Luglio 2012 N° 5
Osservatorio dell’Asia Orientale Giappone a 360°. Intervista a Pio d’Emilia • Ripensaci Giappone! • Il processo di Tokyo • La lunga marcia di Pechino verso l’alto • Tibetan immolations reached the Capital • Luoghi comuni sulla Corea del Nord • Yeosu 2012 : see you sea • Taiwan 2.0: lo sbarco di Google • Taiwan: una realtà in declino? • India e Cina alla prova della fame • Lo Slow Food in Asia, una chiaccherata con Anandi Soans• Chinese class: #1
Cinque numeri, due conferenze, tre focus, due partnership tanti nuovi soci e nove mesi di attività. Luglio è arrivato, gli esami sono finiti, ed è tempo di bilanci e progetti fututi. Il bilancio è positivo, quindi soffermiamoci su ciò che verrà. Stiamo organizzando varie iniziative a lungo termine, tra cui: un ciclo di conferenze/seminario, un Premio di Laurea per tesi magistrali, conferenze singole dal respiro accademico, pubblicazione mensile dell’Osservatore, progetti organizzati in collaborazione con realtà simili alla nostra. Non entriamo nei dettagli, perciò continuate a seguirci sul nostro sito/twitter/facebook e a settebre non mancheranno le novità! Per il quinto numero dell’Osservatore vi proponiamo due nuove rubriche e un articolo scritto dai giovani studenti bolognesi di Cronache Inernazionali, con i quali collaboriamo da un po’ di mesi. Per innaugurare la rubrica di interviste siamo lieti di potervi proporre due interessantissimi pezzi: nel primo si parlerà di Giappone con il giornalista e yamatologo Pio d’Emilia, che sicuramente molti di voi conosceranno già; nel secondo parliamo con Anandi Soans, attuale South Asia Director per Slow Food International, di una realtà ancora poco conosciuta ma in forte espansione: Slow Food in Asia. Infine c’è la seconda nuova rubrica, Chinese Class, che raccoglierà una serie di “lezioni” poco grammaticali, ma molto culturali, sulla lingua cinese. Buona lettura! Direttore Cesare Marco Scartozzi Caporedattore Rebecca Ravalli Autori Simone Cattaneo Micol Cavuoto Mei Giacomo Giglio Cristiano Gimmelli Vittorio Maiorana Nicolò Pallotta Tullia Penna Michele Russo Cesare Marco Scartozzi Luglio 2012 - numero 5
Maria Varvyanskaya Roberta Venditti Marco Milani e Andrea Passeri Grafica copertina Fabio Camèra L’associazione Ass. Culturale Osservatorio dell’Asia Orientale. Via Palmieri 25, Torino, 10138, Italia. C.F./P.IVA 97748700016 www.osservatorioasiaorientale.org Contattaci a
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Giappone a 360°. Intervista a Pio d’Emilia. Ripensaci Giappone! Il processo di Tokyo. La lunga marcia di Pechino verso l’alto. Tibetan immolations reached the Capital. Luoghi comuni sulla Corea del Nord. Yeosu 2012 : see you sea. Taiwan 2.0: lo sbarco di Google. Taiwan: una realtà in declino? India e Cina alla prova della fame. Lo Slow Food in Asia,una chiaccherata con Anandi Soans. Chinese class: #1 The nature of the Chinese character.
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Rubrica l’INTERVISTA
Giappone a 360°. Intervista a Pio d’Emilia
di Cesare Scartozzi
Pio d’Emilia è un giornalista italiano e yamatologo. Si occupa di Giappone e Asia da oltre trent’anni, collaborando con il Messaggero, il Manifesto, L’Espresso, la Rai, Tokyo Shinbun. Dal 2005 è corrispondente per l’Estremo Oriente di Sky Tg24. Dal novembre 2011, assieme al collega giapponese Takashi Uesugi, ha fondato l'Associazione per la libera informazione e il seguitissimo blog http://news-log.jp.
Politica interna - Il primo ministro Yoshihiko Noda sembra aver legato il suo mandato alla riforma fiscale che alzerà le imposte sui consumi (oggi al 5%) fino al 10% ento il 2015. Per raggiungere questo obbiettivo Noda ha recentemente imposto un rimpasto di governo e annunciato che il provvedimento dovrà passare entro la fine della sessione parlamentare che si conclude il 21 giugno. La finanza dissestata e l'enorme debito pubblico suggeriscono che l'innalzamento delle imposte sui consumi sia necessario, ma il Giappone sta ancora subendo gli effetti economici del 3/11 e un aumento delle imposte potrebbe causare una pericolosa deflazione. Come si spiegano la sicurezza e l'insistenza di Noda nel far passare questo provvedimento? Intanto, possiamo dire che, grazie alla recente accelerazione e all’estensione della sessione parlamentare, l’obiettivo è stato raggiunto. Il “pacchetto” è passato. L'aumento dell'IVA era una questione sul tappeto da molti anni. Una necessità indispensabile, per varie ragioni, ma soprattutto, più che per ripianare il deficit pubblico (che il Giappone può permettersi, essendo al 90% sottoscritto da investitori interni) quella di proteggere le pensioni e mantenere gli attuali, altissimi standard di welfare (il Giappone è uno dei pochi paesi dove l'assistenza sanitaria, gratuita per tutti salvo pagamento di ticket irrisori, non ha subito tagli, anzi, continui miglioramenti. E’ tuttavia sempre stata una questione molto delicata e dal punto di vista politico pericolosa. Nel politichese locale si dice: "chi tocca l'IVA, l’Osservatore - luglio 2012
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muore". E in effetti per molti anni è stato così. Molti leader ne parlavano, qualcuno ci provava ma poi, prima di riuscirci, veniva fatto fuori. E' proprio grazie a Naoto Kan, leader coraggioso ma ahimè giunto al potere nel momento sbagliato e trovatosi subito a dover fronteggiare una tripla, tragica catastrofe, che il governo ne ha fatto una priorità assoluta. Noda, che è uomo di Kan (deve a lui la sua carriera politica, e nonostante le apparenze, è tutt'ora molto vicino all'ex premier) è riuscito di fatto a portare avanti, non senza difficoltà, il suo piano. L'aumento dell'Iva così non solo è passato, ma ha anche risolto in qualche modo il problema di Ichiro Ozawa. L’ex segretario che dopo essere stato costretto a dimmetersi per l’ennesimo scandalo finanziario era rientrato con l’evidente intenzione di spaccare il partito. Alla fine se ne è andato - anzi, formalmemte è stato espulso - fondando (il 12 luglio) un nuovo, ennesimo partito, ma senza portarsi dietro, come aveva minacciato e sembrava essere in grado, un numero di deputati e senatori sufficiente a togliere la maggioranza al PD, che alla Camera resta abbastanza solida. Quindi elezioni anticipate per ora scoingiurate (del resto, come in Italia, non le vuole nessuno) e più tempo al PD, dove l’ex premier Kan ha riconquistato una posizione dominante, per portare avanti il suo programma di riforme. - Nel maggio del 2002 l'agenzia di rating Moody's ha abbassato il rating del credito a lungo termine giapponese da A3 ad A2. Il Ministero della Finanza colse l'occasione per fare la seguente dichiarazione "In the case of industrialized countries such as the US and Japan, defaulting on localcurrency denominated debt is unimaginable. What kind of risk is exactly contemplated as 'default'?". I tempi sono cambiati ma la percezione del "Too big to fail" sembra essere ancora radicata tra i giapponesi. E' davvero così? Assolutamente sì. Il Giappone non può "fallire". Prima di farlo, farebbe fallire gli Usa, abbandonando i titoli di stato che sottoscrive e che, assieme a quelli detenuti dalla Cina, continuano a far "sopravvivere" gli Stati Uniti. Non per niente la grande preoccupazione, tra gli addetti ai lavori più saggi (sia in Giappone che all'estero) è quella del BIG ONE, di un terremoto devastante o di un'altra catastrofe (nucleare?) che costringa il Giappone a "battere cassa", a ritirare tutti i suoi investimenti l’Osservatore - luglio 2012
