OSSERVATORIO
OUTSIDER ART
PRIMAVERA 2016
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© Rivista dell’Osservatorio Outsider Art - via Emilia 47, 90144 Palermo www.outsiderartsicilia.com Pubblicazione Semestrale Autorizzazione del Tribunale di Palermo n. 25 del 6/10/2010 ISSN 2038 - 5501
OSSERVATORIO
OUTSIDER ART PRIMAVERA 2016 11
Direttore scientifico Eva di Stefano Direttore responsabile Valentina Di Miceli Comitato scientifico Domenico Amoroso, Musei Civici di Caltagirone Francesca Corrao, Fondazione Orestiadi Stefano Ferrari, Università di Bologna Enzo Fiammetta, Museo delle Trame Mediterranee Marina Giordano, comitato direttivo di EOA Vincenzo Guarrasi, Università di Palermo Teresa Maranzano, Progetto mir’art, Ginevra Lucienne Peiry, Università di Losanna Collaborazione scientifica Roberta Trapani, Università di Parigi X- Nanterre Traduzioni Enrica Bruno, Giada Carraro, Valentina Di Miceli, Eva di Stefano, Giovanni di Stefano, Adelaida Litwin Progetto grafico e impaginazione Michele Giuliano Editore Associazione Culturale Osservatorio Outsider Art, Palermo
Indice Editoriale
di Eva di Stefano
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Agenda
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Esplorazioni
Outsider Art in Iran. Intervista a Morteza Zahedi di Eva di Stefano Outsider Art in Messico di Ana Karen Gonzáles Barajas All’ombra della cattedrale: le sculture di Santacolomba di Rachele Fiorelli
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Testimonianze
“La finca de las piedras encantadas” di Roberto Perez
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Approfondimenti
Fiori di ciliegio di Francesco De Grandi
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I feticci magici di Judith Scott di Lucienne Peiry
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Pittografie, collage e variazioni: il Corano di Dunya Hirchter di Graciela García
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Storie di confine
Birdman: l’uomo-uccello che scardina le gabbie di Nina Katschnig & Birdman Hans Langner
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Il perfezionismo è nemico del bene. Conversazione con Tim Fowler, l’artista meccanico di Mari Accardi
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Indice Libri
Fuori e dentro il proprio tempo di Eva di Stefano
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Report
L’architettura immaginata. La seconda Biennale di Art Brut a Losanna di Teresa Maranzano
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Outsider Art Fair a New York: una fiera d’arta in crescita di Nicola Mazzeo
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Galleristi italiani: pionieri in un mercato assente di Marina Giordano
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Casa Museo Pietro Ghizzardi: fare per richordare anchora di Giulia Morelli
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Nel segno della bellezza: le esperienze creative del LAO di Daniela Rosi
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Note informative Gli autori dei testi Crediti fotografici
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EDITORIALE di Eva di Stefano
“Fiori di ciliegio” che fioriscono a dispetto di tutto....: le metafore più belle a proposito dei colleghi outsider le regalano gli artisti (si pensi ai “diamanti grezzi” di Dubuffet). In questo numero, il dono della metafora giapponesizzante è di Francesco De Grandi, pittore palermitano di grande sensibilità e maestria, che nella sua intensa riflessione sembra pronunciare anche una propria dichiarazione di poetica, mentre denuncia l’imprenditorialità assatanata e costrittiva dell’artista contemporaneo. Quest’ultima, come accennato in altri articoli, sembra d’altra parte avere determinato la ricerca di un antidoto nell’apertura crescente che si registra nel mondo verso le forme altre dell’arte: l’Olanda, con l’apertura di un nuovo museo, diventa in questa primavera il nuovo capofila, come si può dedurre dalle notizie brevi qui poste in “Agenda”. Oltre a De Grandi, abbiamo coinvolto stavolta anche altri artisti, che vivono il mondo ufficiale dell’arte ma si avventurano senza presunzione anche nelle sue periferie, dove raccolgono fiori di ciliegio e diamanti. Così Morteza Zahedi, artista iraniano attualmente in mostra a Dubai, ci conduce attraverso la sua raccolta ad esplorare i mondi fantastici degli outsider in Iran. Un viaggio che, a fianco di una prima puntata esplorativa anche in Messico, ci porta fuori dai confini europei e costituisce la novità più attraente di questo numero. Birdman Hans Langner, artista tedesco che si destreggia come un trapezista nei due mondi - ma ha scelto per sé il circuito outsider in cui rispecchia meglio la propria anarchia creativa-, ci regala con il suo lavoro sugli uccelli un’altra preziosa metafora che esprime una costante antropologica dell’immaginazione: il desiderio di sollevarsi da terra per levitare contro la sofferenza e la privazione del vissuto. Una rivolta antigravitazionale in nome della libertà, dove non importa se si tratta di uccelli che non possono volare veramente,
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la loro magia sta nel desiderio che viene rappresentato. Negli Stati Uniti, a Seattle, ci guida una scrittrice, Mari Accardi, che condivide con noi la conoscenza di Tim Fowler e della sua galleria ambulante: un creativo anarchico e un outsider a metà. Roberto Perez, medico e “costruttore babelico” di un environment di pietra in Spagna, testimonia in prima persona l’impulso che può spingere qualcuno ad improvvisarsi costruttore, la sfida posta dai problemi pratici che via via si presentano fino ai grovigli burocratici da affrontare e al pericolo di una demolizione, contro la quale è stata lanciata una petizione. Reale o semplicemente disegnata, l’architettura - come ben sanno i nostri lettori, dato lo spazio che in ogni numero puntualmente le dedichiamo – è una delle ossessioni creative più ricorrenti tra gli creatori outsider: recensendo la Biennale di Art Brut di Losanna, Teresa Maranzano ci conduce attraverso fantasie architetturali tra geometria e visione, tra inventario e invenzione. Presentiamo, come sempre, alcune intense storie di vita all’insegna della creazione, stavolta tutte al femminile: nel suo saggio Lucienne Peiry racconta la drammatica vicenda di Judith Scott, una delle autrici brut più famose nel mondo, e ne interpreta con sensibilità ed empatia le meravigliose sculture tessili, così singolarmente affini a tanta arte contemporanea; Graciela García descrive la vita alla deriva della meno nota Dunya Hirchter, spagnola d’adozione e islamica per scelta, che nei suoi ricami e grovigli tessili sembra disperatamente cercare una via d’uscita dall’incombere della follia. Anche in questo numero proponiamo una nuova scoperta in Sicilia: l’Osservatorio continua sempre a monitorare il territorio, con una ostinazione premiata adesso a Rotterdam dove alcuni degli autori siciliani promossi in questi anni sono esposti nell’importante mostra internazionale di The Museum of Everything. La nostra Rachele Fiorelli ha realizzato un bel servizio su Giuseppe Santacolomba di Cefalù, personaggio
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sereno ma anche interessante scultore autodidatta, finora inedito, con insondabili affinità con altri scultori siciliani, come i due Bentivegna di Sciacca e Francesco Cusumano di Caltagirone. Ma, a fronte della crescita dell’interesse internazionale, testimoniato anche dall’interessante sviluppo della recente edizione dell’Outsider Art Fair di New York, di cui riferisce Nicola Mazzeo, cosa accade in Italia? Il ritardo è grande, l’interesse sporadico e il mercato quasi assente, come testimoniano i pochi galleristi che hanno coraggiosamente scelto questo campo, intervistati da Marina Giordano, e che costituiscono oggi un anello indispensabile per la costruzione di una consapevolezza del valore artistico di queste produzioni. Per fare sistema, un museo come luogo di riferimento sarebbe necessario, ma nella attuale situazione italiana di crisi - più culturale che economica- è pura utopia. In nome di questa utopia, il nostro Osservatorio si è impegnato in questi anni con i suoi scarsi mezzi a portare avanti il proprio sogno dimostrando concretamente come realizzare un museo in Sicilia non sarebbe troppo difficile né velleitario, anzi potrebbe costituire un luogo identitario forte e di grande attrattiva, facendo da traino per altre situazioni culturali. Ma resta chiaro che, finchè il settore in Italia resta meno-che-unanicchia, non sarà possibile trovare un minimo ascolto presso amministratori o finanziatori a livello locale. Le note positive, però, non mancano: senza dubbio, l’ingresso nel patrimonio artistico italiano, sottoposto a vincolo e tutela, di alcuni siti brut come il “Santuario della Pazienza” di Ezechiele Leandro in Puglia (nel 2014), il “Giardino Incantato” di Filippo Bentivegna a Sciacca (nel 2015), e più recentemente la “Casa dei Simboli” di Bonaria Manca a Tuscania, è un segnale importante di una consapevolezza che si fa strada. Il resto è per ora affidato interamente all’iniziativa privata:
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lascia ben sperare, per le sorti italiane dell’Outsider Art, l’intenzione della Collezione Cei di costituirsi come museo a Casale Monferrato, dopo la mostra di cui si riferisce analizzandone il catalogo nella sezione “Libri”. Un altro dato interessante sono le case-museo, abitazioni d’artista con relativa raccolta di opere, a gestione privata, che cominciano ad essere sempre più disseminate in Italia e di cui bisognerà fare presto una mappatura. Un modello è la Casa Museo Pietro Ghizzardi, dedicata al noto artistascrittore contadino presente in diverse collezioni anche estere, e che ci viene illustrata da Giulia Morelli. Un’iniziativa nuova, e nel nostro panorama veramente esemplare, per la promozione di creatori outsider contemporanei è quella del LAO, qui presentato dalla sua fondatrice sempre molto attenta alle problematiche etiche connesse a questo lavoro: Daniela Rosi, che parte del principio che per creare bellezza nella bellezza bisogna essere immersi, e organizza quindi atelier aperti di creazione in luoghi straordinari come il Palazzo Ducale di Mantova, e perfino nella Camera degli Sposi affrescata dal Mantegna.
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AGENDA
Artisti siciliani approdano a Rotterdam Negletti in patria, gli autori siciliani, ormai entrati a pieno titolo nelle grandi collezioni europee, partecipano al nuovo prestigioso mega-show che James Brett con il suo “The Museum of Everything” ha allestito presso la Kunsthal di Rotterdam dal 5 marzo al 22 maggio 2016. Del celebre museo itinerante, che raccoglie centinaia di opere dei più noti artisti “irregolari” del mondo, come Henry Darger, Nek Chand, Guo Fengyi, Augustin Lesage, Sam Doyle etc., fanno parte da qualche tempo anche alcuni dei nostri outsider scomparsi come il palermitano Sabo con le sue giungle di mostri prodigiosamente dipinte, Giovanni Bosco di Castellammare con la sua grafica intensa, Francesco Cusumano e Nicolò Scarlatella, “il Wölfli” di Caltagirone, e altri ancora viventi e attivi come Giovanni Fichera e Gilda Domenica, ineguagliabile creatrice di abiti fantastici con ogni materiale di riciclo. Nuovo museo di Outsider Art a Amsterdam “Il mondo dei musei si apre all’interesse crescente verso l’arte marginale”, così recita il comunicato che annuncia l’apertura dal 17 marzo 2016 del primo museo dedicato all’Outsider Art in Olanda. In un edificio annesso al prestigioso Hermitage di Amsterdam, museo satellite dell’Hermitage di Pietroburgo di cui espone periodicamente i capolavori, saranno esposte in permanenza centinaia di opere outsider contemporanee non solo europee, ma anche iraniane e giapponesi. Si tratta della collezione raccolta nell’ultimo decennio dal Dolhuys di Haarlem, museo olandese di storia della psichiatria, con cui l’Hermitage ha stretto un partenariato. Nelle intenzioni dei responsabili si tratta di una collezione destinata a crescere e a conquistare una audience internazionale.
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Appuntamento estivo in Puglia con Leandro In seguito al vincolo apposto nel 2014 all’opera di Ezechiele Leandro a San Cesario (Lecce), la Soprintendenza per i beni storici, artistici ed etnoantropologici di Puglia in stretta collaborazione con il Mibact e il Comune di San Cesario, organizza una grande retrospettiva che restituirà giustizia al poliedrico artista pugliese in un’ottica di confronto con esperienze affini, e che estendendosi da giugno a ottobre 2016 si presenta come la manifestazione di punta dell’anno per l’Outsider Art in Italia, imperdibile per gli appassionati. Curata da Lorenzo Madaro e da un attivo gruppo di lavoro, la mostra che presenta opere inedite, tra cui alcuni mobili dipinti, si articolerà in tre spazi: Il Museo nazionale Devanna di Bitonto, il Museo Castromediano di Lecce, la Distilleria De Giorgi di San Cesario. Sembra proprio che a Sud il vento rigenerante dell’Outsider Art stia soffiando più forte che altrove. Il Museo di Art Brut di Losanna compie 40 anni La Collection de l’Art Brut fu inaugurata nella sede attuale nel febbraio del 1976, in seguito alla donazione di Dubuffet. Per celebrare la ricorrenza il museo ricostruisce con 150 opere l’esposizione storica in cui Dubuffet rese pubblica per la prima volta la propria collezione, nel 1949 alla Galleria René Drouin nel centro di Parigi. Fu in questa occasione che l’artista francese scrisse il suo celebre e provocatorio testomanifesto L’Art brut preferita alle arti culturali. Negli anni successivi la collezione sarebbe molto cresciuta, precisando sempre più la nozione di Art Brut e i criteri di selezione, che in fase iniziale comprendeva anche lavori di arte popolare o naïf, e disegni infantili. La mostra L’Art Brut de Dubuffet. Aux origins de la Collection, a cura di Sarah Lombardi, aperta dal 5 marzo, si chiude il 28 agosto 2016. A completamento del quarantennale, in programma anche un convegno (3-4/11/ 2016) di riflessione sui mutamenti della nozione di Art Brut nel contesto attuale.
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L’indispensabile manuale di Raw Vision Outsider Art Sourcebook, la guida internazionale per l’Art Brut e Outsider, è giunta alla sua terza edizione (le precedenti sono del 2002 e del 2009). Poiché si tratta di un mondo in progressiva crescita istituzionale e di mercato, questo strumento essenziale per collezionisti, appassionati e operatori del settore ha bisogno di continui aggiornamenti. La nuova edizione di 300 pagine contiene, oltre a un testo introduttivo, una cronologia delle creazioni eccentriche e della loro ricezione che parte dal 1520 con Bomarzo e arriva ad oggi; le schede illustrate di 130 artisti maggiori, tra cui i siciliani Filippo Bentivegna e Giovanni Bosco, e di 50 environment selezionati nel mondo; schede e indirizzi dei musei, gallerie, istituzioni e pubblicazioni specializzate di tutto il mondo. Si può acquistare sul sito: http://rawvision.com/ Sulla frontiera tra inside e outside Una frontiera che rivela sempre più la sua arbitrarietà ed è oggi al centro di pratiche espositive e discussioni teoriche. Alla ricerca di nuovi parametri critici, il recente volume A (quale?) regola d’arte, curato da Anna Maria Pecci e edito da Prinp, Torino, 2015 (sia in versione e-book che cartacea), raccoglie i contributi emersi in due convegni (2012, 2014) organizzati a Torino dall’associazione ARTECO nell’ambito del progetto L’arte di fare la differenza. L’ottica è interdisciplinare in un confronto serrato tra storici dell’arte, artisti, curatori, antropologi, operatori del settore, da cui emerge una varietà di pratiche e posizioni che la Pecci prova a riassumere nel suo ampio e utile saggio introduttivo. Contiene testi di: Fiorella Bassan, Rosa Boano, Simona Bodo, Anna Detheridge, Eva di Stefano, Gustavo Giacosa, Gianluigi Mangiapane, Teresa Maranzano, Silvia Mascheroni, Nicola Mazzeo, Annalisa Pellino, Cesare Pietroiusti, Emma Rabino Massa, AnneFrançoise Rouche, Arnd Schneider, Tea Taramino, Beatrice Zanelli.
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I valori selvaggi di Filippo Bentivegna Finalmente pubblicati, a cura di Rita Ferlisi, gli atti del convegno Filippo Bentivegna. Storia, tutela e valori selvaggi, organizzato a Sciacca nel giugno del 2015 dalla Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Agrigento in occasione del vincolo di tutela apposto all’opera dello scultore siciliano. Si tratta di un volume che, in un’ottica attuale e interdisciplinare, consente di conoscere l’artista a 360°: tra interpretazioni appassionate e riflessione storica sui rapporti tra arte e follia (Andreoli, Bedoni), le opere dell’artista nella collezione di Losanna (Peiry), l’analisi della letteratura critica (Ingarao), la contestualizzazione storico-artistica e i confronti formali ( di Stefano), le problematiche di tutela e restauro (Ferlisi, Ulderico Santamaria, Umberto Marsala), i processi di valorizzazione paesistica (Paola Capone) e sociale (Pier Paolo Zampieri), approfondimenti antropologici (Sergio Todesco, Maria La Matina e Giacomo Lipari), confronti con storie problematiche affini come quella di Ezechiele Leandro (Madaro). Buone notizie per la casa di Bonaria Manca L’impegno dell’Associazione per Bonaria Manca, di cui abbiamo riferito nel numero scorso della rivista, ha raggiunto il suo obiettivo: la casa di Tuscania che la pittrice novantenne ha decorato sontuosamente con i ricordi della sua Sardegna natia, della sua vita di pastora, e del suo rapporto empatico con la natura e gli animali, è stata dichiarata con tutto il suo contenuto di quadri, arazzi e ricami, patrimonio da proteggere dal Ministero dei Beni Culturali in quanto casa d’artista. Adesso si lavora per il restauro e la trasformazione della “Casa dei simboli” in casa-museo. I siti italiani di Outsider Art sotto tutela uffficiale sono così diventati in poco tempo già tre: oltre l’opera della Manca, il Santuario della Pazienza di Ezechiele Leandro in Puglia e il Giardino Incantato di Filippo Bentivegna in Sicilia.
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OUTSIDER ART IN IRAN. INTERVISTA A MORTEZA ZAHEDI di Eva di Stefano
ESPLORAZIONI
Un artista appassionato e la sua collezione pionieristica Alla scoperta degli autodidattid’Oriente tra soggettività e tradizione nella pagina a fianco Gorgali Lorestani, penna su cartoncino, 2013 in basso Salim Karami, penna su cartoncino, 2011
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Morteza Zahedi è un artista e illustratore iraniano. Nato nel 1978 a Rasht nel nord dell’Iran, ha studiato Arte e Architettura islamica presso l’Università di Teheran, città dove vive e lavora. Espone in mostre personali e collettive in tutto il mondo, ed è anche un fine illustratore di libri per bambini editi in diverse lingue, per i quali ha ricevuto diversi premi, anche in Italia (nel 2009 alla Fiera del libro di Bologna). Da alcuni anni va alla scoperta dei creatori ‘irregolari’ del proprio paese che cerca di promuovere in varie forme, soprattutto attraverso Internet. Un lavoro pionieristico in un contesto impreparato, affine sotto certi aspetti al nostro in Sicilia: infatti, anche alle nostre scoperte di tesori creativi nascosti, apprezzati all’estero, non corrisponde in loco una risposta istituzionale, poichè l’assenza di un vero sistema
Salim Karami, penna su cartoncino, s.d.
dell’arte contemporanea penalizza anche i creatori fuori dal sistema. Per Zahedi, che abbiamo intervistato a distanza, è diventata una vera missione. Scrive: «Questi uomini “primitivi” e analfabeti sono all’origine dell’arte e della letteratura. La matrice della letteratura infatti deriva dalle leggende e dai miti, e dal ritmo dei canti infantili, racconti e poesie, preghiere e indovinelli. […] In quanto artisti indigeni, essi si sono evoluti organicamente nel loro ambiente, ricco di livelli profondi che si riflettono nel loro lavoro, poiché essi sono la parte vivente del loro stesso ambiente autoctono, naturale, sociale e storico. Non possono, però, sfuggire alle costrizioni sociali, così come sono stati deprivati di un’istruzione formale e accademica. Noi, come protettori di questo genere di arte contemporanea, dovremmo essere i portavoce di queste intuizioni nei dibattiti pubblici sull’arte in modo da evitare che l’apprendimento autodidatta possa essere scambiato per ignoranza»1. Cosa significa Outsider Art in Iran e quale è oggi la sua ricezione? Esistono manifestazioni e gallerie dedicate? Purtroppo al momento non significa nulla. Fino ad ora difficilmente qualcuno o qualche istituzione ha fatto qualche tentativo di comprensione. Infatti, resta un ambito sconosciuto e senza valore nei centri di ricerca e nelle accademie. Io mi impegno per posizionarla correttamente e
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decifrare il significato esatto di questa tendenza e dei suoi artisti. Siamo all’inizio del cammino e, come sai, senza un background culturale e un supporto politico e finanziario, lavorare in questa direzione è molto complicato e richiede parecchio tempo ed energia. Sfortunatamente, la ricezione di questo ambito artistico è ai minimi livelli a causa della mancanza di conoscenza, e finchè gli iraniani saranno così conservatori di fronte ad un nuovo fenomeno e finché questi nuovi soggetti non avranno credito sufficiente o peso finanziario, non avremo alcuna richiesta o interesse riguardo questo argomento. E finché non ci sarà uno spazio specifico in cui presentare queste opere, non ci sarà un mercato. Le gallerie ancora non hanno ben compreso il potenziale commerciale di questo tipo di opere d’arte, e il pubblico non ne conosce il valore artistico ed economico. La fenomenologia dell’Outsider Art iraniana coincide con l’Art Brut secondo la definizione di Jean Dubuffet o rientra nella categoria dell’Art Naïf? O si tratta di una produzione con caratteristiche proprie? Outsider art o Art Brut o arte antiaccademica etc…. sono tutte espressioni opposte all’arte ufficiale. Molte pratiche come l’arte naïve, l’arte primitiva, la folk art, l’art singulier sono comprese nell’Outsider Art. Per esempio, l’arte naïve è un approccio pittorico in cui l’artista raffigura fascinose immagini di vita ordinaria e dei relativi soggetti (in modo del tutto realistico, con una fantasia limitata e poetica e un sentimento aggraziato) cercando di mostrare i valori sociali e geografici di uno specifico ambiente. La maniera in cui un artista naïf si esprime nelle sue opere differisce dal linguaggio di un artista folk o primitivo, e ciò è dovuto principalmente alle esperienze individuali e alla modalità per indicarle. Al momento sto lavorando per definire e catalogare questi artisti e le loro tendenze, in modo che l’osservatore venga a conoscenza dei dettagli e dei
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contesti di questo tipo di creazione artistica, entrando in un rapporto più ravvicinato con l’opera.
Davood Kochaki, matita su cartone, 2015 nella pagina a fianco Hazan Hazer Moshar, tecnica mista, s.d.
