Nadir
Collegio Universitario Don Nicola Mazza
l a r iv ist a de g l i stu de nt i mazzi ani di p adova Numero 1, novembre 2014
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In questo numero 2 3
EDITORIALE
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Olio di palma (Federica Bloise) Vittoria (Michela Parutto)
POLITICA -I governi cambiano, la scuola no(Amos Brazzoli)
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INTERNAZIONALE -L’arte della dittatura e della sopravvivenza (Francesca Trentin) -Un saluto dalla Cina (Nicola Nicodemo) -La giornata internazionale della lingua madre ( Rasel Miah)
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RACCONTI Gigantomachia (Angelo Balestra)
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ANGOLO FILOSOFICO L’essere umano, la rete, la ricerca di se (Luca Terenzi) Shopenauer (Federico Paniz) Reinhart Kosellek (Mattia Montanaro)
COLLEGIO - Iniziazione e immtricolazione (Don Luca Corona) - Ex allievi nel mondo del lavoro raccontano la loro esperienza (Andrea Vezzano) -IM(M)ATRICOLANDI -La matricola d’oro
CRONACA
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INTERVISTA DOPPIA GIOCHI, RUBRICHE E FUMETTI
Editoriale Andrea Corbanese IL VECCHIO E IL NUOVO Salute a tutti voi che popolate il Collegio Mazza: lasciatevi guardare... Non siete quelli dell’anno scorso! Come ogni anno il Collegio si rinnova, ma quest’anno in particolare si apre con molti cambiamenti rispetto al passato. Il primo, che ci lascia tutti più poveri, è l’assenza di don Dante. Le matricole non l’avranno conosciuto, e la maggior parte di noi, me compreso, l’avrà conosciuto forse solo superficialmente; tuttavia tutti ne percepiamo l’assenza e ci stringiamo a coloro che più gli sono stati vicini: come in una famiglia dalle ampie ramificazioni, dove i parenti più lontani si vedono magari una volta nella vita, le vicende di ciascuno toccano comunque tutti gli altri. Tale, mi sembra, è la natura del Collegio. Spero non me ne vogliate se inizio da cose tristi; poiché vanno dette e le cose buone e quelle meno buone, preferisco iniziare seminando tra le lacrime e ritornare poi con giubilo, portando i miei covoni. Ma andiamo avanti: le cariche istituzionali si sono rinnovate, a partire dalla Direzione maschile. Nell’ambito del consueto triennale avvicendamento salutiamo don Mario, che ci lascia, e salutiamo l’ascesa al potere di don Flavio, Direttore, Gianluca, Vicedirettore, e don Luca Corona, Assistente di Direzione. Cosa ci aspetta? Don Flavio sembra si stia attivando per lasciare fin da subito la sua impronta: il Piano Uffici cambia volto, tra salette d’attesa e nuove aule studio; lavori non solo di immagine, che cambieranno e forse hanno già cambiato la geografia del potere in modi che non possiamo immaginare... A partire dalla sparizione
della mitica Sala del Consiglio! Ma non c’è ambito in cui don Flavio non abbia fatto sentire la sua presenza, dalla riorganizzazione degli spazi del bar, colonizzato tra l’altro da una razza mai vista di divani rossi, agli orari della portineria e, forse, della mensa. Già tremo al pensiero che la cena alle 19.15, pilastro della mia routine, si sposti alla mezz’ora... Brrr! E quanto agli altri? Gianluca lo conosciamo ormai da un po’ e sappiamo che non resterà con le mani in mano. Don Luca torna in Collegio dopo qualche anno, e sembra che si muova bene: da astronomo, rientrando nell’atrio dell’A e alzando gli occhi al cielo stellato sopra di sé si sarà certo sentito a casa. A tutti loro, in quanto membri della famiglia Mazziana, va il nostro affetto; in quanto nuova Direzione, l’augurio che si riesca a collaborare costruttivamente. Non scordiamo però le istituzioni studentesche: la classe ’93 è al potere, e se abbiamo fatto gli auguri alla Direzione non possiamo non farli a Beatrice Del Re e Luca Zamparo, i nuovi Presidenti. Naturalmente questi auguri si estendono alle rispettive Segreterie e ai nuovi Rappresentanti Intercollegiali; spero mi perdoneranno se non li cito uno per uno: come usa fare nelle orchestre, mi dicono, si stringe la mano al primo violino per stringerla a tutti. In loro riposa la nostra speranza di riuscire a far sentire distintamente la nostra voce in Direzione e ancora più lontano, e con i nostri auguri e il nostro affetto gli spetta un grande ringraziamento per essersi voluti caricare di una non indifferente responsabilità. Un grazie che, naturalmente, spetta a maggior ragione a chi per un anno ha combattuto in prima linea le nostre battaglie: mi riferisco ovviamente ai Presidenti, alle Consigliere, ai Segretari e ai Rappresentanti uscenti. Speriamo che
l’anno passato sia stata per loro una bella (benché, immagino, faticosa) esperienza, e di non averli fatti troppo dannare. Sperando che non si imbarazzino, li abbracciamo metaforicamente a uno a uno, i vecchi e i nuovi. Anche la Redazione è cambiata: dopo Sara Dal Corso, che già nel corso dell’anno passato aveva dovuto rinunciare, abbiamo salutato Giordana Daniotti e Mirjam Vego, Enrico Ridente, Gabriele Bogo, Lorenzo Zarantonello e Riccardo Gabrielli; chi non è più in Collegio, o per una ragione o per l’altra, chi è rimasto ma ha dovuto razionalizzare i suoi impegni e fare qualche taglio. A tutti loro noi siamo grati per l’anno o gli anni che hanno passato con noi, e per averci dato l’opportunità di lavorare al loro fianco; come già ho avuto occasione di dire, scrivere e lavorare per il Nadir può essere gravoso, e tanto più quanto più impegno ci si profonde. Davide Rosi sarà a casa un semestre per lavoro, e al momento dobbiamo fare a meno di lui; anche Nicola Nicodemo manca da Padova: per quest’anno è in Cina a studiare, ma non è rimasto con le mani in mano e già su questo numero abbiamo un suo articolo. E passiamo ai nuovi ingressi: Miriam Furlanetto e Veronica Mondini si uniscono alla Redazione femminile, dove resistono Arianna Moroni (nuova Presidente), Chiara De Faveri (che mantiene il ruolo di Segretaria), Federica Bloise e Cristina Leonardo. Spiace rilevare che nessuna matricola si sia fatta avanti in via Canal, ma c’è ancora tempo. Al maschile invece entrano Amos Brazzoli (nuovo Segretario), Nicola Giannizzari e Zaccaria Fin, tra le matricole. Luca Terenzi, dopo averci pensato su per qualche anno, si è unito a sua volta a noi, e con lui Rasel Miah. Della
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vecchia Redazione maschile rimaniamo io (che sono ancora, ahivoi, Presidente), Angelo Balestra, Vito Squicciarini. Fermo restando che chiunque voglia partecipare è bene accetto, e ringrazio contestualmente Francesca Trentin e Michela Parutto, Andrea Vezzaro, Federico Paniz, don Luca e Mattia Montanaro per il loro contributo. Naturalmente, ringraziamo Patrizia per la stampa! E ora vediamo cosa troverete qui dentro: innanzitutto, la copertina è opera di Cristina Leonardo, che firma anche un fumetto e alcuni giochi; l’impaginazione si deve ad Angelo Balestra, che continua anche Gigantomachia (II stagione?). La sempre apprezzata intervista doppia alle matricole spetta ad Arianna Moroni, che ha scelto di farci conoscere Giulia Pelos e Francesco Simonetta. I giochi sono di Federica Bloise, che ha scritto inoltre un articolo sull’olio di palma. Avendo nominato i giochi, non si può non citare il ritorno della rubrica “la Matricola d’Oro” il cui autore è tuttavia voluto restare anonimo. La goliardia, che sarà un tema da esplorare nel corso dell’anno, e in particolare l’Immatricolazione sono il tema di un articolo di don Luca e di
un poemetto di Nicola Giannizzari e Zaccaria Fin. Ben tre articoli, di Francesca Trentin, Nicola Nicodemo e Rasel Miah sono incentrati sull’oriente: rispettivamente sull’Iran, sulla Cina e sul Bangladesh (e in particolare sulla lingua Bangla). Ancora di tre articoli si compone la sezione di filosofia: Federico Paniz, Luca Terenzi e Mattia Montanaro scrivono rispettivamente su tragedia, identità e social network, morale e politica tra l’assolutismo e la Rivoluzione Francese. Triste ma meritevole di essere letto è l’articolo di Michela Parutto, dedicato al suicidio di una sua compagna di corso. Nel corso dell’anno cercheremo di accogliere su queste pagine l’esperienza di alcuni Mazziani già inseriti nel mondo del lavoro: il primo è Andrea Vezzaro, Presidente emerito dell’Assemblea maschile. Diamo inoltre il benvenuto a due nuove rubriche, di Chiara De Faveri e Miriam Furlanetto, rispettivamente sugli animali e sulla cultura nerd. Infine, per l’attualità, Amos Brazzoli (il quale non mi somiglia per niente!) ha prodotto un articolo sullo “School Act”, ossia la politica del governo Renzi sull’Istruzione. A tutti voi, lettrici e lettori, il saluto della Redazione. Buona lettura!
Politica -I governi cambiano, la scuola no-
“Renzi lancia la riforma ma la scuola è ancora quella del Duce” Amos Brazzoli È facile imputare le carenze del sistema scolastico italiano a questa o quella riforma, sia questa l'invisa riforma Gelmini o la sua antenata Moratti. La verità è che la scuola italiana è entrata in un circolo di perversi rimpasti e rietichettamenti sempre più formali che sostanziali. Dall'alba del nuovo millennio le riforme del sistema scolastico sono state una tentazione incontenibile per quasi tutti i governi che si sono susseguiti. Il rituale tra il mistico e il grottesco è sempre il medesimo. Il governo impone tagli sostanziali al bilancio dell'istruzione più o meno conditi da una premessa di carattere morale-ideologico-paternalistico sulla mediocrità dei risultati e sull'inefficienza della scuola (in questo senso la coppia Renzi-Giannini ha avuto un considerevole buon gusto ut nunc). Segue a ruota l'annuncio della “linea dura” da parte dei sindacati anche questa concettosamente guarnita di misticismi dal sapore radical-chic; seguono manifestazioni a piacere. Frattanto la macchina dello stato incede imperterrita secondo il suo disegno avviando trattative con le parti sociali e al contempo proclamando che i tagli sono imperativi e che qualunque sarà l'esito delle trattative si dovrà comunque procedere in tal senso; seguono aspri alterchi e scambi di anatemi ma tutto sfuma in una catartica rassegnazione. Puntuale come un orologio questo rituale si è consumato per i governi Berlusconi III e IV e ora si sta consumando anche per Renzi. Volendo allargare il discorso e prendere in considerazione cosa è stato fatto, l'unico denominatore comune, al di là della varie “filosofie” che hanno ispirato le varie riforme, è la continua e impietosa diminuzione dei fondi senza alcuna considerazione seria sulla struttura dei cicli d'istruzione, sulla didattica, su un sistema di valutazione qualitativa della scuola o sull'abolizione della gerarchia classista delle scuole superiori. Nulla di ciò è stato considerato negli ultimi quindici anni e a quanto risulta ad oggi sarà così anche questa volta, un ennesimo nulla di fatto, tre lustri di iterazioni della stessa
ricetta con risultati indiscutibilmente insoddisfacenti. L'impianto scolastico come noi oggi lo conosciamo rimane ancora per la maggior parte frutto della riforma Gentile del 1923 che all'epoca venne definita da Mussolini stesso come «la più fascista di tutte le riforme» in quanto ispirata ai nobili ideali di gerarchia e centralismo tanto cari al Regime. L'ascesa dell'alunno fino alla sommità del ciclo di studi era un continuo Streben, per dirlo in termini idealistici, in cui i “migliori” venivano scorporati dalla vil plebaglia. Progressivamente l'aumento della scolarizzazione ha costretto le istituzioni scolastiche a un adattamento all'accesso delle masse alla cultura. Dall'avvento dell'età repubblicana la scuola vede il susseguirsi di proposte di riforma che immancabilmente naufragano in parlamento fino al 1963 quando la scuola media viene unificata e viene attuata l'imposizione dell'obbligo scolastico prevista già ne 1923 e riconfermata dalla Costituzione repubblicana. Così con pochi aggiustamenti circa maturità e debiti formativi arriviamo al 1997 quando il neo-ministro Luigi Berlinguer propone il piano di riforma più ambizioso dai tempi di Gentile. L'ipotesi di Berlinguer era di dividere il ciclo di studi in due tranche oppure, più radicalmente, di non dividerlo affatto per favorire la continuità degli studi e evitare l'impostazione “aristocratica” che aveva caratterizzato dal principio l'idea di Gentile. Ne quadro dei tagli spietati delle legislature precedenti la proposta del ministro Giannini è un abile gioco di taglia e cuci. Il ministero stima di mettere in campo risorse per un 1mld di euro per l'assunzione a tempo indeterminato di un “piccolo” esercito di circa 150mila precari nel 2015 e poi 3mld nel 2016 per la regolarizzazione delle assunzioni che nel disegno della Giannini avranno cadenza annuale. Dall'altro lato in aggiunta ai 650mil di tagli che la Spending Review impone al ministero dell'istruzione vengono tagliati 50mil per il personale tecnico-ausiliario, vengono accorpate le presidenze delle scuole superiori, vengono eliminate le deroghe all'insegnamento per vicari
e vice-presidi degli istituti di grandi dimensioni. Circa l'edilizia scolastica per cui non sono stati resi noti ulteriori progetti è già stato sbloccato 1mld con l'allentamento del Patto di Stabilità di inizio agosto. Rimangono ancora diverse incognite specialmente su esami di maturità, la possibilità di abolire il quinto anno di scuola superiore e l'incremento dell'orario di lavoro dei docenti che non appena entrati nel dibattito hanno scatenato l'ira di sindacati e associazioni di categoria facendo slittare la presentazione del testo definitivo a fine novembre o inizio dicembre, tutto come da copione. Nel frattempo il governo ha lanciato una consultazione popolare attraverso il portale del mistero dell'istruzione con l'obiettivo di raccogliere nuove idee e considerare le opinioni degli italiani e dei soggetti che saranno interessati dalle riforme. Per quanto riguarda il mondo universitario, il ministero ha previsto di ridurre i tagli previsti dall'ultima finanziaria a firma Tremonti da 1.5mld a mezzo miliardo in cinque anni. Oltre ciò è stata ventilata l'ipotesi di introdurre l'obbligo nel percorso di laurea magistrale di alcuni esami di pedagogia e psicologia dello sviluppo per coloro che intendono dedicarsi successivamente all'insegnamento. Le idee ventilate dal ministro Giannini nel prospetto “La Buona Scuola” di inizio settembre forniscono tutte le avvisaglie che la riforma a venire sarà con tutta probabilità la più incisiva degli ultimi quindici anni, salvo improvvisi ripensamenti. Un plauso è dovuto per l'ondata di assunzioni per l'anno scolastico 2015-2016 e per la regolarizzazione su base annuale dei concorsi e delle assunzioni che Deo favente porranno fine alla situazione oltremodo deplorevole del precariato nella scuola. Nondimeno il giudizio finale non va oltre «è dotato ma non si applica» vista la mancanza di ardimento necessaria a portare al centro della discussione il dogma della tripartizione del ciclo di studi e il mancato aggiornamento dei programmi di studi per le varie materie fermi nel migliore dei casi al 1969 (annus mirabilis in cui venne introdotta la Teoria degli Insiemi al liceo scientifico).
