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numero 9 anno VII – 4 marzo 2015 edizione stampabile
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PIAZZA GAE AULENTI: GLI ARABI SI COMPRANO IL PAESE DELLE MERAVIGLIE Luca Beltrami Gadola Gli arabi del Qatar che si sono comprati un pezzo, l’ultimo realizzato e forse il più bello della nostra città, hanno sollevato un polverone e qualche interrogativo. Manfredi Catella, l’amministratore delegato di Hines Italia, interrogato da un giornalista, non ha svelato il prezzo della cessione, forse l’aspetto più interessante visti i tempi di liquidazione immobiliare. Certamente l’operazione ha avuto l’ok della casa madre Hines che possedeva la partecipazione. Allora la domanda banale è: perché ci preoccupiamo che gli americani abbiano venduto agli arabi? Erano stranieri e stranieri restano. Se l’orgoglio immobiliare fosse stato così forte, avremmo dovuto dire qualcosa anche all’arrivo di Hines. D’altro canto gli arabi, siano essi sauditi, kuwaitiani, bahreniti, degli Emirati o appunto i qatarioti, sono abituati a comprare grattacieli vuoti. Basta andare nei loro Paesi, ci vado spesso per ragioni famigliari e nessuno ha mai saputo rispondere alla mia domanda: perché nei loro Paesi si contano tanti grattacieli più o meno alti, disabitati e continuano a costruirne? Avranno le loro buone ragioni che a noi sfuggono. Stando così le cose non credo che questo acquisto sia un gran segnale da leggere come una ritrovata attrattività internazionale della nostra città: il fondo sovrano del Qatar compra di tutto e dappertutto, banche - Credit Suisse e Barclays - i magazzini Harrods a Londra, il Paris Saint Germain calcio, la catena alberghiera
Banyan Tree, acquisti per 650 miliardi in Costa Smeralda, il Four Season a Firenze e il Gallia a Milano. Sono gli arabi nel Paese delle meraviglie. Per finire, la nostra Cassa Depositi e Prestiti attraverso il Fondo strategico italiano (Fsi), da lei controllato, partecipa pariteticamente con il Qatar al IQ Made in Italy Venture, capitale 300 milioni, per rilanciare il Made in Italy nel mondo, in particolare l’alimentare, la moda e il lusso, l’arredamento e il design, il turismo, lo stile di vita, il tempo libero. E noi milanesi dovremmo farcene un cruccio di avere qui un investimento del Qatar solo perché pare che finanzi alternativamente Hamas, al Qaeda, gli jihadisti o l’Isis, quando questi scrupoli non li ha il nostro governo con la Cassa Depositi e Prestiti, pronubo l’ineffabile presidente Franco Bassanini, un evergreen sempre in piedi e grande riformatore delle leggi comunali i cui danni sopportiamo ancora? Forse qualche scrupolo potrebbero averlo i qatarioti che fanno investimenti nel settore del lusso, dalle case di moda, dal turismo a sei stelle al divertimento, che non mi sembrano proprio il meglio per chi guarda con simpatia all’integralismo islamico. Che ci capiamo? Nulla, salvo ripetere quello che ha ripetuto Papa Francesco venerdì scorso “Il denaro è lo sterco del diavolo”. Mi permetto di aggiungere: per qualunque fede o religione. Capire il mondo islamico e convivervi è una scommessa del presen-
te e pochi sembrano muoversi proficuamente: dalla disgregazione del plurisecolare califfato abbaside, nel secolo XIII abbiamo smesso di capirli e di convivere pacificamente. Stefano Boeri, l’architetto dei boschi verticali mondialmente premiati e che passano di mano ai qatarioti, dice che noi, quantomeno, dovremmo farla finita con questa melina sulle moschee. Non sono d’accordo sul perché lo dica: la realizzazione delle moschee non può e non deve essere un gesto di gratitudine verso qualcuno. Noi le moschee dobbiamo farle comunque, senza se e senza ma, lo indica persino la Costituzione. Possono essere un covo di terroristi? Ormai lo è anche Internet. È tardi. L’integralismo non si combatte relegando da noi i musulmani ai margini della società. Riconosciamo invece una cosa: capirli, conviverci può essere difficile, il mussulmano della porta accanto potrebbe essere vissuto come un problema. La domanda che bisognerebbe porre loro forse è questa: immigrate nei nostri Paesi in cerca di lavoro e benessere, che è il risultato del nostro tipo di civiltà, del nostro progresso tecnologico e per finire della nostra cultura e perché allora volete distruggere tutto? Per noi il problema è di rendere compatibile questo modello con la sopravvivenza del pianeta. Avete un modello alternativo da proporci? Un modello che abbia dato buona prova di sé? Discutiamone, ammesso che vogliano parlare con noi.
LA SCADENZA ELETTORALE E LA RISCOPERTA DE ”L’ASSESSUR” Walter Marossi Nella pirandelliana sceneggiatura della commedia “Pisapia si ricandida o no?” ricompare sulla scena una storica figura della politica milanese: l'assessore. Protagonista della politica amministrativa, il suo peso politico era diventato con l'elezione diretta del sindaco, modesto per non dire insignificante. Si prenda il caso Boeri: nonostante il numero di preferenze e il partito di appartenenza è stato messo alla porta come un qualsiasi seccatore, vicenda un tempo impensabile. La ricomparsa del ruolo politico dell'assessore corrisponde a un evidente autoridimensionamento del sindaco. Pisapia dopo aver affermato con fiero cipiglio nei primi anni n.9 VII 4 marzo 2015
della sua sindacatura, una leadership indiscussa rispetto ai partiti e al popolo della coalizione che lo aveva sostenuto, è parso via via disamorarsi del suo ruolo delegando sempre più ai suoi fedelissimi assessori prima sul terreno amministrativo e oggi anche sul terreno politico. L'ultima uscita strategica del nostro è ancora quella agostana “del ponte” che ricorda quello di Nikita Chruščëv “Gli uomini politici sono uguali dappertutto. Promettono di costruire un ponte anche dove non c'è un fiume”. I sindaci Barinetti (1903/1904), Bassano Gabba (1909/1910), Emanuele Greppi (1913/1914), Emilio Caldara (1914/1920), Angelo Filippetti
(1920/1922), Virgilio Ferrari (1951/ 1961), Gino Cassinis (1961/1964), Aldo Aniasi (1967/76), Carlo Tognoli (1976/1986), Paolo Pillitteri (1986/ 1992), (cioè quasi tutti quelli eletti democraticamente) furono assessori nelle giunte precedenti. A decine si contano gli assessori divenuti parlamentari. Ispiratori e realizzatori agli inizi del secolo scorso di politiche comunali ancor oggi caratterizzanti Milano, furono assessori personaggi come: Virgilio Brocchi, Giovanni Gay, Luigi Majno, Cesare Marangoni, Ugo Guido Mondolfo, Carlo Radice Fossati, Alessandro Schiavi, Alberto Tibaldi, Claudio Treves. In particolare per la sinistra di allora il consiglio comunale era non solo 2
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una vera e propria fabbrica di dirigenti ma anche il più importante luogo di approfondimento e sperimentazione concreta del riformismo. Per questo Turati fu consigliere a Palazzo Marino per ventuno anni. Gli assessori ovviamente hanno impersonato anche tutte le contraddizioni della politica, basta ricordare quell'Ernesto Schiavello, assessore e vicesindaco comunista che fu artefice (“gli amministratori socialisti devono governare per il trionfo del comunismo, indipendentemente e contro alle leggi vigenti”), insieme ai fascisti della fine dell'esperienza riformista a Palazzo Marino ma che fu poi resistente e dirigente del Partito d'Azione. Chiusa la parentesi dei podestà, nel dopoguerra la tradizione riprese senza soluzione di continuità ad esempio con Craxi che fu assessore e senza quella esperienza difficilmente avrebbe potuto ambire al ruolo di leader che ebbe. Assessori furono: Luigi Meda, Piero Bassetti, Mario Venanzi, Nicola Abbagnano, e tanti altri di cui riparleremo un dì. Dagli anni '60 oltre che protagonisti della vita amministrativa gli assessori furono anche la spina dorsale dei partiti, tant'è che venne coniato il termine, non encomiastico di “Partito degli assessori”. Toccava a loro infatti mantenere il contatto con l'elettorato organizzato, le categorie, le lobby, le corporazioni, i comitati, i sindacati, e in genere tutte le rappresentanze strutturate; mentre al sindaco e al partito competeva l'elettorato d'opinione. Costruire clientele divenne spesso l'altra faccia dell'attività dell'assessore, vi furono così i paladini dei taxisti, quelli degli ambulanti, dei parrucchieri e via dicendo; la preferenza divenne l'unità di misura del potere politico. La riforma presidenzialista dell'amministrazione inizialmente normalizzò la situazione riconducendo il potere di nomina nelle mani dei partiti e del sindaco indipendentemente dal numero di preferenze ottenuto. L'assessore divenne con le giunte Formentini (dove predominava il ruolo del partito), Albertini (dove predominava il ruolo del sindaco) e Moratti (dove predominava il ruolo dei clan) una figura minore, un esecutore, un tecnico. Esemplare in questi anni il ruolo di De Corato per anni vicesindaco e assessore, che
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pur provenendo dalla tradizione di un partito fortemente ideologizzato della prima repubblica come l'MSI non ha mai avuto alcun significato politico. La crisi del ruolo dei partiti con l'affermarsi delle primarie ha reso ancor più assoluto il ruolo del sindaco. Negli ultimi mesi però a Milano molto è cambiato. Con la sempre più probabile “diserzione” di Pisapia, gli assessori confortati da un giudizio sul loro operato complessivamente positivo nell'opinione pubblica oltre che in base a un principio di autoconservazione si muovono. Ma come? Innanzitutto facendo fronte comune contro le ingerenze esterne in particolare quelle dell'unico partito sopravvissuto: il PD. Che ne siano iscritti o che ne siano concorrenti tutti rimarcano l'autonomia e la superiorità della squadra di Palazzo Marino e vedono nel partito solo orde di aspiranti sostitutori. Si spiega anche così la totale assenza di polemiche e anzi la solidarietà incrociata in giunta e la fredda cortesia con cui è stata accolta la proposta di Bussolati “Oggi raccogliamo da democratici la sfida di saper coniugare i risultati dell’attività dell’Amministrazione Pisapia con il nuovo impulso proveniente dalle riforme del Governo Renzi” parole che hanno generato orrore e brividi in parte della giunta. Con un po' di fantasia gli assessori di Pisapia si possono poi dividere così: Categoria passavo di lì per caso o della filosofica indifferenza. Francesca Balzani, Chiara Bisconti e Francesco Cappelli, godono di rara e centellinata ottima stampa, di buona reputazione e sono tenuti in grande stima da tutti vuoi per il lavoro che fanno vuoi perché totalmente privi di qualsivoglia ambizione politica e scarsamente invadenti, quasi invisibili. Non alieni però dal continuare il loro lavoro anche nella prossima giunta. Categoria se non c'è Pisapia ci siamo noi sulla stessa linea o la “guardia imperiale”. Nient'affatto invisibili, competitori del PD, diffidenti verso Renzi, fautori del “pas des ennemie à gauche” stanno costruendo una nuova lista e nel caso di abbandono di Pisapia un nuovo sindaco, magari anche di area PD, ma scelto da lo-
ro. D'Alfonso, Benelli, Tajani (l'assessore con il gradimento individuale più alto di tutti), insieme agli assessori occulti (cioè a dire lo staff del sindaco) sono il gruppo più politico e ambizioso che intende non solo scegliere i candidati ma anche indicare una linea politica eterodossa rispetto al renzismo. Una sfida senza possibilità di pareggio. Categoria il PD c'est moi o col 40% decidiamo noi. Maran, Granelli, renziani riflessivi, si contendono il ruolo di leader futuri del PD cercando di assicurarsi la maggioranza del gruppo dirigente milanese contando sul fatto che han fatto bene il loro lavoro, che sono sempre in linea con il segretario nazionale di turno, che vorrebbero continuità politica ma non si scandalizzerebbero di imbarcare i centristi e che non vogliono mettere in discussione le gerarchie parlamentari locali. Un tempo si sarebbe detto: “pensano al congresso”. Variante dello stesso schema Rozza e Del Corno puntano a rappresentare in giunta una delle minoranze (un tempo si sarebbe detto correnti, visto che ci sono anche minoranze renziane) del partito. Tutti devono guardarsi dalla vivace concorrenza interna, che al grido si poteva fare di più, proclama necessaria una ulteriore rottamazione. Categoria sono ancora l'enfant prodige de la gauche o il solista. Per metà nel PD per metà arancione, movimentista per natura, il più critico sul governo, titolare della più nobile mission del Comune di Milano: l'assistenza, dove ha riportato slancio e intelligenza e non fa rimpiangere i suoi predecessori illustri (cioè il gotha della politica comunale di questo secolo), Majorino ha poca truppa al seguito e può candidarsi a mediatore tra i vari protagonisti e a garante delle alleanze a sinistra. Una specie di sinistra indipendente dei giorni nostri. Compito arduo e impervio. Categoria mi pare ovvio che tocchi a me o della gerarchia. La vicesindaco decisionista e apprezzabilmente poco diplomatica, sembra ritenersi l'erede naturale e la garante della continuità politico-amministrativa. Tesi apparentemente condivisa da pochissimi, quasi nessuno. Ma la politica è piena di outsider di successo.
