MAURIZIO RIPPA BONATI
Padova, capitale della sanità militare durante la Grande Guerra (Memoria presentata dal s.e. Giuseppe Ongaro nell’adunanza del 15 marzo 2014)
Negli edifici delle Università italiane, per antica e lodevole tradizione, non si può entrare armati. Non fa eccezione il Palazzo del Bo, la sede storica dell’Università di Padova. Tanto comprensibile protezionismo non ha però potuto impedire che nelle Università – nei templi del sapere – penetrasse la Guerra. Chi entri nel citato Palazzo del Bo attraverso il portone principale passa tra due imponenti ante di bronzo realizzate con il metallo ottenuto fondendo i cannoni conquistati agli Austriaci nel corso della Grande Guerra e quello che sembra un elaborato motivo decorativo è in realtà la lunga elencazione degli studenti caduti. Liste analoghe riempiono le lapidi del cosiddetto “Atrio degli Eroi” e chi da lì si accinga a salire al Rettorato per la Scala della Sapienza lo fa sotto lo sguardo pensoso di Palinuro, il nocchiero di Enea che morì in vista delle coste della patria, opera tarda di Arturo Martini. Un messaggio forse criptico per molti, ma che simboleggia perfettamente il percorso di coloro che faticarono, magari per anni, nelle aule universitarie per poi non riuscire a raggiungere l’agognata meta della laurea a causa, appunto, di una guerra. E ancora, entrati nel cosiddetto “Cortile nuovo”, se nella parete Ovest il monumento dedicato da Joannis Kounellis all’ordine che seguì alla Seconda Guerra Mondiale non è immediatamente comprensibile, non necessita invece di alcuna spiegazione il grande bassorilievo sulla parete esterna dell’Archivio Antico. Qui vediamo rappresentati, enfatizzati dalle dimensioni, gli effetti della guerra. Quello che difficilmente possono trasmettere liste di nomi, per quanto lunghe esse siano, lo fa con facilità e immediatezza una immagine. Su quattordici soldati raffigurati ben tre sono feriti. Anche in questo caso si tratta di
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giovani combattenti della “Guerra 14-18”, della Prima Guerra Mondiale, la “Grande Guerra”. Nella relazione relativa all’anno accademico 1915-1916, presentata il 4 novembre 1916, data che diverrà fatidica, Ferdinando Lori, Rettore dell’Università di Padova dal 1913 al 1919, riferì che gli studenti arruolati ammontavano a 1200 e che di questi già 54 – circa il 5% – risultavano caduti, prigionieri o dispersi. Con queste cifre entriamo brutalmente in un momento della storia di Padova e della sua Università indubbiamente triste ma al tempo stesso luminoso e particolarmente meritevole di essere ricordato. Un momento che vide Padova diventare la ‘capitale’ dell’assistenza sanitaria e della didattica medica della Grande Guerra. Con la morte dell’ultimo dei “Ragazzi del ‘99”, nel 2007, è venuta a mancare tutta la prima linea – i testimoni diretti – della Grande Guerra. Oggi siamo noi a rappresentare la seconda linea e le retrovie grazie al fatto di aver avuto padri e nonni protagonisti di quell’evento epocale che meritò tristemente gli aggettivi di “prima” e di “grande”. A noi tocca una grande responsabilità perché, come sottolinea Rigoni Stern, «per i ragazzi di oggi la Grande Guerra è più lontana della luna». Rigoni si riferisce a quelli che potremmo definire i “ragazzi del 1999”, per i quali dobbiamo mettere in pratica una vera e propria “operazione memoria”. Molti giovani – e forse non solo loro – si chiederanno quanta enfasi ci sia nell’uso dell’espressione “Padova capitale”. È doveroso ammettere che un po’ di passionalità indubbiamente c’è, come spesso accade per i titoli, ma ciò non toglie che Padova visse un momento estremamente importante, seppure circoscritto nello spazio e nel tempo, di un conflitto cronologicamente e geograficamente esteso. In tutti i casi mi auguro di rendere l’idea dell’importanza e della vastità dell’argomento “Sanità militare a Padova nel corso della Grande Guerra” e di dimostrare l’adeguatezza del termine “capitale”, felicemente utilizzato nel 1995 per il volume Padova capitale al fronte. Pochi giorni fa alla presentazione della pubblicazione di un carteggio il professor Isnenghi si chiedeva se c’è ancora qualcosa di nuovo da dire sulla Grande Guerra. La risposta è ovviamente si. Nuovi documenti, anche apparentemente modesti e isolati, e nuovi modi di affrontare la ricerca portano ottimi frutti. Nel caso specifico della sanità militare patavina, se da un lato aveva ragione l’amico Giuliano Lenci ad affermare nel 1995 che della cosiddetta Università Castrense, un tempo ben conosciuta, «col tempo se ne è perduta la memoria», è pur vero che oggi, anche grazie proprio a lui che ha aperto una nuova linea di ricerca, disponiamo di numerose testimo-