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Internazionale L’ARTE DELLA DITTATURA E DELLA SOPRAVVIVENZA Cronache e note sparse dalla Repubblica Islamica dell’Iran Francesca Trentin Incipit Istanbul, 12 agosto 2014. Inizia qui il mio viaggio, al confine tra Europa e Asia. Nell’aeroporto turco regna il caos totale: centinaia di persone ammassate senza pietà nella sala di attesa, senza un posto libero dove sedersi. Un bazar di facce, vestiti, piedi. Cammino tra la gente e mi perdo nei piccoli dettagli. Un’indiana dorme nel suo sari occupando un’intera panchina, un’alta uzbeka siede a pochi metri avvolta in un elegante vestito lungo con motivi geometrici, poco più in là ancora una famiglia africana chiacchiera mentre il neonato dorme stretto in una fascia attorno al petto della mamma. Tacchi alti, ballerine a punta, sandali a righe. Occhi truccati, occhi a mandorla, occhi nocciola che si rivelano nel rettangolo di pelle nuda lasciato dal velo integrale. In bagno l’inserviente spazza i capelli su piedi in infradito, mentre una ragazza dai capelli corvini dismette i vestiti occidentali per tornare ad adeguarsi al pudore natio. Teheran, Tirana, Dubai, Nuova Delhi. Le destinazioni scorrono sugli schermi delle televisioni; qui nessun luogo è lontano. Sono ormai passati tre mesi da quando sono atterrata nella Repubblica Islamica dell’Iran. La prima cosa che colpisce di Teheran è la cappa di smog che aleggia impietosa sulle travi di ferro nei grattacieli in costruzione. Come ogni metropoli che si rispetti è inquinata, caotica e trafficata: non c’è una metropolitana e quindi quasi tutti si spostano in auto. L’inurbamento da tutto il paese e la grande crescita demografica degli ultimi 25 anni (cioè da quando sono stati banditi i contraccettivi) hanno fatto sì che la capitale sia una specie di cantiere all’aria aperta. Teheran è, però, anche la città più occidentale di tutto l’Iran, con eleganti vie residenziali e un abbigliamento piuttosto libero rispetto al resto del paese. In Iran vige la Sharia, la legge islamica, che prescrive l’obbligo di coprire capelli, collo, seno, braccia e gambe. Fino a una decina di anni fa era impossibile trovare per strada una donna che non indossasse lo chador (stoffa semi circolare nera che ricopre il capo e le spalle tenuta chiusa sotto il mento ad incorniciare il volto). Negli ultimi anni, trasgressione dopo trasgressione, le donne sono riuscite a spezzare la repressione nell’abbigliamento ed oggi molte portano veli, rossetti e smalti dai colori accesi, un trucco impeccabile, abiti e borse alla moda. Anche riguardo alla copertura dei capelli si può notare una sempre maggiore insofferenza alla costrizione: molte usano delle sciarpe lunghe e strette, che fissano al capo appoggiandole su enormi chignon creati grazie a ciambelle di spugna. In questo modo metà testa è scoperta e possono lasciar ricadere sulla fronte ciuffi e frange, esibendo così i tanto proibiti capelli. Le donne sono davvero belle, dedicate a una quasi maniacale cura dell’aspetto e del trucco: l’unico strumento di seduzione è il viso, e qui sono concentrati tutti i loro sforzi. Camminando per le strade colpisce l’onnipresenza della chirurgia estetica: ogni anno vengono eseguiti 90 mila interventi di rinoplastica, senza contare gli zigomi e le labbra riempite di botulino. La rinoplastica è talmente di moda che le ragazze, dopo l’operazione, girano per strada con i cerotti anche per settimane: è uno status symbol che testimonia la disponibilità economica della ragazza. Più il naso è finto, meglio è. Esiste una specie di dicotomia tra come le donne devono essere in pubblico e ciò che sono nel privato; mentre i governanti
invitano alla modestia, all’abnegazione, alla castità e all’umiltà, le iraniane sono tutt’altro che remissive: si fanno selfie coi telefonini, condividono i loro outfit su Instagram (che misteriosamente non è ancora stato censurato, al contrario di Facebook), si muovono per strada con fare seducente sapendo di essere guardate. Sono ragazze come noi, solo che hanno il velo. La società le vuole pie, coperte e tristi, mentre loro lottano silenziosamente contro la dittatura scoprendo un centimetro di braccio in più o indossando un rossetto dai toni sgargianti. La dittatura A capo dello stato vi è un presidente, eletto ogni quattro anni con suffragio universale scegliendo tra due candidati dello stesso partito (l’unico). Il parlamento, monocamerale, si occupa della promulgazione delle leggi, che vengono poi approvate o respinte dal Consiglio dei Guardiani, composto da sei giuristi e sei religiosi nominati dalla Guida Suprema, attualmente l’ayatollah Ali Khamenei. In definitiva tutto passa per le mani dei capi religiosi e i tempi di approvazione delle leggi sono infiniti. E’ vietato quasi tutto: gli scioperi, l’ateismo, i contatti in pubblico tra uomo e donna, i rapporti prematrimoniali ed extramatrimoniali, l’omosessualità, il possesso di animali domestici (cane e gatto sono considerati animali impuri e perciò non devono essere tenuti in casa), il consumo di alcool e di carne suina, la musica straniera, il ballo, il canto, le feste (a meno che non siano religiose), il possesso di un’antenna satellitare... “Sono entrati nelle nostre case, nella nostra intimità. Nemmeno in casa nostra possiamo essere chi vogliamo. Loro possono sempre entrare, sequestrare e arrestare.” dice Nadia, la mia guida. Tutto in nome di Allah e del Corano. Questa evoluzione verso la teocrazia islamista non è ben vista ai più: la dittatura vorrebbe appiattire e sovrapporre la cultura iraniana a quella araba, eliminando tutti quei tratti tipici e positivi che gli iraniani riconoscono nelle loro tradizioni. Come mi è capitato di sentire più volte durante il viaggio, gli iraniani tengono molto a specificare che sono Persiani e non Arabi: si tratta di popoli etnologicamente distinti, con lingua, storia e tradizioni diverse. I Persiani hanno bevuto per millenni il dolce vino delle colline di Shiraz, hanno avuto grandi poeti che cantavano dell’amore, anche carnale, e di tutti quei sentimenti che ora vogliono essere soppressi e perseguitati perché amorali. Hanno avuto scienziati come Avicenna, grandi re come Ciro e Dario, che hanno posto le basi del diritto comportandosi con giudizio nel trattare i popoli conquistati e i sudditi. Per questo gli iraniani nati durante il periodo dello Scià, nonostante 35 anni di Islamismo, ancora non si arrendono facilmente alle imposizioni. Nessuno parla di politica, nessuno mostra dissenso aperto (c’è la pena di morte), ma nel privato nulla è davvero cambiato. La ribellione è fatta di tante, piccole, silenziose trasgressioni. Eccone alcune, trafugate dalla mia guida, che si arrischia a parlare di questi argomenti dato che, per fortuna, nessuno conosce l’italiano. t -BMDPPM WJFOF QSPEPUUP JO DBTB EJ OBTDPTUP OFMMF DBOUJOF F consumato durante le feste clandestine, a cui si deve invitare tutti i vicini perché non facciano la spia. E’ importante anche preoccuparsi di corrompere il Guardiano della Rivoluzione del quartiere (una sorta di tutore della moralità) in modo che non chiami la polizia. Per procurarsi una bottiglia di liquore occorre sborsare l’equivalente di un centinaio di euro contattando individui loschi che contrabbandano l’alcool dall’Armenia o dalla Turchia. Li si contatta per sms e ci si trova in un luogo designato dove prima vengono consegnati i soldi, poi il contrabbandiere molla la bottiglia e scappa di corsa. Il commercio di alcol è punibile con la pena di morte. In farmacia vanno anche a ruba i flaconi di alcol puro. Inutile
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esplicitare dove vada finire. Resta ancora un mistero medico la correlazione tra disinfezione e cirrosi epatica. t -B UW TBUFMMJUBSF Ò PWWJBNFOUF WJFUBUB come in ogni dittatura che si rispetti la disinformazione è indispensabile nel controllo delle menti. Esistono solo cinque canali: un canale di notizie in Persiano molto intriso di religiosità (si apre con una recita del Corano) e uno in inglese un po’ più moderato (visibile anche nel resto del mondo), due canali di preghiere e sermoni e infine una rete dedicata principalmente alle soap opere, naturalmente prive di contatto tra uomo e donna, con lunghi silenzi e sguardi drammatici. In sostanza una noia mortale. Nonostante il divieto, su ogni tetto di Teheran svettano parabole bianche nuove di zecca, segno che anche in questo campo non è difficile corrompere i Guardiani: mi è stato raccontato che essi hanno un loro personale profitto nel commercio delle parabole. Prima dell’immissione sul mercato di un nuovo modello, si presentano nelle case e requisiscono o distruggono in nome della legge le parabole vecchie, e poi hanno una loro percentuale sulla vendita di quelle nuove. t*MTBCBUPTFSBJHJPWBOJWBOOPOFJCBS dove si siedono rigorosamente separati in aree diverse della stanza e sulle note di canzoni iraniane che vorrebbero trascinare al ballo possono solo restare seduti e guardarsi da lontano, battendo a ritmo le mani. E può succedere che un poliziotto sulla soglia osservi che non avvenga nulla di sconveniente. Nonostante questo i rapporti prematrimoniali, in qualche modo, in qualche luogo, riescono ad essere consumati. In Iran è diventato prevalente il matrimonio combinato e le ragazze meno pie prima di sposarsi con l’uomo prescelto dalla famiglia, spesso devono ricorrere alla chirurgia estetica: la ricostruzione dell’imene è un settore in grandissima crescita, che porta migliaia di euro l’anno nelle mani dei chirurghi meno indiscreti. Era stato fatto anche un film su questo, accolto con grande entusiasmo dal pubblico (“Finalmente un film vero!”), ma pochi giorni dopo l’uscita è stato ritirato e il regista non ha fatto una bella fine. t "MMVOJWFSTJUË Ò QSPJCJUP SJVOJSTJ JO gruppetti da più di quattro persone. Ormai i ragazzi hanno imparato tacitamente a contarsi ogni volta che si incontrano tra una lezione e un’altra e, se arriva un quinto amico, o evita di fermarsi o un altro del gruppo se ne va. Chi osa ribellarsi al regime, con proteste o scioperi, viene condannato a morte: un processo sommario, nessuna possibilità di appello e il giorno dopo la fucilazione. “Crimini contro Allah e il Corano” dicono. Non è infrangere una legge umana ma addirittura quella divina, di cui ovviamente l’ayatollah è l’emissario in terra. La pena di morte è prevista per numerosi crimini: omicidio, adulterio, stupro, omosessualità, pratiche non sessuali ma erotiche tra uomini per quattro volte, reati legati alla prostituzione, reati legati alla droga, blasfemia, estorsione, corruzione, contrabbando d’arte, terrorismo, rapina a mano armata, pornografia, commercio di alcool, molestie ai minori sono alcuni esempi. Solo quest’estate, dopo il Ramadan, ci
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sono state ben 350 fucilazioni ufficiali. Secondo Amnesty International, l’Iran è il secondo paese al mondo per numero assoluto di esecuzioni di pena di morte, superato solo dalla Cina. Considerando però che gli Iraniani sono 78 milioni (contro gli 1,3 miliardi di cinesi), il paese si colloca al primo posto per il rapporto tra giustiziati e abitanti. Il numero di giustiziati è molto maggiore rispetto a quello ufficiale e spesso gli omosessuali arrestati non raggiungono neanche il tribunale perché muoiono prima nelle carceri a causa delle percosse e delle violenze. La condanna internazionale è durissima, anche perché, nonostante l’Iran abbia firmato la convenzione per i Diritti del Bambino, in cui è vietata l’esecuzione dei minori, fino al 2012 ha continuato a giustiziare i ragazzi dai 15 anni (età in cui si presuppone ci sia la prima polluzione, che segna l’entrata nell’età adulta) e le bambine dai 9 anni (età di Aisha, la moglie bambina di Maometto, al loro primo rapporto) anche per reati minori (ad esempio “comportamenti incompatibili con la castità”). In seguito alle forti pressioni internazionali, nel 2012 la legge sulla pena di morte per i minori è stata leggermente cambiata: l’imputato viene giustiziato solo in caso di omicidio solo se ha più di 15 anni ed ha raggiunto un completo sviluppo mentale. Per gli altri reati sono stati introdotti programmi di rieducazione da associare alla reclusione. Difficili conclusioni Passeggiando tra le strade di Shiraz, Isfahan e Hamedan venivamo fermati dalla gente con un sorriso e qualche frase abbozzata in inglese: “Where are you from? What’s your name? How long are you staying in Iran? Where do you go?” Le ragazze più coraggiose mi facevano segno di mettersi vicino a loro per scattare una foto. Sono poche le ragazze che vanno lì come turiste, di solito si incontrano coppie di mezza età o oltre. Penso che mi trovassero esotica nel mio buffo tentativo di camuffarmi secondo l’abbigliamento locale: mi presentavano i loro bambini, mi fotografavano con loro, come se fossi una stella del cinema o qualcosa del genere. E’ una sensazione strana essere osservata con curiosità per strada: mi fa capire quanto poco del nostro mondo trapeli oltre i confini di questo stato dell’Asia centrale e allo stesso tempo quanto la gente abbia voglia di esserne resa partecipe. “What did you think of Iran before coming here?” Domanda difficile. Cosa pensiamo noi italiani dell’Iran? Che è un paese fondamentalista, che si vestono tutti di nero e portano turbanti severi sopra alle teste, che c’è la pena di morte, che vogliono la distruzione di Israele e degli Stati Uniti, che sono degli invasati religiosi, dei terroristi? Loro lo sanno che appaiono così all’estero, lo sanno e me lo dicono. Ma guardando questa ragazza, così bella e sorridente, tutt’altro che un’invasata religiosa, come posso lontanamente pensare a questo? “I’m studying English because I want to go to Europe, I want to go away. I’m waiting for the visa. I hate to be here.” Mi sussurra con coraggio una giovanissima ragazza dentro il mausoleo dell’ottavo
Imam Reza a Shiraz. Ha il nasino all’insù, frutto certamente della chirurgia, i capelli tinti che le scivolano con finta noncuranza sulla fronte e i tratti delicati ma fieri di una ragazza determinata. “I’m going to Sudan, I have a uncle there, and then I hope to go to Europe.” Una guardiana le fa segno di smettere di parlare e lei si allontana, risucchiata dalla folla che riempie la grande moschea di specchi. “Do you like Iran?” Altra domanda difficile. Come dire loro che sebbene tutte le meraviglie dei luoghi, della gente, del cibo non ci vivrei mai? Come dirgli che la libertà è qualcosa a cui non posso rinunciare e che hanno un sistema politico che trovo profondamente ingiusto? “Yes, it’s a wonderful country.” E loro sono contenti anche se scorgo negli occhi quasi una delusione che io non osi dire di più, non osi esprimermi sulla situazione politica, io che sono una donna libera e occidentale. Mi ci sono voluti undici giorni per riuscire ad integrare nel paese meraviglioso che vedevano i miei occhi le profonde contraddizioni che lo lacerano. Ho dovuto vedere le infinite basi militari al confine con l’Iraq, con tanto di carro armato all’ingresso e missili puntati al cielo. Ho dovuto vedere una promessa sposa combinata tendere la mano al futuro suocero durante la cena di conoscenza delle famiglie ed essere rifiutata. Ho dovuto essere rifiutata io stessa in un momento di amnesia in cui ho teso la mano a un coetaneo in segno di saluto. Ho dovuto guardare una sposa completamente incappucciata con una specie di sacco bianco durante il servizio fotografico, perché il marito non voleva che nessun uomo la vedesse così truccata. Ho dovuto leggere negli occhi delle donne del sud la tristezza nel non potermi parlare. Ho dovuto vedere gli onnipresenti ritratti di Khomeini e Khamenei occhieggiare all’ingresso di ogni moschea, in barba al divieto di adornare di figure animate i luoghi sacri musulmani. Ma ancora mi sembrava che tutto questo fosse quasi quasi normale. Ho dovuto togliere il velo al mio ritorno, contro voglia perché ormai era diventato parte di me. Solo allora ho potuto riflettere, rielaborare quanto ho visto. Mi ci è voluto troppo poco per adattarmi alle imposizioni, diventare parte del sistema. Quando sei impegnato a non trasgredire nelle piccole cose quotidiane (controllare che il velo sia fissato bene, che le caviglie non siano troppo scoperte, che la maglietta non sia troppo trasparente) perdi il senso delle cose importanti. Sono tornata cambiata, meno tollerante forse, meno tollerante alle ingiustizie e alle piccole imposizioni che cercano di farci diventare un numero, delle pecore. Perché è facile diventarlo. Sono tornata ancora più convinta che il diritto all’opinione è fondamentale. A volte, quando leggo idiozie su internet, maledico la libertà di espressione che crea disinformazione. Ma poi penso: se c’è disinformazione c’è anche informazione, e questo non è scontato. Perché quando si inizia a censurare è difficile fermarsi in tempo.
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Internazionale Un saluto dalla Cina Nicola Nicodemo Un saluto ai vecchi amici. E una breve presentazione ai nuovi, che non ho avuto modo di conoscere. Mi chiamo Nicola Nicodemo e sono arrivato al Collegio lo scorso anno. Studio Fisica, al secondo anno, e adesso sono in Cina in un programma di scambio internazionale con l’Università di Guangzhou, una città poco distante dalla “tumultuosa” Hong Kong. A qualcuno che mi aveva chiesto quanti abitanti avesse Guangzhou, avevo riposto fiducioso cinque o sei milioni, numeri che già fanno impallidire quelle due o tre metropoli italiane. Bene, di persone ce ne sono quindici milioni, e ti sembra di sentirle tutte. Negli autobus, dove l’aria condizionata a palla cerca invano di mitigare i trentasei gradi di “calore umano*” delle persone che ti sono schiacciate accanto. In metro, dove non solo si ripetono gli spazi angusti del bus, ma lo spazio vitale devi conquistartelo, al costo di malmenare qualche inerme cinese (inerme perché, qui nella Cina meridionale, l’altezza media di una persona è un metro e un “kuaizi”**). Quindici milioni di persone fanno trenta milioni di occhi. Ora, non è per pura vanità o egocentrismo, se vi dico che in certe occasioni - quando meno ti farebbe piacere - sembra di sentirseli tutti addosso. Sfatiamo il mito delle cinesi (o dei cinesi, in senso lato) che ti saltano addosso. La timidezza, soprattutto dei più giovani e meno spigliati - che poi mi paiono la maggioranza, è quasi paragonabile all’indiscrezione con cui ti fissano e ti scattano “distrattamente” foto mentre fingono di parlare al cellulare. Nadir, NOVEMBRE 2014 La rivista degli studenti mazziani di Padova Nadir è una pubblicazione autofinanziata e autoprodotta del Collegio Universitario “Don Nicola Mazza” / Residenze “G. Tosi”: via dei Savonarola 176, 35137 Padova, Italia; tel. +39 049 8734411, fax +39 049 8719477 / Residenza “I. Scopoli”: via Canal 14, 35137 Padova, Italia; tel. +39 049 8732210, fax +39 049 8732251; sito: http://www.collegiomazza.it
Qualcuno, più spigliato, ti chiede una foto. Qualcuna - ma qui siamo davvero a livelli pro - il contatto wechat***, che qui è la versione meno romantica di scambiarsi il numero di cellulare. E lasciamo pure da parte il fatto che le ragazze carine sono poche e, fra l’altro, già tutte accoppiate - ma questo non mi fermerà! ‘tacci loro. Qualche appunto sparso e un discorso più serio. L’astinenza dai social network - che qui sono tutti bloccati dal Great FireWall - è peggiore del previsto. Condividere status, qualche immagine, o un saluto, per sentire vicini amici che ora sono così lontani, è un bisogno quasi fisiologico. A questo proposito, posso dire di aver vissuto in diretta l’azione della censura. Quando sono arrivato qui Instagram era l’unico social rimasto libero, per cui ho avuto modo di caricare alcune foto dei miei primi giorni in Cina. Poi non sono riuscito più a connettermi. In seguito alle proteste di Hong Kong - che mi dispiace non poter commentare, a causa della difficoltà di reperire informazioni se non dai media occidentali - hanno bloccato anche quello, per evitare la diffusione delle immagini delle proteste. Cos’altro? Sono arrivato qui con trentadue gradi di notte. E ancora giriamo in mezze maniche e hawaiane. E noi siamo i privilegiati con l’aria condizionata. Immaginate quelli senza. Avete presente le intense umide estati patavine? Ecco, peggio. Il clima caldo, tuttavia, non corrisponde al carattere estroverso delle persone come in altri paesi tropicali (e come non fare un confronto col Brasile?). Una profonda influenza culturale,che non saprei meglio definire, rende le relazioni sociali - parlo di quelle nei confronti di una
persona che, come me, non appartiene al loro stesso contesto culturale abbastanza difficili. E a questo si aggiunge un ostacolo altrettanto grande, la lingua. Una vera e propria barriera tra chi non parla inglese e il resto del mondo. È difficile trovare tra gli studenti - anche universitari - qualcuno che abbia un livello di inglese discreto. Impossibile tra chi non è studente. La lingua è tanto difficile quanto affascinante. E la cosa che più mi affascina è la grande diversità semantica dalle lingue europee, latine o germaniche che siano. Dall’utilizzo dei caratteri (la parola ha un legame grafico con l’idea dell’oggetto, non solo fonetico) alla logica nella costruzione del linguaggio, che sembra rompere i classici schemi grammaticali che abbiamo in testa. È per questo, e perché farlo qui in Cina è un’ occasione davvero irripetibile, che ho deciso di buttarmi a capofitto nello studio della lingua, con la speranza - neanche troppo campata in aria - di arrivare a un livello intermedio. Anche perché - e qui susciterò le vostre invidie! - al momento in cui vi scrivo (pomeriggio del sei novembre) non ho ancora cominciato alcun tipo di corso universitario. Non c’è da preoccuparsi, s’intende! È normale… A volte mi chiedo cosa voglio da questo viaggio. Non sono qui per studiare la Fisica. Non solo. Un’esperienza del genere non può essere solo accademica, perché vorrebbe dire lasciar fuori un’infinità di occasioni che non ri-capitano. Dallo studio della lingua, al confronto con una cultura agli antipodi della nostra. La possibilità di viaggiare in luoghi inimmaginabili, di vivere la quotidianità di una socie-
Direzione Andrea Corbanese Redazione ,Cristina Leonardo, Miriam Furlanette, Monica Mondini, Arianna Moroni, Chiara De Faveri, Federica Bloise, Gabriele Bogo, Amos Brazzoli, Nicola Ginnizzari, Rasel Miah, Zaccaria Fin, Angelo Balestra. Copertina Cristina Leonardo Grafica e impaginazione Angelo Balestra Stampa Patrizia Norbiato
articolo senza impegno non esiti a contattarci all’indirizzo
[email protected] o allo 049 8734568. Si ricorda che il Nadir è pubblicato in PDF e scaricabile all’indirizzo http://studenti.collegiomazza.it/nadir.
Chiuso in Redazione il 11 novembre 2014 alle 21.35. Chi desiderasse unirsi alla Redazione o scrivere un
La rivista è composta con i caratteri Minion Pro e Arial, mentre il logo Nadir è in Perpetua Titling MP.
cbna ©2012 Nadir. Gli articoli sono disciplinati da licenza Creative Commons by-nc-sa (testo completo su http:// creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.5/it/).