Quali sono le caratteristiche sociali e culturali di questi artisti? Hanno un legame con l’arte popolare o con la tradizione figurativa e decorativa iraniana? Una delle caratteristiche di questi artisti è che provengono dalla classe sociale più bassa e non hanno alcun contatto con gli artisti d’élite e le loro opere. Qualunque cosa facciano, questa scaturisce dal loro stesso talento e dalla loro ingenuità, e molti di loro cominciano a produrre in età avanzata. Sono artisti che realizzano le proprie opere senza alcuna conoscenza di storia dell’arte e delle evoluzioni dei diversi stili, il loro lavoro è basato unicamente sui loro bisogni morali e mentali, liberi da condizionamenti sociali ed economici. Le loro immagini posseggono una tale forza espressiva che spesso superano in originalità e potenza le opere del sistema e degli artisti ufficiali. In alcune opere folk e ‘primitive’ ci sono anche molti legami con la tradizione figurativa e decorativa iraniana. Tu sei un artista e un illustratore che espone in tutto il mondo, da quando e perchè sei diventato un collezionista e un promotore di Outsider Art ? Sono venuto a conoscenza di quest’ambito creativo e ho imparato ad amarlo proprio grazie al mio lavoro di illustratore
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nella pagina a fianco Davood Kochaki, matita su cartone, 2015
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e pittore. Fin dall’inizio della mia attività, il disegno infantile, l’arte domestica e popolare, l’arte antica e artisti come Paul Klee, Joan Mirò, Jean Dubuffet, Philip Guston etc, sono stati la mia ispirazione, e ho usato le loro suggestioni nel mio stile personale. Ma, nel 2001 ho scoperto anche l’Outsider Art e, a poco a poco, ho approfondito i miei studi in questo campo diventando un collezionista esperto. Fu per caso, prima di me nessuno o nessuna istituzione in Iran ha progettato o realizzato nulla a riguardo. Adesso le opere che ho raccolto rappresentano l’unica vera collezione in Iran, arricchita di continuo. Nel 2013 ho realizzato la prima mostra di artisti autodidatti a Teheran alla galleria Laleh Art, dove adesso si è appena conclusa la terza mostra annuale. Ne organizziamo una ogni dicembre. Prima che iniziassi a lavorare a questo progetto annuale, la comunità degli artisti autodidatti e una o due gallerie fecero uno sforzo in questa direzione, e organizzarono alcune mostre di scarsa rilevanza. Perchè ho investito parte della mia attività a promuovere l’Outsider Art? La prima volta che curai la mostra annuale di Outsider Art, ho organizzato anche alcuni workshops e incontri di lettura per dare la possibilità alla gente di comprenderne il contesto e creare per il mio archivio relazioni, foto e video degli eventi, poi cominciai a presentare tutto questo lavoro in una pagina web2 dedicata a questo. E accadde che la più influente e incoraggiante personalità in questo campo, Nico van der Endt, direttore della Hamer Gallery ad Amsterdam3, curioso di conoscere questa attività in Iran, mi lasciò un messaggio, e fu l’inizio del nostro rapporto. Infatti, con la sua guida e le sue numerose domande sul potenziale di questa arte in Iran mi rese molto più appassionato, il che ci portò a organizzare una mostra di alcune tipologie dell’Outsider Art iraniana alla Hamer Gallery, allestita con i lavori di quattro artisti. Nel 2014 un’altra mostra si tenne a Dubai alla XVA Gallery, dal titolo Wild Garden
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(giardino selvaggio), con i lavori di tre artisti. Fu grazie a questa mostra che James Brett, il direttore del Museum of Everything4, mi contattò chiedendomi una seria collaborazione. Da qui i miei rapporti con la gente, le istituzioni e gli specialisti di questo campo, si sono estesi a tutto il mondo, e come ho già detto, prima di me nessuno aveva tentato di presentare all’estero i talenti dell’Outsider Art iraniana, a causa anche dei problemi politici che di fatto hanno creato un ostacolo alla diffusione della cultura iraniana e del suo potenziale artistico, ma alla fine i miei sforzi sono stati ricompensati, e adesso lavoro con maggiore entusiasmo e motivazione. Quante opere e quanti artisti ha oggi la tua collezione e attraverso quali strumenti le promuovi e fai conoscere ? In Iran ci sono molti artisti outsider ma non tutti sono tra i miei preferiti, a riguardo ho un gusto molto personale e un rigido criterio di selezione. Al momento, nella mia collezione ho più di 700 opere di 10 grandi artisti. Sono presente su facebook e instagram, e adesso, dopo tre anni di lavoro non-stop, le istituzioni europee hanno preso in considerazione la mia collezione e l’Outsider Art iraniana, e i lavori realizzati da alcuni miei artisti sono entrati a far parte di collezioni e musei europei e americani, cosa che mi rende molto speranzoso per il futuro. Ci sono anche donne artiste ? Sì certamente, una o due di loro sono anzi tra le mie preferite, anche loro sono forti, ma le loro famiglie sono molto rigide e non mi permettono di lavorare a stretto contatto delle loro opere. Alla fine diventa troppo complicato per me. Le opere che raccogli hanno influenzato e influenzano, o ispirano, il tuo lavoro d’artista? Sì, indubbiamente sono stato influenzato da queste opere
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e ho tratto grande beneficio dallo stile e dalla gestualità di questi artisti. Puoi presentarci alcuni di questi artisti e raccontarci le loro storie? Salim Karami, morto due anni fa all’età di 68 anni, era un modesto pastore che dedicò gli ultimi dieci anni della sua vita alla pittura. Disegnò più di 2000 opere a penna, che secondo il mio parere sono pari e in qualche caso superiori ai lavori di Anna Zemankova5. È un peccato che collezionisti, musei e critici militanti di tutto il mondo non conoscano queste opere. Secondo me una collezione privata non può dirsi completa senza i suoi lavori. Un altro è Hazan Hazer Moshar, morto l’anno scorso anno a 91 anni. Anche lui è stato un uomo semplice, un abile carpentiere che lavorò fino a 80 anni. Poi a causa di un incidente motociclistico andò in coma, e al risveglio la famiglia non gli permise più di svolgere il suo lavoro di carpentiere. Così cominciò ad impiegare il tempo libero dipingendo e realizzando sculture, e siccome era un amante della letteratura antica, specialmente di Sha’ahnameh6 di Ferdosi e dei poemi d’amore di Hafez7, l’epica e i soggetti letterari hanno avuto un grande rilievo nella sua opera. È stato un artista ‘primitivo’ capace che ha rappresentato gli eroi del mito e della letteratura in modo assolutamente suggestivo. Dal mio punto di vista, le opere di Hazer Moshar sono vicine ai lavori di Alfred Wallis8, e i due andrebbero studiati comparativamente. Davood Kouchaki è un altro importante artista iraniano, oggi ha 76 anni e continua ancora a produrre. Ha lavorato come meccanico fino a 65 anni. Poiché ha avuto una vita molto difficile, ha affrontato l’immigrazione, la povertà e tanti problemi, ha sofferto di disturbi mentali che lo hanno spinto a dedicarsi al disegno. Fortunatamente le opere di Davood Kouchaki sono già conosciute in Europa grazie all’interesse
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nella pagina a fianco Hazan Hazer Moshar, tecnica mista, 2013
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di Nico van der Endt, e sono custodite in alcuni musei e collezioni private. Disegna creature mostruose, amare e scure, che emergono dal suo passato. Quando lui stesso interpreta i suoi disegni, capiamo quanto queste immagini siano radicate nella sua vita attuale, e come l’artista stia cercando di metabolizzare i nodi della sua esistenza. Ci sono molti altri artisti iraniani che spero di presentarvi una prossima volta, ma qui voglio ricordare anche Gorgali Lorestani, presente oggi con alcune opere anche nella Collezione di Art Brut Treger-Saint Silvestre presso il Museo di Porto9. Settantanove anni fa Zabiholah Mohamadi, detto Gorgali, nasceva a Malashir nel Lorestan. Il padre era tra i saggi del villaggio e aveva un’indole poetica. Egli mandò Gorgali da un Mullah per imparare il Corano e la Sha’ahnameh. Gorgali dice: «Mio padre voleva che gli recitassi tutto ciò che avevo imparato della Sha’ahnameh. La sua forza di persuasione mi rese molto più veloce nell’apprendimento». Oggi è più di mezzo secolo che Gorgali custodisce la Sha’ahnameh nel suo cuore, e questo libro immenso ha influenzato notevolmente il suo linguaggio e i suoi modi, dando ritmo alle sue parole. Quando legge la Sha’ahnameh le vene del suo collo e i muscoli della sua faccia diventano tesi e serrati. Queste sensazioni epiche sono descritte anche nelle poesie su temi dell’umanità che egli stesso ha composto, influenzato dal ritmo della Sha’ahnameh. Con l’aiuto di questo libro egli rappresenta le storie apprese dal Corano e dai profeti, in modo istintivo e senza sapere perché disegna e se i suoi disegni piaceranno o meno a qualcuno. Anche se le sue mani non gli permettono di lavorare a lungo, lui tiene carta e penna, i suoi strumenti privilegiati, così saldamente come un bambino che non ha paura di disegnare. A causa dell’età avanzata ha sostituito il falcetto con le penne colorate, e la fattoria con un angolo della casa. Adesso passa la maggior parte del suo tempo a
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nella pagina a fianco Gorgali Lorestani, penna su cartoncino, 2013
leggere. Gorgali è un narratore e un illustratore che utilizza un copione del tutto personale per le sue composizioni e i suoi disegni liberi. Poichè è un contastorie, non deve rappresentare molti dettagli nè molte figure, ma mostrare piuttosto gli elementi ornamentali e la trama dei vestiti, che sono sempre eseguiti con perizia. L’Outsider Art nelle opere di Gorgali è parzialmente legata alla Folk Art. Anche se la Folk Art ha origini più remote dell’Outsider Art poiché è radicata nella tradizione collettiva e in istanze più popolari. Mentre l’Outsider Art è molto più soggettiva.
Traduzione dall’inglese di Valentina Di Miceli Dal testo di presentazione della mostra Wild Garden. Outsiderkunst uit Iran, Galeerie Hamer, Amsterdam, 2015.
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https://www.facebook.com/mortezahedi/, mortezazahedi.blogspot.com/
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Nel n. 4 della nostra rivista ( marzo 2012, pp. 132-140) abbiamo pubblicato un articolo di Nico van der Endt sulla storia della sua importante galleria.
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Collezione itinerante con base a Londra, cfr. articolo relativo nella nostra rivista n. 1, ottobre 2010, pp. 56-165.
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Anna Zemankova (Olomouc 1908 – Praga 1986) molto nota nell’ambito dell’Outsider Art, è celebre per i suoi disegni di arabeschi botanici ed efflorescenze vegetali di ispirazione medianica, realizzati in precarie condizioni di salute dopo i cinquant’anni.
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Vasto poema epico del poeta persiano Ferdowsi attorno al 1000 d.C. che racconta il passato mitico e storico dell’Iran dalla creazione del mondo fino alla conquista islamica del VII sec. Considerato il capolavoro letterario in lingua persiana antica è permeato di zoroastrismo e le sue copie sono illustrate con splendide miniature.
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Hafez (Shiraz 1315-1390), mistico e poeta persiano, il cui Canzoniere viene spesso utilizzato dalla gente comune come oracolo.
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Alfred Wallis (1855-1942) marinaio e pittore autodidatta, è annoverato tra i naïfs inglesi, dei quali è il più conosciuto. Navi, vita di costa e di mare sono i temi prediletti. Alcune sue opere sono nella collezione della Tate Gallery.
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Cfr. sulla nostra rivista C. Berst, Anche il Portogallo ha il suo museo di Art Brut, O.O.A. n.9, aprile 2015, Glifo edizioni, Palermo, pp.130-133
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OUTSIDER ART IN MESSICO
di Ana Karen González Barajas
• Un sintetico inventario di artisti outsider messicani, alcuni noti, altri sconosciuti • L’inizio di una ricerca in un territorio per molti aspetti ancora “vergine”
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Chissà quante volte siamo passati davanti ad espressioni di un impulso creativo e non ci siamo fermati ad osservare o non ci hanno insegnato a farlo. Parto dalla convinzione che l’Outsider Art esista in tutto il mondo e che, dunque, esista anche in Messico. Vi sono in questo paese diverse manifestazioni artistiche che o non sono state prese in considerazione o, se lo sono state, non sono state definite come espressioni di Outsider Art, ma semplicemente come manifestazioni “eccentriche” o “sinistre”, cioè nessuno o quasi è riuscito a osservarle con un altro sguardo, più avvertito. D’altra parte, non esistono in Messico istituzioni né musei o gallerie dedicate all’Outsider Art. Manca la nozione. Per questo motivo mi sono data il compito di iniziare una ricerca su questa tipologia artistica in Messico: menzionerò in questo testo sia gli artisti già noti all’estero, sia altri che ho scoperto io stessa nel corso della mia ricerca sul campo. Va rilevato, innanzitutto, come in altri paesi sia stata molto apprezzata l’opera di alcuni autori messicani “irregolari”, da tempo conosciuti in quest’ambito a livello mondiale, come per esempio Martín Ramírez (1895-1963), Chelo González Amezcua (1903-1975) e Jesús (Jessie) Manuel Montes (1935-?). La loro notorietà può essere dovuta al fatto che tutti e tre hanno realizzato le loro opere negli Stati Uniti e hanno condiviso l’esperienza dell’immigrazione, la nostalgia e il desiderio di appropriarsi della cultura d’appartenenza e il bisogno di reintegrarsi. È il caso di Martín Ramírez (1895-1963)1, che, dopo aver lasciato Velázquez de Tepatitlán (nello Stato di Jalisco) per andare a lavorare in California in una miniera e nelle ferrovie, subisce le conseguenze della Grande Depressione, finendo ricoverato in un ospedale psichiatrico con la diagnosi di schizofrenia. Qui realizza la sua produzione artistica, sollecitato dallo psicologo Tarmo Pasto che lo aveva scoperto visitando il DeWitt State Mental Hospital, dove Ramírez era allora ricoverato. Il suo lavoro si basa su esperienze vissute e
mostra figure di persone a cavallo, motivi legati alle ferrovie, alla flora e fauna delle regioni di montagna di Jalisco. Questi elementi sono rappresentati in una forma particolare e in composizioni caratterizzate da costanti ripetizioni. Da parte sua, Chelo González Amezcua (1903-1975)2, nata a Piedras Negras (Coahuila) è un’artista che ha chiamato “arte filigrana del Texas” il suo lavoro, omaggio alle filigrane dell’oreficeria messicana, ma dedicato a Del Rio (Texas), il luogo dove si è trasferita con la sua famiglia già nella prima infanzia. Avendo un grande desiderio di studiare arte, riesce ad ottenere una borsa di studio per l’Accademia di San Carlos a Città del Messico, ma a causa della morte del padre non può realizzare la sua aspirazione. Si dice che avesse però un carattere ottimista e allegro; continuò quindi a creare opere ispirate alla storia messicana, soprattutto alla cultura precolombiana. I suoi lavori hanno la caratteristica di presentare dettagli ingranditi in modo smisurato.
Martín Ramírez, disegno su carta, Collezione abcd, Parigi Chelo Gonzáles Amezcua, disegno su carta, Collezione abcd, Parigi
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Il parco surrealista di Edward James a Xilitla
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Di Jesús (Jessie) Manuel Montes, invece, si sa poco e della sua biografia esistono versioni contraddittorie. Negli Stati Uniti, dopo il suo arrivo, lavora nel settore delle costruzioni e come custode in una scuola elementare. È un autodidatta, che sa leggere e scrivere pur non essendo andato a scuola. La sua prima creazione risale al 1990 dopo il suo pensionamento: una cornice, a cui comincia a lavorare per lenire la preoccupazione causata dalla partenza della figlia per il Golfo Persico come infermiera militare. Da questo momento inizia a realizzare opere usando, tra gli altri materiali, casse riciclate e utilizzando pittura acrilica. Come è noto, alcuni artisti dell’Outsider Art si caratterizzano per la trasformazione creativa del loro ambiente, della loro casa o del loro “santuario”. Anche in Messico esistono opere che corrispondono a questa tipologia di environment. Luoghi già conosciuti come il “Giardino surrealista” di Edward James3 (1907-1984) a Xilitla (San Luis Potosí) e “l’Isola delle Bambole” (Isla de las Muñecas) di Julián Santana4 a Xochimilco (Città del Messico). Recentemente è stato individuato a Città del Messico uno
spazio spontaneo, al tempo stesso atelier e casa di accoglienza che assolve la funzione di centro culturale indipendente e richiama l’attenzione degli abitanti. El tlacuache (il cui nome significa opossum, animale mitizzato nella cultura mesoamericana), si dedica a creare riciclando materiali di scarto ed è il perno di questo luogo, adottato spontaneamente dai vicini e da una parte della popolazione. Hilda Dupont-Theurel (1944), nata nell’Ojite (Veracruz, comune di San Rafael), praticamente del tutto sconosciuta in Messico, appartiene alla quarta generazione di immigrati francesi in Messico. Ciò che si conosce di questa creatrice si trova nella famosa collezione francese abcd-art brut5. L’inclinazione al disegno si manifesta già nell’infanzia, in cui Hilda disegnava tutti i giorni decorando anche luoghi
Julián Santana, Isla de las muñecas (Isola delle bambole), particolare
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Hilda Dupont-Theurel, disegno su carta, Collezione abcd, Parigi
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della sua casa. La morte di due fratelli, poi un incidente in cui è colpita da scariche elettriche, e in seguito un arresto cardiaco, provocano in lei una depressione accompagnata da allucinazioni nelle quali lei si vede al di fuori del proprio corpo. Queste visioni inducono uno psichiatra a iniziarla alla pittura come forma terapeutica. I materiali e le forme, le figure umane dissimulate nella composizione, il tratto leggero ma intenso ricordano i lavori della tedesca Unica Zürn6. Alcuni artisti devono invece la loro notorietà alla mostra allestita a Guadalajara nel 2014 da Carlos Ashida7, tra questi Andrés Arroyo Cassio (1952), di Città del Messico, uno dei pochi artisti outsider conosciuti che si sono sviluppati rimanendo in Messico. Dodicesimo di una famiglia contadina, va via di casa a otto anni, vive per strada o in internati, rimanendo coinvolto in situazioni pericolose e delinquenziali, ma esercitando occasionalmente anche vari mestieri, tra i quali la falegnameria e la fabbricazione di giocattoli di legno. Quando ne ha la possibilità, intaglia maschere di legno. Successivamente inserisce nelle sue creazioni esperienze proprie e altrui. Come è comune nella storia dell’Outsider Art, anche in Messico ci sono alcuni artisti professionisti che hanno mostrato sensibilità per forme espressive fuori dai margini convenzionali, salvandone così la testimonianza. È accaduto a Juan Martinez (1933-2007), un personaggio che si presenta nella sua poesia e nella sua storia come un essere in perenne trasformazione. Creava navi spaziali con oggetti riciclati che raccattava per strada, e disegni su diversi materiali,
Anado MacLauchlin, Mosaico murale dedicato al padre Jimmy
principalmente tovaglioli. Viene descritto come un creatore instancabile. Malgrado sia rimasto poco conosciuto in Messico, alcuni artisti, fra cui Alberto Blanco, si sono incaricati di conservare la sua opera, così che oggi parte del suo lavoro e della sua storia è accessibile. La mia indagine si è concentrata in particolare nella zona della città di Guanajuato, dove si incontrano diverse espressioni artistiche con caratteristiche che possono essere assimilate all’arte outsider. Parlerò innanzitutto delle opere ambientali, che fungono da focolare domestico e studio al medesimo tempo, e vengono utilizzate come una grande tela che si presenta come la loro produzione principale. Quindi ricorderò brevemente anche artisti ambulanti che lavorano per strada e artisti già riconosciuti da istituzioni artistiche. Comincio parlando di Anado Mc Lauchlin (1947), originario di Oklahoma City, ma che ha vissuto per più di dieci anni a San Miguel de Allende, in una casa bizzarra e coloratissima, insieme a Richard Schultz, suo compagno e fonte d’ispirazione al tempo stesso. Nonostante che la sua creatività si situi
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all’interno dell’industria artistica8, se ne può individuare la particolarità. L’opera di Anado si basa principalmente sulla tecnica del mosaico e ci propone una fusione di elementi della cultura indù e messicana, tra cui si possono riscontrare analogie nella gamma dei colori. Nella città di Celaya (che fa parte dello Stato di Guanajuato) incontriamo Alfonso Cabrera Morales che ha decorato la sua casa con diversi motivi ispiratori tra cui fiori, cuori, elementi della natura e temi della religione cattolica. Inoltre, nelle sue opere lavora anche con il riciclaggio di materiali, una caratteristica condivisa da molti artisti outsider. Negli ambienti di Alfonso si percepisce un continuo horror vacui, tanto nella sua produzione scultorica che pittorica, anche questo un elemento comune a questo tipo di espressioni. In un’altra città vicina si trova il lavoro di Jesús Castañeda, conosciuto tra i suoi vicini perché davanti a casa sua sono
nella pagina a fianco Alfonso Cabrera, particolare delle installazioni nella sua abitazione Jesús Castañeda, Navi, sculture d’acciaio davanti alla sua abitazione
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Jesús Castañeda, Serpente, scultura in acciaio
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parcheggiate invece di automobili due velieri, lunghi rispettivamente un metro e mezzo e due metri. Tra le altre opere animali e insetti giganti, interventi nella sua casa e oggetti come la sua moto per la quale ha fatto anche un apposito casco. Il materiale principalmente utilizzato è l’acciaio. Il carattere particolare con cui Jesús si serve dei materiali e il tempo che vi dedica attestano uno sviluppo creativo legato ad un mestiere praticato già nell’infanzia. A Guanajauto vivono un paio di artisti, su cui sto conducendo un progetto di ricerca, conosciuti tra la popolazione locale perché vivono girando costantemente per le strade della città. Uno di loro è Alberto Rodríguez9 (1969), che si fa chiamare “Kalimán” per il suo gusto per le storie illustrate e per un popolare programma radiofonico così intitolato, trasmesso dal 1963 al 1991. Ad Alberto piace scrivere pensieri, molti
dei quali rimandano a manifesti, e, nell’atto di scriverli, ripeterli ad alta voce in una cadenza simile a un canto o a un mantra, come quello degli Hare Krishna. Il rapporto che Alberto ha con ciò che scrive fa pensare a un rituale nel corso del quale a volte egli strappa o brucia i suoi scritti e si cosparge la cenere sul corpo. È stato ricoverato per alcuni periodi in un vicino ospedale psichiatrico, ma riceve anche alloggio dalla popolazione locale. Un altro soggetto di osservazione costante è Blanca Lara, che ha un profilo diagnostico simile a quello di Alberto. Si può incontrare anche lei per le strade di Guanajuato a vendere segnalibri. Ha avuto una formazione in Scienze della Comunicazione e ha un particolare interesse per il cinema e il surrealismo. Crea in uno stato di trance, nel corso del quale esegue frequentemente figure umane o antropomorfiche, che poi, se è in buone condizioni di salute, esce a vendere per le strade. Gli esempi qui citati sono artisti classificati come outsider attraverso comparazioni con altri artisti noti e in base a costanti individuate all’interno dell’arte outsider internazionale. Questi elementi sono utili a una analisi più adeguata della loro produzione, senza dimenticare nella valutazione l’importanza del contesto individuale in cui viene realizzata l’opera. Il riconoscimento di questa tipologia artistica in Messico consentirebbe di includere persone che normalmente non vengono prese in considerazione
Alberto Rodríguez (Kaliman), scrittura su pagina di libro
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Blaca Lara, Segnalibri, matita su cartoncino
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dalle istituzioni ufficiali, comprovando che l’arte è una forma d’espressione a cui ogni essere umano dovrebbe avere un accesso. Con questo progetto di ricerca mi propongo, infatti, di contribuire a che l’arte sia più accessibile e inclusiva e possa incontrare una più ampia accettazione nella società messicana.
Traduzione dallo spagnolo di Giovanni di Stefano A Martin Ramirez sono state dedicate parecchie mostre negli Stati Uniti, come la retrospettiva del 2007 al Folk Art Museum di New York, e ha raggiunto ormai quotazioni molto alte sul mercato dell’arte. Recentemente è stata pubblicata la monografia di Victor M. Espinosa, Martin Ramirez: Framing His Life and Art, University of Texas Press 2015.
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Le sue opere si trovano presso diverse collezioni private e pubbliche, tra cui lo Smithsonian American Art Museum, Washington.
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Cfr. nella nostra rivista l’ampio articolo di G. Ingarao, Edward James fabbricante di sogni, n. 6, ottobre 2013 ( Glifo edizioni, Palermo), pp. 122- 135.
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Visse come un eremita nell’isoletta di sua proprietà dove raccolse e dispose nella natura dagli anni ‘50 al 2001, data della sua morte, più di 1000 bambole in memoria di una bambina annegata nel torrente. Oggi la macabra installazione è diventata un’attrazione turistica.
4
Si tratta della più importante collezione privata francese di art brut di taglio internazionale, raccolta dagli anni ‘70 dal cineasta Bruno Decharme, che ha creato anche un centro studi, uno spazio espositivo a Montreuil, e organizza mostre in vari musei del mondo. http://abcd-artbrut.net
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Sull’artista tedesca cfr. nella nostra rivista l’articolo di S. Palermo, Unica Zürn. I doni della follia, n. 8, ottobre 2014 (Glifo edizioni, Palermo), pp.102-111.
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Probabilmente è stata l’unica mostra del genere in Messico. Allestita presso l’Istituto Cultural Cabanas, imponente edificio nato nell’800 come ospizio e dal 1983 museo delle arti, con il titolo La buenas intenciones presentava dodici creatori autodidatti. Il curatore Carlos Ashida, scomparso nel 2015, sottolineava, senza utilizzare temini come brut o outsider, che le opere erano tutte state concepite senza intenzione artistica ma per «una sorta di volontà di superare le avversità, fare buon viso alla propria cattiva sorte e alla mediocrità dell’esistenza e imprimere un sigillo di bellezza in quello che fanno».
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Mc Lauchlin, un eccentrico ex hippie che ha vissuto anche in India in un ashram, è un decoratore di interni e insieme al suo compagno crea e vende mobili, oggetti decorativi e gioielli.
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Anche questo artista è stato esposto nella mostra curata da Ashida, v. nota 7.
