fondato e diretto da Carmine Zaccaria
Anno XVIII
n° 4 - Aprile 2011
NAPOLI - MILANO - MINSK - MOSCA
L’EUROPA VA ALLA GUERRA di Carmine Zaccaria n Italia si vota. Per le amministrative, ma sono quasi elezioni politiche. Ho avuto il privilegio, qualche mese fa di trattenermi in conversazione con lo scultore di fama mondiale Lello Esposito. Oggi è uno degli artisti e intellettuali napoletani che firmano per Lettieri insieme a tanti. Molti dei firmatari provengono da quell’Area che fu la sinistra napoletana. Questa è la grande novità dell’imminente tornata elettorale. Vedremo come evolverà. Lettieri è un candidato forte e si sta garantendo l’appoggio di una vasta parte dell’elettorato non tradizionalmente di destra. Una bella responsabilità. Alcuni Consiglieri comunali importanti del Centro Sinistra hanno lasciato le fila del loro schieramento e si candidano nelle liste che sostengono Lettieri. Tra gli altri, storici sostenitori del Sindaco uscente Rosa Russo Iervolino. Di certo, sposteranno verso Lettieri voti preziosi e inaspettati. Tireremo le somme a urne chiuse senza fare sconti a nessuno. Saranno cinque anni di fuoco durante i quali si deciderà il destino di Napoli, bella come nessuna ma presa per la gola da tanti. All’orizzonte, nella sinistra, niente di nuovo. Solo Morcone, una persona perbene, un uomo di quelle Istituzioni che continuiamo a scrivere con la maiuscola anche se a volte anch’esse lasciano a desiderare. Se Lettieri dovesse salire a Palazzo San Giacomo cominceremo a giudicarlo dalla squadra che lo affiancherà e da come dialogherà con i cittadini e le realtà emergenti napoletane. Quelle che chiamiamo Eccellenze da decenni, da quando questa parola non era di moda. Il resto, come sempre, sono futili chiacchiere. Questo riguarda tutti i partiti e tutti candidati, prima della prova dei fatti. Vedremo cosa faranno in Consiglio, maggioranza e opposizione. Devono sapere in anticipo che non sarà una passeggiata, la facile conquista di un posto al sole, andare a lavorare per Napoli. L’Europa, invece, va alla guerra. Il Presidente francese fa decollare i suoi aerei e bombarda la Libia. Una guerra civile dura, cruenta, si trasforma in qualcosa di diverso. Abbiamo scritto, su una delle più autorevoli riviste pubblicate in Italia: Gheddafi non è Mubarak, non c’è una Sharm el Sheik che possa accoglierlo, Mu’ammar Gheddafi non andrà al mare, ma preferirà altri
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Il Primo Vice Presidente Vicario del P.E. interviene su temi di politica internazionale
GIANNI PITTELLA “La Russia è tornata a essere una delle maggiori economie mondiali”
di Paolo Montefusco nche le crisi nordafricane in corso costituiscono un’occasione per l’Europa. Allo stesso modo, le istituzioni del vecchio continente sono, quanto meno, l’unico interlocutore del nostro Mezzogiorno in termini di normative e investimenti per lo sviluppo. Queste opportunità, con il loro insieme di problemi, ci riguardano comunque da vicino e per realizzarle appieno occorrono istituzioni rafforzate e determinazione politica. Soprattutto in un quadro internazionale gravato ancora dai residui della crisi finanziaria mondiale e con grandi economie, come quella della Russia, protagoniste dello scacchiere geopolitico globale. Lo dice Gianni Pittella, lucano di Lauria, 53 anni, ed eurodeputato ormai di lungo corso, essendo stato eletto per la prima volta nel ‘99 e sempre confermato. Pittella, che ha ricoperto e ricopre numerosi incarichi nelle
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Commissioni europee (per esempio quella sul Bilancio o quella sul Mercato Interno) è oggi Primo Vice Presidente Vicario del Parlamento Europeo, eletto nella seduta plenaria di Strasburgo del 14 luglio 2009. Onorevole Pittella, nel 2009 lei scrisse un libro dal titolo “L’Europa indispensabile”, un volume che spiega perché è necessaria l’UE e ne analizza gli ingranaggi operativi. Quale capitolo o argomento
All’interno Un “medium” per Napoli L’inutile pratica della vivisezione La WARP e i grandi temi di Dublino Dejneka e l’anno ITALIA - RUSSIA Il sound di Alan Wurzburger Intervista a Paolo Caiazzo Francesca Bertini, la prima diva Come eliminare i giornalisti
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Spedizione in abbonamento postale 45% Art. 2 Comma 20/b Legge 662/69 Direzione Commerciale Imprese Campania. Giornale per l’estero: Tassa pagata, taxe percue/Economy/Compatto
aggiungerebbe oggi a quel libro? Svilupperei ulteriormente alcuni temi enunciati che sono diventati, in questi ultimi anni, di drammatica attualità e che impongono all’Unione Europea un profondo ripensamento delle proprie strategie future, dalle quali dipende la sua stessa sopravvivenza. Penso alla governance economica comune e alla politica estera, in particolare verso i paesi del bacino del Mediterraneo. Veniamo da una crisi finanziaria mondiale grave dalla quale forse oggi si comincia a uscire. Lei ha incontrato il Presidente dell’EBA, Andrea Enria, per discutere delle misure europee che riguardano i mercati finanziari. Quali sono, in senso generale, queste misure e cosa ancora si può pianificare? Molto è stato fatto per mettere al riparo i bilanci dei singoli paesi e quindi la tenuta dell’euro dagli attacchi della speculazione, si è dotato di risorse il fondo salva-stati, è stata varata una nuova normativa sulle agenzie di rating e sono stati istituiti nuovi organismi di sorveglianza. Ma se non ripartirà al piu presto la crescita nei paesi più esposti e indebitati, queste potrebbero essere ancora misure insufficienti. In questa prospettiva è stato fatto pochissimo e per questo ho rilanciato la proposta di dotare l’UE di nuove risorse finanziarie destinate allo sviluppo, all’occupazione e alla coesione sociale con l’emissione di Eurobond, titoli di debito garantiti dall’Unione. Affiancati alla tassazione delle transazioni finanziarie, si potrebbero raccogliere nuove risorse da indirizzare agli investimenti nei progetti europei della strategia 2020. Sul piano politico l’Europa sembra soffrire ancora di spinte nazionalistiche. Cosa fare e quanto tempo occorre ancora per arrivare a un’unione forte. Le vicende legate alla crisi economica e alla necessità di una politica estera comune su uno scacchiere internazionale in pieno movimento, anche a due passi da casa nostra, hanno spazzato il campo, a mio parere, da ogni irragionevole e suicida tendenza a rinchiudersi nei confini, senza speranza e palesemente inadeguati, degli Stati nazionali. Permangono purtroppo resistenSegue a pag. 6
2 L’EUROPA... Segue da pag. 1 bagni. Questo abbiamo scritto nei primi giorni dei moti di piazza a Tripoli. Molti osservatori e la grande stampa internazionale non hanno visto quanto stava accadendo oppure non hanno voluto vedere. L’Italia si è accodata supinamente e conta i danni della sua avventata presa di posizione, della sua avventata avventura in terra libica. Definire ribelli gli insorti e poi riconoscerli come interlocutori è stato quantomeno singolare, ma ormai il nostro Paese ci ha abituati a questo e altro. I poteri sporchi di questo mondo globalizzato proseguono la loro inesorabile marcia spingendo questo Mondo verso il Caos, funzionale ai loro giochi e alle loro strategie. Il sistema è sempre lo stesso, viene solo adeguato ai tempi. La guerra è, da sempre, uno strumento nelle mani della cricca mondialista che fa e disfa, a suo piacimento, la storia sulla testa dei popoli. Da un po’ di tempo girano nelle terre di molti paesi nuovi professionisti. Gli “Inventori delle Rivoluzioni”. In alcuni paesi la manovra è riuscita, poi però non ha avuto storia. Uno degli esempi emblematici è stata la “Rivoluzione Arancione” in Ucraina. Finita miseramente. Oggi siamo in una fase diversa, si strumentalizzano i moti popolari e si bombarda. Il Diritto Internazionale cede il passo ai Diritti Umani. I Diritti Umani molte volte, in certi contesti, sono una parola vuota. Che serve solo a un regolamento di conti tra paesi forti e armati e i loro nemici che gestiscono paesi che difettano in Democrazia. Ma chi dà la patente di Paese Democratico? Nascosti sono gli scopi veri che muovono le nazioni dominanti. Dove sono in Italia gli uomini di pensiero, gli intellettuali, le forze vive del Paese? Forse al mare, tra poco sarà estate. Non si levano voci di dissenso, tutto tace e muore sugli altari degli interessi. Qualcuno, di recente, ha provato a destabilizzare le Bielorussia ma non ci è riuscito, per fortuna. Tra poco si avvicineranno scadenze importanti in Russia che serviranno ad aprire scenari di fondamentale importanza per il futuro della Russia e del Mondo. Non provate a destabilizzare la Federazione Russa. Questo è un avvertimento che vale dentro e fuori la Russia! Non sarebbe una passeggiata, le conseguenze imprevedibili e la risposta severa. C’è un uomo in Russia, un leader, che sta facendo la storia di questo immenso Paese ormai da molti anni. Quest’uomo è la maggiore garanzia che il Popolo russo possiede. Ne riparleremo presto. Nei prossimi numeri.
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sussurri & grida
L’AFRICA E IL SOGNO DEL “RISVEGLIO ISLAMICO” Parliamo spesso dell’Islam contemporaneo paragonandolo al medioevo cristiano Vogliamo sottindendere, in questo modo,una critica fondamentalmente inesatta di Giuseppe Franza er tutto il mondo occidentale, il cosiddetto “risveglio islamico” rappresenta un problema politico dalla forte carica destabilizzante, un fenomeno poco comprensibile e prevedibile, sul quale gravano pregiudizi e timori, oscillazioni di giudizio e preoccupazioni particolari. Naturalmente la situazione libica trascina tutta la questione su piani interpretativi ancora più complessi e chiama in causa ragioni e reazioni che poco hanno a che fare con il problema fondamentale o primigenio, da cui tutto è nato. La questione è prima di tutto teoretica e riguarda gli ulema, gli intellettuali religiosi, il cui pensiero è genesi e sviluppo di questo movimento. Gli ulema non sono filosofi né politologi. Non indagano la realtà con speculazione razionale né pretendono di interpretare e cambiare il mondo attraverso l’azione politica. Il loro interesse è fondamentalmente religioso: essi cercano, da secoli, di praticare quell’impossibile (o comunque per forza di cose incommensurabile e intraducibile) esegesi della volontà divina, attraverso lo studio della rivelazione, ossia del Corano e della Sunna (i detti e gli atti di Maometto, che rappresentano la seconda fonte del diritto islamico). Ovviamente la loro speculazione trascende l’ideale, materializzandosi con effetti e conseguenze reali, politiche, sociali e morali. Ciò avviene perché l’Islam è una fede in cui la spiritualità non conosce confini, dove ogni aspetto della realtà implica religiosità e in cui le normali contingenze mondane sono espressioni importanti e mai marginali della verità divina. Gli ulema studiano e vivono i testi sacri per raggiungere la luce della verità, il senso pieno del volere supremo, e per questo sperimentano spesso difficilissimi conflitti teologici tra necessità di tradizione (e quindi continuità) e volontà di riforma. L’interesse per le scritture è forse il punto sul quale sorgono maggiori ambiguità interpretative tra occidente e oriente. Parliamo spesso dell’Islam contemporaneo paragonandolo
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al medioevo cristiano, durante il quale la Bibbia e i testi dei Padri della Chiesa rappresentavano l’unica verità rivelata oltre la quale era impossibile procedere. In questo modo, vogliamo sottintendere una critica, fondamentalmente inesatta: così come il mondo e, in parte, le chiese occidentali sono riuscite a secolarizzarsi, a superare il vincolo dogmatico della Bibbia e a sposare posizioni olistiche, così l’Islam dovrebbe aprirsi a strade più laiche, interpretando la religione attraverso categorie più moderne e meno “fondamentali” (o fondamentaliste) di espressione del culto. È questo però un atteggiamento etnocentrico che non tiene conto dei dogmi basilari della religione islamica. Per il cristianesimo Dio è rivelato in Cristo (in Giovanni leggiamo “Il logos divenne sarx”, carne), per l’Islam questa credenza è blasfema perché lo spirito non può incarnarsi (Gesù è un profeta ma non il figlio di Dio), ma è libro, il libro scritto da Maometto sotto ispirazione dell’arcangelo Gabriele. Per questa ragione i musulmani non possono staccarsi dal Corano, che avrà per sempre fondamentale importanza per la vita fideistica. Gli ulema studiano il messaggio del libro, interpretandolo attraverso la riattualizzazione contestuale e gnoseologica del mondo per poi comunicarlo alla società. Tre sono le correnti principali che dirigono il “risveglio islamico”: il salafismo (da “salaf”, antenato), che suggerisce un ritorno alle origini, alla purezza del messaggio dell’Islam primitivo, il sufismo (o tasawuuf, i vestiti di lana indossati dai fedeli sufi), corrente mistica pacifista che suggerisce la ricerca personale e l’indagine spirituale a fine estatico (comunione diretta con Dio) e i fondamentalisti, che estremizzano fino allo spasimo l’ideale islamico di corrispondenza tra religione e vita mondana (la visione del din wa dunya, religione e mondo) fino a pretendere che il culto influenzi e modelli il mondo reale riformandolo a partire dalla verità coranica. Queste correnti, profondamente diverse l’una dall’altra, sono presenti da molti anni, ma solo ultimamente hanno raf-
forzato il loro messaggio, impegnandosi in prima linea nella divulgazione, nell’educazione universitaria e nella produzione di fatwe. Ciò è avvenuto soprattutto quando nel mondo islamico è esploso il potere mediatico dei “nuovi predicatori”, ulema spesso sprovvisti di vera consapevolezza religiosa e filosofica, incontrollabili dalle autorità perché legati a canali non ufficiali come programmi televisivi satellitari o luoghi di ritrovo e di preghiera non ortodossi (soprattutto in Europa i musulmani provvedono a espedienti e soluzioni di ventura alla mancanza di moschee, incontrandosi in capannoni o negozi). Questi hanno sicuramente portato nuova linfa spirituale al sentimento religioso mediorientale e nordafricano, volgarizzando o esasperando, però, i messaggi e i fondamenti accademici ufficiali, e traghettando l’universalismo islamico dal contesto religioso a quello politico. Giocando sulla distanza dal potere in carica, hanno saputo incontrare il favore del pubblico, risvegliando sogni e speranze, e riportare in auge movimenti revivalisti o esclusi delle autorità religiose dei mullah. Le rivolte sociali e le crisi istituzionali nate dal malcontento esistenziale e civile delle persone hanno quindi un carattere ambiguo: da un lato nascono dall’esperienza di questi movimenti ulemici, o dalle loro derive contemporanee, dall’altro non riescono a trovare giustificazione o autocoscienza teoretica in grado di spiegare e incanalare in un disegno coerente la volontà di riforma che pervade l’Islam intero e fa tremare il mondo. Il ruolo degli ulema è interpretativo: essi debbono comprendere le scritture e, insieme, il mondo in cui esse devono materializzarsi come insegnamento o risposta, per questo devono unire la Legge (il Corano) alla Verità (la realtà filosofica, politica e sociale del mondo) in una sintesi che non conosce contraddizioni. Secondo il filosofo Averroè, infatti, quando c’è contraddizione tra legge e verità “allora diviene necessaria una interpretazione. Questa ha per scopo di ricavare il significato profondo di ciò che la parola della Legge esprime in modo figurato”.