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tà lontana. Vivere un anno all’ estero è costruirsi una nuova casa. Sentire un luogo come proprio. E realizzare che il mondo è allo stesso tempo così piccolo e così immenso. Vivere un anno fuori - e vi parlo di aspettative (anche se l’esperienza l’ho già provata trasferendomi a Padova) - non è visitare un luogo, ma viverlo, abituarcisi. E mi piace pensare che quando tornerò a casa (quale casa? quella di Padova? quella di Paestum?) sarò ancora italiano, ma anche un po’ cinese, è un pizzichino brasiliano. Qui, ti rendi conto che la vita accademica non basta, che è solo un aspetto (il più importante? forse, o forse no.) della vita di un giovane. Che il mondo è troppo ricco e il tempo troppo prezioso, per costruirci dei limiti intorno. Del primo anno a Padova porto nel cuore le trasformazioni (il passaggio dal Liceo all’Università, il trasferimento in un’altra città, l’essere diventato indipendente, il cambiamento
dei punti di riferimento), gli affetti (i nuovi amici, il sentirsi parte di una comunità) e le esperienze (che il Collegio e la città mi hanno offerto). D’altra parte sento un profondo rammarico per essermi lasciato (ma è una cosa normale e forse inevitabile) sopraffare dai cambiamenti e lasciare che questi guidassero me. Ecco, se c’è una cosa che amo nel viaggiare, e in cui pongo fiducia, è riprendere il controllo delle mie aspirazioni. E, in questo anno che è appena iniziato, è la cosa più importante. Un carissimo saluto, non potete immaginare con quale affetto ricordi i momenti passati insieme a voi. Nicola * I fisici mi perdoneranno l’accostamento assai equivoco tra temperatura e calore. ** “kuaizi” è la bacchetta cinese *** Dal momento che tutti i social network occidentali sono bloccati, vi lascio il mio contatto WeChat: nicolanicodemo (originale, no?) Nicola Nicodemo nella prima foto, una piazza di Guanghzou nella seconda
La giornata internazionale della lingua madre Rasel Miah Il territorio indiano ottenne indipendenza dal dominio Britannico il 14-15 agosto 1947. Il governo inglese propose di suddividere il territorio così come lo avevano trovato all’inizio del loro dominio cioè vari regni con la propria cultura e lingua caratterizzante, ma i leader Musulmani (soprattutto loro) ed Induisti rifiutarono la proposta e chiesero di suddividere l’intero territorio in base alla religione: I musulmani da una parte e gli induisti dall’altra. Nacquero così 2 stati sovrani: la Sovranità del Pakistan per i musulmani e l’Unione dell’India per gli induisti. In questo gioco i politici del Bangladesh (chiamata Bengala a quel tempo) non riuscirono ad avere alcun ruolo e il Bangladesh finì per essere spartito tra India e Pakistan sempre seguendo il criterio della religione senza tenere conto della cultura e della lingua: la parte orientale (attuale Bangladesh e circa 1/3 del territorio originario) con prevalenza musulmana finì per unirsi al Pakistan mentre la parte occidentale venne inglobata dall’India. Il nuovo Pakistan nacque quindi dalla fusione di due popolazioni distinte avendo la religione Islamica come l’unico elemento in comune: il Pakistan orientale (ex Bengala orientale
ed attuale Bangladesh) e il Pakistan Occidentale (l’attuale Pakistan), separati tra loro da circa 2000 km di distanza oltreché da un’enorme diversità culturale. Anche se il Pakistan orientale aveva più peso dal punto di vista economico e demografico, il potere politico finì nelle mani dei politici del Pakistan Occidentale che avevano acquistato maggiore notorietà grazie al movimento dell’indipendenza Indiana dal dominio Britannico. L’obiettivo del Pakistan occidentale era però quello di sfruttare il fertile territorio orientale e sottometterne la popolazione. La loro linea politica era semplice : Per distruggere una cultura e per sottometterla bisogna prima distruggerne la lingua. Quindi per prima cosa puntarono alla lingua dei bengalesi. il 24 marzo 1948 ,Il Governatore Generale del Pakistan Mohammad Ali Jinnah, a un raduno di studenti di Università di Dacca (attuale capitale del Bangladesh),affermò che l’Urdu dovrebbe essere l’unica lingua ufficiale del Pakistan, ignorando il fatto che il Bangla è la madrelingua di 45 milioni di persone su 75 totali dell’Intero Pakistan, mentre l’Urdu era una delle lingue del Pakistan occidentale. Gli studenti iniziarono a protestare e formarono il Comitato d’Azione, composto da 14 studenti, per confrontarsi con le altre classi ed agire per mantenere il Bangla la lingua del Pakistan orientale. Il campus universitario di Dacca
divenne il centro per le riunioni. Il Governatore Generale Jinnah incontrò i rappresentanti degli studenti del Comitato d’Azione per convincerli della necessità di avere un’unica lingua nazionale ma gli studenti rifiutarono categoricamente di rinunciare alla propria lingua madre. La discussione non portò alcun frutto, perciò il governatore generale ricorse a politiche repressive per schiacciare il movimento sul nascere mettendo molti studenti sotto arresto. La situazione precipitò il 27 gennaio 1952 quando anche il primo ministro dell’intero Pakistan, in visita al Pakistan orientale, dichiarò che l’Urdu sarebbe diventata l’unica lingua ufficiale dello Stato, quindi nelle scuole e negli ambiti amministrativi la lingua Bangla non sarebbe stata più tollerata. Gli studenti si infuriarono e indissero, per il 4 febbraio 1952, uno sciopero in tutti gli istituti scolastici. Inizialmente gli studenti trovarono anche l’appoggio dei politici dell’opposizione. Gli studenti poi proclamarono uno sciopero generale, in tutto il paese, per il 21 febbraio 1952 ma questa volta il governo mise
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Internazionale in atto la legge numero 144 del codice anticrimine con cui vietava ogni forma di incontri pubblici e manifestazioni per più di 5 persone. I politici dell’opposizione questa volta si fecero indietro e così la comunità studentesca rimase senza alcun appoggio politico. Comunque nella mattina del 21 febbraio gli studenti si incontrarono presso la facoltà d’arte dell’università di Dacca; dopo la discussione presero la decisione di manifestare nonostante il divieto. Si radunarono presso le residenza della facoltà di medicina dove trovarono anche altre persone provenienti dai vari ceti sociali, giunti fin qui per manifestare insieme agli studenti, per chiedere al governo di mantenere la propria lingua madre. Gli studenti uscirono dal luogo di raduno 2-3 alla volta formando tanti cortei di 3 persone, distanziati tra loro, diretti al luogo in cui quella mattina si sarebbe tenuta un’assemblea legislativa. Il grido di tutti fu “vogliamo il Bangla come lingua dello Stato orientale”. All’inizio i poliziotti non sapevano come comportarsi ma ricevettero l’ordine di fermarli, quindi lanciarono dei lacrimogeni per disperderli e quando nel disordine gli studenti si radunarono insieme finalmente aprirono il fuoco che causò la morte di diverse persone (studenti, impiegati d’ufficio, operai). La reazione del popolo alla notizia delle uccisioni fu immediata. Tutto il paese si mobilitò dando vita a manifestazioni di protesta. Molte per-
sone cominciarono a radunarsi presso i locali della facoltà di medicina. Una protesta iniziata dagli studenti ora era riuscita a coinvolgere un intero popolo. Per portare la situazione sotto controllo il governo impose il coprifuoco per il 22 febbraio e schierò l’esercito, ma l’intero Pakistan orientale sfidò il coprifuoco per protestare contro il governo. Nelle manifestazioni tra il 21 e 24 febbraio 1952 circa 24 persone furono uccise. La tensione generatasi, finalmente, costrinse ai politici del Pakistan occidentale a riconoscere il Bangla come la lingua dello stato orientale e ciò avvenne ufficialmente nell’assemblea nazionale del 1954. Per dimostrare la nostra riconoscenza ai giovani che sono caduti combattendo per la propria madrelingua abbiamo eretto un monumento chiamato “Shaheed Minar” nel luogo in cui sono stati uccisi il 21 febbraio. Ogni anno la mattina del 21 febbraio, a piedi scalzi e con dei fiori in mano, ci avviamo uniti verso il monumento cantando la “canzone del 21 Febbraio” per rendere il nostro omaggio ai valorosi martiri. È un evento nazionale celebrato in ogni luogo del Paese. Nel 1999 l’Unesco ha riconosciuto il 21 febbraio come “Giornata internazionale della lingua madre”. La canzone tradotta in italiano dovrebbe essere come segue :
Il sangue del mio fratello ha reso rosso il 21 febbraio Non lo posso dimenticare Le lacrime di tante madri che hanno perso i propri figli costituiscono il 21 febbraio Non lo posso dimenticare Il Sangue del Mio Dorato Paese ha reso rosso il 21 febbraio Non lo posso dimenticare
Collegio Iniziazione e Immatricolazione appunti per una lettura fenomenologica del rito
Don Luca Corona Dieci anni fa non esisteva l’immatricolazione. Meglio: non esisteva la parola “immatricolazione”. Coerentemente con la disciplina segreta, a cui hanno accesso solo gli iniziati, le proto-matricole non erano a conoscenza del rito (non se ne doveva parlare): né quando sarebbe stato messo in atto, né, ovviamente – e questo accade ancora oggi –, cosa avrebbe comportato. In questo articolo desidero mostrare la serietà di questo rito che tutti (o quasi) abbiamo compiuto e che a pieno titolo ci ha fatto entrare nella comunità mazziana e che, da un po’ di anni a questa parte, ha per nome, appunto, “immatricolazione”. Questo rito – non banale – s’inserisce nella più ampia gamma dei riti di iniziazione che ogni cultura ha ricevuto e ha contri-
buito a costruire. Parteciparvi dice la qualità dell’inserimento per chi lo organizza e la tenacia del desiderio di diventare uno del gruppo per chi si lascia condurre dentro. Per mostrare questa tesi presenterò le antropologiche caratteristiche generali di un rito di iniziazione e le confronterò col rito mazziano dell’immatricolazione (solo questo: della smatricolazione non è lecito [ancora] parlarne), tenendo comunque un tono non troppo preciso né troppo particolareggiato perché – come vedremo – il rito stesso prevede, per la propria riuscita, la disciplina dell’arcano e del non detto. Il concetto e la realtà di ciò che chiamiamo “iniziazione” affonda le proprie radici nella stessa antropologia e nella struttura sociale dell’uomo. L’iniziazione è una condizione universale dell’esistenza umana,
anche se assume diverse modalità e tipologie secondo i popoli e le epoche. Nella sua etimologia, il termine “iniziazione” significa introduzione, dal latino initium (= principio, inizio), che deriva a sua volta da in-ire (= entrare, avviarsi). Il termine suggerisce, quindi, oltre all’idea di iniziare, quella di introdurre qualcuno in qualcosa. Negli autori latini classici, si usa talvolta il plurale initia, che può significare “sacrifici misterici” o semplicemente “misteri”, l’insieme cioè delle cerimonie per mezzo delle quali si “entra” nell’associazione misterica, partecipando dei benefici che derivano da tale ingresso. Gli initia erano, nel senso religioso del termine, i riti che introducevano a una nuova condizione religiosa. Per una estensione del termine, nelle scienze storico-etnico-religiose, “iniziazione” indica allora un complesso
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di riti e insegnamenti, il cui scopo è quello di produrre una radicale modificazione dello stato religioso e sociale della persona che deve essere iniziata. Infatti, il candidato, al termine del procedimento cui è sottoposto, esce totalmente diverso, diventa un altro: l’iniziato è un essere trasformato. Gli studiosi delle culture antiche, anche se parlano di diversi sistemi di iniziazione, individuano, comunque, alcuni elementi più frequenti riscontrabili in ogni tipo di rituale iniziatico: t4JUSBUUBTFNQSFEJFOUSBSFJOVOHSVQQP già costituito, che possiede un progetto, una missione, una tradizione e un linguaggio simbolico. t -JOEJWJEVP NFEJBOUF J SJUJ EJ JOJ[JBzione, viene introdotto nel gruppo e nel possesso di ogni patrimonio di cui esso dispone. t 2VFTUJ SJUJ EBQQFSUVUUP JNQMJDBOP JM simbolismo di una morte e di una nuova nascita o rigenerazione. Il simbolismo della rinascita si presenta sotto forme molteplici. Così, ad esempio, i candidati ricevono altri nomi, che saranno da allora in poi i loro veri nomi. Con l’iniziazione tutto ricomincia di nuovo. t * SJUJ EJ JOJ[JB[JPOF TDPQSPOP HSBEVBMmente al candidato le nuove e vere dimensioni dell’esistenza. L’iniziazione equivale quindi a una vera rigenerazione e la si può considerare anche una maturazione. t 1BSUFDJQBOEP BJ SJUJ EJ JOJ[JB[JPOF MJOdividuo acquista una singolare identità rispetto ai non iniziati. In sintesi possiamo dire che l’iniziazione è un processo rituale che fa passare a una novità di vita in una comunità. Il processo rituale dell’iniziazione, poi, si compone generalmente di tre fasi: 1.
fase pre-liminare; 2. liminare; 3. postliminare. Cioè: riti di separazione, di margine e di ri-aggregazione. Cruciale è la fase liminare, di soglia, di margine che fa fare un’esperienza nuova. L’iniziazione, dovendo provocare un cambio radicale, assume il simbolismo del passaggio dalla morte alla vita. Nell’iniziazione, il morire viene messo in luce nel pre-liminare, che ha anche la valenza della prova col male radicale dell’uomo. In questa prima fase, si affronta simbolicamente, in anticipo, la prova esistenziale più radicale: la morte. La simbologia del morire, che nel rito si vive, è una immunizzazione verso il male radicale, è come un “essere curati dalla malattia del morire”. Qui s’impara simbolicamente (e quindi realmente) a vivere il distacco, ad accettare il rischio di essere adulto, ad affidarsi veramente a qualcuno e a un gruppo, ad accogliere un nuovo inizio che non si è capaci di darsi, un irriducibile sproporzionato rispetto a quello che si capisce. Questa la teoria e alcune ricadute antropologico-esistenziali. Cosa può dire a noi mazziani? L’immatricolazione mazziana ci sembra incrociare alcune (se non tutte) caratteristiche del rito iniziatico fin qui esposte. In un determinato momento… s’inizia individualmente – incitato dai più anziani – con un “percorso a ostacoli”, che anticipa il cammino tortuoso che la proto-matricola dovrà intraprendere durante la fatidica notte (anche questo è rilevante: non è un rito diurno!). Il buio è metafora della morte che va intensificandosi, così pure come le prove che in questa prima fase si sostengono, volte a demolire un modo di essere (individualista) inibendo alcune difese costituzionali. È una delle
Virtuosismo goliardico dei tempi del nostro Don Luca
fasi più acute, dove vengono tolte le certezze e se ne danno (poche) di nuove. Questo momento fa vivere un recesso rispetto alle convinzioni che si hanno. Serve per riportare a un punto zero, dove non ci sono appoggi. Serve per prendere consapevolezza e vivere il distacco (da casa, dalla famiglia, dagli amici d’infanzia…) e il margine senza arrivare subito all’aggregazione confortante del gruppo. È una fase che dura (e che è dura) e dove si rischia di più perché o si rimane “nel lutto” o si perde, dove non è scontato che avvenga la “ri-nascita”. Poi c’è una fase di decantazione, in un luogo più solitario (i riti preliminari prevedono il distacco, l’isolamento – per certi aspetti – riservato), di preparazione immediata, di immersione e di decisione nel proseguimento del rito davanti al gruppo degli “anziani”, in un’aula “magna”. Così, dopo il simbolismo della morte, arriva, nella fase liminare, quello della vita: il candidato è immerso nella luce, tipica metafora pasquale (nei primi secoli il battesimo era chiamato anche “illuminazione”). Luce che riscalda e comunica calore e pace, ma anche, per la sua intensità, abbacina e confonde. Non siamo ancora al vertice del rito, che invece giunge con l’autopresentazione e la consegna, l’imposizione del nome. Anche questo passaggio non è automatico, il candidato non può presentarsi autonomamente, deve accogliere i suggerimenti esistenziali che gli arrivano dai già iniziati. Solo così, fidandosi, scopre e riceve una nuova identità, simbolizzata, appunto, nel nuovo nome (alcune tradizioni [piani] però consegnano il nome in un momento successivo). Il rito non si conclude qui. Nella fase post-liminare, l’iniziato aspetta che tutti i candidati riescano nella loro impresa e, solamente al termine, la ri-aggregazione si visibilizza: si dà il via a un pasto fraterno nella condivisione di cibo e bevande, in un clima di distensione. La matricola ha ora accesso ai beni di tutti ed è capace, proprio perché ha vissuto il travaglio, di condividerli e di non crederli solo per sé. La matricola può ora vedere i suoi vecchi come compagni e non più estranei da cui difendersi. Così. vivendo diligentemente il rispetto per sé e i più attempati, per l’ambiente (il coffee che manterrà la memoria dell’evento), completerà la sua iniziazione confermando la propria adesione con un altro rito: la smatricolazione (anche il rito cristiano dell’iniziazione prevede un secondo rito: la confermazione o cresima). Queste sono solo piccole suggestioni, ma sono dell’avviso che il Collegio ha ben custodito la propria identità proprio nella attuazione di momenti come questo, che costruiscono cameratismo e creano prossimità. Concludo facendo i miei auguri alle matricole di ieri, di oggi e di domani, perché imparino sempre a dire a se stessi di essere capaci di esporsi a un iniziodono che non ci si può dare, come la vita.
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Collegio EX ALLIEVI NEL MONDO DEL LAVORO RACCONTANO LA LORO ESPERIENZA Andrea Vezzaro
Sono stato assunto nell’aprile 2012 presso l’Istituto Beata Vergine Maria, una scuola nata nel 1837 a Vicenza, la più antica della città berica, per volere delle suore dell’ordine di Mary Ward, le Dame Inglesi. Sono insegnante di lettere presso la scuola secondaria di primo grado: ogni giorno accolgo i miei pargoli in classe e cerco di trasmettere loro la bellezza delle materie umanistiche. Posso dirlo? Io amo il mio lavoro, perché ho avuto la fortuna di accedere all’occupazione per cui avevo studiato e per cui da sempre tendevo. Lavorare con i ragazzi è semplicemente una cosa bellissima: ti consente di confrontarti quotidianamente con loro, raccoglie le loro giovani idee sul futuro, cerchi di capire cosa faranno da grandi. Credo che questa sia la vera strada che un insegnate deve intraprendere se vuole veramente svolgere questa professione. Non si può aspettare che i ragazzi ascoltino e capiscano tutto: un insegnate deve avere l’umiltà di ragionare con la “testa” dei ragazzi, La Matricola D’Oro Matricola 1076207: a cena con estremo disappunto nota, aprendo la scatoletta di tonno che ha scelto come secondo, che il suo proposito di cena vegetariana è andato a farsi friggere. A questo punto vien da chiedersi cosa avesse di vegetariano la pasta con lo speck... Matricola 1049734: al concorso nota i banchetti davanti alla mensa e, adocchiando le pergamene: “Devo firmare qui per poter mangiare?” Matricola 1088579: scende a controllare se la lavatrice ha terminato il lavaggio e la trova in centrifuga. Chiede disperatamente aiuto ai compagni di collegio al grido di “Qualcuno mi ha rubato i vestiti!!”
deve semplificare e non rendere difficile il canale comunicativo quando deve trasmettere qualcosa. Un insegnante quindi deve tendere a essere un educatore: parola questa sicuramente molto impegnativa! Se c’è un insegnamento che l’esperienza del Collegio Don Nicola Mazza mi ha trasmesso, e che io sfrutto nella mia professione, è quella del dialogo con gli altri. Inoltre, e non sto certo scherzando, il fatto di aver realizzato durante il mio indimenticabile anno di presidenza dell’Assemblea 2009/2010 personalmente i vari verbali mi consente di continuare questa attività per i Consigli di Classe e per il Collegio Docenti Unitario. Anche perché qui sono la “matricola” dei prof, il più giovane tra gli insegnanti delle medie. Inoltre posso anche dire che la vena organizzativa, maturata proprio negli anni collegiali, continuo a svilupparla anche a scuola: gite e uscite didattiche organizzate (l’ultima alla Biennale di architettura a Venezia e la prossima al Museo Diocesano di Vicenza) così come i progetti sono diventati il mio pane quotidiano. Per concludere quindi due pensieri: il primo legato alla mia occupazione e il secondo al Collegio. Come dico sempre ai miei pargoli, amo così tanto la scuola che i miei genitori qui mi hanno accompagnato quando avevo 6 anni e poi non mi sono più venuti a prendere. Per il Collegio invece ho solo pensieri positivi: grazie a questa esperienza illuminante ho potuto intraprendere con uno spirito di grande passione questo mio lavoro come insegnante.
I(M)MATRICOLANDI poema che narra con immortali e struggenti versi la condizione della matricola Nicola Giannizzari e Zaccaria Fin
Cantami, o matricola, del tuo terrore, perché in questo posto non si conosce l'amore. Si riuniran tutti a guardar la gran festa, mentre sei intento a compiere gesta. Ora, o matricola, ascolta bene questi consigli affinché tu possa sfuggir da ciò che la Moira ha nel suo grembo viril. Quando il tempo verrà, apri gli occhi, non puoi sbagliar; volan di notte , meglio scappar, con queste creature non c'è da scherzar. Ma attenzione: non cominciate se non intendete finire, un solo mezzo per scomparire. Se badi agli altri, ma non a te stesso, un valzer di tuba ti imporrà : "Stai Flesso"! Non ti fidar del tuo amico di letto, non sarà più il tuo amico diletto. Ma tieni in mente, o matricola impertinente, che chi sta zitto non dice niente, chi sta impalato poi non cammina, chi va lontano non si avvicina, e chi si siede non resta più ritto, chi va storto non va diritto. Ed ora ,voi pecore , ascoltate cosa farete da accovacciate: non è caffè, non è gelato, una delizia per il palato se ad occhi chiusi verrà gustato. Dopo le ciance che affronterai, al nostro desco ti siederai.