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ALL’OMBRA DELLA CATTEDRALE: LE SCULTURE DI SANTACOLOMBA di Rachele Fiorelli
ESPLORAZIONI
A Cefalù un giardino inaspettato e uno scultore che arricchisce il nostro catalogo dei creatori spontanei in Sicilia
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La sorte è spesso la migliore alleata di chi è in cerca di qualcosa, ma lo è ancor di più quando la ricerca non è ancora cominciata e non si ha in programma nemmeno di intraprenderla. Capita così che sfogliando un libro lo sguardo del lettore sia catturato da un punto a caso sulla pagina e gli occhi, piuttosto che andare avanti alla ricerca di ciò che si intendeva trovare, si soffermino in quel preciso punto come pilotati da una forza esterna. I prodromi di questa scoperta sono, più o meno, questi. Durante una ricerca che nulla aveva a che fare con l’arte spontanea, mi sono imbattuta nella storia di Giuseppe Santacolomba, carabiniere in pensione ma attivo scultore, scrittore e illustratore di Cefalù. Partiamo dall’inizio … Fu anche quella una sorte favorevole che salvò Re Ruggero da una tremenda tempesta al largo di Cefalù nel 1130 c.a. Mentre le onde si abbattevano furiosamente sulla sua nave e facevano presagire una fine imminente, il prode Re normanno invoca l’aiuto del Santissimo Salvatore e gli promette che se riuscirà a scampare dalle furie del mare allora edificherà una
cattedrale proprio sotto quel promontorio, da cui il nome Κεφαλοίδιον1, dove stava rischiando di morire. La cattedrale, com’è noto, è uno degli esempi più belli di edifici sacri normanni in cui le istanze architettoniche più militaresche si coniugano all’interno del chiostro, con la bellezza e l’eleganza dell’apparato decorativo di ispirazione arabeggiante, nell’ennesimo esempio di mediazione culturale di cui la Sicilia poteva vantarsi all’epoca della convivenza tra cristiani e musulmani. Vuole il destino che la famiglia Santacolomba, originaria di Cefalù, possegga una piccola campagna proprio dietro l’abside della cattedrale, un fazzoletto di prato affacciato sul mare. Giuseppe, nato a Cefalù nel 1963, da piccolo si divertiva a giocare con gli attrezzi del padre in quel suo giardino di infanzia. È sempre stato incuriosito dalla scultura, prima come forma di passatempo, poi crescendo, diventando una passione vera e propria. Il padre e la famiglia, non lo
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hanno mai ostacolato seppure nemmeno incoraggiato a intraprendere gli studi artistici, quindi dopo la terza media e un anno di istituto alberghiero, viene arruolato nell’Arma dei Carabinieri secondo il desiderio del padre. Trascorre nell’Arma alcuni anni, otto dei quali a Roma presso l’Aeroporto di Ciampino, nel 1990 ritorna in Sicilia dove prende servizio a Santo Stefano di Camastra2. Al suo rientro in Sicilia un episodio sconvolge la sua vita, riesce a sventare una rapina ma resta ferito e traumatizzato, tanto da chiedere di essere riformato e andare in pensione con gli anni di servizio che aveva maturato. Sebbene avesse svolto il suo lavoro con entusiasmo, la vita scandita in modo così rigido e rutinario lo aveva stancato molto, tanto da rifiutarsi categoricamente di lavorare negli uffici e preferire una piccola pensione. Finalmente libero dagli impegni lavorativi, può dedicarsi alla sua più grande passione, durante i mesi estivi lavora in quel piccolo terreno dietro la Cattedrale mentre d’inverno si rifugia in un piccolo laboratorio al coperto. Il suo rapporto con la città
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è molto stretto, vanta un ottimo rapporto con i concittadini ed è riuscito a stringere una fitta rete di contatti con altri artisti e creativi della cittadina, tanto che ogni estate con l’associazione “Cefalù città degli artisti” organizza una piccola esposizione nei pressi di Porta d’Ossuna. I turisti che affollano il borgo marinaro si soffermano a lungo a parlare con lui e molti comprano le sue opere, tra questi anche una segretaria del Louvre che gli dice semplicemente “non cambiare mai”. Ma la folla che si riversa ogni anno può essere anche poco attenta alla sensibilità di Giuseppe, capita così che da un giorno all’altro un totem in legno che aveva lasciato nel giardino dietro la cattedrale sparisca di punto in bianco, così come la borsa con gli attrezzi che aveva lasciato fuori dalla porta del laboratorio. Come altri artisti spontanei anche Giuseppe
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incontra un ‘mecenate’, lo scomparso architetto Salvatore Culotta, che lo incoraggia a continuare ma soprattutto cura la sua immagine di artista, scattando anche alcune belle fotografie alle sue sculture lungo la scogliera di Cefalù. Quali sono gli inizi della sua produzione artistica, in che momento Giuseppe si apre alla sua arte? Come recita il versetto biblico ‘la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la testa dell’angolo‘3: questa frase può riassumere e introdurre all’opera di Giuseppe Santacolomba, alla costante ricerca di ciò che gli altri hanno gettato via. Da bambino camminava sulla spiaggia e il suo sguardo vagava tra gli scogli e sulla riva alla ricerca di qualcosa, la sua attenzione veniva catturata da pezzi di legno gonfiati dall’acqua salmastra, da ciottoli bitorzoluti che spiccavano tra quelli levigati dalle onde, da cocci orfani del loro insieme. Materiali apparentemente muti che tuttavia parlavano una lingua che solo lui riusciva a udire e comprendere. Da allora nulla è cambiato, Giuseppe perlustra con la sua bicicletta i cantieri di Cefalù, i boschi circostanti, le spiagge, per trovare materiali abbandonati, o meglio, buttati in discariche improvvisate perché, come lui stesso afferma «I muratori si sa come lavorano in Sicilia, vero è che ci sono anche le brave persone ma non tutte …»4. Egli sente la materia pulsare, un battito a cui non può rimanere indifferente, la raccoglie e la scruta, poi inizia a lavorare per fare affiorare l’immagine che lo prega di essere spogliata da quell’armatura in cui è imprigionata per potersi finalmente rivelare. Non sa che questa idea ‘a levare’ è quella che guida le mani di Michelangelo e nemmeno immagina che esistano altri artisti che come lui hanno scandagliato l’ambiente circostante per dare una forma a quelle voci che udivano provenire dai rami, i sassi, gli scogli. «Io stesso non so come un ramo d’albero possa trasformarsi in un animale, in un oggetto, in un simbolo. So soltanto che gli alberi e i
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rami li osservo attentamente e che essi mi rivelano un volto nascosto», diceva Rosario Santamaria 5, un altro degli scultori ‘Irregolari’ siciliani. Né di sicuro Giuseppe ha mai sentito parlare di tale Filippo Bentivegna di Sciacca che ha popolato il suo giardino di pietre da cui germogliano non una ma tante teste contemporaneamente. Qualcuno gli ha fatto notare che le sue opere potrebbero appartenere all’Art Brut, ma a lui non importa capire cosa vuol dire. L’unico scopo è creare, produrre, dare sfogo alla sua immaginazione che oggi lo porta a scolpire una figura metà uomo e metà sirena e il giorno dopo una sculturina che ha chiamato Il cinese per il cappello a pagoda e il dragone inciso in un ruvido kimono. Giuseppe fluttua tra i margini delle definizioni, si racchiudono nelle sue sculture e nei suoi scritti i geni di un’arte altra, come la spontaneità nel creare, la selezione di materiali insoliti, il
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dialogo che si instaura con essi ma anche una sensibilità della natura e dei luoghi che attraversa la storia dell’Outsider Art. Il giardino, luogo mistico e mitico, in cui la mente creativa si alimenta di suggestioni e sentimenti, è uno spazio ameno e segreto all’ombra della storia siciliana in cui Giuseppe rivive la sua storia personale, dall’infanzia all’età presente. Una verde terrazza circondata da alberi e siepi da cui si sentono le onde infrangersi sugli scogli e si vede il vento increspare la superficie del mare. Domina il volto dei suoi personaggi un grande naso, ispirato al suo piuttosto prominente, e in alcune un lungo ed elegante collo di cui lui nega l’ispirazione ai modelli modiglianeschi. Sicuramente il luogo in cui lavora ha connotato fortemente le sue sculture. Possiamo dire che l’arte ha sempre inseguito Giuseppe che ben volentieri si è fatto rincorrere, assecondando il destino che lo ha visto proprietario del terreno dietro la cattedrale ma anche sfruttando gli anni di permanenza a Roma dove ha potuto saziare il suo sguardo pasteggiando con i capolavori degli artisti italiani, primo fra tutti Michelangelo. Con un chiodo, una lima, oppure un attrezzo creato per l’occasione graffia e incide la pietra, Giuseppe ha molta cura del suo lavoro e degli strumenti da utilizzare, si lamenta di avere rotto tutte le sgorbie e di non poterne comprare altre perché costano troppo. Procede per istinto, senza un progetto ben definito, riempie le sue sculture di volute e di spirali e connota gli sguardi dei suoi personaggi con espressioni ora grottesche ora più ieratiche e metafisiche, assecondando anche la durezza del materiale su cui lavora: gasbeton, pomice, gesso o legno. Qualunque sia il supporto questo viene riempito in ogni sua parte con linee che si intersecano, volute improbabili e piccoli volti che si affacciano dagli alveoli lasciati liberi. Nessun lato è uguale all’altro perché «il bello mio è questo, fare le cose differenti».
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Anche le opere più ammiccanti alla storia dell’arte come la Monnalisa, il suo «cavallo di battaglia», non si limitano a imitare ma sempre a interpretare con uno sguardo personale: se il volto non sembra subire alterazioni, il velo che ricopre la testa della statua si popola di ghirigori, volute e altri elementi fantastici. Non se ne separa mai, non c’è offerta che potrà convincerlo a cedere il suo capolavoro. Racconta che un turista è tornato da lui fino a poco prima di partire per convincerlo, ma senza risultato. Oggi Giuseppe dice: «meno male che non l’ho venduta», quella scultura per lui rappresenta il cappello posto in uno dei banchi dell’arte ufficiale. Ogni opera viene rifinita con un pezzo di carta vellutata, come la definisce lui stesso, la data e se ha spazio la firma “un tizio dietro la cattedrale” come lo aveva ribattezzato l’architetto Culotta. A chi gli chiede quale sia la sua più grande aspirazione risponde con grande seraficità «io il mio gradino del successo l’ho già salito: il marciapiede».
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Dal greco kefa o kefalé, «testa, capo»
Santo Stefano di Camastra e Cefalù sono due piccoli comuni in provincia di Palermo poco distanti tra loro.
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3
Vangelo di Matteo, v. 42.
Tutte le dichiarazioni di Santacolomba presenti nell’articolo sono tratte da una intervista dell’A. all’artista, gennaio 2016.
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In G. Quatriglio, Rosario Santamaria, “Giornale di Sicilia”, 5 ottobre 1974, cit. in E. di Stefano, Irregolari. Art Brut e Outsider Art in Sicilia, Kalós, Palermo 2008, pp. 99 - 101.
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LA FINCA DE LAS PIEDRAS ENCANTADAS A FARGUE di Roberto Pérez
TESTIMONIANZE
• Come nasce e cresce un environment ‘archisculturale’ spontaneo? • Il racconto in prima persona dell’autore di una costruzione ‘babelica’ nei pressi di Granada, oggi messa in pericolo dalla burocrazia • Una petizione per salvarla come esempio di archiscultura andalusa.
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Nel 1989 comprai un terreno di poco più di 2000 m2, lungo il confine municipale di Granada, vicino a Fargue. Il terreno era classificato come “rustico non edificabile”, però il venditore mi assicurò che in pochi mesi sarebbe stato dichiarato edificabile. Non mi preoccupai troppo visto che ricevetti una comunicazione dell’Ufficio Tributi del Comune, che definiva il terreno “edificabile con tutti i servizi”. Desideravo allevare animali, coltivare un orto, migliorare la qualità del terreno e crescere alberi e piante. L’assenza di acqua, di elettricità, di riparo e l’eccessiva pendenza del terreno, unite alla pessima qualità del suolo (alcalino e pieno di pietre) e al clima estremo tipico delle zone continentali e mediterranee, resero questo sogno un impegno ingente. Io e mia moglie Pepa iniziammo realizzando un sentiero che ci permettesse di spostarci da un lato all’altro con facilità, però era complesso riuscirci visto il grande dislivello tra la parte superiore e inferiore del terreno. Questa attività ci procurò una grande quantità di pietre, che si accumularono in attesa di essere usate. Poi sistemammo delle rovine preesistenti per poter allevare gli animali: ottenemmo una tipologia di conigli neri e una di conigli bianchi, allevammo dei polli e sperimentammo perfino con la legge di Mendel sulla trasmissione genetica. Usavamo l’erba come alimento per gli animali e con il letame prodotto facemmo il nostro primo orto; era tutto il più ecologico possibile. Coltivammo cavolfiori e cavoli, però il risultato fu del tutto inatteso: migliaia e migliaia di farfalle gialle, molto belle, ma nessuna verdura. Con l’aiuto sporadico di alcuni familiari e amici piantammo centinaia di alberi, che in buona parte morirono. Tenemmo riunioni divertenti mentre realizzavamo il recinto del podere e iniziavamo la costruzione de “la Casita” per conservarvi attrezzi e cianfrusaglie proteggendoli dall’inclemenza del tempo. Affascinanti erano soprattutto le gite con i bambini.
Durante gli anni ‘90 realizzammo numerosi lavori: istituimmo e legalizzammo una ‘comunità di proprietari’, riparato il pozzo, risolto il problema della canalizzazione e del deposito d’acqua comune per tutta la comunità, finché più tardi riuscimmo a portare acqua e luce nel podere. Nelle zone secche delle regioni mediterranee si usa, da tempi remoti, una tecnica che consiste nella costruzione di mura di sostegno per livellare il terreno, chiamate “Paratas” o “Balates”,1 necessarie per ottimizzare la raccolta di acqua. Questa attività di cui mi occupai personalmente mi risultò specialmente affascinante e mi diede l’opportunità di conoscere, attraverso le pietre, la storia del terreno. Costruire le Paratas mi permise anche di usare le pietre accumulate durante la costruzione del sentiero, richiedendo uno sforzo fisico rilevante che fece bene sia al corpo sia alla mente. Nel frattempo riunivo anche il materiale che avevo accumulato lungo gli anni. Senza rendermene conto iniziai a sperimentare e a studiare metodi di costruzione con materiali riciclati. In qualche modo credo che mi prese la mano e da questa passione sorsero varie costruzioni. Nel 1995 c’erano già “la Casita”, “la Capilla”, “la Casa de Leticia”, “el Torreón” e la base de “el Mirador”. La Cappella La cappella fu realizzata senza un progetto, fu pura sperimentazione. Si realizzarono le fondamenta e, quando i muri raggiunsero una certa altezza, si cementò tutto con uno strato di calcestruzzo, applicando delle tecniche di costruzione come quelle usate nelle case di legno di alcuni stati degli USA. La cupola si fece con mattoni riciclati (provenienti da una demolizione avvenuta nella calle Ancha de Capuchinos de Granada) e la si chiuse con vetri raccolti dalla spazzatura. Si utilizzarono come decorazioni: lastre di cemento e pietra, quarzo (proveniente dalle miniere di Linares), pezzi di
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La cappella
ceramiche e altri elementi che ogni volta davano un maggiore accento margivagante alla costruzione. Infine, si diede il tocco finale con un’anfora di terracotta del Marocco. Un olivo che rimase inglobato all’interno dell’opera, affacciava i suoi rami attraverso dei buchi protetti con frammenti di pneumatici. Gli spazi per l’illuminazione vennero chiusi con vetrate e intelaiatura di piombo che creavano un’atmosfera speciale. Sembrava magico che una costruzione così grezza suscitasse così tante emozioni 2. La Casita La Casita fu costruita con l’aiuto di mia moglie e del nostro vicino Enrique, muratore in pensione e persona di gran valore che insieme a sua moglie,Teresa, vive in modo autosufficiente in una casa che ha costruito lui stesso, dove coltivano patate, olivi, viti e frutteti, allevano capre, galline e conigli, e hanno
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cresciuto i loro figli. La Casita si ispirò alle costruzioni più umili della zona nord della provincia di Granada: abitazioni troglodite con solo una facciata da cui entra la luce. L’effetto caverna permette alla temperatura interna di oscillare tra i 14° e i 250, quando l’esterno ha raggiunto i -120 e i +440. Si chiese una licenza di costruzione al Municipio di Granada che fu rifiutata nel 1993, perché “era già stata realizzata”. Nel 2002, a causa dell’umidità, si aggiunse una copertura di lamiera.
La Casita, parete esterna
La Casita de Leticia La Casita de Leticia si sviluppò sopra i resti di una rovina preesistente nella parte più bassa del terreno. Quando si lavorava nella zona bassa la usavamo come magazzino per gli attrezzi, a causa del grande dislivello tra la parte alta e bassa del terreno, che rendeva faticoso il trasporto. Nel 2002 le si aggiunse anche un tetto di lamiera.
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El Torréon
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El Torreón “El Torreón” sorse per caso. All’inizio lo chiamavamo la “piazza dei tori” per la forma, ma quando iniziò a crescere prese il nome definitivo. All’epoca la mia professione era soprattutto intellettuale e le dedicavo più di 60 ore settimanali. Disporre di un fine settimana libero per realizzare un lavoro manuale all’aria aperta, mi sembrava un lusso che divenne una passione terapeutica: se ero stressato, lavoravo; se desideravo allenarmi, lavoravo; se desideravo sorprendere gli amici e i bambini, lavoravo. Sentivo un’intima soddisfazione realizzando cose che anni prima mi sembravano impossibili: collocare una finestra, costruire un muro, coltivare e curare alberi. Non potevo non provare un certo disprezzo per le persone che spendevano denaro per allenarsi in palestra. Vedevo nelle Escultecturas Margivagantes3 che poco a poco andavano nascendo un vero esercizio di forza ed equilibrio, con frequenza d’ingegno, quindi era la cosa migliore per mantenersi in forma e abbronzarsi. Durante gli anni successivi, il lavoro si limitò ad abbellire e mettere in sicurezza il terreno. Al tempo stesso, stavo realizzando i lavori di livellazione, per trattenere l’acqua e mantenere gli alberi. Era un lavoro lento però costante, che poco a poco contribuiva alla fertilizzazione della terra.
El Mirador “El Mirador” non era ancora stato concepito nel 1995, si voleva soltanto sostenere il terreno con il rivestimento di pietre e decorarlo con una serie di figure e oggetti di varia provenienza e significato, per esempio: le forbici aperte sono un’immagine frequente nelle Cruces de Mayo de Granada che significano “no rajes” ovvero, non criticare, non parlare male degli altri. “El Mirador” si colloca nella parte più alta del terreno. Era un luogo dove, nel 1998, io e mia moglie Pepa eravamo soliti sederci per godere della vista. Il problema era che a volte congelavamo dal freddo e chiacchierando ci venne l’idea di realizzare una specie di rifugio. Con l’immaginazione e il tempo, scegliemmo un posto dove porre le colonne, le vetrate e altri oggetti, nella maggior parte da restaurare. Senza dubbio ero ispirato dalle numerose torri costruite in Andalusia da civiltà diverse: dai popoli iberici al periodo romano (Castillo de la Malena, grotte di Giribaile nella provincia di Jaén), fino alle torri di vigilanza erette dai musulmani sulle coste per controllare gli assalti dell’Impero Ottomano nel secolo XVI. A partire dal 1997 il ritmo di lavoro nel podere diminuì. A causa del mio trasloco fuori Granada, passai dal dedicare dalle 12 alle 15 ore settimanali alle stesse mensili, forse anche meno. Cominciai
Dettaglio decorativo del Torréon
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El Mirador in costruzione
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a mettere in pratica tutto ciò che avevo appreso negli anni precedenti: migliorai le fondamenta con delle travi di calcestruzzo armato, perfezionai gli archi e le cupole con una migliore pianificazione e assicurai l’impermeabilizzazione e la sicurezza di ogni costruzione. A me a mia moglie piacque tanto il luogo che decidemmo di sposarci nella già battezzata “Finca de las Piedras Encantadas”. Nel 2007 “el Mirador” poteva essere considerato terminato. Avevo restaurato le vetrate provenienti da demolizioni di Linares e Adra, le colonne provenienti da discariche di Baeza e Granada, le mattonelle e le maioliche raccolte nello scomparso Palazzo di Rolando di Granada, i pavé provenienti dalla calle San Juan de Dios, infine aggiunsi altre cianfrusaglie, collezionate e custodite per anni, che
trovarono il loro posto in una serie di spazi piccoli, creati all’interno. Correva l’anno 2010 e decisi di frequentare per due anni la Scuola d’arte di Almería. Appresi a intagliare e forgiare. Lavorare di mattina, frequentare le lezioni di pomeriggio e svolgere i compiti di sera, fu un grande sforzo, però gratificante. Il mio lavoro richiedeva delle trasferte alla cava di marmo almeriense e così ne approfittai per conoscere il lavoro degli artisti e degli artigiani della zona. Una menzione la meritano il Museo Ibáñez di Olula del Rio (Almeria) e lo stesso direttore Andrés Garcia Ibañez. Con ciò che appresi, e con la modestia di chi si riconosce un principiante, iniziai a modellare e a tagliare il marmo, finché nel 2013 venni premiato nel V concorso Iberoamericano delle Arti. Ma, nel 2012 ricevetti una comunicazione dove mi si informava che per la mia attività di costruzione si stava aprendo un fascicolo. Allora, un po’ preoccupato sospesi qualsiasi attività costruttiva. Nel 2014 ricevetti due comunicazioni: la prima riguardava un’ordinanza di demolizione, la seconda prevedeva una sanzione tanto esorbitante quanto sconcertanti erano i motivi. Si spiegava che era stata costruita una “urbanizzazione illegale con scopo di lucro”, con “abitazione unifamiliare a più piani”. Il funzionario che firmava questa pittoresca relazione tecnica ricopre ancora il suo incarico. Di fronte a tale situazione dovetti chiedere aiuto legale e tecnico all’avvocato Jesusa Vega e all’architetto Francisco Sarabia. Con la comprensione e la gentilezza di alcuni funzionari, tra i quali Ana Abad, Nicolás Torice e Antonio Ruiz, iniziammo
El Mirador nel 2013
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Dettaglio del Mirador con forbici aperte
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a risolvere la questione, nonostante le difficoltà sembrassero insuperabili, dal momento che il terreno era stato qualificato “di protezione speciale”. L’unica possibilità per salvare il podere dipendeva dal riconoscimento del mio lavoro come Escultectura Margivagante. Documentandomi a riguardo, scoprii che ciò che consideravo un cumulo di errori, non era niente di più del prodotto dell’amministrazione da parte di certi “indesiderati della società”4 che creano problemi inesistenti, senza poi saperli risolvere, distruggendo però desideri e opere pur restando impuniti. Questo tipo di persone mi ricordano il personaggio ammirabilmente interpretato da Stanley Tucci nel film The Terminal5. Esistono esempi in tutto il mondo: negli USA il sindaco di Los Ángeles riuscì a logorare l’animo di Simón Rodia, fino al punto di spingerlo a vendere la sua opera, e più tardi cercò di distruggere le Watts Towers (adesso monumento storico)6. In Francia il caso di Pascal Häusermann7 è paradigmatico: il cambio dell’amministrazione municipale nella città di Douvaine lo trasformò da architetto organicista di grande fama
(con licenza e terreni ceduti dal precedente governo municipale), a delinquente senza licenza. In Spagna ci sono vari casi. Il più famoso probabilmente è quello di Josep Pijuila: una serie di funzionari lo obbligarono a distruggere – per ben tre volte – parte delle sue costruzioni. Grazie alla mobilitazione della cittadinanza e all’aiuto di organizzazioni come SPACES e la sua direttrice Jo Farb si riuscì a capovolgere la situazione e il Municipio di Girona ora lo apprezza e valorizza8. Molto più triste fu il caso di Manfred Gnädinger, conosciuto come “Man”, chiamato anche el alemán de Camelles, del quale si dice che morì a causa della pena che gli inflissero e del rifiuto delle autorità di conservare quelle che erano le sue uniche risorse terapeutiche. Nella maggior parte dei casi, il comportamento più corretto assunto nei confronti delle Escultecturas Margivagantes è stato il riconoscimento del loro valore artistico, ma basterebbe anche un semplice atteggiamento di “lasciar fare” per contribuire alla cultura del territorio e convertirle in un caso di interesse turistico. Bisognerebbe tenere conto che in ogni caso si tratta di un’attività che “non infastidisce nessuno e piace alle persone”. E, di fronte a questa problematica, va fatta una riflessione9 sul motivo di questo affronto al diritto naturale di chi è artista e sul senso di una normativa di difficile interpretazione applicata da funzionari di discutibile moralità e dubbia competenza.
Fontana del “diablo bueno”
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Traduzione dallo spagnolo di Giada Carraro e Adelaida Litwin Il link della petizione per salvare l’opera. Firma anche tu! https://www.change.org/p/departamento-de-urbanismo-de-aytode-granada-salvar-una-obra-art%C3%ADstica-y-singular-delarte-margivagante-como-una-de-las-escasas-representacionesescultectoricas-andaluzas? Il testo è stato pubblicato in Spagna sulla rivista on line “Bric-à-Brac” dedicata all’Outsider Art, che ringraziamo per la gentile concessione: http://www.arteoutsider.com/presentacion
F. Contreras Cortés, Hace 4000 años. Vida y muerte en dos poblados de la Alta Andalucia, Conserjería de Cultura, Sevilla 1997.
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So di certo che, all’interno, alcune coppie giovani (e non) si sono lasciate andare ai loro sentimenti.
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L’espressione escultecturas margivagantes fu inventata da Juan Antonio Ramírez e si basa sulla contrazione di due parole: escultura-arquitectura e marginal-extravagante. (J. A. Ramírez, Escultecturas Margivagantes. La arquitectura Fantástica en España, Ediciones Siruela, Madrid 2006). Cfr. sulla nostra rivista (n. 2, marzo 2011) l’articolo di Giulia Ingarao, Architettura fantastica in Spagna: “un mundo artistico al réves”, pp. 98-109.
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Espressione usata da Pijuila in alcuni cartelli esposti al pubblico. Esprime in modo commovente il dolore e la disperazione del vero Margivagante. Citato e fotografato da Juan José Lahuerta, Las cabañas de efímeras de Can Sis Rals in J. A. Ramírez, op. cit., pp. 64-69. Il testo completo è “Aquí están enterradas mis fantasías i mis ilusiones, pero no mis cojones, que solo los puede enterrar la muerte, i no unos cuantos indeseables de la sociedad. Mal rollo, tío”.
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The Terminal, diretto da Steven Spielberg nel 2004, si basa sulla storia vera di Mehran Karimi Nasseri, rifugiato iraniano che visse nell’aeroporto di Parigi per vari anni. A causa di un colpo di stato avvenuto a Krakozhia, paese di origine del protagonista Viktor Navorski, i dipendenti dell’aeroporto internazionale John F. Kennedy gli negarono il visto d’entrata negli Stati Uniti, inoltre il capo della sicurezza Frank Dixon, interpretato da Tucci, gli impedì anche il ritorno a casa, rendendogli al tempo stesso impossibile il soggiorno in aeroporto.
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NdR. A questo proposito si veda sulla nostra rivista (n. 7 aprile 2014, Glifo edizioni, Palermo) l’articolo di Luisa Del Giudice, Le Watts Towers di Rodia. (Italian) Outsider Art a Los Angeles, pp.102-111.
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NdR. Noto architetto svizzero, libertario e umanista, Pascal Häusermann (1936-2011) è stato un paladino dell’autocostruzione, in quanto pratica che pone l’individuo al centro del progetto architettonico.
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NdR. Si veda sulla nostra rivista l’articolo di Jo Farb Hernandez (n. 8, ottobre 2014, Glifo edizioni, Palermo), Tra magia e meraviglia. SPACES e la documentazione di Art Environments, pp. 78-87.