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I COMITATI X MILANO. UNA VISIONE DALL’INTERNO Paolo Limonta La prima geniale intuizione è stata quella del 2010. Molti di noi, lavorando quotidianamente nei quartieri, avevano percepito quella prorompente voglia di esserci, di partecipare e di essere protagonisti di un percorso politico che poteva portare alla liberazione di Milano dopo quasi vent'anni di soffocante governo del centro-destra. I Comitati X Pisapia sono nati da quella intuizione. Ed è stato facile legarli alla figura di Giuliano Pisapia. Il compito dei Comitati era semplice e, nello stesso tempo, rivoluzionario: dovevano moltiplicarsi all'infinito, coinvolgendo sempre più donne e uomini in quella che doveva ritornare a essere, dopo anni di miserie del centro sinistra milanese, una campagna elettorale non subìta, ma vissuta in prima persona. Da protagonisti. E, come si è visto, ci siamo riusciti. La seconda intuizione, a mio parere altrettanto proficua, è stata quella di fare in modo che, passate le elezioni, proseguisse quel percorso di coinvolgimento dei cittadini, perché in molti lo chiedevano. Ecco allora la scelta di far nascere i Comitati X Milano: strutture di territorio, agili, aperte e includenti, che avessero il preciso compito di “favorire la partecipazione e il coinvolgimento diretto dei cittadini milanesi su percorsi e progetti da proporre all'Amministrazione Comunale in tutte le sue diramazioni”. Non esito a definire anche questa scelta come politicamente rivoluzionaria. Rompeva gli schemi delle rigide appartenenze politiche e consentiva ai cittadini (fossero iscritti o meno a Partiti o Associazioni) di ritrovarsi assieme per lavorare su progetti concreti. E così, a poco a poco, i Comitati X Milano sono diventati interlocutori importanti per tutte le altre realtà che operano sul territorio e anche per i cittadini che
hanno trovato grazie a loro un luogo di confronto e di proposta politica. La peculiarità dei Comitati è sempre stata quella di garantire la massima apertura e inclusività verso tutti coloro che avessero qualcosa da proporre per migliorare le condizioni di vita del quartiere, sempre in una prospettiva di miglioramento complessivo delle condizioni generali della città. In questo senso i Comitati hanno maturato un’esperienza fatta di decine di iniziative promosse nelle diverse zone di riferimento: il bookcrossing, le proposte sulla mobilità sostenibile, sulla progettazione partecipata orientata alla riqualifica e al riutilizzo di spazi urbani abbandonati o degradati, sulla valorizzazione e la tutela del sistema del verde urbano, le proposte per la promozione di spazi e attività culturali nelle zone, gli interventi di sensibilizzazione sulla realtà carceraria, sul tema delle ludopatie e della legalità ai progetti di biblioteche sociali, l’organizzazione di seminari come momenti di confronto e riflessione, ultimo in ordine di tempo, a novembre 2014, il seminario “Spazi e luoghi - la politica ospitale”. Questo sguardo ampio ha permesso di costruire una pratica fortemente legata alle specificità di ogni zona e orientata a coltivare relazioni e sinergie con altri soggetti attivi sul territorio. Una pratica di attenzione e sensibilità che ha visto svilupparsi dai Comitati X Milano altri comitati, gruppi e associazioni che stanno proseguendo propri percorsi su temi e problematiche di specifico interesse per i propri quartieri. I Comitati X Milano hanno cioè egregiamente applicato la teoria dei vasi comunicanti alla vita politica nei quartieri: molti componenti dei Comitati hanno portato nei Partiti e nelle Associazioni idee, modalità, proposte che si sono efficacemente
trasformate in percorsi concreti. E lo stesso è avvenuto in senso opposto. Anche nella gestione del rapporto con l'Amministrazione Comunale i Comitati X Milano hanno introdotto alcuni aspetti innovativi che sono estremamente importanti nel percorso di coinvolgimento e partecipazione del cittadino. In più occasioni i Comitati hanno svolto il ruolo di “facilitatori” nella costruzione di progetti significativi che, pur avendo una dimensione di quartiere o di zona, riguardavano l'intera città. E, in più occasioni, la visione dei Comitati ha portato l'Amministrazione a modificare i progetti iniziali proposti attraverso percorsi di ascolto e di confronto. I Comitati X Milano, al pari delle innumerevoli altre Associazioni, Comitati, Social Street, continuano e continueranno a vivere a Milano e a farla vivere. Nessuno può illudersi che la gestione di una città complessa come Milano possa non tener conto delle ricchezze individuali e collettive che costituiscono un tessuto inesauribile di idee, percorsi, progetti, proposte. Il percorso iniziato nel 2011 da Giuliano Pisapia ha dato buoni frutti e deve continuare a darne. Ci sono tantissime persone disponibili a proseguire questo percorso; persone che sono state determinanti nel 2011. E lo saranno nel 2016. Per portare avanti e rafforzare il modo di lavorare e gli obiettivi che ci hanno guidato fino a oggi e che si possono riassumere essenzialmente nel favorire la partecipazione dei cittadini per fare di Milano una città realmente partecipata. Fino a farla diventare la rappresentazione plastica di un modello inclusivo e la casa di una sinistra unita e capace di trasformare Milano. Perché noi alla nostra città non rinunciamo...
BUSSOLATI, BIENVENUE MONSIEUR TARTUFFE Giuseppe Ucciero Trentanove righe ha speso il giovane Pietro Bussolati sull’ultimo ArcipelagoMilano. Seicentosessantasei parole, tremilaseicentotre caratteri, per non dire niente. Nulla che non fosse la solita minestra di rituali evocazioni, di criptici segnali, di autoincensazione programmatica, di accorto bilancino tra il cauto e innegabile tributo a Pisapia e l’osanna senza riserve al “nostro caro
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leader”. Un saggio degno del miglior Tartuffe, se non fosse che pur avendone le intenzioni, cade nell’opera sua. Attendevamo invece una sola parola da lui, come da tutto il PD: ti ricandidiamo Giuliano, riproviamoci assieme. Ma questa non ce la dice, neppure sotto tortura, convinto che l’invito sarebbe un grave errore e che tocchi invece all’altro di auto-
candidarsi. Dietro le mille e una foglie di fico dei riconoscimenti e delle esortazioni, il PD nega al suo Sindaco l’unica conseguenza logica delle belle parole appena spese e accende un cerino pericoloso. “Hai lavorato bene, caro, ma noi che, pure dovremmo, non ti proponiamo il secondo mandato”. E Pisapia, naturalmente, da un lato è offeso dal silenzio e dall’altra si interroga sulla
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www.arcipelagomilano.org praticabilità di una nuova sua autocandidatura. Sul perché del traccheggiare del PD abbiamo già scritto e non vale la pena di ritornarci. Personalmente credo che così facendo si giochi con il fuoco, nell’illusione che sia agevole cucinare una nuova candidatura vincente da qui al 2016. Ma non ci si accorge che il clima sta cambiando e ci si dimentica che le vittorie facili non sono mai esistite. Dice Bussolati al culmine dello slancio simpatetico - tartufesco “Questa è una delle certezze anche da qui al 2016: siamo del tutto consapevoli dell’importante ruolo di incoraggiamento e sostegno che dovremo ricoprire nelle sfide dell’Amministrazione, proprio come abbiamo già fatto durante tutto il mandato del Sindaco Giuliano Pisapia.” Fino al 2016, appunto, ma non oltre, il dopo non si dice. E il perché sta scritto tra le righe di una di quelle rappresentazioni del politichese che lancia il messaggio (la pietra) e nasconde l’intenzione (la mano): “Oggi raccogliamo da democratici la sfida di saper coniugare i risultati dell’attività dell’Amministrazione Pisapia con il nuovo impulso proveniente dalle riforme del Governo Renzi.” Che significa questa contorta e oscura espressione, cosa indica alle truppe (non certo ai cittadini che leggono ArcipelagoMilano) quel “saper coniugare” se non un richiamo forte all’osservanza delle nuove condizioni politiche, nelle quali non vi sarebbe spazio né per una autonomia politica del sindaco né per assetti politici che si distanzino, per contenuti e forme, da quelli nazionali? Sotto le parole di Monsieur Tartuffe, sotto quel dire senza significare, appare in filigrana il richiamo all’ordine, alimentato anche da un desiderio di revanche tuttora in circolo nelle vene del PD milanese, effettivamente messo in un angolo dalla leadership di Pisapia. E allora fiato alle trombe dell’orgoglio di partito, e spazio alle furbesche battute che appaiono per quello che sono, ammiccamenti rivolti anche ai sostenitori interni di Pisapia, aprendo a chissà quali orizzonti, hai visto mai? Quando Bussolati dice “Penso al sociale e alla tutela dei più deboli, un ambito delle politiche pubbliche
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in cui Milano è diventata modello di riferimento nella gestione delle emergenze sociali. Oggi abbiamo un nuovo welfare ambrosiano trasparente ed efficace”, chi ha qualche primavera capisce, più che sospettare, che si tratta di un’avance a Majorino, sostenitore certo di Pisapia, ma che Bussolati presume attrezzato di ancor più solide ambizioni in proprio. La captatio benevolentiae è un’arte che chiede raffinatezza e affermare oggi che “abbiamo un nuovo welfare ambrosiano” va così oltre i risultati, pur decorosi, pur importanti che lo stesso assessore direbbe “calma, abbiamo molta strada da fare e molta sofferenza per strada”. Ma Bussolati – Tartufo procede inesausto, diffondendosi in un compiaciuto elenco di riconoscimenti, che non rassicurano i destinatari, ma preoccupano gli altri, ignorati. Come intontito dal suo stesso incenso, dimentica l’adagio che “chi più si loda, più s’imbroda”, affermando stentoreo “abbiamo dato impulso al superamento della gestione Aler delle case popolari comunali e dato risposte al bisogno abitativo degli onesti.” Mah non si sa dove viva il nostro segretario, eppure non gli mancano informazioni sul diffuso malessere (eufemismo) delle periferie territoriali e sociali, eppure insiste e agita il pugno: “Siamo stati duri contro chi delinque – da qualsiasi parte del globo provenga – soprattutto nei quartieri popolari, con azioni di bonifica delle zone in mano alla criminalità”. Si facesse un giro al Giambellino o alla Barona o al Corvetto o al Calvairate – Molise per conoscere consistenza ed esiti delle azioni di bonifica … . Non pago, prosegue ancora e via con il coworking, e la sharing city, orpello retorico rivolto ai suoi grandi elettori, per infine “coniugare”, ecco finalmente ci siamo, questi risultati con l’azione del governo Renzi a cui attribuisce tout court l’incremento del 23% (sul 2013) sull’anno precedenti dei contratti a tempo indeterminato in provincia di Milano! Neppure si accorge l’ingenuo adulatore, furbesco ma incauto Tartufo locale, che così dicendo nega contenuto e urgenza al Jobs Act, decretato proprio per consentire finalmente alle imprese di fare quello che gli veniva impedito da un “arcaico quadro di
diritti sindacali”: che bisogno c’era di s-travolgerlo, e con quale urgenza poi, se il treno delle assunzioni a tempo indeterminato galoppava già trionfante da tempo? E per merito di quello stesso Governo che poi l’ha abolito! Non basta essere opacamente ipocriti per diventare un vero Monsieur Tartuffe, l’arte di dire non dicendo richiede un registro che non si trova sullo spartito dei giovani renziani, avvezzi a imitare lo stile urlato del “caro leader”. Infine, il nostro tocca davvero il sublime rivendicando al governo nientemeno che il blocco dell’aumento dei contributi per le partite Iva, risultato necessariamente conseguito contro … se stesso. E mentre sottace la vergognosa ignavia con cui Renzi in persona centellina e nega a Pisapia i contributi pur concordati, ne rivendica meriti immaginari su Expo. Piantiamola, chiude infine, con la nostalgia (di cosa ?), e coniughiamo velocemente il verbo renziano al futuro metropolitano ché “Rinnovarci non ci fa paura, al contrario ci dà la spinta per proseguire con slancio ed energia la strada intrapresa finora”, ma di grazia rinnovarci esattamente da cosa se tutto procede così bene, come da brillante resoconto? Monsieur Tartuffe non ce lo spiega e conclude così il suo non dire, lasciando a noi e tutte intere le pene interpretative. Lo rassicuriamo però, ci siamo applicati e l’abbiamo ben capito. Per questo guardiamo con maggiore preoccupazione alle prossime vicende milanesi, elettorali e non.
PS: il week end ha aggiunto benzina sul fuoco. Guerini e Alfieri portano argomenti a favore di una diversa coalizione. Majorino, ignorando Bussolati, chiede solo a loro parole chiare sulla maggioranza delle prossime comunali, riportando l’attenzione sui contenuti e non sulle sole dinamiche elettorali. Ma il punto è proprio questo: la visione renziana incorpora, proprio nei suoi contenuti, larga parte dei valori del centrodestra e non è politicamente riconducibile all’esperienza pisapiana.