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Cronaca OLIO DI PALMA Perché è dannoso? Va evitato? Perché fa male? Federica Bloise L’olio di palma è un olio vegetale saturo non idrogenato ricavato dalla palma; è il secondo olio commestibile più prodotto in tutto il mondo dopo quello di soia, infatti si trova in molti prodotti alimentari: biscotti, patatine fritte, taralli, cioccolata, sughi cotti e prodotti confezionati dei marchi più famosi come la Nutella Ferrero, il cioccolato Nestlé,… Il grande uso dell’olio di palma nell’industria alimentare di tutto il mondo si spiega con il suo bassissimo costo, che lo rende uno degli oli vegetali più economici sul mercato. Recentemente però questo olio è stato messo sotto accusa per alcune controindicazioni: dato il suo contenuto di acidi grassi saturi aumenta i fattori di rischio cardiovascolare. Da molti anni è stato accertato che i principali acidi grassi che alzano il livello di colesterolo sono proprio gli acidi grassi saturi, contenuti anche nell’olio di palma. L’olio extravergine di oliva invece, ha un alto contenuto di grassi insaturi, che aiutano a combattere il colesterolo cattivo. L’olio di palma inoltre può aumentare anche il rischio
di obesità, non solo perché questi grassi saturi vengono accumulati sotto forma di adipe, ma anche perché la circolazione nel sangue altera i normali meccanismi della fame, innalzando il livello di sazietà: ciò significa più fame, più abbuffate. Pur essendo largamente utilizzato nell’industria alimentare, l’olio di palma non è riconoscibile immediatamente: sull’etichetta dei prodotti viene spesso sostituito dalla dicitura “oli e grassi vegetali”, palmate, palmitate e palmeth. E’ importante quindi, prima di comprare qualsiasi prodotto alimentare, leggere l’etichetta degli ingredienti contenuti ed evitare quelli con olio di palma o oli vegetali vari. Purtroppo è difficile trovare prodotti senza olio di palma, soprattutto biscotti e dolci (sigh!). Ci sono però alcune marche che utilizzano olio extravergine di oliva, come ad esempio i prodotti Coop, alcuni prodotti Galbusera, Alce nero, prodotti Equo-Solidale che però hanno un costo più elevato. C’è ancora molta confusione però su questo ar-
“Vittoria” Un nome non sempre garante Michela Parutto La conobbi, quando? Da un anno serbo nella memoria un episodio tenero e infelice: avvolgendosi le ginocchia con il braccio sinistro, bruciava tempo su uno dei marciapiedecornicetta del Palazzo in cui seguivamo le stesse lezioni. Spingendo il mento verso l’alto soffiava lontano il fumo con fare borghese. Al contrario, quello sgradevole odore, cacciandolo con la mano infastidita sembrava volesse levarselo di torno. Ricorderò sempre Vittoria come una fontanella di contraddizione. Rideva e piangeva per la stessa ragione: un ventinove è motivo d’”allegrezza pieno”; ma è anche triste, perché non è trenta. “Miseria, Vittoria! Che lamenti?” la rimproverava infastidito Alessio. E lei afferrandolo per gli angoli della bocca e tirando forte diceva piano: “Ti odio, amore mio”. Non mi identificavo completamente con la sua incostanza. La mia aveva uno scopo, un obiettivo: risolversi. Lei di soluzioni non ne aveva. Non un arrivo felice.
Vedeva il giorno -ogni giorno- fine a sé stesso; un percorso ad ostacoli che, superati o meno, poco importava. Considerava la vita come un gioco alla staffetta, in cui il povero disgraziato a cui toccava condurre il testimone, non doveva disperarsi poi così tanto: alla prima occasione, di lì a pochi secondi il problema suo sarebbe diventato quello di qualcun altro. E in fondo è un po’ così che Vittoria perse sé stessa: fece indossare elegantemente la sua malinconia ad Alessio, alla sua famiglia, agli amici stretti… a me. Quella notte non dormii. Pensavo a lei e provavo uno sconsolante intreccio di tenerezza, fastidio e dolore. Non riuscivo a ragionare la sua egoistica decisione: privò i siti della sua abitudinaria e ormai necessaria presenza. Non poteva non comprendere quanto dolore, non solo a sé stessa, ma a tutti, tutti noi, avrebbero provocato quei noiosi fantasmi che strisciavano nella sua mente e le stringevano la gola. Vittoria, il nome te l’han dato persone che avevano fiducia nel tuo coraggio!
gomento. Una parte lo considera dannoso per i fattori elencati pocanzi, altri invece lo considerano in maniera positiva per l’elevato contenuto di precursori di vitamine A ed E oltre a sostanze antiossidanti. Parte della confusione deriva dal fatto che non sempre è chiaro di quale olio di palma si parli, ossia se del prodotto integrale (ha un alto contenuto di vitamine e sostanze antiossidanti, ma in Italia non viene utilizzato) o raffinato (privo quasi completamente di sostanze benefiche). Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’uso di questo olio potrebbe avere effetti negativi sulla nostra salute e sull’ambiente. L’aumento della domanda di olio di palma sta distruggendo la foresta pluviale per dar spazio a milioni di ettari di piantagioni di palme da olio. Tutto ciò ha portato alla distruzione delle foreste indonesiane e dell’habitat naturale di numerosi animali come gli oranghi del Borneo e le tigri di Sumatra. Vi invito perciò a prestare maggiore attenzione a ciò che compriamo e ingeriamo. Smettiamola di farci illudere dalle pubblicità il cui unico scopo è quello di promuovere prodotti a prescindere dal fatto che siano buoni o meno. Non basta far finta di niente; credo che nel nostro piccolo una minima azione, col passare del tempo e con una maggiore informazione, possa portare a grandi risultati. Ti abbiamo un po’ tutti sopravvalutata. Tra questi banchi i pettegolezzi ti sono tutti dedicati: chi ha una versione, chi un’altra, hai fatto parlare di te. “Povera, era una ragazza tanto buona!” ma non lo sei stata buona con te stessa. “Disponibile con tutti! non la conoscevo, ma le si leggeva in viso l’amore!” ma non ne provava neppure per sé stessa, perché a te avrebbe dovuto darne di amore? “Oh, Viky, non dovevi!” si legge su facebook da profili sconosciuti. Quelli che di parole non ne hanno più sono i veri tristi; quelli che “l’unica carta rimasta in campo è la preghiera”. È ancora più triste, no? Ancorarsi alla fede nel momento estremo, in assenza di altre soluzioni. Vittoria non aveva Fede. Non nelle sua persona, non nel suo vivere, non in Dio. La Fede. Quasi sicuramente l’unica strada che le avrebbe salvato la vita. Da una personale riflessione di un fatto recentemente accaduto.
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Racconti Tornare a scrivere questa storia dopo quasi quattro mesi è come fare ritorno in un luogo dove ho vissuto, ma da cui manco da molto tempo… I personaggi sono diverse da come me le ricordavo, persino la lingua è diversa da quella che ora mi sono abituato a parlare: ma quello che è sicuramente cambiato è la persona che viveva lì, che ha costruito quel mondo tra le pagine dei Nadir… Questa scoperta potrebbe fermarmi all’istante: potrei lasciar perdere questa storia, e abbandonarla come i tanti Edward mani di forbice che mi sono lasciato dietro durante la mia carriera di “scrittore”… La cosa strana delle storie inventate è che privarle dello stato d’animo che le avvolgeva è come togliere l’ossigeno a una fiamma: la storia perde il suo senso, non capisci perché continuare, ma… Ma, nonostante tutto, sono ancora convinto che sia una bella storia, uno dei sentieri più affascinanti attraverso i quali si è avventurata la mia mente. E, quindi, eccomi qui a continuare a raccontarvela.
Riassunto delle puntate precedenti: L’umanità si trova su un pianeta in un’altra galassia a combattere contro delle enormi creature aliene a cui nel corso della storia si farà riferimento con l’appellativo di Giganti. Il soldato semplice Bramir, caduto all’interno dell’occhio di uno dei Giganti, acquisisce il potere di viaggiare nelle dimensioni. Quando scopre che i Giganti sono coloro che portano la vita nell’universo, Bramir si rivolta contro l’esercito dell’umanità, ma viene catturato dal Generale Teogon, e rinchiuso allo scopo di fare degli esperimenti. Della storia di Flavia e del Cacciatore, non più determinante ai fini della storia, non dirò nulla: gli interessati a leggere le puntate precedenti mi possono contattare (meglio fare così che andarsi a cercare i Nadir precedenti, perché alcune cose le ho cambiate…).
Gigantomachia Parte settima
Angelo Balestra
Gli esperimenti del dottor Gabriel
“Bene, li avete trovati, allora…” “Si, Generale. La sua intuizione si è rivelata esatta: il campo di energia è stato sufficiente a imprigionarlo…” “Bene… Almeno i suoi poteri non contraddicono le leggi della fisica…” Il Dottor Gabriel era in piedi davanti al Generale, e il Generale stava seduto dietro la sua scrivania. Aveva un’espressione corrucciata, e il suo sguardo era perso in un punto indefinito tra due olografici sulle pareti dell’ufficio. Il Dottor Gabriel era immobile: dai lineamenti perfetti non traspariva alcuna emozione, soltanto dalla compostezza della sua figura si poteva indovinare la sua soddisfazione. “Che ne avete fatto di loro?” “Lei è stata giustiziata sul posto, mentre lui al momento si trova nell’acceleratore di particelle. Ci stiamo preparando per alcuni esperimenti…” Il Generale annuì piano. Sui suoi occhi scivolò un velo di tristezza, ma il Dottor Gabriel non se ne accorse. “Bene, Dottore… Ha fatto un buon lavoro, può andare…” Il Dottor Gabriel annuì, fece il saluto e retrocedette fino all’uscita dell’ufficio: ma quando fu sul punto di oltrepassare la soglia, il Generale la richiamò indietro. “Aspetti, Dottore…” Il Dottor Gabriel s’immobilizzò, si girò sorpresa e guardò il Generale. “Secondo lei ho sbagliato nel modo in cui ho gestito questa situazione?” “Si riferisce al caso del soldato Bramir?” Il Generale annuì. “Esatto… Forse avrei dovuto cercare di parlargli, e non imporre subito la mia autorità… In fondo era solo un soldato che aveva avuto un incidente… Credo che le cose sarebbero potute andare diversamente, se…” Il Dottor Gabriel scosse la testa con decisione. “Generale, l’unica cosa che lei doveva fare era comunicare al soldato Bramir il suo dovere nei confronti della missione.” Il Generale annuì tristemente. “Le mie decisioni… Dottor Gabriel, io ricopro il ruolo di Generale qui per via delle mie competenze, non perché ho preso il potere… Sono anch’io un ingranaggio di questo sistema. Io qui sono il padrone di tutto ciò che abbiamo costruito, ma da qualche parte nel mio cervello…” il Generale poggiò un dito sul cranio raso “anch’io ho dei nano-robot che leggono i miei pensieri…”. Il Dottor Gabriel lanciò al Generale uno sguardo cupo. “Generale, appunto per questo io eviterei queste conversazioni. Sono discorsi privi di senso, che servono soltanto a distogliere la nostra attenzione dal nostro dovere. Con licenza…” Il Dottor Gabriel retrocesse lentamente e uscì dall’ufficio: il Generale lo guardò scomparire, e il velo di tristezza si fece ancora più spesso sul suo viso. Appena il Dottor Gabriel uscì, l’ologramma di un soldato comparve al centro della sala: il soldato si mise sull’attenti e fece il saluto. “Salve Generale. Il Capitan Drugu ha richiesto di essere messo in contatto con lei” “Qual è il motivo?” “Sembra che siano state abbattute alcune aeronavi nei pressi della base numero due…” Quarto intermezzo – La vita su Kira “La creatura non ha esperienze visive o uditive concentrate in organi principali. Tuttavia l’epidermide ha una struttura davvero straordinaria: i peli del manto sono sensibili alla radiazione elettromagnetica in un range molto più ampio di quello dell’occhio umano, e sono in grado di rilevare le oscillazioni dell’aria che li circonda. In pratica, la creatura vede e ascolta con la propria pelle…” La creatura arrancava nervosamente all’interno della gabbia di cristallo. Faceva molta fatica ad avanzare: trascinava lentamente le zampe una davanti all’altra, mentre il petto si contraeva penosamente al ritmo di ogni respiro. Nonostante questo, il suo portamento era fiero, e da ogni suo movimento traspariva una determinazione ferrea: girava tra le pareti della prigione a testa alta, come se volesse sfidare coloro che la tenevano prigioniera. Aveva sei zampe, una lunga coda ambrata e qualcosa di felino nei tratti del volto. Non aveva né occhi né orecchie: il muso era sporgente, le labbra viola e sottili, semichiuse, attraverso le quali si riuscivano a intravedere milioni di piccoli tentacoli della stessa sostanza del manto. La pelliccia era dorata, e i lunghi peli oscillavano armoniosamente, come se fossero immersi nell’acqua, e aveva un corpo sottile, talmente magro che si riuscivano a distinguere le linee dello scheletro, o di qualsiasi cosa
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ci fosse sotto la sua pelle. “Vedo... E’ molto curioso che questa specie si sia evoluta così…” ribatté il Dottor Gabriel, mentre con gli occhi accompagnava la creatura lungo il perimetro della cella. Si trovava in uno dei laboratori sotterranei del satellite Kira. La stanza era ampia e poco illuminata: c’erano molte celle dov’erano rinchiuse bestie di ogni genere, e in un angolo un apprendista regolava l’ambiente all’interno delle gabbie e teneva sotto controllo le funzioni vitali degli animali. L’intero laboratorio si trovava in una delle caverne del satellite: le pareti erano di roccia viva, in alcuni angoli cresceva una muffa folta che oscillava come il manto della creatura, in altri macchie di azoto inumidivano la pietra e creavano degli aloni nerastri dai quali precipitavano piccole gocce azzurre a intervalli regolari. Kira era uno dei satelliti che orbitavano attorno al gigante gassoso Kallen: il pianeta, a sua volta, orbitava intorno ad una nana gialla distante una decina di unità astronomiche. Ben dodici dei satelliti di Kallen erano popolati da forme di vita aliene, e il Dottor Gabriel era la responsabile di un progetto che aveva l’obiettivo di studiare e classificare le razze che si erano sviluppate su quel sistema. In quel momento indossava una calzamaglia grigia che le copriva uniformemente tutto il corpo, e che diventava una maschera di cristallo sul viso. Stava valutando le analogie tra altre creature extra-terrestri e l’esemplare che aveva davanti: i profili genetici le scorrevano direttamente sulla superficie dell’occhio destro mentre consultava gli archivi della Coalizione*. “Aspira ancora un po’ d’aria dalla cella. Porta la pressione a 0.1 atmosfere” ordinò il Dottor Gabriel. L’apprendista eseguì, e quasi all’istante la creatura cadde in preda alle convulsioni: i peli presero a intrecciarsi tra di loro, e la pelliccia dorata si trasformò in un guscio squamoso di colore azzurro. Quando la crisi terminò, i peli si slegarono e il manto tornò dorato, finché nuovi spasmi non innescarono di nuovo il processo di metamorfosi e i peli divennero di nuovo squame azzurre. “Avete una spiegazione per questo fenomeno?” chiese il Dottor Gabriel all’apprendista, mentre osservava attentamente le trasformazioni della creatura. “Crediamo che si tratti di un meccanismo di difesa. Sulla superficie di Kira molti predatori cacciano emettendo dei gas velenosi per immobilizzare le loro prede: in queste situazioni varia l’ambiente atmosferico, la creatura si sente minacciata e s’innesca questo meccanismo di mimetizzazione. La superfice del satellite è completamente ghiacciata, quindi la creatura assume lo stesso colore del ghiaccio...” Il Dottor Gabriel annuì. “Che livello d’intelligenza le avete assegnato?” “Medio-alto. La creatura è in grado conservare ricordi a breve e a lungo termine e comunicare con i suoi simili attraverso un linguaggio.” “Che tipo di linguaggio?” “Comunicano con un meccanismo davvero ingegnoso, non sfrutta le onde sonore, ma la radiazione elettromagnetica. Queste creature sono in grado di creare e controllare un campo elettrico che accelera le cariche nei tentacoli della bocca, e variando l’intensità del campo costruiscono i segni di un vero e proprio alfabeto!” iniziò a dire l’apprendista, “e questo è davvero sensazionale: su questo pianeta la vita ha iniziato a comunicare attraverso le onde elettromagnetiche prima di averne coscienza. Queste creature sono in grado di comunicare alla velocità della luce in ogni parte del pianeta…” Il Dottor Gabriel spalancò gli occhi. “Affascinante. Sono senza dubbio gli esseri più evoluti sui satelliti di Kallen…”cominciò a dire, ma fu interrotto da una comunicazione che le percorse la retina: ammutolì all’istante, e i tratti del suo viso si contrassero in un’espressione stupita. “Scusami, devo assentarmi un attimo. Diminuisci ancora un po’ la pressione atmosferica e registrane il comportamento: prepara la camera operatoria, tornerò al più presto” disse, poi voltò le spalle alla creatura e uscì dal laboratorio. Percorse un corridoio stretto e angusto, dove piccoli globi di luce azzurra illuminavano le infiltrazioni di muffa nerastra, e intanto ripensava al messaggio appena ricevuto: un membro del consiglio voleva parlare direttamente con lei. Quale poteva essere il motivo? Che fosse a causa dell’esperimento su Rush? Arrivò all’ascensore ed entrò. Era uno squallido montacarichi color ferro, la ruggine digeriva lentamente gl’ingranaggi scoperti, e le pareti erano avvolte da una patina nerastra. L’ascensore la portò sulla superfice del pianeta. All’aria aperta, una valle azzurra s’impose nel suo campo visivo: pareti di ghiaccio alte più di mille metri circondavano l’entrata del laboratorio, e un vento impetuoso alzava una spessa nebbia bianca quando grattava i fianchi delle montagne. Da una sottile fessura si riusciva a scorgere un cielo indaco illuminato fiocamente da una stella lontana: il cielo era popolato dai satelliti vicini e dall’enorme Kallen, che con il suo immenso profilo riempiva quasi un terzo della volta celeste. Il gigante gassoso era arancione, tagliato da linee dorate e costellato di migliaia vortici: uragani e tempeste che infuriavano