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NdR. Si vedano i contributi pubblicati sulla nostra rivista (n. 10, autunno 2015, www. outsiderartsicilia.it) e in particolare il testo di Roberta Trapani, Patrimoni irregolari: definizioni e strategie di salvaguardia, pp. 68-83.
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FIORI DI CILIEGIO
di Francesco De Grandi
APPROFONDIMENTI Anche tra le macerie, anche quando non c’è anima viva, non dimenticano di fiorire. Anche nella solitudine, anche nella tristezza, non dimenticano di fiorire. Anche nel dolore, anche tra le lacrime, non dimenticano di fiorire. Fioriscono e non dimenticano la grazia che riscalda: la grazia della natura Toyoko Ode
Le riflessioni di un artista contemporaneo di fronte all’Outsider Art e alla sua funzione salvifica per l’arte tutta
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Iper connesso, imprenditore, super specializzato, l’artista oggi si presenta come un’entità multiforme del capitalismo avanzato, capace di trovare sponsorizzazioni milionarie per opere sempre più complesse e spesso inafferrabili, impegnato nelle pubbliche relazioni come un pubblicitario o un dirigente d’azienda, capace di gestire e produrre opere multimediali dove le forze in campo sono eserciti di realizzatori e tecnici vari. Oggi l’orizzonte artistico si è allargato a dismisura comprendendo, entro i suoi confini, forme e modi provenienti da ogni parte della sfera conoscitiva umana. Se il ready made ha dato dignità di opera d’arte agli oggetti di uso comune o comunque non destinati ad essere tali, le forme relazionali e concettuali hanno incluso nella sfera artistica discipline che fino a questo momento non lo erano, come ad esempio la scienza, l’antropologia, la psicologia ecc. Come diceva Benjamin nella riflessione sulla perdita dell’aura nella riproduzione dell’opera d’arte, oggi l’iper-specializzazione e l’imprenditorialità dell’artista spesso fanno assomigliare l’opera d’arte a un prodotto multimediale di una multinazionale o, nelle esperienze più tristemente vuote, ad un parco a tema. L’opera d’arte sta perdendo la sua “aura funzionale originaria” conservandone una sola, quella di attrarre consumatori, accaparrare allocchi fruitori sonnambuli diventando un mero investimento per squali dell’alta finanza. E nella perdita dell’aura funzionale vediamo istituirsi l’associazione a delinquere del curatore d’assalto, del gallerista rapace e del
museo connivente a scapito del collezionista ignorante, che sempre più spesso è un collaboratore colposo e desideroso di costruirsi uno status sociale che lo depuri dalle nefandezze finanziarie di cui è stato capace. È in questo panorama edulcorato e iperconfezionato, dispensatore di sogni di plastica e ideologie sanguinarie, che le nostre sensibilità rimangono colpite quando incontrano un’opera genuina. Ovviamente di fronte ad una creazione d’arte Outsider questa sensazione si amplifica, veniamo colpiti da un’energia arcaica, quell’energia che nel corso dei millenni scorre nelle vene di molte opere dell’uomo, una sorta di ineluttabile necessità, una motivazione profonda che supera le logiche mercantili e narcisistiche e che si presenta di fronte a noi con una determinazione ferrea dell’autore, una dedizione che travalica ogni difficoltà, che esiste a prescindere dal suo
Francesco De Grandi, Palermo 1915-2013. China su carta
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riconoscimento, che può svilupparsi in totale segretezza, ricordandoci forse che esiste una reale funzione dell’opera d’arte diversa da quella che il sistema contemporaneo sempre più spesso ci presenta. Che sia una spinta mistica, oscenamente ludica o addirittura patologica, nell’osservare l’opera irregolare di un artista outsider sentiamo qualcosa di puro, primitivo e incontaminato, che ci sopravvive e che appartiene alla sfera profonda e ancestrale della sua funzione originaria, quella cioè di essere mezzo di conoscenza, di trasmissione sciamanica e di rappresentazione della divinità, rivelatrice dell’io profondo. Questa aura della funzione originaria dell’opera d’arte serpeggia fin dalla notte dei tempi dell’arte, emerge nelle pitture rituali degli sciamani del paleolitico che affrescavano le pareti della grotta con i racconti dei viaggi nell’aldilà presumibilmente a seguito di un intossicazione da amanita muscaria, nell’afflato mistico di Fra Angelico che dipingeva le cellette dei suoi confratelli con una tavolozza scarna come il digiuno della regola che lo governava o nel santuario di Capo Gallo a Palermo dove per “mondare” la città dal peccato il mistico visionario Isravele raccoglie laterizi in tutto il perimetro urbano per ricomporli nelle decorazioni mandaliche realizzate con meticolosa dedizione nei muri del suo luogo di romitaggio. E molte altre connessioni si possono tracciare, ci è riuscito bene Massimiliano Gioni nel suo Palazzo Enciclopedico1 (la Biennale di Venezia del 2013) a rintracciare questo filo che parte dal Libro Rosso di Jung, passando da Breton, si intreccia nelle opere di artisti che in o out al sistema sono caratterizzati da questa motivazione, da questo spirito furioso, a volte devastante e abissale, che li spinge alla creazione di opere d’arte. Questa svolta outsider Mario Perniola, nel suo saggio L’arte espansa2, la definisce fringe affermando che l’operazione ha addirittura creato una sorta di destabilizzazione nel sistema economico dell’arte mondiale. Credo che questo sia accaduto
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perché molte delle creazioni esposte nella Biennale di Gioni non erano nate per fare soldi, non erano state create da artisti specializzati o professionisti, non avevano dietro un sistema organizzato di istituzioni e sistemi di potere economico che le sorreggevano, anzi alcune non erano neanche opere d’arte, ma creazioni nate per accompagnare rituali mistico-religiosi, erano reperti da museo di antropologia culturale. Il pregio di questa Biennale è stato quello di ridare centralità all’opera, sottolineandone l’importanza a prescindere dal sistema che la sostiene. E, sempre ricollegandomi all’analisi di Perniola, la risposta del sistema dell’arte non è tardata ad arrivare, infatti La Biennale di Okwui Enwezor, successiva a quella di Gioni, nell’affermare il materialismo marxista come dogma da recitare e come chiave di lettura di “tutti i futuri del mondo”, taglia e distrugge ogni afflato mistico dell’arte, ogni svolta irrazionale, affermando la figura dell’artista accademico, specializzato, iper-istruito dalle istituzioni e dai sistemi economici egemoni dell’occidente unito. Non c’è spazio per ciò che è fuori da questo sistema accademicofinanziario. Il prezzo da pagare per questa deriva è la perdita della dimensione spirituale, della sfera dell’irrazionale, di quella mistica, dell’aura della funzione profonda che l’opera d’arte ha sempre avuto per l’essere umano. Ciò che accomuna le opere d’arte outsider non è diverso da ciò che accomuna le migliori e più intense, profonde, importanti e rivoluzionarie opere della storia dell’arte, cioè la necessità da parte dell’artista di realizzarle, a volte la necessità è di natura magico divinatoria, a volte mistica, altre è l’unica via di salvezza all’abisso che lo circonda o la risposta al troppo bello o al troppo brutto dell’esistenza (pensiamo alla guerra per Grosz, alla malattia di van Gogh, all’infanzia disperata di Darger o all’incanto di Rosseau). Siamo consapevoli che queste opere esistano a prescindere da noi, che siano state create da una spinta talmente forte e profonda che, anche nell’as-
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Francesco De Grandi, Ninetta, olio su tela, 2009
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soluto silenzio, nel nulla e nel totale isolamento, l’artista le avrebbe ugualmente create. Un’altra caratteristica che accomuna alcune delle creazioni di arte non addomesticata e che ci fa comprendere l’idea di un’aura funzionale diversa dal puro intrattenimento estetico è il riserbo a volte paranoide dell’artista a mostrare le sue opere che in alcuni casi sfocia in una sorta di esoterismo, di segretezza, come a proteggere quelle opere dallo sguardo corrompente del mondo. Capita infatti di trovare opere immense coltivate nella più assoluta segretezza o mostrate a sparuti pubblici di pochi eletti. È il caso eclatante della fotografa amatoriale Vivian Mayer, bambinaia irreprensibile e segretamente reporter, di cui l’opera viene per caso scoperta dal figlio di un rigattiere di Chicago che, comprando il contenuto di un box pieno di oggetti, scoprì l’immenso archivio di foto e negativi di una delle prime “fotografe di strada” della storia. Vivan fotografò compulsivamente per tutta la sua vita scene di vita di strada riuscendo a cogliere momenti e psicologie di perfetti sconosciuti, restituendoci la testimonianza del suo sguardo, della sua solitudine e del bisogno di trovare attraverso il mezzo fotografico una sorta di restituzione della propria identità. Un altro esempio di occultamento è quello che fece il nostro Vincenzo Rabito, creatore di quell’opera incredibile che è Terramatta, una sorta di Odissea outsider. Uomo non istruito, dopo una vita di peregrinazioni, miseria e privazioni di ogni tipo, in età adulta sente l’impellenza di scrivere un memoriale delle sue avventure e ingaggia una lotta furibonda con una macchina da scrivere
Olivetti custodita nella soffitta di casa, dove, senza interlinee e chiudendo ogni parola da un punto e virgola, scrive per mesi e senza sosta la sua personale avventura esistenziale, chiudendo infine il dattiloscritto in un cassetto che verrà aperto soltanto dopo la sua morte. Celare sistematicamente la propria creazione al mondo ci dice chiaramente che lo scopo e la funzione di quelle opere non era da ricercarsi nell’esposizione delle stesse, nell’acquisizione da parte dell’artista di uno status, ma erano opere necessarie che svolgevano uno scopo nel loro realizzarsi, avevano utilità prima di tutto per chi le faceva, rispondevano ad una domanda profonda e dovevano essere protette o addirittura, una volta realizzate, non interessavano più all’autore e per questo venivano dimenticate. Come le Sacre Tavole, la statua della Divinità nella cella dei templi Greci, il Tabernacolo del corpo di Cristo e i Totem primitivi, il cui valore estetico era subordinato ad una funzione mistico-religiosa e quindi non fruibile a tutti, anche le opere di questi due artisti avevano una funzione forse magica, terapeutica, ossessiva e come oggetti feticcio venivano protetti. Questi artisti caricano le loro opere di necessità “altre” e in questo scarto gli danno una diversa “aura funzionale” forse più pura, sicuramente più necessaria e vera. Credo che l’importanza dello studio, della conservazione e tutela dell’arte outsider stia nel proteggere una forma d’arte che mantenga ancora una sua purezza incorrotta dell’anima, un modo per tenere sempre ben in mente quanto siamo capaci di produrre, in maniera spontanea e disinteressata, bellezza e amore.
NdR. Cfr. sulla nostra rivista l’articolo di G. Carraro, Una visita al Palazzo Enciclopedico. Alla 55. Biennale di Venezia, O.O.A., n. 6 ottobre 2013, Glifo edizioni, Palermo, pp.156-163.
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NdR. M. Perniola, L’arte espansa, Einaudi, Torino 2015.
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I FETICCI MAGICI DI JUDITH SCOTT di Lucienne Peiry
APPROFONDIMENTI
Un’interpretazione che attraversa il racconto della vita della creatrice americana. Opere tattili per esprimere l’inesprimibile di una triste storia a lieto fine
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Le opere tessili di Judith Scott somigliano a bozzoli giganti multicolore e ricordano anche le bambole per incantesimi: sono dotate di un intenso potere espressivo. Queste sculture evocano soprattutto feticci con qualità magiche e sembrano racchiudere un legame particolare con la vita e la morte. Contengono un segreto che l’autrice si è preoccupata, ogni volta, di nascondere con cura. Prima di esaminare la natura e il significato di queste opere singolari e il processo creativo che presiede alla loro fabbricazione, è necessario seguire il percorso di vita dell’autrice. La nascita di Judith Ann Scott è inattesa e per conseguenza non desiderata; i genitori, Lilian e Wallace, non sanno che il 1 maggio del 1943 nasceranno due gemelle. Judith viene alla luce subito dopo la sorella Joyce, a Cincinnati nell’Ohio, Stati Uniti. Per parecchi mesi, nessuno si accorge che è trisomica, e solo qualche anno più tardi verranno diagnosticate e prese in carico la sua sordità e il suo mutismo1. Joyce e Judith passano i primi anni in un clima familiare armonioso, circondate dai genitori e da tre fratelli più grandi. Le gemelle sono unite da grande complicità, e anche se non hanno un linguaggio verbale comune, intrattengono un legame stretto e privilegiato, ricorrendo a mezzi di comunicazione alternativi, principalmente sensoriali2. Inseparabili, giocano assieme dalla mattina alla sera, vivono a stretto contatto con la natura, vanno e vengono tra casa e giardino, dormono ogni notte nello stesso letto. Joyce comincia frequentare la scuola all’età di sette anni e mezzo (nel 1950), ma Judith viene rifiutata a causa del suo handicap. Dichiarata inadatta, è costretta a confrontarsi con la prima emarginazione, la prima separazione. I genitori precipitano in uno sconforto e in una confusione che si accentuano progressivamente: la mancanza di informazioni sulla trisomia, l’assenza di strutture terapeutiche e pedagogiche destinate a questi bambini, e la pressione
Tutte le opere di Judith Scott qui riprodotte sono sculture-assemblaggi di fili di lana e materiali vari e appartengono alla Collection de l’Art Brut di Losanna.
sociale finiscono per disorientarli. Seguendo il consiglio di alcuni medici, collocano Judith in un istituto per ritardati mentali, a circa duecento chilometri da Cincinnati, sapendo che questa istituzionalizzazione è definitiva3. Judith Scott è così costretta a lasciare i suoi parenti insieme all’universo familiare e intimo in cui è cresciuta, senza capire che cosa le è capitato4. La cesura è brutale, radicale. Senza dubbio vive con angoscia la partenza precipitosa, l’allontanamento forzato, l’insostenibile assenza della famiglia e soprattutto della sorella. Sconvolta, la bambina fa l’esperienza del vuoto; la sua disperazione è intensificata dal sentimento annientante dell’esclusione e della reclusione. Questa separazione costituisce per lei una privazione
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Joyce e Judith Scott, da bambine, Cincinnati (Ohio, Usa), 1946 A fianco Judith Scott al Creative Growth Art Center, Oakland, 2004 Nelle pagine successive Judith Scott, sculture tessili, 1989, 1992, 1994
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genealogica, la rottura gemellare comporta la perdita di una parte del suo corpo, una parte del suo essere. Tagliata fuori da ogni legame affettivo, proiettata in un universo sconosciuto dove le vengono imposte condizioni di vita simili a una detenzione, privata di ogni contesto educativo e pedagogico, trascorrerà trentasei anni nell’esilio e nella clausura. Le rare informazioni contenute nelle cartelle cliniche delle istituzioni dove soggiornerà – che, oltretutto, mancano completamente per ben ventun’anni – la dicono lunga sulla negligenza nei suoi confronti. Madre di famiglia, infermiera, Joyce decide improvvisamente, nel 1986, di ritrovare la propria sorella gemella. Moltiplica le ricerche, ne ritrova la traccia e, al termine di numerose trattative amministrative, riesce ad ottenere la sua tutela per farla venire presso di lei in California. Judith scopre infine un ambiente adeguato alla propria condizione, e soprattutto comincia a frequentare, nel 1986, un Centro d’espressione fuori dal comune, il Creative Growth Art Center situato a Oakland, nei pressi di San Francisco5, dove si dedica alla produzione artistica all’età di quarantaquattro anni. Dopo alcuni tentativi grafici e pittorici che si rivelano infruttuosi, trova la sua strada espressiva nella scultura organica, corporale. Il singolare processo creativo, che inventa ed elabora da sola, mette in
chiaro la posta in gioco nella sua produzione. Judith Scott comincia con il recuperare o procurarsi di nascosto ogni sorta di oggetti eterocliti – un ventilatore o un ombrello, delle riviste, un libretto di assegni, delle chiavi – che andranno a costituire il cuore della sua composizione. Li assembla e li fissa solidamente insieme, poi li circonda, li avvolge, li allaccia con fili, stringhe, corde, spaghi e fibre varie fino a proteggere e occultare interamente il corpo centrale. Per parecchie settimane e a volte mesi, Scott lavora, seduta al suo tavolo, facendo crescere progressivamente la scultura, accentuando alcune forme o alcuni rigonfiamenti, e ruotandola regolarmente per svilupparla da ogni parte. Di aspetto antromorfo, zoomorfo o organico agli inizi, le opere decollano nel corso del tempo, diventando più grandi e astratte negli ultimi anni. Si presentano spesso senza lato inferiore o superiore, frontale o posteriore6. Judith Scott si impegna in un vero corpo a corpo con la sua opera. Sempre al tavolo di lavoro, si alza raramente per distanziarsi e osservare da lontano la propria opera. La valuta piuttosto con le mani, privilegiando l’esplorazione e la creazione tattile. Non concede quasi sguardo all’opera in corso di fabbricazione, come si può vedere nel documentario a lei dedicato da Philippe Lespinasse7. Gli occhi persi nel vuoto, procedendo alla cieca ma tenendo il capo del filo, lei lavora con gesti lenti e ripetitivi, utilizzando soprattutto il senso del tatto per dare corpo alla propria scultura così come per valutarne equilibrio e stabilità8. La sovrapposizione dei fili e il loro intreccio, come i collegamenti e i nodi, generano una straordinaria rete tessile e una ragnatela complessa. Le opere sono vivacemente animate dai diversi colori, materie e spessori delle fibre utilizzate; ma se ne sprigiona anche una forte tensione grazie alla fermezza con cui fili e filamenti
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sono tirati e intessuti. Disordine e selvaticheria si stringono lasciando emergere una tecnica inedita e innovatrice, che si situa a mille miglia di distanza dai lavori tessili tradizionali (ricamo, cucito, maglia, merletto) che, dovendo seguire un modello, implicano la negazione di ogni iniziativa personale e immaginativa. Al contrario, Scott si lancia da perfetta autodidatta in un procedimento prodigiosamente libero, inventivo e anarchico9. Quando la creatrice giudica terminata la sua scultura, se ne disinteressa, senza preoccuparsi del suo futuro o della sua conservazione, impaziente di consacrarsi alla produzione successiva. Non c’è bisogno di dire che nessuna finalità guida il suo lavoro e che lei non manifesta nessun desiderio di riconoscimento o di approvazione. Con ogni evidenza, Judith Scott è interessata solo al processo creativo – al periodo di fabbricazione. Ma, senza dubbio, le sculture in sé hanno un ruolo non indifferente nel manifestare la loro presenza fisica – quella dell’Altro – nel corso della febbrile attività di creazione10. Il metodo di Judith Scott implica così un processo che può sembrare paradossale, dato che introduce da un lato la dissimulazione e l’occultamento e, dall’altro, la crescita, la messa in forma. Nell’avventura simbolica che ha scelto, Scott nasconde e crea allo stesso tempo. La riunione fisica ed emotiva con la sorella ha portato Judith Scott a recuperare un’identità, poi a sviluppare un’esperienza intima nel registro onirico per sublimare la lacerazione gemellare di cui è stata vittima. Se generalmente l’artista crea l’opera, nell’Art Brut, al contrario, è l’opera che crea il soggetto. Per vent’anni e più, mossa da un’energia centripeta, Scott mummifica all’infinito una creatura che avvolge con cura. Quel corpo rubato, perduto, che le fu sottratto, sembra essere, metaforicamente e progressivamente, sepolto da Scott, come un defunto. Ma, allo stesso tempo, lei fa sbocciare
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opere, simili a bozzoli, che paiono contenere anche la vita. Il suo rituale creativo comporta perciò, simultaneamente, un seppellimento e una resurrezione. Il suo gesto può essere d’altronde visto come un atto dal valore terapeutico. Ricorda stranamente certi feticci africani, del Mali o del Benin, il cui simbolismo viene spiegato in questi termini dall’antropologa Nanette Jacomun Snoep: «Avvolgere degli oggetti con strati di stoffa serve a rimettere in ordine il corpo e lo spirito, bendati, riparati e cuciti […]. Serve anche a nascondere la presenza che sottratta ai nostri sguardi conferisce più potere all’oggetto. Si crea così un effetto di segreto: l’oggetto appare sempre più inaccessibile»11. Ciò vale anche per altri oggetti magici, in particolare della Nigeria e del Congo, dove una forma è posta dentro un groviglio di nodi, affinchè gli indovini «possano catturare e poi controllare quei poteri di cui padroneggiano l’arte della manipolazione»12. L’antropologa conclude: «Annodando, connettendo e legando alcuni elementi, si catturano forze, le si doma e si recupera»13 Queste procedure singolarmente simili, adottate da una creatrice americana e da un indovino congolese all’interno di culture radicalmente differenti, rivelano l’universalità dei linguaggi simbolici istintivi e arcaici. Motivati ambedue da forze potenti, essi ci conducono in un universo che ci schiude la sua ‘inquietante estraneità’. Ma la ricerca di Judith Scott non è anche ricerca di un paradiso perduto? La creatrice non esorcizza una realtà a lei ostile, dalla quale distoglie deliberatamente lo sguardo?Non si concentra su una invisibilità, quale quella percepita nel ventre materno? Michel Thévoz propone un’interpretazione perturbante, nella quale suggerisce che Judith Scott «tesse ossessivamente il suo sudario» e «inverte in qualche modo il percorso di Euridice»; intenderebbe così «fuggire la realtà,
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alla quale un solo sguardo la riporterebbe»14. La Collection de l’Art Brut possiede 11 sculture tessili di Judith Scott, un insieme molto rappresentativo della sua produzione che conta in tutto 121 opere. Quasi tutte sono state donate da Tom Di Maria, direttore del Creative Growth Art Center. Quando Judith Scott è morta tra le braccia della sorella Joyce, nel 2005 all’età di 62 anni, Tom Di Maria ha deciso di donare al museo di Losanna anche l’ultima opera della creatrice: una composizione fatta di fili di lana di un solo colore, antracite scuro.
Traduzione dal francese di Eva di Stefano L’autrice ringrazia calorosamente Joyce Scott e suo marito, Tom Di Maria e lo staff del Creative Growth Art Center, Anne-Lise Delarétaz, Mali Genest, John M.MacGregor, Philippe Lespinasse, Gilles Abravanel et Michel Thévoz. Il saggio è stato originariamente pubblicato in francese in L’Art Brut, n. 24, 2013 Collection de l’Art Brut, Losanna, 2013, che si ringrazia per la gentile concessione del testo e delle immagini. 1
Cfr. la monografia di riferimento di John M.MacGregor (primo e principale esegeta di J. Scott), Metamorphosis. The Fiber Art of Judith Scott, Oakland, Creative Growth Art Center, 1999. Molte informazioni raccolte nel presente articolo provengono da conversazioni con Joyce Scott, e dalla nostra corrispondenza via mail tra il 2009 e il 2012.
Cfr. «Conversation with Joyce Scott» de James Brett, in Museum of Everything, Exhibition 4.1, 2011, pp. 3-11. Cfr. anche il libro autobiografico (in corso di pubblicazione) di Joyce Scott, The Colors of Gone (dattiloscritto, Archivi della Collection de l’Art Brut, Losanna).
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Judith subisce il destino riservato a quel tempo alla grande maggioranza dei bambini trisomici, o sofferenti di malattie simili. Ma, l’equilibrio della famiglia Scott entra in crisi. La madre si ammala in preda a una depressione che necessita l’ospedalizzazione, mentre il padre è colpito da un infarto che lo rende invalido. Morirà prematuramente quattro anni dopo e la famiglia si ritroverà in una situazione finanziaria difficile.
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Neanche la stessa Joyce è preparata alla partenza definitiva della propria sorella gemella, nè viene minimamente informata di questa notizia.
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Il Creative Growth Art Center, diretto da Tom Di Maria, è un atelier di espressione per persone con disabilità mentali, neurologiche o con problemi psichiatrici. È un centro indipendente dalle istituzioni sanitarie, e si sviluppa in modo privato e autonomo. Disegno, pittura, scultura, in particolare, sono le attività proposte, senza essere imposte o guidate.
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La retrospettiva organizzata alla Collection de l’Art Brut di Losanna, nel 2001, ha privilegiato infatti la sospensione delle opere nello spazio perchè il pubblico potesse fruirne da differenti punti di vista.
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Cfr. J. M.MacGregor, op. cit., p. 171, e il documentario di Philippe Lespinasse, girato alcune settimane prima della morte della creatrice, Les cocons magiques de Judith Scott, Losanna/Bordeaux, Collection de l’Art Brut/Lokomotiv Films, 2006 (36 min.).
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Quando Tom Di Maria le ha offerto qualche rivista, ricordo che ha accolto il dono con entusiasmo, senza guardarlo ma toccando, annusando e leccando la carta. Sono i sensi che, da sordomuta, ha sviluppato con la sorella gemella durante la prima infanzia.
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Judith Scott applica alla propria persona un procedimento analogo indossando turbanti, fasce e cappelli che sovrappone sulla testa.
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Cfr. J. M. MacGregor, op cit, p. 79.
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N. Jacomun Snoep, Objets et gestes, in Recettes des Dieux. Esthétique du fétiche, Musée du quai Branly, Arles, Actes Sud, 2009, p. 16.
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Ibid, p 22.
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Ibid.
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E- mail di Michel Thévoz all’autrice, 23 ottobre 2012.