Un busto raffigurante il filosofo Averroè e una cartina con l’area del Nord Africa
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UN MEDIUM PER LA CITTA’ DEL DOLORE “Fuoco su Napoli” di Ruggero Cappuccio nasce da amarezza e indignazione, ma lascia una traccia di speranza nella rigenerazione che segue alla distruzione
di Anna Montefusco egista per cinema, teatro e lirica, drammaturgo, sceneggiatore, narratore. E anche co-fondatore e direttore di Teatro Segreto Srl. Molte le anime e i talenti di Ruggero Cappuccio. Quando lo incontriamo, a Roma, precisiamo da subito che accendiamo l’opzione “narratore” per parlare del suo ultimo libro “Fuoco su Napoli”. Sorride, un po’ si schernisce, e con grande pacatezza si dispone alla lunga e bella chiacchierata che ne segue Ruggero, a cinquant’anni dall’uscita di “Ferito a morte”, “Fuoco su Napoli” sembra quasi l’amaro epilogo di una parabola che parte da lontano. Cosa ne pensi? Penso che senza “Ferito a morte” questo libro non sarebbe esistito, ma ciò anche senza “La morte della bellezza”, di Patroni Griffi. Certo, è singolare che sia La Capria che Patroni Griffi abbiano scritto due grandi romanzi su Napoli, molto diversi tra loro, e che in entrambi ci sia la parola morte. Ed è singolare che in qualche modo, dopo due romanzi che hanno al centro della loro azione la parola morte, arrivi un romanzo che porta al centro del suo titolo la parola fuoco, un elemento che in definitiva può portare morte ma porta anche una palingenesi, una resurrezione, una rigenerazione. E’ evidente, quindi, che senza questi due libri “Fuoco su Napoli” non sarebbe esistito. Ma è anche vero che questo è un libro debitore a molti altri libri, pur rimanendo un figlio autonomo. Un figlio che ha i suoi padri ma che riesce ad andare per la sua strada, spesso contro il suo stesso autore. In che senso? E’ un libro che si è ribellato anche all’autore, a quelli che potevano essere i suoi desideri stilistici in alcune zone. E’ un libro eversivo per certi aspetti, perché scritto quasi dagli altri. Questo vuol dire che in questo caso l’autore ha avuto una funzione fondamentalmente medianica. Sono altri gli spiriti che hanno dettato questo libro. Sono gli spiriti dei tanti napoletani, ma anche stranieri, che nell’arco di questi anni, dialogando con il sottoscritto, hanno raccontato il loro dolore per questa città, la loro amarezza e la loro indignazione. Questa indignazione si specchiava con la mia e in questo gioco di specchi è nato un corto circuito che ha prodotto questo libro. Ecco perché dico che questo libro è stato scritto da tutte le voci che hanno sofferto e che soffrono per questa città. Sono stato un tramite, un medium. Questo è il mio solo merito. Cosa ti aspetti da questo tuo romanzo? Sono serenamente convinto che il giudice dei libri sia il tempo. Ci vuole molto tempo affinchè si comprenda se un libro è un capolavoro, se è un grande libro o un libro importante. Non a caso, dopo cinquant’anni, parliamo ancora di “Ferito a morte”. Sono questi cinquant’anni, che pesano molto e che al contempo sono molto leggeri, a dirci che “Ferito a morte” è un capolavoro. Quindi, al di là delle vendite e delle recensioni, positive o negative che siano, i libri hanno nella loro durata, nell’immaginazione dei lettori e nelle generazioni attraverso i tempi, il loro banco di prova più vero. Quello che umilmente mi rende più felice è che “Fuoco su Napoli” è un libro che stanno leggendo persone tra i ventitré e gli ottanta anni. In un mondo editoriale in cui si va per sezioni, in cui si fa la letteratura per i ventenni, la letteratura per i trentenni e così via, un libro che parli a tre generazioni diverse è sicuramente la cosa più interessante ed è la cosa che mi rende più felice e speranzoso. Veniamo ai personaggi. Diego Ventre rappresenta il bene e il male al contempo, che sono poi gli stessi controversi aspetti della sua città: un po’ dunque la rappresenta?
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Si, la rappresenta e le rassomiglia. In questo vorrei chiamare in causa Giovanni Falcone quando diceva che se vogliamo capire veramente la mafia dobbiamo innanzitutto riconoscere che ci rassomiglia. Se non riconosciamo questo, se la vicenda viene considerata altro da noi, non la capiremo mai. In genere sono due gli atteggiamenti che possiamo assumere quando, nella vita, di fronte ai nostri occhi si presenta un problema grave, come appunto può essere quello della mafia, della camorra. L’atteggiamento numero uno sta nel voler dominare quel problema. L’atteggiamento numero due, nel conoscerlo. In realtà, dominare quel problema con la forza non ci mette in condizione di conoscerlo. E conoscerlo, forse, ci può mettere nella condizione di dominarlo. Ormai è chiaro che la mafia è un fenomeno che non si domina con la forza. Diego Ventre però è un camorrista anomalo e non solo perché è un professionista. O sbaglio? Diego Ventre si porta dentro tutte le correnti di energia della camorra, ne rispecchia il carattere pervasivo nelle azioni di tutti i giorni, ma è un camorrista come ancora non ce ne sono a Napoli. Questo perché lui è nato a Napoli ma è cresciuto a Palermo dove ha ricevuto “un’educazione” antiesibizionistica. Mentre la camorra è un fenomeno esibizionistico, la mafia è un fenomeno estremamente occulto in quanto non è interessata ad apparire, a strafare. E’ mimetica. Diciamo che il mafioso è un dominatore occulto. Chi è dunque Diego Ventre? E’ uno che ha capito che la legalità e l’illegalità sono molto vicine, si toccano. Difatti, lui cerca di avere una visione bilaterale su questo fenomeno, è un avvocato e dunque conosce la legge e però, sostanzialmente, è un uomo che attiva un suo progetto che è contro la legge. C’è un esempio che lui fa nel libro quando, rivolgendosi all’amico Denza,
Ruggero Cappuccio
gli dice che è come se loro stessero su di un ponte in bilico tra legalità e illegalità. La differenza sta in pochi, piccoli passi. Cosa ha di interessante questo personaggio? Su Diego Ventre si potrebbe aprire un dibattito e fare un articolo a parte. Diciamo che la cosa interessante è che lui è un uomo trattativista. Uno che non crede nel sangue come risoluzione, se non di fronte a conseguenze estreme. Che poi sono quelle di fronte alle quali lui si è trovato due volte, e due volte ha ucciso. E’ un raffinato, un uomo colto. Sforzandoci, potremmo dare delle indicazioni di eventuali parentele realistiche. Si dice per esempio che il mafioso latitante Matteo Messina Denaro, sia un grande conoscitore della letteratura sudamericana. Molte cose evidentemente stanno cambiando. In Sicilia ci sono più elementi, non solo Messina Denaro, che fanno pensare a una evoluzione molto raffinata. Diego Ventre potrebbe riassumere questa evoluzione? Diciamo di si. Diciamo che lui è anche una specie di reincarnazione del machiavellismo moderno perchè sogna una Napoli sgombra dalle brutture. Non dimentichiamo che è un uomo che ha un senso estetico, che ama l’arte Segue a pag. 4
il libro FUOCO SU NAPOLI - Ruggero Cappuccio - Feltrinelli 2010 di Anna Montefusco
Ruggero Cappuccio parte da una catastrofe per azzerare secoli di offese perpetrate nei confronti della città di Napoli. Con lui, la natura restituisce l’affronto con gli interessi e Partenope ritorna sirena con la sua metà in acqua. L’avvocato Diego Ventre, indiscusso e discusso protagonista di questo romanzo, conosce in anticipo l’ineluttabile sorte cui va incontro la sua città e vive questo conto alla rovescia come toccato da un improvviso, benevole destino che gli fa un duplice, inaspettato regalo. Gli regala cioè l’illusoria speranza che acqua e fuoco porteranno via il marcio lasciando intatta la bellezza e la certezza che tutto questo lo arricchirà e non soltanto nell’animo. Perché sarà proprio lui con il suo cinismo e la sua intelligenza a farsi artefice assoluto della ricostruzione dopo il cataclisma e a godere dei miliardi che saranno puntualmente stanziati. Eppure, nell’animo di quest’uomo non si agitano solo ambizioni economiche. Diego Ventre segue una sua utopia che parla ancora di bellezza, di giustizia, di ordine. Un’idea che rispecchia le contraddizioni di un uomo perennemente in bilico tra legalità e illegalità, tra raffinata cultura e sottocultura camorristica. Un uomo che si fa specchio stesso della sua amata, odiata città. La sua forza e la sua energia troveranno nuova linfa nella giovinezza di Luce, bella e carnale figlia della stessa città, a completare la medaglia di due facce solo apparentemente disuguali. Diego si farà mago di incantesimi per catturare il cuore puro di Luce, inventerà giostre e fuochi d’artificio, musiche celestiali e quadri rari solo per leggere lo stupore negli occhi grandi dell’amore. E riuscirà a farla sposa, sotto un cielo macchiato da fiocchi di cenere, mentre da lontano Napoli ancora brucia. Succede però che l’incantesimo svanisce prima che termini la giornata di festa, lasciando alla sposa una promessa a metà. La tragedia personale si sovrappone a quella della città in un rimando metaforico di duplice violazione. Luce, come Napoli, sirena offesa e violata, si inabisserà per poi rialzarsi purificata e gravida di nuova vita. “Fuoco su Napoli” è romanzo metafora del decadimento, del declino di una città che ha smesso di accogliere e che dunque non è più in grado di assolvere al suo ruolo storico, quel ruolo che aveva conservato per secoli. Napoli oramai è il ventre asciutto di una madre stanca di partorire figli ingrati. L’autore ha scelto di partire da un’angolazione apocalittica, da una fine, per dare inizio ad un nuovo principio. La scrittura forte e colta di Ruggero Cappuccio ne ha fatto un libro davvero straordinario.
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sussurri & grida
NEGLI OCCHI DEGLI ANIMALI, UMANI E NON
ogni sua forma e genere. L’educazione al rispetto per ogni forma di vita è l’unica speranza che abbiamo. Ricollochiamo le nostre divinità dove albergavano un tempo, nella corteccia degli alberi, nel vento, nei fiori, nelle acque, nel sole. Negli occhi degli animali, umani e non umani.
La vivisezione, e molti studi oramai lo dimostrano, è una pratica assolutamente inutile. I metodi alternativi sono attendibili e ben noti in campo scientifico di Monica Zunica i tempi della scuola mi piaceva scrivere i temi. La profesoressa di italiano arrivava trafelata e ci dettava velocemente tre tracce. Io sceglievo sempre quella di fantasia. Mi dava la possibilità di spaziare, di andare “fuori tema”. Lavorare di fantasia, pensavo, presupponeva proprio una mancanza di rigidità. Uno sforzo di libertà assoluta. Adesso, la mia traccia è ben definita. Non sono autorizzata a fantasticare. Vivisezione è una parola chiara. Molti umani la portano sulla bocca senza storcerla. Nessuna emozione, compassione. Vivisezione è l’atto di sezionare la vita, scomporla, osservarla mentre soffre. Sezionare è dividere, separare, tagliare. Gli esseri umani sezionano la vita, la tagliano, la separano dal Tutto. Sezionare presuppone quindi una distanza tra colui che taglia e ciò che viene sezionato. E’ da questa distanza che nasce la povertà dell’uomo. La sua ignoranza. La distanza di cui parlo è quella che, da molti secoli, ha allontanato l’uomo dalla Natura. Un tempo, la natura stessa aveva un significato che ognuno, nel suo intimo, percepiva. Avendolo perso, l’uomo oggi la distrugge, e si condanna. Non c’è una virgola, in queste parole di Claude Lévi-Strauss che non sia disperatamente vera. L’incapacità di sentirsi un tutt’uno con la Madre Terra ha fatto precipitare gli esseri umani in un’oscurità pericolosa. Cresce nell’uomo la convinzione della propria superiorità rispetto a tutte le altre creature viventi. Aumenta la cecità negli occhi di chi distrugge foreste e boschi anticamente sacri. Allo stesso modo sono fissi, assenti, senza vita, gli sguardi di coloro che sezionano. Gli animali, invece, cercano gli occhi dei loro aguzzini e non capiscono. Non sanno perché sono costretti a vivere. Se potessero scegliere preferirebbero la morte. Spesso feriscono i loro corpi, strappano la pelle con le loro stesse unghie perché non hanno parola. Non sanno dire basta. Sono centinaia di milioni, gli animali che ogni anno muoiono sotto i colpi incessanti dei ferri, delle ferite, delle continue aperture e chiusure dei loro corpicini straziati. Ogni giorno sono stremati dal dolore perchè nel
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70% dei casi non vi è alcuna anestesia. Provano a urlare, si dibattono. In celle anguste, senza né aria ne luce naturale, mettono al mondo figli che a loro volta saranno sezionati, mutilati, avvelenati, ustionati, accecati, affamati, congelati, decerebrati, schiacciati, sottoposti a ripetute scariche elettriche, infettati da ogni tipo di virus o batterio. Spesso tolgono loro le corde vocali per non sentire le loro urla, lamenti. Topi, cani, gatti, ratti, cavalli, bovini, scimmie, capre, maiali, uccelli, pesci non sono più esseri viventi. Non hanno occhi, voce, lacrime. Non hanno anima. Sono semplicementi oggetti su cui sperimentare farmaci, cosmetici, pesticidi, detersivi, inquinanti ambientali, radiazioni, alcol, tabacchi, droghe, veleni, nuovi proiettili, armi chimiche, biologiche, nucleari. Avete mai pensato a tutto questo? La maggior parte di voi solleverà le spalle in segno di rassegnazione. Molti di voi diranno che purtroppo così va il mondo e che queste cose sono tremende ma necessarie. Ma necessarie a chi? La vivisezione, e molti studi oramai lo dimostrano, è una pratica assolutamente inutile. La fisiopatologia delle altre specie animali non è di alcun aiuto alla ricerca, anzi spesso è fuorviante. La LIMAV (Lega Internazionale Medici per l’Abolizione della Vivisezione) è un’organizzazione internazionale che si batte contro la più grande truffa umanamente deprecabile: la vivisezione. I medici contrari a questa pratica sadica e inutile sono sempre di più. I metodi alternativi e certamente più attendibili sono ben noti nel campo scientifico ma, purtroppo, non vengono attivati. Perché? La vivisezione è in realtà una fonte di guadagno a cui i ricercatori non vogliono rinunciare. La storia dunque si ripete. I soldi sono il bene supremo. L’unico valore. Una divinità a cui nessuno sfugge. Il dolore degli esseri viventi, umani e non, ha un prezzo. La morte, la tortura, il sadismo, l’avvelenamento del pianeta sono tutte questioni valutabili in denaro. Le religioni rivelate hanno collocato Dio in un luogo etereo, lontano dalla Natura, dagli uomini, dagli animali. Questa ulteriore distanza, per molti, giustifica il sopruso, la violenza. Non lasciamoci distrarre. La vita è il bene supremo in
UN MEDIUM PER LA CITTA’.... Segue da pag. 3
contemporanea. Sa che c’è un vuoto nella cultura delle classi dirigenti. Capisce che conoscere un’opera di Caravaggio, di Tiziano, di Schifano o di Palladino, è un volàno, un motore. Un punto di vista ulteriore sulla realtà. Lo ha capito prima degli altri. Luce, la protagonista femminile, è invece protesa in avanti, verso il futuro. Sembrano essere molto diversi fra loro. E’ così? Solo apparentemente. In realtà sono due facce della stessa medaglia. Sono necessari l’uno all’altro. Lui è cinico, scettico o, meglio, è diventato scettico con grande dolore. Eppure questo scetticismo vacilla quando nella sua vita entra proprio questa giovane ragazza. Ciò che illustra meglio la loro differente posizione è il loro ragionamento su Napoli. Ti riferisci alla metafora del mito di Osiride e Iside? Esattamente. Lui, parlando di Napoli, tira in ballo l’esempio di una sedia rotta, senza più schienale e gambe e che di conseguenza perde le sue funzioni. Luce invece si rifà al mito di Osiride e Iside. E’ vero, dice
a Diego, che il corpo di Osiride è fatto a pezzi e sparso per la terra di Egitto, ma è pur vero che la sua amata Iside ne recupera i pezzi, ne ricompone il corpo e lo resuscita. La ragazza paragona il corpo massacrato e sventrato di Napoli a quello di Osiride e si dice speranzosa che, proprio come Osiride, la città possa ritrovarsi e ricomporsi. Giuseppe Montesano nel suo romanzo “Di questa vita menzognera”, che pur parlava di una catastrofe su Napoli, lasciava tracce di speranza nell’amore. C’è una traccia di speranza nel tuo libro? C’è una traccia di speranza che passa per una crudezza. La rigenerazione parte quando una morte viene riconosciuta. E’ necessario che qualcosa bruci perchè qualcos’altro possa rinascere. Ci può essere speranza a condizione di essere molto realistici. Questa è una città che negli ultimi cinquant’anni ha elaborato una teoria che io definisco logolamentazionale, ha confezionato cioè questo espediente della lamentazione. Con questo sistema non si è andati e non si andrà da nessuna parte.