sull’enorme superfice. Il Dottor Gabriel iniziò a percorrere la distanza che separava il laboratorio dalla sua astronave. Durante questo percorso si dimenticò completamente della chiamata del consiglio e ritornò a concentrarsi sulla creatura: per qualche istante tentò di figurarsi il percorso evolutivo che aveva creato quell’essere magnifico. Ne era sicura, doveva trattarsi di qualcosa di unico all’interno della Via Lattea, una scoperta che poteva rivoluzionare le teorie della diffusione della vita nell’universo e dell’evoluzionismo generale… Mentre camminava la sua mente si perse nei labirinti regolari delle teorie scientifiche, e tornò al presente soltanto quando salì a bordo della sua astronave ed entrò nella sala comunicazione. Lì la aspettava l’ologramma di una donna calva dalla pelle bianca e liscia. Indossava una calzamaglia dorata e un panno rosso che dalla spalla destra gli cadeva fino sulle ginocchia, e stava seduta su una sedia di marmo. “Salve Dottor Gabriel” disse la donna. “Salve, consigliere Truman” rispose il Dottor Gabriel, e si mise al suo cospetto, le gambe divaricate e una mano stretta nell’altra dietro la schiena. “Nella scorsa riunione il consiglio ha discusso l’andamento della sua ricerca alla luce dei dati contenuti nell’archivio e dei commenti che alcuni suoi colleghi hanno espresso sul suo lavoro e sui suoi metodi. Lo sguardo del consiglio si è rivolto, in particolare, alla disdicevole evoluzione che ha avuto la sua ricerca sul satellite Rush…” “Prima che vada avanti mi permetta di dire che il satellite era soltanto parzialmente abitato…”, provò a dire il Dottor Gabriel, ma fu interrotto dal consigliere. “Conosco la vicenda nei dettagli, Dottor Gabriel, non c’è bisogno di alcun commento!” esclamò lei, sporgendosi verso il Dottor Gabriel e contraendo i lineamenti in un’espressione di rabbia. “Lei si è resa responsabile dell’estinzione di ogni forma di vita sulla superficie del satellite! A seguito di un’analisi dettagliata dell’episodio il consiglio ha deliberato che la soluzione migliore è quella di sospendere la sua attività di ricerca su questo sistema planetario, e di impiegare lei in una missione più adatta ai suoi metodi…” Il Dottor Gabriel impallidì. “Ma il satellite Rush è poco più di un asteroide! E’ quasi privo di atmosfera: la vita gli rimaneva aggrappata soltanto in una caverna sotterranea dove la combustione di un gas naturale creava l’ambiente adatto per la sopravvivenza di alcuni licheni! Mi sembra un’esagerazione accusarmi di essere responsabile dell’estinzione della vita su di un satellite, quando si è trattato di una colonia di poco più di un migliaio di esemplari…” “Non discuta con me, Dottor Gabriel!” sibilò il consigliere Truman “quello che accadeva sul satellite Rush era un fenomeno straordinario, eccezionale nella sua rarità… E lei, prelevando queste forme di vita e privandole del loro ambiente naturale ne ha causato per sempre la scomparsa!” Il Dottor Gabriel scosse la testa “Per me questa ricerca è molto importante, credo di aver trovato qualcosa di straordinario che…”, provò a dire, ma poi s’interruppe, digrignò i denti e guardò negli occhi il consigliere. “Settecento Croni fa gli esperimenti di Erich Miller causarono la morte di migliaia di esseri umani nei pianeti penitenziario**. Appena ottanta Croni fa un esperimento di Carlo Di Berna sulle stelle a neutroni ha causato la nascita di un buco nero che ha spazzato via il sistema planetario di Korg e le milioni di forme di vita che lo abitavano! A nessuno, tuttavia, è mai passato per la testa d’impedire a Miller di portare avanti i suoi studi, e Di Berna, oltre a continuare le sue ricerche su altre stelle, ha recentemente ottenuto una cattedra sulla Terra!” Il consigliere Truman la guardò freddamente. “Questi episodi non hanno nulla a che vedere con il suo caso. Ogni attività di ricerca è differente, e viene giudicata e analizzata con occhi diversi dal consiglio. E ora, Dottor Gabriel, non parli più: tra un Crono partirà per la Kepler-11, dove le sarà assegnato un nuovo incarico”. L’ologramma scomparve, e il Dottor Gabriel si ritrovò sola nella sala comunicazioni. Abbassò lo sguardo. Non poteva credere di essere stata sospesa: il suo lavoro, tutto quello che aveva costruito nel corso della sua vita, perso a causa di un problema burocratico… Uscì dall’astronave e prese la via per il laboratorio. “Quello che non sappiamo è una giungla, e se non vuoi perderti devi farti avanti a colpi di machete… Dovrei sentirmi in colpa per aver lasciato
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appassire un paio di licheni?”, pensava mentre percorreva di nuovo il corridoio tra le pareti di ghiaccio: dietro una crepa un essere simile a quello che stava imprigionato nel laboratorio mise fuori il muso per osservarla. Un lampo di luce azzurra zampillò tra i tentacoli del muso, ma il Dottor Gabriel non ci fece caso: gli lanciò uno sguardo colmo di disprezzo, poi raggiunse l’ascensore e sprofondò nel ventre del pianeta. Prima di entrare nel laboratorio si fermò un attimo: diede un pugno alla pareti di roccia viva, poi si ricompose e aprì la porta. La bestia era immobile sul pavimento della cella: non dava più segni di vita. “La sala operatoria è pronta?” “Si” disse l’assistente. “Bene… mettete la creatura sul tavolo”. Bramir si trovava in una bolla d’energia al centro dell’acceleratore di particelle***. Il campo in cui era immerso lo sollevava completamente da terra, e filtrava le sue percezioni: vedeva come attraverso un vetro appannato le pareti scure del tunnel, i campi magnetici ed elettrici, i soldati che camminavano al di fuori dell’acceleratore. Riusciva a sentire le temperature estreme cui erano tenuti i macchinari, e il suo sguardo correva nei circuiti e negli ingranaggi, e vedeva l’energia che poteva essere liberata dai generatori se solo…. In uno dei laboratori, il dottor Gabriel lo stava osservando: l’ologramma della bolla di energia volteggiava a mezz’aria al fianco degli olografici in cui erano contenute le informazioni riguardo alle sue funzioni vitali, attività celebrale, moti ed energie all’interno del suo corpo. Il laboratorio era una stanza molto piccola: era lì che venivano controllate tutte le attività all’interno dell’acceleratore, una specie di ponte di comando nel quale si aveva una panoramica su tutta la struttura. Al fianco del dottor Gabriel un tecnico regolava l’ambiente all’interno dell’acceleratore. “Riduci il volume all’interno della bolla d’energia”, ordinò il Dottor Gabriel. Il tecnico eseguì: all’interno della bolla Bramir s’irrigidì, e le labbra distrutte si piegarono in una smorfia di dolore. “Ancora…” ordinò il dottor Gabriel. Il tecnico lo guardò con stupore, poi abbassò lo sguardo ed eseguì gli ordini: fu allora che Bramir si smaterializzò. All’internò della bolla sembrava non ci fosse più nulla, ma quando il Dottor Gabriel azionò il rivelatore comparve a mezz’aria, al centro del laboratorio, un ologramma della bolla con miliardi di traiettorie rosse al suo interno. “Bene, crea un campo d’energia e fallo correre lì dentro…”. Il tecnico eseguì: creò un percorso che si estendeva lungo tutto il tunnel e lo collegò a quello in cui era contenuto Bramir. Le particelle sparirono dalla bolla all’istante, e iniziarono a fuggire lungo il percorso alla velocità della luce: in pochi decimi di micro-Crono Bramir descrisse migliaia di volte il perimetro dell’acceleratore, mentre il Dottor Gabriel osservava le immagini delle traiettorie, valutava l’energia cinetica delle particelle e le reazioni che c’erano quando si urtavano tra di loro. “Bene, basta così… riportalo al centro” Il tecnico annuì, e il flusso di particelle fu nuovamente incanalato nella bolla: lì, il corpo di Bramir prese forma.
L’ira di Bramir L’ologramma si trovava al centro dell’ufficio del Generale, e ne occupava più di tre quarti. La barriera di nuvole grigie e dorate si stendeva poco al di sotto del soffitto: lampi violetti guizzavano regolarmente dalle nubi e illuminavano le tre aeronavi che volavano al centro della scena. Le aeronavi avanzavano a velocità uniforme, e l’obiettivo che le riprendeva le seguiva nel volo: l’unica cosa del paesaggio che mutava erano i confini del deserto che s’intravedeva in lontananza, migliaia di metri sotto i veicoli. D’un tratto, al di sopra dell’aeronave più a destra, una nuvola esplose con fragore, e un oggetto si lanciò in picchiata verso le navi: sembrava che un pezzo di cielo si fosse staccato come una valanga dalle nuvole e precipitasse fumando verso il suolo. Quando fu a una decina di metri dall’aeronave più vicina lo strano oggetto spalancò quattro ali nere e lucenti, un becco terroso e verde esplose in un grido stridulo e una delle aeronavi fu stritolata dai suoi artigli. Le altre due aeronavi si dispersero all’istante, e uscirono dell’ologramma. Poi l’immagine sfumò, e la figura del Capitano Drugu comparve al suo posto. “Le aeronavi non hanno avvertito la presenza del Gigante prima dell’attacco?”, chiese il Generale Teogon, con lo sguardo ancora nel punto in cui il Gigante aveva afferrato l’aeronave. “No, Generale. Doveva esserci qualcosa a schermarlo, poiché nessuno radar ha avvertito la sua presenza prima che venisse fuori”, rispose il Capitano. Era sull’attenti, e teneva lo sguardo dritto davanti a se, oltre le spalle del Generale Teogon. Il Generale iniziò a percorrere l’ufficio a grandi passi. “E’ evidente, ormai…” disse sottovoce. Il Capitano non fece domande, ma posò sul Generale uno sguardo incuriosito. Il Generale si fermò e lo guardò negli occhi. “Si stanno organizzando, Capitano”, disse a mezza voce, “si riuniscono sempre più spesso, e in gruppi più grandi: ormai è quasi impossibile trovare esemplari isolati. E ora uno di loro attacca le nostre navi durante una missione di ricognizione… Che ne è stato delle altre due aeronavi?” “Una ha cercato di affrontare il Gigante, l’altra ha tentato di ritirarsi verso la base. Sono state abbattute entrambe, Generale: non c’è stato nulla da fare per nessuno dei componenti degli equipaggi…” Il Generale annuì gravemente, poi tornò a sedersi. “Si stanno preparando alla guerra…”, disse il Generale: e nel momento in cui pronunciava quelle parole, una scossa sismica percorse la base numero 3, e le comunicazioni con il capitano Drugu s’interruppe all’istante. Il campo d’energia dove si era appena riformato pulsava piano, e delle scariche bianche lo percorrevano lentamente. Non poteva attraversarlo, ma riusciva a percepire i macchinari che correvano attorno al tunnel dell’acceleratore, i soldati che percorrevano i corridoi della base… Il campo lo immobilizzava completamente, sentiva forte la pressione sul suo corpo, gli premeva sul petto, sul volto, sul moncherino… Da qualche parte, nella base, il Dottor Gabriel si consultava con un tecnico, valutava le traiettorie che le sue particelle avevano descritto all’interno dell’acceleratore, progettava altri esperimenti per studiare i suoi poteri... Avevano ucciso Flavia. Quei bastardi le avevano sparato, mentre lei boccheggiava su un atollo sulla schiena del Gigante, in una pozza di liquido amniotico e frammenti di vetro… E lui non era riuscito a salvarla. Il campo d’energia gli toglieva il fiato. Stava come in una bara, sentiva il suo corpo carbonizzato sgretolarsi, cenere nei suoi polmoni, una polvere spessa e cancerogena si opponeva al suo respiro, la morte si faceva strada nei suoi pensieri come un’infezione… Flavia era morta… Morta… Che paura assurda e irrazionale… Se la vita avesse avuto una percezione diversa del morire, tornare materia inanimata, allo stesso livello di rocce, montagne, dell’esistenza che non sa di esistere, non sarebbe dilagata fino a quel punto. E ora il corpo di Flavia giaceva senza vita sulla schiena del Gigante-Granchio, e iniziava lentamente a decomporsi, digerito dai batteri e dai vermi che sopravvivono a quest’atmosfera, su questo pianeta… e presto anche a lui sarebbe toccato un destino simile. Mancava poco alla fine… Lentamente estese il raggio delle sue percezioni, e la sua coscienza dilagò nella base e oltre i suoi confini: passò attraverso le pareti dell’acceleratore di particelle, attraverso i corridoi della base, le camerate dei soldati, i luoghi dove si allenavano, poi le cabine di pilotaggio, gli uffici dei maggiori di grado, e infine uscì all’esterno, sulla superficie del pianeta… Quando entrarono nel campo visivo della sua mente, Bramir ebbe un sussulto. “Stanno arrivando!”, pensò. In quell’istante, una scossa sismica percorse la base numero 3: le pareti e i corridoi tremarono, e ombre enormi sorsero all’orizzonte! Otto Giganti percorrevano il deserto fuori dalla base numero tre, marciavano per distruggere i profanatori della loro terra:
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alcune aeronavi si alzarono in volo, ma furono presto stritolate dalle loro dita di roccia. Arrivarono all’aeroporto principale: prima che le navi da guerra avessero il tempo di decollare un Gigante dalla forma di un enorme ragno si lanciò sulla cupola bianca e distrusse l’edificio. Gli altri sette si disposero lungo il perimetro della base, e iniziarono a scavare nella terra, smembrando piano per piano la base sotterranea: un braccio di roccia sfondò la parte superiore dell’acceleratore di particelle e oltrepasso il campo d’energia che imprigionava Bramir: grigio, coperto da una peluria verde simile al muschio sui tronchi degli alberi, il braccio piegò il metallo e spazzò via tutto quello che c’era nell’acceleratore di particelle. Nel momento in cui il braccio di roccia attraversò il campo, Bramir si smaterializzò: attraversò a ritroso la carne del Gigante, scorrendo nei reticoli cristallini dei sui muscoli come un fiume in una caverna sotterranea, e infine si materializzò sulla sua spalla! Era libero! Mentre un’ondata di gioia gli riempiva il petto, le sue percezioni volarono sulla battaglia che si stava scatenando: stringendo tra i pugni cumuli enormi di detriti, i Giganti si facevano strada scavando nella terra, e le corazzate che erano riuscite a sfuggire alla furia distruttrice gli ronzavano attorno senza sosta, bombardandoli con cannoni ad antimateria e missili atomici, come mamme aquila che cercano disperatamente di scacciare i predatori che distruggono il loro nido, che si nutrono delle loro uova… Bramir non poteva non sentirsi euforico in mezzo a quello spettacolo di distruzione, e in un lampo gli venne voglia di partecipare! Espandendo le sue percezioni oltrepassò il muro di nuvole nere e dorate, e intercettò tre meteoriti in rotta di collisione con il Pianeta: la sua bocca si deformò in un ghigno, una furia omicida e irrazionale gli crebbe dentro, e mentre ogni molecola del suo organismo gridava vendetta, Bramir si smaterializzò. Comparve un istante dopo sulla superficie incandescente del meteorite più grande: fece scorrere le stringhe dentro la roccia, e quando ebbe il controllo su tutta la massa rocciosa si smaterializzò di nuovo. L’onda d’urto assordò tutti gli esseri umani: il meteorite comparve sopra una delle corazzate, e mentre iniziava a creparsi per l’impatto con l’aria si abbatté inesorabilmente sulla nave da guerra. L’esplosione riempì il cielo di fumo nero, e attirò persino l’attenzione dei Giganti: anche Bramir, teletrasportatosi di nuovo sulla spalla del Gigante, si godeva sorridendo l’esplosione della corazzata, immaginando il Generale Teogon contorcersi tra le rovine della nave in fiamme. La corazzata precipitò in un inferno di fuoco: quando cadde al suolo, Bramir raccolse gli altri due meteoriti, e la sua ira si scatenò contro altre due corazzate. Il Generale Teogon guardava la battaglia dalla corazzata più lontana: stava davanti a una delle vetrate principali, con le gambe divaricate e la testa alta, stringendo in una mano il polso dell’altra dietro la schiena. Quando anche la terza corazzata fu abbattuta dalla furia di Bramir, distolse lo sguardo, si voltò verso il pilota e disse: “Ordina alle navi di ritirarsi: facciamo rotta verso la base numero due” “E il resto degli uomini?” domandò il pilota stupito. Il Generale lo guardò gravemente, poi distolse lo sguardo e si allontanò dalla vetrata. Note per i lettori del passato: *Il cervello del Dottor Gabriel è dotato di un’appendice robotica costituita di cellule artificiali, regolate da un sistema fuso con la struttura del suo stesso DNA. E’ come un prolungamento delle sue funzioni cognitive, che agisce sul “pensiero automatico” dotandolo un’intuizione più veloce e una potenza di calcolo maggiore, e amplia il “pensiero cosciente” permettendo al dottore di avere accesso ad archivi di dati e migliorando la memoria sia a breve sia a lungo termine. Inoltre l’appendice collega il suo cervello (e quindi le sue idee e i progressi della sua ricerca) direttamente con quello dei suoi colleghi sulla Terra e sugli altri pianeti, di modo che essi possono accedervi grazie alla rete galattica che percorre tutti i pianeti della Coalizione. È una funzione di cui, ormai, sono dotati tutti i ricercatori, che permette lo scambio istantaneo tra pareri scientifici e dati anche tra sistemi planetari distanti migliaia di parsec. ** Per condurre i suoi esperimenti sulla struttura del cervello umano, Erich Miller si trasferì per decenni sui pianeti penitenziari dove venivano deportati coloro che si macchiavano di reati gravi all’interno della Coalizione. Lì ebbe modo di disporre di una gran quantità di cavie per i suoi esperimenti, che dopo più di vent’anni di ricerca lo portarono a mappare completamente la complessa struttura del cervello umano, e i meccanismi con i quali vengono generati immagini e pensieri, e a descriverli attraverso un modello matematico. *** L’acceleratore è un anello che gira attorno alla base numero tre: il diametro della sua sezione è di 25 metri, ed è utilizzato principalmente per creare l’antimateria, la principale fonte d’energia delle navi da guerra e della base.
