limiti di un modello lineare di stress che legge la presenza dei sintomi come cedimento di risorse insufficienti a rispondere a una domanda troppo elevata, problema che peraltro sicuramente esiste. Il problema, posto in questi termini, consigliava interventi tesi a ridurre nella situazione di lavoro la presenza dei fattori potenzialmente stressanti 2. Eisenstat e Felner (1983), in modo a mio parere più rispettoso della soggettività dello stress e della soddisfazione percepiti, suggeriscono di puntare, più che sulla riduzione dei fattori di stress, sull'incentivazione dei fattori motivanti. Mi sembra che questa proposta apra l'orizzonte del problema in base a due impliciti importanti riguardo alla persona e all'organizzazione in essa contenuti: il primo, che il benessere di chi lavora in un contesto organizzato è connesso con le sue motivazioni e quindi con le sue capacità; il secondo, che la soddisfazione lavorativa riferibile alle motivazioni é assunta come un indicatore organizzativo significativo, il che consiglia di muoversi in una logica di negoziazione in tal senso 3. Nel seguito del mio discorso, apparentemente non si parla più né di rapporto tra vita lavorativa e vita privata, né di fasi di sviluppo della professionalità. 1
Suran e Sheridan (1985), sulla falsariga di Erikson, leggono il fenomeno del burnout a partire dall’identificazione di quattro stadi di sviluppo nel percorso di vita lavorativo. In ciascuno di essi, il problema non è posto nei termini di trovare un’adeguata risposta allo stress, bensì di risolvere una conflittualità che è ad un tempo professionale ed esistenziale. Gli autori individuano questa successione: [1] Identità vs. confusione di ruolo; [2] Competenza vs. inadeguatezza; [3] Produttività vs. stagnazione; [4] Reinvestimento vs. disillusione. 2 Ciò può essere vero anche per modelli più sofisticati se utilizzati in termini di risposta individuale a uno stimolo stressante. Grosch e Olsen (op.cit. p.28) analizzano le proposte in chiave cognitivista di Raquepaw e Miller (1989) e di Rogers (1987). I primi suggeriscono di leggere il burnout nei termini di come le persone si sentano "adatte" alla situazione di lavoro; Rogers si spinge fino a indicare lo strumento della "person-environment fit theory". Grosch e Olsen, benché riconoscano l'importanza di un approccio cognitivo per la comprensione del burnout, ne ribadiscono il limite esplicativo rispetto alla estrema varietà delle risposte in termini di soddisfazione o non soddisfazione lavorativa. 3 Vale solo la pena di accennare al come il riconoscimento dell'importanza del fattore umano nell'organizzazione del lavoro sia tutt'altro che una novità, e come la letteratura sulle organizzazioni di servizio si basi sulla centralità di questa variabile (Norman,1984).
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Tutto questo, benché non analizzato nel dettaglio, in realtà è implicitamente presente nella trattazione come sfondo della capacità di lavorare dell’operatore nel suo rapporto col compito e con l’organizzazione in generale.