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e dar fondo alle riserve naturali, per far fornte all'emergenza e finanziare la ricostruzione. Il Giappone si riprenderebbe, gli Stati Uniti no. - Ora un breve commento su: -Naoto Kan (ex-Primo Ministo). Leader atipico, in tutti i sensi. Uno dei pochi a non provenire dalla "casta", nè sociale (suo padre era un piccolo imprenditore/ commerciante, i suoi figli non fanno politica) nè accademica (è uno dei pochi a non aver frequentato la Todai, la statale di Tokyo: ha studiato ingegneria). E' anche uno dei pochi che viene dalla gavetta, ha cominciato la sua attività come segretario personale di Fusako Ichikawa, antesignana del movimento femminista giapponese. Pessimo carattere, ma uomo onesto. Nella sua lunga carriera non è mai stato coinvolto in scandali finanziari o di corruzione -Yoshihiko Noda (attuale Primo Ministo). E’ autodefinito "dojo", una specie di anguilla marina, nota per passare la maggior parte del tempo nascosta sotto il fango. Non è un protaginista. Ma è un fedele esecutore. E' stato messo alla guida del partito e del governo da Kan, al quale deve tutta la sua carriera politica (passata nel ministero delle finanze). Finora ha mantenuto le promesse. Ha fatto approvare la riforma dell'Iva e perfezionato il cosiddetto "pacchetto verde" varato da Kan prima delle dimissioni. Anche sulla questione nucleare, contrariamente alle apparenze, seguirà la "road map" ideata da Kan per l'uscita programmata, ma totale, dal nucleare. Il fatto di aver autorizzato la riattivazione di due reattori è il "prezzo minimo" pagato alla lobby nucleare, ma l'obiettivo finale è quello di uscire. Gradualmente, ma uscire. -Toru Hashimoto (sindaco di Osaka). Una via di mezzo tra il nostro Renzi (sono giovane, quindi ho ragione) e Grillo (populista....tanti no, ma poche proposte). Con una punta di arroganza da novello caudillo, che in Giappone non manca mai. Per un po' sembrava lanciatissimo, ma ora le sue azioni sono in netto calo. Non diventerà primo ministro, e forse non sbarcherà nemmeno a Nagatacho (il quesrtiere di Tokyo dove ha sede il Parlamento)
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-Shintaro Ishihara (sindaco di Tōkyō). Una reliquia vivente. Certe sue uscite fanno accapponare la pelle, ma poi chiede sempre scusa e questo ai giapponesi piace. Alle sue posizioni ipernazionaliste e a volte francamente neonaziste su temi nazionali e internazionali corrisponde tuttavia una grande capacita di gestione della metropoli più grande (e ordinata) del mondo. E anche questo ai giapponesi, specie i cittadini di Tokyo, piace. Tant'è che l'hanno rieletto per ben 4 mandati consecutivi. Diciamo che dovrebbero toglierli la parola, lasciandolo governare e basta. aggiungo Ichiro Ozawa...come si fa ad ignorarlo? Nonostante due bypass, vari procedimenti giudiziari (che in Giappone in genere chiudono o quanto meno bloccano la carriera politica di chi vi è coinvolto) ed una serie di clamorosi voltafaccia è tutt'ora lo "yamishogun" (il grande burattinaio) della vita politica giapponese. Sulla breccia da trent'anni, ha fondato, distrutto e rifondato 9 partiti, senza peraltro mai diventare primo ministro. Dopo aver contribuito alla storica vittoria del PD nelle elezioni del 2008, è stato prima sospeso, poi riabilitato e infine espulso dopo il rifiuto di votare l'aumento dell'Iva. Ha appena fondato l'ennesimo partito: "Prima di tutto, l'interesse dei cittadini", portandosi tuttavia appresso solo 45 deputati, la maggior parte dei quali giovani al primo, e probabilmente ultimo, mandato. Anche se in passato ci ha abituato a clamorosi "ritorni", sembra che età, salute e magistratura stanno collaborando per assicurargli il giusto riposo Politica estera - Nel recente rimpasto di governo, già accennato ad inizio intervista, il professore universitario Satoshi Morimoto è diventato il nuovo ministro della Difesa ed il primo nella storia a non essere un parlamentare. Morimoto è conosciuto per il suo supporto all'allenaza con gli USA e per il suo scetticismo nei confronti della Cina. Ci dobbiamo aspettare un Giappone più duro nel rispondere alle rivedicazioni Cinesi e più accondiscendente con la questione Okinawa? Il Giappone continua a non avere una politica estera degna di questo nome. E fino a quando non ce l’avrà, sarà in balia degli Stati Uniti e, ora che questi ultimi sono costretti a “trattare” con la Cina, anche di Pechino. l’Osservatore - luglio 2012
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Il Giappone è mlto preoccupato del sempre più intenso rapporto tra USA e Cina, il cosiddetto G-2 che di fatto oramai regola l’economia mondiale. E teme che il suo ruolo di interlocutore “speciale” degli Usa in Asia sia a rischio se non già concluso. Molti giovani politici, sia nel DPJ che nel LDP, sono su posizioni antiamericane e alcuni puntano decisamente ad un riavvicinamento politico alla Cina. Ichiro Ozawa è uno di questi, ma come abbiamo visto, la sua influenza è in netto declino. - La politica estera giapponese sembra essere caratterizzata da incertezze: nell'ultimo periodo esse si sono manifestate nell'indecisione tra l'aderire o meno al Trans-Pacific Partnership (TPP) o ad un free trade agreement tra Cina, Corea del Sud e Giappone. Quale delle due opzioni le sembra più praticabile? Già risposto in parte qui sopra. Quanto a TPP e free trade agreement regionale, penso che il Giappone, prima o poi, aderirà ad entrambi. Prima..o poi. - Grazie ad un accordo bilaterale dal 1 giugno 2012 lo Yen giapponese e lo Yuan cinese sono convertibili direttamente senza l'utilizzo del dollaro. Quali ripercussioni economiche e politiche si avranno nel prossimo futuro? Enormi. E’ un accordo di portata storica che il mondo occidentale sembra ignorare, ma che è destinato ad influenzare in modo significativo non solo I rapporti economici bilaterali, ma anche il mercato valutario. Soprattutto ora che la Cina è (giustamente) preoccupata per il futuro dell’euro, valuta sulla quale aveva puntato e che aveva sostenuto sin dall’inizio. Poter regolare I rapporti bilaterali tra la seconda e la terza economia mondiale direttamente, senza usare il dollaro potrebbe indebilire e ridurre ulteriormente il ruolo di questa valuta. 3/11 e Fukushima Dai-ichi - A più di un anno di distanza sembra che l'opinione pubblica abbia cambiato drasticamente la propria preferenza sul nucleare, ma quale impatto hanno oggi i cittadini sulle scelte dei politici? Si, la situazione è cambiata. Oramai la stragrande maggoranza dei l’Osservatore - luglio 2012
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cittadini, nonostante una “copertura” della stampa locale ancora insufficiente e fuorviante, hanno cambiato idea ed il governo non può non tenerne conto. - Abbiamo visto come la Yakuza sia stata tra i primi a soccorrere le vittime del 3/11; ma qual'è stato il suo vero contributo, questa volta negativo, nel pre e post crisi? La yakuza è stata determinante a Kobe, ai tempi del terremoto, molto meno nel caso dello tsunami. Che ha riguardato il Tohoku, la regione più povera del Giappone e dunque meno interessante per la “mafia”, che oramai si muove in campo finanziario, soprattutto. Qualcosa si è mosso solo dopo il 9 aprile, quand è uscito dal carcere il superboss Tsukasa. Ma per quanto riguarda l’aiuto ai cittadini questa volta il contributo è stato minimo. Continua oviamente il ruolo della yakuza nella ricostruzione, negli appalti e nel procurare manovalanaza “a perdere”, per i lavori più delicati all’interno delle centrali. - Naoto Kan ha lasciato un'importante eredità "verde" al Giappone, e Noda sembrava intenzionato a salvaguardarla; cosa è cambiato e perché? Ho già risposto sopra: Noda e Kan sono sulla stessa lunghezza d'onda, anche se all'esterno non è facile percepirlo. Il pacchetto verde, fatto approvare da Kan prima di dimettersi, è in parte già entrato in vigore (libralizzazione della produzione di energia, sistema di fee-inn, obbligo di acquisto dell’energia prodotta da parte delle compagnie elettriche, incentivi alla produzione delle energie alternative. Molte imprese, guidate da imprenditori giovani e coraggiosi stanno investendo nelle rinnovabili. Sarà un processo lento, ma sono convinto che presto sarà approvata e annunciata la famosa “road map” e che il Giappone uscirà – completamente - dal nucleare. Per continuare a seguire Pio d’Emilia e per informarsi sul Giappone visitate il blog http://news-log.jp !