Un manifesto contro la vivisezione realizzato dalla LIMAV
Innanzitutto dobbiamo riconoscere chi siamo, poi dobbiamo dirci con sincerità non solo chi siamo, ma anche cosa abbiamo realmente fatto per cambiare il corso delle cose delle quali ci lamentiamo. Ecco, la speranza può passare proprio da questo esame di coscienza. Perché usi sempre il termine “femmine” quando descrivi le protagoniste del tuo racconto e mai “donne”, per esempio? Nel libro, le donne vengono assimilate a quello che è l’aspetto più prorompente della città di Napoli: la sensualità. Vengono inquadrate nella loro natura ferina, originaria e biologica di creatrici della vita. E’ così che vengono percepite perché Napoli, come altri luoghi del Sud, ha delle donne, nel bene e nel male, un’idea che è ancora molto legata alla comunicazione sensuale intesa come assicurazione che la vita continui, che la vita esista. Chiudiamo con un omaggio alla città che ti ha accolto. Roma, come hai dichiarato, è sempre l’unico luogo dove un meridionale può sopravvivere? Si, è un luogo dove verosimilmente un meridionale può sopravvivere. Lo è un po’ meno oggi, ma continua a essere una realtà del genere. Secondo me la più bella definizione di Roma la diede Federico Fellini quando disse: “ Roma è come una
madre indifferente, ti lascia partire e tornare tutte le volte che vuoi”. Io che abito qui da oltre dieci anni, avverto questo senso di libertà.
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COMUNICAZIONE E “CATASTROFE” DEL SIGNIFICATO La parola si evolve, superando gli ambiti ristretti di una comunità e ha bisogno di lessico, di grammatica, di sintassi che rendano in modo sempre più evoluto la produzione concettuale di Salvatore Casaburi C’è un’alternanza storica che contrappone le diverse “epoche della parola”. Socrate sostiene la superiorità della “parola parlata” rispetto alla scrittura e vede nel passaggio dal “significante/suono” al “significante/grafia” il venir meno della retroazione comunicativa propria del dialogo (Platone, “Fedro”). La complessa visione del filosofo greco, ovviamente, è ben altra cosa rispetto al contemporaneo e ridondante “blaterare” televisivo che, invece, annulla la formazione stessa del senso. Nelle antiche civiltà, che risentivano della laboriosità e dei limiti delle tecniche e dei supporti della scrittura, la “parola parlata” si imponeva per complessità e per immediatezza critica. I testi scritti non consentivano nelle biblioteche l’accumulazione massiva di informazioni, che gli “scriptoria” e l’invenzione dei caratteri mobili di Gutenberg avrebbero favorito, solo molto tempo dopo, in progressione geometrica. Nel mondo antico la scrittura era privilegio di un numero ristretto di sapienti e filosofi. Serviva più a fissare le idee che a trasmetterle in assenza del loro “produttore”. Il passaggio graduale dalla parola “soltanto parlata” alla “parola anche scritta” è il prodotto di un cambiamento epocale strettamente connesso all’evoluzione dei campi semantici che fanno delle parole concetti complessi inseriti in un contesto compiuto e defini-
to. Con la supremazia della scrittura, il linguaggio perde il suo carattere “soggettivo” e “momentaneo”, riconducibile, cioè, ai soli “parlanti”, per diventare veicolo universale e polisemico del pensiero. La parola si evolve, superando gli ambiti ristretti della piccola comunità e ha bisogno di lessico, di grammatica, di sintassi che rendano in modo sempre più evoluto la produzione concettuale. Non a caso, le scienze matematiche e naturali, già nel mondo antico, danno luogo a specifici “linguaggi settoriali” che ricorrono a repertori lessicali e a simboli che si “specializzano”, fino a “staccarsi” dalle esigenze comunicative “quotidiane”, per caratterizzarsi sul piano dell’astrazione teorica. Si crea, di conseguenza, la sepa-
razione tra “parlanti” e “scriventi”, tra chi è capace di elaborazione complessa e chi resta legato alla semplice osservazione empirica. Inizia a determinarsi la separazione tra “lavoro manuale” e “lavoro intellettuale” che si riproporrà, nel corso del tempo, con modalità e forme diverse, con un divario tendenzialmente sempre più accentuato. Il linguaggio si trasforma da strumento di “comunicazione”, cioè di “comunione tra simili”, in elemento di divisione. Come affermato da Lorenzo Milani in “Lettera a una professoressa”, il potere e la subalternità si misureranno, per secoli, sulla quantità e sulla qualità delle parole usate. Il “controllo” delle parole e della comunicazione in generale diventa aspetto centrale delle strategie dei ceti e dei gruppi al
Flegreo-napoletano, come amava definirsi, Michele Sovente è stato il poeta dei luoghi e degli odori. Per noi era soprattutto un amico con cui parlare di poesia
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Timothy Leary e Umberto Eco
ADDIO A MICHELE, POETA DEL SENSORIALE ichele Sovente era un amico per tutti noi del giornale. Veniva a trovarci in redazione, con lui parlavamo delle sue raccolte di poesie appena pubblicate. Scrisse anche un pezzo per noi, in occasione della scomparsa del poeta Mario Luzi. Si guardava intorno, gli leggevi negli occhi uno “stupore”, una fascinazione senza sosta per qualunque luogo visitasse, anche i semplici locali di un giornale. E gli piaceva avere intorno degli amici coi quali capirsi perché lui era “poeta, ma persona normale” come lo aveva definito un amico per sottolineare la totale assenza, in Michele, di qualsiasi atteggiamento bohemienne o intellettuale. Amava dunque meravigliarsi dei luoghi Michele Sovente. Già, i luoghi. Da quelli che più erano i suoi, i Campi Flegrei, Michele non poteva prescindere. Si definiva un “flegreo-napoletano”. I Campi erano la materia prima delle sue opere. Attingeva con disperazione e amore alla terra flegrea ferita per farne parole che hanno il vestito antico del latino, quello buono dell’italiano e quello discinto del dialetto. Si serviva del bradisismo che tutto scuote e mischia, lasciando solo i sussulti e la precarietà che facevano da filo conduttore alle sue raccolte di poesie. I Campi Flegrei, del resto, segnarono il suo avvicinamento alla poesia, che è stato molto fisico. A proposito di ciò, e parlando degli odori della sua terra, dello zolfo, una volta ci disse che “Lo zolfo non era una cosa a sé stante ma si mescolava alla totalità degli odori come ad esempio il pesce e gli altri odori che offrono quei luoghi, come il mare o la salsedine. Un avvicina-
potere. La “parola omologata”, privata della sua complessità, ridotta a “veicolo ideologico”, produce una “catastrofe del senso” che ritroviamo nel corso dei millenni, fino ai giorni nostri. Alla “parola scritta” si oppone, spesso, il riduttivo didascalismo dell’immagine. I ceti subalterni, nell’impossibilità di accedere “alla pari” ai testi scritti, fruiscono di una “narrazione”, spesso propagandistica, che ha lo scopo di “divulgare”, senza troppe pretese, le “verità dominanti”, sia politiche che religiose. È pur vero che i grandi maestri della muralistica restituiranno con la loro arte, nel Medioevo, ricchezza estetica a ciò che doveva essere rappresentato, nelle intenzioni del committente, in modo schematicamente elementare. Gli affreschi di Giotto, per esempio, danno il senso di una complessità che raggiunge livelli sublimi. Tali immagini impongono, in ogni caso, opportuni strumenti di decodifica e diversi tipi di fruizione. D’altra parte, la stessa “Commedia” di Dante traghetta definitivamente il “volgare”, cioè il “parlato popolare”, nella dimensione alta della poesia. Nel Novecento la tripartizione “parola scritta/parola parlata/immagine” si arricchisce di nuovi elementi. La nascita del cinema muto, mentre la pittura si evolve definitivamente verso il concettualismo e l’astrattismo, ripropone la supremazia dell’immagine, così come avverrà negli anni ‘50 con la televisione e i fotoromanzi, fino al “trionfo” dei network commerciali. La pubblicità si impossessa della vita quotidiana, ne diventa l’ideologia dominante e modella atteggiamenti e comportamenti di massa. L’immagine svuota la complessità della parola, fino a trasformarla in elemento secondario rispetto ai codici visivi. Come avveniva
mento molto fisico alla poesia e ciò si nota ancora nei miei versi. Anche quando subentra la riflessione, questa non è solo mentale ma è intrisa di sensorialità”. Una volta ci parlò del suo comune di nascita: “Sono nato a Cappella, comune di Monte di Procida. Cappella è una frazione. Tengo sempre a dire che sono di Cappella perché è come se fosse una zona franca, una zona di frontiera e noi lì siamo un po’ “selvatici”, un po’ riserva indiana. Sentendoci trascurati abbiamo sviluppato questo spirito, questo nostro orgoglio. Voglio rivendicare anche un nostro carattere linguistico che ci porta a parlare con la ‘o’. Per esempio, ‘qua’ e ‘là’, noi lo diciamo ‘ccò’ e ‘lò’”. E da flegreo napoletano soffriva quando la sua terra era offesa dal degrado: “Le nostre bellezze naturalistiche, storiche e paesaggistiche sembrano buttate lì come ciarpame nel totale disinteresse di chi avrebbe dovuto aver cura di quei luoghi. E’ vero, come dice qualcuno, che sono stati trascurati dalla letteratura ma anche dalle Amministrazioni locali e come idea collettiva hanno sempre avuto un valore più storico-classico, mitologico. Meno come realtà vivente e culturale attuale. La Solfatara, il lago D’Averno, non sono cose vecchie e potrebbero ricevere un minimo di cura in più, non occorre chissà quanto a togliere via un po’ di erbacce e fare interventi in questo senso”. Parlando del suo incontro con la poesia ci disse che era avvenuto in seminario: “Intorno ai 14 anni. Mi intrigava tutto ciò che mi circondava, osservavo i tramonti, le albe, ascoltavo le voci. Un approccio naturale insomma”. Della poesia e
della sua costruzione diceva: “Penso che si debba sentire molto e conoscere bene la tecnica, la retorica, la grammatica, e tutto quanto. Però poi bisogna sentire la tecnica ma non usarla in maniera tecnica, ma come se fosse un fatto naturale. La tecnica deve essere interiorizzata al punto che tanto più è tecnica quando più non la si nota. Un detto indiano afferma che la poesia è un suono che produce conoscenza. La parola in poesia non è un semplice concetto ma c’è la trasfigurazione di un dato oggettivo mentale attraverso una sequenza di suoni che intersecandosi alludono ad altro”. Ti salutiamo con questo pensiero Michele, sapendo che se potremo sentire ancora l’odore dello zolfo dai tuoi versi, ci mancheranno tanto la tua presenza e i tuoi occhi stupiti sul mondo.