2. Qualità e umanizzazione: il servizio centrato sull'utente. Che cos'è un cliente? Un cliente è la persona più importante che ci sia persino in questo ufficio ... sia che ci contatti di persona, sia per posta. Un cliente non dipende da noi ... siamo noi a dipendere da lui. Un cliente non rappresenta un'interruzione nel lavoro ... è il motivo per cui lavoriamo. Non gli facciamo un favore servendolo ... è lui a farci un favore dandoci la possibilità di servirlo. Un cliente non è una persona con cui litigare o scambiarsi frecciate. Nessuno ha mai vinto discutendo con un cliente. Un cliente è una persona che ci fa presenti le proprie esigenze: è nostro compito occuparcene in modo proficuo per lui e per noi 4
Qualità e umanizzazione convergono in un medesimo presupposto: la ricerca della “massima corrispondenza possibile tra aspettative dell’utente e prestazioni dell’organizzazione” (Gavioli, 1993). In questo senso, la filosofia del perseguire la Qualità - e le scelte organizzative conseguenti - poggia sulla capacità dell'organizzazione, a ogni livello, di ascolto continuo della domanda e del feedback dell'utente (ossia della qualità percepita), di rilevamento dei bisogni e di una corretta diagnosi della situazione. Considero una corretta diagnosi un momento della progettazione dell’intervento forse sottovalutato. E’ la fase in cui la qualità percepita dall’utente nell’ascolto offerto dall’operatore, permette di fondare la relazione d’aiuto e la sua futura adesione e collaborazione al progetto. Da una diagnosi corretta emergeranno le risorse disponibili e apparirà quali interventi sono adeguati e quali inutilmente costosi, per tutti e a tutti i livelli; al limite, la stessa riformulazione dei termini del problema nel corso del processo diagnostico può esaurire la domanda di prestazione. Qualità dei servizi alle persone può non significare necessariamente soddisfazione del bisogno né tantomeno della domanda: in senso stretto, significa farsi carico della persona che si ha di fronte e della sua unicità, di cui la domanda è espressione. La domanda può non trovare soddisfazione; la persona non accetterà mai di essere disattesa. Pensiamo, ad esempio, al frequente fenomeno dei ringraziamenti "ai medici e al personale per le cure prestate" da parte dei parenti di un morto di cancro, in cui la domanda di salvare il congiunto non è stata soddisfatta; eppure c'è gratitudine. Ho un aneddoto personale che può costituire un altro esempio limite: io ero abbonato ad un periodico destinato ai consumatori, una rivista seria e accu4
Cartello esposto in una ditta di vendita per corrispondenza (cit. in Zeithaml et al., 1990, p.85).
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rata che utilizzavo per filtrare l'informazione pubblicitaria e orientare le mie scelte d'acquisto. Cambiai casa e, come per gli altri abbonamenti, comunicai all'editore il nuovo indirizzo, ma la rivista continuava ad arrivare a quello vecchio. Dopo tre tentativi lasciai perdere, non rinnovai l'abbonamento e non risposi ai solleciti, rinunciando ad un buon servizio da cui, tuttavia, non mi ero sentito preso sul serio5; un servizio che, si potrebbe dire, difettava di Qualità. Paradossalmente, la domanda, se avessi insistito, sarebbe stata soddisfatta; la persona, no. Da questo punto di vista, la scelta organizzativa dell'umanizzazione del servizio, soprattutto dei servizi a tempo pieno, è intrinsecamente una scelta di Qualità nel senso che predispone uno strumento istituzionale più adeguato al dispiegarsi della persona e della sua specificità, il che significa: della sua storia e delle sue capacità. Un setting istituzionale umanizzato orientato alla Qualità, inoltre, mi appare come l'alveo naturale di un percorso di ricerca che evidenzi e renda monitorabili degli indicatori di Qualità.
3. Stress e soddisfazione lavorativa in un contesto di qualità. La scelta della Qualità implica una serie infinita di attenzioni a tutti i livelli organizzativi (cfr. Zeithaml et al, 1990). Qui, per tornare alla dichiarazione d'intenti iniziale, mi occupo delle conseguenze che riguardano gli operatori, senza tuttavia entrare nel dettaglio, cosa che richiederebbe una trattazione a parte. Vorrei invece riprendere il discorso sulle motivazioni alla scelta professionale e sulla capacità sottostante. Nelle professioni d'aiuto, in questa scelta gioca un fattore specifico e decisivo: la sensazione che il proprio miglioramento personale si realizza indirettamente, attraverso lo star meglio di altri. Questa motivazione profonda descrive un criterio vincolante, un collo di bottiglia attraverso cui passano sentimenti e scelte, ed è una chiave ermeneutica fondamentale, direi la principale, per comprendere il fenomeno di soddisfazione e stress lavorativo e, più in generale, la qualità della vita di quest'area di lavoratori. Per questa ragione, chi sceglie di formarsi ad una professione d'aiuto nutre inizialmente aspettative molto elevate verso se stesso, le proprie capacità di aiuto, le abilità professionali attingibili nella formazione di base e gli 5
Ripensandoci, non mi ero sentito preso sul serio rispetto a un bisogno molto preciso che avevo in quel momento, di "essere aiutato a traslocare". Il trasloco è uno degli event statisticamente più stressanti nel quotidiano dell'esistenza di ciascuno. Ciò può forse dare la misura di cosa possa stare dietro alla domanda e a una risposta di Qualità.