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nianze: documenti d’archivio, pubblicazioni e, non ultime, immagini. Testimonianze che riguardano anche i due ambiti, affini ma diversi tra loro come le due facce di una medesima medaglia, del mio intervento: l’assistenza sanitaria e la didattica medica a Padova durante la Grande Guerra. 1. Assistenza sanitaria militare «Cercai di respirare ma il respiro non volle venire e mi sentii scagliato fuori di me e fuori e fuori e fuori e sempre nel vento. Andai fuori veloce, tutto me stesso, e sapevo che ero morto e che era stato un errore pensare che ero morto. Poi galleggiai, e invece di procedere mi sentii scivolare indietro. Respirai ed ero indietro. Il terreno era sconvolto e davanti alla mia testa c’era un trave di legno scheggiato. Nello stordimento udii qualcuno gridare. Pensai che qualcuno strillasse. Cercai di muovermi ma non potei» Ernest Hemingway, Addio alle armi
Iniziamo da quello che potrebbe essere definito “itinerario urbano dedicato alla sanità militare della Grande Guerra” o, più modernamente, “geolocalizzazione di siti urbani di interesse storico-medico militare”. Per comprendere le esigenze alle quali dovette sopperire fin dal 1915 una “città sanitaria” quale fu Padova è necessario ricordare qualche cifra: nella prima delle cosiddette “Battaglie dell’Isonzo”, combattuta tra il 23 giugno e il 7 luglio del 1915, ci furono circa 2000 morti e 15.000 feriti; nella seconda, tra il 18 luglio e il 3 agosto dello stesso anno, i morti e i dispersi salirono a circa 11.000 unità e i feriti addirittura a 30.000, corrispondenti a circa 1800 feriti che giornalmente dovevano essere allontanati dalla prima linea nel minor tempo possibile. La catena assistenziale prevedeva un percorso che partendo dai posti di medicazione, passando per gli ospedali da campo e di tappa, portava i feriti fino agli Ospedali territoriali. Vediamo innanzitutto le caratteristiche che hanno fatto di Padova una “Capitale sanitaria”: troviamo innanzitutto la presenza di strutture ospedaliere attive e capienti e di una Facoltà medica antica e famosa, l’esistenza di una sperimentata capacità ricettiva, rapidamente potenziabile, la facile e rapida raggiungibilità grazie a buone vie di co-
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municazione e, non ultima, la posizione prossima al teatro di guerra, seppure non eccessivamente vicina al fronte. Ecco dunque che già nella seconda metà del 1915, in pochi mesi, Padova diventa, per continuare nelle definizioni sintetico-evocative, una “città ospedale militare”. In brevissimo tempo gli “ospedali” raggiungono e superano il numero di venti ed è interessante elencare le strutture adibite al ricovero dei militari feriti o ammalati in base alla ricettività: 1060 – Ospedale di Santa Giustina 746 – Ospedale civile 630 – Ospedale Scuola Pietro Selvatico 600 – Ospedale della Croce Rossa, Seminario 550 – Ospedale Scuola di via Belzoni 483 – Ospedale Orfanotrofio 450 – Ospedale convalescenziario Casa di Ricovero 400 – Ospedale militare principale 383 – Ospedale Scuola Ardigò 370 – Ospedale Psichiatrico Provinciale 300 – Ospedale Scuola Arria 300 – Ospedale Isolamento 290 – Ospedale Scuola Reggia Carrarese 248 – Ospedale Istituto Camerini e Rossi 200 – Ospedale Santa Croce 150 – Ospedale della Croce Rossa, Pensionato Petrarca 120 – Ospedale Fatebenefratelli 100 – Ospedale della Croce Rossa, Arsego 90 – Ospedale Patronato 20 – Ospedale Pronto Ricovero 10 – Casa di Cura Arslan Notiamo che al primo posto non c’è, come sarebbe lecito aspettarsi, l’Ospedale civile Giustinianeo. In effetti è necessario tener conto che il monumentale edificio, all’epoca attivo da poco più di cento anni, doveva continuare a sopperire alle esigenze sanitarie della popolazione civile. Esigenze che oltre alle normali patologie dovevano comprendere anche le conseguenze dirette e indirette della guerra. Se l’igiene seppe tenere a freno gran parte delle possibili epidemie, dobbiamo ricordare che Padova ha il triste primato si essere stata una delle prime città al mondo a subire bombardamenti aerei, con un numero di vittime molto superiore a quanto ci si potrebbe aspettare in considerazione dei mezzi dell’epoca.