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Ripensaci Giappone! di Vittorio Maiorana
Secondo Albert Camus “ invece di affermare prima di tutto che la pena di morte è necessaria e poi aggiungere che è meglio non parlarne, è essenziale indagare a fondo la sua natura e alla luce di questa, stabilirne la necessità”. In effetti, non c’è alcun potere pubblico che vada oltre la scelta tra la vita e la morte, e nessuna intrusione nella sfera umana più invasiva di quella comportata dalla pena capitale, che quindi ha un eccezionale bisogno di essere dibattuta e criticata. In Giappone critiche e dibattiti sull’argomento non sono ammessi, il rigidissimo segreto che circonda la pena di morte nel paese del sol levante appare decisamente antistorico, oscuro, contrastante le astrazioni giusnaturaliste, che vogliono leggere gli spazi inviolabili della persona nella natura dei rapporti umani, ma anche le più basilari convenzioni sui diritti dell’uomo, del prigioniero e della sua famiglia. In Giappone i condannati a morte sanno che saranno giustiziati solo un’ora prima dell’esecuzione, ed hanno appena il tempo di fare ordine nelle loro celle e scrivere qualche lettera, dichiarò Sakae Menda, rilasciato nel 1983 dopo 34 anni nel braccio della morte del penitenziario di Nagoya: “il momento tra le 8.00 e le 8.30 è quello della notificazione, ogni mattina inizi a percepire l’ansia più terribile perché non sai se le guardie si fermeranno proprio davanti alla tua cella”. In Giappone i familiari dei condannati a morte sanno dell’esecuzione solo dopo che questa ha avuto luogo ed hanno 24 ore di tempo per raccogliere il cadavere, gran parte dei cadaveri non sono reclamati. In Giappone nulla trapela prima del momento fatale, questo limita il dibattito e minimizza le proteste, fino al 1999 non era data notizia nemmeno della morte del condannato, ora si fanno annunci anonimi del tipo: “Oggi, a Tokyo, un condannato a morte è stato giustiziato”. In Giappone nessuno può visitare i luoghi dove le esecuzioni hanno luogo l’Osservatore - luglio 2012
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né ottenere materiale processuale concernente i condannati a morte. In Giappone la strategia è ammazzare socialmente il condannato, minimizzando gradualmente i suoi rapporti con familiari, avvocati e altri detenuti per rendere più agevole il trapasso. In Giappone i boia devono dimostrare gratitudine per l’assegnazione di una mansione così onorevole, e le esecuzioni hanno luogo strategicamente prima del weekend o quando l’attenzione dell’opinione pubblica è distratta da altri eventi per attenuarne l’eco mediatico. In Giappone ogni condannato a morte può essere liberato senza preavviso in ogni momento senza un motivo particolare. Magari dopo decenni nel braccio della morte. Il confine tra vita e morte è spaventosamente sottile e arbitrario. Milleseicento anni fa il Giappone feudale importò la pena di morte dalla Cina imperiale, ma già nel nono secolo il raggiungimento di una relativa stabilità socio-politica e la diffusione del buddhismo lo resero il primo paese abolizionista al mondo, si ricominciò a giustiziare i criminali nel 1156 in seguito a una violenta ribellione e poi, per sette secoli, fino alla fine dell’era Tokugawa nel 1867, la pena capitale tramite bollitura, rogo, crocifissione, sfinimento fu elemento base dell’impianto penalistico giapponese, un monito dell’autorità samuraica alla società, ascrivibile al “colpirne uno per educarne cento” di confuciana memoria, un rito che andava pubblicizzato in ogni modo affinchè tutti sapessero. Con l’inizio dell’era Meiji, e la riscrittura delle regole giuridiche (e sociali) della società giapponese alla luce della “superiore” cultura occidentale, nel paese del sol levante, con l’aiuto di esperti francesi e tedeschi, si adottò nel 1882 un codice penale ispirato a quello in vigore nell’autoritario Reich tedesco-prussiano, un codice che contemplava la possibilità dello stato, autorità centrale e dominante, di condannare a morte ma con discrezione, in spazi ben definiti, alla presenza di pochi. Il principio della segretezza fu instillato per la prima volta nella cultura giapponese. L’adozione di un nuovo codice penale più autoritario nel 1908, l’imperialismo, l’umiliazione della seconda guerra mondiale, l’Osservatore - luglio 2012
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il processo di Tokyo e la reggenza del Generale MacArthur non alterarono le fondamenta di questa impostazione che il Giappone si era dato, la pena capitale era pronta per l’uso ma si iniziò a disporne sempre meno, 25 giustiziati negli anni ’50, 13 negli anni ’60, 5 negli anni ’70, 4 negli anni ’80, nessuno dal 1989 al 1993, quando i Ministri della giustizia non sottoscrissero alcuna condanna a morte. Dalla metà degli anni ’90, grazie anche alla spinta di casi eclatanti come l’attacco col gas sarin nella metropolitana di Tokyo portato nel 1995 dagli estremisti religiosi di AUM Shinrikyo (13 di loro, tra cui la “mente” Shoko Asahara, furono condannati a morte) e il massacro di otto bambini in una scuola elementare di Osaka da parte di Mamoru Takuma (anche lui condannato) nel 2000, si sono formati in Giappone due netti schieramenti contrapposti riguardo alla pena capitale: i favorevoli ad uno strumento in grado di scoraggiare potenziali criminali e garantire ordine e gli abolizionisti, contrari alla suprema autorità di uno stato capace di decidere della vita dei suoi cittadini. Per sottrarsi a critiche sempre più eterogenee e geograficamente e socialmente distribuite, le elite giapponesi della giustizia e del sistema carcerario hanno scelto di rafforzare la segretezza e di erigere un muro di silenzio con cui proteggersi dalle ingerenze di alcune frange della politica, dell’opinione pubblica, degli osservatori internazionali. Le giustificazioni sono le più varie, si dice che l’isolamento favorisce l’equilibrio dei condannati e che gli occidentali non possono capire a fondo una tradizione storicamente opposta alla loro come quella asiatica (ma in Cina, dove la pena capitale “all’asiatica” è nata e dove hanno luogo l’80% delle esecuzioni mondiali ogni anno, i condannati attendono il final giorno in compagnia, vengono portati per le strade prima dell’esecuzione con scritto ben chiaro il loro nome, il crimine che hanno commesso, possono “godersi” un ultimo pranzo in compagnia dei famigliari ed anche scattare con loro una foto commemorativa). Oggi ricerche e sondaggi ci dicono che l’ 80% dei giapponesi approvano la scelta del governo di mantenere in vigore la pena di morte e pochi mesi or sono, il 30 marzo 2012, tre condannati per omicidio plurimo sono stati l’Osservatore - luglio 2012
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impiccati nei penitenziari di Hiroshima, Tokyo e Fukuoka. Amnesty International, soltanto tre giorni prima, nel suo rapporto sulla pena di morte aveva lodato Tokyo perché sembrava decisa a proseguire la moratoria “di fatto”: era dal luglio 2010 che in Giappone un condannato non finiva sul patibolo. L'allora ministro della Giustizia Keiko Chiba, attivista e capo della Lega parlamentare contro la pena di morte, aveva a sorpresa autorizzato due esecuzioni il cui fine era di aprire un dibattito nella società nipponica per la sua abolizione, un'azione paradossale che, a posteriori, non è servita a granché, se non a togliere la vita anche a quei due detenuti. Nulla sembra presagire un cambio di direzione, il Giappone è sovrano e la tradizione, la cultura del più stretto riserbo, della morte silenziosa, sembra essersi ormai consolidata nella grande maggioranza dei giapponesi, che la accettano o quantomeno, anche aiutati da mass media estremamente omertosi sull’argomento, non si pongono il problema con la dovuta serietà. Ma davvero, come disse Camus e come ripete a gran voce buona parte della comunità internazionale, quando è in gioco l’arbitrio del potere su una vita umana la riflessione è doverosa a prescindere da qualunque atrocità commessa. Rifletti, Giappone!
Il processo di Tokyo di Tullia Penna
Più 48.000 pagine di verbale, 4.300 documenti acquisiti, 1.218 pagine di sentenza, 800 deposizioni raccolte, 419 testimoni, 250 persone incarcerate, 28 imputati, 3 tipi di crimini internazionali, 25 condannati e nessun assolto. Queste le cifre che hanno caratterizzato i lavori del Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente tra il maggio 1946 e il novembre 1948. Tribunale istituito a Tokyo sulla scia giuridica, politica e ideologica di quello di Norimberga e con la competenza a conoscere dei crimini internazionali perpetrati dal Comando Supremo nipponico. l’Osservatore - luglio 2012
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Legittimazione e istituzione La legittimazione del Tribunale venne aspramente criticata ancora prima della sua formale istituzione per due ragioni. La prima era l’ambigua e infelice posizione degli USA: promotori del progetto e contemporaneamente responsabili del lancio delle bombe atomiche sul Giappone. Nel panorama internazionale scosso dal secondo conflitto mondiale, i due piatti della bilancia della giustizia erano difficilmente equiparabili con un sistema di misure rigoroso. Pesavano su uno le 300.000 vittime di Hiroshima e Nagasaki, sull’altro il numero indefinito ma maggiore di quelle del Comando Supremo nipponico. Nella comunità internazionale di Stati superiorem non recognoscentes, fu la ragione del più forte, declinata in questo contesto come giustizia dei vincitori sui vinti, ad avere la meglio e su questo punto concorda la maggioranza degli studiosi. Perciò fu il generale MacArthur, Comandante Supremo delle forze alleate, a istituire con un bando il Tribunale. Quest’ultimo era regolato da un’apposita Carta riguardante i capi d’accusa, il corpo normativo applicabile e le modalità del procedimento. La seconda ragione atteneva alla sua costituzione ex post facto (critica mossa anche al tribunale di Norimberga e a quelli successivi del Ruanda e della ex-Jugoslavia). Questo problema giuridico-internazionale venne risolto soltanto nel 1998 con la creazione di una corte permanente, la Corte Penale Internazionale (CPI). Nel 1946 la soluzione attuabile fu quella di anteporre alla questione giuridica la necessità cogente di punire i crimini perpetrati dal Giappone. Composizione e tipologia di reati contestati La presidenza della corte venne affidata a Sir William Webb su comune decisione dei Paesi firmatari della capitolazione del Giappone, mentre gli altri dieci componenti furono scelti da MacArthur dalle liste fornite dai medesimi Paesi (USA, Gran Bretagna, Australia, Unione Sovietica, Cina, Francia Canada, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, India e Filippine). l’Osservatore - luglio 2012
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A differenza del processo di Norimberga, quello di Tokyo fu celebrato con minor ufficialità e considerato alla stregua di un comune rito penale. Il primo vide schierate ben quattro squadre di procuratori, una per ogni Paese accusatore, mentre il secondo solo una. I titoli di reato contestati afferivano a tre categorie distinte. La prima era quella dei crimini contro la pace: il Comando Supremo nipponico era accusato di aver cospirato per provocare lo scoppio di due conflitti, la seconda guerra sino-giapponese e la Guerra del Pacifico. Più pesanti erano i capi d’accusa afferenti alle altre due categorie, cioè i crimini di guerra (omicidio volontario di prigionieri, maltrattamento, deportazioni per lavori forzati, etc) e i crimini contro l’umanità (all’epoca residuali rispetto a quelli di guerra). Vennero esplicitamente escluse sia l’esimente del rispetto dell’ordine del superiore, sia l’immunità degli alti ranghi dell’esercito, dei ministri, dei Capi di Governo e di Stato. Da questo punto di vista il processo di Tokyo ebbe un’importanza essenziale: confermò il portato giuridico-politico del processo di Norimberga, che divenne così consuetudine (cioè fonte primaria) del diritto internazionale. Tale patrimonio fu codificato nello Statuto di Roma del 1998, cioè nel testo che regola a tutt’oggi il funzionamento e la competenza della CPI. Risultanze del processo A dispetto dalle critiche mosse al Tribunale, serve riconoscere quanta effettività assunse in quest’occasione il principio della responsabilità. Nessun militare o esponente politico (eccezion fatta per la famiglia imperiale salvata per discutibili motivi diplomatici) venne graziato in virtù della propria qualifica. La sentenza fu pronunciata il 4 novembre 1948: dei 28 imputati 2 morirono prima di quel giorno, 1 venne dichiarato non punibile perché mentalmente infermo, mentre i restanti 25 vennero condannati. Tra di loro vi erano ministri degli esteri, della guerra, della marina e alcuni ambasciatori. Le pene irrogate furono per la maggior parte ergastoli, alcune capitali e un paio di reclusioni dell’ordine di l’Osservatore - luglio 2012
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vent’anni. Le difese degli imputati, basate sulla non-responsabilità in quanto esecutori materiali di ordini superiori, non ebbero successo e fu questa senza dubbio la svolta storica. Il patrimonio del processo di Tokyo si formò anche durante i lavori di alcuni tribunali minori localizzati nei territori invasi dal Giappone (per il principio del locus commissi delicti). Secondo una stima imcompleta che non tiene conto dell’Unione Sovietica, in queste sedi 5.472 giapponesi furono sottoposti a giudizio, di cui 1.047 vennero assolti e 920 furono i condannati a morte. Nonostante la scarsa ufficialità allora attribuita alla sua celebrazione, difficilmente si può continuare a sostenere che il processo giapponese sia stata solo una copia sbiadita di quello tedesco. A Tokyo, infatti, venne confermato uno dei capisaldi del diritto penale internazionale (il principio della responsabilità personale) ed è anche grazie a questa conferma che si sono potuti punire individui come Mladic, Milosevic e Pinochet, in altri tempi e altri luoghi.