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PERCHÉ RIAPRIRE I NAVIGLI È UN’IDEA SENZA SENSO Fabrizio Marino Milano non ha più la struttura adatta a questo progetto. E c’è il rischio di vendere una falsa idea. Come il ritornello di una canzone, torna puntuale il dibattito sulla riapertura dei navigli milanesi. L’occasione per ridiscuterne è stata la presentazione del libro “Riaprire i Navigli” tenutasi all’Urban Center di Milano il 23 febbraio, alla quale hanno partecipato anche il presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni, il vicesindaco Ada Lucia de Cesaris e il consigliere comunale Roberto Biscardini. Un progetto che porterebbe alla riapertura di otto chilometri di canali, utili a metter in collegamento il Naviglio Martesana, il Naviglio Grande e quello Pavese con l’aggiunta della riapertura della suggestiva tratta di via San Marco. All’entusiasmo del presidente della Regione, «Un’idea affascinante — l’ha definita Maroni — nonché un’opportunità straordinaria per la città di Milano», si è aggiunto quello del vicesindaco. Che rilancia: «Pensiamo che in futuro non siano da escludere degli investimenti privati. Già dal 2016 potrebbero essere messi in atto alcuni interventi, fermo restando la necessità di effettuare precise valutazioni». Secondo le stime il costo dell’operazione oscillerebbe tra i 120 e i 150 milioni di euro, con la possibili-
tà di una sottoscrizione collettiva da parte dei cittadini milanesi. Gli stessi cittadini che nel 2011 espressero parere favorevole di portata quasi plebiscitaria nel referendum consultivo di indirizzo sull’ambiente organizzato dal comune di Milano. Il quinto quesito chiedeva loro parere favorevole o contrario sulla “risistemazione della Darsena quale porto della città e area ecologica e la graduale riattivazione idraulica e paesaggistica del sistema dei Navigli milanesi”, e il risultato fu un 94,32% a favore dei sì, su un’affluenza che coinvolse il 48,99% degli aventi diritto al voto. Un’idea che, almeno per una volta sembrerebbe mettere tutti d’accordo, istituzioni e cittadini. Eppure c’è chi la pensa diversamente, come Gianni Beltrame urbanista e professore al Politecnico di Milano, che a lungo ha studiato la realtà dei Navigli. «Sono assolutamente contrario — afferma Beltrame — alle cose che dicono questi signori, che io ho denominato gli “scoperchiatori facili”. Il progetto non è attuabile per tanti motivi» All’interno delle tante motivazioni che renderebbero inapplicabile il progetto della riapertura dei canali, vanno sicuramente tenuti in considerazioni due fattori secondo Beltrame: per prima cosa i navigli sono un sistema di trasporto di concezione medioevale — decadu-
to per ragioni di evoluzione dei trasporti stessi — oggi non più recuperabili né riutilizzabili. E poi il sistema idraulico milanese è vecchio e ha scarsità di acqua. Inoltre il progetto pensato per riaprire i Navigli potrebbe risultare carente anche dal punto di vista storicoturistico. «Attorno ai Navigli — continua Beltrame — non c’è quasi più niente da vedere e da ricordare. Riscoprire i Navigli non significa riscoprire l’ambiente suggestivo ottocentesco intorno ai canali. La città negli anni si è ricostruita, cancellando quasi al cento per cento quei luoghi storici legati ai Navigli, ecco perché riproporre dei piccoli canali così come pensati nel progetto in atto, porterà solo a degli squallidi tagli nell’asfalto di una città che non richiama più ambienti e luoghi suggestivi. In poche parole la città dei Navigli non esiste più». E semmai si volesse provare a ricostruire il passato bisogna partire dall’idea che «la possibilità di restituire a Milano e ai milanesi una bellezza scomparsa, deve riconoscere che questa bellezza è scomparsa davvero. La città è cresciuta senza voler conservare una memoria di se stessa». Per continuare a leggere l’articolo su LINKIESTA clicca qui
ANCORA SUI PREZZI DELLE CASE, PROBLEMA SOCIALE PRIMARIO Marco Ponti Una premessa: le tre repliche che ho avuto (Gregorio Praderio, Sergio Brenna e Giorgio Origlia) provengono da persone che credo ne sappiano più di me, e li ringrazio. Io sono un economista dei trasporti che si è avventurato, con qualche intento provocatorio, in un altro settore. Credo però che ci accomunino due cose importanti: la preoccupazione per la gravità sociale del problema, e l’osservazione che nonostante il vistoso eccesso di offerta, i prezzi non scendano. Provo a riassumere quel che ho capito delle loro argomentazioni, sperando di non distorcerle per brevità: Gregorio Praderio osserva che il settore è già piuttosto liberalizzato, che le case anche vuote sono “collaterals” del credito, e che c’è una preferenza per case in aree nuove e non compromesse. Raccomanda interventi per abbassare i prezzi
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dell’usato, delle aree già edificate ecc. Sergio Brenna è più radicale: non vede soluzioni che in diritti edificatori non coincidenti con la proprietà dei terreni, e con eventuali meccanismi di esproprio a prezzi agricoli. Una nuova “legge Sullo” adattata a un contesto cambiato. Auspica anche un intervento pubblico “più keynesiano”. Infine Giorgio Origlia vede il problema essenzialmente nel “mismatching” tra domanda abitativa e offerta: sono vuoti sul mercato moltissimi uffici, capannoni e negozi, dei quali non si può facilmente mutare la destinazione d’uso a causa di pastoie burocratiche irragionevoli. Sottolinea poi che il suolo non urbanizzato vada difeso soprattutto per ragioni idrogeologiche (impermeabilizzazione). Provo a fare dei ragionamenti. La posizione di Praderio sul ruolo delle
banche mi sembra del tutto condivisibile, era una lacuna del mio pezzo, ma mi chiedo in pratica quanto pesi sui prezzi d’attesa “eterni”, problema tra l’altro presente da moltissimi anni. La preferenza per il novo non compromesso invece non mi convince: nell’usato, e nelle aree compromesse ecc. i prezzi dovrebbero crollare, e invece non mi sembra affatto che avvenga. Purtroppo però per ignoranza non ho capito bene le raccomandazioni tecniche finali. I problemi idrogeologici infine mi sembrano enormemente maggiori in aree montane soggette a erosione o cementificazione degli alvei, che non quelli che si generano in pianura (altrimenti non ci sarebbero città grandi come TUTTA la Lombardia …). La posizione di Brenna mi sembra ideologicamente coerente, ma di problematica attuazione, e non ten-
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www.arcipelagomilano.org ta spiegazioni del fenomeno della mancata discesa dei prezzi. Inoltre devo osservare che Keynes era uno strenuo difensore della proprietà privata, e vedeva la spesa pubblica anticiclica solo in termini di immissione indifferenziata di liquidità nell’economia. La posizione di Origlia mi sembra perfettamente condivisibile: auspica un aumento dell’offerta residenziale via una liberalizzazione delle destinazioni d’uso del costruito. La trovo migliore del mio rozzo liberismo, ma non in contrasto di fondo, anzi: meglio iniziare con questa liberalizzazione, che con quella dell’edificabilità “green fields”. Se i prezzi non calano ancora, vedremo.
Un altro aspetto forse da tener presente è connesso alla tragica frammentazione del mercato del lavoro: chi ha un lavoro fisso può comprarsi una casa anche se relativamente costosa, e in questo modo incentiva indirettamente i prezzi d’attesa, chi non ce l’ha (e questi sono in numero rapidamente crescente, giovani soprattutto) non solo non accede a quel mercato, ma nemmeno a quello dell’affitto, data la debolissima tutela italiana dalle insolvenze degli inquilini: i proprietari di case vuote non affittano a persone con redditi bassi o incerti, e a questo fine mi era parsa eccellente la proposta di Stefano Boeri quando era candidato a sindaco, di costituire un’agenzia
pubblica di mediazione e garanzia tra proprietari e potenziali inquilini. Nel complesso tuttavia mi sembra che le spiegazioni del fenomeno dei prezzi d’attesa non siano del tutto soddisfacenti, e ovviamente tra queste ci metto la mia. Si può solo concludere che il tema richiede ancora un grande sforzo di comprensione, anche per poi poter proporre soluzioni efficaci. Mi permetto di credere, dal numero delle risposte, che la mia provocazione sia stata utile per il dibattito. Ma anche sull’agricoltura sarebbe urgente un dibattito senza retoriche che troppo ricordano la “battaglia del grano”….Insomma, c’è molto da lavorare.
SPAZI PUBBLICI E PROGETTO DI SUOLO: LA VITTORIA DEL PARADOSSO DELLA TECNICA Giacomo De Amicis L’intervento di Luca Beltrami Gadola dedicata al rifacimento di Piazza XXIV Maggio, mi consente di portare ai lettori una riflessione di carattere più generale. Con ogni probabilità, a lavori terminati, ci troveremo di fronte a due situazioni urbane differenti e contrastanti: la piazza vera e propria (compatta e contenuta) e lo “spazio rimanente” (esteso, privo di volontà formale e di dimensioni molto più ampie). Due parti intrinsecamente divise, separate, lontane, specializzate. Nessun tentativo di far convivere funzioni e attività, con uno squilibrio anche dimensionale che appare di per sé significativo dei valori urbani considerati. Lo spazio a ridosso dell’imboccatura di Corso S. Gottardo, è a mio avviso particolarmente interessante, a partire dalla sua trasformazione da spazio verde unitario (progetto di concorso) in luogo dominato dalla sola razionalità viabilistica. Non conosco le vicende del progetto, tuttavia sorprende un tale esito, proprio nel momento in cui la municipalità in quasi tutti i suoi atti formali promuove la necessità di progettazioni integrate, la valorizzazione dello spazio pubblico, l’istituzione di aree 30, l’uniformità delle pavimentazioni, ecc. Tracce di questi contenuti sono rilevabili nel bando per la sistemazione di Piazza della Scala, nell’aver prescelto il progetto che abolisce tutte le differenze di quota in Piazza Castello, e anche in alcuni punti dell’ottimo Manifesto della Commissione per il Paesaggio del febbraio 2010. Non so quanta parte di responsabilità dei progettisti ci sia in questa fiera di spazi residuali e doppi cordoli, ma l’impressione è che sia il risulta-
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to non di una volontà di qualcuno, ma di qualcosa. Siamo probabilmente di fronte al fenomeno del “paradosso della tecnica”, ben spiegato da Umberto Galimberti nei suoi libri, applicato al settore della manutenzione e della costruzione dello spazio pubblico. Oggi, come spiega Galimberti, il rapporto fini/mezzi si è ribaltato: “la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso,.... la tecnica funziona e basta. Produce, all’interno di una logica deterministica perfettamente razionale, effetti irrazionali, privi di qualsiasi senso riconoscibile. La tecnica non ha fini da realizzare, ma solo risultati su cui procedere, risultati che non nascono da scopi che ci si è prefissi, ma che scaturiscono dalle risultanze delle sue procedure. La tecnica procede la sua corsa sulla base del si fa tutto ciò che si può e deve fare”. E così accade anche nella costruzione del suolo pubblico. Legittime istanze specialistiche di settore procedono autonome e implacabili, ognuna basta a sé stessa, insieme si sommano. Il progettista, se cerca di governare il processo, si deve preparare a una lotta impari. L’architettura, luogo della sintesi formale e funzionale per eccellenza, muore. E se ciò accade in pieno centro per una grande opera dell’Expo, figuriamoci cosa può succedere negli immensi spazi senza senso delle periferie, dove la logica tecnocratica domina incontrastata, con una - a volte - spettacolare sequenza di lavori stradali (spesso per reti e sottoservizi) che si aprono e chiudono più volte nello stesso punto senza portare mai un miglioramento tangibile sulla superficie.
Quante sezioni stradali avrebbero potuto essere interamente modificate verso soluzioni più adatte e civili (per esempio per la realizzazione capillare delle piste ciclabili), se solo la continua reiterazione dei lavori stradali si fosse nel tempo inserita in un quadro di finalità note? Quanti spazi degradati delle periferie avrebbero potuto negli anni trovare a costo zero - una nuova vita, o semplicemente un nuovo senso attraverso una avveduta regia di tutte le istanze tecniche che interessano il suolo? Proprio oggi, alla luce di una sconcertante vittoria della tecnica insensata, appare ancora più evidente come sia necessario rilanciare la necessità, il valore, e infine “la potenza” del progetto. Solo il progetto consente di “vedere” un futuro diverso. Solo se sarà possibile vedere un futuro diverso la tecnica potrà essere addomesticata tornando a essere un mezzo per realizzare fini. Il disegno dello spazio pubblico inoltre, fondamentale nel definire la qualità della morfologia urbana, è uno strumento che dovrebbe essere utilizzato in modo capillare in quanto l’unico in grado di riscattare luoghi ormai smarriti. La strada, prima ancora della piazza, deve tornare a essere il primo dei nostri interessi. Non più “spazio di sacrificio” - a beneficio di qualche altra più nobile funzione - ma “luogo della visione”. Ora più che mai abbiamo assoluto bisogno di visioni, di linee guida, di metaprogetti, di qualsiasi cosa sia capace di interpretare una scala intermedia di progetto, compresa tra le strategie e le regole del PGT e la minuta azione quotidiana di modificazione del territorio (a partire dalle
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www.arcipelagomilano.org SCIA) e che consenta di mettere in evidenza, finalità e obiettivi, ma anche forme e “figure urbane”. Questa scala di progetto oggi a Milano è totalmente assente e personalmente la ritengo indispensabile.
I consigli di zona - in attesa di diventare municipalità - potrebbero essere il luogo dove gli scenari si costruiscono e prendono forma, diventando da un lato finalmente parte propulsiva del rinnovamento urbano
(non solo spettatori) e dall’altro vigilando affinché le enormi risorse impiegate in nome della solo razionalità tecnica vengano veicolate entro nuovi orizzonti dotati di senso e utilità per i cittadini.