Michele Sovente
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GANGI, POETA DELLA CHITARRA Nato a Roma, compositore e musicista raffinato, stabilì un forte legame con Napoli portando la canzone partenopea nel mondo in coppia con Fausto Cigliano di Enzo Amato lla domanda: quale musica piace a Mario Gangi?, il grande chitarrista romano rispondeva: “Ma tutta! Mi piace ascoltare Springsteen come Mulligan, mi piacciono i Beatles ma ascolto anche la Chacconne di Bach”. Questa semplice ma decisa risposta, riassume tutta la vita professionale di Gangi, il cui repertorio spaziava a trecentossessanta gradi, senza nessuna preclusione. Gangi nasce a Roma il 10 maggio del 1923. Lo abbiamo perso da poco: il 15 febbraio dell’anno scorso si è spento nella sua città. Roma, città ingrata, Mario Gangi nel raccontare le sue più recenti attività in giro per il mondo, concerti in Francia, Amburgo, Francoforte, diceva che a Roma la chitarra è proibita: nessun concerto programmato per lui. Questo non ci stupisce in un’Italia che culturalmente sta andando alla deriva: nessuna programmazione di lunga durata, nessun investimento, poche certezze. Di questo anche Gangi era convinto tanto da scoraggiare i giovani allo studio della musica, anzi, consigliava loro di non farne un unico obiettivo. “I tempi eroici della riscoperta della chitarra sono passati - diceva - e a meno di non essere un fenomeno, si rischia di diventare un fallito. Questo è valido d’altronde anche per i pianisti”. Mario Gangi nasce come contrabbassista, strumento in cui si diploma sotto la guida del grande Isaia Billé, ma grazie al padre chitarrista, riusce ad avere un incontro con Andres Segovia, incontro che segnerà tutta la sua vita. La sua carriera di chitarrista comincia, si esibisce ai
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GIANNI PITTELLA Segue da pag. 1 ze che non fanno altro che aggravare un quadro e un ritardo già gravi, ma confido nei passi avanti che i governi sono stati costretti a fare dal Trattato di Lisbona, cedendo sovranità prima di tutto al Parlamento Europeo dove la coesione tra i popoli e ben piu forte che nelle delegazioni governative del Consiglio. Qual è a suo avviso la percezione che hanno oggi gli italiani dell’UE: una risorsa, una responsabilità o un onere? Siamo in una situazione politica e governativa bloccata, il debito e il deficit di bilancio permettono pochi spazi di manovra. In questa situazione paralizzata cresce il numero degli italiani che guardano all’Europa come fonte di diritto, programmazione, fondi. In che modo il nostro Mezzogiorno potrà dialogare con l’Europa e il Mediterraneo per il proprio sviluppo? E inciderà questo dialogo nel Mediterraneo con lo sviluppo dell’intero Paese? Oggi l’Europa è l’unico interlocutore del Meridione, in termini di normative e investimenti rivolti a colmare il gap di sviluppo con la media europea, ma gran parte di questo sforzo rischia di essere vanificato se, accanto all’iniziativa Ue sulle politiche di coesione, continuerà a mancare l’indispensabile partnership del governo nazionale e se gran parte degli enti locali dimostreranno ancora la loro inadeguatezza nella programmazione e nella capacità di spesa. Dobbiamo pensare al Mezzogiorno come a una immensa piattaforma logistica e culturale protesa verso il Mediterraneo e i paesi in tumultuoso sviluppo del vicino e del lontano Oriente. Ma per cogliere questa opportunità occorre visione e determinazione politica che oggi non vedo. Siamo nei giorni della crisi libica, preceduta da quelle che hanno interessato tutto il Nord Africa. Al di là della conclusione e degli sviluppi post conflitto, è più ottimista o preoccupato pensando a chi raccoglierà
microfoni dell’EIAR, (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) la RAI di allora, per continuare la sua attività concertistica in tutto il mondo:Europa, America, Australia, Giappone. E’ stato il primo esecutore e revisore in tempi moderni del Concerto op. 30 di Mauro Giuliani. Con l’orchestra della Filarmonica di Berlino, ha eseguito in prima esecuzione, l’Ode super Chrysea Phorminx di Roman Vlad. Ha suonato a lungo con il Quartetto d’Archi dell’Accademia di Santa Cecilia e con partner d’eccezione quali Accardo, Filippini, Zagnoni e tanti altri. Alla sua attività di interprete, che lo vede impegnato anche nell’esecuzione di composizioni scritte espressamente per lui da grandi compositori contempoMario Gangi
l’eredità di leader come Gheddafi o Mubarak? I nostri rapporti con la Libia del futuro, con o senza Gheddafi, subiranno una battuta d’arresto? La caduta di regimi autoritari in paesi di grandissime potenzialità economiche e sociali non può che essere considerata un bene e una grande occasione per l’Europa. Finalmente centinaia di milioni di nordafricani possono essere immessi nel flusso della globalizzazione dando un contributo importantissimo alla pace e allo sviluppo. Ma per ottenere questo risultato occorre un presupposto indispensabile, il rafforzamento di istituzioni realmente democratiche ed è a questo che l’Europa deve lavorare, sostenendo i giovani governi liberamente eletti in questa opera e i popoli con un vero e proprio piano Marshall che faccia ripartire l’economia e rafforzi la coesione sociale. Proprio in rapporto alle crisi africane si ripresenta in maniera forte il problema dei profughi che arrivano sulle nostre coste. Cosa va ancora fatto per conciliare le esigenze dei singoli paesi con una politica europea per l’immigrazione. Intanto dobbiamo lavorare per ridurre le aree di crisi che travagliano il continente africano, da dove proviene il flusso migratorio più massiccio. Questo è il solo modo per chiudere i rubinetti eliminando felicemente le cause dei movimenti migratori, come è avvenuto per i Balcani, i paesi dell’Est e come sta avvenendo per la Cina e la
La sede del Parlamento Europeo a Bruxelles
n° 4 - Aprile 2011 ranei tra i quali Franco Margola, Nino Rota, Roman Vlad, Jacopo Napoli, Ennio Morricone, Goffredo Petrassi (celebre la prima esecuzione assoluta del Concerto dell’Argentarola per chitarra e orchestra di Ennio Porrino del 1954), affianca l’attività di didatta prima, come detto, presso il Conservatorio di Napoli e poi in quello di Santa Cecilia di Roma formando moltissimi professionisti e pubblicando un “Metodo per chitarra” in tre volumi che ha accompagnato i progressi chitarristici di diverse generazioni. Determinante anche il suo ruolo per la diffusione della chitarra classica. Nel 1965, insieme al chitarrista jazz Franco Cerri, presenta la trasmissione televisiva “Chitarra, amore mio” e nel 1982, realizza con lo stesso Cerri, un “Corso di chitarra” in fascicoli cui seguiranno ben quattro ristampe. Compositore raffinato di innumerevoli brani, a noi piace ricordarlo anche per il suo legame con Napoli che è duplice: nel 1959 viene nominato, dal direttore Jacopo Napoli che lo stimava particolarmente ed amava molto la chitarra, insegnante del corso straordinario di chitarra presso il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, probabilmente, il primo corso ufficiale di chitarra nei conservatori italiani. Nel 1976 forma una coppia indissolubile con il cantante napoletano Fausto Cigliano portando la grande canzone napoletana in giro per il mondo con una lunga serie di concerti. Mario Gangi ha affiancato, in un epoca in cui al Conservatorio napoletano San Pietro a Majella la vera musica era protagonista, muscisti come Ennio Porrino, Terenzio Gargiulo, Aladino Di Martino, Bruno Mazzotta, Vincenzo Vitale, Sergio Fiorentino, Paolo Spagnolo e Pina Buonomo. Nel giorno della sua morte è stato ricordato come “un vero protagonista dello scenario chitarristico internazionale. La sua poetica, basata sulla fusione di diversi linguaggi musicali, ha precorso i tempi. La sua scuola chitarristica, e gli oltre 20 anni da interprete classico ed elettrico nelle orchestre Rai ne fanno per sempre, un musicista dal percorso irripetibile”. Indiscutibilmente è da collocare tra i maggiori esponenti del chitarrismo internazionale.
penisola indiana. Nel frattempo occorre rafforzare le strutture permanenti di accoglienza di profughi e immigrati, assicurando loro un trattamento che rispecchi il diritto internazionale e alimentando ordinatamente l’inserimento di nuovi lavoratori, divenuti indispensabili per le nostre imprese e le nostre famiglie. In questa prospettiva gli interessi dei singoli paesi devono compenetrarsi e coordinarsi con le politiche europee che li supporta. Lei ha svolto in passato ruoli istituzionali in relazione ai rapporti con paesi della disciolta URSS. C’è anche una personale passione per la vasta cultura di quei paesi, Russia e Ucraina in particolare? Non credo di affermare nulla di particolare nel ritenere la ricchezza e la varietà di quei paesi inserite, a tutti gli effetti, nell’alveo culturale, storico, sociale, economico, europeo e che la drammatica epopea del secolo precedente ha allontanato. Il mio sogno è di vederli presto riuniti nella grande comunità continentale dell’Ue, in un futuro di prosperità e di pace. Proprio la Federazione Russa, con Cina e Brasile, si è detta contraria al conflitto in corso. Quale sarà il ruolo della Russia, a suo avviso, sullo scacchiere geopolitico mondiale a breve e a lungo termine? Lo scacchiere geopolitico mondiale si è profondamente e tumultuosamente trasformato nei soli 22 anni che ci separano dalla caduta del Muro di Berlino. Da un assetto bipolare siamo passati a un multilateralismo al quale si sono aggiunte via via nuove potenze, come appunto la Cina e il Brasile. In questo quadro, la Russia è tornata a ricollocarsi tra le prime economie mondiali, perdendo le vecchie sfere di influenza e tentando di acquistarne di nuove contendendole ai nuovi attori della scena mondiale. Perchè questo processo di crescita complessiva si traduca in un beneficio per l’intero pianeta, che ha oggi la grande occasione di sconfiggere fame, epidemie, guerre, ritengo si debba abbandonare ogni vecchia logica di contrapposizione e aprirsi a una sana e collaborativa competizione che vada di pari passo con la democratizzazione delle istituzioni, senza la quale affideremmo ancora pericolosamente il destino del mondo a ristrette oligarchie.
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WARP, I GRANDI TEMI DI DUBLINO Il Consiglio Mondiale tenutosi nella capitale d’Irlanda ha approfondito molti argomenti e ricordato l’impresa di Gagarin del 1961 e l’inizio della guerra settant’anni fa ome avevamo annunciato in precedenza, Dublino ha ospitato, dal 5 all’8 marzo, il Consiglio della WARP, l’Associazione che riunisce i media (giornali, radio, televisioni) in lingua russa presenti in tutto il mondo. Il nostro giornale, come avviene ormai da diversi anni, ha preso parte ai lavori del Consiglio con il Direttore Carmine Zaccaria. Diversi i temi toccati a Dublino. La capitale della Repubblica d’Irlanda ha ospitato i rappresentanti dei più autorevoli media in lingua russa provenienti da più di 40 paesi, oltre a membri di diverse comunità russe che vivono in tutta l’Europa. Il convegno principale, “La comunità russa e i suoi media” ha analizzato il ruolo dei media russi nello sviluppo e nella difesa dell’identità culturale delle nuove generazioni di cittadini di lingua russa che vivono all’estero. Un tema inquadrato dal convegno nelle moderne sfide sociali a cui è chiamata l’informazione, soprattutto stante le attuali tecnologie e le moderne dinamiche di comunicazione globale. Naturalmente, la discussione è risultata di particolare interesse e ha toccato non solo il ruolo degli organi di informazione più grandi ma anche quello dei piccoli media regionali o “etnici”. Per ottenere risultati, è stato detto, è molto importante il lavoro fatto con i giovani lettori. Infatti, al Consiglio si è anche parlato, per la prima volta, del compito che svolgono i giornali, le riviste, le trasmissioni televisive e radiofoniche in lingua russa che sono dedicate ai bambini. Sono stati trattati due eventi celebrativi molto importanti nella storia della Russia. Molto sentito è stato il ricordo del volo nello spazio dell’astronauta russo Yuri Gagarin, a cinquant’anni dalla sua impresa. Un successo che in Russia è celebrato con grande emozione e che le generazioni che lo hanno vissuto direttamente indicano con orgoglio ai giovani russi. Del resto, lo stesso Gagarin, quando in quello storico 12 aprile del 1961 diede inizio all’era spaziale, aveva solo 27 anni. Il lancio della navicella Vostok (come aveva sottolineato il Primo Ministro Putin alla riunione del Comitato Organizzativo dell’anniversa-
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rio) fu uno degli eventi più importanti non solo del XX secolo, ma di tutta la storia dell’umanità. Il volo nello spazio rimarrà per sempre un simbolo di coraggio e di conoscenza. Per la Russia fu un trionfo nazionale e uno straordinario collante popolare. Un altro grande anniversario è stato celebrato a Dublino: i 70 anni dall’inizio della seconda guerra mondiale. Come è facile capire, un tema complesso e molto sentito dai cittadini russi di tutto il mondo. In occasione dell’ultimo Congresso Mondiale della WARP, che si tenne a Tel Aviv nel giugno dello scorso anno, fu lo stesso Presidente della Federazione Russa, Dmitrij Medvedev, a toccare questo argomento nel suo messaggio di saluto ai giornaliti riuntisi per il Congresso in Israele. Medvedev scrisse che si tratta di un tema che è stato “al centro di molte edizioni in lingua russa ed è difficile valutare il contributo delle singole testate nell’importante compito di descrivere obiettivamente gli eventi della seconda guerra mondiale, contrastando in questo modo i tentativi di altre realtà di falsificare la storia. Difendere la verità sulla guerra è nostra comune responsabilità. Credo che la vostra attività e i risultati del Congresso promuoveranno un ulteriore sviluppo della cooperazione internazionale umanitaria e dell’informazione”. Altra questione approfondita dal Consiglio è stata quella dei problemi finanziari che le diverse testate sono chiamate ad affrontare. Si è discusso su come è possibile combinare i progetti di business redditizio con la pubblicazione di giornali e programmi televisivi in lingua russa. Infine, si è guardato al Congresso Mondiale di giugno che si svolgerà in Ucraina, nelle città di Kiev e Odessa. E’ stato proposto di trattare, oltre ai temi strettamente connessi all’attività delle testate in lingua russa nel mondo, il tema “Vent’anni senza l’URSS”. Il Consiglio Mondiale di Dublino è stato giudicato da tutti i partecipanti molto soddisfacente per ricchezza di temi e, in una dichiarazione ufficiale, è stato detto che “l’informazione globale e culturale russa va preservata e sviluppata quale fattore di stabilità nella società moderna”.