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stessi formatori; il tutto marcato da notevoli idealizzazioni la cui elaborazione costituisce il vero compito formativo (Del Rio, 1991). Il futuro helper ha forti motivazioni e, si potrebbe dire, pensa il proprio futuro lavoro di aiuto in un'ottica di Qualità. Questo è il retroterra motivazionale su cui poggia la crescita professionale ed esistenziale degli operatori dei servizi, i quali pertanto risultano sensibili, direi in ogni momento della loro vita professionale, a proposte progettuali che si riferiscano a modelli di Qualità; disponibili per un verso, per un altro sospettosi e diffidenti, timorosi di essere nuovamente delusi, "sedotti e abbandonati"6; poiché la loro esperienza, in genere è quella di avere alle spalle un'organizzazione non di Qualità, bensì di Quantità, regolata su una logica costi-benefici tradotta in numeri. Un servizio di Qualità, in quanto enfatizza l'attenzione alle specificità delle diverse situazioni di domanda, chiama direttamente in causa la capacità attuale dell'operatore, esattamente nel suo significato più profondo: quello di "capacità di discrezionalità", ossia di assumersi la responsabilità delle scelte operative nell'esecuzione di ciascun compito - simile ad altri, ma unico con le ansie consce e inconsce che queste scelte accompagnano. In più, tali scelte, in un’ottica di Qualità, si confermano poco standardizzabili, il che descrive una situazione complessiva molto varia e stimolante, quindi feconda per la crescita delle capacità e gratificante per le motivazioni, ma anche potenzialmente stressante se non sono contemporaneamente presenti nell'assetto organizzativo adeguate misure di contenimento dell'ansia e quindi dello stress. Pines et al. (1981, p.15) definiscono burnout “il risultato di una costante o ripetuta pressione emotiva associata ad un intenso coinvolgimento con persone per lunghi periodi di tempo”, e questo è il rischio. Vorrei approfondire quest'ultimo concetto attraverso una riflessione a partire dal contributo di Isabel Menzies su I sistemi sociali come difesa dall'ansia (cfr. bibl.). Lo scritto, in sintesi, presenta i risultati di una ricerca presso il servizio infermieristico di un ospedale, tesa a migliorare le prestazioni del servizio stesso. Nel corso dell'indagine, appare sempre più rilevante il sintomo costituito dall'ansia presente e diffusa tra le infermiere, collegabile alla natura del lavoro infermieristico in sé: ai compiti di assistenza 6
Isabel Menzies (1970,p.142-3), il cui contributo verrà discusso più avanti, descrive un atteggiamento psicologico simile nel personale infermieristico di un ospedale. L'autrice parla di una "elaborazione delle preoccupazioni" anticipatoria dei sentimenti dolorosi che un evento affettivamente traumatico connesso al lavoro, come l'inatteso trasferimento di un paziente, potrebbe in futuro produrre. L'elaborazione difensiva preventiva dà luogo a un disinvestimento affettivo del compito e si risolve in un distacco e un impoverimento della relazione col paziente.
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e terapia che portano questa figura professionale a contatto con la sofferenza anche estrema, al doversi applicare in pratiche talvolta ripugnanti, al fantasma della morte sempre presente. L'autrice afferma, tuttavia, che tutto ciò non appariva sufficiente a giustificare l'alto livello di ansia presente; cosicché l'attenzione si sposta sulle "tecniche usate nel servizio infermieristico per controllare e modificare l'ansia", veri e propri meccanismi di difesa collettivi che si aggiungono e tendono a sostituire in parte o in tutto quelli individuali7. Questi meccanismi si producono nel tempo attraverso "interazioni collusive e accordi spesso inconsci" (p.126), ed entrano a far parte della cultura dell'organizzazione e della sua organizzazione formale e informale. La Menzies elenca dieci meccanismi di difesa collettivi osservati, precisando che nella realtà essi agiscono in modo simultaneo e sinergico. Qui (vedi pag. seguente) li ho riassunti nella colonna di sinistra della Tab.1.