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Nella pagina seguente: Judith Scott, scultura tessile, 2005
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PITTOGRAFIE, COLLAGE, VARIAZIONI: IL CORANO DI DUNYA HIRSCHTER di Graciela García
APPROFONDIMENTI
Musa del teatro sperimentale, convertita all’Islam, con le sue creazioni/preghiere tessili Dunya Hirchter continuò a mettere in scena se stessa anche nei folli anni bui della solitudine e della miseria
Dunya Hirschter durante il periodo al Globe Theatre
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Un’esistenza travagliata Dunja Koprolčec-Burić (successivamente conosciuta come Dunya Hirschter) nacque in Croazia il 18 marzo del 1954. Studiò inglese e letteratura comparata all’Università di Zagabria e all’età di sedici anni debuttò nel mondo del teatro. Nel febbraio del 1975 entrò a far parte del gruppo del Globe Theatre, che è stato il punto di riferimento del teatro sperimentale balcanico nella seconda metà degli anni settanta fino all’inizio degli anni ottanta, e la cui influenza dura fino ai giorni nostri. Il gruppo aveva un carattere sperimentale marcato e Dunya fu la più radicale tra i suoi membri e secondo alcuni ne fu la leader. La sua personalità coinvolgente e impetuosa la spingeva a portare l’arte al limite, a fonderla con la vita. A quell’epoca la Croazia viveva un momento simile a quello della Transizione spagnola, un momento di esplosione delle libertà intensificatosi con la morte di Tito nel 1980. Fu un periodo di audacia e ribellione, le proposte controculturali ricevevano grande attenzione e sperimentare era il massimo, sia sul piano culturale che su quello delle droghe. All’epoca l’LSD era molto diffuso tra gli artisti e la famiglia di Dunya sospettava che il comportamento estremo che osservavano in alcune occasioni fosse dovuto al consumo di sostanze allucinogene. L’inizio degli anni ‘80 fu per Dunya un periodo caratterizzato da viaggi e in particolare dalla scoperta della città marocchina di Tangeri, meta di molti hippies e artisti del tempo. Non si sa con certezza cosa accadde lì, ma il Marocco fu per lei un’esperienza intensa. Il punto
di convergenza tra le due Dunya, la Dunya artista e la Dunya che finirà per diventare una vagabonda. Tra le altre cose, si sa che lì si convertì all’islamismo determinando la sua separazione da Zlatko Buric, oggi famoso attore residente in Danimarca, col quale aveva condiviso la passione per il teatro ma non l’interesse per l’Islam. All’inizio pensava che anche lui si sarebbe convertito, che l’avrebbe seguita, ma non fu così e Dunya decise quindi di separarsene. Dopo quel primo viaggio, Dunya tornò periodicamente in Marocco e, durante uno dei suoi soggiorni, si innamorò di un uomo musulmano che voleva sposarla. La sua famiglia però non l’accettò e Dunya visse questa delusione come un avvenimento tragico. Pensava di essere stata vittima di una stregoneria e si sentì disgraziata per il resto della sua vita per essere rimasta sola e senza figli. La sua ultima apparizione sulla scena risale al 1984 per la rappresentazione dell’opera Fashion Show, dopo la quale si ritirò dalla vita pubblica. Da quel momento visse in varie parti del mondo senza preoccuparsi nè di visti nè di permessi di soggiorno, un comportamento che le costò la deportazione nella sua città natale, Osijek, dove viveva il fratello. Non volendo restare in Croazia nè tantomeno volendo vivere con il fratello, tornò in Spagna dove cambiò il suo nome con quello di Dunya Hirschter. Si dice che il cognome Hirschter lo abbia preso da quello di una zia che l’aveva cresciuta dopo la morte della madre. In Spagna visse un anno a Madrid nel parco della Moschea della M30, vivendo grazie alla carità della comunità musulmana e dormendo dentro la moschea. Per Dunya fu un periodo durissimo, si sentiva abbandonata ed era vittima di frequenti crisi nervose durante le quali credeva di udire delle voci e di essere perseguitata. Nel parco cominciò a ricamare un grande mantello, che purtroppo è andato perduto. Da lì andò a Malaga dove conobbe una coppia di Granada
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Dunya Hirschter a Granada dopo la conversione all’Islam
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che le offrì un lavoro e la portò con sè in questa città che lei già conosceva e amava. Granada era per lei il simbolo della convivenza tra musulmani, cristiani ed ebrei. Il lavoro purtroppo durò poco perchè Dunya aveva un comportamento strano che spaventava la gente, e si trovò a vivere di nuovo di carità. Cominciò un altro periodo difficile per lei, ma mai uguale a quello madrileno, dato che Granada è una città piccola, accessibile e soprattutto con una comunità musulmana grande e molto unita. Difficilmente Dunya aveva degli introiti, se non una piccola pensione che suo fratello le mandava dalla Croazia. Le donne della comunità musulmana si occupavano delle sue necessità, portandole cibo e vestiti. Non lavorava per guadagnare denaro, da un lato non riusciva a mantenere i suoi impieghi, dall’altro la vita in questo mondo aveva smesso di interessarle. Non vendeva neanche le sue creazioni, ma qualche volta realizzava qualcosa per un’amica in cambio di denaro. Si dice che passasse molte ore nella moschea occupando sempre lo stesso posto, dietro il paravento che delimita l’area per le donne, con il suo Corano tra le mani, vestita in maniera stravagante con abiti molto vecchi personalizzati da lei. Nella moschea di Granada trovò quanto di più vicino a una casa e a una famiglia. Non riusciva però a integrarsi completamente perchè non parlava bene lo spagnolo e perchè, salvo alcune eccezioni, la prendevano per matta. La mancanza di relazioni sociali le causava molta
sofferenza, finì così per isolarsi sempre di più, rifugiandosi nella religione e nella creazione di ricami, disegni e collage. A volte non usciva da casa per giorni, dedicandosi in maniera fanatica alle sue opere e allo studio del Corano, ora dopo ora, senza mangiare nè dormire. I suoi vicini raccontano che arrivò a buttare acqua giù dalla finestra in varie occasioni, perchè disturbata dai rumori della strada che le impedivano di concentrarsi. Quando suo fratello ritardava a mandarle la pensione o quando pensava di stare per perdere la sua piccola casa all’Albaicìn, soffriva di crisi nervose che spaventavano i vicini e che le costarono il ricovero in ospedale, dove le venne diagnosticata una forma di schizofrenia e fu sottoposta a un trattamento molto duro di psicofarmaci. Dunya era consapevole della sua malattia e ne soffriva, ma rifiutava le terapie per cui passava da momenti di lucidità a stati di delirio. Sembra quasi che in un certo senso si lasciasse consapevolmente trasportare dai momenti di crisi, considerato che era anche capace di mantenere sempre il controllo quando si trovava davanti a persone che
In basso: Opere di Dunya Hirschter, s.d.
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rappresentavano un’autorità, come un medico o l’Imam. Era ossessionata dal matrimonio visto che in quanto musulmana non poteva avere una relazione extramatrimoniale, perciò si sentiva terribilmente sola. Ogni volta che aveva una forte alterazione, questo tema emergeva sempre come un perno centrale. Oltre la storia reale del matrimonio troncato, coltivava un amore platonico: sognava di sposarsi con David Bowie. La gente di Granada che l’aveva conosciuta prima della sua fase psicotica (dal Marocco era infatti andata varie volte a Granada) la ricordava come una figura espansiva che suonava meravigliosamente il pianoforte con i capelli biondi scompigliati dal vento. La Dunya di allora era profondamente diversa, adesso invece covava dentro un’amarezza che poteva arrivare a sembrare misantropia e che la rendeva antipatica a molta gente. Nonostante tutto, incontrò persone che seppero valorizzare il suo lavoro e che l’apprezzarono come persona. Quando si trovava bene era un’ottima conversatrice con una visione del mondo molto originale. Conobbe anche persone che tentarono di curarla con la medicina alternativa, ma che però non riuscirono a farle completare i trattamenti. Passarono così gli anni a Granada: sempre più isolata, senza essere capita dalla gente del quartiere che vedeva in lei solo una donna alta e strana, vestita con abiti colorati e fazzoletti sulla testa. Dal carattere duro e dal marcato accento croato. Un’amica andava a trovarla ogni tanto e, dopo non averla vista per giorni, chiamò la polizia per forzare la porta di casa: la trovarono seduta in cucina, morta. Era da tempo che diceva di voler morire e sembra che, in qualche modo, tutto fosse stato pianificato. La causa della morte fu un arresto cardiaco. Aveva 55 anni. Fu seppellita il primo gennaio del 2009 al cimitero musulmano di Granada. Alla sua morte, in virtù del suo ruolo come parte integrante del Globe Theatre, furono pubblicati alcuni necrologi che
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raccontavano parte della sua vita e che le resero omaggio. Malgrado questo postumo riconoscimento, Dunya morì sola e completamente lontana dal quel suo breve passato di gloria. La sua tomba può essere visitata nel bellissimo cimitero musulmano di Granada che si trova vicino l’Alhambra. Sulla lapide non c’è alcuna iscrizione. Collage e indumenti L’opera di Dunya è formata essenzialmente da collage, indumenti e accessori mischiati. Una menzione a parte merita quella che potrebbe essere la sua opera principale, il Corano che utilizzava come diario per la preghiera e lo studio dell’Islam. I collages di Dunya sono composizioni a vari strati che mischiano il disegno dai motivi ornamentali con la stampa, molto fine e minuziosa, su carta vegetale. A volte incorporava elementi che trovava per strada come bucce della frutta o vegetali: rametti, foglie, baccelli, etc. Aveva una tale scarsezza di mezzi e una necessità così grande di esprimersi che la maggior parte dei disegni sono lavorati da entrambi i lati e, inclusi gli strati nascosti, possono
In basso: Abiti di Dunya Hirschter, s.d.
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essere ricoperti da minuscole frecce e adorni di colori dove non resta neanche un millimetro di foglio scoperto. Dunya non poteva smettere di usare l’arte come mezzo principale per esprimere i suoi sentimenti. È possibile che attraverso i suoi abiti decorati volesse proclamare la sua singolarità e proteggersi dal proprio trambusto interiore così come dalle occhiate incomprensive della gente. Colpisce il contrasto tra l’idea oscura che i vicini avevano di lei, un’immagine di donna scontrosa, con un duro accento slavo, inflessibile (sembra fosse molto aggressiva se, per esempio, a qualcuno suonava il cellulare dentro la moschea) e il colore e la vitalità che rovesciava invece nelle sue creazioni tessili. Questo atto di civetteria come adornare con colori e dorature gli occhiali, il ventaglio e ciascun dettaglio del suo vestiario, sembra dimostrare che in lei esisteva un mondo allegro e ricco da offrire a cui la maggior parte della gente, per mancanza di una chiave, non poteva o non voleva accedere. Quando ci si imbatte nel suo processo creativo e si osservano le sue creazioni, i suoi collage, i suoi ricami, il Corano, si ha la sensazione che il tempo si sia fermato. Le sue opere risultano affascinanti perchè la nozione di tempo, così come noi la intendiamo, viene sospesa. Si arresta la tirannia dell’utilità. In questa società dove tutti i compiti devono essere giustificati e ogni minuto essere ottimizzato, raramente vengono presentati oggetti che dissolvono il concetto di tempo, facendolo galleggiare, banalizzandolo. Proprio in questa relazione con il tempo risiede il potere delle creazioni di Dunya, questo strano alone che le avvolge e le converte in oggetti caricati di qualcosa che non sappiamo descrivere. È come se una parte di Dunya fosse rimasta catturata tra i suoi ricami e tra le sue pagine. Qualcosa di spirituale e anche qualcosa di fisico, i suoi umori corporei: il pianto e il sudore che fanno da patina al suo libro usurato. I suoi abiti sono il risultato di un atto molto intimo di
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comunione tra la persona e l’immaginario che si costruisce per coprirsi e presentarsi di fronte al mondo. Dunya soffriva uno scollamento tra la realtà e l’idea che aveva del suo destino. I suoi vestiti ci ricordano altre opere di outsider art realizzate da donne con disturbi psichiatrici, come il vestito da sposa che Marguerite Sirvins cucì con i fili presi dalle sue lenzuola; come il diario ricamato sulla giacca della sua uniforme, sia dentro che fuori, da Agnes Richter; o il misterioso insieme conosciuto come La Robe de Bonneval, concepito come un abito da cerimonia per la riconciliazione di una coppia che non si sarebbe mai più incontrata. Si tratta di opere dove gli indumenti sono un oggetto simbolico che pretendono di alleviare una mancanza dolorosa, una carenza di libertà, di ragione, di amore o semplicemente di una vita “normale”. Il Corano Per quanto riguarda il Corano, noi ne parliamo come se fosse un’opera, però naturalmente questo è, in un certo senso, un atto di snobismo con cui ci permettiamo di estrarlo dal contesto, poichè per lei era invece un oggetto di culto verso cui professava massimo rispetto.Rappresentava il centro della sua fede e una fonte inesauribile di studio. È singolare dato che in genere e per lo più il “rispetto” si manifesta come una sorta di paura a intervenire sul “rispettato”. La maggioranza delle persone che rispettano qualcosa non osano quasi neanche toccare il loro oggetto di venerazione. Ancora più strano è quindi incontrare una forma di “rispetto” come quello di Dunya che dialoga, manipola e trasforma l’oggetto.Dunya doveva sentire il suo Corano come una parte talmente intima di sè che lo manipolò in completa libertà. Lo migliorò esteticamente, lo rese più funzionale, ritagliando carta in eccedenza e aggiungendo linguette per maneggiarlo meglio. Ne bruciò alcune pagine, forse intenzionalmente (bruciava spesso parte delle sue opere perchè le piaceva o le sembrava spirituale
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Collages di Dunya Hirschter, s.d. Nella pagina a fianco: Il Corano di Dunya Hirschter, s.d.
l’effetto del foglio bruciato). Lo sottolineò con l’evidenziatore, lo disegno, colorò e anche lo inghirlandò nella parte inferiore, forse sotto uno stato di coscienza alterato dato dal lavoro prolungato. Ne cambiò anche il dorso e lo ricamò con fili colorati, creando una sconvolgente e caotica composizione che meraviglia e sorprende.
Traduzione dallo spagnolo di Enrica Bruno Si ringrazia Moumina Wagner, Nadja El-Shohoumi e Jessica Moroni per le informazioni fornite. Bibliografia essenziale: G. García Muñoz, Arte outsider. La pulsión creativa al desnudo, Editorial Sans Soleil, Barcellona 2015, pp.148-150 Sito web di Dunya Hirschter: http://dunyahirschter.blogspot.com.es/p/biografia-dela-artista.html El Hombre Jazmín: www.elhombrejazmin.com
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BIRDMAN, L’UOMO - UCCELLO CHE SCARDINA LE GABBIE
di Nina Katschnig & Birdman Hans Langner
STORIE DI CONFINE
Out o In? Storia di un artista e performer contemporaneo che nel segno della libertà e leggerezza mette in crisi le definizioni
Nella pagina a fianco Performance di Birdman Hans Langner, 1996
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«Nome d’arte e tema mi sono stati donati dai cinesi ad Hong Kong tra il 1996 e il 1997. Mi sono volati incontro nel vero senso della parola» L’artista multimediale Birdman Hans Langner, già insignito di due premi per la cultura1, nato nel 1964 a Karlsruhe, ha iniziato a lavorare artisticamente all’età di 25 anni, e dal 1994 espone le sue opere in numerose mostre in Europa, Taiwan, Korea, Giappone e Cina. Nel 1996 una performance a Hong Kong ha cambiato la sua vita. Da quel momento, l’azione performativa è diventata il centro del suo lavoro e, meno tempo ha per prepararla, tanto più creativo diventa. Quella volta, in uno spazio di soli tre giorni dovevano essere realizzati costume, scenografia, suono e luci. In occasione di quella performance che gli indicò la via, alle ore 18 del terzo giorno tutto era pronto tranne il costume. Gli ospiti erano attesi per le 20 e quindi restava poco tempo. Seguendo una folgorazione improvvisa, decise di rivestire di piume il proprio corpo. Strappò il cuscino lasciando piovere fuori le piume. Nel frigorifero trovò un grande barattolo di miele. Se lo spalmò sull’intero corpo, si infilò nel cuscino strappato e iniziò la sua prima trasformazione in uccello, mentre le piume gli si incollavano addosso. Da questo momento, decise di dedicare la sua attività artistica e performativa a questo tema. Davanti al pubblico si trasformava da uomo in uccello o viceversa. Già stava perimentando da alcuni mesi questa azione, quando un giornalista scrisse: “The Birdman of Hongkong”. Da allora decise di chiamarsi Birdman, l’uomo-uccello e dal 1997 la rappresentazione di uccelli con i più svariati media diventò il suo tema principale. Dopo che un cinese, in occasione di una sua performance, ebbe a dirgli: «Tu sei un uomo-uccello, ma non dipingi uccelli», iniziò la stessa sera a dipingere uccelli. L’opera di Hans Langners è versatile e dominata da un linguaggio formale semplice e
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originale che sviluppa continuamente. Spesso i suoi uccelli nascono dal suo sguardo fresco e diverso su un oggetto qualsiasi e vengono creati con poche pennellate. Vivono di chiarezza ed essenzialità: per lo più un triangolo per il becco, un cerchio per il corpo, un punto per la pupilla, e due strisce verticali per le zampe. Così, ad esempio, nascono sia tele dipinte con colori acrilici che delicati disegni ad inchiostro su carta di vario tipo; egli adopera su legno sia inchiostro per pennarelli che acrilici, ogni limitazione di materiali gli è estranea. Si considera come un cacciatore e un collezionista e trova i suoi materiali al mercato delle pulci, su e-bay, nelle discariche e dai rigattieri, lungo i fiumi o in cantine varie. Ogni oggetto per Hans Langner diventa materiale potenziale. Lo attira scoprire uccelli in un oggetto preesistente, a volte ruotandolo semplicemente o evidenziandolo con poche pennellate. Capita che gli uccelli non gli si rivelino subito ma, una volta che li ha scoperti, gli appare incomprensibile non averli visti al primo colpo. Nel 2000 realizza l’affollatissimo ambiente dell’installazione Forever Friends presso il Museum de Stadshof a Zwolle, in Olanda, adesso esposta in permanenza al Museum Dr. Guislain di Gent, in Belgio. Anche la facciata della sua abitazione di Bad Tölz è diventata un’installazione che può essere ammirata fino al 2017 davanti a Villa Gugging2. Da un anno si dedica principalmente alla ri-pittura di arazzi Gobelins. «Attraverso i Gobelins il mio lavoro è fondamentalmente cambiato e si è arricchito. Dopo 25 anni di produzione artistica ho riscoperto l’amore per l’arte» La sua scommessa artistica consiste nel riconoscere nell’opera preesistente gli ucccelli per evidenziarli ridipingendo lo sfondo. Birdman adesso non dipinge più uccelli come ha fatto per 18 anni. Si dedica invece allo sfondo – l’essenza, come dice egli stesso. Ma, Hans Langner ama anche e sempre lavorare a installazioni
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che riempiono lo spazio. In situ si lascia ispirare dai luoghi con spontaneità e senza preclusioni, affidandosi totalmente all’intuizione per creare qualcosa di unico. Nel 2015 a Lagos (Portogallo) si è lasciato rinchiudere per
Ratzenwinki, assemblaggio, materiali vari, 2014
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Orientation, tecnica mista su tela, 2015
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Forever Friends, installazione permanente, Museum Dr. Guislain, Gand, 2000
Pleased 93 message, pittura su arazzo Gobelin, 2014
Free the birds, installazione presso l’ex carcere 94 di Lagos, 2015
Atelier viennese di Birdman presentato alla Vienna Fair, ottobre 2015
Facciata della sua casa trasferita 95 e installata a Villa Gugging, Vienna
48 ore nella una cella di isolamento di un ex-carcere, oggi utilizzato come luogo d’arte e cultura. Durante queste ore è nato il progetto Uncagement, in cui trasforma oppure distrugge gabbie, in modo che nessuna creatura vivente possa più essere tenuta prigioniera là dentro. Due giorni dopo la sua autocarcerazione di 48 ore, si è trasferito nuovamente nella cella per le restanti tre settimane del soggiorno previsto. Durante questo periodo, ha dipinto il soffitto e le pareti nei colori della cella – bianco e nero. Per completare l’installazione, vi ha lavorato ancora nei primi due mesi del 2016, producendo innumerevoli creazioni da oggetti di uso quotidiano. Gli uccelli così creati venivano collocati nella cella la cui porta restava aperta. Il titolo del progetto è Free the birds. «L’arte è il mio elisir di vita. Il bisogno quotidiano di creare mi appaga & mi pacifica» Hans Langner crea, come i suoi colleghi artisti della Galleria Gugging3, la propria arte spontaneamente e intuitivamente. Questo approccio minimale, fresco e semplice, senza formazione artistica, fa di lui un artista dell’Outsider Art. Artisticamente è un anticonformista che non tiene conto di tendenze e correnti. Crea dalla propria interiorità e e ci guida attraverso il suo originale universo di fascinazioni. Nei suoi lavori, soprattutto nelle sue installazioni, si rispecchiano ruvida elementarità e immediatezza. Egli trae la sua ispirazione da ciò che preesiste e si lascia guidare dai materiali. La particolare forza espressiva rende le sue opere inconfondibili nella semplicità e chiarezza. «La mia sfida artistica consiste nel rappresentare l’uccello in modo sempre più schematico e, in questo processo di riduzione, produrre allo stesso tempo un’infinita varietà, e in seguito metterlo in scena in modo sempre nuovo nelle installazioni ambientali»
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Traduzione dal tedesco di Eva di Stefano 1
NdR. Premio della cultura a Hong Kong, 1997, e Tassilo-Kulturpreis der Süddeutschen Zeitung, Monaco 2000-2001. Per ulteriori notizie sull’artista si veda il suo sito: www. birdman.de/
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NdR. Bad Tölz è un piccolo comune della Baviera, dove l’artista ha abitato dal 2000 al 2013, trasformando la propria casa di legno in un’opera d’arte totale. Oggi la casa è diventata una casa d’artista itinerante, e la prima tappa del suo viaggio è Villa Gugging, edificio di fronte all’omonimo museo, poco distante da Vienna, dove Birdman ha installato e riproposto la facciata decorata della propria abitazione adesso dismessa.
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NdR. La Galleria, fondata nel 1994 e diretta da Nina Katschnig, fa parte del Centro d’Art Brut di Gugging, a 20 km. da Vienna, inizialmente nato (nel 1981) come centro di psicoterapia artistica, in seguito diventato Museo a cui è annessa una Casa degli Artisti con abitazioni e atelier. La Galleria affianca il Museo, svolgendo una propria attività espositiva e cura l’aspetto commerciale della produzione degli artisti del Centro.