Alcune immagini del nostro Direttore Carmine Zaccaria al Consiglio della Warp a Dublino. Nella prima foto è col Sindaco della capitale irlandese Gerry Breen. Nella seconda con Michail Gusmann, Primo Vice Direttore Generale della ITAR-TASS, e con Yulia Minsker, Presidente della Comunità delle Donne Russe in Italia. Nella terza, con Vitaly Abramov, Direttore di “Izvestia”, uno dei maggiori quotidiani russi
Archeologia della letteratura a cura di Calais Borea
I brani qui pubblicati sono tratti dal volume “Napoli russa” edito da SANDRO TETI EDITORE nel 2005 Aleksandr P. Brjullov - Lettera ai genitori (1824) Il nostro primo desiderio era quello di vedere Pompei e il Vesuvio; superando Torre del Greco, finalmente abbiamo scorto una vasta altura, coperta da un boschetto ancora giovane, e ci hanno detto che quella era Pompei. Ci siamo avvicinati e abbiamo potuto osservare la parte già dissotterrata di questa infelice città. Siamo saliti: all’ingresso c’erano diversi custodi-accompagnatori. Uno di essi ci ha proposto i suoi servigi, spiegandoci che quel punto era un piccolo foro, il luogo dove il popolo si radunava per i commerci e gli affari pubblici. La vista di quelle rovine involontariamente mi ha spinto a immaginarmi il tempo in cui le mura erano abitate, in cui il foro, dove adesso c’eravamo soltanto noi e il silenzio infranto solo dal frusciare di una lucertola, era pieno di gente che trafficava con il massimo impegno per guadagnare ancora qualcosa e accrescere così il suo patrimonio, senza pensare al pericolo che la minacciava e che presto l’avrebbe privata di tutte le sue ricchezze, in molti casi del tesoro più prezioso - gli amici, i parenti - e in altri casi addirittura della vita. Non si può camminare tra queste rovine senza sentir germogliare un sentimento assolutamente nuovo che ti spinge a dimenticare tutto, fuorchè la terribile sorte di questa città. Dopo aver percorso in fretta alcune strade vuote, sono arrivato al foro principale, circondato da due lati da colonne, e mi sono trovato sulla destra il tempio di Giove, sulla sinistra il tribunale, di fronte una basilica, accanto a questa il tempio di Venere con davanti il Pantheon. Provate a immaginarvi tutto questo e capirete che cosa ho provato davanti a quello spettacolo. La parte superiore di tutti gli edifici è andata distrutta, mentre la parte inferiore, con tutto quello che conteneva, e che la corruzione del tempo ha risparmiato, si è conservata perfettamente. Le vittime, nelle cui vene il sangue ha smesso di scorrere milleottocento anni fa, sono intatte. Forse il sacerdote che era disteso davanti all’altare di Giove in un’estrema invocazione di aiuto, e Giove stesso, sono
stati copiti nello stesso istante dalla collera del Vesuvio. E dopo questa spaventosa rivoluzione degli elementi della natura, tutta la città è diventata il regno della pace e del silenzio. Vengano pure qui a discutere della vanità! In questa città sorgono ancora due teatri, a testimonianza della sua grandezza. Alla fine sono uscito nella strada principale della città, dove venivano sepolte le persone più importanti e rispettate (Strada dei sepolcri); questi monumenti sepolcrali sono la cosa che si è conservata meglio in tutta la città, come se il tempo, rispettando questi monumenti, volesse consegnarli ai posteri a testimonianza delle opere dei loro padri. Konstantin N. Batjushkov - Lettera a Karamzin (1819) Non è stao un caso, naturalmente, se il destino ha nascosto Pompei sotto la cenere del Vesuvio per due millenni e poi all’improvviso ce l’ha rivelata: è un commento vivente alla storia e ai poeti latini. A ogni passo scoprite qualcosa di nuovo o trovate la conferma di qualcosa che già conoscevate: io, in quanto ignorante, ma pieno di sentimento, amo lo spettacolo di questa città-cimitero. Quelle di Pompei non possono essere definite rovine, come gli altri resti delle civiltà antiche. Qui non vedete le tracce del tempo passato, o la sua opera di distruzione; le fondamenta delle case sono asolutamente integre, mancano solo i tetti. Camminate per le strade, passate dall’una all’altra, costeggiando file di colonne, eleganti sepolcri e pareti su cui la pittura nn ha ancora perso la sua attrattiva, nè la freschezza dei suoi colori. Il foro, coi suoi templi, con due teatri e un enorme circo, è rimasto quasi completamente intatto. Il Vesuvio fuma ancora sopra la città e sembra minacciare una nuova ondata di cenere. Tutto intorno vedute pittoresche, mare e dovunque ricordi: qui si possono leggere Plinio, Tacito e Virgilio trovando riscontro palmo a palmo alla musa della storia e della poesia.
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FUMETTI ORIGINALI IN MOSTRA A BRUXELLES Le strisce dei grandi autori, esposte nella capitale belga, offrono a chi le guarda un’idea in sintesi dei pregi e dei difetti dei popoli ai quali appartengono i personaggi di Gerardo Pedicini a alcuni anni c’è un fiorire di attività intorno al fumetto. Ogni anno, Napoli e molte altre importanti città italiane organizzano il loro Comicon. E’, di solito, per gli amanti del fumetto, una full immersion che riempie gli occhi e svuota le tasche, senza lasciare alcuna traccia concreta, a causa di carenze strutturali e strutture pubbliche dedicate. In Italia, l’unica struttura pubblica è a Lucca. Il “Museo Italiano del Fumetto e dell’Immagine” è diventato, nel giro di pochi anni, un punto di riferimento internazionale. Visitare l’ex Caserma Lorenzini di Lucca è un’esperienza interessantissima per gli amanti dell’immagine a strisce. Si viaggia all’interno di un favoloso mondo che, come promette la brochure che ci viene rilasciata con il costo del biglietto, “narra di uomini, eroi e nuvole parlanti”. Per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia il direttore del Museo, Angelo Nencetti, ha indetto un concorso per rinverdire, attraverso le immagini di “personaggi, fatti, storie, accadimenti del passato”, la memoria della nostra recente storia repubblicana che, da parte di qualcuno, si vuole confinare in soffitta. Questo è quanto di meglio accade in Italia. In Europa non c’è una nazione che non abbia strutture funzionanti e centri di raccolta del fumetto. Basti pensare alla piccola cittadina francese Angouleme, sede del “Festival International de la Bande Dessinée” e del “Centro nazionale del fumetto e dell’immagine” che funziona da luogo di conservazione, ricerca, formazione, esposizione e supporto nel campo del disegno. Dopo il festival di Tokio, Angoulême è la più importante kermesse mondiale. In Europa, il Belgio può considerarsi la vera patria del fumetto. Molti personaggi, tra cui Lucky Luke, Tintin, i Puffi, Suske e Wiske, Boule e Bill, Zagor e Gaston Lagaffe, hanno il passaporto belga. A Bruxelles, dovunque, in boutique e negozietti, ci si impatta con i gadget più disparati e in variopinti murales a fumetti
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sparsi per le strade cittadine. Persino alcune camere d’albergo sono decorate da esperti disegnatori belgi. Proprio per questo a Bruxelles non poteva mancare un Museo. È stato istituito nel 1989. Si trova in Rue des Sables 20. Ad accogliere il “Musée de la Bande Dessinée” è il bellissimo edificio d’Art Nouveau, realizzato nel 1903 da Victor Horta per i grandi magazzini di tessuti Waucquez. Oltre agli spazi che ospitano l’esposizione permanente del fumetto belga, ci sono le sale di lettura con 30.000 titoli in quindici lingue diverse, un centro di documentazione, i laboratori sulla creazione del fumetto, la sala dedicata alla storia del centro e delle sue evoluzioni, gli spazi per i cartoni animati e le mostre temporanee, una libreria specializzata nei fumetti e, infine, un ristorante-brasserie. Insomma, un complesso multimediale di grande respiro didattico e informativo. In occasione del semestre di Presidenza Europea, il Museo ha preSegue a pag. 16
Nelle immagini: Asterix di Alberto Uderzo e René Goscinny, Corto Matlese di Hugo Pratt e Tin Tin di Hergè
HEMINGWAY, GRANDE ARTIGIANO DELLE PAROLE Lo scrittore americano, uno dei più grandi narratori di sempre e autore di capolavori come “Per chi suona la campana”, moriva suicida sessant’anni fa nella sua casa di Ketchum l regalo più importante che ha lasciato Hernest Hemingway come scrittore è la scoperta che il lavoro deve interrompersi solo quando si sa già come ricominciarlo il giorno dopo. E’ la lezione più grande che ha lasciato a chi ama scrivere, il rimedio assoluto contro il terrore della pagina bianca il mattino dopo. Lo insegnano i suoi libri, la sua meravigliosa conoscenza dell’aspetto artigianale della scienza dello scrivere. In tutta la sua opera ha mostrato grandezza e limite del dominio tecnico del mestiere. Per questo si ha l’impressione che la sua capacità fosse geniale ma di breve durata, perché una tensione narrativa interiore come la sua diventa quel superfluo che si nota nei suoi romanzi più di quanto non si noti in altri scrittori. Al contrario, il meglio dei suoi racconti è l’impressione che suscitano di qualcosa in meno ed è ciò che conferisce loro mistero e bellezza. In un’intervista storica dichiarò, contro ogni concezione romantica della creazione narrativa, che l’agio economico e la buona salute aiutano a scrivere, che è buona cosa rileggere i propri libri, che una delle difficoltà maggiori è quella di organizzare bene le parole. E a chi gli contestava che fare il giornalista può esaurire lo scrittore disse che era vero il contrario ma a patto che si abbandoni per tempo il giornalismo “Una volta che scrivere si è trasformato nel vizio principale e nel maggior piacere”. Il suo scrivere è pieno di trovate semplici e geniali come quella di un suo racconto nel quale dice che un toro da combattimento si girò “come un gatto che gira dietro un angolo” e solo uno scrittore dotato di grande lucidità può permettersi qualcosa del genere. Ciò dimostra come rimase fedele alla propria definizione secondo cui la scrittura letteraria, come l’iceberg, ha valore solo se sorretta sott’acqua da sette ottavi del suo volume.
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Questa consapevolezza tecnica sarà sicuramente il motivo per cui Hemingway non passerà alla storia grazie ai suoi romanzi ma grazie ai suoi racconti più rigorosi. Parlando di “Per chi suona la campana”, egli stesso ebbe modo di dire che nel realizzarlo non aveva in mente una traccia precisa per scriverlo ma che lo inventava giorno per giorno. Nei suoi racconti più ispirati, invece, c’è qualcosa di inattaccabile. Come in alcuni di quelli che scrisse a Madrid ovvero “Gli assassini”, “Dieci indiani”, “Oggi è venerdi”. Da questo punto di vista, uno dei racconti nei quali meglio sono evidenti le sue virtù
Hernest Hemingway
è “Un gatto sotto la pioggia”. Ma, per uno strano scherzo del destino, l’opera più bella sembra essere quella forse meno compiuta: “Di là del fiume tra gli alberi”. E’, come lui stesso rivelò, un testo che all’inizio avrebbe dovuto essere un racconto e che si smarrì nei meandri del romanzo. Diversamente, è difficile spiegare il motivo di tante spaccature strutturali e di tanti errori di meccanica letteraria in un tecnico così sapiente, e di certi dialoghi artificiali in uno dei più brillanti cesellatori di dialoghi. Quando, nel 1950, il libro uscì la critica fu feroce con Hemingway e lui si sentì ferito e rispose con un passionale telegramma da Cuba. Non solo era il suo romanzo migliore ma era quello che gli apparteneva di più forse perché scritto con una sorta di premonizione dei pochi anni che gli restavano da vivere. Forse, in nessuno dei suoi libri lasciò tanto di se stesso, tanta bellezza, tanta tenerezza. La morte del protagonista, in apparenza così quieto e naturale, era la prefigurazione cifrata del suo suicidio. Come altri grandi scrittori, Ernest Hemingway ha fatto suo per sempre tutto ciò che ha descritto, tutto ciò che fu suo anche solo per un istante. Non è possibile passare davanti ai luoghi dei suoi romanzi o a quelli della sua vita parigina o cubana senza avvertire la sensazione che tutto sia ancora suo come per un inesorabile potere di appropriazione della sua letteratura. Ha fatto suo per sempre il caffè parigino dove amava scrivere perché lo trovava caldo, pulito. Ha fatto sua la savana dopo averla vista una volta sola, con i suoi leoni e i segreti più intricati della caccia. Si impadronì di toreri, di pugili, di artisti che esistettero solo per un istante, finchè furono suoi. L’Italia, la Spagna, Cuba, mezzo mondo è pieno dei posti di cui si impadronì solo menzionandoli. A Cojimar, un villaggio vicino all’Avana dove viveva il pescatore solitario de “Il vecchio e il mare”, c’è un tempietto commemorativo della sua impresa. Ancora a Cuba, a Finca Vigìa, il suo rifugio sull’isola dove visse fino a poco prima di morire, la casa è intatta tra gli alberi cupi, con i suoi libri, i suoi trofei di caccia, la sua scrivania, gli innumerevoli oggetti della sua vita che furono suoi fino alla morte e che continuano a vivere senza di lui con l’anima che vi infuse grazie alla sola magia del suo dominio. A sessant’anni dalla sua morte, Ernest Hemingway continua a essere dove uno meno se lo immagina, persistente ed effimero nello stesso tempo.