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.Più precisamente, nel momento in cui l'individuo entra nell’istituzione, attiva necessariamente un processo di scambio con quest’ultima proiettando in essa parti del suo sistema di difese e introiettando le difese istituzionali; il tutto definito a partire dal modello metapsicologico di Melanie Klein. Nella seconda parte del suo contributo (p.151), la Menzies sottolinea il rischio per l'individuo derivante da una "introiezione forzata" delle difese istituzionali. Per ulteriori approfondimenti si rinvia al testo originale.
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DIFESE DALL’ANSIA (Menzies,1970)
“MODELLO DI QUALITA’”
1. Scissione nel rapporto infermiere-paziente. Relazione di aiuto con la persona totale. Mansioni inteMansioni parcellizzate. Contatti brevi e limitati con grate. Tempi adeguati al compito. l’utente. 2. Spersonalizzazione, categorizzazione e negazione del significato dell’individuo. Conseguente standardizzazione di procedure verso l’utente e di definizione dei compiti dell’operatore.
Individuazione dell’utente (diagnosi della domanda e prescrizione dell’intervento specifico). Enfasi sulla specificità delle capacità dell’operatore. Adattamento delle procedure e applicazione delle metodologie secondo un modello clinico.
3. Distacco (emotivo e fisico) e negazione di sentimenti. Ricerca e uso nella relazione della posizione affettiva Assenza di autorità e/o potere decisionale nella deter- adeguata alla circostanza. Uso ed elaborazione del “conminazione della distanza operatore-utente. trotransfert”. Partecipazione ai processi decisionali. 4. Tentativo di eliminare le decisioni tramite Decisione sulla scelta operativa appropriata alla situal’esecuzione rituale dei compiti. Scoraggiamento dall’uso zione mediante l’uso di discrezionalità entro i limiti predella discrezionalità. scritti. 5. Riduzione del peso della responsabilità nel prendere Applicazione del principio di responsabilità in base alle decisioni per mezzo di verifiche e controverifiche. Po- capacità. Riferimento all’autorità come sostegno. sticipazione dell’azione il più possibile. 6. Collusione nella ridistribuzione sociale di responsabili- Collaborazione nell’assegnazione di compiti e responsabità e irresponsabilità. Conversione del conflitto intrapsi- lità. Creazione e manutenzione di un sistema sociale di chico in conflitto interpersonale. sostegno; elaborazione dei conflitti mediante l’esame di realtà. 7. Indeterminatezza intenzionale nella distribuzione Definizione di ruoli e “costellazioni di persone-ruolo”. formale delle responsabilità. Ambiguità, conflitti e so- Creazione e gestione di spazi strategici di ruolo. vra/sottocarico di ruolo. 8. Riduzione del peso della responsabilità per mezzo di Definizione e decentramento delle aree di responsabilità delega ai superiori. con assegnazione di autorità adeguata. Istituzione di ruoli e spazi di supervisione. 9. Idealizzazione e sottovalutazione delle possibilità di Assunzione della motivazione ideale e idealizzata degli sviluppo personale (degli operatori da parte operatori come risorsa. Istituzione della dimensione deldell’organizzazione). la formazione permanente con l’assegnazione di risorse adeguate. 10. Elusione del cambiamento. Resistenza al cambiamen- Individuazione del cambiamento come dimensione dello to come tendenza al mantenimento del sistema di difese sviluppo istituzionale; definizione del cambiamento come presente. compito istituzionale.
Tab.1. N.B. Nella colonna di sinistra, le parti di testo in carattere tondo corrispondono al testo della Menzies; quelle in corsivo sono mie specificazioni, estrapolate dal testo originale.