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STORIE DI CONFINE
Ha trasformato un vecchio camion in una galleria ambulante. A Seattle un creatore poliedrico che non si riconosce nelle definizioni
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IL PERFEZIONISMO È NEMICO DEL BENE. CONVERSAZIONE CON TIM FOWLER, L’ARTISTA MECCANICO di Mari Acccardi
Tim Fowler è uno scultore, pittore, incisore, serigrafo, meccanico, motociclista. L’attività artistica e quella più strettamemente pratica sono sempre andate di pari passo. D’altronde, dice lui, vengono usate due parti diverse del cervello e una volta che ne padroneggi una sei pronto anche per l’altra. Per anni si è guadagnato da vivere riparando i tetti ma ora che si avvicina ai sessant’anni è diventato pericoloso. Tutto quello che fa l’ha imparato da autodidatta osservando chi ne sapeva appena un po’ più di lui, perché, semplicemente, non riesce a stare fermo. Non si considera bravo, le sue opere, dice, sono tutt’altro che perfette, ma l’importante secondo lui è fare: Perfection is the enemy of good. Ho notato casa sua mentre passeggiavo nelle strade collinari di Central District, a Seattle, ospite di amiche. E’ uno dei quartieri più antichi e multietnici della città. Durante la segregazione razziale ospitava la comunità afro-americana che da qui ha iniziato il movimento per i diritti civili. Abitato adesso da famiglie, giovani lavoratori, artisti che non possono permettersi di vivere in centro, il quartiere si sta trasformando ancora una volta. Le case di legno colorate su un piano sono a volte intervallate da costosissime villette di cemento sviluppate in verticale, con il giardino in terrazza. Per guadagnare spazio e individualismo, teme la gente del vicinato che ogni settimana riceve proposte di vendita dagli agenti immobiliari. Lo stesso avveniva negli anni 80, quando vi si è trasferito dal Massachusetts un giovanissimo Tim Fowler, dopo aver viaggiato per il mondo in autostop, collezionando lavori. Con i pochi risparmi ha comprato una casa che il proprietario aveva abbandonato, senza elettricità, senza acqua corrente, senza neppure finestre. Pazientemente l’ha riparata, da solo, e l’ha protetta dalla ruspe. Una delle sue sculture, della serie Man against the society, rappresenta un uomo a tre braccia che ingurgita case e vegetazione per poi evacuarle in blocchi di cemento. È uno
di quelli che lui definisce wooden political cartoons, fumetti di legno a sfondo politico. La didascalia recita: Suburbia is where the developer bullzozers out the trees, then name the streets after them (La periferia è dove i costruttori hanno dato alle strade i nomi degli alberi che le loro ruspe hanno abbattuto). Central District in quel periodo, e fino al 2000, era una zona piuttosto malfamata: se per caso dimenticavi un attrezzo in cortile un attimo dopo era scomparso. Per questo motivo sul tetto Tim ha scolpito un guardiano armato di fucile, una versione sarcastica dello zio Sam, come richiamo all’uso spasmodico delle armi in America. In un’altra scultura lo stesso zio Sam in miniatura viene mangiato da un serpente gigante. Di fronte al guardiano c’è un diavolo accovacciato. Casa di Tim si trova all’angolo tra due viali ordinati e identici. Da un lato è chiusa da una cancellata di mosaico in stile Gaudì, primo ispiratore, dalla forma e dai materiali irregolari (pietre, frammenti di bottiglie, di piatti, mattonelle, bottoni, plastica) con dei buchi abbastanza grandi da far intravedere il cortile. Posteggiato dall’altro lato, troneggiante, l’Art truck, un furgone d’epoca trasformato in galleria d’arte su quattro ruote. Tim indossa una camicia a scacchi, nel tipico stile grunge di
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Seattle, e jeans macchiati di calce. Gli chiedo se posso dare un’occhiata e lui mi accompagna passo passo e mi invita addirittura dentro. Le mie amiche, sue vicine da anni, non avevano mai osato chiederglielo. Mi spiega che il furgone è stato progettato prima della seconda guerra mondiale, nel ‘36, e non veniva messo in moto dagli anni ‘50. Ha impiegato un anno e mezzo a ricomporre quello che lui definisce un mechanical puzzle. Dice di essersi sentito una specie di Dr Frankestein risvegliando qualcosa di così grande. Dopodiché ha avuto l’idea di riempirlo di scaffali, come nelle biblioteche ambulanti, solo che al posto dei libri avrebbe messo le sculture. Purtroppo a causa della lentezza del mezzo (70km/h) e dall’alto numero di discese e salite, può usarlo poche volte l’anno, perlopiù in estate, durante eventi organizzati da amici, come ad esempio il Cross pollinate a Georgetown. Auto e moto d’epoca sono il leitmotiv della sua produzione. Oltre a salvarle dallo sfascio, metterle a nuovo, guidarle e rivenderle una volta acquisito valore di mercato, nel garage di casa sua ha creato Il museo delle moto ordinarie, con una quindicina di esemplari, e dai pezzi di scarto crea delle maschere futuristico-primitive. Il cortile, aperto ai curiosi, è pieno di sculture in legno, mosaico e ferro e all’interno della casa non c’è un solo angolo vuoto, tanto che non riesco a sedermi. Vorrebbe vendere le sue opere soltanto per non venirne seppellito. E ultimamente, nello sforzo di promuoversi un po’ di più, sta iniziando a usare un computer. Anche il cellulare – vecchissimo modello – è un acquisto recente, ma solo perché è diventato quasi impossibile trovare cabine a gettoni. In quello che in origine doveva essere il salone tra i poster appesi c’è il castello ideale del postino Cheval, tra le riviste “Raw Vision” (dove sono state pubblicate alcune delle sue opere), tra i libri Fantasy Worlds1, quella che lui considera la sua Bibbia. Molti lo definiscono un artista outsider ma lui
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non crede sia una definizione appropriata. “Mio padre si è laureato a Yale” dice. Rispetto a molti artisti outsider ha avuto un’infanzia spensierata, senza traumi, e fare arte per lui non è stata una necessità ma una scelta. Sebbene con le sue opere guadagni un terzo o anche un quarto della rendita annuale, soltanto per avere la possibilità di farle si sente l’uomo più fortunato del mondo. Dopo il liceo non aveva nessuna aspirazione. Non era un bravo studente, non se la cavava né nelle attività sportive nè nelle materie artistiche. Era un ribelle il cui unico interesse era quello di stonarsi. A scuola però aveva imparato le basi dell’incisione e le prime opere, intorno ai sedici anni, sono state pipe di legno con animali intagliati, che vendeva ai compagni. Il suo diario non era scritto ma inciso. La sua vita era illustrata con delle figurine di legno abbastanza piccole da entrare in tasca. La prima raffigurava tre impiegati nell’ufficio di un’autofficina, mentre bevono seduti alle scrivanie. Non era stato difficile vendergliela. Per un breve periodo aveva lavorato nella fabbrica di cui il padre era supervisore. Voleva prendersi i due mesi estivi per esplorare il mondo e il padre gli aveva fatto notare che minimo avrebbe avuto bisogno di un anno, così era arrivato fino in Australia e in Nuova Zelanda, facendo qualsiasi lavoro gli capitasse. In una scatola di scarpe sono conservate le figurine/polaroid di quell’esperienza: lui che fa l’autostop, che trasporta mobili, gli operai della cartiera che guardano fuori dalla finestra, i raccoglitori di mele Smith che fanno un pisolino e altre scene di vita quotidiana. Finiti i soldi, non aveva ancora un piano, ma erano gli anni ‘70, c’era un clima di libertà e la scelta di escludere l’Università non aveva deluso i genitori più di tanto. Una cugina designer a cui aveva mostrato i lavori gli aveva consigliato di non fare una scuola d’arte perché le critiche a cui sarebbe stato esposto lo avrebbero fatto desistere (consiglio che poi, nel futuro, si
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sarebbe rivelato perfettamente in linea con la sua filosofia). Aveva comunque deciso di prendere alcune lezioni in un’importante scuola di intaglio sul legno nel North Carolina e lì aveva capito di essere ancora un cattivo studente e di non avere quel tipo di precisione e attitudini richieste. Quella non era arte, era mestiere, dice. Così, appoggiandosi inizialmente da sua sorella che viveva a Seattle aveva deciso di limitarsi a “creare”. Perfection is the enemy of good, continua a ripetere. Meglio finire un progetto per poi relegarlo in un angolo piuttosto che non iniziarlo affatto per paura di fallire. NdR. A. Taschen, J. Maizels, Fantasy Worlds, Taschen, Colonia 1999, 2007.
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FUORI E DENTRO IL PROPRIO TEMPO di Eva di Stefano
LIBRI
Una collezione in mostra e un bel volume-catalogo che affronta diverse e contradditorie problematiche dell’Outsider Art: contemporaneità, rapporti con il sistema dell’arte, etica ed estetica, creatività e malattia.
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A Casale Monferrato, cittadina piemontese che mi ha colto di sorpresa per la bellezza dei suoi palazzi, portici e chiese, ho incontrato il più giovane collezionista del mondo: Leo Cei, un vivace bimbo di sei anni dai grandi occhiali, attraverso i quali guarda incantato opere e artisti raccolti dal padre Fabio, che ha intitolato anche al figlio la collezione di Outsider Art internazionale, che costituisce un unicum in Italia1. L’occasione è la mostra Outsider Art. Contemporaneo Presente (28/11/2015- 4/5/2016), adesso prorogata fino al 1 novembre 2016, allestita nelle sale del Castello di Casale Monferrato e inaugurata il 28/11/ 2015 con un convegno nello splendidoTeatro Municipale tardo-settecentesco e il concerto dell’Orchestra degli Invisibili, gruppo jazz coordinato dallo psichiatra Pierluigi Politi e punta di diamante delle attività riabilitative di Cascina Rossago, comunità-modello per malati di autismo. Una scelta che evidenzia sia la volontà di Fabio Cei di fare della propria raccolta anche uno strumento di riflessione e di studio, che la visione inclusiva del mondo che presiede a questa tipologia di collezionismo. Non a caso Fabio Cei, con l’appoggio dell’Assessorato alla Cultura di Casale, si ripromette di allestire nella città un museo-centro studi, che potrebbe diventare quel luogo di riferimento di cui in Italia si lamenta l’assenza. Il punto di forza della Collezione Fabio e Leo Cei, articolata principalmente attorno a un folto gruppo di fascinosi artisti serbi e al nucleo degli autori storici di Gugging con in testa August Walla, che fa da capofila e manifesto, consiste nella
capacità di alternare sapientemente sulle pareti il minimalismo grafico di Oswald Tschirtner, sempre in bilico sul vuoto, all’ossessività di grandi formati con virtuosismi grafici a tutto pieno (Jean Pierre Nadeau, Francesco Maria Bibesco, Chris Hipkiss); o produzioni più grezze e impulsive (Katarina Savic, Ida Buchmann) alle raffinatissime trame di impronte di Philippe Azéma e al disegno da orefice miniaturista di Johann Garber; o le chine surreali di Vojislav Jakić ai segni forti, come un diario a colpi di tamburo, di Joškin Šiljan e ai magnetici gorghi rossi di forme e parole di Jean Franz. Pochi invece gli autori italiani: tra gli altri, ricordiamo le misteriose creazioni di cere e stagno della chiaroveggente Nelly Valenti, che introduce in mostra la dimensione metapsichica, e, tra
August Walla, La signora Magit e la dea Maria, matita, matite colorate, penna a sfera su carta, 1998
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Philippe Azéma, Il pidocchio prende il volo, tecnica mista su tela, 2014
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le rare sculture esposte, l’imponente creazione in terracotta di ispirazione popolare del siciliano (emigrato in Lombardia) Umberto Gervasi: una torre-prigione alla cui base l’artista ha recentemente aggiunto un nuovo teatrino di figure a rappresentare invece la libertà e il mondo esterno. Come si deduce anche da questa sintetica elencazione, ciò che viene compreso sotto il nome di Outsider Art, nella sua assoluta eterogeneità di tecniche, linguaggi e immaginari, resta una regione variegata e incerta che, sfuggendo a ogni classificazione, non offre a chi guarda appigli e cinture di salvataggio, donandogli piuttosto una salvifica clè de champs ovvero, secondo Breton, un accesso alla libertà e ai mondi ignoti dentro di noi2. L’interessante libro-catalogo Outsider Art. Contemporaneo
Presente, pubblicato da Jaca Book, non si limita a illustrare la ricca collezione e consiste in una raccolta di saggi a largo spettro che toccano temi, definizioni, e problematiche attuali. Già a partire dal titolo che, con il suo quasi ‘raddoppiamento’ semantico, sembra condensare un assunto programmatico che ci pone una prima questione. Cosa è davvero contemporaneo? Come può essere definita contemporanea un’arte che per sua natura si pone invece fuori dal tempo storico delle correnti e delle mode artistiche? Che, mettendo a nudo la pulsione creativa, ci riconduce alle origini? Il curatore della mostra e del volume, Giorgio Bedoni, riecheggiando il poetico paradosso di Agamben, risponde che «quest’arte è radicalmente contemporanea perchè lontana e tuttavia riposta nelle pieghe del suo tempo». Contemporaneo, argomentava infatti Agamben, non è colui che si identifica con la propria epoca, ma invece «colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo»3. Francesco Porzio, storico dell’arte, risponde in un’altra prospettiva: «L’ Art Brut o Outsider rimane come modello vivente e perciò potenzialmente è sempre attuale». A differenza delle avanguardie «non appartiene a un ciclo storico concluso», corrisponde in definitiva a una fonte di energia rinnovabile. La sua attualità è dovuta principalmente alla crisi in cui versa l’arte contemporanea ormai accademizzata. Se non può colmare il vuoto, può però diventare un argine: «mi piace immaginare - scrive ancora Porzio - un centro di riabilitazione
Joškin Šiljan, Lui Lei, 2015
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Nelly Valenti, cartone con foglie essiccate e colorature di stagno, 1971
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creativa nel quale, come in un mondo alla rovescia, sono gli artisti Outsider a rialfabetizzare (o, se si preferisce, a diseducare) i loro colleghi colti, principini viziati e imbarbariti dalle lusinghe del successo e del consumo». Il sociologo e gallerista Nicola Mazzeo sottolinea, facendo riferimento alla storia stessa dell’Art Brut, che si tratta a pieno titolo di «arte contemporanea perchè solo nella contemporaneità modernista si è data una divisione tra arte ufficiale e non ufficiale, solo nella modernità si è pensato a certa creatività come arte; è arte presente perchè espressione di creatività ben vive e operanti in una molteplicità di contesti diversi». Prevale nel volume l’approccio psichiatrico, sia per la formazione del curatore Bedoni, che è appunto psichiatra, sia per la tipologia della Collezione Cei che ha individuato il principale serbatorio di opere da acquisire nel centro di Gugging, inizialmente nato come centro di psicoterapia artistica all’interno di un ospedale psichiatrico presso Vienna, e nel circuito austriaco dell’ Atelier bild-Balance che lavora con i disabili. D’altra parte, la storia della ricezione di queste creazioni fuori norma in Italia, e non solo, è strettamente intrecciata alla storia della psichiatria e della sua evoluzione, anche se va ricordato che a sdoganarle in ambito estetico sono stati principalmente gli artisti come Dubuffet. Sopratutto in Italia, dove il termine Art Brut ha acquistato una relativa cittadinanza più tardi, il ruolo degli atelier sorti negli ospedali psichiatrici già negli anni ‘50 e ‘60 è stato centrale nel promuovere la creazione artistica
fuori norma, basti per tutti il caso della fioritura pittorica esplosiva di Carlo Zinelli presso l’ospedale di Verona. Se Bedoni, nell’introdurre alla collezione in mostra, traccia Oswald Tschirtner, Quattro disegni, inchiostro su carta, 1971-72
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Nella pagina a fianco: Umberto Gervasi, Le carceri, terracotta, 1990-2015
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un sintetico e utile profilo della vicenda italiana, l’ampio e stimolante saggio dello psichiatra Francesco Barale prova a chiarire i complessi rapporti tra arte, psicopatologia e psicoanalisi, per rispondere ad un’altra questione centrale: «come ammettere che le figurazioni più estreme dell’autismo e della follia incontrino la bellezza?». Da psicoanalista, Fausto Petrella, sottolineando quanto comunicazione artistica e comunicazione analitica si incrocino nel portare alla luce il processo di simbolizzazione del mondo interiore, riconduce anche l’arte psicopatologica dentro la storia, sia la storia individuale del creatore che la storia delle mutazioni novecentesche di estetica e linguaggio, dove la rappresentazione dei dissesti personali ha acquisito diritto di cittadinanza. Il rischio che può correre il lettore è quello di un eccesso di identificazione tra arte psicopatologica, Art Brut e Outsider Art, da cui già Dubuffet metteva in guardia, e che è oltretutto contraddetto dall’esistenza di centinaia di creatori spontanei senza alcuna diagnosi psichiatrica o comportamenti patologici. Ma, è anche vero che oggi il giovane mercato dell’Art Brut comincia ad essere dominato dalle produzioni a volte “seriali” degli atelier terapeutici o assistiti, nell’errata convinzione che nel nostro mondo omologato non ci sia più posto per creatori solitari e irriducibili alle influenze esterne4. Lo sguardo degli storici dell’arte resta differente: nel suo saggio Francesco Porzio esprime semmai il timore della mancanza di selezione, dovuta alle buone intenzioni dei terapeuti, e invita a non lasciarsi condizionare dall’origine terapeutica di molti manufatti, ma di prendere in conto solo gli esiti artistici a prescindere da empatia e biografie travagliate.La questione della rilevanza o meno della biografia degli autori è un’altra delle questioni oggi più spesso dibattute. C’è anche chi, per timore della prevalenza del racconto biografico sui valori formali, propone di esporre le opere senza alcuna
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Vojislav Jakić, china su carta, 1988
Nella pagina a fianco: Chris Hipkiss, matita su carta, 2010
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indicazione biografica, in contrasto con le dettagliate schede sugli autori dell’allestimento storico del Museo di Losanna. Johann Feilacher, direttore del Museo di Gugging e Nina Katschnig che dirige la galleria annessa, si affannano nei loro testi in catalogo a ribadire la necessità di svincolare l’opera dalle condizioni esistenziali degli autori, che restano «una questione privata», per conquistare a tutti gli effetti, e solo in forza del linguaggio formale, lo statuto di opera d’arte secondo i criteri vigenti nel sistema e nel mercato dell’arte. Non nutre queste preoccupazioni, invece, Nina Krstić, che proviene da una esperienza differente non psichiatrica e dirige il Museo di Arte Naïve e Marginale di Jagodina (Serbia), un’istituzione nata nel 1960 nel contesto della valorizzazione ufficiale della arte naïve jugoslava, celebre in quegli anni in tutta Europa, e che per conseguenza ha portato ad una maggiore apertura nei confronti di tutte le forme creative non accademiche di autori visionari e autodidatti. Poiché, in questo caso, non si tratta di creare dal nulla un riconoscimento e un mercato che già esiste da tempo, la questione delle biografie ‘secretate’ non è argomento di dibattito. Ma, se non c’è dubbio che le storie personali degli artisti, spesso drammatiche e commoventi, esercitino una grande suggestione che può diventare anche “visiva”, coinvolgendo emotivamente i fruitori e sconfinando a volte perfino nella leggenda o nella bio-fiction, ritengo però che una loro svalutazione non contribuisca a una buona comprensione delle opere.
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Accertata preliminarmente la loro qualità estetica, e qui entrerebbe in gioco la questione ancora più spinosa dei parametri, conoscere l’origine e il contesto della loro genesi è, come sostiene anche Fausto Petrella, fondamentale. Semmai resta irrilevante (e privata) la diagnosi psichiatrica quando c’è, ma non la vicenda di vita e le circostanze dell’imprevista eruzione creativa: dopotutto, se si tratta di “mitologie individuali” per usare la felice definizione di Harald Szeemann5, è necessario partire dalla singolarità dell’individuo e dalle sue ‘pieghe’ esistenziali. Lo stesso Dubuffet, nella serie “L’Art Brut”6 dedicata ai suoi autori, preferiva pubblicare dettagliati documenti di vita piuttosto che interpretazioni critiche e analisi formali o psicologiche. Non credo che questa sia una posizione da superare in favore di quella assimilazione totale al sistema dell’arte, auspicata oggi sempre più. Non per conservatorismo e diffidenza puritana nei meccanismi del mercato e dell’ufficialità, ma perchè sinceramente ritengo che un contenitore generalista chiamato “arte” non sia così interessante e che invece la ‘differenza’ insita nel processo di creazione di queste opere non vada considerata necessariamente come uno stigma, uno svantaggio o un ghetto. La differenza va valorizzata in quanto tale, anziché essere messa tra parentesi o obliterata come pretende il politically correct. La risorsa estetica e umana dell’Art Brut e Outsider risiede, a mio giudizio, proprio nella sua peculiarità spesso drammatica: creazioni che combattono a mani nude il solipsismo - come una speranza che nasce dalla disperazione e rende queste opere autentiche finestre aperte sul potenziale poetico della mente umana e la sua fragilità, accentuandone il valore comunicativo ed esemplare7.
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Cfr. nella nostra rivista, n. 9, aprile 2015 (Glifo edizioni, Palermo) l’articolo di G. Bedoni, Mappe dell’immaginario. La Collezione Cei, pp.108-115.
1
A. Breton, La clé des champs, Editions du Sagittaire, Parigi 1953.
2
G. Agamben, Che cosa è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma 2008, p.10.
3
L’esperienza sul campo del nostro Osservatorio con continue scoperte di creatori solitari dimostra il contrario, così come le ricerche di Gabriele Mina con la sua associazione Costruttori di Babele, o i singoli autori scoperti dal collezionista esploratore Pavel Konečný nei paesi dell’Europa dell’Est, per fare solo qualche esempio.
4
Il concetto di ‘mitologia individuale’ già coniato da Szeemann per una mostra del 1963 a Berna, diventa la categoria centrale della Documenta 5 di Kassel da lui curata nel 1972. Cfr. H. Szeemann, Individuelle Mythologien, Merve, Berlino 1985.
5
Il primo fascicolo della serie esce a Parigi nel 1947. La pubblicazione, che contiene saggi monografici sugli autori della Collection, sarà edita regolarmente dal 1964, ma con periodicità variabile. Fino ad oggi sono usciti 25 numeri.
6
Una posizione che ho già espresso in: Mondi dell’arte e/o arte del mondo, in A (quale?) regola d’arte. Contributi sulla frontiera tra inside e outside, a cura di A. M. Pecci, Prinp, Torino 2015, pp.83- 99.
7
Il libro: Outsider Art. Contemporaneo Presente. Collezione Fabio e Leo Cei a cura di Giorgio Bedoni, Jaca Book, Milano 2015
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L’ARCHITETTURA IMMAGINATA. LA SECONDA BIENNALE DI ART BRUT A LOSANNA di Teresa Maranzano
REPORT
Come sognano e come rappresentano la casa, lo spazio, la città gli autori di Art Brut? Nella sezione dei visionari anche il siciliano Filippo Bentivegna
Nella pagina a fianco, in alto: Auguste Merle, Torre su Terrazza, grafite su carta, 1901 in basso: André Carré, Inchiostro su carta, 1952
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La mostra Architectures, presentata al museo di Losanna dal 13 novembre 2015 al 24 aprile 2016, accompagnata da un catalogo riccamente illustrato, propone un approccio caleidoscopico a questo tema affascinante. L’allestimento affianca per affinità stilistica i 51 autori selezionati dalla curatrice Pascale Marini-Jeanneret, e fa emergere le due grandi polarità dell’Art Brut: quella degli “ordinatori” e quella dei visionari. Nella prima di queste tendenze, l’universo figurativo è caratterizzato da una linea pulita, spesso ossessiva e ripetitiva, che traccia i contorni di case e palazzi in maniera da isolarli da qualunque contesto umano e culturale, facendoli affiorare dal nulla in maniera ascetica e surreale. Appartengono a questa categoria i disegni tecnici dalla prospettiva folle di Auguste Merle, o le vedute desolate di Otto Prinz, dove solo gli elementi vegetali disegnati con la perizia di un botanico animano quartieri austeri e silenziosi. Stessi sentimenti di vuoto e di profonda solitudine trasmettono i disegni di André Carré, che hanno dormito a lungo nelle riserve prima di venire esposti. Il museo rende omaggio al loro minimalismo scegliendoli come efficace immagine di copertina del catalogo. A questa tendenza appartengono anche gli inventari di Gregory Blackstock e di Marco Raugei. Precisione geometrica, ripetizione, senso del colore, assenza di profondità accomunano le opere di altri autori, come il classico Augustin Lesage, il giapponese Tetsuaki Hotta, e lo svizzero Diego, vera rivelazione della mostra, che racconta in un video la sua passione per palazzi, chalets e grattacieli di cui disegna le facciate con un fitto mosaico di elementi colorati. L’altra tendenza sottolineata dall’allestimento è quella visionaria, ben rappresentata dall’universo immaginario di Paul End, dalle vertiginose linee di fuga dei disegni di Jacqueline Fromenteau, Madge Gill, Gimel e Jules Godi,
e dai deliri urbanistici di George Widener, Willem Van Genk, Norimitsu Kokubo e Yuji Tsuji. Anche la scultura si nutre di queste visioni oniriche, e la mostra contrappone le pietre calcaree del nostro Filippo Bentivegna alle aeree strutture tessili di MarieRose Lortet, dall’apparenza fragile come tele di ragno. Poiché è proprio dell’Art Brut smentire tutti i tentativi di categorizzazione, le opere di altri autori si situano invece all’intersezione di queste due polarità. È il caso di Aloïs Wey, che ci offre un esempio di come un artista autodidatta possa subire il fascino dell’architettura urbana e al tempo stesso appropriarsene con radicale disinvoltura. Le sue opere su carta, realizzate con colori a matita e impreziosite da inserti d’oro e d’argento, rappresentano una sintesi fantastica, a tratti misticheggiante, di una certa architettura svizzera: quella dei palazzi della ricca borghesia e degli hotels di lusso. Un mondo inaccessibile al proletario Wey, che può solo ammirare da fuori queste fortezze neogotiche. Il suo interesse si concentra infatti sulle facciate, di cui traccia i contorni con la precisione del disegno tecnico. Con altrettanta precisione inventa poi elementi geometrici e decorativi che, incolonnati in una successione verticale, trasfigurano la natura dei “palais” trasformandoli in architetture immaginarie. Ma l’autore non dimentica
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François Burland, sculture con materiali di riciclo
Gregory Blackstock, grafite, pennarello e matite colorate su carta, 2013 Nella pagina a fianco: Augustin Lesage, La tomba del Signore, olio su pannello, 1920 ca.
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l’ambiente da cui proviene. Lontano all’orizzonte o attraverso aperture che squarciano la sequenza geometrica della facciata, ecco infatti affacciarsi l’altra Svizzera, quella rurale del lavoro nei campi e quella maestosa del paesaggio alpino. Esclusione versus riappropriazione, dialettica originale tra interno e esterno, invenzione figurativa con pochi mezzi di bordo, indifferenza nei confronti delle regole prospettiche e dei codici figurativi caratterizzano le opere di quest’autore-
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Émile Ratier, assemblaggio di legno e materiali vari, s.d. Nella pagina a fianco, in alto: Filippo Bentivegna, scultura in pietra calcarea, s.d. Marie-Rose Lortet, Casa di fili: attico, stoffa, pizzo e filo irrigidito, 1984 in basso: Aloïs Wey, matite colorate, inserti oro e argento su carta, 1977 o 1978
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simbolo dell’Art Brut. Infine, non potevano mancare le architetture vere e proprie, il “passaggio all’azione” degli autori di Art Brut. Una sezione dedicata agli environnements, composta da film, fotografie, cartoline postali e altro materiale d’archivio, completa infatti la mostra di cui è impossibile rendere interamente conto tanto la materia è abbondante. Possiamo ancora ricordare che il concetto di Biennale dell’Art Brut, coniato nel 2013 dalla direttrice Sarah Lombardi, ha diversi pregi. Il filo tematico permette infatti di fare scoprire al pubblico tesori nascosti della vastissima collezione: legati da uno stesso spunto contestuale, autori poco noti o mai presentati assumono una nuova e più forte presenza a contatto con quelli ormai celebri. La mostra tematica consente inoltre di superare la barriera cronologica e di accostare in maniera inedita artisti appartenenti a diverse generazioni. I reperti storici si ritrovano affiancati in una lettura orizzontale alle novità della creazione contemporanea, mostrando così tutta la vitalità dell’Art Brut. Con questa mostra, il Museo di Losanna afferma, una volta di più, la supremazia della sua collezione nel variegato panorama internazionale dell’Art Brut.