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Non a caso l’autorizzazione a utilizzare una parte consistente del Giustinianeo come ospedale militare dovette essere caldeggiata da due protagonisti di primo piano della vita medica padovana: Edoardo Bassini e Achille De Giovanni che, per la firma della convenzione, trovarono un prezioso alleato nel Presidente del nosocomio, il nobile Francesco Lorenzo Lonigo. Dal 29 maggio la direzione sanitaria dell’Ospedale venne affidata al professor Napoleone D’Ancona, mentre Augusto Bonome assunse la direzione dei servizi batteriologici e sieroterapici. Un discorso analogo riguarda l’ospedale psichiatrico di Brusegana, grande e all’epoca modernissimo, una vera e propria cittadella autonoma. Così la grande struttura divenne al tempo stesso manicomio civile, ospedale militare e, successivamente, sede di insegnamento universitario sotto la guida del professor Ernesto Belmondo. Fatte queste precisazioni, non sorprende che al primo posto ci sia l’ospedale situato nelle adiacenze dell’Abbazia di Santa Giustina, che già in passato avevano ospitato un ospedale militare e che anche ora sono sede di una caserma. Il grande ospedale di Santa Giustina fu affidato al professor Luigi Sabbatani. Degli altri ospedali temporanei basterà qui dire che alcuni vennero organizzati nelle vicinanze dell’ospedale militare, mentre altri – quali la Scuola Selvatico, la Scuola Ardigò, il Patronato e la Casa di ricovero – nel 1916 cambiarono destinazione d’uso, quando, come vedremo, Padova divenne sede della “Scuola medica di guerra”. Una nota a parte meritano i dieci letti della Casa di cura del Professor Yerwant Arslan, perfetto esempio della partecipazione dei privati a questa gara di generosa solidarietà. Interessante è anche il “Pronto ricovero” presso la Stazione ferroviaria, allestito per ospitare temporaneamente i feriti arrivati con i treni ospedale e in attesa del loro ricovero in strutture attrezzate. A questo proposito, va detto che per un rapido smistamento dei feriti si provvedeva con vere e proprie autoambulanze, ma anche con veicoli civili e militari a trazione meccanica o animale e con una speciale carrozza appositamente allestita da attaccare al tram. Se consideriamo la capienza anche degli ospedali allestiti negli immediati dintorni di Padova: 1450 – Abano 400 – Montegrotto 300 – Battaglia e quelli della Provincia:
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650 – Este 500 – Montagnana 300 – Monselice 200 – Cittadella e i “convenzionati”: 325 – Conselve 225 – Piove di Sacco in totale il Gruppo di Padova aveva a disposizione da 8000 a 14.000 posti letto. Ancora più significativo è il numero dei ricoveri e dei giorni di degenza: Ricoveri [cifre approssimative]: 1915 – 30.000 (dati ufficiali) 1916 – 60.000 (dati ufficiali) 1917 – 70.000 (aumento di 1/5 sul 1916) 1918 – 10.000 (diminuzione a 1/6 sul 1916) Ne risultano 170.000 feriti e ammalati ricoverati per un totale di 3.600.000 giorni di cura. 2. Didattica medica «Fuori tuona il cannone, ruggono le automobili, rombano gli aeroplani; talora un fragore di bomba caduta, ma la lezione non si interrompe». Piero Giacosa
Il medesimo motivo che richiese la realizzazione di tanti ospedali – e cioè l’elevato numero di feriti – alla fine del 1916 impose un cambiamento di ruolo per Padova. Come anticipato, nel giro di pochi mesi Padova venne costretta a mutare la sua recente specializzazione di “città ospedale militare” – nella quale, per altro, si era dimostrata pronta e capace – per trasformarsi altrettanto rapidamente ed efficacemente nel ruolo a lei più congeniale di “città universitaria di guerra”. Per far funzionare la “catena sanitaria”, risalendo dagli “ospedali territoriali” a quelli “di tappa”, ben presto ci si accorse che la guerra richiedeva sempre più medici, soprattutto in prossimità del fronte e quindi negli ospedali da campo e nei posti di medicazione. Un’esigen-