$QJROR)LORVR¿FR L’essere umano, la rete, la ricerca di se... Luca Terenzi “A cosa stai pensando?”. È questo l’incipit con il quale il popolare social network, Facebook, dischiude le proprie bacheche ai suoi utenti. E questa, evidentemente, è solo la prima grande domanda, che segna però il passo a tutte le altre, distribuite in maniera silenziosa e docile in tutta l’interfaccia del social network. Perché chi entra in Facebook non fa che rispondere ad una sconfinata serie di delicate domande poste dalla grande rete-senza-testa, semplicemente attivando l’uso del proprio mouse. Ogni visita di pagine e profili, ogni “mi piace” distrattamente scivolato dall’indice al mouse, ogni “partecipazione” ad un evento, l’inserimento di foto (tutte azioni nate dall’interesse individuale, dal desiderio di dare forma alla situazione in cui si sta vivendo), sono inconsapevoli risposte a consapevoli domande. Sono comunque informazioni abilmente raccolte dalla rete-senza-testa, nel suo segreto e implacabile movimento
di tessitura e di raccolta. E, sullo sfondo, un solo grande imperativo, intuitivamente riferibile alla sopracitata domanda: dimmi chi sei. Dimmi chi sei, esprimi te stesso, dai forma alla tua persona, manifestati, renditi visibile, apprezzabile. Dai voce al tuo pensiero, condividi il tuo ideale, genera la verità di te stesso. E fai tutto ciò perché io, rete-senza-testa, ho una dissennata sete di informazioni, io ho bisogno di sapere chi sei. Inutile dubitare sui motivi e le cause di questa insana sete di informazioni: è evidente che la grande ditta di comunicazione informatica ha il titanico potere di trasformare ogni informazione in merce, producendo così oceani di merci, e oceani di ricchezza. Ma non mi soffermo ora sull’analisi di questi meccanismi, per la quale sarebbe necessario uno studio e una precisione che ora non possiedo. Scelgo piuttosto di tornare alla domanda: dimmi chi sei. L’individuazione di questa domanda ci permette di inscrivere il famoso social network, e assieme ad esso,
tutti gli altri grandi social network diffusi nella rete, nel vasto mondo di quelli che chiamerei “generatori di identità individuali” (per comodità, permettetemi di citarli, da ora in poi, con la sigla: GII). Si tratta di strutture o istituzioni che, con finalità diverse, intendono costruire l’identità dell’individuo, assegnandogli un posto all’interno di una struttura sociale, giuridica, di mercato, etc... Il GII dà vita ad una dialettica di domanda e risposta con l’ essere umano intercettato dal suo occhio. Ogni risposta, data più o meno inconsapevolmente, permette al generatore di costituire la verità dell’individuo. Si costituisce quindi un profilo (subdolo consiglio della rete-senza-testa: “costruisci tu il tuo profilo... rendendolo più conforme alla tua personalità!”), codificato da indicatori standardizzati, utile al generatore di identità (istituzione o struttura che sia) di risalire in poco tempo alla verità di quel soggetto, una verità funzionale ad uno scopo preciso. Nel caso del nostro social network, diversi sono gli indicatori che captano il sogget-
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to: le sue preferenze, le attività quotidiane, i suoi interessi, la sua storia passata, le amicizie, le espressioni e i commenti... Dimmi chi sei, e io potrò costruirti la tua verità!, bella e impacchettata. Informazioni funzionali a produrre ricchezza. È evidente che non tutti i generatori di identità individuali operano in modo neutrale. Molte delle verità generate da questi operatori risultano invasive, inserendosi all’interno della concezione e della consapevolezza che l’individuo possiede di sé. (In altre parole: “io sono quello che tu mi hai detto essere”). Tra questi, mi sentirei di inserire proprio il famoso social network di cui ho fatto menzione sopra. Quanto il profilo-facebook diventa uno specchio deforme o ideale di un utente? Pensiamo ad esempio ai fiumi di narcisismo, commiserazione, spettacolarizzazione di sé che ogni giorno vengono riversati nella rete. E a come l’utente possa potenzialmente costruirsi un ego alternativo, piacente, asettico, decisamente più adatto al vivere sociale di quanto non lo sia il suo impacciato, corporale, pauroso e passionale essere uomo. Responsabilità dell’utente, certo, ma per metà responsabilità delle fila viscose della rete e di chi le tesse. È evidente che questo non costituisce un motivo assolutamente valido per scegliere di non utilizzare questo strumento. Non è mia intenzione dissuadere i lettori dall’utilizzo del social network. Come ogni strumento, esso è per una buona parte in potere dell’essere umano che lo sceglie, e il buon uso dipende dalla capacità di rapportarsi ad esso con lucidità e abilità pratica. Ed è proprio questo il punto. Scarsa è la lucidità, e abbondante la tendenza ad affidarsi ciecamente allo strumento, in cerca di redenzione. Sembra che oggi
Logo del noto Social Network
(ma forse non solo oggi... ogni epoca ha i suoi generatori di identità!) l’essere umano abbia la fosca tendenza a demandare la costruzione della “verità di sé” ad una sconfinata serie di GII, tra i quali spiccano appunto i social network. E questo, mi sembra, per una distorta concezione del tempo e del proprio essere al mondo e, assieme a queste, per una condizione storica complessa. Ma sospendiamo per un attimo la domanda attorno all’oggi, e concentriamoci invece su una questione, che a questo punto sembra essersi fatta pressante: di cosa parliamo quando diciamo: “costruire la verità di sé”? Per tentare di rispondere a questa tagliente e pericolosa domanda mi permetto di far riferimento ad alcune delle esperienze storiche, convalidate dagli uomini, nelle quali si sono realizzati processi di costruzione di verità del sé, inteso qua come un processo, e non come cosa astratta. Nella storia umana sono fiorite innumerevoli vie di costruzione della verità del sé: nel grembo delle grandi religioni, all’interno di tradizioni spirituali e culturali, nel ribollire degli ideali politici e comunitari. Le vie che suggerisco ora (sintetizzando e semplificando in modo quantomeno rozzo!), sono parallele, opposte o complementari. In ogni essere umano esse si intrecciano o si contrastano. Chiamerei la prima via, via speleologica. La verità del sé è un tesoro prezioso racchiuso entro le profondità di se stessi, e si richiede al soggetto di compiere una “spedizione speleologica” all’interno delle proprie grotte e caverne, per ricercare tale tesoro. La spedizione consiste in una vasta serie di esercizi di interiorità, nel quale il soggetto si sperimenta, sonda le proprie paure, le proprie radici, i valori che lo costituiscono, e infine le relazioni che lo fanno esistere. Talvolta accade che non vi sia nessun tesoro racchiuso nelle caverne della soggettività, e che la spedizione in se stessa abbia fatto fruttare una “verità del sé”. Mi sembra di poter esemplificare due esempi di vie speleologiche: la via dell’ascesi cristiana, in particolare della mistica cristiana, nella quale la verità è custodita nel grembo della divinità. La seconda è invece costituita dalla psicanalisi, la speleologia laica
dell’occidente. In entrambi i casi la spedizione prevede che il cammino non sia completamente solitario (anche se le regioni più interne del sé sono visitabili solo uno alla volta!), e che vi sia invece l’accompagnamento di un maestro o di una comunità. Chiamerei la seconda via, via artigianale. La verità di sé è un’opera d’ artigianato, frutto di un lavoro di precisione, che il soggetto compie su se stesso, limando o aggiungendo a quel materiale, più o meno informe, costituito dalla personalità. Si tratta quindi di un lavoro certosino, senza soste, demandato spesso alla responsabilità del solo soggetto. Una verità da costruire attraverso scelte, nella coltivazione dell’amicizia; nella scelta del ritiro dal caos della società o nell’immissione in essa attraverso un ruolo, politico o artistico; nella individuazione di uno stile, interiore ed esteriore. Mi sembra di poter individuare, a livello storico, l’apparizione di tale via nei movimenti artistici e culturali del ‘900; nelle ideologie politiche; nel flusso erotico e spirituale dell’amor cortese e della tradizione trobadorica medievale. Emblematica, tra tutte, è una figura: quella dell’artista. L’artista dà forma alla verità del sé fuori e dentro la sua soggettività. Fuori, generando l’opera d’arte, dentro, costituendo gli ingredienti tecnici e passionali che sono condizione d’esistenza della sua creatività. Infine mi sembra di poter identificare nella terza la via della perdita. La verità del sé non è un qualcosa o un qualcuno, ma è la perdita progressiva di blocchi di sé, a favore della realtà circostante, del benessere proprio e altrui. Il soggetto si costituisce svuotandosi, eliminando incrostazioni, generando il silenzio interiore, appiattendo i flussi caotici che si sovrappongono al vivere quotidiano, lasciando spazio agli esseri che lo circondano, facendo fiorire l’empatia e la compassione. Credo che due siano le forme storiche che manifestano questa via. La prima, più antica, è quella della meditazione. Meditazione buddhista e, in forme più religiose e arcaiche, induista. Il soggetto si dissolve lasciando cadere le strutture che lo riempiono (i pensieri, che sono spesso preoccupazioni, spinte o forme generate dalla paura), e fiorisce al difuori nell’esercizio della compassione. La verità del sé è dunque un vuoto fertile di vita. La seconda forma è costituita dall’esercizio dell’empatia (mi sembra la traduzione più interessante per il termine greco: agàpe), della carità, della giustizia. Di origine biblica, tale esercizio si è reso più organico nella predicazione di Gesù di Nazareth. “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.” (Mt. 16, 25). Il soggetto non è chiamato a spendersi per generare qualcosa dentro di sé, ma è decentrato: il centro sta nel prossimo, vicino o lontano. Nella sensibilità veterotestamentaria ed evangelica il vicino, costituito dall’ultimo, dallo scarto, dal misero, è teofania: presenza divina. Il decentramento, la perdita di sé, lo svuotamento sono garanzia di verità e di fioritura nella vita. Come già detto sopra, l’individuazione di queste “tre vie” è un mio volontario atto di selezione di alcuni fenomeni ed espressioni storiche che meriterebbero ben altre analisi, e che difficilmente si prestano a semplificazioni o sintesi di questo tipo. Obiettivo ultimo di questa operazione è stato quello di suggerire degli esempi concreti di “costruzione della verità di sé”. Ed è ora, quindi, di tornare all’oggi, con le sue pene e le sue inaspettate aperture. Si diceva sopra di come sia divenuta infaustamente manifesta la tendenza a demandare i processi di costruzione del sé. I motivi sono molteplici, ma credo che possano essere ricondotti, come già fatto trapelare sopra, ad una mala gestione del tempo, legata a doppio filo a una conseguente concezione della vita. Guardiamo all’oggi e domandiamoci: c’è effettivamente la possibilità di fermare i movimenti disordinati che l’essere umano compie per “rimanere a galla” nella società? C’è la possibilità di selezionare il tempo, discernendone lo spazio del lavoro, della carriera, dell’amicizia, dell’impegno attivo, del gioco... della “costruzione di sé”? Esiste l’occasione di confrontarsi, tra essere umano ed essere umano, sulle pratiche e le strade individuate per generare una vita bella e buona? Sulle strade che possano permetterci di assaporare qualche deliziosa goccia di felicità? Ovviamente la risposta non è solo negativa, ed è importante lasciar cadere nel vuoto il gracchiare degli annunciatori di sventura. Il mondo di oggi, con la sua multiformità, i nuovi confini globali, la mescolanza pregna di diversità ci stimola a dare forma a nuovi cammini di costruzione di sé. Nel contempo, però, è bene meditare sui segni indelebili lasciati dai nuovi generatori di identità, per non trovarsi impreparati davanti al loro impaziente filare. E non lasciare alla sibillina domanda: “a che cosa stai pensando?” , della rete-senza-testa, il delicato e prezioso compito di costruire il senso e l’orientamento di una vita.
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$QJROR)LORVR¿FR Schopenhauer per una lettura del “Paradosso della tragedia”
Federico Paniz Con la tragedia e il suo paradosso si sono confrontati molti filosofi e pensatori: ne fa accenno Platone nel dialogo sullo stato quando mette in atto la sua critica ai poeti e Aristotele ne concede ampia trattazione nella Poetica; ma questa tematica non ha lasciato indifferenti anche alcuni pensatori dell’età moderna del calibro di Burke, Hume, Nietzsche. In generale questi ultimi sono accomunati dal ritenere che tale paradosso esiga una spiegazione. La formulazione più celebre e nota del paradosso della tragedia è quella architettata da David Hume (“The spectators of a well-written tragedy get from it sorrow, terror, anxiety; (…) and they get pleasure from this! It’s hard to understand.”) 1 , che si può riassumere in tre enunciati fondamentali: 1. Molte persone provano piacere nell’assistere ad un’opera tragica; 2. la tragedia rappresenta azioni che suscitano emozioni negative quali ansia, paura ecc… 3. generalemente queste stesse persone che provano piacere ad assistere ad una tragedia evitano nella loro vita reale le situazioni negative, che incutono paura e terrore. Schopenhauer rappresenta un’eccezione in quanto imposta il discorso impiegando una categoria particolare in estetica: il sublime. Nel presente elaborato si introdurrà, in breve, la concezione estetica di Schopenhauer; si passerà ad esaminare il pensiero di Schopenhauer in merito alla tragedia; successivamente, poiché egli imposta il discorso sul paradosso della tragedia lavorando con la categoria estetica del sublime, l’attenzione si sposterà in particolare sulla centralità e sulla problematicità del concetto di sublime che emerge dalle riflessioni schopenhaueriane, su come egli descrive ciò che accade durante la visione di un’opera tragica e come egli risolve il paradosso della tragedia. Infine verrà mossa una piccola obiezione. 1. Concezione estetica di Schopenhauer In questo paragrafo si esporranno i concetti base dell’estetica di Schopenhauer. La lettura di tale paragrafo risulta essere essenziale, come introduzione, per meglio comprendere le riflessioni che si troveranno nel corso della breve trattazione. Nel libro III del “Mondo come volontà e rappresentazione” Schopenhauer espone le sue riflessioni in merito all’esperienza estetica. L’idea di fondo è che nel corso di tale esperienza il soggetto superi la propria individualità: cessa di essere un individuo, si distoglie dal principium individuationis, dalla volontà, e diviene soggetto puro della conoscenza, , che si perde totalmente nell’oggetto da lui contemplato e perviene alla conoscenza dell’Idea; conoscenza che è svincolata dal principio di ragione, che, di norma, è presente nelle relazioni tra l’ individuo conoscente e la cosa particolare da lui conosciuta. Tanto che, scrive Schopenhauer, “l’individuo come tale conosce solo cose particolari; il soggetto puro del conoscere solo idee” 2. Ed è questo il valore dell’esperienza estetica: il distogliere dal principio di individuazione e il permettere di divenire tutt’uno con il mondo, con l’oggetto contemplato (“chiaro specchio dell’ogget-
to”3), indipendentemente dal fatto che essa sia suscitata da un’opera d’arte, oppure che sia provocata direttamente dalla contemplazione della natura e della vita. L’esperienza estetica si configura con un carattere unitario, poiché il piacere estetico è essenzialmente uno ed identico, qualunque sia l’oggetto contemplato. Le riflessioni di Schopenhauer si riferiscono principalmente alla bellezza: gli oggetti belli offrono l’opportunità di questa transizione (da individuo a soggetto puro della conoscenza) perché la loro percezione, stando a quella che è una concezione tipicamente settecentesca (si pensi a Kant) per la quale la visione estetica è disinteressata, non provoca l’intervento della volontà. Quindi; si può notare come due sono i concetti fondamentali che emergono dalle argomentazioni di Schopenhauer: 1) questo tipo di esperienza comporta un processo di de-individualizzazione del soggetto; 2) essa è unica, nella misura in cui non dipende dagli oggetti e dagli stati di cose che la producono. 2. La tragedia Entriamo ora nel vivo della trattazione sulla tragedia. “Essenziale per la tragedia è solo la rappresentazione di una grande sventura” 4 Così Schopenhauer definisce primariamente l’opera tragica; una rappresentazione altamente poetica che porta sulla scena una grande sventura: la parte terribile della vita, il dolore, lo strazio dell’umanità, il trionfo del malvagio, la caduta dei giusti e degli innocenti, il dominio di un cieco destino… Molteplici sono i modi che i poeti hanno utilizzato per introdurre questa grande sventura, l’elemento essenziale della tragedia; secondo Schopenhauer essi possono essere sussunti sotto tre specie di concetti. Infatti, la sciagura può darsi 1. per effetto di una grande malvagità; è questo, ad esempio il caso di Iago nell’Otello di Shakespeare; un elemento che emerge dalla tragedia menzionata è per l’appunto la natura della malvagità del personaggio: Iago è troppo cattivo, coltiva un desiderio di vendetta che appare enormemente sproporzionato rispetto al torto che ha subito, la sua viene a definirsi come una malvagità gratuita. Un simile carattere appare distante da chi legge o assiste al dramma, sembra presentare delle caratteristiche che non possono sussistere nel mondo reale. 2. per effetto di un destino cieco, e di un errore; secondo Schopenhauer questo è il caso della maggior parte delle tragedie antiche. Il protagonista agisce secondo una necessità imposta dagli dei, da un destino cieco e spietato che lo porta inevitabilmente e forzatamente all’errore e alla sua drammatica caduta. È il caso, per citarne uno, dell’Edipo re di Sofocle, che mette in scena l’enigmaticità della natura umana, i suoi oscuri rapporti con l’orizzonte divino, con il destino e l’errore fatale dell’uomo che vuole conoscere andando oltre i limiti del proprio intelletto. 3. come “semplice posizione reciproca dei personaggi”, conseguenza dei rapporti che essi instaurano tra loro: non è dunque necessario introdurre nella trama un grave errore oppure un carattere estremamente (quanto