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OUTSIDER ART FAIR A NEW YORK: UNA FIERA D’ARTE IN CRESCITA di Nicola Mazzeo
REPORT
L’evoluzione della vetrina più importante del mondo per gli artisti outsider nella testimonianza dell’unico gallerista italiano che ha partecipato
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La quarta edizione della Outsider Art Fair di New York, sotto la guida di Andrew Edlin con la sua Wide open Arts, continua la traiettoria intrapresa dal 2013; da quando l’importante gallerista newyorchese ha infatti acquistato il format della fiera, insieme al raddoppio parigino, ha spinto verso una dimensione da piccola grande fiera scegliendo per la pulizia, l’ordine, l’eleganza. Ciò che dovremmo chiederci è se l’ufficializzazione della fiera dedicata all’Outsider Art non comporti anche una normalizzazione del suo contenuto. Chiunque frequenti le fiere di arte contemporanea sa che per ogni fiera ufficiale esiste un suo parallelo off dove è più economica la partecipazione e anche il biglietto di ingresso (l’Outsider Art Fair costa 20 dollari); è una questione prettamente economica perché infatti è difficile sostenere una maggiore audacia delle proposte o una maggiore vicinanza temporale delle fiere off rispetto a quelle ufficiali, soprattutto dove si pensi ai casi di fiere impostate sull’arte
contemporanea più spinta come Artissima o Art Basel. Le fiere off sono le versioni ottative delle fiere ufficiali quelle dove trovano spazio le gallerie più piccole e i lori artisti che spingono per entrare nel sistema dell’arte. La fiera dedicata all’Outsider Art esiste da più di vent’anni e il suo slot temporale a fine gennaio l’ha sempre qualificata come una fiera autonoma e non satellite (diverso il caso di Parigi dove è contemporanea alla FIAC). Da sempre ha inteso per Outsider Art un oggetto notevolmente più ampio di quello suggerito da Roger Cardinal, ponendosi come una tradizione non solamente dialettica a quella dell’arte ufficiale. Tra i criteri fondamentali vi è sostanzialmente quello di essere self-taught, autodidatta, ma è evidente che per le tradizioni artistiche non accademiche come quelle che fanno riferimento all’universo della Folk Art la cosa significa molto poco. Non solo, la lettura dispregiativa del termine outsider, e quindi Outsider Art, tanto diffusa negli USA, ha da sempre comportato selezioni diverse rispetto al contesto europeo dove è stato molto più difficile trasformare art brut in una valutazione sulle persone, cosa che sta invece accadendo sempre più oggi che il termine Outsider Art e quindi outsider artist ha soppiantano quello di Art Brut. L’evoluzione cominciata quattro anni fa da Andrew Edlin è certamente in stretto rapporto con un certo interesse dell’arte ufficiale nei confronti (almeno) dei classici dell’Outsider Art; a cominciare dalla Biennale del 2013, che però ha evitato l’etichetta Outsider Art, alle mostre di Morton Bartlett presso l’Hamburger Bahnhof nel 2012, di Henry Darger al Museée d’art moderne de le ville de Paris, dallo stesso
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raddoppio parigino fino alla comparsa di sezioni dedicate nelle grandi case d’asta – va detto con una netta preferenza per le blu chips: Bill Traylor, Martin Ramirez, Henry Darger. Nel caso specifico della fiera, rispetto alle ultime edizioni 2010-2012, ciò ha significato stand sempre più orientati all’esposizione rispetto alla sola vendita con notevole diminuzione della quantità di opere, privilegiando invece la qualità espositiva, l’affermazione dei grandi nomi, la limitazione delle tradizioni meno intellettuali. Quindi, in questa stessa ultima edizione abbiamo visto campioni di arte vernacolare come Hawkin Boldens (Shrine) e Lonnie Hollie (James Fuentes), ma ottimamente curati. L’Outsider Art Fair del 2016 ha riunito insieme sessantatre espositori da tutto il mondo, ma come è naturale con una prevalenza delle gallerie americane (48, di cui 29 dello stato di New York) seguite da quelle francesi (7). Presenti tutte le storiche: Ricco-Maresca, Cavin-Morris, American Primitive,
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Carl Hammer, Fleisher-Ollman a donare alla fiera la dimensione di un piccolo show di classici. Negli stessi giorni il Darger di Christie’s puntava a più di 500.000 dollari, e normalmente Bill Traylor si colloca appena sotto ma soprattutto perché le dimensioni sono assai più limitate; per fornire un indice relativo un Ligabue costa tra 60.000 e i 250.000 euro, mentre un artista ufficiale come Burri o Fontana dai 300.000 a sopra il 1.000.000. Tre atelier, il Creative Growth Art Center presente anche a Parigi fin dalla prima edizione, Creativity Explored e The Gallery at Hai (Healing Art Initiative); un curatore indipendente, coraggioso nella sua scelta di presentare un’artista italiana, Alessandra Michelangelo, e alcune situazioni ibride: Cathous Funeral è uno spazio artistico che non si presenta come galleria, ZQ art and Auction è una piccola casa d’aste. Era allestito inoltre uno spazio commemorativo dell’opera di Lionel Talpazan. Un dato significativo è la presenza di gallerie che non si qualificano esclusivamente come specializ-
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zate in Outsider Art, segno di una certa cultura cross-over pressoché assente dalle nostre parti, che frequentano la fiera con le proposte del loro carnet ad essa adeguate. Il panorama visivo della fiera è dato soprattutto dalle nuove proposte, artisti che sono stati sulle pagine di “Raw Vision” o che rappresentano le selezioni di lungo corso delle gallerie. Polysemie mostra un tardo lavoro di Lesage ma sono sopratutto Azema e Nadau a fare da padroni; un cauto equilibrio è quello di Cavin Morris tra Nek Chand, Anna Zemankova, Lubos Plny, Solange Knopf e Sylvain e Ghyslaine Staelens. Fino a gallerie come Polad-Hardouin che, optando per un discorso in larga parte autonomo, propongono una versione personale di Outsider Art con artisti come Christine Sefolosha e Sabhan Adam. Insomma quella che anche il New York Times definisce l’Outsider Art Fair meglio curata di sempre non si limita affatto ad essere un mero contenitore, ma con le sue scelte e selezioni contribuisce in maniera specifica al discorso dell’Outsider Art. Sempre di più si
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scrive che questo discorso sta diventando lo stesso dell’arte generale, lo si fa citando la Biennale veneziana di Massimiliano Gioni e l’interesse delle case d’asta, ma una fiera specifica non dice forse il contrario? Quale è il rapporto tra le sue scelte, il suo discorso sull’arte che intende rappresentare e i discorsi su di essa provenienti da altri contesti? Mentre l’esistenza di queste tensioni provano il contributo più significativo dell’Outsider Art all’arte e alla cultura in generale, si moltiplicano sulle pagine dei giornali tentativi di comprensione che si limitano a riportare al noto, esattamente ciò che l’Outsider Art sa trascendere.
Rassegna stampa su web New York Times: http://www.nytimes.com/interactive/2016/01/22/arts/design/ outsider-art-fair-nyc.html?_r=1 Artnet news: https://news.artnet.com/market/unexpected-unsettling-artworksdominate-years-outsider-art-fair-412016 Artnews: http://www.artnews.com/2016/01/21/boundaries-blur-at-the-outsider-artfair-which-has-newfound-attention-pricy-dargers-and-quite-a-bit-more/ Hyperallergic: http://hyperallergic.com/269947/the-personal-passions-and-detaileddevotions-of-the-outsider-art-fair/ The Art Newspaper: http://theartnewspaper.com/market/art-market-news/collectorsand-dealers-still-search-for-the-undiscovered-at-new-york-s-outsider-art-fair/ Artnetnews: https://news.artnet.com/art-world/why-outsider-art-matters-412778 Art In America: http://www.artinamericamagazine.com/news-features/news/bandof-outsiders-walking-the-outsider-art-fair-with-katherine-jentleson/ New York Post: http://nypost.com/2016/01/23/the-artists-at-this-amazing-fair-areprisoners-janitors-and-mental-patients/
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GALLERISTI ITALIANI: PIONIERI IN UN MERCATO ASSENTE di Marina Giordano
REPORT
• Identikit e strategie delle poche gallerie italiane specializzate in Outsider Art. • Il problema più avvertito è la mancanza di un museo di riferimento
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Nel corso degli anni, la dimensione appartata, semiclandestina e non addomesticabile che Jean Dubuffet auspicava per tutte quelle ‘creazioni dell’ombra’ che vanno sotto il nome di Art Brut, sembra appartenere sempre più a una visione romantica e forse addirittura nostalgica del mondo brut/outsider, che si va invece strutturando come sistema dell’arte parallelo, gestito da quelle stesse ‘categorie’ di attori che gesticono quello ufficiale, con propri musei e gallerie, fondazioni, collezionisti, critici, fiere e mercanti. Se, però, in Europa le grandi collezioni private, come l’importante raccolta francese abcd di Bruno Decharme, la Treger-Saint Silvestre in Portogallo, quella di Susi Brunner a Zurigo e quella più orientata sul naïf di Charlotte Zander in Germania o il proteiforme-itinerante Museum of Everything di James Brett1, rappresentano ormai un patrimonio conclamato, al centro di importanti eventi espositivi o diventano nuclei fondanti di strutture museali, in Italia l’interesse dei collezionisti verso l’Outsider Art si muove con andatura più lenta. Solo pochi mesi fa (novembre 2015) si è inaugurata la grande mostra presso il Castello di Casale Monferrato Outsider Art. Contemporaneo Presente. La collezione Cei, a cura di Giorgio Bedoni, con circa centotrenta opere della collezione Fabio e Leo Cei acquisite in varie parti d’Europa (specialmente nell’Est europeo), ma essa costituisce di fatto quasi un unicum nel panorama italiano2, dove si riscontra invece un forte ritardo sia nella ricezione che nell’acquisto di opere brut, come ci hanno sottolineato i principali galleristi del settore. Le poche, coraggiose, pionieristiche realtà commerciali che si dedicano a questo ambito sono concentrate, ovviamente, al Nord Italia tra Milano e Torino, ove esiste qualche chance in più di innescare una ‘scintilla’ di mercato rispetto al Sud, in zone in cui essa fa fatica a nascere anche nell’ambito più generale dell’arte contemporanea e dove l’appassionato
acquista le opere direttamente dagli autori o da chi li sostiene o li ha scoperti. La prima galleria è stata RIZOMI_art brut, inaugurata nel 2010 a Torino, in uno spazio di 120 mq. in via Sant’Agostino,3 da Caterina Nizzoli, critico d’arte, e Nicola Mazzeo, sociologo, con una mostra dal titolo Superfici d’istanti, che riuniva opere di Donald Mitchell, Paul Duhem e Gianluca Pirrotta. Da allora ha proposto con costanza almeno quattro eventi espositivi principali all’anno esclusivamente di ambito outsider, tra cui spiccano la mostra dedicata a Giovanni Battista Podestà (2011), la prima di carattere commerciale di questo autore, uno dei nomi storici dell’Art Brut e della collezione di Losanna, ma anche quelle su Davide Mansueto Raggio (2013) e su Carlo Zinelli (2016), recentemente esposto da Rizomi sia all’Outsider Art Fair di New York che ad Artefiera a Bologna, due importanti eventi fieristici svoltisi a stretto giro di posta sul fronte outside e su quello dell’arte contemporanea da una sponda all’altra dell’Oceano e ai quali Rizomi_art brut ha partecipato, dopo esser stata presente anche ad Artissima a Torino e all’Outsider Art Fair di Parigi, a cui partecipa già dal 2013. Il tentativo, dunque, di lavorare in ambedue i circuiti, quello dell’arte contemporanea e quello dell’Outsider Art, e una crescita costante in termini di presenza e prestigio per il progetto scaturito dalla passione sbocciata in Caterina Nizzoli a Parigi, lavorando presso la galleria specializzata di Christian Berst, alimentata al fianco di Bianca Tosatti nella catalogazione del patrimonio de La Tinaia, e concretizzato poi nella creazione di spazi di attività espressive per i pazienti del Centro Salute Mentale delle ASL di Parma e di Borgo Val di Tar, dove la Nizzoli ha fondato l’Atelier Asfodelo.
Royal Robertson, pennarelli su cartoncino, s. d., Galleria Rizomi_art brut, Torino
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Jill Gallieni, inchiostro su carta, 2012, Galleria Rizomi_art brut, Torino
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Le prime scelte di Rizomi si sono rivolte ai classici de LaTinaia4, ci racconta Nicola Mazzeo, con alcune ‘incursioni’ all’estero, verso autori della Casa degli artisti di Gugging e del centro La Pommeraie, nomi interessanti ma commercialmente contenuti, per poi specializzarsi sui classici italiani. «Sono questi i due filoni, novità dall’estero e classici italiani fuori»5, ci racconta Mazzeo, evidenziando difficoltà e distorsioni poste dal mercato e dalla limitatezza del collezionismo italiano. Aggiunge, infatti: «quando i lavori di Giovanni Bosco o di Franco Bellucci vanno all’estero acquisiscono un valore che poi non è sostenibile per il collezionismo italiano, eppure dall’Italia sarebbe impossibile imporli all’attenzione internazionale. Anche il discorso sulla gestione delle mostre subisce gli stessi limiti dovuti ai vincoli di mercato. Vi sono critici non specializzati che hanno la capacità di interessare grandi fette di pubblico, ma appunto non sono specializzati; vi sono poi i giovani che si stanno formando con un occhio specifico sull’Outsider Art che sono competenti ma non influenti, e tristemente la ragione per cui diventa difficile basarsi sul lavoro di questi ultimi è che, riconoscendolo come lavoro, va pagato e se non ci sono vendite è difficile procedere in questa direzione»6. Mentre il pubblico delle fiere internazionali dimostra, agli occhi dei promotori di Rizomi_art brut, un interesse maggiore e la voglia di attuare una forma di collezionismo più consapevole, in Italia si trovano, invece, acquirenti estemporanei, ma non profondi conoscitori e pochi veri appassionati. Le ragioni? Sicuramente, se-
condo Mazzeo, dal punto di vista storico, il radicarsi dell’Arte Naïve e di un suo mercato non ha facilitato il crescere di una cultura altrettanto legata al mondo brut, così come il fatto che esso «ha iniziato a proporsi maggiormente in un momento, come gli anni Ottanta, culturalmente più difficile, dove di fatto era solo una tra le tante opzioni di spesa e di interesse culturale insieme a molte altre»7. Molto più recente, ma di alto profilo sin dal suo debutto, la galleria milanese Maroncelli 12, con uno spazio espositivo di circa 60 mq nell’omonima via a un passo da Brera, inaugurata il 7 maggio 2014 da Antonia Jacchia, giornalista specializzata in Economia, Arte e Finanza, e dal marito Enrico Guazzoni. Ci racconta Antonia, parlandoci di sé e della genesi della sua avventura: «Da sempre con una doppia anima: una più concreta che mi ha portato a scegliere Economia e Commercio come indirizzo di studi; e una più creativa che mi ha portato a ventitre anni a mettere la laurea nel cassetto e partire per New York per seguire i miei sogni, abitando nell’East Village. Dopo ventisei anni di ‘onorata’ carriera giornalistica, ho preso un’altra grande decisione: ho dato le dimissioni dal “Corriere della Sera” e nel maggio 2014 ho aperto insieme con mio marito Maroncelli 12, una galleria d’arte interamente dedicata all’Outsider Art. Cinque anni prima viaggiando tra Parigi e Losanna avevo scoperto l’Art Brut, un colpo di fulmine, il filone a cui sentivo di dedicare un altro grande progetto professionale e di vita. Un ulteriore stimolo è arrivato nel 2013 dall’apertura del Maimuseo, il Museo di Arte Irregolare diretto dalla storica dell’arte Bianca Tosatti a Sospiro (Cremona),
Paolo Baroggi, The Constellation, tecnica mista su tela,1997, Galleria Maroncelli 12, Milano
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Tarcisio Merati, Macchinetta, tempera su carta, 1975, Galleria Maroncelli 12, Milano
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che mi ha consentito di approfondire la conoscenza di tanti autori italiani e di scrivere un importante articolo che è uscito a tutta pagina nella sezione Cultura del “Corriere della Sera”. Seguendo i convegni organizzati dal Museo sono poi venuta a contatto con la più ricca e dinamica realtà europea dell’Outsider Art e con i suoi esponenti di punta (direttori di musei, responsabili di Atelier, esperti). Purtroppo il Maimuseo ha avuto vita breve ma il mio destino era ormai segnato»8. Dopo aver inaugurato con una personale dell’autrice francese Marie-Claire Guyot, Maroncelli 12 ha dedicato eventi espositivi ad Agostino Goldani (novembre 2014) e Paolo Baroggi (novembre 2015), ma ha ottenuto grande successo di pubblico e di critica con la collettiva dal titolo Furtiva e selvatica come una cerva. Capolavori dell’Arte Irregolare italiana, con opere di maestri italiani: Umberto Bergamaschi, Curzio Di Giovanni, Agostino Goldani, Pietro Ghizzardi, Tarcisio Merati, Franca Settembrini, Carlo Zinelli. L’immagine che emerge dall’esperienza di Antonia Jacchia è quella di un pubblico curioso, che partecipa ai numerosi eventi organizzati dalla galleria, molto attiva nella promozione e nella diffusione della conoscenza dell’Art Brut, ma che si accompagna a un mercato quasi inesistente, con pochi collezionisti che privilegiano un solo autore, massimo due, e non sono interessati ad ampliare il loro sguardo in generale sull’Art Brut italiana o internazionale. Anche Maroncelli 12 ha partecipato all’ultima fiera parigina svoltasi nell’autunno 2015 e sta valutando l’adesione a quella newyorkese del 2017. «Un’esperienza costruttiva, quella di Parigi. Prima di tutto
Maria Concetta Cassarà, acrilico135 su carta, s. d.; Galleria Isarte, Milano
l’entusiasmo nel vedere la folla di appassionati e collezionisti in giro tra i vari stand, interessati a scoprire nuovi autori e artisti stranieri. Poi la soddisfazione di qualche vendita e la possibilità di confronto e relazione con esperti, collezionisti e galleristi di tutto il mondo. Un grande problema in Italia è la mancanza di un museo dedicato all’Outsider Art, un necessario punto di riferimento non solo per il pubblico, ma anche per gli operatori del settore che avrebbero bisogno di un ambiente per confrontarsi, aggiornarsi e convalidare le
Allestimento delle sculture di Umberto Gervasi presso la Galleria Isarte, Milano 2013.
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proprie scelte»9. Rispetto alle due realtà descritte, la galleria Isarte (Milano, Corso Garibaldi, 2), invece, ha scelto di non dedicarsi in maniera esclusiva all’Outsider Art, ma di farne uno dei propri campi d’azione e specializzazione, in parallelo rispetto a un ulteriore, affascinante ambito di produzione ‘altra’, quella dell’arte aborigena, della quale IsabellaTribolati, fondatrice e titolare della galleria, e il marito, lo storico dell’arte Francesco Porzio, sono due pionieristici scopritori e studiosi. «Non ci interessa l’aspetto specialistico di una
etichetta espressiva- affermano – non vorremmo incorrere nel rischio di una ghettizzazione, anche se è pur vero che il mercato ha bisogno di etichette»10. In effetti, il percorso di Isabella Tribolati – studi in Svizzera, paese natale della madre, dieci anni vissuti a Vienna e poi negli Stati Uniti, trasferimento a Milano nel 1998 – è caratterizzato da una trasversalità che l’ha condotta dall’arte antica, settore al quale ha dedicato per alcuni anni le sue energie aprendo una galleria a Los Angeles, all’antiquariato, poi all’arte aborigena contemporanea, passione alimentata da numerosi viaggi in Australia e da un profondo amore e rispetto per quella cultura, per giungere, su sollecitazione dell’amico editore e appassionato d’arte Gabriele Mazzotta, all’Outsider art. Il debutto in questo ambito con la mostra monografica Umberto Gervasi. Cose di questo mondo11, il 23 ottobre 2013, a cura di Giorgio Bedoni e Francesco Porzio e in collaborazione con la Fondazione Antonio Mazzotta: un’antologica di pitture su carta e sculture in terracotta dalla forza espressiva quasi magica, ancestrale, realizzate tra il 1992 e il 2013 dall’autore, nato a Catania ma emigrato a Milano, dove vive tuttora. Sull’onda del successo della prima mostra è nata Fuori campo. Artisti outsider a Milano (21 marzo - 4 aprile 2014), in collaborazione con Rizomi_art brut, che riuniva opere di nove artisti di epoche e provenienze differenti, scelti tra quelli afferenti alla galleria torinese: Marco Raugei e Paul Duhem, Carlo Zinelli, Giovanni Bosco, Maria Concetta Cassarà, Jean Gallieni, Donald Mitchell, Gianluca Pirrotta e una novità assoluta: i disegni inediti e mai esposti di Ugolina (Ugolina Valeri), eseguiti fra il 1964 il 1967 nell’ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano. Come ci racconta più ottimisticamente Isabella Tribolati, l’interesse per l’Outsider Art in Italia è al momento al centro di una vera e propria vague culturale, legata forse al fatto che l’arte contemporanea inizia a mostrare i suoi limiti, i suoi
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elementi di stanchezza, e forse la produzione degli outsider è l’unica arte davvero ‘viva’ esistente oggi, ma non è ancora un fenomeno esploso a livello commerciale. Che tale ‘lentezza’ italiana sia legata alla mancanza di strutture museali che facciano da volano per la conoscenza e la divulgazione dell’Outsider Art è certo indubbio, così come il fatto che, se l’arte contemporanea stessa, a livello internazionale fortissima sul fronte del mercato, in Italia rappresenta invece ancora un settore di nicchia, ancor di più ciò vale per l’arte dei creativi autodidatti e fuori dagli schemi, che solo da pochi anni e con il costante, indefesso lavoro di chi spende energie e passione per valorizzarla, ha iniziato ad essere conosciuta dal grande pubblico. Oggi come oggi le gallerie del settore contribuiscono a fare cultura. Che facciano anche mercato glielo auguriamo, nell’auspicio che mantengano quell’alto profilo che sino ad oggi le ha distinte. Bonne chance!
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Cfr. sulla nostra rivista i seguenti articoli: E. di Stefano, The Museum of Everything alla Pinacoteca Agnelli, n. 1 ottobre 2010, pp. 156-165; Id., Nel castello degli Irregolari. Visita al Museo Charlotte Zander, n. 2 marzo 2011, pp. 158-171; T. Maranzano, Dalla collezione al museo: un nuovo spazio visionario a Zurigo, n. 7 aprile 2014 (Glifo edizioni, Palermo) pp. 118-123; C. Berst, Anche il Portogallo ha il suo museo di Art Brut, , n.9 aprile 2015 (Glifo edizioni, Palermo), pp. 130-133.
1
Cfr. in questo stesso numero l’articolo di E. di Stefano, Fuori e dentro il tempo.
2
La galleria torinese si è recentemente trasferita in un nuovo spazio in via Andrea Massena. Per maggiori informazioni sull’attività della galleria e sulle sue pubblicazioni si veda il sito www.rizomi.org.
3
Cfr. sulla nostra rivista l’articolo di V. Di Miceli, Tinaia, “dolce tana”, n. 3 ottobre 2011, pp.136-143.
4
Nicola Mazzeo, intervista dell’A., gennaio 2016.
5
Ibidem
6
Ibidem. Per quanto riguarda il rapporto tra l’Italia e l’Art Naïf, un rapporto antico, nato già negli anni Sessanta, si veda l’articolo di L. Danchin Dall’Arte Naïve all’Art Brut. La vicenda italiana, nel numero 6 della nostra rivista, ottobre 2013, pp. 66-77.
7
Antonia Jacchia, intervista dell’A., gennaio 2016. Maggiori informazioni sulla galleria e sugli autori trattati nel sito http://www.maroncelli12.it. Sull’ inaugurazione del Maimuseo, poi chiuso a un solo anno di distanza si veda sulla nostra rivista l’articolo di E. Iovino, Il primo museo italiano dell’arte irregolare: MAI work in progress, n. 7 aprile 2014 (Glifo edizioni, Palermo), pp. 124-129.
8
Ibidem
9
Isabella Tribolati e Francesco Porzio, intervista dell’A., gennaio 2016.
10
Cfr. sulla nostra rivista l’articolo di S. Olivieri, Umberto Gervasi. Cose di questo mondo, n.7 aprile 2014, pp. 136-141.