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za che doveva essere soddisfatta senza privare della debita assistenza medica la popolazione civile, e quindi la soluzione ottimale era quella di creare nuovi medici da impiegare in zona di guerra. Di fronte alla prospettiva, facilmente ipotizzabile, che la guerra non sarebbe finita presto, si pensò di sopperire alle esigenze sempre più impellenti di personale sanitario qualificato promuovendo medici gli studenti appena iscritti al VI anno. Il rischio più evidente era che di fronte ad un prevedibile aumento della richiesta di personale medico, l’anno successivo si sarebbero dovuti chiamare alle armi anche gli studenti del V anno di corso e, se la guerra fosse continuata, addirittura quelli del IV. Sarebbero pertanto diventati medici studenti che avevano frequentato solo corsi di anatomia umana normale, fisiologia, patologia generale e materia medica, come allora era definita la farmacologia. “Medici” che non avevano avuto l’occasione di frequentare le cliniche, in primis quella medica e quella chirurgica, e che quindi mancavano di ogni esperienza pratica. Il Ministero della Pubblica Istruzione e il suo Consiglio Superiore non vollero, o non seppero, affrontare il problema con la dovuta rapidità e concretezza richieste dalla situazione contingente, e la situazione venne presa in considerazione dal Comando Supremo che, del resto, aveva tra i suoi ufficiali numerosi docenti universitari richiamati. L’idea di effettuare corsi abbreviati dedicati agli studenti in armi venne al professor Giuseppe Tusini, ordinario di Clinica Chirurgica dell’Università di Modena, al quale era stata affidata la direzione del servizio sanitario del secondo gruppo ospedaliero. Come sede didattica venne scelto San Giorgio di Nogaro, dove erano raggruppati ben otto ospedali, con una capienza di 1500 pazienti, senza contare quelli che si trovavano tra Palmanova e Latisana. Elevato era conseguentemente anche il numero dei potenziali docenti. A San Giorgio di Nogaro baracche già esistenti vennero adattate ad aule, laboratori e dormitori. Altre strutture vennero realizzate appositamente e le autorità locali misero a disposizione persino la sala consiliare; il cinema – descritto nei documenti dell’epoca come “circolare” – venne adibito a sala di «proiezioni illustrative», potendo però essere usato anche come luogo di riunione e di ritrovo per i 365 studenti convenuti. Il 13 febbraio del 1916 venivano dunque inaugurati i «Corsi di medicina e chirurgia per studenti del 5° e 6° anno, vincolati al servizio militare tanto in zona di guerra quanto in zona territoriale». Un nome indubbiamente troppo lungo e troppo burocratico per una iniziativa tanto utile quanto innovativa. Ecco dunque che si diffuse rapidamente
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la denominazione più immediata, ancorchè meno corretta, di «Università Castrense». Fu forse proprio l’uso – improprio – del termine «Università» ad attirare la tardiva attenzione del Ministero della Pubblica Istruzione, che si appellò alle proprie competenze e avocò a sé la preparazione dei futuri ufficiali medici. La reazione del mondo accademico di fronte ad una «Università» autogenerata e autogestita può essere apprezzata attraverso le parole di Pietro Giacosa e di Guido Solitro. Giacosa, scrivendo nell’immediatezza dell’evento, ne coglieva con spirito l’eccezionalità: L’Università italiana nell’anno scolastico corrente ha constatato in sé un fenomeno a cui da secoli s’era disavvezza. Ha figliato! Questo istituto venerabile, senza cessare di esser florido e vigoroso aveva cancellato dal suo bilancio d’esercizio questa forma di attività: per l’Università vivere era crescere continuamente, adattarsi all’ambiente, ma senza preoccupazioni per la primogenitura. Non si tratta forse d’una creatura immortale? Per chi non può morire la figliuolanza è un ingombro e un pericolo. L’Università ha fede nella sapienza e nella intangibilità del suo assetto attuale e questa fede spiega l’accoglimento poco benevolo in generale, e ostile in particolare, fatto al nuovo rampollo. […] Nel caso presente si trattava di una riproduzione per gemmazione.