incredibilmente) malvagio. Secondo Schopenhauer quest’ultima è di gran lunga la via da preferirsi, in quanto mostra come la sventura possa tangere ciascun uomo, nella sua quotidianità, in ogni momento della vita; rappresenta sulla scena, in un mondo fittizio, ciò che può accadere concretamente nel mondo reale, nei più banali e semplici rapporti relazionali tra le persone. La sciagura quindi viene a caratterizzarsi non come “un’eccezione, non come qualcosa che sia cagionato da circostanze rare o da caratteri mostruosi, bensì come qualcosa che risulta facilmente e da sé, quasi come essenziale, dall’agire e dai caratteri degli uomini, portandolo appunto perciò terribilmente vicino a noi” 5. Questo tipo di tragedia fa comprendere a ciascuno spettatore, nella sua individualità, come le forze distruttrici della felicità e della vita che vedono rappresentate sulla scena non siano un qualcosa di estraneo o distante da loro, da cui eventualmente è possibile facilmente fuggire; ma, al contrario, rende lapalissiano come tali forze facciano essenzialmente parte dei loro comportamenti e delle loro azioni. Quindi: la tragedia coinvolge direttamente l’individuo, rende partecipe la sua soggettività, la sua individualità. Stando così le cose Schopenhauer sembra mostrare un punto di incoerenza per quel che riguarda la sua concezione dell’esperienza estetica: in primo luogo perché aveva precedentemente sostenuto che in essa l’uomo dimentica la propria individualità, salvo poi, nell’esperienza dell’opera tragica, far emergere il carattere dell’individualità come qualcosa di centrale, di fondamentale. Nella tragedia, infatti, la volontà individuale risulta essere coinvolta. In secondo luogo viene meno la sua perentoria affermazione dell’esperienza estetica come un’esperienza “unitaria”: per la tragedia non vale quello che accade per altri oggetti o stati di cose, poiché l’individuo, lungi dall’essere annichilito, recupera centralità e svolge un ruolo attivo. 3. Sul sublime nella tragedia Schopenhauer così definisce il piacere suscitato dalla tragedia: “Il piacere che ci da la tragedia non fa parte del sentimento del bello, bensì di quello del sublime; anzi è il massimo grado di questo sentimento”. 6 Il concetto di sublime non viene elaborato per la prima volta da Schopenhauer, ma aveva cominciato ad interessare vari pensatori fin dal 1700, in particolare I. Kant che, tra i primi, fornisce una distinzione tra bello e sublime. La definizione di tal concetto potrebbe essere, più o meno, la seguente: sublime è quel sentimento caratterizzato, allo stesso tempo, da una qualche forma di piacere accompagnata contemporaneamente da un certo disagio, causato dall’impossibilità dell’immaginazione di comprendere totalmente l’oggetto o lo stato di cose che si trova davanti ad essa. Tradizionalmente il sublime è un sentimento che ha a che fare con l’idea del movimento, del moto, mentre il bello è caratterizzato dalla calma, dalla semplicità, dallo stato di quiete, così come anche il Winckelmann aveva bene insegnato. Schopenhauer distingue in questo modo il sentimento del bello e quello del sublime:
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- gli oggetti belli elevano alla contemplazione estetica, al puro conoscere, senza l’intervento della volontà: essi stanno in una relazione armonica con la volontà, così che essa viene assorbita completamente in questi. - gli oggetti sublimi si caratterizzano per la relazione ostile con la volontà umana; essi costituiscono una minaccia per il soggetto individuale, contrastano con la sua volontà. In questo caso, per la presenza di detta ostilità, l’elevazione alla contemplazione estetica non è un passaggio diretto: non ci può essere un diretto assorbimento del soggetto nell’oggetto. Bensì lo “stato del puro conoscere è ottenuto solo mediante un conscio e violento distacco dai rapporti, riconosciuti sfavorevoli, del medesimo oggetto con la volontà, mediante un libero elevarsi, accompagnato da coscienza, sulla volontà e sulla conoscenza ad essa riferentesi”7 . La volontà, dunque, è attiva. Come si può notare nella citazione riportata ad inizio paragrafo per Schopenhauer la tragedia si caratterizza come sublime; di conseguenza, durante la visione di un’opera tragica lo spettatore perde la sua individualità, il suo legame con la volontà, solo in maniera indiretta, passando per una conscia liberazione violenta dalla minaccia dell’oggetto ostile che è rappresentato. Ma in siffatta visione si giunge ad una divisione del sublime, che risulta essere bi-partito in due fasi distinte: un primo momento caratterizzato dal dispiacere, dal disagio, ed un secondo momento dal piacere. Ma il sublime è tale solamente quando entrambe le dimensioni dicotomiche (dispiacere/piacere) sono compresenti. Inoltre nella tragedia il carattere della negatività, del disagio, del dispiacere è fondamentale: costituisce l’essenza dell’esperienza tragica. Ma allora, come può la tragedia, espressione del sentimento del sublime, esser ricondotta nell’esperienza estetica? In altre parole, come è possibile, per Schopenhauer, affermare che durante una rappresentazione tragica accade nel soggetto individuale la stessa esperienza (di de-individualizzazione) di quando osserva qualsiasi altra opera d’arte o naturale, che, al contrario, non porta sulla scena ciò che distrugge la vita e la felicità umane? Secondo Schopenhauer l’elevazione allo stato di pura conoscenza, di pura contemplazione (cosa che abbiamo visto costituire l’essenza della visione estetica), nell’esperienza del sublime è ottenuto e conservato con coscienza e con un intervento attivo della volontà. Tuttavia la volontà agente in questa situazione non è un “volere particolare, individuale, (…) bensì [è un] volere umano in generale”. Infatti, se ad essere attiva e ad operare fosse la volontà individuale, il sentimento del sublime si disperderebbe e lascerebbe il posto “all’angoscia, in cui l’ansia di salvarsi dell’individuo scaccerebbe ogni altro pensiero” 8. In questo modo Schopenhauer riesce a far rientrare l’esperienza del dramma tragico nella più generale “teoria” dell’esperienza estetica da lui elaborata. Tuttavia egli sostiene che lo spettatore di una tragedia, nel veder rappresentati gli aspetti maggiormente terribili dell’esistenza, è portato a distogliere violentemente la volontà dalla vita e a non amare più quest’ultima. Quindi: da una parte egli sostiene che un dramma tragico, al pari di ogni oggetto artistico bello, è caratterizzato da un processo di de-individualizzazione; dall’altra, pone come caratteristica essenziale di essa propriamente il fatto che spinga lo spettatore nella sua soggettività a compiere un atto con la sua propria volontà. È questo un aspetto contraddittorio che non viene risolto da Schopenhauer, e, di conseguenza l’assimilazione dell’esperienza tragica in quella estetica, nonostante egli ne sia convinto, appare molto problematica. 4. Il “paradosso della tragedia” e la rassegnazione Nel paragrafo precedente si è affermato come la tragedia porti a distogliere la volontà dalla vita: ed è proprio questo che secondo Schopenhauer rende possibile il piacere per ciò che normalmente, nella quotidianità, nella mondanità della vita ordinaria contrasta con essa e apre la possibilità ad un’esistenza che è altra. Per Schopenhauer questa non è una mera caratteristica accidentale della tragedia, ma è la sua essenza, è nella sua natura essere tale. E l’esigenza di questa altra esistenza è data dal fatto che la tragedia mostra come il mondo e la vita non diano appagamento alcuno e non meritino conseguentemente l’attenzione, la cura, l’attaccamento dell’uomo. Questa è l’essenza dello spirito tragico, mostrare e far comprendere la vanità del mondo, la nullità della condizione umana, caratterizzata da miseria, dal dominare imperterrito del caso, dell’errore, dove il giusto cade e molto spesso a trionfare sono i malvagi. Il vedere rappresentato nella scena il lato tragico della vita conduce alla rassegnazione. E su quest’ultima il filosofo si concentra particolarmente, dimostrando come sia un elemento centrale per una buona tragedia. Schopenhauer nota infatti una importante differenza tra la tragedia degli antichi e quella dei moderni: nella prima lo spirito di rassegnazione viene raramente espresso in maniera diretta e poche volte viene portato fino in fondo. A caratterizzare la tragedia antica è quindi la compresenza della dicotomia rassegnazione/conforto: v’è sempre una consolazione finale che accompagna la fine tragica dell’eroe. Così “Edipo a Colono muore sì rassegnato (…) ma lo conforta la vendetta contro la sua patria” 9, Cassandra, nell’Agamennone di Eschilo, accetta la morte, ma è consolata dal pensiero della vendetta. La caratteristica de-
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gli eroi tragici del periodo arcaico sembra dunque essere caratterizzata sì dalla rassegnazione nei confronti di un destino che non è controvertibile, tuttavia non si sfocia mai nella rinuncia alla volontà di vivere. Tale mancanza ha un grave peso e segna il punto di discrimine con la tragedia dei moderni, tanto che non esita ad affermare, con un giudizio perentorio che non lascia adito ad alcun dubbio, come egli sia “assolutamente convinto che la tragedia moderna stia più in alto di quella antica” 10 e come molti testi teatrali che comunemente sono ascritti sotto la categoria del tragico non lo sono affatto, in quanto nonostante venga inscenato il dramma di un’esistenza dominata dal caso e dall’errore, essi difettano dal mostrare la rassegnazione, ossia la componente che per Schopenhauer è fondamentale. La rassegnazione è infatti l’unica che può redimere l’uomo e questo è il fine ultimo cui la tragedia mira: suscitare lo spirito di rassegnazione e portare lo spettatore verso la disposizione ad abbandonare la volontà di vivere, a non amare il mondo e la vita e a suscitare in quello “la coscienza che si debba dare (…) anche un’altra specie di esistenza” 11, anche se ad esso del tutto incomprensibile. Schopenhauer sottolinea per l’appunto che, qualora la finalità della tragedia non risiedesse in ciò, non sarebbe altrimenti spiegabile il fatto che la messa in scena del lato crudele e più sinistro della vita, agisca in modo benefico fintanto da far provare un alto godimento. 5. Piccola obiezione Dalla citazione riportata all’inizio del paragrafo numero 3 di questo breve elaborato, la definizione di tragedia come massimo grado del sentimento del sublime parrebbe indubitabile nella concezione schopenhaueriana. In realtà, Schopenhauer, sembra ridimensionare questa sua perentoria determinazione definendo l’esperienza tragica del sublime come una sorta di “analogia” con la vista del sublime in natura. Perciò, come puntualmente ha rilevato S. Shapshay 12 , del Dept. of Philosophy dell’Indiana University, può sorgere un interrogativo che parrebbe essere un’obiezione: se il piacere suscitato dalla tragedia, stando a ciò che ci dice Schopenhauer, è simile a quello del sublime dinamico (ossia all’esperienza del sentimento del sublime a diretto contatto con la natura), perchè nella tragedia esso raggiunge il suo punto più alto, l’apice? Perché accade nella finzione della rappresentazione drammatica e non nella realtà concreta, per esempio facendo esperienza di una tempesta nel bel mezzo dell’oceano? Perché la tragedia ha questa superiorità? Secondo la Shapshay questa non sembra essere una vera e propria obiezione, in quanto Schopenhauer può rispondere in maniera indiretta tramite le sue riflessione estetiche e sull’arte in generale. In primo luogo, il fatto di entrare in un mondo finzionale, in una realtà fittizia, aiuta ad astrarre da quella che è una condizione meramente individuale; v’è una grande differenza tra l’assistere realmente ad una tempesta furiosa nel mare e vedere inscenato il dramma nella tragedia a teatro. L’esperienza del sublime dinamico, direttamente provato a contatto con la natura è destinato a restare nella sfera dell’individualità; è solo nella tragedia che lo spettatore può ampliare la propria visuale, e prendere coscienza di un mondo che è crudele per tutti, domato da un destino spietato e che non merita l’attenzione della nostra volontà. Solo la tragedia dunque presenta davanti all’uomo la miseria di tutta l’umanità; scrive infatti Schopenhauer: “Il vero senso della tragedia è l’approfondimento della verità che ciò che l’eroe sconta non sono i suoi peccati personali, bensì il peccato originale, cioè la colpa del suo stesso esistere”. In secondo luogo la tragedia, e solo essa, ha la capacità di creare una connessione tra la consapevolezza del sublime e la coscienza della sofferenza, dell’ingiustizia e della malvagità del mondo: solo tramite la rappresentazione drammatica l’uomo può giungere al sentimento della rassegnazione, cioè al distacco dalla volontà, che, poi, al lato pratico, finita la contemplazione estetica, deve portare all’etica della compassione.
1 D. HUME, Of tragedy 2 A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, primo volume, Bur, Milano, febbraio 2009, (pag. 375) 3 Ibid. 4 Ibid. (pag. 483-484) 5 Ibid. (pag. 484) 6 A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, secondo volume, Bur, Milano, febbraio 2009, (pag. 610) 7 A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, primo volume, Bur, Milano, febbraio 2009, (pag. 408) 8 Ibid. 9 A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, secondo volume, Bur, Milano, febbraio 2009, (pag. 611) 10 Ibid. (pag. 612) 11 Ibid. (pag. 613) 12 S. SHAPSHAY, A Genre that matters: Schopenhauer on the Ethical Significance of Tragedy, Dept. of Philosophy, Indiana University
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$QJROR)LORVR¿FR Reinhart Kosellek
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critica illuministica e crisi della società borghese Mattia Montanaro 1) LA STRUTTURA POLITICA DELL'ASSOLUTISMO COME PREMESSA DELL'ILLUMINISMO L'assolutismo è indissolubilmente legato alla guerra civile: nasce per porre fine alle ostilità tra fazioni religiose e crolla con la Rivoluzione Francese. Lo stato monarchico si prefigura inizialmente come soluzione alle guerre religiose che tormentavano il sedicesimo secolo; tale funzione viene esplicata nell' "Argenis" di John Barclay: lo stato ha il compito di sottrarre ai partiti in lotta tutti i diritti e di consegnarli al sovrano, di fronte al quale tutti si costituiranno indifferenziatamente come sudditi. Tale subordinazione richiede però un alto prezzo: i cittadini in quanto uomini si devono ritirare nel privato, creando uno scarto tra azione esterna (conforme ai dettami del re) e intenzione morale (privata e inaccessibile). I temi trattati da Barclay trovano più ampio sviluppo nel "Leviatano" di Thomas Hobbes. Hobbes visse sulla sua pelle i contrasti tra fazioni religiose e anche il suo modello di stato ha come fine la riappacificazione di questi scontri. L'autore prende le mosse da un'antropologia sociale: l'uomo è costantemente guidato nelle sue scelte da 2 principi opposti: desire and fear. L'umanità è cioè dominata dalla passione della sete di potere (che causa la guerra civile), ma al contempo è trattenuto dalla paura della morte violenta (che porta con sé il desiderio di pace). La problematicità della condizione umana è quindi sviscerata: la guerra è congenita alla natura dell'uomo, mentre la pace è una mera ambizione. Un secondo fattore che alimenta la discordia tra gli uomini è la sproporzione tra intenti e mezzi pratici: la moralità porta l'uomo a giudicare le azioni in base all'intenzione, non all'effettività, cosicché, sebbene chiunque si ponga come fine il raggiungimento del Bene, ciascuno discorda sui mezzi per ottenerlo. Hobbes riduce quindi la coscienza a mera opinione privata e riconosce nella pretesa assolutezza della coscienza il motivo scatenante le guerre. Sulla base di queste considerazioni Hobbes crea il Leviatano. Egli afferma che nello stato di natura è insito l'obbligo di fondare lo Stato; all'interno di quest'ultimo i giudizi privati non hanno effetto politico in quanto l'unica fonte del diritto è il principe, il quale è superiore al diritto stesso. Poiché lo stato nasce per soddisfare il bisogno di pace e scongiurare la paura della morte violenta, il suo compito è quello di fornire protezione. Per perseguire questo scopo, il contenuto delle leggi è irrilevante: che esse siano giuste o meno non fa differenza, ciò che le caratterizza è la sola legittimità formale; il principe non è altresì tenuto a essere giusto, l'unico movente delle sue azioni è l'utilità. La separazione tra azione e contenuto dell'azione si rifà alla divisione tra opinione interna e azione esterna e porta a sua volta a una scissione nel suddito: l'uomo come cittadino si sottomette alla legge e riconosce la sua "moralità" confrontandola con lo stato di natura, mentre l'uomo come uomo forma il suo proprio giudizio morale, ma deve tenerlo segreto. Lo stato così creato è efficiente nella difesa dei sudditi, ma richiede un alto prezzo: la scissione tra uomo e cittadino, cioè la scissione tra politica e morale. Fu proprio questa divisione, comune a tutti gli stati assolutistici, a modellare le relazioni tra paesi: ogni nazione era delimitata dalle altre, ma al contempo era libera e autonoma al loro pari. Tale situazione era una riproposizione dello stato di natura su scala più grande, gli stati si riconobbero infatti come libere persone morali non subordinate ad alcuna autorità esterna. La
guerra infuriava ancora, non più sul piano civile, ma sul piano statale. La separazione tra morale e politica, finalizzata alla pace interna degli stati, all'apparenza solida e ben funzionante, in realtà celava un'intrinseca debolezza: lo spazio privato in cui venne relegata la morale, questo germe ribelle e occultato al sovrano, fu il punto d'appoggio dal quale presero le mosse gli illuministi, sostenitori di un diritto naturale e unificante, che, dimentichi dell'originario significato storico dell'assolutismo, mossero la loro critica al potere. 2) L'AUTOCOSCIENZA DEGLI ILLUMINISTI E LO STATO ASSOLUTO I'llluminismo nasce nello spazio in cui lo stato aveva relegato l'uomo e lo espande progressivamente fino a renderlo pubblico. Il primo pensatore a sconfinare l'angusto spazio in cui era costretta la morale fu John Locke, che grazie a ciò si prefigurò come il padre dell'illuminismo borghese. Nel saggio datato 1670 "An Essay Concerning Human Understanding" egli si interroga circa le leggi che regolano la vita dei borghesi, portandone alla luce 3: - la Legge Divina, che viene manifestata all'uomo dalla natura o dalla rivelazione; - la Legge Civile, ovvero la legge dello stato, che ha il compito di proteggere i cittadini; - la Legge Filosofica, cioè la legge morale. Tale divisione palesa un inappianabile contrasto con Hobbes: Locke divide legge divina e legge civile, rovesciando l'idea hobbesiana secondo la quale legge naturale e statale dovevano essere per giustificare lo Stato, e introduce una terza legge, la legge dell'opinione pubblica, ossia la legge borghese. Quest'ultima era espressione della nuova classe sociale emergente, economicamente rilevante, ma politicamente impalpabile, che chiedeva a gran voce riforme a sua tutela. Le leggi morali borghesi sono un passo decisivo contro la monarchia: esse strabordano l'angusto spazio privato loro concesso e assurgono a legge, non poggiano la loro qualificazione sul contenuto, ma sull'atto volitivo che ne sancisce la nascita e operano tramite la lode e il biasimo, sono altresì le leggi del costume. La morale non è più subordinata all'obbedienza, è un potere pubblico che, seppur solo spirituale, agisce politicamente, rimanendo tuttavia celato. Gli intenti di Locke erano lontani dalla creazione di una legge che si opponesse a quella giuridica, egli teorizzò bensì una coordinazione tra morale e politica. I borghesi, al contrario, radicalizzarono il contrasto tra le due dimensioni. A cavallo tra diciassettesimo e diciottesimo secolo, nel culmine del potere assolutistico, l'élite borghese si espanse e si consolidò. A cementare questo gruppo emergente fu il comune sentirsi derubati di potere politico, in rapporto al quale essi fissarono il loro obiettivo: trovare un posto nelle istituzioni statali. Tale ambizione non poteva però godere di pubblica visibilità, in quanto minacciava l'esclusività politica del monarca; per sopperire a tale problema i borghesi furono costretti a riunirsi in società extra-statali, celate alla vista del monarca: nacque così la massoneria. La Massoneria ha come statuto il segreto, che svolge una duplice funzione all'interno delle logge: obbligato e rafforzato dalla scissione tra morale e politica, esso si prefigura come istanza di rifiuto e protezione al contempo, e consente ai massoni di definirsi fieramente apolitici e prettamente morali. Un ulteriore funzione del segreto è quella di cementare la fratellanza massonica: la comune partecipazione a esso, dei nobili come dei borghesi, dei poveri come dei ricchi, garantiva l'uguaglianza tra "fratelli", ponendosi in modo opposto alla gerarchia vigente nello stato assoluto.