La lunga marcia di Pechino verso l’alto. di Marco Milani e Andrea Passeri - www.cronacheinternazionali.com
Il 16 giugno scorso, con il lancio della navetta spaziale Shenzhou 9, anche la Cina si è aggiunta alla lista dei paesi che hanno inviato un’ astronauta donna nello spazio. Il maggiore Liu Yang ha infatti seguito le orme della pioniera sovietica Valentina Tereshkova, portando a termine – assieme a due compagni di equipaggio – la prima missione di aggancio nello spazio di una navetta cinese, tappa intermedia dell’ambizioso “Progetto 921” che si prefigge la costruzione di una stazione orbitante permanente entro il 2020. Gli sforzi di Pechino in tale direzione rappresentano in questo momento un unicum a livello mondiale, in una fase storica e politica caratterizzata da ristrettezze di bilancio per la maggior parte dei paesi occidentali che si traducono in una ritirata strategica dai progetti di esplorazione spaziale. Il governo della Repubblica Popolare, in netta controtendenza, sta invece devolvendo al settore notevoli risorse ed energie. L’impegno di Pechino, l’Osservatore - luglio 2012
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che procede a tappe forzate, ha permesso nel volgere di pochi anni il raggiungimento di obiettivi di tutto rispetto: il primo astronauta in orbita nel 2003, la prima camminata spaziale cinque anni dopo, l’abbattimento di un satellite in disuso con un missile superficie-orbita nel 2007. Una serie di risultati notevoli, tali da lanciare una seria e credibile sfida al programma spaziale americano, russo ed europeo, fino ad instillare in alcuni analisti l’idea che ci si possa trovare agli albori di un nuovo ‘Sputnik moment’ per gli Stati Uniti. La lunga marcia verso l’alto intrapresa da Pechino affonda le sue radici nella seconda metà degli anni ’50, quando viene ipotizzato un primo abbozzo di programma spaziale dopo il rientro nel Paese di Qian Xuesen, formatosi al MIT e addestrato all’interno del programma missilistico americano, per poi essere accusato di spionaggio. Bisognerà però attendere il 1970 per vedere materializzati tali progetti, con il lancio in orbita del primo satellite cinese. Negli anni successivi si susseguono indiscrezioni e notizie sui connotati dell’impegno di Pechino, che non nasconde le proprie ambizioni nel campo dell’esplorazione spaziale. Il punto di svolta si ha nel 1992, con l’approvazione da parte della leadership della RPC del cosiddetto ‘Progetto 921’. Si tratta di un vasto e ambizioso programma, delineato in maniera totalmente autonoma rispetto alle altre missioni spaziali internazionali, che si divide in tre fasi distinte: nella prima ci si pone come obiettivo quello di mandare in orbita una missione dotata di equipaggio entro il 2002, nella seconda la creazione di un presidio orbitante temporaneo per il 2010, mentre per la terza ed ultima si prevede l’installazione di una stazione spaziale permanente entro il 2020, contestualmente al pensionamento dell’International Space Station (ISS). Alla luce della relativa facilità con cui i primi due traguardi sono stati raggiunti – un solo anno di ritardo rispetto a quanto preventivato – l’idea di un prossimo presidio spaziale permanente a firma cinese appare quindi tutt’altro che improbabile, con l’Osservatore - luglio 2012
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tutta una serie di possibili ricadute in termini di politica interna ed estera. La ricerca spaziale, infatti, si pone in una posizione assolutamente strategica, in termini di coesione e propaganda interna, prestigio internazionale e fallout tecnologico nel campo delle tecnologie balistiche e militari. Le immagini del lancio del maggiore Liu sono state seguite con partecipazione in tutto il Paese, anche grazie alla diffusione di centinaia di maxischermi che, emblematicamente, hanno riempito le piazze di Hong Kong e perfino di Taipei con spettatori rapiti ed orgogliosi. La scelta di completare l’equipaggio con una donna, inoltre, risponde all’esigenza di dimostrare fuori e dentro i confini del Paese che la Cina è davvero quella ‘società armoniosa’ instancabilmente professata da Hu Jintao negli ultimi anni, dove chiunque, a dispetto del genere o dell’estrazione sociale, può mettere a frutto le proprie inclinazioni e potenzialità sull’altare del bene supremo rappresentato dal progresso della società. Oltre che in funzione di coesione interna, i successi cinesi nello spazio sono anche una sorgente di prestigio internazionale, e quindi di soft power. In una fase storica in cui, specialmente la NASA, vede ridursi gradualmente le risorse disponibili e l’Europa fa i conti con le proprie contraddizioni interne, Pechino si appresta a raccogliere il testimone di questa ‘maratona’ scientifica su scala globale. Per quietare i timori dei vicini, riaffermando la propria immagine di responsible stakeholder, la Cina si è infatti affrettata a precisare che la futura stazione sarà aperta ad astronauti e ricercatori provenienti da tutto il mondo, nell’ottica di una cooperazione più proficua con Mosca e Washington, storici capofila dell’esplorazione spaziale. Infine, le ricadute militari: il programma spaziale cinese è sotto il controllo dell’esercito, ed il carattere duale della tecnologia balistica impiegata rende molto labile il confine fra le due dimensioni. Il portato complessivo dei fattori descritti ha dunque rianimato nel partito il mito della ‘lunga marcia’, che questa volta, però, guarda verso l’alto. l’Osservatore - luglio 2012
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Tibetan immolations reached the Capital di Nicolò Pallotta
On Sunday 27th January 2012 two Tibetan monks set themselves on fire in an open-air market outside the Jokhang temple, one of the holiest and most touristic places in the center of Lhasa. Security forces arrived quickly on the scene and extinguished the flames after picking up the men into vehicles and taking them to hospital. China’s state news service named the two as Dargye, from Aba county, in the Tibetan area of Sichuan province and Tobgye Tseten, from Xiahe county in a Tibetan community of the Gansu province. According to the news service Tobgye died and Dargye was seriously injured but he was in stable conditions and able to speak. Self-immolation is a common form of protest for Tibetans: since 2009, when the first immolation occurred, 37 people have set themselves on fire and 28 have died according to the Tibetan Centre for Human Rights and Democracy (TCHRD). With their non-violent protests these monks and nuns accuse Beijing of repressions and their aim is to attract the attention of media on the cause of Tibet independence. The preeminent fact is that this has been the first episode of self-immolation right in the middle of the Tibet Autonomous Region’s capital. In the opinion of Tenzin Tsundue, a Tibetan poet and one of the most prominent activists living in India, this episode reflected the fact that anger against Chinese rule was not restricted to the areas where most of the self-immolations occurred, (ethnically Tibetan areas outside the legal boundaries of TAR, mostly in Sichuan, Gansu, e Qinghai Provinces), but "all over Tibet it's the same emotion, it's the same response" to Beijing's policies”, he said. "They were a continuation of the self-immolations in other Tibetan areas and these acts were all aimed at separating Tibet from China," said Hao Peng, secretary of the Commission for Political and Legal Affairs of the l’Osservatore - luglio 2012
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CPC Tibet Committee. A special task force was created to investigate on the incident. Beijing rejects all the accusations of repression of Tibetans, saying that under its rule living standards have strongly increased and in fact the amount of public investments in the region doubled with the last five-year plan, with a total of 226 projects in the region and about 330 billion Yuan (about 36 billion Euros). As we all know, wellness and richness are not totally shared in China, Tibetans accused the regional government of favoritism and partiality towards the Han ethnic groups, always bigger and richer. China's "national strategic project to develop the West", launched in 1999, encouraged the migration of Chinese people from other regions of China into Tibet, attracting them there with bonuses and favorable living conditions. In 2008 there have been attacks by Tibetans on Han and Hui properties and protest erupted in cities in Europe and North America; concerning this George Fitzherbert (scholar of Tibet at Oxford University) has said that "Tibetans complain of being robbed of their dignity in their homeland by having their genuinely loved leader incessantly denounced, and of being swamped by Chinese immigration to the point of becoming a minority in their own country." Dalai Lama has remained strangely quiet on the subject of selfimmolations; during an interview for BBC he highlighted the high sensitivity of the issue and justified his silence saying: “Whatever I say the Chinese government they immediately manipulate." On the other hand the Prime Minister of the exiled government of Tibet (Central Tibetan Administration) has defined self-immolation as the zenith of nonviolent resistance, the highest sacrifice possible but he also explained that Central Tibetan Administration has never supported these acts. Since now Beijing reacted in an always stronger way to immolations, above all with a massive deployment of para-military forces and police nearby temples and other potential trouble spots, making the situation very tense; but immolations are every year more frequent, unrests are at the gates and Beijing is aware of that. What’s going to happen now? Everything (or, at least, a great part of the resolution) depends on PRC’s policy. Beijing can keep on purging monasteries and blaming the Dalai Lama for fanning anti-government sentiment, or its behavior can be redirected towards a dialogue with the Central Tibetan Administration, which never gave up the pursuit of a peaceful and moderate solution. l’Osservatore - luglio 2012