Solitro, nel 1933, descriveva il disappunto del mondo accademico usando parole diplomaticamente misurate: «Il provvedimento non aveva incontrato il favore degli ambienti universitari e i corpi accademici non avevano mancato di elevare nella forma più dignitosa la loro protesta». Così il novembre 1916 un decreto luogotenenziale stabilì che gli «Istituti» di San Giorgio di Nogaro diventassero sezioni della Facoltà medica dell’Università di Padova, la sola autorizzata a concedere le lauree agli aspiranti sottotenenti medici. Contemporaneamente venne stabilito che, per sopperire alle sempre crescenti esigenze del fronte, seguissero i corsi speciali non più solo gli studenti degli ultimi due anni ma tutti gli studenti sotto le armi degli ultimi quattro anni. Come per i ricoveri, ci si pose la domanda: quale Università può radunare il materiale e improvvisare le aule per tanti studenti e, sopratutto esercitare la disciplina che assicuri la frequenza regolare e necessaria ad un corso intensivo? E la risposta, come nel caso della ospedalizzazione, indicò Padova: innanzitutto pesò nella scelta la presenza di una Facoltà medica antica e famosa, di un ospedale policlinico affiancato, come si è visto, di altre strutture ospedaliere rapidamente allestite, senza contare l’esistenza di una antica consuetudine di accogliere studenti che po-
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tevano raggiungere la città sia dal teatro di guerra, prossimo ma non eccessivamente vicino, sia dalle rispettive città di residenza o di studio. Giunsero così a Padova da tutta Italia più di mille studenti che costituirono il «Battaglione di studenti di medicina e chirurgia». Gli studenti “civili” – cioè i non richiamati – vennero trasferiti a Bologna, mentre Padova si attrezzò rapidamente per accogliere la pacifica invasione di studenti in divisa. Così nel novembre del 1916, dopo nove mesi di intensa attività a San Giorgio di Nogaro, terminava questo che nonostante la breve durata non possiamo considerare solo un semplice esperimento. È evidente che senza l’«Università Castrense» – o «Scuola medica da campo» come la definisce Tusini nel suo libro del 1918 – non sarebbe potuta esistere la “Scuola medica di guerra di Padova”. Bisogna riconoscere che se la morte della «Università Castrense» di San Giorgio può essere in gran parte imputata a motivazioni non propriamente nobili, i successivi provvedimenti furono solleciti e concreti. Il Decreto Luogotenenziale n° 1678 del 26 novembre 1916 stabiliva che «gli studenti inscritti al 3° e al 4° anno della facoltà di medicina e chirurgia delle Università del Regno, vincolati al servizio militare in zona di guerra, e gli studenti inscritti al 5° e 6° anno nella predetta facoltà, vincolati al servizio militare tanto in zona di guerra, quanto in zona territoriale» venissero iscritti d’ufficio ai rispettivi anni di corso presso la Regia Università di Padova, presso la quale avrebbero dovuto seguire le lezioni secondo l’ordinamento e gli orari prescritti dalla Facoltà di Medicina e Chirurgia. Lo stesso Decreto stabiliva che per rendere più rapida ed efficace l’attività didattica finalizzata alla creazione di «aspiranti ufficiali medici» le strutture di San Giorgio di Nogaro diventassero una sezione della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Padova. A Padova e a San Giorgio di Nogaro dovevano quindi convergere tutti gli studenti di medicina idonei al servizio militare iscritti agli ultimi quattro anni di corso – III, IV, V e VI – di tutte le Università italiane, e soltanto a Padova gli «aspiranti sottotenente medico», e cioè gli studenti con una frequenza di almeno quattro anni di corso, avrebbero potuto ottenere il diploma di laurea. Al tempo stesso gli studenti di medicina di Padova degli ultimi quattro anni «non mobilitati» furono trasferiti all’Università di Bologna. La nostra Università – secondo Solitro – poteva dunque dirsi «Università Nazionale Italiana». Tra la fine di novembre e il 3 dicembre giunsero a Padova 1373 studenti, ai quali vanno aggiunti gli 816 di San Giorgio di Nogaro. Soffermiamoci su quella che finalmente poteva essere definita a tutti gli effetti «Università Castrense». A Padova gli studenti vennero