11
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CASA MUSEO PIETRO GHIZZARDI: FARE PER RICHORDARE ANCHORA di Giulia Morelli
REPORT
• A Boretto (Reggio Emilia) la Casa Museo dell’artista preserva e tramanda l’operato del pittore e scrittore irregolare e visionario. • In occasione del trentennale dalla sua morte sono in preparazione diverse iniziative
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La Bassa reggiana, con il suo profilo piatto che costeggia le anse del Po, immersa nella nebbia autunnale o affogata nella canicola estiva, confonde con l’omogeneità del suo paesaggio placido, ancora prevalentemente agricolo, disseminato di pioppeti, filari, manciate di case coloniche e piccoli centri rinascimentali. Ma all’apparente distensione di una terra priva di rilievi e per definizione pianeggiante fa da contrappunto un peculiare e visionario ingegno instillato in molti dei suoi abitanti, almeno dai tempi dell’Ariosto. Proprio lungo la direttrice ondivaga che unisce i paesi rivieraschi reggiani – da Brescello a Luzzara – nel secondo dopoguerra è germogliato il fenomeno d’ispirazione zavattiniana della pittura cosiddetta naïf che ha portato alla luce e poi verso nuovi destini critici ed artistici figure oggi oggetto di notevole interesse e indagine, tra i quali spicca Pietro Ghizzardi. Ghizzardi (1906-1986), nato nella campagna mantovana e vissuto in quella reggiana, a Boretto, almeno fino ai sessant’anni, contadino senza terra, bracciante poverissimo, semi-analfabeta, di questa terra sommessa e geniale è diventato un simbolo e qui la sua memoria, a quasi trent’anni dalla morte, continua a vivere e a produrre senso. Si accostò ancora bambino alla pittura, con una disciplina autodidatta che praticò per tutta la vita con dedizione commovente e con un’abilità di disegnatore innata, producendo da sé i colori con caligine, sangue di animali ed erbe per tingere cartoni
di recupero che impiegava su entrambi i lati e sui quali si inginocchiava per ritrarre donne reali o immaginarie, solcate da linee profonde e perturbanti, personaggi storici, animali domestici ed esotici, collages a tema erotico decisamente in anticipo sui tempi. Spesso deriso, ignorato, contrastato sia in famiglia che “in società” per queste velleità espressive i cui esiti erano, negli anni ‘40 e ‘50, ritenuti irrimediabilmente “brutti”, ma intimamente persuaso della propria capacità artistica, Pietro Ghizzardi è oggi considerato uno dei più significativi rappresentanti dell’arte irregolare italiana e, nell’arco della sua esistenza, non fu solo pittore ma anche scrittore, scultore e musicista. Egli fu un semplice, nel senso che attribuì all’aggettivo Gianni Celati, un umile, poeticamente assorto dal desiderio di dirsi, raccontarsi, con immagini e parole, come fece magistralmente nella sgrammaticata autobiografia d’afflato ecologista Mi richordo anchora, che Einaudi pubblicò nel 1976 nella collana Gli Struzzi e che nel ‘77 vinse il Premio Viareggio Opera Prima per la narrativa, guadagnando dunque al contadino artista uno dei maggiori riconoscimenti culturali italiani. Certamente, se Cesare Zavattini, già fautore della fortuna di Ligabue e Rovesti, non avesse “scoperto” la produzione di Ghizzardi – che proseguiva ininterrotta almeno dalla fine degli anni ‘20 – tra la fine degli anni ‘50 e i primi anni ‘60, forse la sua vicenda sarebbe stata ingoiata dalla Storia e solo pochi avrebbero rivolto attenzione ad un corpus artistico monumentale – in cui ri-
Susi, tecnica mista su cartone, 1965
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Paesaggio con piante, tecnica mista, s.d. Nella pagina a fianco: collagee e tecnica mista, anni ‘50-’60
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entrano anche gli affreschi della borettese Villa Falugi – da cui emerge una singolarità autoriale unica. Attraverso la mediazione e l’amicizia autentica di Zavattini, Ghizzardi, ottenne il riconoscimento, come artista e come uomo, che gli era stato negato per tutta la vita, insieme a una discreta fama. Basta però uno sguardo alle figure di Ghizzardi per rendere lampante l’improprietà della definizione “naïf” per una produzione che sgorgò dalla freschezza di un’esistenza per molti aspetti pre-categoriale. Furono, fin dagli anni ‘60, molte e autorevoli le voci critiche che si levarono per segnalare l’inadeguatezza di quell’etichetta per cogliere la complessità di un percorso artistico che trascende gli angusti confini della naiveté. De Micheli, Solmi, Jakowsky, Vigorelli, Margonari, Sgarbi sono alcuni dei più noti critici ad aver “sdoganato” Ghizzardi dall’area “naïf”, traghettandolo verso il più
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Ambiente della Casa-Museo
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multiforme alveo dell’arte irregolare1 in virtù dell’originalità tecnica e contenutistica della sua produzione, attraversata da sobbalzi formali, da tensioni tematiche che non lasciano indifferente un osservatore minimamente educato. Così Pietro Ghizzardi negli ultimi quindici anni è definitivamente transitato verso i lidi dell’arte irregolare e dell’arte contemporanea tout-court, come il suo ricco percorso espositivo testimonia. L’opera del pittore ha infatti raggiunto, soprattutto nell’ultimo decennio, un pubblico sempre più vasto e ha mobilitato uno sguardo critico sulla sua produzione sempre più acuto, attraverso la partecipazione a mostre di arte contemporanea, italiane ed estere, di grande rilievo come Pietro Ghizzardi – Rétrospective Nizza (2004), Arte, genio e follia, Siena (2009), Banditi dell’arte, Parigi (2012), Borderline. Artisti tra normalità e follia. Ravenna (2013), Homage to Henri Rousseau. The World of Naïve painters and Outsiders, Tokyo (2013). Molto di questa avventura artistica ed umana, germogliata nella Bassa, però, non sarebbe accaduto senza la discreta presenza di Nives Pecchini Ghizzardi, nipote dell’artista e vera e propria vestale ghizzardiana a partire dagli anni ‘60. Fu grazie all’impegno e alla lungimiranza di questa energica signora, oggi più che ottantenne ma ancora in prima linea, che nel 1992 fu aperta al pubblico gratuitamente la Casa Museo “Pietro Ghizzardi”, a Boretto, nell’abitazione in cui il pittore visse gli ultimi dieci anni della propria vita. Qui è raccolta, in un ambiente accogliente e pervaso dalla dalla presenza del congiunto, la maggiore collezione di opere di Pietro Ghizzar-
di: centinaia di cartoni, esposti a rotazione semestrale, per permettere la più ampia fruizione possibile del patrimonio ai visitatori, disegni, incisioni, opere plastiche e la raccolta completa delle opere manoscritte. Questo piccolo museo, con annessa biblioteca, non rende solo testimonianza dell’operato artistico di Ghizzardi, ma ne tiene vivo il ricordo umano attraverso oggetti di uso quotidiano come gli attrezzi del mestiere accuratamente conservati, le vecchie scarpe rotte, la bicicletta usata negli anni ‘50 per “pubblicizzare” i propri quadri appendendoli al manubrio, l’antica camera da letto dei primi del ‘900 della madre. E poi ancora le ocarine di terracotta modellate dal pittore, i premi e i riconoscimenti, i disegni di Zavattini appesi alle pareti, l’archivio fotografico, video e audio che raccoglie e documenta oltre vent’anni di vita di Ghizzardi, spesso rivissuti attraverso la testimonianza di grandi della cultura italiana, come Gianni Berengo Gardin che donò al pittore-contadino alcuni splendidi scatti realizzati a Boretto nel ‘75. La Casa Museo “Pietro Ghizzardi” custodisce e tutela l’opera di Ghizzardi anche attraverso l’attività dell’Archivio Storico, fondato da Pietro e Nives nel 1978, che presiede all’archiviazione e catalogazione dell’opera dell’artista, unico ente autorizzato che mira alla realizzazione del censimento e alla raccolta della documentazione storica delle opere di Ghizzardi, onde porre la basi per la pubblicazione del catalogo ragionato e storicizzato dell’artista. La Casa Museo “Pietro Ghizzardi”, affiancata dal 2012
Ambiente della Casa-Museo con pittura murale
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Camera da letto nella Casa-Museo
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dall’omonima associazione culturale, si pone anche come luogo di aggregazione culturale sul territorio, incubatore di progetti legati alla figura e all’arte ghizzardiana ma anche aperti all’interazione con altre forme d’arte, in dialogo con un pubblico sempre diverso per composizione anagrafica e formazione. Per il 2016, trentennale della scomparsa di Pietro e quarantennale della pubblicazione di Mi richordo anchora, i preparativi sono fervidi: sono attese alcune mostre, la riedizione dell’autobiografia e uno spettacolo teatrale, nel nome di Ghizzardi, così che il suo lascito possa continuare ad animare con forza e dolcezza i luoghi della sua vita, che ne hanno impregnato la pittura e la parola, restituendone la delicatezza e la verità. Per richordare – e vivere – anchora.
Bibliografia essenziale AA. VV., Il piacere della letteratura, a cura di A. Guglielmi, Feltrinelli, Milano 1981 R.Barilli, La ricerca artistica 1970-2005, Feltrinelli, Milano 2006 J.Canteri, A scrivere ho davanti il mondo. Parole e immagini nell’opera di Pietro Ghizzardi, a cura di Rizomi Art Brut, Glifo Edizioni, Palermo 2014 M. Dall’Acqua Marzio, Pietro Ghizzardi 1906 – 1986. Quasi un’autobiografia, I Quaderno della Casa Museo Al Belvedere “Pietro Ghizzardi”, Boretto 1992 R. De Grada, Pietro Ghizzardi, una vita come un film, II Quaderno della Casa Museo Al Belvedere “Pietro Ghizzardi”, Boretto 1993 M. De Micheli, Pietro Ghizzardi, Galleria della Steccata, Parma 1975 A. Devroye-Stilz , S.Milan, J.Péglion, Pietro Ghizzardi 1906 – 1986, Musée International d’Art Naïf “Anatole Jakovsky”, Nizza, 2004 P.Ghizzardi, Mi richordo anchora, Einaudi, Torino 1976 P.Ghizzardi, A lilla quatro pietre in mortalate, Scheiwiller, Milano 1980 P.Ghizzardi, Pietro Ghizzardi – Inediti letterari, a cura di G. Negri e V. Erlindo, Renzo Pivetti Editore, Mirandola 1986 P. Sidoli, L’arte non facile di Pietro Ghizzardi, III Quaderno della Casa Museo Al Belvedere “Pietro Ghizzardi”, Boretto 1994 F. Solmi, Un mito disperato, 1968 C. Zavattini, Opere – 1931 – 1986, Bompiani, Milano 2005 Sito web: www.pietroghizzardi.com
NdR. “Arte irregolare” è il termine italiano proposto dalla storica dell’arte Bianca Tosatti per indicare le produzioni creative di area brut, outsider, naïf e marginale in genere, a partire dal 1997 con Figure dell’anima. Arte irregolare in Europa, Mazzotta, Milano 1997, e in seguito in Oltre la ragione. Le figure, i maestri, le storie dell’arte irregolare, Skira, Milano 2006, catalogo di una mostra a dimensione europea, tenutasi a Bergamo, dove furono esposte anche diverse opere di Ghizzardi.
1
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NEL SEGNO DELLA BELLEZZA: LE ESPERIENZE CREATIVE DEL LAO di Daniela Rosi
REPORT
L’etica della curatela nella prassi di un esemplare progetto italiano di creazione, tutela e promozione per gli outsider contemporanei
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Il LAO [Laboratorio (pro) Artisti Outsider] è un’associazione nata per scoprire, sostenere e promuovere gli artisti outsider contemporanei. L’intento ultimo dell’associazione sarebbe quello di arrivare ad associare principalmente gli artisti stessi, dando loro la possibilità di essere gli artefici diretti della promozione della loro opera, avvalendosi del supporto di storici dell’arte, artisti, curatori, galleristi e collezionisti. Obiettivo, questo, apparentemente semplice, ma in realtà piuttosto complesso per diversi motivi, sia di tipo sociale che legale. Va ricordato che diversi artisti outsider non sono ritenuti dai familiari o dai servizi sociali persone in grado di prendere autonomamente le proprie decisioni e vengono quindi affidati a tutori o amministratori di sostegno, con i quali, ovviamente, va costruito un rapporto di fiducia e di collaborazione per arrivare a garantire agli artisti il massimo dell’ autonomia decisionale possibile nella gestione delle proprie opere. Impegno del LAO è anche quello di intraprendere con gli artisti una battaglia anti-stigma nel grande e variegato mondo dell’arte contemporanea, promuovendo incontri, dibattiti e curando mostre, sia personali che collettive, anche in dialogo con artisti del mainstream. L’idea di questa iniziativa parte da diverse considerazioni maturate in tanti anni di attività su questo fronte. La prima,
e più urgente, è la consapevolezza che a occuparsi di artisti irregolari storicizzati, perlopiù già defunti, sono già in molti, sia in Italia che all’estero (per quanto riguarda noi, per esempio, a Verona è nato nel 2004 il primo Osservatorio di Outsider Art: una collaborazione fra il Centro Franca Martini di Trento e l’Accademia di Belle Arti di Verona proprio per studiare il fenomeno storico, oltre che per monitorare le opere che escono dai luoghi di cura), mentre invece sono molte meno le persone che si occupano direttamente degli artisti vivi. Di certo ci sono i conduttori di atelier, ma molti di loro non estendono il loro impegno alla curatela o, per questioni professionali, non stabiliscono legami con gli
Sandali prodotti dall’Atelier Gengiscao, Marzana Verona. Progetto LAO per Marni
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Atelier NoUei, Udine. Progetto LAO per Marni
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artisti (utenti) che vadano oltre l’orario di lavoro e il rapporto professionale richiesto dall’istituzione. I battitori liberi, poi, sono il più delle volte in un’assoluta, totale solitudine. Fra di loro, tra l’altro, si trovano spesso gli artisti più interessanti dell’intero panorama artistico contemporaneo, di certo gli artefici dell’arte meno paludata che si possa incontrare oggi. È di tutti questi artisti, tanto dei primi e ancor più dei secondi, che il LAO si vuole occupare. Naturalmente, come già detto, è molto diverso studiare il fenomeno dal punto di vista storico o della critica rimanendo comunque nell’ambito teorico, che
aver a che fare direttamente con gli artisti. Con gli artisti viventi, come è ovvio, bisogna NECESSARIAMENTE fare i conti. Ciò significa che con loro bisogna accordarsi su tutto: sull’uso del linguaggio da adottare per parlare di loro, sulla scelta di dove e come farli conoscere, sulla loro volontà o non volontà di condividere il risultato del loro lavoro, sul loro diritto di fare della loro opera l’uso che credono, anche di distruggerla, per esempio, o regalarla o scambiarla per cose di bassissimo valore se per loro costituisce merce di scambio e un modo per rimanere in relazione con il territorio in cui vivono. O, in altri casi, bisogna convincerli del contrario e cioè a difendere la loro opera, quando diviene oggetto troppo facile di “ruberie” da parte di “acquirenti senza portafoglio” inclini ad appropriarsi indebitamente del lavoro di questi artisti senza dare loro nulla in cambio. In molti casi è necessario anche proporsi come tramite: talvolta con i familiari o con i tutori e gli amministratori di sostegno che, il più delle volte, non hanno alcuna competenza in ambito artistico e talora nemmeno la consapevolezza (sia pure indiretta) di essere di fronte a un artista. Il Lao, in questi casi, cerca di svolgere un lavoro di consulenza per aiutare a garantire la tutela delle opere e i diritti degli artisti. Un altro obiettivo è quello di fare in modo che le istituzioni deputate alla cura (come per esempio gli ospedali, i centri di salute mentale o i centri diurni psicosociali) demandino agli esperti del mondo dell’arte la cura dei risultati artistici ottenuti da eventuali loro utenti artisti. Questo per evitare quel cortocircuito, del resto molto frequente, per cui l’artista arriva al pubblico come il malato che fa arte, piuttosto che come artista. Non considerando, tra l’altro, un interessante punto di vista che non sempre viene tenuto in considerazione dal mondo medico, e cioè che spesso un artista malato, proprio perché artista, è in grado di produrre arte nonostante la malattia. Gli artisti a cui il LAO si rivolge sono quindi sia
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i battitori liberi, che vivono in posizione di marginalità, che quelli che operano negli atelier attivi in ambito psichiatrico, carcerario o in realtà extra-ordinarie come la strada e altri luoghi di sostegno sociale. Il LAO cerca, per ognuno di loro, con loro, opportunità diverse, a seconda dei casi, delle propensioni e delle aspettative. Operativo da settembre 2014, fino a oggi il LAO ha realizzato già diverse cose. Fra le più importanti, citiamo l’apertura nel 2015 dell’Atelier Belloaperto, in collaborazione con il Palazzo Ducale di Mantova. Un progetto unico in Italia, reso possibile dalla lungimiranza di quattro donne straordinarie: Giovanna Paolozzi Strozzi, sovrintendente SBSAE per le province di Mantova, Cremona, Brescia; la storica dell’arte Renata Casarin, vicedirettore del museo e responsabile dei servizi educativi; la direttrice del laboratorio di restauro, Vanda Malacarne e la restauratrice Chiara Reggiani, che hanno accettato di collaborare con il LAO allo scopo di aprire le sale più belle di Palazzo Ducale a tutti gli ‘outsider’, siano essi battitori liberi o frequentatori di atelier operativi nei centri psicosociali del territorio che trovano qui, nelle sale magnifiche dei Gonzaga, un luogo ideale dove esprimersi liberamente immersi nella Bellezza. Altra collaborazione di rilievo è stata quella con la griffe di alta moda MARNI, per la quale il LAO ha coinvolto tre atelier operativi rispettivamente a Verona, Mantova e Udine al fine di dipingere 160 paia di sandali in pelle, il cui ricavato della vendita è andato alla realizzazione di un istituto per la cura e l’istruzione di bambini tibetani disabili da parte dell’associazione indiana Vimala. I sandali sono stati proposti a Hong Kong, in concomitanza con Art Basel, e a Tokyo in occasione del ventesimo compleanno dell’azienda. L’arte applicata si presta molto per le attività degli atelier. Gli artisti si sono dimostrati molto fieri di poter contribuire con il loro lavoro a un’iniziativa di charity e anche
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soddisfatti di vedere le loro opere pubblicizzate sulle riviste di moda di tutto il mondo. Abbiamo poi promosso diverse collaborazioni: con il Festival Pergine Spettacolo Aperto (Trento) per la mostra Porte dedicata a Francesco Nardi; con la Fondazione Creberg di Bergamo (che sostiene il progetto complessivo) per la mostra Pharmakon dedicata a Dario Righetti; con la Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia (in collaborazione con Preface, Francia, e Officina delle Nuvole, Italia) per la mostra De l’ombre à la lumiére, dove erano esposte le opere di sei fotografi che hanno lavorato con i detenuti in realtà carcerarie italiane, francesi, russe, moldave, lituane e brasiliane. I progetti per il 2016 sono molti e ancora più ambiziosi. Intanto svilupperemo ulteriormente l’Atelier Belloaperto al Palazzo Ducale di Mantova. Il nuovo
Allestimento della mostra di Dario Righetti a Bergamo, 2015
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direttore del museo, Peter Assmann, che è anche un artista, si è dimostrato assolutamente interessato al progetto e intende portarlo avanti e stabilizzarlo all’interno di un progetto molto più ampio di ‘accademia per tutti’. Avremo perciò modo di ampliare l’attività coinvolgendo altri artisti contemporanei e anche i cittadini mantovani che vogliano condividere l’esperienza. Inoltre dal 10 marzo è allestita la mostra PHARMAKON di Dario Righetti1 all’interno della domus romana che si trova dentro il perimetro del Banco Popolare, nel centro storico di Verona. Questo permette al LAO di far dialogare i serpenti di Dario Righetti con i mosaici romani e di far collaborare l’artista ottantenne con Stefano Zampini, un giovane videomaker che realizzerà un video sulla mostra e Stefano Chiozzi, un giovane musicista, pianista e compositore, che fornirà le musiche per la colonna sonora. A fine aprile partecipiamo al convegno internazionale Corps meurtris, beaux et subversifs. Réflexion transdisciplinaires sur les modifications corporelles all’Università di Strasburgo, con un contributo sulle opere pittoriche ‘baconiane’ di Caterina Marinelli. Abbiamo pure il progetto di pubblicare un quaderno d’autore di un artista outsider mantovano inedito e un testo critico sullo scultore Michael Noble, promotore dell’atelier storico di San Giacomo alla Tomba di Verona, dove sono emerse le figure di Carlo Zinelli e Dario Righetti. Stiamo inoltre programmando una serie di altre mostre e collaborazioni con festival, fondazioni e musei, sia in Italia che all’estero.
www.lao-art.it 1
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NdR. Cfr. sulla nostra rivista l’articolo di D. Rosi, I BISSI di Dario Righetti, n. 8, ottobre 2014, ( Glifo edizioni, Palermo), pp. 34-47.
Allestimento della mostra di Dario Righetti alla Domus Romana di Verona, marzo 2016
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GLI AUTORI DEI TESTI NOTE INFORMATIVE Mari Accardi, scrittrice, è nata a Palermo e vive in Francia. Ha pubblicato il libro Il posto più strano dove mi sono innamorata (Terre di Mezzo, 2013), finalista al Premio Settembrini, ed è una delle 11 scrittrici dell’antologia Quello che hai amato (Utet, 2015) curata da Violetta Bellocchio. Francesco De Grandi artista, dopo alcuni soggiorni a Milano e Shanghai, vive e lavora a Palermo dove è nato nel 1968; si interessa alla matrice ontologica della pittura come percorso di conoscenza e con la sua ricerca pittorica meditativa tende a spogliarsi dalle contaminazioni dell’immagine contemporanea per ritrovare una forma di purezza e onestà. Eva di Stefano, ha insegnato dal 1992 al 2013 Storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Palermo, ha fondato e dirige l’Osservatorio Outsider Art e l’omonima rivista. Rachele Fiorelli, giovane storica dell’arte, vive a Palermo e si occupa di progettazione e marketing per la cultura; collabora stabilmente con l’Osservatorio Outsider Art anche in qualità di segretario dell’associazione. Graciela Garcìa, ricercatrice e curatrice specializzata in Art Brut, vive a Madrid e collabora con la Galerie Christian Berst (Parigi) e la Fundacìon Art Brut Project (Cuba); cura da anni il blog http://elhombrejazmin.com/ e ha pubblicato Arte Outsider. La pulsión creativa al desnudo (Sans Soleil, Barcellona 2015). Marina Giordano storica dell’arte, insegna in un liceo palermitano; è vicepresidente dell’Associazione Osservatorio Outsider Art, che rappresenta nel direttivo dell’associazione europea EOA. Ana Karen Gonzáles Barajas, fotografa e graphic designer, svolge una ricerca sull’Outsider Art in Messico per il Master sulle arti dell’Università di Guanajuato; è consulente della rivista spagnola di Outsider Art “Bric-à brac” e tiene workshop di inclusione sociale in una comunità rurale del Guanajuato. Nina Katschnig dirige la Galerie Gugging, che dal 1994 è il braccio operativo dell’articolato Art Brut Center presso il Museum Gugging (Vienna). Hans Langner, artista con il nome d’arte Birdman, è nato nel 1964 a Karlsruhe (Germania) e ha esposto più volte in Europa e in Oriente; il suo lavoro esplora materiali diversi e spazia dalla performance all’installazione, dalla pittura all’assemblaggio. Teresa Maranzano, storica dell’arte e curatrice specializzata in Art Brut, vive a Ginevra dove coordina il progetto Mir’arts, il cui obiettivo è promuovere gli artisti svizzeri in situazione di handicap. Nicola Mazzeo, sociologo, ha fondato e dirige a Torino con Caterina Nizzoli la galleria specializzata Rizomi_art brut. Giulia Morelli, è studiosa di teatro e curatrice editoriale per alcune riviste di settore, drammaturga; lavora a Rai5 e dal 2012 segue l’attività di programmazione culturale e museale e la comunicazione della Casa Museo “Pietro Ghizzardi” a Boretto (RE). Lucienne Peiry, storica dell’arte e specialista internazionale di Art Brut, ha diretto il museo della Collection de l’Art Brut a Losanna dal 2001 al 2011, oggi tiene dei corsi
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presso diverse università e redige il blog informativo www.notesartbrut.ch; tra i suoi libri l’imprescindibile L’Art Brut (Flammarion, Parigi, 1997) tradotto in diverse lingue, compreso il cinese. Roberto Perez chiamato dagli amici “incantatore delle pietre”, è medico per vocazione e artista per devozione; si è dedicato alla produzione artistica (pittura, scultura in pietra e altri materiali, architettura, vetrate) con l’obiettivo di migliorare e trasformare un podere di sua proprietà, presso Granada, in un luogo d’incontro, conciliazione e sperimentazione. Daniela Rosi, art curator, studia da anni i rapporti tra arte, malattia, disagio e pratiche artistiche autodidatte, è fondatrice e direttore artistico del LAO (laboratorio - proartisti outsider) e docente presso l’Accademia di Belle Arti di Verona Morteza Zahedi, artista e pluripremiato illustratore iraniano, dal 2001 è anche l’unico collezionista di Outsider Art in Iran e si dedica alla sua promozione in patria e all’estero; vive a Teheran.
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CREDITI FOTOGRAFICI
I numeri si riferiscono alle pagine della rivista da 14 a 27: Collezione Morteza Zahedi, Teheran 29, 32: Collezione abcd, Montreuil-Parigi 30, 31: Ana K. Gonzáles Barajas, 2015 32: Collezione abcd, Montreuil-Parigi da 33 a 38: Ana K. Gonzáles Barajas, 2015 da 40 a 45: Rachele Fiorelli, 2016 da 50 a 57: Roberto Perez, Granada 2015 61, 64: Courtesy Francesco De Grandi, Palermo 67: Leon Borensztein, Collection de l’Art Brut, Losanna 68 a sinistra: Archivio Joyce Scott, Ca. USA 68 a destra: Lucienne Peiry, Archives de la Collection de l’Art Brut, Losanna da 69 a 77: Arnaud Conne, Atelier de numérisation – Comune di Losanna, Collection de l’Art Brut, Losanna 78: www.jutarnji.hr 80: Moumina Wagner; courtesy Graciela García da 81 a 87: Alvaro Acinas e Jessica Moroni; courtesy Galleria Alegrìa, Madrid da 89 a 95: Courtesy Birdman Hans Langner 99: http://studioegallery.org/archives/39 da 100 a 105: Mari Accardi, 2015 da 107 a 111: Collezione Fabio e Leo Cei ; courtesy Jaca Book, Milano 113: Isabella Tribolati, Casale Monferrato 2015; Collezione Fabio e Leo Cei 114, 115: Collezione Fabio e Leo Cei; courtesy Jaca Book, Milano da 119 a 123: Atelier de numérisation – Comune di Losanna, Collection de l’Art Brut, Losanna da 124 a 128: Nicola Mazzeo, 2016 131, 132: Courtesy Galleria Rizomi_art brut, Torino 133, 134: Courtesy Galleria Maroncelli 12, Milano 135, 136: Courtesy Galleria Isarte, Milano da 140 a 146: Courtesy Casa Museo Pietro Ghizzardi, Boretto (Reggio Emilia) da 148 a 155: Courtesy Daniela Rosi, Verona
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