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Luoghi comuni sulla Corea del Nord. di Giacomo Giglio Nei mesi a cavallo tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 abbiamo tutti assistito alle scenografiche immagini, provenienti da una Pyongyang resa ancor più spettrale da un meteo siberiano, del funerale del caro leader Kim Jong Il, accompagnato nella vita ultraterrena da un infinito numero di compatrioti infreddoliti e con i volti rigati da lacrime (non si sa quanto vere o provocate ad arte). I telegiornali – americani, francesi o italiani che fossero – presentavano la Corea del Nord come l’ “ultimo baluardo del comunismo”, “feroce regime socialista” e “fedele alleato di Pechino”. In questo lavoro cercheremo brevemente di capire quanto ci sia di vero in queste affermazioni categoriche, che in realtà nascondono una quantità non trascurabile di pressapochismo 1) La Dprk è uno stato comunista. In realtà, la Corea del Nord è uno stato confuciano appena coperto da un sottile strato di vernice rossa¹. Fin dal 1948, cioè l’anno dell’ascesa al potere del padre della patria Kim il Sung, il principale obiettivo è stato il recupero dei valori nazionali. La propaganda nordcoreana ha sempre amato rappresentare il proprio paese come il custode della “coreanità”, a fronte di un Sud svenduto militarmente e culturalmente ad americani e giapponesi. L’insistenza quasi etnocentrica ha reso impossibile la costruzione di un sentimento internazionalista, che pure era forte nelle altre nazioni di stampo pianificatore. Come vedremo, nemmeno con i fratelli cinesi c’è mai stata quella comunanza ideologica così forte, tanto che Kim il Sung, per giustificare la sua politica essenzialmente autarchica, dovette inventarsi una nuova filosofia politica, lo Juche (che possiamo ____________________________________________________________ 1 http://temi.repubblica.it/limes/corea-la-guerra-sospesa/19582 Maurizio RIOTTO - La riunificazione non conviene a nessuno.
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tradurre grossolanamente con autosufficienza), che giustificasse il percorso “nazionalista” intrapreso da Pyongyang. La svolta eremita che caratterizzò la Nord Corea fin da fine anni Settanta, in altre parole, non era frutto di follia politica, come spesso fatto intendere in Occidente, quanto una conseguenza di un clima culturale creato in patria. A discolpa di molti osservatori, c’è da dire che uno stato confuciano non è così dissimile da uno di tipo “stalinista-comunista”, nel senso che entrambi sono laici e tendono a divinizzare gli “antenati” e i fondatori della patria. I pilastri dello stato nordcoreano sono la fedeltà alla nazione e la devozione filiale, in continuità con i principi che guidavano i regni coreani del periodo Choson (l’ultima dinastia che fu detronizzata dai giapponesi nel 1910). Kim il Sung e Kim Jong Il, ben lontani dall’essere “dittatori del proletariato”, non sarebbero altro che gli ultimi custodi della tradizione coreana messa a repentaglio da nemici esterni. 2) La Dprk è uno stato socialista Starete pensando: facile smontare questa affermazione. Kim Jong Il – e probabilmente ora suo figlio-erede Kim Jong Un – pasteggiava a base di pizza, caviale e champagne, mentre in molte parti del Paese si muore di fame o quasi. Pur in assenza di statistiche ufficiali, si può ipotizzare che la diseguaglianza sociale sia marcata e che la Dprk sia tutto tranne che uno stato socialista. Tuttavia, ciò che mi preme sottolineare è la natura castale di questa diseguaglianza: in Corea del Nord persiste una differenziazione in caste ormai quasi scomparsa nel resto d’Oriente. Giusto per dare un’idea, i parametri di assegnazione delle case sono tarati in base alla classe sociale di provenienza. Le residenze aristocratiche sono riservate ad alti burocrati e generali dell’esercito; gli appartamenti nuovi sono destinati a professori universitari e quadri del partito; gli impiegati vivono solitamente negli squallidi casermoni di periferia; operai e contadini sono relegati in case plurifamiliari o vecchie case di campagna. 3) La Cina è il più fedele alleato di Pyongyang C’è un detto che dice “i nordcoreani e i cinesi sono vicini come le labbra ai denti”. Quello tra Pechino e Pyongyang è certamente un rapporto l’Osservatore - luglio 2012
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speciale: ancor oggi, nei documentari di propaganda della Tv di stato nordcoreana, la Cina viene presentata come la Grande Salvatrice che impedì l’avanzata delle truppe yankee nel 1953. Tuttavia, sarebbe sbagliato dedurre che il rapporto sia paritario e privo di travagli. La Cina si è sempre considerata il fratello maggiore, e non ha fatto nulla per non far notare la propria disapprovazione quando, per esempio, a Kim il Sung venne la pazza idea che la Corea del Nord dovesse prendere la testa dei cosiddetti “Paesi non Allineati” per assurgere a ruolo di potenza regionale. Lo stesso scetticismo lo suscitò la bizzarra politica di “Juche” che abbiamo visto prima. In tempi più recenti, a partire dal controverso sviluppo del programma nucleare portato avanti dal defunto Kim Jong Il, Pyongyang è diventata sempre più una spina nel fianco per la diplomazia cinese, che ha mal digerito i colpi di testa del vicino burrascoso (si pensi al presunto affondamento della nave sudcoreana Cheonan nella primavera 2010). I nordcoreani, dal canto loro, sanno benissimo che il gioco al rialzo con le cancellerie occidentali è reso possibile solo dall’atteggiamento accondiscendente di Pechino. Se negli ultimi anni la situazione sociale nella Dprk non è esplosa e non si sono verificate carestie paragonabili a quelle dei primi anni Novanta, lo si deve soprattutto agli aiuti – sia ufficiali che illegali – che varcano il poroso confine sino-coreano. Conseguentemente, Pyongyang si sta trasformando in una colonia economica del Dragone, seppur retta da un’eccentrica monarchia ereditaria. Molti si chiedono se, nel futuro non troppo lontano, una Cina affamata di nuovi territori non possa farla finita con le intemperanze nordcoreane (l’ultima delle quali è stato il lancio – peraltro fallito – di un missile intercontinentale teoricamente in grado di colpire la costa ovest americana), e decidere quindi di trasformare la colonia ribelle in una provincia affidabile. Le ultime mosse del regime nordcoreano (ad esempio il caso delle Zone Economiche Speciali di Rason , ispirate e fortemente volute da Pechino) farebbero pensare ad un rapporto di vassallaggio a cui si sarebbe rassegnata anche buona parte della nomenclatura nordcoreana. l’Osservatore - luglio 2012
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Yeosu 2012 : see you sea di Roberta Venditti
Lo scorso 12 maggio si è tenuta la cerimonia di apertura dell’Expo 2012 di Yeosu, una cittadina affacciata sul mare in Corea del Sud. La coreografia dell’evento ha richiamato il tema dell’Expo, Vivere l’oceano e la costa. L’Expo di Yeosu è una Expo “riconosciuta”, o “internazionale”, una tipologia di esposizioni di secondo livello rispetto a quelle “registrate”, dette anche “universali”, come l’Expo che si terrà nel 2015 a Milano. Ci si aspetta quasi 11 milioni di visitatori durante i 93 giorni di mostra. Alla manifestazione, che è organizzata in un’area di circa 2 milioni e mezzo di metri quadrati posta intorno al porto di Yeosu, nella parte meridionale della Corea del Sud, parteciperanno 105 stati provenienti da tutti i cinque continenti (Italia compresa) e 10 organizzazioni internazionali che si occupano di risorse alimentari e di controllo climatico, tra le quali il FAO e le Nazioni Unite. L’obiettivo degli organizzatori è far riflettere la comunità internazionale sul presente e sul futuro dello gestione degli oceani e delle coste, ma anche la condivisione di saperi e tecnologie tra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. Per l’organizzazione di questa manifestazione sono arrivati più di 1 miliardo di euro di investimenti, mentre gli investimenti per le infrastrutture necessarie ammontano a quasi 7 miliardi di euro. Tra le opere costruite per l’occasione, a quanto riporta l’Asia Times, c’è anche una linea ferroviaria ad alta velocità che collega Seul a Yeosu (circa 350 chilometri) in meno di tre ore. Per tre mesi, fino al 12 agosto, i visitatori affolleranno questo spazio moderno fatto di padiglioni, che testimoniano la determinazione del paese asiatico nella sensibilizzazione globale sulla protezione degli ambienti marini . Con 11.000 km di coste, la Corea del Sud ha da sempre un rapporto molto stretto con il mare. Yeosu è una cittadina posta sulla costa sud-orientale della provincia della l’Osservatore - luglio 2012