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riuniti nel «Battaglione degli studenti di medicina e chirurgia» o «Battaglione universitario», posto sotto il comando del maggiore Carlo Salvaneschi. Vennero istituiti due corsi – A e B – posti sotto la guida di Luigi Lucatello, ordinario di patologia speciale medica e successivamente di clinica medica, all’epoca Preside della Facoltà medica e per l’occasione nominato Maggiore Generale; gli insegnamenti vennero affidati agli ordinari della Facoltà medica patavina, affiancati da docenti provenienti da altre Università di tutta Italia. Tra i docenti è doveroso iniziare dai tre Senatori del Regno Achille De Giovanni, clinico medico, venuto a mancare il 9 dicembre del 1916, pochi giorni dopo l’inizio dei corsi da lui fortemente voluti, Edoardo Bassini, clinico chirurgo, ed Edoardo Maragliano, clinico medico di Genova. Anche gli altri nomi, però, evocano ricordi non soltanto tra gli storici: Arrigo Tamassia, Giuseppe Albertotti, Achille Breda, Aristide Stefani, Augusto Bonome, Ettore Truzzi, Ignazio Salvioli, Dante Bertelli, Giusto Coronedi, Luigi Sabbatani, Gian Giacomo Perrando, Ernesto Belmondo, Vitale Tedeschi, Oddo Casagrandi, Cesare Sacerdotti, Attilio Catterina, Demetrio Roncali, Giuseppe Nazareno Sterzi, Alberto Pepere, Pier Diego Bosellini, Emilio Cavazzeni e, tra gli incaricati, Rodolfo Schwarz, Antonio Mori, Giulio Andrea Pari, Arturo Carraro, Amatore Austoni Una menzione speciale meritano infine tre donne: Carmelita Rossi, aiuto a Igiene, Giulia Vastano, aiuto nella Clinica pediatrica e Maria Pelanda, sottotenente assimilata, preparatrice di Anatomia patologica. L’organizzazione non riguardò solamente l’Università ma tutta la città, che pure avendo una esperienza multicentenaria di ospitalità nei confronti degli studenti, si trovò a dover risolvere problemi logistici particolarmente pesanti, in tempi brevi e in condizioni disagiate. La guerra colpiva tutti, non soltanto i militari. Luoghi di studio: Ospedale civile e cliniche annesse Patologia speciale medica dimostrativa (via Ospedale n° 22) Patologia speciale chirurgica dimostrativa (via Ospedale n° 24) Clinica Medica Clinica Chirurgica Clinica Oculistica
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Clinica Dermosifilopatica Clinica Ostetrico-ginecologica, in via Giustiniani Clinica pediatrica Clinica delle Malattie nervose e mentali, a Brusegana Scuola medica di San Mattia: Anatomia Fisiologia Patologia generale Materia medica Anatomia patologica Medicina legale Altro: Igiene e polizia medica, edificio in via Loredan – Casagrandi Anatomia, Istituto Pietro Selvatico – Sterzi Medicina operatoria, Istituto Pietro Selvatico – Bassini (A) e Catterina (B) Vennero appositamente realizzate aule maggiorate: nell’ospedale Giustinianeo una grande sala venne adattata ad anfiteatro capace di ospitare 500 uditori ed una di analoga capienza venne realizzata nell’ex ospedale “Orfanotrofio”; per ospitare le lezioni teoriche di anatomia per 400 studenti, nell’istituto di chimica venne invece realizzata un’aula illuminata con potenti lampade elettriche e dotata di una apparecchio per la proiezione messo a disposizione dal Rettore Lori, direttore dell’Istituto di Elettrotecnica della Scuola di Applicazione degli Ingegneri. 2.1 Organizzazione Il «Battaglione degli studenti di medicina e chirurgia» o «Battaglione universitario», al comando del maggiore Carlo Salvaneschi, agli effetti amministrativi e disciplinari era posto sotto la giurisdizione del Comando Supremo, in quanto era considerato un reparto dell’Esercito mobilitato destinato alla zona d’operazione e, solo per scopi speciali, momentaneamente dislocato nel territorio delle retrovie. Le attività mediche, come già detto, erano sotto il comando del professor Luigi Lucatello, al tempo stesso Preside di Facoltà e Maggio-
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re generale. I professori e i liberi docenti ebbero il grado di ufficiale medico, solitamente rapportato alla posizione accademica. Il Battaglione era diviso in compagnie, ognuna composta da plotoni di cinquanta studenti. Quattro compagnie di allievi (truppa) corrispondenti rispettivamente al III, IV, V e VI anno di corso; due compagnie di allievi ufficiali e una compagnia costituita dai professori con grado militare, dal personale addetto al comando, dagli ufficiali addetti all’inquadramento dei reparti e da uomini di truppa, per lo più soldati di Sanità, addetti al servizio del battaglione. In considerazione del loro numero gli studenti vennero divisi in due corsi: A e B.