MONTE STELLA: UNA GRANDE ARCHITETTURA Graziella Tonon «Mi sono accorto che non solo gli stranieri, ma anche i miei concittadini dormono nel deserto, per così dire, dell’ignoranza e non conoscono le meraviglie di Milano». Così Bonvesin da la Riva nel 1288 in apertura al suo De magnalibus Mediolani. A distanza di molti secoli si deve purtroppo constatare che a soffrire di quella ignoranza sono oggi anche coloro che hanno responsabilità di governo e più di altri dovrebbero conoscere i valori architettonici e ambientali della città ed essere attenti a difenderli e a valorizzarli. Diversamente non si spiega la proposta degli assessori Del Corno, D’Alfonso e Bisconti di sequestrare per usi impropri, dagli effetti devastanti, proprio il Monte Stella: un’opera cardinale della moderna architettura del paesaggio. Che si tratti di una meraviglia bastano pochi cenni alla sua storia. Dove oggi sorge il Monte Stella, nei primi progetti per il QT8 era previsto un grande lago per le attività sportive dei futuri abitanti, costituito dallo specchio d’acqua di una cava abbandonata. «Ora avvenne - scrive alla fine degli anni sessanta Piero Bottoni, l’ideatore del QT8 - che [in quella cava] la più importante della zona, venissero avviate le macerie che si stavano accumulando a migliaia di metri cubi lungo viale Ale-
magna, al Parco e nelle zone confinanti». Risultato: durante un sopralluogo Bottoni scopre non solo che la “concavità” del lago era stata colmata, ma che l’arrivo ininterrotto di macerie la stavano trasformando nella “convessità” di una montagna. A quel punto, di fronte a quel ammasso sempre più alto di detriti, che seppelliva irrimediabilmente il sogno di un «lago azzurro e romantico», prende corpo in lui l’idea di utilizzare i materiali della discarica per realizzare un altro sogno: quello di una montagna milanese. In una città oppressa dal mal della pietra, «dove la natura è stata estremamente avara di possibili occasioni paesaggistico ambientali», tradurre in realtà quel sogno dava la possibilità di creare una «isola di verde riposante» e assicurare a tutti i cittadini il piacere e la «novità delle prospettive aeree, dei percorsi in pendio, del panorama sulla città murata che si offre […] ai soli fortunati abitanti di un grattacielo». Passeranno molti anni prima che ciò si realizzi. Disegnata la planimetria e la sezione, sarà necessaria la tenacia, la passione e le lotte di Bottoni, compresa la sua «battaglia delle piante», perché il Monte Stella prenda forma, si copra di alberi, di erba, di viottoli, e diventi, come oggi è, oltre che una testimonianza storica di un riscatto civile, anche una
presenza vitale tra le più significative della fisionomia della città. Con la sua mole, nonostante non raggiunga i cento metri di altezza inizialmente previsti dal progetto, va infatti a configurare l’ingresso monumentale al capoluogo lombardo da nord-ovest e a costituire l’elemento insostituibile, insieme al parco di cui è parte integrante, della qualità ambientale del QT8. Scrive Aldo Rossi nel 1975: «L’architettura dei quartieri […] non è andata oltre l’importante proposta di Bottoni con il QT8 e il Monte Stella; così questi due fatti rimangono certamente come gli esempi più importanti e senza seguito della situazione milanese». E ancora dieci anni dopo: «Pochi sono i monumenti dell’architettura moderna, pochi soprattutto quelli che hanno un significato che va oltre la loro qualità tecnica […]. Certamente […] il Monte Stella di Piero Bottoni […]. Piero Bottoni […] trasforma un programma in una grande architettura: il Monte Stella». Come ogni grande architettura ingentilisce il mondo e aiuta gli esseri umani ad abitare. Una ragione non secondaria perché se ne debba avere la massima cura. Non va certo in questa direzione la scelta di localizzarvi i grandi concerti estivi della rassegna “City Sound”.
LA CITTÀ METROPOLITANA: LE GRAVI COLPE DELLA REGIONE Francesco Gastaldi e Sonia Zarino Con la legge 56/2014 (detta legge Delrio) la Città Metropolitana, realtà istituzionale di cui si discuteva da almeno 25 anni, è diventata realtà. Dal 1 gennaio 2015 è subentrata, con funzioni anche nuove e diverse, alla Provincia, comportando rilevanti innovazioni sui processi di governo e di “sviluppo strategico del territorio” (art. 1, comma 2). Il testo normativo della legge 56/2014 individua le funzioni fondamentali del nuovo ente di area vasta che dovrà occuparsi di sviluppo economico, promozione e gestione integrata dei servizi, infra-
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strutture, reti di comunicazione e delle relazioni istituzionali afferenti al proprio livello, comprese quelle con altri enti e istituzioni europei. Inoltre, la Città Metropolitana si occuperà di mobilità e viabilità e dovrà assicurare la compatibilità e la coerenza della pianificazione urbanistica comunale nell’ambito metropolitano. Le Regioni dovevano già a luglio 2014 decidere quali funzioni delegare alle Città Metropolitane oltre a quelle previste dalla legge Delrio, ma per il momento l’accordo si è trovato solo per quelle di tipo ammi-
nistrativo. L’ANCI e l’UPI, per bocca di Valeria Nicotra e Piero Antonelli, rispettivamente segretario generale e direttore generale, hanno recentemente espresso a proposito dell’operato delle Regioni una valutazione molto critica, affermando che “Le leggi regionali di riordino delle funzioni delle Province verso i Comuni e le Città metropolitane non colgono, allo stato attuale, lo spirito della legge Delrio e che le prospettive di riordino e di semplificazione amministrativa che la riforma propone sono state in gran parte disattese dalle Regioni’’.
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www.arcipelagomilano.org Rispetto alle Città metropolitane, le Regioni non hanno colto l’importanza della nascita del nuovo ente, non assegnando funzioni aggiuntive tipiche di un’istituzione vocata allo sviluppo economico integrato del territorio. "Auspichiamo – concludono Nicotra e Antonelli – che nella discussione in seno ai Consigli regionali, che entro il 31 marzo dovrebbe portare porterà all’approvazione delle leggi regionali, si possano introdurre modifiche anche attraverso il confronto e il dialogo con ANCI e UPI regionali. Se vogliamo raggiungere gli obiettivi della legge 56/2014, dalla semplificazione dei processi al miglioramento dell’efficienza dei servizi ai cittadini, bisogna dar seguito al riordino delle funzioni, rafforzando le Città metropolitane, spostando sui Comuni tutte le funzioni di prossimità e valorizzando il livello di area vasta con funzioni tipiche del governo del territorio’’. La nuova data per la ridefinizione delle funzioni delle città metropolitane e delle province è dunque spostata al 31 marzo, ma le discussioni e le critiche che accompagnano l’iter dei disegni di legge sembrano confermare il dualismo che si è venuto a creare tra le Regioni e i nuovi enti metropolitani che, specie in alcuni casi, hanno un peso assai elevato nelle dinamiche politiche e socio-economiche degli ambiti regionali di appartenenza. Non estranea alla ripartizione delle funzioni è naturalmente anche la questione della riallocazione del personale provinciale, che in assenza di un quadro certo nella rialloca-
zione delle risorse gli enti sono riluttanti a riassorbire. Questo è certamente un aspetto non secondario che ha contribuito non poco allo slittamento dei termini in cui le funzioni avrebbero dovuto essere riassegnate, permettendo finalmente ai nuovi enti di avviare una programmazione di un certo respiro rispetto a compiti cogenti e pressanti (scuole, strade, trasporto pubblico ecc.). Proprio le risorse appaiono il nodo attualmente più intricato in quanto le Città Metropolitane ereditano quelle delle Province, che da alcuni anni sono oggetto di pesante decurtazione, mentre vedrebbero aumentare il numero di competenze “pesanti”. Posto che le Città Metropolitane per funzionare necessitano di risorse proporzionate alle funzioni che esse saranno chiamate a svolgere, l’utilizzo dei fondi europei tramite i PON (Piani Operativi Nazionali) si pone così come una importante scelta strategica: lo stanziamento previsto è di quasi 600 milioni di euro tra il 2014 e il 2020, ma riguarda solamente progetti inerenti l’agenda digitale, la mobilità e sostenibilità urbana e l’inclusione sociale. La Città Metropolitana si occupa di “pianificazione territoriale generale”, comprese le strutture di comunicazione, le reti di servizi e delle infrastrutture, anche fissando vincoli e obiettivi all’attività e all’esercizio delle funzioni dei comuni ricompresi nell’area. A tale attribuzione si affianca la “pianificazione territoriale di coordinamento”, nonché la “tutela e valorizzazione dell’ambiente” ereditata
dalla Provincia; un ruolo di coordinamento tra i diversi temi e soprattutto tra i differenti piani. ll termine “pianificazione generale” sembra far riferimento alla possibilità di previsioni di carattere prescrittivo e cogente selezionando progetti e azioni rilevanti di scala vasta, lasciando così alla strumentazione urbanistica “tradizionale” compiti regolativi di livello comunale/locale. In un quadro di leggi urbanistiche e di governo del territorio che saranno chiamate a specificare in dettaglio compiti e ruoli delle singole realtà istituzionali, il Piano Territoriale Metropolitano (PTM), sarà quindi chiamato a svolgere tre principali funzioni: strategica, di coordinamento e prescrittiva con efficacia prevalente per ambiti e temi selezionati cercando forme di condivisione e raccordo con i comuni. Riassumendo, si può dire che il PTM potrebbe quindi avere alcune caratteristiche del piano territoriale e avere una valenza di piano strutturale, non incidente però sui diritti edificatori, e una valenza attuativa limitatamente per alcune funzioni strategiche (infrastrutture e sistemi di livello metropolitano) da gestire tramite accordi di programma con gli enti locali interessati. Ai comuni metropolitani spetterebbero i piani operativi e gli strumenti regolativi. In attesa che siano le leggi urbanistiche regionali a stabilire le prerogative del PTM, sono gli Statuti a farsi carico di tale definizione.
PSICOLOGI PER MILANO. IL SOCCORSO PER AIUTARE LA COMUNITÀ Carlotta Longhi In Italia, circa un quarto della popolazione adulta presenta ogni anno una criticità psicologica tale da dover richiedere l’aiuto specialistico, ma solo il 10% di essa, generalmente i casi più gravi, approda ai servizi psicologici e psicoterapeutici pubblici. Il Sistema Sanitario Nazionale italiano non riesce a soddisfare le numerose richieste d’intervento psicologico e psicoterapeutico per mancanza di risorse professionali ed economiche. I servizi territoriali, costretti a dare priorità a situazioni di gravità psichiatrica non possono concedere lo spazio necessario ad altre forme di disagio e di sofferenza psicologica e relazionale: si pensi ad esempio all’ansia, alla depressione, ma anche alle problematiche legate alle relazioni di coppia e familiari.
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In una grande città come Milano, le liste d’attesa per i servizi di tipo psicologico e psicoterapeutico pubblici variano da 30 giorni a 6 mesi a seconda delle strutture (ASL, servizi ospedalieri). Inoltre, salvo rare eccezioni, nei servizi del SSN in Lombardia è possibile usufruire solo di percorsi psicologici brevi, di durata non superiore a un anno, mentre una presa in carico psicoterapeutica di maggiore durata non è più prevista. Ciò comporta che chi necessita di una psicoterapia e non ha la possibilità economica di rivolgersi a un professionista privato, non ha di fatto nessun servizio a disposizione. Quindi, chi soffre di depressione, di disturbi d’ansia, di attacchi di panico si trova spesso a dover affrontare tempi di attesa interminabili. Ancora più difficile diventa la lotta per chi
deve combattere con situazioni come i disturbi del comportamento alimentare, i disturbi di personalità, le problematiche familiari, i disagi e i disturbi infantili e adolescenziali che necessitano di specifiche prese in carico, spesso lunghe e complesse. Sono proprio questi i casi, infatti, che necessitano di un tempestivo e preventivo “ascolto-intervento” perché proprio il lavoro psicoterapeutico e quello psicologico clinico impediscono a essi di diventare cronici fino a divenire invalidanti o a manifestarsi in maniera drammatica. Per contenere la pressione generata da questa situazione è indispensabile un approccio psicologico centrato sulla sostenibilità, secondo il quale lo psicologo si definisce e si rappresenta come un consulente al servizio della comunità, e non come
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www.arcipelagomilano.org un tecnico, o come un professionista che lavora per singoli individui. Il servizio di psicologia sostenibile è caratterizzato da quattro aspetti fondamentali: sostenibilità, accessibilità, resilienza, qualità. Sostenibilità, che significa continuità, possibilità di offrire servizi che si sostengono autonomamente, o almeno che tendono verso questo obiettivo, in modo da poter garantire alle persone che ne hanno bisogno interventi di lunga durata, che non siano frammentati da cambi di operatore o di struttura, e allo stesso tempo offrano alla comunità un servizio di riferimento costante, indipendentemente dalla precarietà dei finanziamenti pubblici e privati. Accessibilità: è intesa come possibilità per tutti coloro che ne hanno bisogno, di accedere a un servizio psicologico e psicoterapeutico, indipendentemente dalla disponibilità economica ed estrazione sociale della persona. L'accessibilità non si riduce all'abbassamento delle tariffe, ma va integrata con l'accessibilità sociale e culturale, attraverso a) l'informazione - la divulgazione dell'intervento psicologico e psicoterapeutico presso la popolazione, la presenza sul territorio, la predisposizione di luoghi di facile accessibilità fisica b) la vicinanza alla persona che chiede un intervento: la capacità di modulare il servizio sulle esigenze della persona, non solo di tipo stret-
tamente psicologico. In questo senso molteplici sono i fattori da considerare: innanzitutto la possibilità di parlare con qualcuno che parla la propria lingua, sia intesa come attenzione alle diverse culture, sia come capacità di adattare il proprio linguaggio a seconda dell'età, della competenza linguistica, delle risorse cognitive, della persona con cui ci si relaziona. Un altro aspetto rilevante è la capacità di costruire dei setting mirati, di saper declinare i tempi, i modi, in funzione della persona e del contesto e non solo dell'approccio del professionista; c) la capacità di lavorare in rete, di confrontarsi con altri professionisti, servizi, strutture, e di prendere in considerazione il contesto di vita della persona al di là della motivazione esplicita della richiesta. Resilienza, che significa accrescere la capacità di dare risposte positive alle difficoltà e Qualità, garantita da costante supervisione e monitoraggio dell’attività dei singoli professionisti, che lavorano come équipe condividendo e costruendo insieme un modello di intervento. Un avvio alla prassi della psicologia sostenibile è offerto dalla collaborazione tra l'Ordine degli Psicologi della Lombardia e il Comune di Milano, grazie all'avvio, nel 2013, del progetto “Psicologi per Milano”, che prevede la costituzione di un elenco di enti erogatori di servizi di psicologia sostenibile, che rispondono a
precisi criteri di professionalità e qualità. L'elenco degli enti convenzionati con il Comune è pubblico e consultabile da tutti i cittadini. I cittadini che necessitano di un aiuto psicologico ma che sono in condizione di disagio economico possono accedere direttamente a percorsi gratuiti o a tariffe agevolate, senza limiti di durata nel tempo o di numero di colloqui, attraverso la segnalazione e l'invio da parte dei Servizi Sociali del Comune di Milano, che hanno anche la funzione di orientamento e di informazione sui diversi enti. Il progetto ha il grande merito di fornire visibilità e riconoscimento agli enti che offrono psicologia sostenibile e che appartengono al mondo non profit, che forniscono un servizio indispensabile e non coperto dal sistema sanitario regionale. Inoltre permette ai cittadini di avvicinarsi velocemente e facilmente a percorsi di aiuto che spesso sono percepiti come saturi e stigmatizzanti nel pubblico e come elitari nel privato. Il limite dell'iniziativa consiste nel carico economico che grava completamente sugli enti non profit, che offrono tariffe sostenibili grazie alle proprie capacità di fundraising, dal momento che il Comune di Milano contribuisce alla promozione del progetto ma non finanzia in alcun modo le attività.