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Sud Gyeongsang. La città è composta dalla penisola di Yeosu e da 317 isole, delle quali soltanto 49 sono abitate. L’attività economica principale è stata per molti anni la pesca, ma la pesca intensiva e l’inquinamento hanno contribuito a impoverire la fauna marina, spingendo il territorio ad attività economiche ben più redditizie. Ora le autorità locali stanno puntando tutto sull’Expo per promuovere il patrimonio ambientale e attrarre turisti. Yeosu non è il classico villaggio di pescatori che affascina l’immaginario collettivo. Se da un lato lo sguardo sognante si perde nell’orizzonte del villaggio di pescatori, dall’altro si scontra con uno dei due maggiori complessi petrolchimici della Corea del Sud. Un colosso che da lavoro a trentamila persone e che raffina il 35% del petrolio consumato a livello nazionale. Che il complesso industriale sia essenziale all’economia locale (e nazionale) lo sanno tutti, ma quando si parla di turismo è difficile pensare che Yeosu possa diventare una valida alternativa turistica, nonostante le autorità dell’Expo rassicurino che il fondale sia stato dreanato e che l’acqua adesso sia molto più pulita rispetto al passato. La Corea ha un'economia che si regge tradizionalmente sull'export, ma essendo povera di risorse naturali dipende molto dall'importazione di fonti energetiche quali greggio, gas naturale, carbone e materie prime; importa il 97% del suo fabbisogno energetico, e` il quinto importatore mondiale di petrolio, il nono paese maggior consumatore; l'81% del
petrolio importato proviene dai paesi del Medio Oriente. Una domanda in continua crescita, dovuta ad un maggior consumo di fonti energetiche che vanno ad alimentare le sue industrie chiave come la petrolchimica, l'acciaio e la cantieristica, ha indotto la Corea a diversificare le proprie fonti e a rafforzare i rapporti con i Paesi in via di sviluppo ricchi di risorse l’Osservatore - luglio 2012
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naturali. E’ ovvio che un Paese così dipendente dal petrolio e così orientato all’export senta il bisogno di tutelarsi, individuando nuove fonti energetiche di approvigionamento (il padiglione coreano all’expo 2012 è alimentato a idrogeno),oppure considerando di costruire un “oil hub” dove stoccare il petrolio come già avviene negli Stati Uniti, a Singapore e in Europa (ARA – Amsterdam – Rotterdam Antwerp). L’oil hub di Singapore rifornisce di petrolio greggio i paesi del sud est asiatico, ma tutta la parte nord (Cina, Giappone, Tawian e Repubblica di Corea) rimane scoperta. Negli ultimi hanni, per diverse motivazioni, tutti questi paesi hanno avuto un aumento dell’import di petrolio e la necessità di un oil hub che rifornisca l’area è diventata urgente. La Corea del sud consuma ogni giorno 2.2 miliardi di barili, e il mercato interno è controllato da un’oligarchia di 5 aziende SK Energy GS Caltex SOil Corp Hyundai Oilbank, Incheon Oil Refinery Ovviamente il governo coreano si è candidato per essere il protagonista di questo nuovo progetto, segnalando alcuni distretti idonei sul proprio territorio: Ulsan e Yeosu dove già operano su vasta scala due grandi gruppi petrolchimici SK Energy e GS Caltex. L’idea è di costruire uno “storage tank” a Yeosu con una capacità di 8.20 milioni di barili di greggio e prodotti petrolchimici. L’oil hub di Ulsan prevede cisterne per 14/15 milioni di barili di greggio. I players di quello che viene chiamato “Yeosu Project “ sono : Korean National Oil Corp (KNOC 33%) , Chiana Aviation Oil (CAO 26%), Sk Energy e GS Calted (11% ognuna) , Samsung C&T Corp. (10%). In un secondo tempo è stata fondata una joint-venture, chiamata Oilhub Korea Yeosu Col Ltd, che avrebbe dovuto promuovere il progetto Yeosu e far partire i lavori il prossimo 2013. Attualmente il progetto è in fase di stallo: a Yeosu inizialmente gli investimenti stranieri dovevano essere del 49% (35% Germany’s Oiltanking Asia Pacific e 14% Glencore Singapore ) e 51% fondi coreani (29% KNOC, 11% SK Energy, 11% GS Caltex), ma nel 2010 le due aziende straniere hanno rinunciato per via di alcuni disaccordi sulle condizioni. Sono stati trovati altri fondi, altre aziende, ma la realizzazione è ancora incerta anche perchè i quattro maggiori distributori di petrolio coreani l’Osservatore - luglio 2012
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sono abbastanza scettici sull’utilità di un oil hub in Corea: se i prodotti pretroliferi diventano prodotti strategici tanto da doverli stoccare, la possibilità di importare prodotti petroliferi nel mercato interno aumenterà. Le aziende petrolifere coreane sono preoccupate che questo possa incidere negativamente sulla struttura di domanda/offerta relativa al mercato interno. “Yeosu storage tanks” forniranno alla Korea un “salvataggio” in caso di emergenza energetica grazie agli ottomila barili di greggio stoccati, offriranno lavoro a 1378 persone entro il 2015, il tutto per un valore di 306.6 miliardi di won. Lo slogan della manifestazione dell’Expo 2012 è fornire soluzioni ai problemi di oggi ricorrendo alla tecnologia di domani, e Yeosu 2012 guarda al un futuro più pulito e in sintonia con l’ambiente marino. E noi smettiamola di pensare al villaggio di pescatori...
Taiwan 2.0: lo sbarco di Google di Michele Russo
Il confronto geopolitico tra le potenze corre oggi anche (se non soprattutto) sul filo del soft power, e il quadro dell’Asia orientale non fa eccezione. A partire dagli anni 2000 anche in Asia il cyberspazio è diventato un terreno di confronto delle potenzialità di proiezione soft, in particolare per ciò che riguarda la capacità di creazione di pagine web e di diffusione di motori di ricerca. In occidente il panorama è piuttosto semplice: il 25% delle pagine web sono scritte in lingua inglese (segue lo spagnolo con l'8% circa), la ricerca indicizzata è gestita da Google che opera in una posizione di quasi monopolio (95%), mentre il social networking è appannaggio (quasi) incontrastato di Facebook. La situazione in Asia è un po' più complessa: il mandarino è la lingua prevalente nel web (19%), Google in Cina esiste ma detiene quote di mercato largamente minori, mentre la fanno da padroni Baidu (motore l’Osservatore - luglio 2012
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di ricerca), Renren (social network) e QQ (instant messaging), e Facebook non è accessibile nella Cina continentale. La storia di Google China è interessante: fondata nel 2005, nel 2010 la filiale ha trasferito a Hong Kong i propri server e ha cambiato il dominio (google.com.hk), sfuggendo in tal modo ai rigidi vincoli della censura imposti dal governo di Beijing. Peraltro, nel momento in cui si accede a Google HK da una connessione situata sul territorio della PRC, la censura è tuttora attiva e filtra le ricerche per le parole chiave considerate sconvenienti o pericolose: il servizio è quindi ben diverso se ci si connette con un IP cinese o di un altro paese. Il caso di Taiwan è un po' diverso: a differenza di Google China il motore di ricerca non è censurato. Inoltre, il settore web è in piena espansione sulla piccola isola di fronte alla Cina: nel 2011 gli utenti web sono cresciuti di 730.000 unità raggiungendo il totale di quasi 17 milioni, che su di una popolazione di circa 23 mln di abitanti significa il 74%. Conseguentemente, l’e-commerce e la pubblicità online sono in crescita: il volume d’affari nel 2011 è aumentato a 10,22 miliardi di NT$, con una crescita di quasi il 20% rispetto all'anno precedente, che continuerà quest’anno assestandosi intorno al 15%. Anche la crescita del commercio online a Taiwan è impressionante: nel 2010 raggiungeva un volume di 450 miliardi di NT$, ed è previsto che superi i 1000 miliardi entro il 2014, procedendo a tassi di crescita intorno al 50%. 2012: Google sbarca a Taiwan È di un paio di mesi fa l’annuncio di Google di voler lanciare la costruzione di un nuovo datacenter proprio a Taipei, che diventerà così il primo hub asiatico di Google, seguito dagli altri due già in costruzione a Hong Kong e Singapore. Ammontare totale dell'investimento: 700 milioni di US$, di cui circa 300 solo a Taipei. Per avere un'idea dell’importanza dell’area estremo orientale, in Europa i data center maggiori di Google l’Osservatore - luglio 2012
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sono solo due, tra il Belgio e i Paesi Bassi. Anche la scelta dei paesi non sembra una casualità: si tratta di tre paesi di lingua e cultura cinese, che in qualche modo hanno a che fare con la Cina, o ne fanno parte, come HK, o sono visti dalla PRC come un modello - Singapore -, o come Taiwan figurano tra le ambizioni cinesi. A voler pensar male si potrebbe persino azzardare che i manager di Google abbiano imparato da Beijing la strategia del filo di perle e la ripropongano schierando i propri datacenter in tre punti strategici intorno al celeste impero, in attesa della prossima mossa del dragone. In effetti, il mercato cinese è un boccone troppo ghiotto per pensare che l’azienda di Mountain View possa accontentarsi del magro bottino lasciatole da Baidu, e in ogni caso una partecipazione anche solo marginale all'esplosione dell'e-commerce in Cina rappresenterebbe un profitto estremamente attraente per Google. Parallelamente, sono evidenti le implicazioni politiche di questi investimenti: assumendo che Google, per quanto sia un'azienda privata, rappresenti alcuni valori del soft power americano (in termini di ricerca e sviluppo, di libera informazione, di cultura anglosassone), è logico pensare che la sfida al soft power cinese passerà per Hong Kong e soprattutto Taiwan, punti “deboli” in quanto culturalmente ibridi del sistema Cinese. Investimenti come questi potrebbero dunque far pensare che, se una fusione politica tra le due Cine è ancora ben lontana, un avvicinamento pacifico sembra essere prevedibile: ma come sempre, trattandosi di Cina, non sarà un fenomeno semplice e lineare.