Fig. 1 - Anfiteatro della clinica chirurgica del corso B.
2.2 Attività didattica I corsi a Padova iniziarono il 4 dicembre 1916 e, dopo quattro mesi di lezioni intensive, terminarono il 30 marzo 1917 con una cerimonia solenne nell’Aula Magna del Palazzo del Bo. Il discorso venne tenuto dal laureando capitano Doni: «Quest’anno passa per l’Università padovana una singolare corporazione di studenti; essa è tutta vestita in grigioverde ed ha per stemma goliardico la bandiera d’Italia». Le giornate degli studenti, tutte uguali, prevedevano 10 ore di lezione al giorno, da 60 minuti l’una, divise in 5 di lezioni frontali e 5 di esercitazioni anatomiche e cliniche.
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Fig. 2 - Anfiteatro per le esercitazioni anatomiche.
Discipline e docenti dei corsi A e B: Clinica Medica – Lucatello (A) e Maragliano (B) Clinica Chirurgica – Bassini (A) e Catterina (B) Patologia speciale medica dimostrativa – Lucatello (A) e Pari (B) Patologia speciale chirurgica dimostrativa – Roncali (A) e Gatti) Clinica Oculistica - Albertotti Clinica Dermosifilopatica – Breda (A) e Bosellini (B) Clinica Ostetrico-ginecologica, in via Giustiniani - Truzzi Clinica pediatrica – Tedeschi Clinica delle Malattie nervose e mentali, a Brusegana - Belmondo Scuola medica di San Mattia: Anatomia – Bertelli Fisiologia – Stefani (A) e Cavazzani (B) Patologia generale – Salvioli (A) e Sacerdotti (B) Materia medica – Sabbatani (A) e Coronedi (B) Anatomia patologica – Bonome (A) e Pepere (B) Medicina legale – Tamassia (A) e Perrando (B) Se tutti questi corsi meritano una particolare attenzione sia per la logistica che per la densità del programma di studio, uno appare
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Fig. 3 - Battaglione universitario.*
ancora oggi assolutamente eccezionale. Ci riferiamo a quello affidato al Professor Giuseppe Sterzi e tenuto presso gli «Istituti Anatomici Militari Pietro Selvatico», ospitato nei locali dell’omonima scuola, già macello comunale, opera dell’architetto Giuseppe Jappelli. Bastano le dimensioni a farci capire che si tratta del più grande istituto anatomico mai realizzato: ingresso, spogliatoio e guardaroba per 100 studenti, locale con lavandini per la disinfezione personale con 10 rubinetti e 10 bacinelle di disinfettante, una sala circolare di 200 m2 con 24 tavoli anatomici, illuminata da un lucernario di 45 m2, una sala rettangolare di 73 m2 con 5 tavoli anatomici, quattro sale di 85 m2 l’una con due tavoli fissi e due mobili ciascuna per la medicina operatoria e per l’anatomia patologica. Agli studenti era concessa la libera uscita dalle 18 alle 20.30 e solo gli ufficiali di alto grado erano esentati dal frequentare le mense. Gli esami si tennero fino al 4 aprile e a partire dal 5 aprile le lauree vennero eccezionalmente concesse senza la presentazione di una tesi, sostituita dalla discussione orale di un tema assegnato pochi giorni prima dell’esame finale dalla commissione giudicatrice. In totale si tennero 6215 (*) Il personaggio in abiti borghesi scuri è Angelo Roth (1855-1919), medico e docente Universitario a Cagliari e Sassari, dove fu anche Rettore, all’epoca Sottosegretario alla Pubblica Istruzione.