IL RAPPORTO CITTÀ-CAMPAGNA E LA CONFUSIONE DI EXPO Michela Barzi Mancano poche settimane all’apertura di Expo e dopo mesi di notizie sulla scelta dell’area e sulla costruzione del sito espositivo - con approfondimenti sulla valorizzazione immobiliare da una parte e sulle vicende giudiziarie dall’altra - quasi non ci si ricorda più del tema che dovrebbe animare l’esposizione universale. Eppure Nutrire il pianeta, energia per la vita è un bel argomento, ma forse dovremmo dire era se si va a vedere come viene trattato da ExpoNet, «il magazine ufficiale di Expo Milano 2015». Uno degli argomenti collegati al tema di Expo è il rapporto tra città e campagna che rimanda a quello tra consumo e produzione di cibo. La questione è seria e ha una relazione diretta con il modello di sviluppo che ha spinto l’urbanizzazione a livelli mai registrati prima nel pianeta. Si può quindi ragionevolmente sperare che il magazine di Expo la tratti con la dovuta serietà, magari proponen-
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do approfondimenti di esperti della materia. E invece non è così. Le sorprese iniziano appena si cerca di capire meglio in cosa consistano i contenuti del magazine e si ha la fortuna di imbattersi ad esempio in questo articolo: La città più sostenibile esiste già. È in Italia. L’iniziale sorpresa per il titolo (come? Siamo un faro della sostenibilità e non lo sapevamo?) viene sostituita dall’incredulità non appena letto l’incipit: «Cassinetta di Lugagnano è una delle pochissime, se non l’unica, città italiana virtuosa per la messa in opera di una pianificazione strategica sostenibile. Conta poco più di 1.800 abitanti. Il suo territorio si espande a ridosso del Naviglio Grande, a circa 26 chilometri a sud di Milano, immerso nella riserva naturale del Parco del Ticino». Ora, tralasciamo la geografia, la demografia e persino l’etimologia aspetti che fanno di Cassinetta di Lugagnano un piccolo centro abita-
to, un villaggio (da villaticum, a indicare un insieme di dimore rurali non a caso molto diffuse sui tre chilometri quadrati della sua superficie). Dimentichiamoci che Cassinetta sia un diminutivo di cassina, cioè cascina, termine che indica un edificio rurale, e concentriamoci solo su questa affermazione senz’altro vera: si tratta del «primo comune in tutta la Lombardia ad aver approvato nel 2007 un Piano di governo del territorio (Pgt) a zero consumo di suolo, (…) ovvero con previsioni di crescita nulla per l’insediamento urbano». Vero è anche che «a Cassinetta di Lugagnano è stata riconosciuta l’importanza della relazione tra città e la campagna», e tuttavia - dopo che la geografia, la demografia e l’etimologia lo hanno confermato - è del tutto evidente che la città in questione non è il piccolo comune rurale, famoso per le sue bellissime ville sul Naviglio Grande, ma Milano.
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www.arcipelagomilano.org Se l’articolo non avesse completamente sbagliato la scala alla quale va inquadrato in questo caso il rapporto città-campagna, se non avesse confuso la green belt del comune lombardo a consumo di suolo zero con quella della città metropolitana (un’entità ora anche amministrativa che ha un territorio 525 volte più grande di quello di Cassinetta di Lugagnano), sarebbe emerso con chiarezza dalla sua lettura che la battaglia contro lo sprawl (fenomeno che secondo l’autrice dell’articolo sarebbe nato «in tempi non sospetti per alimentare Londra e Parigi con le risorse provenienti dai nuclei rurali limitrofi») ingaggiata da quel Pgt si spinge simbolicamente molto oltre i confini del piccolo territorio comunale, talmente piccolo da non implicare nessun danno a costruttori in cerca di aree edificabili. Le stesse superficialità e confusione delle quali è intriso un altro contributo dedicato al rapporto cittàcampagna – Carrying Capacity. Cosa succede quando una città cambia dieta – cha dopo averci informato che «La città e la società urbana traggono nutrimento e risorse dal rapporto con la campagna», e che «L’espansione urbana è in funzione dell’incremento demografico. La re-
altà dei fatti dimostra una continua erosione del terreno agricolo finalizzata all’edilizia, spesso speculativa. » ci conduce a questa conclusione: «Nel futuro non sarà necessario interrompere drasticamente le opere di urbanizzazione solo se queste verranno pianificate in relazione alla soglia della carrying capacity. (…) Per garantire l’autonomia e la sicurezza alimentare delle nostre città si devono adottare strategie di sensibilizzazione e piani urbanistici di riconversione a campo agricolo delle così dette aree di attesa e dei fazzoletti incolti interni alla maglia urbana. L’urbanizzazione diffusa irrazionalmente, l’urban sprawl, e le aree riservate agli allevamenti consumano suolo agricolo, ovvero privano l’uomo dei suolo capace di produrre cibo per il fabbisogno di questa generazione e di quelle a venire. Seguire l’esempio di città come Cremona, la cui espansione urbana è contenuta al di sotto della soglia della carrying capacity, permette ai parchi agricoli delle fasce urbane e periurbane di produrre cibo per il proprio fabbisogno e per quello dei comuni limitrofi meno virtuosi». Viene da chiedersi perché si debba utilizzare un concetto mutuato dall’ecologia dei sistemi, come car-
rying capacity - rigorosamente in inglese forse perché a utilizzare l’espressione capacità di carico si è in qualche modo tenuti a spiegarla con il solo fine di dimostrare ciò che ha poco da essere dimostrato: le città non producono cibo e dipendono dai sistemi agricoli. Ma affermazioni ad effetto a parte - se ci si pensa un attimo quella su Cremona si può semplicemente ricondurre al fatto che la città sta nel mezzo di uno dei territori agricoli più produttivi a livello nazionale - ciò che preoccupa è la nonchalance con la quale si presentano certe ricette, dalle quali sembrerebbe che si possa rendere sostenibile l’espansione urbana, basta che qualcuno definisca (con quale criterio?) una soglia di capacità di carico del territorio circostante. Fare informazione su aspetti fortemente collegati al tema di Expo con questo livello di trattazione pone qualche interrogativo sui criteri con i quali Expo comunica con il pubblico dei possibili visitatori. Domande che si aggiungono a quelle sul senso della manifestazione che le vicende della sua gestione non hanno ancora finito di suscitare.
EXPO 2015: NUTRIRE IL PIANETA … MA COME? Marco Marazza Il tema dell’Esposizione Universale di Milano che inizierà il 1° maggio 2015 è “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”. Sulla home page del sito web il concetto è esplicitato: “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita significa sicurezza alimentare, accesso alle risorse alimentari, sostenibilità […] Finora hanno aderito a Expo Milano 2015: Onu - Organizzazione delle Nazioni Unite, Ue Unione Europea e Cern - Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare.” Dunque, la Politica (ONU e UE) e la Scienza (CERN) unite per promuovere uno sviluppo sostenibile che possa consentirci di assicurare una corretta nutrizione a tutti gli abitanti del pianeta senza distruggere in maniera irreversibile le risorse ambientali. Pare ovvio, ma è bene sottolinearlo: chi altri può fornire la conoscenza necessaria allo sviluppo di tutte le più avanzate tecnologie per ottenere il necessario sostentamento nutrizionale a più di sette miliardi di persone che abitano un pianeta le cui terre fertili si riducono di giorno in giorno, se non la scienza?
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E chi altri può creare le condizioni necessarie affinché le conoscenze scientifiche si traducano in tecnologie e applicazioni al servizio di tutti, soprattutto dei più svantaggiati, se non la politica? Dunque è evidente che un Expo che ha fatto suo un tema così importante e impegnativo non possa non avere da un lato una forte caratterizzazione scientifica e dall’altro che si impegni ad auspicare e proporre politiche che possano far sì che i paesi più tecnologicamente avanzati mettano a disposizione di tutti gli altri i frutti del loro sapere. Questa è l’unica maniera per far sì che si possa portare in ogni angolo del mondo un’agricoltura che risponda ai bisogni delle popolazioni meno ricche e fornire a quelle più sviluppate un’alimentazione più sana. In altre parole: combattere tutte le aberrazioni collegate all’alimentazione, dalla denutrizione endemica dei paesi in via di sviluppo fino all’obesità crescente dei paesi più sviluppati. Con il massiccio incremento della produzione agricola nella seconda metà del XX secolo noto come Ri-
voluzione Verde, la popolazione mondiale passò da 2,5 miliardi di persone nel 1950 ai 7 miliardi di oggi. A partire dal 1944 - data di inizio della RV - si utilizzarono le più avanzate conoscenze scientifiche e tecnologiche per ottenere piante alimentari geneticamente modificate (grazie a ibridazioni e mutazioni indotte da radiazioni) e nuovi modi di coltivarle che consentirono di aumentare di molto la resa per ettaro grazie all’uso massiccio della chimica (fertilizzanti e fitofarmaci), dell’irrigazione e dei macchinari pesanti. Al padre della Rivoluzione Verde, l’agronomo statunitense Norman Borlaug, venne significativamente assegnato nel 1970 il Premio Nobel per la Pace. Il mondo non può più reggere l’impatto ambientale della RV di Bourlag. Per non consumare in maniera irreversibile le risorse naturali abbiamo bisogno di piante meno “avide” di acqua, cioè che possano crescere anche in terreni aridi; piante che abbiano bisogno di meno pesticidi e meno prodotti chimici inquinanti per poter essere coltivate senza che il raccolto venga distrutto da
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www.arcipelagomilano.org infestanti e parassiti. E infine, abbiamo bisogno di piante che possano dare un corretto apporto nutrizionale a quelle popolazioni che vivono in posti dove la loro dieta è povera e poco variata. C’è un solo modo per ottenere questo e affrontare il futuro alle porte, quello che vedrà la popolazione mondiale arrivare a 10 miliardi fra pochissimi decenni: ottenere nuove piante alimentari con le caratteristiche desiderate. La tecnologia esiste da decenni, è quella dell’ingegneria genetica applicata alle specie coltivabili ad uso alimentare. I suoi prodotti sono noti come OGM, che sta
per Organismi Geneticamente Modificati. In realtà anche quelli che a cui siamo più abituati (soia, frumento, mais …) sono modificati geneticamente, solo che lo sono in maniera più invasiva e meno efficace. Expo si presenta con due anime: quella di una grande occasione, anche culturale, di poter affrontare il problema di “nutrire il pianeta” con tutti i mezzi che lo stato dell’arte del sapere scientifico ci mette a disposizione e quella di chi invece pensa che debba essere una kermesse per la promozione di prodotti tipici locali che sono ottenuti con metodi
vecchi, dispendiosi e inefficaci su larga scala. Naturalmente non ci sarebbe alcuna contrapposizione fra queste due visioni, se non che i fautori del ritorno ai classici “bei tempi andati” (più mitizzati che reali) avversano in ogni modo gli sforzi di chi invece pensa che per sfamare – anzi: nutrire, che non significa solo un’alimentazione di sussistenza – i 10 miliardi che saremo fra poco senza depauperare le risorse, si debbano utilizzare tutti i mezzi che abbiamo disposizione senza preclusioni ideologiche e pregiudizi infondati.
Scrive Gregorio Praderio a proposito dei prezzi delle case e dei terreni Rileggendo le varie risposte alla "provocazione" di Marco Ponti (liberalizzare l'edificabilità per abbassare i prezzi delle case) mi sono reso conto che c'è un'importante considerazione che è un po' rimasta nella penna. Come noto infatti i prezzi dei beni sono dati dall'incontro fra domanda e offerta. Al crescere dell'offerta disponibile sul mercato, diminuiscono anche i prezzi: è questo il caso di molti beni deperibili (tipo gli alimentari), per cui ad esempio nella stagione delle zucchine avrò molte zucchine sul mercato e quindi prezzi bassi (mi scuso dell'esempio un po' banale). Per i beni non deperibili non è così, e quindi se sono il proprietario di una miniera di diamanti o di un giacimento di petrolio, avrò l'interesse a portare sul mercato la quantità minima di beni che non ne fa abbassare il prezzo.