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Nella colonna di destra, per ciascuno dei meccanismi indicati, ho provato ad immaginare come si potrebbero configurare le variabili organizzative corrispondenti, in particolare quelle connesse al compito e al ruolo, in un'ottica di Qualità. Il panorama che ne emerge è quello di un utente ricomposto nella sua individualità e specificità, sullo sfondo di un sistema organizzativo "sufficientemente buono", come direbbe Winnicott, e adeguatamente flessibile. Per avere un'idea dell'effetto sull'operatore, le sue ansie, lo stress da un lato e la sua soddisfazione lavorativa e la crescita della capacità dall'altro, bisogna tornare alla Menzies. L'autrice afferma (p.140-8) che l'uso di questi meccanismi collettivi di difesa dalle ansie spesso finisce col produrne altre, da lei definite "ansie secondarie", senza che quelle "primarie", all'origine della creazione dei meccanismi, si attenuino. In sostanza, ciò accade perché la struttura dei meccanismi di difesa impedisce di raggiungere quei risultati nel lavoro che diano soddisfazione, senso di competenza, misura dell'incremento delle proprie capacità, stimolo a tentare di più e rilancio della motivazione. Ora, la proposta di Qualità incide a questo livello: essa libera, per così dire, dai ceppi di meccanismi di difesa rigidi, l'istituzione e la capacità dei singoli, innescando un cambiamento della cultura organizzativa. Così come la creazione di meccanismi collettivi aveva prodotto effetti organizzativi indesiderabili, l'adozione di modelli organizzativi di Qualità modifica inevitabilmente il sistema di difese istituzionali. Nel bene e nel male. Un processo di cambiamento organizzativo di questo genere, infatti, toglie appunto difese, riproponendo il problema del come le capacità individuali possano relazionarsi con gli aspetti ansiogeni del lavoro, potenzialmente stressanti, che sono presenti in qualsiasi relazione d'aiuto, e che ricompaiono con forza in un modello di Qualità. L'indicazione che ne scaturisce, dunque, è che un modello di Qualità risulterà applicabile con buona speranza di risultati positivi per tutti: utenza, operatori e organizzazione8, a patto che si tenga conto di una serie di misure 8
Nel paragrafo conclusivo del suo lavoro (p.152) la Menzies offre alcune considerazioni che chiamano direttamente in causa il rapporto tra configurazione del sistema di difese e qualità del servizio offerto, con evidenti conseguenze in termini di costi-benefici: E' parso evidente [...] che il servizio infermieristico è inefficiente sotto molti aspetti: ad esempio, tiene indebitamente alto il rapporto personale-paziente, organizza un sistema di pratica infermieristica in buona parte scadente, sposta il personale con eccessiva frequenza e non è in grado di preparare adeguatamente le allieve ai loro reali ruoli futuri. Gli esempi sarebbero molti di più. Inoltre, l'alto livello di ansia delle infermiere si somma alla tensione dei pazienti per la malattia e il ricovero ed ha effetti negativi su fattori quali la percentuale di guarigioni. [...] Così la struttura sociale del servizio infermieristico fallisce non solo come mezzo di controllo dell'ansia, ma anche come metodo di organizzazione dei suoi stessi compiti. Questi due aspetti non possono essere considerati separatamente. L'inefficienza è una inevitabile conseguenza del sistema di difesa prescelto.
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organizzative tese non all'abolizione del sistema di difese, cosa in sé impossibile, ma alla graduale modificazione del sistema di difese attuale con un altro, congruo ad un modello di Qualità. Alcuni suggerimenti in questa prospettiva emergono fisiologicamente dalla colonna di destra della Tabella. Come sarà possibile constatare, gli accorgimenti qui indicati sono già presenti e reperibili nella letteratura sullo stress nelle organizzazioni; ciò a mio parere può essere considerato come una sorta di garanzia che si tratta soprattutto di recuperare una naturalità da sempre potenzialmente disponibile in ogni situazione di lavoro, ossia il suo patrimonio di umanità 9. Vediamoli in sintesi. Partiamo dal ruolo. La definizione negoziata del ruolo fornisce una cornice prescrittiva all'ambiguità e pone i termini di ogni negoziazione futura nella prospettiva dello sviluppo professionale; ciò implica un iniziale interfacciamento delle capacità individuali con i compiti organizzativi e una prima verifica di motivazioni e aspettative. In particolare, consente all'operatore di posizionare la sua capacità professionale attuale rispetto alla domanda dell’organizzazione. Questa contrattazione iniziale fornisce inoltre all'operatore un'identità provvisoria su cui imbastire i rapporti con colleghi e superiori. La prospettiva di Qualità suggerisce il mantenimento di una quota di indeterminatezza che permetta una flessibilità di ruolo all'interno di uno spazio strategico. I compiti in connessione al ruolo definiscono l'area di responsabilità e l'autorità adeguata a fronte di una responsabilità diffusa richiesta dalla Qualità. Il fatto che sia data la possibilità di negoziare con i colleghi direttamente coinvolti nell'esecuzione del compito le aree di responsabilità, porta con sé tutte le conseguenze benefiche connesse all'attività di un gruppo collaborativo: una legittimazione reciproca, la crescita della cultura di lavoro del gruppo, il prodursi e riprodursi creativo di "costellazioni di persone-ruolo" (Menzies) centrate su compiti o progetti, il contenimento di fenomeni a tipo "assunto di base" (Bion, 1961), la capacità di elaborazione dei conflitti e altro ancora.