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DEJNEKA APRE L’ANNO DI ITALIA E RUSSIA La mostra delle opere del pittore russo, al Palazzo delle esposizioni di Roma, ha dato il via ai numerosi appuntamenti di scambi culturali tra i due Paesi cui è dedicato il 2011 l 16 febbraio 2011 Dmitri Medvedev e Silvio Berlusconi insieme hanno inaugurato a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, l’imponente mostra “Aleksandr Dejneka: il maestro sovietico della modernità”. Non è un caso che dalle collezioni della “Galleria Tretjakov” siano stati scelti proprio i dipinti, la grafica e le opere decorative di questo maestro classico del XX secolo, un precursore dell’arte contemporanea. Dejneka fu in Italia già negli anni Trenta del secolo scorso: trasse ispirazione dalle atmosfere della Città eterna e divenne amico di Renato Guttuso. Le sue opere nel nostro paese erano non solo conosciute, ma anche molto apprezzate. L’arte di Dejneka si distingue da quella di tutti gli altri protagonisti del Realismo Socialista per essere caratterizzata da una ricerca formale ed estetica che, pur collocata nel suo contesto storico, è capace di travalicarne le circostanze. Ciò mette l’artista russo in una posizione di assoluto rilievo nella definizione dell’avanguardia realista europea. La mostra, come detto, è realizzata in collaborazione con la “Galleria Statale Tretjakov” di Mosca, istituzione che detiene la maggiore concentrazione di capolavori di Dejneka, in grado di garantire alla rassegna di realizzarsi nel segno della completezza e dell’eccellenza qualitativa. Più di ottanta capolavori, provenienti oltre che dalla “Galleria Tretjakov” anche dal “Museo Statale Russo” di San Pietroburgo e dalla “Pinacoteca Statale Aleksandr Dejneka” di Kursk, articolano un percorso che abbraccia l’intera opera dell’artista, dagli anni Venti ai Sessanta e che contempla, oltre alla pittura, esempi della sua produzione grafica (disegni, illustrazioni, manifesti), plastica e monumentale. Aleksandr Dejneka compì il suo viaggio a Roma nel 1953, realizzando nella capitale alcune opere fondamentali della sua carriera artistica. E’ significativo che proprio
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Roma lo celebri oggi con una mostra che è importante perché mai prima gli erano state dedicate rassegne così significative fuori dalla sua patria e perché l’esposizione delle sue opere è stata scelta come apertura del calendario di scambi culturali Italia-Russia cui è dedicato il 2011 Il programma di questo Anno è variegato e ricco di appuntamenti. Ne citiamo alcuni. Firenze ospita a Palazzo Pitti la mostra “Dall’icona a Malevich. Capolavori del Museo Russo di San Pietroburgo”. Le opere provengono dal “Museo Statale Russo”. Ne sono state portate in Italia 40, dei secoli XVI-XX, tra cui diversi quadri di Orest Kiprenskij, Karl Brjullov, Silvestr Schedrin. A Milano, nella Pinacoteca di Brera, il pubblico italiano potrà ammirare quasi per tutto l’anno le opere delle collezioni Schukin e Morozov, custodite nel “Museo Statale di Arti Figurative Pushkin”. Anche l’ “Accademia Russa delle Arti” parteciperà attivamente alle iniziative con esposizioni a Roma, Milano e Ancona. Appuntamenti previsti anche sul fronte della danza: sono in programma le tournée in Italia del “Teatro del balletto di Boris Ejfman”, della Compagnia
Aleksandr Dejneka, “Futuri aviatori” (1938) e “La difesa di Pietrograd” (1928)
IL TEATRO GIOVANE GUARDA ALLA RUSSIA L’Associazione CULT ha portato in Italia il professor Dmitrij Trubockin, Docente di Studi Teatrali a Mosca. Nel programma, una lezione universitaria e uno spettacolo n incontro, una lezione universitaria sulla commedia dell’arte russa e uno spettacolo hanno caratterizzato la tre giorni, svoltasi tra Salerno e Napoli, che il laboratorio transculturale CULT (Cross Cultural Theater Laboratory) ha organizzato a marzo per parlare di teatro, rivolgendosi soprattutto ai giovani. CULT si pone come luogo della transcultura (dunque oltre le singole culture) che mira, attraverso l’intera progammazione (produzioni teatrali, workshop, settimane di studio e spettacoli pomeridiani per bambini), a emancipare il territorio in cui opera, portando a confronto il pubblico con le culture e le tradizioni di altri paesi, con un duplice obiettivo: da un lato, rendere l’individuo libero e indipendente rispetto alla propria cultura d’origine e dall’altro fornirgli maggiori strumenti anche per riappropriarsi di questa in maniera più consapevole. All’interno di CULT operano la compagnia “Baal Teatro” e l’associazione teatrale “Aesthesis” che si occupano di produzione e di formazione attoriale, investigando soprattutto in diverse forme teatrali che appartengono a diverse tradizioni. L’idea di “Baal Teatro” è quella di realizzare un teatro “meticcio” dove lo spettatore, qualunque sia il proprio luogo di provenienza, possa ritrovarsi e riconoscersi. CULT ha invitato in Italia il professor Dmitrij Trubockin, Direttore dell’Istituto di Stato per gli Studi d’Arte e Docente di Studi Teatrali presso l’Accademia Russa di Arti Teatrali di Mosca.Trubotchkin ha pubblicato diversi saggi e presentato lezioni e conferenze in tutto il mondo sulla storia del teatro europeo e sulla storia e la modernità del teatro russo nei secoli XX e XXI. Giunto in Italia il 15 marzo, il docente russo si è recato in visita presso all’Associazione Maxim Gor’kij dove ha incontrato i membri dell’Associazione, tra cui il referente Antonio Vladimir
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di Danze Popolari “I. Moiseev”, dell’orchestra “I virtuosi” di Mosca, del “Coro Accademico Statale di Canti Popolari Russi Pjatnickij” e delle compagnie nazionali del Daghestan, della Jacuzia, della Buriazia, della Cecenia e di altre regioni della Russia. Trattandosi di scambio, la Russia ospiterà a sua volta compagnie e artisti italiani. Su tutti, a novembre e dicembre, ci sarà la tournée dei solisti e dell’orchestra del “Teatro alla Scala”, sulla scena storica del “Teatro Bolshoj” recentemente restaurato. Inoltre, al “Teatro Mariinskij”, sempre a Mosca, i Solisti del “Teatro San Carlo” di Napoli daranno prova della loro maestria nell’opera “Olimpiade” di Giovanni Battista Pergolesi. Nello stesso periodo, in diverse città della Russia tra cui Chanty-Mansijsk, Ekaterinburg, Cheljabinsk e altre, si svolgerà la tournée del “Piccolo Teatro” di Milano. Infine, ancora le arti figurative. Al “Museo Statale Pushkin” i russi potranno incontrare i capolavori provenienti dai principali musei italiani. Citeremo solo alcune delle opere immortali che saranno temporaneamente in Russia: “Pallade e il Centauro” di Botticelli e la “Dama con l’unicorno” di Raffaello. Nello stesso museo, in autunno, si terrà una straordinaria mostra delle opere di Caravaggio provenienti dalla Pinacoteca milanese di Brera.
Marino, e ha illustrato alcuni cenni storici della Commedia dell’arte russa, anche per introdurre lo spettacolo “Oedipus Rex” che si sarebbe tenuto presso il teatro della compagnia Baal. Il giorno seguente, il Professor Trubockin ha tenuto una lezione all’Università degli Studi di Salerno, con sede a Fisciano, nell’aula 12 della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere. La lezione era basata sulla Commedia dell’Arte in Russia nel XX secolo, ed è stata seguita dagli studenti universitari di Discipline dello Spettacolo. La lezione ha avuto la supervisione della professoressa Isabella Innamorati, Presidente del DAVIMUS dell’Università degli Studi di Salerno. Il Professor Trubockin ha tenuto la lezione in lingua italiana, parlando per poco più di un’ora. I tre punti principali del suo discorso vertevano su: il lavoro di Mejerchold e gli altri a San Pietroburgo nel 1910 e a Mosca nel 1920, il periodo intorno al 1960 con il restauro della famosa “principessa Turandot” di Vachtangov (girato nel 1960) e, infine, gli esercizi di teatro contemporaneo in acrobazia. Alla lezione ha partecipato attivamente lo staff di Baal Teatro, con il Direttore Artistico Luca Gatta che ha proiettato una dimostrazione di lavoro sulla Commedia dell’Arte applicata al Baal Teatro nella sua dimensione transculturale. E veniamo allo spettacolo. “Oedipus Rex” portato in scena dalla compagnia “The Workshop of Prof. Oleg Kudriashov” è stato rappresentato il giorno 17 presso il “Teatro Meticcio” con sede ad Avellino. Era presente lo stesso professor Trubockin. Lo spettacolo è un tentativo di parlare direttamente con il pubblico contemporaneo di questioni gravi e difficili. Il gruppo ha scelto la più famosa di tutte le tragedie classiche con l’intenzione di richiamare l’attenzione sui problemi eterni degli uomini e farli essere originali e non banali. “Edipo Re” è stato creato per essere messo in scena all’Accademia Russa di Arti Teatrali, ma nella sua concezione
spaziale vi è la possibilità di muoversi in uno spazio aperto: il palcoscenico si apre, per così dire, ai limiti estremi di un palco tradizionale. Due prosceni piccoli sono stati costruiti sui lati opposti della sala, collegati da un podio lungo e stretto. Il pubblico, situato su entrambi i lati del proscenio, ha seguito l’azione dei giovani interpreti, notando le sfumature della recitazione. In scena, lo spettacolo è stato ricco e variegato, i rumori e le voci degli attori, spesso, come da tradizione russa, coniati sul significato da trasmettere al pubblico, hanno reso l’antica tragedia attuale ed emozionante. Piccole chicche hanno modernizzato la tragedia come, per esempio, gli abiti di scena, dove una giacca del protagonista era usata in entrambi i suoi lati per simboleggiare la trasformazione interiore del soggetto. Oppure l’introduzione di una mini-bici, adibita a mezzo di trasporto del Messaggero. Al termine della performance, durata poco meno di due ore, e seguita dagli spettatori con l’ausilio di sovra titoli proiettati in contemporanea, il pubblico si è mostrato soddisfatto, esprimendo approvazione sia per la bravura dei giovani attori, sia per l’innovazione del tipo di spettacolo. “Oedipus Rex” è ormai diventato, a Mosca, un evento contemporaneo. Importante averlo portato in Italia nell’anno di scambi culturali RUSSIA-ITALIA. Gli eventi della tre giorni sono stati organizzati in collaborazione con la stessa Associazione Maxim Gor’kij con Antonio Vladimir Marino e Ivan Marino.
Una scena di “Oedipus Rex”
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PRIGIONIERI DI UN TRAGICO DESTINO Un libro di Maria Teresa Giusti, pubblicato a Mosca e basato su dati d’archivio ora disponibili, ricorda le vicende dei prigionieri italiani in Russia durante la Seconda Guerra Mondiale di Alexandre Urussov i quella grande tragedia nella storia contemporanea italiana rappresentata, senza dubbio, dalla sciagurata Campagna di Russia di Mussolini in Unione Sovietica si conosceva abbastanza poco rispetto a quello che un qualsiasi cittadino di questo paese sapeva della grande lotta e della trionfale vittoria contro il principale aggressore, la Germania nazista. Certo, la modesta presenza del Corpo di spedizione italiano sul fronte russo (229 mila soldati) a fronte di un’armata germanica con circa 5 milioni di soldati e la breve durata dell’avventura bellica dell’Armir (dal luglio del ‘42 all’inizio del ‘43) lasciavano abbastanza in ombra tutta la faccenda. Ancora di meno si sapeva del tragico destino dei prigionieri italiani in URSS. Nei ricordi delle generazioni dei cinquantenni e dei sessantenni russi è senz’altro rimasto il personaggio cinematografico di Marcello Mastroianni che, mandato in Russia a combattere, decide di non tornare in Italia e di rimanere a vivere in Russia con una donna russa, benché ad aspettarlo in patria vi fosse, nei panni della moglie fedele, Sofia Loren. Per il vasto pubblico sovietico la trama di questo film, “I girasoli” di Vittorio De Sica (1970) era solo una storia d’amore tragica, perché un uomo simpatico (il fascino di Mastroianni!) non poteva certo essere “cattivo” come erano nazisti tedeschi. I dettagli “tecnici” sulla guerra in Russia e sui campi di prigionia, le ragioni per cui un italiano decide di non tornare in Italia (non certo solo per una “questione di cuore”) erano poco chiari e molto sfumati, visto che il film fu una coproduzione italo-sovietica e i rapporti tra i paesi erano allora ottimi: in una città russa di nome Togliattigrad la FIAT costruiva una grande fabbrica automobilistica. Sulle vicende militari dell’Armir (Armata Italiana in Russia) è stato detto e scritto parecchio in Italia, a cominciare dallo struggente racconto “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern (1953), passando per le testimonianze dei sopravissuti, fino ai numerosi volumi degli storici italiani. Ma della sorte dei prigionieri catturati dai sovietici dopo la terribile sconfitta nelle steppe presso il fiume Don la storiografia italiana si è occupata molto meno. Come dice la studiosa italiana Maria Teresa Giusti dell’Università di Pescara, autrice del libro “I prigionieri italiani in Russia”: “Il silenzio da parte degli storici italiani su tale questione è grave, soprattutto se si consi-
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dera il divario enorme che si registrò, al momento del rimpatrio, tra il numero dei dispersi della campagna di Russia e il numero dei rimpatriati, e tanto più che il fatto, negli anni del dopoguerra, ha prodotto denunce, ha alimentato accese polemiche e una seguita campagna di stampa”. La Giusti - che ha avuto la possibilità di lavorare su questo tema negli archivi russi, ora finalmente disponibili per gli storici dopo lunghi anni - con questo libro indaga a fondo sulla questione, basandosi su documenti attendibili anziché sulle ideologie del vecchio PCI, che riguardo alla tragedia dei prigionieri ha cercato a lungo di attenersi ad una certa “imbalsamatura storiografica”, forse dettata dal presupposto che non si doveva danneggiare l’immagine della “Grande Patria del Socialismo”. Paradossalmente, i
RUSSIA PROTAGONISTA A TORINO Alla 24esima edizione del Salone del libro ospite d’onore è la Russia. Prevista la presenza di numerosi autori, un programma per bambini e uno scambio di visite guidate i sarà grande attenzione da parte della stampa italiana e russa durante il 24° Salone Internazionale del Libro di Torino di maggio prossimo. Un evento che in passato il Premio Nobel Joseph Brodsky definì “un’idea brillante con un po’ di follia”. La Russia sarà ospite d’onore della kermesse e la sua partecipazione è attesa come una delle più significative della storia del Salone riguardo ai paesi ospiti. Il Presidente del Salone Internazionale, Rolando Piccioni, ha sottolineato che l’invito alla Russia rappresenta anche il contributo che Torino desidera dare all’anno della Cultura Italia-Russia. Anche dal punto di vista degli spazi la partecipazione della Russia sarà delle più importanti mai viste a Torino. Si prevede, infatti, che l’editoria russa sarà presentata al pubblico su due aree diverse del complesso fieristico del Lingotto. La parte principale del programma si svolgerà nella zona centrale del complesso. Da parte russa si sottolinea come la Russia non solo intenda far conoscere i risultati ottenuti nel campo dell’editoria, ma anche presentare agli italiani un vasto programma culturale, nell’ambito del quale si terranno tavole rotonde sulle attuali dinamiche letterarie, laboratori creativi, incontri con scrittori. Diversi gli autori che saranno presenti al Lingotto: Ludmila Petrushevskaya, Eugene Grishkovets, Ludmila Ulitskaya, Leonid Jozefowicz, Zakhar Prilepin, Vladimir Sorokin, Alexander Sokolov, Mikhail Elizarov, Alexander Terekhov,
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Mariam Petrosyan, Vyacheslav Kuritsyn e tanti altri. E’ previsto, inoltre, un programma speciale per bambini, articolato in laboratori, mini-spettacoli e letture con la partecipazione di Eduard Uspenskij e Grigorij Oster. Il programma di interscambio, invece, è basato sul coinvolgimento di 16 giovani scrittori italiani che risiederanno nella dacia di Tolstoj. Mentre si ipotizza che tra l’ “Albergo dell’ Angelo” e le terre della Mora, dalla piana del Belbo alla vigna di Gaminella, saranno ospitati i russi nella tappa torinese (le altre sono Roma e Firenze). “Gli autori italiani andranno in treno sulla transiberiana da Mosca a
nuovi dati sul vero numero dei prigionieri morti, riportato in questo libro della ricercatrice italiana, “riabilitano” proprio la parte sovietica della vicenda. Alla luce della documentazione esaminata (fornita dalle autorità russe soltanto negli anni ‘90) è emerso che della maggior parte dei 95 mila uomini assenti al momento della conta dopo la ritirata dalla Russia nel 1943, circa 70 mila prigionieri erano morti in combattimenti precedenti oppure durante le faticose marce o nei trasferimenti nei campi di prigionia - a causa degli stenti, delle malattie, delle condizioni climatiche russe e dell’abbigliamento scadente. E non sono stati barbaramente assassinati dai Russi subito dopo la cattura o nascosti per sempre in Siberia per chi sa quali nefasti scopi, come insinuava una certa propaganda post-fascista nell’immediato dopoguerra. Stando ai dati “desecretati” dell’NKVD, scrive la Giusti, l’indice di mortalità generale dei prigionieri di guerra italiani fu il più alto in assoluto, rispetto ai prigionieri di tutte le altre nazionalità: il 70 % circa. Il libro di Maria Teresa Giusti adesso è uscito in Russia, corredato da una breve nota introduttiva di un grande storico e sociologo russo, il professor Victor Zaslavskij, purtroppo recentemente scomparso. Victor Zaslavskij lavorava in Italia ed è l’autore di numerosi studi sull’URSS tra cui il volume “Togliatti e Stalin” (Il Mulino, 1997). Il libro “I prigionieri italiani in Russia” (Aletheia, S. Pietroburgo, 2010, p.270) è pubblicato con la traduzione e cura dello storico russo Michail Talalay che è anche l’autore di una postfazione. Questo lavoro della Giusti per la prima volta svela al lettore russo una pagina completamente nuova della tragica sorte dei prigionieri italiani. Il volume, aggiornato rispetto alla precedente edizione italiana e corredato di un ricco e rinnovato apparato critico e bibliografico, si propone come uno studio complessivo della vicenda e ha il merito di essere rigorosamente documentato per cui non dovrebbe dare adito ad alcuna speculazione politica o ideologica. Fino a ora i libri degli storici russi sull’argomento si limitavano a raccontare le battaglie dell’Armata rossa contro l’esercito italiano. Per esempio, nel libro dello storico militare V. Safronov “Esercito italiano sul fronte sovietico-tedesco nel 1941-1943” (Mosca, 1990) sono scrupolosamente descritte tutte le azioni belliche, elencati tutti i generali, marescialli e colonnelli sia sovietici che italiani, ci sono pure le tabelle con i numeri dei prigionieri italiani consegnati nel 1945-47 agli alleati anglo-americani con la precisazione dei nomi e gradi militari di chi li consegnava e di chi li riceveva. Invece, del destino dei prigionieri nei campi non c’è una parola. Naturalmente non c’era niente nei libri sovietici che potesse svelare il ruolo dei dirigenti del PCI che si erano rifugiati nell’URSS durante la guerra, che cercavano in tutti i modi di ritardare il rimpatrio dei prigionieri in Italia per impedire che, tornando, potessero raccontare una verità diversa. Dice l’autore che “i documenti raccolti nel volume ci aiutano oggi a ricostruire quei giorni, a leggere in quelle sofferenze, e anche a scrivere senza pregiudizi per evitare di trasmettere una storia incompleta e lacunosa”. E questo è il merito principale del libro, soprattutto per il lettore russo.