Taiwan: una realtà in declino? di Cristiano Gimmelli
La Repubblica di Cina-Taiwan è riconosciuta ufficialmente solo da 23 paesi (tra cui il Vaticano) e ciò comporta una serie di problemi istituzionali di un certo rilievo; come la partecipazione alle varie organizzazioni internazionali che richiedono il riconoscimento statuale per poter giocare un ruolo attivo. Tuttavia Taiwan, ha perlopiù mantenuto un'ottima autonomia ed uno status effettivo non trascurabile grazie alla sua elevata importanza economico-commerciale, poiché sede di aziende all'avanguardia nel l’Osservatore - luglio 2012
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settore informatico e tecnologico. La produzione di software e di avanzate IA (intelligenza artificiale), hanno creato un mercato molto redditizio ed enormemente produttivo, contribuendo in maniera considerevole all'emancipazione della ROC (Republic of China). Così il gap istituzionale, o vuoto diplomatico, è stato facilmente riempito dall'economia. Un'audace ed intraprendente attività economica ha reso, per esempio, il porto di Kaohsiung (seconda città per popolazione dopo Taipei) il terzo porto più trafficato al mondo negli anni '80, momento centrale della crisi politica internazionale della ROC. Infatti in questo periodo Taiwan si trovava senza il suo storico “timoniere” Chiang-Kai Shek, e con la Risoluzione 2758 dell'Assemblea generale delle nazioni unite, senza sovranità. Sebbene la crisi politica iniziata nel '71 abbia prodotto frizioni di diverso tipo, culminate in vari episodi potenzialmente destabilizzanti, oggi sembra essere la crisi economica mondiale a preoccupare Taiwan. In tempi recenti (giugno 2012), la stessa stampa taiwanese ha trattato della perdita di rilievo economico e finanziario alla luce dei cambiamenti in atto nel magma rovente del nuovo ordine internazionale. Il Premier Sean Chen (陳冲) ha dichiarato, verso la metà di giugno, che Taiwan ha una limitata esposizione diretta sul debito europeo, pari a 780 milioni di dollari, corrispondente circa allo 0,07 % del totale del patrimonio degli enti finanziari locali, e che, quindi, eventuali scenari cupi in Europa avrebbero ripercussioni limitate sulla situazione interna della Republic of China. Egli sostiene infatti che ogni potenziale impatto negativo sarebbe gestibile senza eccessive difficoltà. Questo, però, significa anche che il peso internazionale della ROC è indubbiamente limitato se paragonato a quello di altri attori regionali emergenti, come ad esempio la Repubblica Popolare. Chen ha chiesto al Supervisore della Commissione Finanziaria di prendere misure temporanee per la situazione, con pronte risposte dal sistema bancario e della finanza locale. Anche per ciò che riguarda i rapporti con il protettore storico, gli Stati Uniti, è stato registrato un costante calo di contatti negli ultimi due decenni a causa della crescente predominanza regionale e globale di Pechino. l’Osservatore - luglio 2012
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Problematiche per la politica estera sono state le restrizioni sanitarie e fitosanitarie di Taiwan verso le importazioni americane, come quelle del manzo. Più di ogni altro, questo tipo di restrizioni ha causato il raffreddamento del dialogo nel Trade and Investment Framework Agreement (TIFA), il forum di discussione con gli USA riguardo alle più importanti convergenze di interessi in campo economico, che non registra incontri dal 2007. Gli autori Shirley Kan, specialista in affari di sicurezza dell'Asia, e Wayne Morrison, specialista in commercio e finanza dell'Asia, concludono il loro report diplomatico affermando che Washington e Taipei hanno prodigato più energie politiche con Pechino che con qualsiasi altro attore internazionale. Il Presidente Ma Ying-jeou (馬英九), in base al report, avrebbe annunciato un grande impegno con gli USA, tuttavia alcuni osservatori, per via della situazione attuale, hanno affermato che è giunto il momento di riguadagnarsi una credibilità perduta, intensificare gli sforzi diplomatici e risolvere la disputa sul "manzo americano".
Altrasia - approfondimenti sui vicini dell’Asia orientale India e Cina alla prova della fame di Micol Cavuoto- Mei
“Commercial pressures on land are rapidly growing. Biofuels, large-scale infrastructure projects, carbon-credit mechanisms, and speculation lead to rapid changes in land rights, creating new threats for vulnerable land users. Climate change and population growth will exacerbate tensions within countries and between them” Olivier De Schutter, esperto nominato dall’ONU sul diritto al cibo Basandosi su uno studio dell’Oakland Institute, India, Cina e Stati Uniti hanno comprato o affittato un’area di terra nell’Africa sub-sahariana della grandezza della Francia, investendo in Etiopia, Tanzania, Sud Sudan, l’Osservatore - luglio 2012
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Mali e Mozambico. La Cina, crescente potenza mondiale con la sua popolazione di 1,3 miliardi, deve attuare delle misure per non sopperire alla crisi globale del cibo, avendo da poco superato l’obbiettivo di combattere la povertà per la maggioranza della sua popolazione. L’India, al contrario, vicina a raggiungere l’1,1 miliardi di persone, non vanta questo traguardo ma ha eguagliato la Cina in termini di potere che esercita come mercato di massa. Insieme, le due nazioni asiatiche devono nutrire più di un terzo della popolazione mondiale. In tempi di esplosione dei prezzi alimentari, le loro stesse dimensioni rendono la crisi ancora più preoccupante. Non è difficile immaginare ciò che accade ai prezzi, quando le due grandezze mondiali per numero di abitanti comprano in modo aggressivo tipologie di cibo non di primaria necessità: nei paesi più pericolosamente poveri del mondo, carne e grano sono diventati prodotti di lusso inaccessibili, mentre la fame e le rivolte per il cibo sono destinate a peggiorare. L’autore Raj Patel, il cui libro ‘I padroni del cibo’ getta uno sguardo critico al settore alimentare globale, avverte che ciò che si sta manifestando a macchia di leopardo nelle zone più povere del mondo, non è altro che ‘un segno di cose a venire’. Dal gennaio 2009 la Cina ha bloccato l’esportazione di grano applicando nuove imposte, sperando di garantire la sicurezza all’approvvigionamento alimentare nazionale con l’utilizzo di quote d’esportazione, sovvenzioni per gli agricoltori e controllo dei prezzi. A questo si aggiunge una politica di stretto controllo sulla terra satellite utilizzata per scopo agricolo, affinchè non si trasformi in terreno l’Osservatore - luglio 2012
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edificabile. Nessuna di queste misure, però, può essere ritenuta efficace a lungo termine: Cina e India, di fronte all’aumento di popolazione e alla diminuzione di terre agricole, sono sempre più dipendenti dalle importazioni alimentari estere. Pechino, per sfamare il paese, necessita, infatti, di 120 milioni di ettari (una zona delle dimensioni del Sud Africa) di terra coltivabile che, nonostante sia attualmente disponibile sul suolo cinese, è destinata a scomparire giorno per giorno sotto il cemento. Così come stiamo esaurendo i nostri pozzi di petrolio, stiamo anche gestendo male i nostri terreni, creando nuovi deserti. L'erosione del suolo come risultato di sovraaratura e la cattiva gestione del territorio stanno minando la produttività di un terzo dei terreni agricoli mondiali. Quanto è grave? Guardando le immagini satellitari scopriamo che esse mostrano due nuove enormi ciotole di polvere: una si estende attraverso la Cina settentrionale e occidentale e la Mongolia ad ovest, l'altra in Africa centrale. Wang Tao, studioso cinese di desertificazione, riferisce che ogni anno circa 1.400 chilometri quadrati di terra nel nord della Cina diventano deserto. La civiltà può sopravvivere alla perdita delle sue riserve petrolifere, ma non può sopravvivere alla perdita delle sue riserve di suolo. Nel 2010 l'analisi della Banca Mondiale ha riferito che un totale di quasi 140 milioni di acri - un'area che supera il terreno dedicato alla cultura di mais e frumento assieme negli Stati Uniti- sono stati coinvolti in questa "appropriazione di terre", “land grabbing”. Queste acquisizioni coinvolgono, di conseguenza, il diritto all’acqua, alterando gli equilibri tra i Paesi per la distribuzione di tale risorsa. Per esempio, l’utilizzo dell'acqua estratta dalla parte superiore del bacino del fiume Nilo per irrigare le coltivazioni in Etiopia e Sudan non raggiungerà più l'Egitto, ribaltando la politica d'acqua del Nilo, già l’Osservatore - luglio 2012
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delicata, con l'aggiunta di nuovi paesi con cui l'Egitto dovrà negoziare. Il potenziale conflitto - e non solo per l'acqua - è alto. Molte delle offerte per il territorio sono state fatte in segreto e, nella maggior parte dei casi, il terreno in questione era già in uso dagli abitanti del villaggio prima che fosse venduto o affittato e coloro che lo coltivavano non venivano informati o consultati sulle nuove disposizioni. Inoltre, in molti paesi in via di sviluppo non è prassi che vi siano titoli di proprietà formali per le terre, spesso organizzate in villaggi, e dunque gli agricoltori che hanno perso la loro terra hanno poco sostegno nel portare i loro casi in tribunale. "We must escape the mental cage that sees large-scale investments as the only way to develop agriculture and to ensure stability of supply for buyers," dichiara Olivier De Schutter , consulente esperto ONU sul diritto al cibo, riguardo le preoccupazioni della società civile sui "land grabs". Rubrica l’INTERVISTA
Lo Slow Food in Asia, una chiaccherata con Anandi Soans di Simone Cattaneo