Per i diritti edificatori è così? Tutto dipende da come vengono scritte le leggi e i piani regolatori. Se il diritto non è conformativo ed è soggetto a decadenza, c'è interesse del proprietario a metterlo sul mercato e quindi a fronte dell'abbondanza dell'offerta, i prezzi dovrebbero diminuire. Ma se i diritti edificatori vengono nascosti nel Piano delle Regole o nel Piano dei Servizi e sono quindi validi a tempo indeterminato (si vedono tanti PGT dove bei campi di grano sono classificati TUC, tessuto urbano consolidato!), allora il diritto viene tesaurizzato e non va sul mercato (se non "goccia a goccia") e se pur abbondante, non fa diminuire i prezzi (ma in compenso diminuisce l'appeal degli incentivi volumetrici). Tutti diritti a scadenza, quindi? Anche così non sarebbe giusto, perché
in questo modo il valore dei terreni dipenderebbe troppo dai capricci degli amministratori e nessuno investirebbe nel lungo periodo. Credo quindi che quello che servirebbe è un bel "mix": diritti "minimi", stabili nel tempo (decisi con legge statale, a mio parere); forti incentivi, traslazioni ecc. decisi a livello locale, ma con validità a tempo determinato. Sul "consumo di suolo", infine. Certo, non è un valore assoluto (tutte le nostre città, in fondo, sono state costruite su terreni vergini, all'origine). Ho anche dei dubbi su una legge regionale che si propone per il 2050 un'occupazione netta di terreno "pari a zero" (chi può dire cosa ci sarà allora?). Ma qui ed ora il tema principale è quello del recupero dell'esistente.
Scrive Michele Palma a Gregorio Praderio a proposito dei prezzi dei terreni Basterebbe che la vicesindaco avesse prescritto: dopo due o tre anni, ciccia i volumi non ci sono più. Allora sì che le case si sarebbero costruite e calmierate!
Replica Gregorio Praderio - Sono abbastanza d'accordo (con le precisazioni della mia precedente nota). Ma, volendo, potrebbe ancora farlo.
Anzi: basterebbe (in parte) forse anche solo l'effetto-annuncio.
Scrive Gianluca Bozzia a proposito dei risultati della giunta Pisapia Io ho lavorato per fare eleggere Pisapia, ma Moratti ci ha portato Expo, nel bene o nel male. Questi
risultati diffusi di Pisapia di cui parla Bisconti dovrebbero metterli in fila bene, confrontarli con i propositi e
rendere conto, pubblicamente e complessivamente, magari prima delle prossime elezioni. O no?
Scrive Walter Monici a proposito della bellezza di Milano Sono daccordo con Fabrizio Marino quando dice che la bellezza di Milano non esiste più e non esiste più
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l'ambiente che ospitava i Navigli. ma sono anche d'accordo con Beltrame che ipotizza come possibilità remota
l'idea di ricostruire la bellezza. L'esempio è la Francia come a Port Grimaud o in alcuni luoghi del
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www.arcipelagomilano.org commercio dove la volontà di ricostruire le forme variabili di antichi paesi stilisticamente orientati al passato hanno portato alla costruzione di luoghi sostanzialmente piacevoli da vivere pur nella percezione della loro modernità. Questo è il punto: se le scuole di architettura smettessero di inculcare nei giovani la smania di stupire con mega architetture futuristiche e ricominciassero a insegnare le basi degli stili classici
dell'edilizia, l'aggregazione spontanea e mutevole delle forme invece della rigida visione planimetrica, cioè se si riscoprisse l'eredità di Gordon Cullen e della visione dal basso, minuta, progressiva, a passo di bambino, ecco che forse potremmo, cominciando ad abbattere tutto ciò che è alto e presuntuoso a cominciare dalla torre Velasca, mantenere, riconoscere e ricostruire tutto ciò che è basso e modesto.
Potrebbero allora gli architetti concentrarsi sui dettagli, le proporzioni, l'armonia e la decorazione stilistica che lungi dall'essere fine a se stessa assolve a precisi scopi percettivi e psicologici. Potremmo in questo modo, nel giro di 20 anni riaprire i navigli e ricostituire una ossatura di bellezza milanese da lasciare alle generazioni future.
Scrive Vito Antonio Ayroldi a proposito delle aree Expo Egregio Direttore, è sicuramente colta, magari persino intelligente la fuffa del brand Milano, ma sempre fuffa resta. Colgo l'occasione per farle un esempio. Lei che è uomo di mondo, che viaggia e che osserva è proprio così sicuro del valore aggiunto della prossimità fisica degli Istituti universitari? Lo scrivo a proposito dalla proposta dell'Università sulle aree dell'Expo; ultimo grido di una finanza pubblica con l'acqua alla gola. Nient'altro. È pensabile che il business dell'innovazione fondato sul web 2.0 che consente la collaborazione tra ingegneri dislocati persino in India con fusi diversi, in progetti di massima complessità sia
ancora così significativamente agevolato dalla prossimità fisica degli addetti. Serrati uno accanto all'altro senza avere nulla da dirsi. Perché così va la ricerca in questo paese. Cosa che, la prego di comprendermi, non nego abbia qualche minima valenza logistica, ma i vettori del valore determinanti nell'economia digitale non sono quelli che vagheggia l'ottimo Vitale. L'economia digitale non cerca palazzine, viadotti, strade, parcheggi, tutto quello che può offrire il dopo Expo buttandoci sopra, naturalmente, l'ennesima pacchettata di mln di euro. L'innovazione cerca due cose: idee e un mercato disposto a consuma-
re. A Milano ce ne sono. Forse è uno dei pochi posti in Italia dove pur non abbondando come si crede ancora ci sono. Provi a parlare con qualsiasi Venture capital e l'ultima cosa che le chiederà è un posto infrastrutturato ma in "coda ai lupi" dove andare a dislocarsi. Cercano idee caro Direttore. E quello attiene molto di più a come si fanno i concorsi universitari ad esempio. A come si retribuiscono i ricercatori, che altrimenti i più bravi vanno in Germania che non al pavimento levigato di una piastra di cemento costata già una tombola.
MUSICA questa rubrica è a cura di Paolo Viola
[email protected] Ascoltare la musica In un filmato che ha girato a lungo su YouTube veniva mostrato un giovane bravissimo violinista che, in abiti dimessi e nel totale disinteresse del pubblico dei passanti - che si guardavano bene da versare l’obolo richiesto - eseguiva una musica meravigliosa all’angolo di una strada. Non lontano da lui si vedeva un assembramento di persone che, altrettanto disinteressate, erano in coda al botteghino di un teatro; lo stesso teatro in cui, di lì a poco, lo stesso violinista avrebbe eseguito quello stesso programma mandando in visibilio le stesse persone che avevano pagato i biglietti a cifre iperboliche. Come dire che “se non si paga non si gode”. Ma è proprio così? La morale, un po’ diversa, è che per essere capita ed apprezzata la musica deve essere ascoltata in uno stato di grande concentrazione e di profonda consapevolezza, altrimenti è facile che – a prescindere dalla
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sua intrinseca qualità – venga confusa fra i tanti rumori e suoni che ci circondano. Anche il prodigioso canto di un uccello non viene apprezzato e goduto se non si è nel silenzio, possibilmente soli, con la mente già tesa ad ascoltare i suoni della natura. Non vorrei inimicarmi le potenti case discografiche, ma non credo che la diffusione della grande musica registrata abbia contribuito seriamente alla sua comprensione; anche se i dischi a furia di ascoltarli ci permettono di mandare a memoria i temi e ci mettono nella condizione di canticchiarli disinvoltamente, e magari anche di riconoscerli, ho sempre dubitato che l’ascolto dei CD in casa o in automobile aiuti a comprendere bene la musica e quindi a goderne in profondità. Con tutte le possibili eccezioni la mente riesce a concentrarsi sulla musica solo se si è in un luogo deputato all’ascolto, se non si
è disturbati da altri pensieri, se nulla ci distrae, neppure la tosse dei vicini. E poi, difficile forse riconoscerlo, anche l’occhio sugli strumenti o sui gesti del direttore aiuta non poco a “penetrare” il senso di ciò che si ascolta. Mi ricorda Stefan Coles, grande violinista promotore e direttore della “Accademia Europea di Musica” di Erba (www.accademiadimusica.org) che il grande Sergiu Celibidache si è sempre rifiutato di registrare considerando il disco una “conserva musicale” e che oggi, con il digitale, tutto ciò che ascoltiamo è manipolato per eliminare ogni imperfezione e dunque i suoni che ascoltiamo sono più quelli dei computer che non quelli dello strumento. Per buona pace degli ascoltatori-intenditori! Quanto agli impianti di riproduzione del suono ad alta fedeltà - sempre più sofisticati e sempre più sorprendenti per la capacità di restituire di-
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www.arcipelagomilano.org stintamente il suono di ogni strumento dell’orchestra, i dettagli del tocco di una tastiera o della voce di un soprano - credo siano una sorta di grande imbroglio. A parte la finta “fedeltà”, più ci viene ammansita l’apparente “veridicità” dei suoni – apparente perché i suoni in teatro si impastano, risentono degli echi della sala (una diversa dall’altra), e d’altronde sono nati per essere ascoltati proprio così – più ci si distrae dal vero contenuto della musica: è come ascoltare la voce troppo suggestiva di un attore che ci distoglie dal senso delle parole, o essere presi dalle immagini troppo belle di un film che distraggono dalla storia che stanno narrando. Se si vuole andare al fondo della percezione non si deve essere distratti neppure dall’eccellenza dei mezzi della comunicazione.
La fortuna di avere a portata di mano le sale da concerto e i teatri dell’opera – una fortuna che tocca una piccola percentuale dell’umanità – dovrebbe farci riflettere sulla differenza abissale fra musica registrata, ovunque e comunque la si ascolti, e musica dal vivo ascoltata nelle sale adatte, e farci comprendere come la prima non sia neppure un surrogato della seconda ma sia addirittura fuorviante per la sua capacità di assuefarci e di toglierci l’attenzione non solo rispetto al testo (quando ci è “troppo” noto) ma anche rispetto alla sua esecuzione (in quanto condizionati da quella che - ascoltata troppo spesso - assurge a valore di oggettività). È interessante osservare cosa accade quando – secondo una bella abitudine che si va diffondendo in questi anni – si ascoltano in concerto le musiche dei film. Si pensi alle
musiche di Prokof’ev per i film di Ejzenštejn o quelle di Rota per i film di Fellini. Ne conosciamo a memoria i temi eppure in concerto è come fosse la prima volta che le ascoltiamo “in quanto musica”. Le avevamo ascoltate come colonne sonore dunque in secondo piano rispetto all’interesse della vicenda narrata dal regista - e le riscopriamo daccapo quando ci concentriamo solo su di esse. Una vera rivelazione. In un certo senso è quanto ci accade quando ascoltiamo dal vivo una musica che conosciamo molto bene grazie ai CD. È come se finalmente ne scoprissimo l’intimità, riuscissimo a guardarla negli occhi, a penetrarne l’anima. Con l'augurio che Paolo Viola torni presto a curare la "sua" rubrica, riproponiamo un contributo del 2012, sempre attuale.
ARTE questa rubrica è a cura di Benedetta Marchesi
[email protected] "Sopra il sotto": i tombini artistici di Milano Nel quadrilatero della moda i tombini si animano con disegni e colori grazie alla terza edizione della mostra “Sopra il Sotto – Tombini Art raccontano la Città Cablata”. Promosso da Metroweb, il progetto è nato da un'idea di Monica Nascimbeni ed è stato realizzato con il patrocinio del Comune di Milano, in collaborazione con la Camera Nazionale della Moda Italiana e in partnership con Oxfam Italia. In occasione dell’anniversario del decennale di attività nel 2009, Metroweb, titolare della più grande rete metropolitana di fibre ottiche d’Europa, ha ideato un evento per rendere omaggio “alla città più cablata d’Europa”. La prima edizione aveva coinvolto 16 street artists selezionati dal curatore Davide Giannella, con la direzione artistica di Gisella Borioli, che realizzarono un totale di 30 tombini di diverse dimensioni che raccontavano il mondo sotterraneo della fibra ottica, invadendo con creatività e sorpresa le vie intorno al quartiere Tortona. Dopo il grande successo della prima edizione, l’anno successivo, sono stati chiamati cinque grandi della
street art internazionale e sono stati invitati a realizzare una opera multipla su più tombini, quasi una personale ciascuno. Il tema di questa nuova edizione è l’internazionalità di Milano in occasione di Expo 2015 e ha coinvolto da un lato le giovani nuove promesse dello stile e della moda, e dall’altro le grandi case di moda internazionali. Ai giovani dell’Istituto Marangoni è stato lanciato un contest tra i quali la giuria, composta da rappresentanti di Metroweb, Istituto Marangoni e Camera Nazionale della Moda Italiana, ha selezionato i due giovani fashion designer che hanno meglio interpretato il concept della mostra: Alessandro Garofolo e Santi, che hanno avuto la soddisfazione di vedere realizzato il loro Tombino Art esposto in via Monte Napoleone. Nello stesso modo agli stilisti che hanno aderito al progetto è stato chiesto di interpretare a modo loro ciascuno un tombino: il risultato è stato quello di 24 pezzi unici e originali, cesellati a rilievo e dipinti a mano per altrettanti grandi nomi: Giorgio Armani, Just Cavalli, Etro,
Missoni, Larusmiani, Laura Biagiotti, Costume National, Moschino, 10 Corso Como, Prada, Trussardi, DSquared2, Versace, Iceberg, Brunello Cucinelli, Hogan, Alberta Ferretti, Valentino, Salvatore Ferragamo, Emilio Pucci, Giuseppe Zanotti Design, Ermenegildo Zegna. ''Il progetto fonde la città intelligente - spiega l'assessore Tajani - con quella creativa e innovativa, in una mostra che, coniugando i colori e le linee proposte dalla principali maison, porta il gusto del bello e del ben fatto giù dalle passerelle direttamente nelle strade del centro città''. Come per le scorse edizioni, a chiusura della mostra open air (gennaio 2016) i tombini saranno battuti all'asta da Christie's. Il ricavato sarà interamente devoluto a favore dell'organizzazione non profit Oxfam Italia, Civil Society Participant di Expo 2015, per attività di ''miglioramento delle condizioni socio-economiche di circa 20.000 persone'' in Italia e all'estero, grazie ad attività microimprenditoriali e cooperative, soprattutto in ambito agro-alimentare.