Vladivostok, sette giorni in tutto - aveva raccontato il portavoce del Governo russo, Vladimir Grigoriev in sede di presentazione del programma - e i russi in crociera nel Mediterraneo”. Il Salone, come detto, sarà così una tappa dei molteplici scambi che nel 2011 coinvolgeranno Italia e Russia sotto il coordinamento generale degli ex Ministri della Cultura Giuliano Urbani e Mikhail Shvidkoy. Nella scelta degli scrittori sono state convolte diverse realtà, dal Centro per il libro di Ferrari, ai Beni librari del Ministero, agli editori. Il Salone Internazionale del Libro torna con la sua ventiquattresima edizione al Lingotto Fiere e all’Oval di Torino da giovedì 12 a lunedì 16 maggio 2011. Con i suoi 1.400 editori ed espositori il Salone è la più importante manifestazione fieristica dedicata al libro, in Italia e nell’intera area mediterranea. Oltre a essere un’immensa libreria, il Salone è al tempo stesso un colossale festival culturale con 1.400 editori, oltre 1.300 incontri e 2.200 autori e relatori, un evento mediatico seguito da 3.250 giornalisti e operatori da tutto il mondo. Il Salone è anche lo spazio business dove i professionisti del libro di oltre 30 Paesi si danno appuntamento per 7.000 meeting legati allo scambio dei diritti editoriali e di trasposizione audiovisiva. Tema conduttore del Salone 2011 è “Memoria, il seme del futuro” che sarà declinato in un ricco programma di presentazioni editoriali, dibattiti e lezioni magistrali in compagnia di grandi autori italiani e internazionali. Per la prima volta il Salone si allarga ai 20.000 metri quadri dell’Oval: l’avveniristico palazzo nato per le gare dei Giochi Olimpici di Torino 2006. Nell’Oval trovano spazio il Bookstock Village, l’area del Salone dedicata ai piccoli e giovani lettori. Il Padiglione Italia che raccoglie gli stand di tutte le regioni italiane con i loro autori e la loro produzione editoriale. E soprattutto il grande progetto che il Salone 2011 dedica al 150° dell’Unità d’Italia: la mostra 1861-2011 L’Italia dei Libri, curata da Gian Arturo Ferrari, già Direttore Generale di Mondadori Libri e ora Presidente del Centro per il Libro.
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IL SOUND IRREQUIETO DI WURZBURGER Aperto a ogni contaminazione musicale, l’artista partenopeo si è formato negli anni settanta nel solco della musica come linguaggio di una generazione di giovani di Anna Montefusco ’omaggio al mitico fumetto degli anni ‘70 lo porta nel nome: Alan. Come Alan Ford, naturalmente. Alan Wurzburger, nato Giovanni, si è formato musicalmente proprio in quegli anni. In quel preciso momento storico in cui la musica era il linguaggio universale di una gioventù in fermento. Imprevedibile e irrequieto, per sua stessa definizione, Alan inizia una ricerca personale di suoni a contaminare la sua tradizione musicale, percorso che lo porterà in giro per l’Europa e lo farà apprezzare soprattutto in Francia. Il resto lo racconta lui, in un affollatissimo bar di quel centro storico di Napoli dove la sua avventura iniziò e dove tuttora prosegue. Alan, che tipo di musica è la tua? Non riuscirei a dare un’esatta definizione. Come cantautore, ma credo come tanti altri, scelgo delle atmosfere, seguo degli stati d’animo. Diciamo che tutto parte dalla chitarra che ho imparato a suonare da autodidatta. Spesso, chi mi sente parla di flamenco, ma a parte qualche influenza dovuta all’amore che ho per i chitarristi di flamenco, io suono tutt’altro e tant’altro. Suono cioè tutto ciò che nasce dalla chitarra. Parlo di swing, di blues, ma anche di rock. Sono irrequieto e imprevedibile e mi può anche capitare di rimanere affascinato dalla musica araba, dalla musica africana o da quella francese. Dando vita così a degli ibridi. Quando ti sei formato musicalmente? E’ stato tutto molto naturale. In casa mia si cantava e si suonava ogni volta che l’occasione lo richiedeva. A nove anni ho avuto la mia prima chitarra, una Iornini che ancora conservo. All’epoca questo liutaio napoletano abitava nel mio stesso palazzo. Questo strumento è bello perché lo porti con te ovunque e puoi suonare quando vuoi, da solo o con gli amici. E infatti suonavamo tantissimo, ci siamo fatti abbuffate di musica. Poi, intorno ai diciotto anni, accadde una cosa particolare: ci fu una collaborazione teatrale con il gruppo degli Osanna e cantai in tournee con loro insieme ad altri amici. Purtroppo rimasi nauseato dal mondo della professione e dalla falsità che ne scaturiva e decisi che non avrei mai suonato per lavoro, che quello non sarebbe mai diventato il mio
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mestiere. Avrei continuato a suonare in libertà, come avevo sempre fatto, con sicuro beneficio dell’improvvisazione e senza compromessi. Poi cosa successe? Successe che intorno ai trentadue anni, quando alcuni dei miei amici si erano già affermati, parlo per esempio di Pino Daniele o di Enzo Gragnaniello, mi risvegliai, dopo essere uscito da un periodo estremamente buio e triste per me, quello degli anni ottanta. Avevo già scritto e musicato qualcosa e pensai di professionalizzare il tutto, di impacchettare il prodotto, come si dice in termini commerciali. Ma, nonostante la pubblicazione di tre cd e nonostante avessi pubblicato anche in Francia, ho sempre avuto la sensazione di essere a un passo dall’affermazione senza però mai realizzarla appieno. Oggi è ancora così?
Alan Wurzburger, al centro, in occasione della sua tournèe in Francia. A destra Karl Potter.
Ma sai, con il tempo mi sono defilato. Continuo a comporre e a produrre ma sono meno motivato che in passato. Questo però non vuol dire che abbia completamente rinunciato. Per cantare, canto sempre, è una cosa che mi viene naturale e soprattutto mi fa stare bene, mi scarica. Però col tempo mi sono fatto la convinzione che quello che dico non è in sinto-
MONOLOGHI DI DOLORE TRA MADRE E FIGLIA
nia con il mercato. A cosa ti ispiri per i tuoi testi? E il genere umano che mi ispira. L’uomo mi ha sempre incuriosito. E’ dai suoi atteggiamenti che traggo ispirazione. Canto le sue contraddizioni, le sue debolezze, le sue stupidità, la sua cecità. Ma non c’è bisogno sempre di guardare fuori, spesso guardo dentro di me. Comincio da me. Perché chi mi guarda, chi mi ascolta possa poi riconoscersi in un aspetto che evidenzio. Quanto sei legato al tuo territorio? Indubbiamente qui ci sono le mie origini, le mie radici. Napoli poi è uno straordinario laboratorio creativo e lo è, naturalmente, anche per me. Ma ciò non mi impedirebbe di allontanarmi e di andare ovunque mi chiamassero a portare la mia musica. Non ho bisogno di sentirmi protetto da una città-madre, non sono e non sarò mai un “mammone” nei suoi confronti. E poi, c’è il dato oggettivo che sento la frustrazione di non avere avuto nessun riconoscimento in casa mia. Ma non ne faccio solo una questione personale: è scandaloso che in una città con un patrimonio musicale come il nostro, si faccia così poco per la musica, mentre altrove ci sono festival che accolgono migliaia di persone ogni anno. Come la Festa della musica del 21 giugno, nata in Francia. Questo disinteresse da parte di chi avrebbe dovuto sostenere e tutelare questo patrimonio mi fa indignare enormemente. Mancano spazi, mancano progetti e questo è scandaloso per me. Fare polemica serve? Non lo so. Ma non riesco a essere diplomatico e non mi sforzo neanche di essere più simpatico. Il compromesso non mi appartiene e questo sicuramente non paga. So di essere un cantautore scomodo perché non mi sono mai piegato a certi giochi di mercato come illustri e qualificatissimi colleghi hanno, ahimè, fatto. A proposito di illustri colleghi: Pino Daniele abitava a pochi passi dal tuo locale. O sbaglio? Non sbagli. Ha iniziato proprio da qui, poi si è staccato totalmente dalla sua città. Nutro affetto e stima nei suoi confronti, ma proprio perché è un grande, poteva essere un maestro per tutti noi, lui e altri grandi come lui naturalmente. Invece sono rimasti in pochi quelli che fanno sentire la propria voce di dissenso di fronte a certe abnormità. Credo che un cantautore debba farsi portavoce delle ingiustizie più plateali, quelle che non può fare a meno di vedere sotto i propri occhi. E’ un suo compito. L’altra notte, per esempio, mi è capitato di ascoltare in televisione Eugenio Finardi che si esprimeva con grande vigore sulla questione del nucleare. Sono rimasto positivamente colpito dal suo atteggiamento battagliero. Che differenza c’è nel modo di avvicinarsi alla musica dei Segue a pag. 14
originale della Castellano, così efficacemente riadattato a testo teatrale dalla sceneggiatrice. Molto ben diretto e interpretato con passione e sensibilità da Vanina Luna.
“Un soffio tra i capelli”, testo teatrale tratto da un racconto di Giovanna Castellano, è stato rappresentato al Primo e ottimamente interpretato da Vanina Luna di Elettra a venerdì 25 a domenica 27 febbraio al Teatro “Il Primo”, a Napoli, è stato rappresentato lo spettacolo “Un soffio tra i capelli”, tratto dall’omonimo racconto di Giovanna Castellano. Angela Matassa ne ha curato la drammaturgia mentre la regia è stata affidata a Gioconda Marinelli. In scena un’unica attrice, Vanina Luna, con il difficile compito di portare avanti un monologo a due voci. Difficile, perché tenere alta l’attenzione del pubblico per un’ora e venti minuti non è un’impresa semplice, non lo è per un attore più esperto figuriamoci per una giovane attrice. Difficile, perché entrare e uscire di continuo da due personaggi che esprimono una diversa emozionalità, richiede un doppio sforzo di immedesimazione. La diversa gestualità, ben studiata per altro, scelta per ognuna delle due, unitamente a una diversa mimica del volto, sono state più efficaci delle pur valide sfumature della voce e hanno reso identificabili e, soprattutto, credibili i personaggi. Neppure il testo era dei più semplici. C’è questo distacco tra madre e figlia da rendere palpabile in
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tutto il suo dolore e in tutta la sua ineluttabilità. Una madre dolente, ma determinata ad andarsene di casa e che non arretra di fronte alle suppliche della figlia, consapevole che nel dolore causato dall’addio possa farsi spazio quell’assunzione di responsabilità che porta alla crescita e alla maturità. C’è, tra questi due personaggi, un continuo scambio emozionale che rivela l’apparente forza della madre e la fragilità della figlia di fronte all’incognita della solitudine. Ci sono i ricordi di un gioioso passato che si riallacciano al drammatico presente, compresa la sofferenza per uno stato mentale che oscilla tra lucidità e assenze e che trascina la madre in una dimensione quasi onirica nelle sue deliranti ossessioni. Appunto, difficile. Eppure, il pubblico delle tre serate, rimanendo concentrato fino alla fine, ha premiato sia lo sforzo recitativo sia la sceneggiatura, tesa nell’arduo compito di focalizzare i punti cardine del testo. Scarno ed essenziale l’allestimento: quattro teli, quattro colori per altrettanti stati d’animo. Drappi verticali toccati con levità o avvitati con nervosismo ad accompagnare gioia o dolore. Sicuramente è stata una bella prova, tutta al femminile, a partire dal bellissimo testo
Vanina Luna
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L’ADDIO AL GRANDE ENZO CANNAVALE Il 18 marzo se n’è andato uno degli attori più versatili e amati dal pubblico del panorama italiano, protagonista di numerosissime interpretazioni tra cinema, teatro e televisione di Giovanna Castellano Enzo Cannavale era nato a Castellammare di Stabia il 5 aprile 1928. Il luogo dove iniziò la sua attività lavorativa non fu un palcoscenico, ma un ufficio postale dove era impiegato quando Eduardo De Filippo lo conobbe e intuì le sue notevoli capacità artistiche. Grande esponente del teatro napoletano, Enzo Cannavale è stato protagonista di innumerevoli lavori tra i quali spiccano, per aver messo in evidenza le sue capacità comiche, “Miseria e nobiltà” e “La festa di Montevergine”. In televisione, negli anni ‘60, fu tra i principali interpreti dello sceneggiato “Peppino Girella”, scritto, diretto e interpretato dallo stesso Eduardo De Filippo. I suoi ruoli al cinema sono stati tutti significativi, tra i film che ha interpretato vanno ricordati: “Yvonne la nuit”, “Sogno di una notte di mezza sbornia”, “Le quattro giornate di Napoli”, “Operazione San Gennaro”, “Per grazia ricevuta”, “Roma bene”, “Alfredo Alfredo”, “Camorra”, “Le vie del Signore sono finite”, “Pacco, doppio pacco e contropaccotto”; ma anche per i film TV si è confrontato con grandi nomi, è stato infatti interprete di: “Sabato, domenica e lunedì”, “Le avventure di Pinocchio”, “Francesca e Nunziata”, “I delitti del cuoco” e il già citato “Peppino Girella”. I registi che lo hanno diretto sono da annoverarsi tra i più importanti: Vittorio
Caprioli, Nanni Loy, Dino Risi, Francesco Rosi, Steno, Carlo Lizzani, Alberto Lattuada, Pietro Germi, Pasquale Squitieri, Alberto Bevilacqua, Pasquale Festa Campanile, Salvatore Samperi, Massimo Troisi, Giuseppe Tornatore, Lina Wertmuller. Nel 1988 gli fu assegnato il prestigioso Nastro d’Argento come migliore attore non protagonista per l’interpretazione in “32 dicembre” di Luciano De Crescenzo. Un’altra prestigiosa interpretazione è quella nel film “Nuovo cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore. La sua morte, avvenuta il 18 marzo, ha lasciato una grande malinconia non solo tra coloro che lo hanno conosciuto e lo hanno amato, ma anche tra il pubblico della gente comune che ha imparato ad apprezzarlo e a stimarlo sempre di più. La folla commossa che ha gremito la chiesa di San Ferdinando in Piazza Trieste e Trento, ha dato l’esatta dimensione di quanto il pubblico sentisse Cannavale come un attore vicino alla gente. Tanti i grandi personaggi presenti in Chiesa per salutare per l’ultima volta l’amico Enzo: Carlo Giuffrè, Leopoldo Mastelloni, Maria Basile, Enzo Gragnaniello, Lara Sansone, Davide Ferri, Vincenzo Salemme, Bud Spencer, Annamaria Ackermann, Angela Luce, Giacomo Rizzo, Benedetto Casillo, Rosaria De Cicco, Biagio Izzo. Ma anche quelli che erano “vip” solo per lui, nel suo cuore: il suo barbiere Francesco, i suoi tassisti di fiducia Ciro e
UNA GIORNATA DI CORAGGIO E OTTIMISMO Seconda edizione di “Napolitamooo”, svoltasi in due momenti diversi: una goliardica
Annibale. “Un vero fratello per tutti” ha detto il sacerdote officiante dopo aver benedetto la salma. Applausi lunghi e scroscianti hanno sottolineato i passaggi più significativi della funzione religiosa. Quando Enzo è partito per la sua ultima dimora, fuori della Chiesa sono stati liberati palloncini bianchi per dare l’addio a un “puro” che andava via. I funerali sono stati celebrati il 20 marzo, un giorno al confine tra due stagioni, ma un giorno che non ha dato al caro Enzo la possibilità di aprire gli occhi su una nuova primavera, quella che sarebbe stata la ottantatreesima della sua vita. Qualche collega artista ha nascosto le lacrime dietro generosi occhiali scuri, ma per quanto grandi fossero, non hanno nascosto le contrazioni del volto che sottolieneavano il dolore di un addio. Ciao Enzo, ci hai fatto ridere e hai saputo anche farci commuovere! Briganti” hanno interpretato ‘A Ndrezzata, canto figurato per chitarre, percussioni e flauto. Al bando, dunque, l’oleografia sentimentale e il folklore tragico, sostituiti da un divertito suggerimento alle nuove generazioni a riappropriarsi della dignità di cittadini e di napoletani, combattendo ogni illegalità e rispettando la propria terra, con la determinazione, il coraggio e l’ottimismo.