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Fig. 4 - Esercitazioni di anatomia topografica.
Fig. 5 - Esercitazioni di semeiotica.
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esami a Padova e 2336 a San Giorgio di Nogaro e, alla fine, vennero conferite 534 lauree. 2.3 Acquartieramento Il Battaglione venne ospitato in strutture già utilizzate come ospedali e in istituti universitari non ancora adibiti all’insegnamento, quali quelli di Farmacologia, di Chimica generale, di Patologia generale, di Zoologia e di Anatomia comparata, la Scuola di applicazione per ingegneri e inoltre la Scuola “Ardigò” di via Agnusdei, precedentemente adibita ad ospedale. La mensa ufficiali venne ospitata nel Palazzo Tacchi in via San Francesco, mentre per i sottufficiali venne utilizzata la mensa universitaria e furono allestite due lunghe baracche in un’area ancora priva di costruzioni di fronte agli Istituti prima ricordati. Il rancio comprendeva minestra, carne, contorni di “erbaggi” o di legumi, formaggio, 600 g di pane e 25 cl di vino e, in considerazione delle sole quantità che conosciamo, possiamo considerarlo simile a quello “regolamentare” dei militari al fronte. Quello che certamente era diverso era la quantità e la qualità dell’acqua che, come è noto, fu la grande assente sul fronte. Il comando del Battaglione ebbe sede nell’edificio di Antropologia, in via Jappelli. Il Rettore nel salutare i giovani ufficiali affermò: Il compito di preparare e svolgere i corsi accelerati, cui siete stati chiamati da volontà superiore non era facile per i vostri insegnanti nè per voi quello di seguirlo. Ho udito da taluni diminuire il valore dei vostri studi e specialmente quello del vostro diploma, chiamandolo Laurea di Guerra […] voi uscendo da questa Università entrerete negli Ospedali dove a fianco di medici e chirurghi esperti avrete occasione di iniziare o completare il tirocinio pratico secondo che appartenete ad anni più o meno avanzati o avete compiuto il corso scolastico e questo costituirà per la vostra cultura un largo compenso ad alcuni mesi di minor frequenza a corsi di lezioni».
In realtà il giornale «Il Veneto» di Padova, il giorno di venerdì 30 marzo 1917, salutando questi giovani ufficiali medici che lasciavano i banchi dell’Università per i tavoli operatori improvvisati del fronte è ben più esplicito a proposito della loro destinazione: «Alla cerimonia di commiato si sono aggiunti questa volta qualche rimpianto e qualche emozione più profondi; giacché si è pensato che i goliardi lasciavano i banchi e gli emicicli non già per gli ozi fioriti e scintillanti o per le avventure dell’aurea estate, ma per le trincee, per le tende, per le drammatiche corsie. E Padova […] ha certo versato
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Fig. 6 - Sala della Biblioteca Universitaria.
una lacrima ed ha formulato un vivo augurio verso questi nuovi figli putativi che se ne vanno, per ricordarla forse, anche dopo i sacrifici che la guerra ha imposto, con perenne pensiero». Così Padova, pur abituata da sette secoli di diaspora studentesca, salutava commossa i suoi neolaureati in medicina che partivano per il fronte della Grande Guerra. Bibliografia Anonimo, Università degli Studi di Padova. Anno Accademico 1916-17. Corsi di Medicina e Chirurgia per Studenti Militari, Padova, Tipografia Dott. Randi, 1917. Baldo, D., Galasso, M, e Vianello, D. (a cura), Studenti al fronte. L’esperienza della Scuola medica da campo di San Giorgio di Nogaro – l’Università Castrense, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2010. Giacosa, P., I corsi di medicina e chirurgia a San Giorgio di Nogaro, «La Lettura. Rivista del Corriere della Sera», anno XVI, n° 7, 1 luglio 1916. Lenci, G., Padova nelle giornate di Caporetto, «Padova e il suo Territorio», n° 10, 1987, in G. Lenci, Storia Padovana tra Ottocento e Novecento. Trentanove saggi pubblicati nella rivista “Padova e il suo territorio” (1987-2012), Padova, s.e., 2013, pp. 32-35.
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MAURIZIO BONATI
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