Conrad e il mare Conrad e il mare è il titolo della mostra dedicata alla figura del celebre scrittore Joseph Conrad ospitata
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all’Acquario Civico di Milano fino al 29 marzo 2015. Attraverso fotografie, grandi pannelli esplicativi e og-
getti marinareschi provenienti dal Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano, il visita-
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www.arcipelagomilano.org tore viene proiettato in un mondo parallelo dove le parole del grande scrittore si mescolano con la storia del XX secolo, Tre sale non contigue conducono il visitatore in una progressiva immersione nel mondo conradiano: nella prima sala, dedicata sostanzialmente alle vicende dell’autore, sono descritti i viaggi che Conrad ha compiuto nella sua carriera navale. Grandi pannelli con le rotte compiute accompagnati dalla scalata di gradi nell’arma, scatole con i medicinali e bussole danno concretezza alle parole dei racconti che si leggono alle pareti. Due i toni di azzurro usati: uno più scuro quando è Conrad a narrare le vicende in veste
di scrittore, uno più chiaro quando si tratta della storia reale. Nella seconda sala viene indagato l’aspetto più strettamente letterario del romanziere di successo, autore di storie di mare, ma soprattutto scrittore simbolico ed esoterico, universalmente riconosciuto come uno fra i più acuti indagatori dell’animo umano. Tra grandi riproduzioni con immagini di navi e barili si possono leggere le pagine più note ed evocative mai scritte sul mare. L‘ultima sezione è dedicata alla fortuna cinematografica di Conrad, con la proiezione degli spezzoni dei più famosi film ispirati ai suoi romanzi realizzato da Matteo Pavesi della Fondazione Cineteca Italiana.
Una doppia vita: uomo di mare e grande scrittore. Così risolveva la contraddizione Italo Calvino in un articolo apparso su L'Unità il 3 agosto del 1954: “Al fatto che fosse un bravo capitano ho creduto sempre, e che portasse nei suoi racconti quella cosa che è così difficile da scrivere: il senso di una integrazione nel mondo conquistata nella vita pratica, il senso dell’uomo che si realizza nelle cose che fa, nella morale implicita del suo lavoro, l’ideale di saper essere all’altezza della situazione, sulla coperta dei velieri come sulla pagina”. Conrad e il mare Acquario Civico di Milano Viale Gadio, 2 Da martedì a domenica: 9.30-13.00 / 14.00-17.30 Biglietto: 5/3 €
Google entra nei musei: Art Project La grande sfida dei musei oggi è quella di stare al passo con l’avanzare incessante delle tecnologie, mantenendo al contempo il ruolo di conservatore della tradizione e del patrimonio che la società gli chiede. Google ha preso coscienza di questa necessità dei musei e ha dato vita al Google Art Project: un accordo con più di 600 istituti culturali in tutto il mondo che ha consentito, attraverso due fasi, la digitalizzazione delle collezioni prima e del percorso museale poi. Unico nel suo genere, Art Project è prova dell’impegno di Google nella diffusione e promozione della cultura online a un pubblico il più ampio possibile. Sotto l’egida del Google Cultural Institute e nel segno di questo ambizioso obiettivo, Google ha già realizzato moltissimi progetti, tra cui la digitalizzazione degli archivi di Nelson Mandela, dei manoscritti del Mar Morto e la messa online di archivi storici di grande valore, come quelli dell’Istituto Luce Cinecittà relativi alla Dolce Vita italiana degli anni ‘50-’60. Nella città di Milano tre sono stati i musei coinvolti: il Museo Bagatti
Valsecchi, il Museo Diocesano e il Museo Poldi Pezzoli che tra il 2012 e il 2013 hanno messo online immagini ad altissima risoluzione delle proprie collezioni sulla piattaforma dell’Art Project. La grandezza del progetto però non sta nella digitalizzazione delle collezioni, quanto nel sistema d’archiviazione che consente di ricercare l’opera per nome dell'artista, titolo, tipo di arte, museo, Paese, città e collezione. Una volta selezionata un'opera d'arte tra le 60.000 disponibili, assieme al dettaglio che si preferisce, si può creare la propria galleria personale. E ancora, è possibile aggiungere commenti a ogni dipinto e l'intera collezione può essere condivisa sui social network. La seconda fase, appena conclusasi per i musei milanesi, ha consentito la realizzazione di un tour virtuale per ciascuna istituzione. È stata coinvolta una particolare telecamera di Street View che ha scattato immagini a 360° degli interni, unite poi con l’obiettivo di consentire un'esplorazione continuativa all'interno delle stanze.
Dal 10 febbraio il visitatore virtuale può esplorare le 18 sale del Museo Bagatti Valsecchi simulando una vera e propria passeggiata nella dimora dei due fratelli Fausto e Giuseppe, ammirandone i soffitti, i preziosi oggetti raccolti dai baroni sul finire dell’Ottocento e vivendone, anche se virtualmente, la magia. Grazie al Museum View anche nel caso del Museo Diocesano è possibile visitare integralmente i tre livelli, le opere e il chiostro direttamente da casa propria: dalle sale dedicate a Sant’Ambrogio, alla Sala Fontana, alla collezione Sozzani coi suoi 106 disegni e ricche cornici. Il Museo Poldi Pezzoli, il primo milanese che aderì al Google Art Project nell’ottobre del 2012, con 185 immagini di altissima qualità. Tra le opere visibili sulla collezione digitale dedicata al Museo di via Manzoni, in particolare l’Artemisia del Maestro di Griselda, dipinto tardo quattrocentesco raffigurante un’eroina dell’antichità anch’essa fotografata a una risoluzione di circa 7 miliardi di pixel.
Food. Quando il cibo si fa mostra Food | La scienza dai semi al piatto, non è solo una mostra dedicata all’alimentazione: è un percorso di avvicinamento e scoperta del processo di produzione di ciò che mangiamo. Anche questa definizione è riduttiva: le quattro sezioni accompagnano il visitatore dalla scoperta dei cibo, dall’origine quando è seme fino alle reazioni chimiche che sottendono la cottura, passando attraverso dettagliate spiegazioni su provenienza storico-geografica,
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suggerimenti sulle modalità di conservazione o exhibit interattivi. La mostra, in corso fino al 28 giugno 2015 e allestita nelle sale del Museo di Storia Naturale Milano, rappresenta il più importante evento di divulgazione scientifica promosso dal Comune di Milano sul tema di Expo 2015. “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” e costituisce una delle più importanti iniziative del programma di “Expo in Città”.
Tutto nasce dai semi è il titolo della prima sala, nella quale vengono raccontate le diverse classi e famiglie con caratteristiche, provenienza e utilizzo. Decine e decine di barattoli mostrano, portando, in alcuni casi per la prima volta, esemplari che appartengono alle più importanti banche dei semi italiane. Si prosegue poi con Il viaggio e l’evoluzione degli alimenti dove mele, agrumi, riso, caffè e cacao non avranno più segreti: tra giochi inte-
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www.arcipelagomilano.org rattivi e alberi genealogici, tutto è facilmente accessibile e non superficiale. Grande elemento positivo della mostra è infatti la capacità di rendere fruibili le nozioni più scientifiche a un pubblico differenziato, senza per questo incorrere nel rischio di semplicismo. Che la cucina sia un’arte è risaputo da tempo, ma che alla base di tante ricette vi siano principi di chimica e fisica passa spesso inosservato: la terza sezione della mostra illustra come funzionano alcuni degli elettrodomestici più comuni, con consigli sulla conservazione degli alimen-
ti (sapevate che i broccoli hanno un metabolismo più veloce delle cipolle e che per meglio conservarli andrebbero avvolti in una pellicola di plastica?!) e soluzioni fisicochimiche ai problemi di chi cucina (cosa fare se la maionese impazzisce?). Quando poi sembra che niente in materia di cibo possa più sorprenderci si giunge all’ultima sala I sensi. Non solo gusto ovvero niente è come sembra: vista, olfatto e tatto anche nel mangiare giocano un ruolo determinante, al punto talvolta di
allontanare il gusto dalla reale percezione. Il costo del biglietto è medio alto (12/10 euro), ma la visita merita davvero il prezzo d’ingresso se non altro per cominciare ad affacciarsi nel tema che, grazie ad Expo, ci accompagnerà per tutto il 2015. Food. La scienza dai semi al piatto fino al 28 giugno 2015 Lunedì 09.30 – 13.30 / Martedì, Mercoledì, Venerdì, Sabato e Domenica 9.30 – 19.30 / Giovedì 9.30 – 22.30 Biglietto 12/10/6 euro
L’arte di costruire relazioni: Céline Condorelli all’Hangar Bicocca Se un pomeriggio d’inverno un viaggiatore avesse voglia di scoprire Milano attraverso uno dei luoghi simbolo della storia industriale e artistica della città, potrebbe recarsi all’Hangar Bicocca. Una delle mostre recentemente inaugurate nello spazio è la personale di Céline Condorelli, un’artista che vive e lavora fra Londra e Milano. L’esposizione ha un titolo che non passa inosservato: bau bau. L’espressione, che ludicamente richiama al verso di un cane, è anche un omaggio al significato della parola in lingua tedesca, costruzione, e all’esperienza della scuola del Bauhaus. Effettivamente, superate le difficoltà iniziali di approccio all’apparente incomunicabilità dell’arte contemporanea, il percorso espositivo si rivela ricco di spunti sul tema della costruzione e dell’amicizia, sviluppati attraverso sculture, installazioni, video e scritti.
L’artista ha una formazione relativa all’architettura e alla cultura visuale, e ha riflettuto a lungo sulle “strutture di sostegno”, ovvero su ciò che supporta, sostiene, appoggia e corregge, sia in senso strutturale che relazionale. L’amicizia diventa per l’artista una dimensione di lavoro e una forma d’azione. I suoi pensieri sull’amicizia sono condensati nel libro The company she keeps, offerto ai visitatori su una scrivania: chiunque può accomodarsi e leggerlo, e chi vuole può anche salire sul tavolo per osservare dall’alto la visuale all’esterno, attraverso l’unica finestra dell’ambiente espositivo, aperta appositamente dalla Condorelli in occasione della mostra. Un altro tema forte è infatti il dialogo con gli spazi dell’Hangar. La mostra è stata pensata in relazione alle precedenti esposizioni (il pannello di legno all’ingresso è lo stesso della mostra precedente di Gusmão e Paiva, e Céline vi ha posto una ven-
tola che produce un vento che sospinge lo spettatore attraverso la scoperta delle opere; i video in onda su una piramide di televisori ricordano la babelica torre di Cildo Meireles) così come l’installazione Nerofumo è stata appositamente prodotta attraverso la collaborazione con lo stabilimento Pirelli di Settimo Torinese. Musica che fa da sottofondo nell’ingresso e nei bagni, installazioni che diventano sedute su cui i visitatori possono accomodarsi e colloquiare, tende dorate mosse dal vento: bau bau è una mostra irripetibile in qualsiasi altro luogo, in grado di seminare silenziosi spunti di riflessione negli interessati, curiosità negli scettici, stupore negli appassionati. Giulia Grassini Céline Condorelli, bau bau Hangar Bicocca via Chiese 2, Milano fino al 10 maggio 2015 – da giovedì a domenica 11:00 – 23:00 Ingresso gratuito
Nel Blu di Klein e Fontana al Museo del Novecento Uno straordinario racconto di un dopoguerra animato da artisti, collezionisti, intellettuali e mercanti è lo scenario che si immagina faccia da sfondo alla relazione di amicizia tra Yves Klein e Lucio Fontana raccontata nella mostra in corso al Museo del Novecento e che immergono chi vi è coinvolto con stimoli visivi e suggestioni intellettuali. Due città, Milano e Parigi, e due artisti, distanti per età anagrafica, provenienza, formazione e stile ma con in comune la ricerca artistica che si articola verso nuove dimensioni spaziali e concettuali. Ripercorrendo il tradizionale allestimento cronologico del Museo ci si accosta progressivamente al rapporto tra i due: più questo si fa intenso e più aumenta la densità di opere che si in-
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contrano dei due artisti. L’apice del sodalizio si raggiunge quando si spalanca la vetrata sopra piazza del Duomo con la Struttura al neon di Lucio Fontana sul soffitto e la distesa blu di Pigment Pur di Klein. Un dialogo straordinario all’interno del quale il visitatore non può che sentirsi coinvolto ed estasiato ammiratore. Cinque sono gli anni cui la mostra è dedicata: dal 1957, anno in cui Yves Klein espone per la prima volta a Milano alla Galleria Apollinaire una serie di monocromi blu, al 1962, anno della morte dello stesso Klein. L’inaugurazione della mostra in Brera è l’occasione in cui i due artisti si incontrano per la prima volta e Fontana è tra i primi acquirenti di un monocromo dell’artista francese,
diventando poi uno dei suoi più importanti collezionisti in Italia. Nell’esposizione sono documentati cinque anni di lettere, incontri, viaggi e condivisione di due artisti che hanno segnato profondamente, ognuno a modo proprio, la storia dell’arte novecentesca. L’affinità intellettuale e artistica emerge laddove le aperture spaziali di Fontana (fisiche e concettuali) trovano corrispondenza nel procedere di Klein dal monocromo al vuoto. Entrambi perseguono uno spazio immateriale, cosmico o spirituale, che forse appartiene a un’altra realtà. Una mostra da non perdere “Yves Klein Lucio Fontana, Milano Parigi 1957-1962”, che per la ricerca storico-artistica e le scelte curatoriali non appaga solo la fame conosciti-
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www.arcipelagomilano.org va del visitatore, ma soprattutto fa sì che venga immerso in un mondo blu splendente che offre un profondo godimento emozionale.