È un sole molto caldo ed estivo quello che bacia la cittadina di Bra (CN) nel pomeriggio del 17 maggio, perfetto per fare un tour dei tanti birrifici artigianali (o delle vinerie, se preferite il “coraggio liquido“ di Bacco) e dei loro dehors ben curati ma mai troppo eccessivi, che ti tentano all’ingordigia insieme ai profumi ammalianti provenienti dalla cucina. Il centro del paese ruota socialmente e culturalmente attorno a Slow Food, inserita in una comunità che non avrebbe potuto conoscere una multiculturalità così viva e giovanile in così poco tempo, se non grazie ad un apparato universitario nuovo e dall’appeal tanto internazionale come l’Università di Scienze Gastronomiche, con sede a Pollenzo. Approfitto dell’amicizia che mi lega da anni a Ludovico Roccatello, responsabile di tutte le reti giovanili italiane Slow Food, per ritornare ogni tanto in questa cittadina che, seppur economicamente florida, vede in questi giovani provenienti da tutto il mondo una voglia di fare e di imparare che appaiono di buon auspicio per il futuro. Grazie a Ludovico, faccio conoscenza con Anandi Soans, attuale South Asia Director per Slow Food l’Osservatore - luglio 2012
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International. Il suo stupendo sorriso ci mette subito a nostro agio. - Ciao Anandi, cosa puoi raccontarci di Slow Food Inernational rispetto ai paesi asiatici di cui tu ti occupi? Attualmente mi occupo di quella che noi chiamiamo South Asia, che convenzionalmente parte da Afghanistan e Pakistan fino alla Cambogia ed il Laos verso Est, e dal Nepal e dal Butan fino allo Sri Lanka verso Sud. Dal punto di vista organizzativo ci sono tre major countries, India, Cina ed Australia, dalle cui attività principali cerchiamo di collegarci alle attività circostanti e secondarie: ad esempio, io mi occupo strettamente di India, due mie colleghe si occupano del Nord-Est, compresa la Cina, e dell’Oceania, compresa l’Australia, ma il fatto che l’India sia uno dei major countries mi impone di dovermi occupare anche di altri paesi anche nell’est dell’Asia che collaborano o che vorrebbero collaborare con noi. -Quali sono le principali differenze tra la gestione asiatica e quella europea? In Europa Slow Food è un’associazione, quindi è molto più strutturata e segmentata in maniera razionale. Nei paesi in via di sviluppo, data l’enorme difficoltà sociale e legale di imporre un’associazione strutturata, si è scelto di utilizzare come vettore iniziale il network già esistente di Terra Madre, il quale è molto valido ma non ha nulla a che vedere con un’associazione composta da membri e da un direttivo. In India ci sono esempi elitari come il Rotari Club od il Lions Club, ma sono soluzioni per le vecchie generazioni e per poche classi sociali, noi ci rivolgiamo ai giovani di tutti i ceti: prima di tutto non vogliamo fare soldi, la nostra tassa di iscrizione è di 5 € all’anno, che, nonostante tutto, per le famiglie di molti villaggi rappresenta una spesa ingente, soprattutto se spieghi loro la ragione per cui devono spenderli. Si tratta, infatti, di diffondere la loro esperienza autoctona attraverso il network, perciò è come se loro dovessero pagare per diffondere il loro sapere! Raul, un nostro collega, sta facendo il giro di tutti questi villaggi per capire quale sia l’offerta meno oltraggiosa da proporre, quale immagine di noi risulta meno offensiva agli occhi di un capo-tribù, studiando di volta in volta tecniche l’Osservatore - luglio 2012
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di comunicazione sempre più efficaci per non apparire “venditori di enciclopedie“. -Spesso sentiamo parlare di “modello europeo“ come di un mito intoccabile per i paesi in via di sviluppo, ma non sarebbe meglio un ibrido tra network ed associazione? Credo che un ibrido sia più auspicabile: se pensiamo alla sola città di Bombay, a distanza di 10 metri abbiamo la torre più alta del mondo ed il PIL pro capite più basso del mondo, è chiaro che non si possa imporre il ”modello europeo” al villaggio ed è altrettanto pacifico che un network flessibile che parta dal basso non piaccia troppo agli strati più alti della società indiana. Questa è una contraddizione del paese di cui io mi occupo, ma ci sono casi simili in molte parti dell’Asia. Nel contesto europeo tutto è più facile, è da questi confronti che si vede l’utilità pratica di istituzioni come l’Unione Europea, spesso criticata da chi ne fa parte, nonostante sia innegabile il ruolo omologante che sta svolgendo lungo i suoi primi decenni di vita. Un passo importante verso l’abbattimento di queste insormontabili distanze della scena asiatica è stato compiuto giusto tre giorni fa [14 maggio 2012, n.d.r], quando Carlo Petrini [Fondatore Slow Food, n.d.r.] è stato invitato all’ONU da Phrang Roy, direttore dell’Indigenous Partnership per l’agrobiodivrsità e la sovranità alimentare delle popolazioni indigene: per la prima volta, a livello internazionale, le popolazioni indigene hanno ottenuto un riconoscimento ufficiale. -Il divario tecnologico gioca un ruolo importante per una realtà come Slow Food? Senza dubbio. Ho molti collaboratori sparsi per l’Asia che devono affrontare difficoltà materiali non da poco, come l’assenza totale di segnale telefonico in zone rurali estese per centinaia e centinaia di chilometri. Inoltre, essendo io la sola ad occuparmi di Slow Food per il Sud dell’Asia, tutti i miei collaboratori in loco devono necessariamente trovare un ponte di comunicazione solo e soltanto con me, che sono spesso in un altro continente rispetto a dove si trovano. Senza contare l’estrema difficoltà di catalogazione che impone la scienza gastronomica l’Osservatore - luglio 2012
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nell’ambiente asiatico, dove un singolo stato come l’India può avere ventitre ceppi linguistici ufficiali! -Ci sono progetti emergenti di cui ti occuperai in futuro? Con l’Università di Torino, sta nascendo un progetto con lo stato del Bhutan per il commercio equosostenibile, in Tailandia stiamo creando un network per la salvaguardia delle tradizioni indigene ed è in progetto l’apertura di uno Slow Food Market a Bangkok. Inoltre, proprio in questi giorni è tornato un nostro collaboratore dalla Cambogia che ci ha raccontato di come si stia cercando di preservare la produzione di un particolare tipo di pepe nero, dai livelli di qualità molto elevati, minacciata dalle contrastanti mire di investimento di alcune multinazionali, interessate soprattutto all’albero della gomma per il commercio di pneumatici. Rubrica Chinese Class
Lesson #1 The nature of the Chinese character di Maria Varvyanskaya
How to learn Chinese characters? That is the question which many students ask themselves while studying the Chinese language. Though at first sight Chinese characters can strike fear into beginners, at the same time they're very awe – inspiring. No wonder, it's one of the most ancient way of writing! Nowadays there are a lot of modern educational supplies that offer sufficient methods of learning Chinese characters. However, despite a plenty of study aids, it's impossible to master them without knowledge of the structure and, beyond doubt, the history. The earliest Chinese characters refer to 2650 BC. Then people mostly used them in rites dedicated to communication with royal ancestral spirits. Thus, first written artifacts constitute the oracle bone script of the late Shang dynasty done on pieces of sacrificial animal bones and turtle shells. According to the legend Cang Jie, an official historian of the Yellow Emperor , created first hieroglyphic signs which subsequently were called jiaguwen (甲古文). The conception of this writing system was closely l’Osservatore - luglio 2012
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connected with graphic representation of surrounding things. For example, jiaguwen signs for nature resembled real natural phenomena like the sun(日) and rain (雨), mountains (山) and trees(木).Moreover, Cang Jie assumed tracks left by birds as a basis of that kind of writing he invented. Gradually, through the time yielded numerous reforms of the writing system, Chinese characters altered enough. Accumulating more knowledge about the world, people discovered new names for life processes that had to be shown on paper with the help of ideograms. It led to their merging with one another on the basis of associative relations. In that way, the Chinese character comprised a few elements which correlated with each other. For instance, the ideogram for ''woman, mother'' (女) joined the ideogram for son (子), which resulted in creation of a new word meaning ''good'' (好). Such a component of the Chinese character was named as key. It is an integral part of every ideogram that can consist of one and more keys. All told, they are about 214, and each of them has its own meaning and name. Furthermore, a key serves as a thematic classifier revealing what field the definition of the Chinese character relates to. For example, ideograms for words ''swim''(游泳) or ''be thirsty''(渴) include ''water'' (氵) in their structures, because all these given actions connect with it. Consequently, even not knowing any Chinese character, there is always a possibility to guess its approximate meaning. In conclusion, paraphrasing one famous saying, the Chinese character is not so complicated as it is painted. Certainly, there is no simple way to learn this amazing writing system right away, without any effort. As a rule, students always have to work hard in order to master it. However, extremely good knowledge of all 214 keys can notably simplify the task, and hundreds of Chinese characters will be more comprehensible. It's also desirable to practice them on paper for better memorization, which, afterwards, stimulate motor memory. Well, the best of luck!
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