La segretezza fu il vero fulcro della massoneria: infatti, con la sua mancanza di potere coercitivo, richiedeva agli adepti un costante autocontrollo della coscienza e un conseguente esercizio morale, in linea con i principi dell'organizzazione, e permetteva di tracciare una separazione netta dal mondo esterno, un rifiuto della politica che identificava i massoni come la miglior coscienza della politica. La morale rimane quindi priva di potere e apolitica, ma proprio per questo mette in discussione lo stato esistente e prepara al contempo il passo successivo: la svolta verso l' esterno, l'acquisizione di potere politico, che doveva rimanere celata sia all'esterno che all'interno. La funzione prettamente politica del segreto massone è esplicata nel romanzo del 1778 "Ernst Und Falk. Dialoghi Per Massoni" di Gotthold Ephraim Lessing. Lessing individua innanzitutto il Mondo come campo d'azione dei massoni e procede fornendone un'analisi accurata: esso soffre infatti di tre mali fondamentali: lo smembramento del popolo in Stati diversi, la divisione dei cittadini in ceti e la separazione dovuta alle diverse credenze religiose. Questi mali sono radicali e appartengono alla struttura della realtà storica, sono altresì necessari e insolvibili, cosicché gli uomini possono essere uniti solo tramite la separazione congenita alla loro natura. La massoneria si prefigura quindi come organizzazione finalizzata all'estirpamento dei mali fondamentali, mentre non si interessa di quelli accidentali, ossia storicamente determinati. Ma poiché le tre patologie nodali sono riconducibili alle istituzioni della Chiesa e dello Stato, il compito delle logge è ancor più diretto e radicale: essi mirano a ostacolare la religione e soprattutto la politica fino a rendere superfluo lo Stato. L'arcanum (cioè il segreto massonico) può quindi essere riformulato ancora alla luce di ciò: i suoi compiti sono proteggere e rendere possibile il lavoro morale e celare il carattere prettamente politico della Massoneria agli stessi massoni. Il secondo di questi fini è chiaramente esemplificato dalla setta degli "Illuminati": all'interno di essa lo spazio morale interno assunse da subito un accento politico, il suo programma era infatti l'assorbimento dello Stato dall'interno, facendo occupare cariche politiche importanti ai suoi stessi membri. La scissione tra morale e politica si ripresenta quindi con insistenza, consentendo ai massoni di ritenersi esterni allo stato e quindi superiori in quanto morali, ma assume ora una nuova veste: da necessaria funzione protettiva, si figura come attacco. Con la svolta offensiva delle logge la crisi politica si affaccia più minacciosa e incombente che mai, ma i tempi per la sua prognosi non sono ancora maturi. I primi sintomi sono tuttavia inequivocabili e il teatro di Friedrich Schiller si annovera tra di essi: Schiller mette in scena il teatro morale, una rappresentazione artistica con forte caratterizzazione sociale, che rappresenta il mondo reale sul palcoscenico. Il teatro morale non si limita tuttavia a una rappresentazione disinteressata e oggettiva del reale, ma il palcoscenico eccede la dimensione della prudenza, il palcoscenico è ora un tribunale che si esprime su tutto, adottando come unico metro la "legge filosofica". In questo nuovo organo giudiziario viene forgiata una nuova visione del mondo, il quale viene diviso in bellezza e orrore, senza possibilità intermedie, e assume altresì un'immagine dualistica. Nel nuovo mondo "dimezzato" la bellezza è privilegio esclusivo della morale, mentre l'orrore è indissolubilmente connesso alla politica. Con questo ulteriore passo, il giudizio morale diviene critica politica a tutti gli effetti, si pone infatti al di fuori della politica per criticarla. E' pertanto ipocrita, perché da un lato nega fermamente la sua politicità, ma dall'altro la esercita senza scrupoli, si sostanzia altresì come parossi-
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smo della scissione tra politica e morale. Tale separazione ha dato quindi inizio alla critica, e la critica darà inizio alla crisi. La dizione "critica" deriva dal greco krino, che significa "separare", cosicché l'accezione originaria di "critica" indica l'arte del giudicare e del dividere, arte indissolubilmente connessa con una visione dualistica del mondo. Il termine acquista rilevanza a partire dal secolo decimosettimo, quando viene ampiamente utilizzato dagli umanisti riferito prettamente all'ambito filologico, in particolare dei testi religiosi e delle Sacre Scritture. Il sacerdote cattolico Richard Simon, apportò una prima modificazione all'uso corrente del termine, contrapponendo la rivelazione all'esegesi dei testi e apponendo alla consueta gamma di significati un accento polemico. Tale posizione venne radicalizzata e ampliata da Pierre Bayle, il quale disgiunse totalmente ragione e rivelazione, sottolineando la necessità del lavoro critico sui testi. La critica gode in Bayle di una galvanizzazione: essa si innalza a vera attività della ragione. Il critico emerge come avvocato della ragione: in quanto accusatore e difensore egli è superpartitico e mira al solo conseguimento della verità, è l'unico che può condurre l'uomo verso un futuro più radioso (Bayle tuttavia pone un limite all'attività critica: essa è sottomessa alla politica, è critica interna e non deve mai sconfinare all'esterno, non può opporsi allo Stato). Appare quindi evidente il "modo d'essere" della critica: la critica è rivolta al futuro, al progresso. Voltaire, nel 1733, propone la sua critica come istanza apolitica, rivolta alla sola arte e avulsa da intenti esiziali per lo stato. La sua critica disinteressata celava però la vera natura del suo esercizio: con la critica artistica Voltaire attacca indirettamente la Chiesa (che godeva di potere politico) e lo Stato, confinando così la politica nella "rivelazione" e nell'irrazionalità, contrapponendole alla ragione che animava i suoi giudizi. I critici furono così vittime dell'ipocrisia che caratterizzò la massoneria: sebbene si considerassero al di sopra dei partiti, in quanto critici dello stato si costituirono essi stessi come partito, sebbene si definissero apolitici, furono invece politicissimi. La critica subisce la sua defintiva trasformazione con l'Illuminismo: la segretezza che caratterizza tale movimento ha messo in moto una critica incontrollabile e frenetica, estranea da tutte le manifestazioni della vita; il critico, adagiato nella sua posizione dualistica, attribuisce tutto il bene a una fazione, e confina il male all'altra, al punto che non era possibile opporsi senza essere scherniti e ridicolizzati. Gli Illuministi promuovono l'infelice identità tra potere e abuso di potere e attaccano frontalmente il sovrano: essi smascherano il re mostrandone l'uomo, il soggetto morale, che in quanto tale viene incolpato di abuso di potere. Non fu quindi il re, ma il critico il vero usurpatore e nella credenza che ciò fosse lecito soggiace l'autoinganno: chi dà del tu al re si pone come organo giuridico della nazione, si eleva egoisticamente a vero re. Il processo finora esposto sottolinea come la borghesia sia indissolubilmente legata fin dalla sua genesi alla mentalità dualistica e sfruttando tale posizione privilegiata si impossessò del potere politico. 3) CRISI E FILOSOFIA DELLA STORIA Con il massimo diffondersi della critica nella sua forma degenerata la crisi rumoreggia sempre più. Vengono stilate prognosi che annunciano una rivoluzione imminente, ma al contempo quest'ultima viene celata. Le losche attività degli Illuminati cominciano a diventare manifeste e a palesare i loro intenti politici, costringendo lo Stato a perseguitare la setta, divenuta ormai pericolosa, in quanto contraria al potere assolutistico. La massoneria si rivela sempre più come uno Stato nello Stato, che mira a dissolvere la sovranità. Al contempo i massoni sono impazienti e prefigurano la rivoluzione basandosi sulla filosofia della storia. La filosofia della storia affonda le sue radici nella teologia, della quale è una palese secolarizzazione: i massoni coniano una storia che sposta il suo fulcro nella tradizione del' arte regia: essa inizia con Adamo, ma ha la sua cesura nell'impero di Augusto, non nella venuta di Cristo. I massoni tedeschi adottano invece la teodicea di Leibniz, plasmandola secondo i loro interessi: come solo Dio opera "in modo adulto", così fanno anche i massoni, ai quali è garantita l'esclusività della creazione dell'armonia sulla terra. Il corso della storia si identifica altresì con la realizzazione dei piani degli Illuminati, cioè la dissoluzione dello Stato e la creazione di un "nuovo mondo", meno "politico" e più "morale". Questa identificazione della pianificazione politica con il corso della storia serve a celare e a stimolare al contempo la rivoluzione, perché solo con la volontà di sopprimere lo Stato, unita alla certezza del successo, quest'ultimo cadrà. Il futuro avrà l'ultima parola, solo in esso si potrà risolvere la tensione tra Stato e società, è questa credenza a dare slancio agli Illuministi; ciononostante i "cospiratori" non si ritenevano affatto ribelli: la necessità della pianificazione della rivoluzione, la sua ineludibilità, esentavano gli attori da colpe e responsabilità, in quanto la rivoluzione sarebbe comunque avvenuta, il loro compito era solo quello di renderla il più possibile indolore. Messi di fronte a queste prognosi incontrovertibili, l'atteggiamento dei tedeschi fu esageratamente noncurante, differentemente da quanto si potesse dire dei francesi. Il comportamento di Turgot a riguardo rispecchia in modo esemplare la situazione francese. Turgot fu una figura anfibia, tanto illuminista quanto statale, egli si schierò sia contro i parlamenti fondati sugli stati che il re, al quale tentò di imporre le proprio riforme. Egli mirava a mostrare al sovrano quanto la guerra civile fosse incombente e che l'unica via d'uscita era dare ascolto e assecondare la borghesia. Turgot proponeva dunque un assolutismo illuminato: criticò lo stato esistente per proporne un altro in cui tutti i cittadini fossero giuridicamente uguali e il sovrano legiferasse in favore dei borghesi. Il suo pensiero, per quanto rivoluzionario in modo conscio, rimase tuttavia prigioniero del dualismo morale: egli riconosceva 2 sole forme di diritto: la forza, i cui unici confini sono quelli imposti da un'altra forza e che eleva l'ingiustizia (in quanto connotata in essa stessa) a diritto, e l'equità, che corrisponde alla morale, la quale è superiore allo stato e vincola tutti gli uomini. La forza prende le sembianze dell'assolutismo, mentre l'equità viene espulsa dal governo e confinata alla sfera privata. Detto ciò, Turgot rovescia il principio hobbesiano della subordinazione della morale: il criterio di giudizio tra diritto e ingiustizia non è nel potere
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assoluto, ma nella coscienza umana. La morale, che Hobbes relegava al privato, spogliandola di ogni diritto, ha la sua rivincita: il sovrano non gode più di potere assoluto, il potere è della morale; la società, apparentemente apolitica, regna grazie alla moralizzazione della politica, ma il suo governare viene celato dalla primordiale scissione tra morale e politica. I rappresentanti delle posizioni morali, seppur ancora impotenti politicamente, guadagnano ora la forza del' esclusività, cioè la forza di una morale eterna così schiacciante che il politico non può che arrendersi di fronte a essa. Con il graduale sorgere dell'interrogativo "domina il sovrano o il popolo?" Turgot venne cacciato dalla corte, segnando così la rinuncia all'ultimo tentativo di scongiurare la guerra civile. La susseguente crisi non è ancora però completamente manifesta: essa viene celata grazie all'operare per vie traverse della filosofia della storia, e viene identificata con la lotta di forze polari, la forza e l'equità, trasposta sul piano politico. La decisione politica assume altresì le sembianze di una sentenza puramente morale, celando la natura politica della crisi e inasprendola conseguentemente. Uno sguardo disincantato e obiettivo alla precaria situazione politica fu quello di Rousseau: egli pronosticò la fine della monarchia, ma capì al contempo che a essa non sarebbe seguita una felice rivoluzione, ma uno stato di crisi. Rousseau si distinse quindi dagli altri illuministi perché abbandonò una concezione eccessivamente progressista della storia e seppe identificare la gravità della crisi incombente. Tuttavia, nonostante gli ammonimenti, la sua teoria statale, che mirava a una riconciliazione tra morale illuministica e Stato, rimase vittima dell'utopia insita nella filosofia della storia: Rousseau tentò di elevare la Republique des lettres, nella quale ciascuno è sovrano di ciascuno, a forma statale. Nel suo modello di Stato nessuno regna, tutti obbediscono e sono al contempo liberi, ogni istanza rappresentativa scompare e la società ottiene in cambio il diritto di capovolgere la propria costituzione e le proprie leggi a piacimento: si crea uno stato di rivoluzione permanente. Il passo ulteriore compiuto da Rousseau è il ricorso a una volontà sovrana che permette di legiferare secondo i principi del nuovo Stato; questa volontà viene identificata con la volontà generale, la quale si dà legge da sé e si figura come l'espressione del popolo-Stato, che solo grazie alla volontà stessa si costituisce come popolo-Stato. Paradossalmente, la presunta imparzialità e democrazia della volontà generale è in realtà fittizia: il cittadino è infatti libero solo se partecipa alla volontà generale, se si conforma a essa, poiché mentre gli individui possono sbagliare, la totalità di essi no. La volontà generale impone così una costante correzione della realtà, e affida tale compito alla dittatura: è dunque nel capo della democrazia riposto il compito di imporre una apparente unità di azione e opinione, egli deve cioè indicare senza sosta la via da seguire al popolo, deve elevare l' opinione pubblica a ideologia. L'Illuminismo, nato in modo segreto, è ancora vittima della sua clandestinità: in apparenza è l'uomo a disporre della volontà generale, ma di volta in volta governano i capi, che celano il proprio potere nella conformità universale. Rousseau si presenta quindi, anche se involontariamente, come il primo realizzatore dell'Illuminismo: il ricorso alla volontà generale impone ai cittadini terrore e ideologia, che sono le armi necessarie a correggere la realtà, la quale si ripresenta e riaffiora continuamente come agente perturbante, assecondando la critica progressista, la quale proclama vero e reale solo ciò che è razionalmente richiesto e davanti al quale il presente si annulla puntualmente, e proclamandola principio politico. Rousseau è inoltre il primo a dare una connotazione politica alla crisi: egli la riconosce come stato d'assenza di potere, di anarchia, la considera cioè come "crisi dello Stato". Questa seconda intuizione del filosofo svizzero ha particolare rilevanza alla luce della formulazione del concetto di "crisi" della borghesia; Rousseau la ricava da un rovesciamento della prospettiva hobbesiana: egli sostiene che la natura impone all'uomo il dovere di mantenersi in vita, ma, in opposizione a Hobbes, questo dovere non si risolve nello Stato, anzi è proprio quest'ultimo la minaccia mortale. L'uomo trova protezione e realizzazione solo nello stato di natura, che non è più sinonimo di guerra civile, ma bensì il regno della virtù, puro e morale. Il crimine dello stato è l'imposizione dello Stato stesso, l'abbandono forzato dello stato di natura. Il passo decisivo è stato compiuto: mentre fino a Rousseau gli Illuminati si ritenevano morali e giusti e dichiaravano lo stato immorale, ora la sovranità non solo è immorale, ma costringe la società stessa a esserlo. Con questa sentenza Rousseau, che si proponeva di conciliare la morale illuministica e lo Stato, invoca invece la caduta di quest'ultimo e la giustifica con l'apparenza della mera reazione guidata da una sentenza morale. Per i borghesi la crisi è quindi un tribunale morale privo di contenuto politico: essa viene ancora celata e al contempo inasprita e l'agente di questo mascheramento è ancora la filosofia della storia, che dà sicurezza e slancio. L'abbé Raynal è una figura chiave per la comprensione di questo fenomeno: egli profetizzò la crisi sia come guerra civile, che come tribunale morale. Raynal dà una collocazione geografica al dualismo morale-politica, identificando l'America con il mondo morale dello stato di natura e l'Europa come la sede degli assolutismi corrotti e profetizzando la imminente rivoluzione delle colonie americane come già prefigurata nella filosofia della storia borghese. Raynal legittima così la guerra civile, poiché, con l'attribuzione del male radicale allo Stato, assassinii e violenze perpetrate contro di esso sono giustificate dalla morale. Alla domanda "Le rivoluzioni sono utili?" L'abbé Raynal risponde in modo affermativo tramite la filosfia della storia. Critica e filosofia del storia sono saldamente legate: dalla critica scaturisce la filosofia della storia, e la critica è sempre premonitrice della crisi. La particolarità di questa crisi è la sua abilità mimetica, essa è in grado di rendersi visibile e invisibile sulla base del dualismo fondante l'Illuminismo, che illumina e oscura al contempo. Per quanto i sovrani assoluti tentassero di confinare l'uomo in quanto uomo nel privato, per poter esercitare efficacemente il loro governo e scongiurare la guerra civile, la scintilla della moralità così stigmatizzata non cessò mai di illuminare le coscienze dei sudditi e, alimentata dal percorso storico qui connotato, seppe divampare e diventare politicamente inestinguibile; l'unica possibilità di placare tale incendio fu per mezzo di un brusco ribaltamento: scoppiò la Rivoluzione Francese.
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Collegio
Intervista Doppia Francesco Simonetta
VS
Giulia Peloos
Francesco (Saponetta)
Identificati: nome (alias)
Giulia (Pelly, Mondriù, Leito)
(Serissimo) Nessuno.
Segni particolari:
Ho gli occhi di colori diversi.
Cosenza
Provenienza:
Udine
(Sorride, ridacchia, si guarda un Facci indovinare cosa studi, come Verde... Molto molto piccolo.. Anipo’ in giro) se giocassimo a “Taboo” mali.. Cellule e.. DNA!! Io: “Non sai giocare?” Lui: “Non so le regole!! ahah!” Mmm... ahah il calcettooo!!
Testiamo il livello di cleptomania: Il microonde, l’asciugatrice e... e cosa prenderesti dal Collegio Maz- anche la campanellina che c’è di là!! za e ti porteresti a casa?
Eeehh... Cinzia... (matricole sugge- Memoria: dietro ai fornelli della Allora... Diana, Moreno e... Eee... riscono) ehhh, Moreno!! mensa. Chi c’è? Dicci almeno tre ce la posso fare... Non mi ha suggerito nessuno eh! nomi dei cuochi mazziani. G... Gu... Guglielmina!!!! (convinto) Acqua!
Kit di sopravvivenza: di cosa non Mai mai?? Del mio caffè al Ginfaresti mai a meno? seng, di cui avrei bisogno in questo momento, poi... Quante cose ho? Facciamo 5! Un “ciappino” per tirarmi su i capelli, eee... un paio di anfibi (sono stra-comodi!!), un paio di calze -perché amo le calzee cioccolata.
Mi sveglio presto alla mattina!
Sei un buon mazziano/a se...
Humilitas!!
Mooolto!! (altre voci: “...poco”)
Quanto ti rispecchi in quest’ultima descrizione?
Di humilitas? Abbastanza...
BANZAIIIII!!!
Urlo di battaglia:
COCO’!!!
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Giochi, Rubriche e Fumetti [Nerd]: alla parola nerd viene associato tipicamente un individuo dai 16 ai 25 anni, introverso, di colorito cadaverico per l'ammontare del tempo passato rinchiuso nella sua stanza al computer a guardare serie tv, film, videogiochi, trailer di videogiochi e simili. Oltre che dal luccichio sinistro degli occhi quando gli si parla del suo fandom preferito, un nerd si riconosce spesso anche dal vestiario, composto essenzialmente da maglia a maniche corte con la stampa di qualche personaggio immaginario, camicetta a quadri e, se l'inverno sta arrivando, una felpa con cappuccio. Gli occhialetti, dopo l'avvento dell'era dei Potterheads, sono stati tolti a livello internazionale dall'abbigliamento dello sfigato, ma si ritiene comunque opportuno segnalarli tra le altre caratteristiche nerd.
La Scherma dal Futuro Chiara De Faveri Si chiama Saber il nuovo sport che fa sgranare gli occhi e andare in fibrillazione il cuore di tutti i patiti di Star Wars, mentre quelli meno fortunati, quelli che la Forza la vedono solo come una massa per un'accelerazione, si chiedono, ridendo, come sia possibile defini-
re sport una pratica del genere. Per i meno pratici nel settore, la parola Saber sta per Lightsaber, l'arma dei cavalieri Jedi nell'universo di Star Wars e quella scelta dagli ideatori di questo sport, nato in Italia da alcuni anni sulla base della scherma tradizionale. Come si può facilmente immaginare, data
Australia, Coral Bay. Nelle placide acque si aggirano moltitudini di animali marini, vistosi o poco appariscenti, piccoli e rapidi come un pesce ago o lenti e ingombranti come i grandi mammiferi. Tra questi attira la nostra attenzione un esemplare, lungo più di due metri, che con il suo placido incedere ricorda una grossa mucca dotata di pinne. Si tratta del dugongo, un sirenide, innocuo e affascinante animale che popola alcuni mari dell'emisfero meridionale. Il dugongo è uno dei pochi mammiferi marini erbivori ancora esistenti: vista la sua mole (arriva a pesare mezza tonnellata) trascorre la maggior parte della sua giornata a pascolare i bassi fondali, ingurgitando in una giornata anche 30 chili di alghe. Per la sua indole pacifica e le ottime riserve di grasso che possiede, è stato a lungo cacciato dall'uomo, che è arrivato a causarne quasi l'estinzione. Il dugongo è un animale sociale che vive in gruppi anche di 3-4 individui; le femmine si prendono cura dell'unico piccolo che partoriscono, dopo una lunga gestazione, tenendolo vicino a sé con le pinne anteriori. Come le balene e i delfini, non hanno branchie ma polmoni: emergono quindi in superficie per riempirsi dell'ossigeno necessario a restare poi in immersione. Nel passato gli avvistamenti di dugonghi, dalla coda biforcuta e il corpo tozzo, sono stati all'origine di molte leggende sulle sirene, che si credevano creature con metà corpo di donna e metà di pesce, o addirittura donne dalle sembianze umane racchiuse nel corpo di mammiferi marini, che in particolari circostanze potevano lasciare la loro pelle “acquatica” e vivere sulla terra insieme agli umani, finché il Mare non le avesse richiamate a sé. Waves on Australia’s border amongst the Coral Sea’s shoulder, there houses the Great Coral Reef. Lady of the sea holds no grief. Amongst grand reefs of the Euphotic Zone, waters are warmed by the light of the sun, photosynthesis allows sea life grown, for the herbivore Dugong to lunch on. Smallest of the Sirenia, sweet treats of Posidonia, clear waters of Legend’s belief Lady of the Sea holds no grief.
l'avanzatissima tecnologia necessaria per creare un oggetto simile (purtroppo non ancora pervenuta sulla Terra), la Saber utilizzata nell'omonimo sport non è un'arma come l'originale, capace di tagliare a metà le persone come panetti di burro, ma rimane comunque uno strumento abbastanza elaborato: l'elsa, dotata di pulsanti ed esteticamente sullo stile del maestro Kenobi o di Anakin Skywalker [1], è la parte più pesante, mentre si è cercato di mantenere l'ideale di una lama senza peso utilizzando materiali che combinano buona resistenza e leggerezza, non dimenticando però particolari importanti come la luce, i sensori per le collisioni e il rumore caratteristico. Ma la spada, pur essendo l'elemento più singolare ed evidente, non è quello più fenomenale: il team di ideatori, dimostrando una conoscenza tra il geniale e l'inquietante, si è adoperato per ricostruire i sette stili tradizionali di combattimento Jedi come descritti nella letteratura e li ha messi in pratica, riducendo a una piccola frazione il contributo dato dalla scherma. C'è da aggiungere che i Clan [2] delle varie città hanno al loro interno una propria gerarchia, con tanto di Gran Maestro, Cavalieri Jedi, Sith e semplici Padawan, ognuno votato al lato Chiaro o a quello Oscuro della Forza in base alle sue inclinazioni e capacità. Il risultato è uno sport unico ed originale, che non disdegna elementi quali acrobazie e virtuosismi e allo stesso tempo fa divertire oltre che, diciamocelo, realizzare il sogno di ogni fan: diventare, anche solo per poche ore alla settimana, un cavaliere Jedi. Coloro che volessero percorrere le vie della Forza possono trovare le risposte alle loro domande su www.ludosport.net. [1] Nota Prima: mentre le else più comuni sono quelle sopracitate, si possono trovare anche pezzi rari quali quella del Maestro Windu, Darth Maul e Darth Vader. [2]Nota Seconda: l'accesso ad un Clan non è condizionato dalla presenza o dalla concentrazione di Midichlorian nell'organismo di un individuo.
Waters are warmed by the light of the sun, though endangered by Eutrophication, The Dugong fights their rights to be the one to survive the battle of extinction. (“Dugong of the Coral Reef”)
GoldenFish
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Giochi, Rubriche e Fumetti #!'"#!'#!$%#! -#&$, '#$!"%)$"#!' ( %#&(! !##%%#(! , #0,!*! !#)!#"### !$&%,&$%!&!! !& &# #*$&%!%#!'"#"#%"#!'#!,
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GIOCHI Di Federica Bloise e Cristina Leonardo
Indovina-indovinello? I passeggeri del Metrobus Alla partenza dal capolinea sul metrobus ci sono 6 passeggeri; alla prima fermata ne scendono 4 e ne salgono 2, alla seconda femata ne scendono 3 e ne salgono 5. Arrivato al capolinea, quante persone ci sono nel metrobus? I due conti e il maggiordomo Due conti sono andati a fare una battuta di caccia, avvisando il maggiordomo che sarebbero tornati per l'ora di pranzo (diciamo mezzogiorno). A mezzogiorno, quando il maggiordomo ha già preparato tutto e apparecchiato la tavola, arriva un piccione viaggiatore con un messaggio: 7-3=5 Letto il messaggio, il maggiordomo subito sparecchia tutto. Per quale motivo?
Il labirinto Il giardino di Hampton Court Trova la strada per entrare nel giardino
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