Klein Fontana. Milano Parigi 1957-1962 Museo del Novecento piazza Duomo fino al 15 marzo
2015 lunedì 14.30 – 19.30 martedì, mercoledì, venerdì e domenica 9.30 – 19.30 giovedì e sabato 9.30 – 22.30 Biglietti :10/8/5 euro
Tra Leonardo e Milano prosegue felicemente il sodalizio Se in una pigra domenica sera emerge nel milanese un’incontenibile voglia di visitare una mostra, quali sono le proposte della città? Intorno alle 19.30 non molte in realtà: Palazzo Reale così come i grandi musei del centro sono già in procinto di chiudere. Una però attira l’attenzione, sarà per la posizione così centrale o forse proprio per il fatto che è ancora aperta. Quella dedicata al genio di Leonardo Da Vinci, affacciata sulla Galleria Vittorio Emanuele, è una mostra in continua espansione che periodicamente si arricchisce di nuovi elementi frutto delle ricerche dal Centro Studi Leonardo3, ideatore e organizzatore della mostra nonché gruppo attento di studiosi. Se Leonardo produsse durante la sua vita un’infinità di disegni e schizzi, L3 si pone come obiettivo quello di studiare a fondo la produzione del genio tostano e renderla fruibile a tutte le tipologie di pubblico con linguaggi comprensibile e divulgativi offrendo
un momento ludico di intrattenimento educativo, adatto sia per bambini che per adulti. Quasi 500 mq ricchi di modelli tridimensionali e pannelli multimediali che permettono realmente di scoprire le molteplici sfaccettature del pensiero e dell’operato leonardesco: macchine volanti o articolati strumenti musicali possono essere smontate e rimontate; riproduzioni del Codice Atlantico e di altri manoscritti sono tutte da sfogliare, ingrandire e leggere; ci sono giochi di ruolo a schermo nei quali i visitatori vestono i panni dello stesso Da Vinci. La produzione artistica non è dimenticata, anzi: un’intera sala è dedicata ai più famosi capolavori dell’artista con un grande pannello e due touchscreen dedicati al restauro digitale dell’Ultima cena, alla Gioconda e a due autoritratti dell’autore. Inaugurata nel marzo 2013, prorogata prima fino a febbraio 2014 e ancora fino al 31 ottobre 2015, la
mostra ha superato le 250 mila visite imponendosi come centro attrattivo per turisti e cittadini. Un buon risultato, ma forse basso considerando l’alta qualità della mostra e la posizione decisamente strategica. Il successo di pubblico sarebbe stato migliore (forse) con un maggiore rilievo dato dalla stampa e dei social network, e da un costo del biglietto più calmierato. Ma c’è ancora tempo, e l’occasione giusta è alle porte: non perdiamola e anzi, dimostriamo che anche a Milano ci sono centri di ricerca capaci di produrre mostre interessanti senza necessariamente creare allestimenti costosi ed esporre opere o modelli originali. Leonardo3 - Il Mondo di Leonardo 1 marzo 2013 - 31 ottobre 2015 Piazza della Scala, Ingresso Galleria Vittorio Emanuele II Aperta tutti i giorni, dalle 10:00 alle 23:00 compresi festivi Biglietti: 12/10/9 euro
LIBRI questa rubrica è a cura di Marilena Poletti Pasero
[email protected] Mario Tozzi Tecnobarocco Tecnologie inutili e altri disastri Einaudi pagine 192 2015, euro 18 Mario Tozzi è Primo Ricercatore presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche, presidente del Parco Regionale dell’Appia Antica e membro del Consiglio Scientifico del WWF, oltre che responsabile di una serie di contributi giornalistici in ambito scientifico-ambientalista. La premessa su titoli e competenze dell’autore è d’obbligo quando si vuole parlare di un libro che intende sostenere una tesi se non propriamente provocatoria, almeno controcorrente. La tecnologia ci aiuta a vivere meglio? Ecco il quesito intorno al quale Tozzi svolge i propri ragionamenti, derivandone un saggio spiazzante, con l’obiettivo di smascherare inefficienze e dannose strumentalizzazioni. Per Tozzi la tecnologia del terzo millennio, quella che lui ama definire “tecnologia barocca” non
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aiuta gli uomini a migliorare la propria esistenza, né tantomeno a ridurre gli impatti del pianeta. Non è né semplice, né utile, e neppure educativa. Spesso usata per rimediare ai danni perpetrati da tecnologie precedenti, punta principalmente a creare profitti sulla base di bisogni indotti, accelerando dolosamente l’obsolescenza di macchine e strumenti, è costosa e sempre più complessa. Tozzi mette in guardia insomma da una tecnologia “fine a se stessa”, totalmente slegata dalla radice scientifica, dannosa e insostenibile da un punto di vista ambientale. L’invito dell’autore è piuttosto quello di riflettere su un ritrovato, autentico senso del progresso tecnoscientifico e culturale, in favore di una tecnologia semplice e davvero utile per il miglioramento delle condizioni di
vita degli uomini, senza compromettere l’ecosistema della Terra. Attenzione dunque ai fraintendimenti, perché nel libro di Tozzi non v’è traccia di nostalgie passatiste, ma una lucida critica agli eccessi, spesso nefasti, che la corsa tecnologica sta producendo. "Sono in molti a credere che progresso tecnologico sia sinonimo di progresso culturale, e che la grande comodità dello strumento acceleri il processo di acquisizione ed elaborazione del sapere - scrive Tozzi ma non è così", e continua spiegandoci quanto la nuova tecnologia inevitabilmente distrugga un pezzo di cultura preesistente, qualche volta con il pretesto di conservarla, quasi sempre con il pretesto di migliorarla. La velocità è il fattore cruciale della turbotecnologia ed è la carta vincen-
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www.arcipelagomilano.org te di produttori e tecnofili per convincerci che il progresso tecnologico è sempre migliorativo. Mentre invece il progresso tecnologico può dirsi tale se oltre a migliorare condizioni e prestazioni, non va a discapito della qualità. "Ma ammettiamo per un istante che la tecnologia ti faccia risparmiare tempo si chiede Tozzi ma per farci cosa, se non si accompagna a una sostanza di valore?". Assistiamo, ad esempio, a un confronto spietato tra libri e web, dove velocità di acquisizione di informazione (Wikipedia) e selezione programmata dell’informazione stessa ci convincono, il più delle volte, dell’inutilità di qualsiasi approfondimento.
E ancora, grazie alla memoria digitale, immagazziniamo molte più informazioni visive che in passato, ma sorge il dubbio che non ci sia il tempo materiale per rivederne anche una minima parte. Di conseguenza il sovraffollamento di ricordi digitali, per Tozzi, non è utile e neppure un bene, perché solo una memoria selettiva e ben esercitata può dare valore a ciò che ne ha veramente. La “tecnologia barocca” insomma aliena e condiziona pesantemente gli individui, impoverendone le capacità mentali e la loro autonomia di pensiero. E presto, avrà un tale impatto da non essere più sostenibile. "La tecnologia è una forza distruttiva che rovina il paesaggio e ne di-
strugge le forme viventi selvagge, avvelena cibo e acqua, che spoglia le bellezze naturali dell’ambiente e sconvolge i tradizionali modi di vivere e incoraggia l’erosione dei valori spirituali." Parole durissime pronunciate da Charles Singer, Eric J. Holmyard, Alfred R. Hall, Trevor I. Williams, gli autori della più completa “Storia della Tecnologia” che si conosca (il cui 1° volume fu pubblicato addirittura nel 1954). Studiosi neopositivisti, tecnocrati convinti, se ne erano già accorti. Daniela Muti
SIPARIO questa rubrica è a cura di E. Aldrovandi e D.Muscianisi
[email protected] Cello Suites (In den Winden im Nichts): l’aria e il nulla di Heinz Spoerli Le Suites per violoncello solo di Bach hanno ispirato il coreografo e già direttore del Balletto di Zurigo, Heinz Spoerli, per due creazioni: … und mied den Wind (… ed evitai il vento) sui tre elementi platonici di acqua, terra e fuoco e In den Winden im Nichts (nei venti del nulla) sul quarto elemento, l’aria. Dal prossimo 5 marzo fino al 19 sarà in scena al Teatro alla Scala di Milano il suo corpo di ballo in Cello Suites (In den Winden im Nichts). Per l’allestimento è stato chiamato il coreografo o - come preferisce essere chiamato lui stesso - il dance maker svizzero. Spoerli, nella migliore tradizione mitteleuropea fonde le discipline teatrali, si mantiene fedele alla poetica del Tanztheater, per questo il termine ‘coreografia’ gli sembra riduttivo, pur se è molto evidente la presenza della danza neoclassica in tutte le sue creazioni.
Heinz Spoerli ha cominciato a danzare tardi per gli standard della danza: a diciassette anni ha fatto la sua prima sbarra accademica di danza classica negli anni ’50 e nel 1960 (19 anni) era già nel corpo di ballo del Theater Basel (Basilea), poi alla Kölner Oper (Germania), solista al Royal Winnipeg Ballet e al Les Grands Ballets Canadiens (Canada) e infine solista al Theater Basel e al Ballet du Grand Théâtre de Genève (Svizzera). Da lì comincia la sua carriera di direttore artistico, prima a Düsseldorf-Duisburg (Deutsche Oper am Rhein), poi a Basilea e infine allo Zürcher Ballett, per il quale ha fatto le sue maggiori coreografie. La sua formazione è per lo più neoclassica (ha ballato e si è ispirato a Balanchine), con la sua poetica dell’astrazione e dell’Art for Art; si è
poi perfezionato nel contemporaneo alla Béjart e infine al Tanztheater. Cello Suites (In den Winden im Nichts) riprenderà tutto il bagaglio di Spoerli, nel quale il coreografo ha cercato attraverso i colori e il minimalismo di scenografia e costumi di (rap)presentare forse l’elemento più difficile da mettere in scena e in danza, l’aria. A questo contribuisce la musica di Bach, senza tempo e ispiratrice (secondo lui): la polifonia del contrappunto, il virtuosismo e l’infinita creazione degli archi sono la base perfetta per le danze di virtuosismo puro e una successione di passi a due e passi a tre, ma soprattutto coreografie d’ensemble del corpo di ballo. Domenico G. Muscianisi In scena al Teatro alla Scala di Milano dal 5 al 19 marzo 2015.
CINEMA questa rubrica è curata da Anonimi Milanesi
[email protected] Gemma Bovery di Anne Fontaine [Francia, 2014, 99'] con G. Arterton, F. Luchini, J. Flemyng, E. Zylberstein, N. Schneider, M. Raido, K. Mottet Klein, I. Candelier, Martin Joubert è un intellettuale che da Parigi ha fatto ritorno in un paese della Normandia alla ricerca di equilibrio e tranquillità. Ma questo suo progetto che lo induce a riaprire la panetteria del padre, cozza con la monotonia della vita di paese. Finché, finché a interrompere n. 9 VII - 25 marzo 2015
l’inesorabile scorrere sempre uguale dei giorni arrivano Gemma e Charles Bovery. Una coppia che giunge dall’Inghilterra per iniziare una nuova vita. E dove vanno a vivere i due? Proprio nella casa di fronte a quella di Martin. Questi nuovi vicini sono un dono del cielo per un a-
mante della letteratura, specie quella ottocentesca e, anche se Charles non fa il medico e Emma si chiama Gemma, per Martin ce n’è abbastanza per evocare il suo romanzo preferito e leggere gli avvenimenti come parte del romanzo stesso.
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www.arcipelagomilano.org Per il panettiere da qui in poi i suoi vicini sono visti sub specie emmabovary. Gemma è bella, sensuale e incanta tutti. Suscita passioni e condivide sentimenti erotici che però non hanno mai come oggetto Martin. Ossessionato il nostro eroe, che prende atto della fine dieci anni di tranquillità sessuale, sembra a volte accontentarsi di incanalare la vita della giovane inglese nei binari del romanzo intervenendo quando le cose gli sembrano sfuggire anche con una lettera. E Gemma inconsapevolmente, dichiara di non aver mai letto l’opera di Flaubert, si trova
a ripercorrere situazioni che rinviano al suo modello romanzesco. La giovane vive la sua vita di coppia complicata come quella di tante coppie e se ne infischia solennemente di Flaubert e della letteratura. Ama, lavora, passeggia, compra dell’arsenico per far fuori i topi e non per sé e non finirà come Emma, il suo finale sarà meno romanzesco, accidentale, frutto di equivoci e tragicomico. Allibito Martin non sa spiegarsi l’accaduto ma quando sta per darsi per vinto ecco sopraggiungere due nuovi vicini che si insediano nella casa dei Bovery, il fi-
glio gli suggerisce che sono russi e che lei si chiama Anna e ha un cognome che ricorda Karenina. Martin sorride, rispolvera mentalmente le quattro espressioni russe che conosce e in compagnia del cane si avvia a incontrare la nuova vicina. Questa deliziosa commedia francese, tratta da una graphic novel, e con una sceneggiatura elegante e in punta di penna deve la sua riuscita alla magistrale interpretazione di Fabrice Luchini (già delizioso in Moliere in bicicletta) e Gemma Arterton che riescono a dare fisicità all’ironia della narrazione.
IL FOTO RACCONTO DI URBAN FILE
UNA CILIEGINA SULLA TORTA PER GLI ARABI? http://blog.urbanfile.org/2015/03/03/zona-porta-nuova-progressi-al-sellino/
MILANO ZONA 4 secondo [ Loredana ] Loredana Bigatti LA ZONA 4 E LA GESTIONE DEI GRANDI INTERVENTI IMMOBILIARI http://youtu.be/9diVZMlr2qE
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