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E' inimmaginabile che l'umanizzazione di un servizio non inizi, o prescinda, dall'umanizzazione dell'organizzazione del lavoro. Per analogia, come una madre carica di conflitti inconsci che comunica per via empatica le proprie ansie al bambino difficilmente riuscirà ad essere una "madre sufficientemente buona", così è probabile che un'organizzazione disattenta al benessere dei propri membri permanenti, non potrà creare un clima istituzionale "sufficientemente buono" per la sua utenza. Ranci Ortigosa (1990; vedi anche Agnoletto Ranci, 1990) scrive:”...ogni servizio tende a riprodurre con l’utenza le stesse relazioni che prevalgono al suo interno. Come il singolo individuo se non riconosce tutte le sue potenzialità non può neppure utilizzarle nelle situazioni relazionali, così anche un servizio o un’organizzazione, se non consente nei suoi rapporti interni il riconoscimento e la valorizzazione di tutte le sue risorse, tende a riprodurre nei suoi rapporti con l’utenza questi suoi limiti.”
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Un modello di lavoro centrato sulle specificità dell'utente implica di necessità l'esistenza di ampie zone di discrezionalità nel compito e quindi, come si è detto, di ansie connesse alle scelte operative; ciò è tanto più vero quanto più si ritiene che l'affettività dell'operatore sia un ingrediente essenziale della relazione d'aiuto. In una prospettiva di Qualità l'appello alla discrezionalità diventa un ingrediente fondamentale della scelta strategica del servizio, e la complessità dei processi organizzativi favorisce il moltiplicarsi di aree di incertezza. Tutto ciò richiede la presenza di ruoli e funzioni di sostegno finalizzate alla prevenzione e al contenimento dello stress. Poiché tuttavia, come si è detto, il mero contenimento dello stress appare affatto inadeguato, il sistema di sostegno va pensato in connessione allo sviluppo organizzativo; come l'altro polo di una relazione tra due soggetti in continua evoluzione: la persona e l'istituzione, entrambi tesi al proprio sviluppo. Il riferimento alla motivazione più che allo stress suggerito da Eisenstat e Felner riguarda, in questa prospettiva, non solo il singolo operatore, ma l'organizzazione nel suo complesso. Entro questa cornice, allora, prendono senso un medesimo senso - e possono armonizzarsi funzioni e ambiti di supervisione e formazione permanente in un percorso di continua elaborazione; inoltre, in questo modo, è possibile istituire la prospettiva del cambiamento come caratteristica di fondo della realtà istituzionale e prevenire, almeno in parte, le ansie specifiche inevitabilmente connesse a qualsiasi cambiamento. Resta un'ultima per nulla secondaria questione relativa al riconoscimento della qualità delle prestazioni dell'operatore in termini di compenso economico. Il livello di retribuzione, afferma Jaques (1970), deve essere congruente al compito assegnato e alle capacità di svolgerlo; quanto maggiore è lo squilibrio, tanto più si va verso lo stress. E non direi che nel settore dei servizi alle persone la paga sia adeguata. La Qualità rende ma costa, e ciò va messo in conto. Un mio indimenticato supervisore mi ripeteva che acqua e farina non bastano per fare una torta, ci vogliono altri ingredienti; con acqua e farina si ottiene colla da manifesti. Il che, se si dice di voler fare una torta, non è certo un risultato di Qualità.
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