“Cerimonia del Giuramento” al mattino e lo spettacolo al Trianòn in serata di Fiorella Franchini na giornata d’amore per Napoli. Al Teatro Trianòn torna “Napolitamooo”. “Siamo convinti che questa manifestazione debba diventare un appuntamento permanente che serva anche a rinsaldare il legame tra la città, i suoi abitanti, le istituzioni” aveva dichiarato nella prima edizione 2010, Luigi Rispoli, Presidente del Consiglio Provinciale, e la promessa è stata mantenuta. Spettacolo di musica e lingua napoletana per coinvolgere tutti coloro ai quali stanno a cuore le sorti della città e vogliono impegnarsi per dimostrarlo. Esponenti del mondo dell’Arte e dello Spettacolo, studiosi, napoletanisti, operatori culturali, vincitori del Premio Masaniello degli anni che vanno dal 2006 al 2010, Capi d’Istituto e alunni delle Scuole medie Superiori. A tutti loro è stato affidato l’immenso patrimonio del sapere, della scienza, delle espressioni artistiche della Napoli gentile. La colonna sonora dell’evento, presentato da Lorenza Licenziati, è stata interpretata da Tina Bonetti e Maurizio Esposito, testo di Umberto Franzese e musica di Angelo Mosca. Si è sfogliato l’album d’immagini “Chiama Napoli” di Mauro Caiano, mentre si sono esibiti sul palco, tra gli altri, Carlo Missaglia, Dominga Andrias, Diego Sanchez, il Duo vocale Antonio e Domenico Frate, Antonio Landolfi, Enrico Mosiello, Ilva Primavera, la splendida Yamila Rumaior Sosa accompagnata dal maestro Enzo Campagnoli. La manifestazione s’inserisce in un programma di ampie propo-
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ste messe in campo dall’Amministrazione Provinciale per testimoniare fattivamente il rapporto con il territorio cittadino: dal restauro della Fontana del Chiostro di S. Eligio e delle antiche botteghe del quartiere Mercato, al progetto dell’Arch. Loris Rossi per il ripristino della stazione di partenza della Napoli-Portici, dal recupero di Porta Nolana, all’ormai famoso Premio Masaniello che valorizza le eccellenze napoletane. Il paesaggio, la storia, la doppia anima della cultura campana, le arti, lo spettacolo, la lingua e il dialetto, la vita musicale, il folklore, le tradizioni e il costume, gli itinerari, la cucina. Eppure, a 150 anni dall’Unità d’Italia, il Meridione risente ancora di condizioni di vita precarie, spesso dovute a inefficienze, indolenza, ignavia. Per sollecitare l’impegno a creare sviluppo e benessere, e risvegliare l’orgoglio delle proprie radici, la II edizione di “Napolitamooo” ha voluto affiancare, alla tradizione classica, un momento goliardico per interpretare in maniera disincantata, ironica e canzonatoria, il divario tra una visione “nordista” e una “sudista. Con il patrocinio dell’Aige, l’organizzazione di Umberto Franzese, e la collaborazione di Roberta Combattente e Rita Mellone, in mattinata si è tenuta al “Lido Mappatella” Rotonda Diaz - la “Cerimonia del Giuramento”, con “Donativo d’Acqua ‘e mare e Pprete d’’o Vesuvio”. Innanzi a una folta scolaresca e a un pubblico curioso, l’incontenibile cant’attore Vincenzo De Simone ha proclamato ‘O Juramento ‘e Titò (U. Franzese), Maria Grazia Renato ha raccontato ‘A Storia ‘e Napule di G. Galasso, mentre Rino Napoletano e i suoi “Lazzari e
Due momenti di “Napolitamooo”. Qui sopra, la serata al Trianòn. In alto, la “Cerimonia del Giuramento”
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sussurri & grida
L’OCCASIONE FA L’UOMO COMICO Paolo Caiazzo ha portato al Teatro Totò “Tesoro, non è come credi”, seconda commedia recitata insieme a Maria Mazza. “Guardarsi intorno aiuta a scrivere, Napoli è una fonte inesauribile” di Paolo Montefusco Anche questo inizio di 2011 si colora positivamente per Paolo Caiazzo. Dopo il successo di “L’occasione fa l’uomo padre”, portato all’Augusteo, arriva quello di “Tesoro, non è come credi”, divertentissima commedia che, per la seconda volta, vede il comico napoletano, autore del testo e regista, recitare a fianco della showgirl Maria Mazza. I due e gli altri componenti dell’ormai rodata compagnia, Maria Bolignano, Francesco Mastandrea, Rosaria Russo, Ada De Rosa, Enzo Varone, conducono brillantemente lo spettacolo fino alla fine, tenendo desta l’attenzione del pubblico fino al sorprendente finale. Paolo, tu e Maria Mazza siete alla seconda commedia insieme. Siete soddisfatti dell’intesa raggiunta in scena o c’è ancora da migliorare? Penso che ci sia sempre qualcosa da migliorare e nel frattempo lo abbiamo fatto. Quindi andiamo avanti, analizziamo gli eventuali errori e cerchiamo di cambiare delle cose. In questa commedia Maria è messa alla prova in un ruolo più complicato rispetto alla prima perché fa se stessa. E non è semplice farlo in teatro. Una bella prova che Maria ha affrontato bene, uscendone alla grande. Il messaggio che la commedia vuol far passare è quello sul voyeurismo ormai imperante? Prima di tutto viene messa in risalto la crisi della coppia dopo un po’ di anni di vita. Per cui tutta la commedia all’inizio volge lì. La satira sul voyeurismo, sui reality, arriva nel finale e il pubblico non lo sa assolutamente. Quello che invece legge dall’inizio è come una coppia sia scontenta del proprio rapporto dopo dieci anni di vita insieme senza comprendere che magari si è spento il fuoco della passione, ma si sono accese altre luci come la comprensione, la “sopportazione”. E’ la trasformazione di una coppia che spesso marito e moglie non analizzano, mentre si tratta invece di un rapporto di coppia che è maturato e che consente ai due di trovarsi uniti davanti a una difficoltà. C’è un filo conduttore tra tutte le tue commedie? Non c’è assolutamente alcun filo conduttore, anzi c’è il mio preci-
so impegno a fare sempre qualcosa di differente per non correre il rischio di fare le “fotocopie” di un modello, cosa che per me non è affatto stimolante. Forse una parte di pubblico può amare il vedere sempre alcune cose, ma io mi diverto a sorprendere la gente: laddove aspetta di vedere un qualcosa io cerco di portarlo da un’altra parte, tanto è vero che il finale di questa commedia è assolutamente depistato. Napoli è un inesauribile serbatoio di personaggi e situazioni. Anche tu ne trai ispirazione? Sicuramente qui siamo favoriti da questa cornice. Una peculiarità
Paolo Caiazzo
SCACCHI OLTRE LE BARRIERE Si è svolta il 10 aprile a Napoli, nell’ambito della “Giornata della disabilità” dell’ANMIC, “Scacchi in piazza”. Il Consigliere Enzo Russo: evento unico in Italia riginale e riuscitissima la manifestazione “Scacchi in piazza” svoltasi il 10 aprile scorso in Piazza del Plebiscito a Napoli e fortemente voluta dagli organizzatori. Pedoni, torri, cavalli, alfieri, re e regine hanno preso vita sulla grande scacchiera allestita in piazza e hanno svolto una gara unica, sotto diversi punti di vista. E’ stata così celebrata, sotto un cielo inizialmente grigio che ha fatto temere qualche scherzo degli elementi, la “Giornata della disabilità” dell’ANMIC (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi Civili) del Presidente Nazaro Pagano. Organizzato dalla Federazione Medico Sportiva Italiana, dalla stessa ANMIC e dal Comitato Campano della Federazione Scacchistica italiana, l’evento ha visto al centro dell’attenzione i disabili, vestiti con costumi che rappresentavano i diversi pezzi del gioco degli scacchi, guidati nello svolgimento della gara da due veri campioni italiani: la campionessa italiana in carica Maria Grazia De Rosa e Giuseppe Lettieri, campione italiano on-line a un minuto e a tre minuti. Per assistere all’evento, è accorsa in Piazza del Plebiscito tanta gente che ha fatto da ulteriore e colorata cornice alla gara, già appunto collocata nello splendido scenario di una delle piazze per eccellenza di Napoli. Presenti alcune scolaresche, un folto numero di fotografi e operatori e alcune autorità cittadine. Diverse le realtà che hanno collaborato alla realizzazione di “Scacchi in piazza”: l’Istituto di Cultura Russa M. Lermontov, la FIMP (Federazione Italiana Medici Pediatri) della Provincia di Napoli, l’ANIPI (Associazione Nazionale Italiana Patologie Ipofisarie), Sanitas Italia, Petrone Group, Semiconvitto
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Dinastar, Blu Italia, Caseificio Di Costanzo. Il Consigliere Comunale Vincenzo Russo, medico in campo sportivo e Consigliere Nazionale della Associazione Medico Sportiva Italiana, nonchè Consigliere dell’ANMIC di Napoli, ha sottolineato l’unicità della manifestazione: “Scacchi in piazza - ha detto - è un evento che non era mai stato realizzato prima in Italia. Si mettono insieme tre realtà come la FMSI, l’ANMIC e la Federazione Scacchistica per mettere al centro della manifestazione i diversamente abili, opportunamente vestiti per rappresentare i pezzi degli scacchi e guidati nel gioco da due campioni italiani, guardacaso campani. Napoli si distingue per qualcosa di positivo dopo tanti eventi negativi. Oltre a donare momenti di gioia a una fascia debole della popolazione, si dà prestigio alla città, alla classe medica e allo sport e naturalmente si dà grande soddisfazione a tutta l’organizzazione. E’ stato possibile realizzare ciò solo grazie all’aiuto di tanti collaboratori e amici. Non vorrei dimenticare, per esempio, Carmine Petrone del Centro Dinastar che assiste i disabili. Io ho messo in campo i miei ruoli come Consigliere Nazionale della FMSI, come Consigliere Comunale e come Consigliere ANMIC”. Carmine Petrone, Presidente del Centro Dinastar e titolare di 9 strutture tra Napoli e Provincia che assistono i disabili nelle attività motorie e nell’apprendimento delle attività quotidiane, spiega che “i ragazzi hanno aderito con piacere all’iniziativa promossa da Enzo Russo. E’ un’occasione per coltivare il sogno di una vita normale, un’opportunità di aggregazione e di inserimento. Napoli è all’avanguardia in quanto a strutture che assistono i disabili ma è molto
che ci dà tante cose negative ma che in questo modo si trasformano positivamente. Finchè c’è questa città e questo modo di prendere la vita per noi che scriviamo è tutto grasso che cola. Bisogna guardarsi intorno e cercare di raccontarlo. Quindi ti guardi sempre intorno? Certamente. Questa commedia, a suo tempo, fu ispirata al caso Marrazzo.Ci sono battute che fanno riferimento all’esistenza di immagini compromettenti. Così come l’altro spettacolo “L’occasione fa l’uomo padre” si ispirava a festini nelle ville. Però io l’ho scritto a settembre, ho anticipato l’attualità. Infatti dico sempre che ad Arcore mi hanno copiato. Quando hai tempo ti piace andare a teatro? E cosa scegli di vedere? Cerco di andare a vedere qualsiasi tipo di spettacolo. Diciamo che mi piace andare a teatro con mia figlia. E quindi cercare uno spettacolo che parli a grandi e piccoli. Probabilmente noi adulti, sovrastrutturati, quando andiamo a teatro torniamo un po’ bambini. Succede anche a me quando ci vado con mia figlia e così me la godo tutta. Se riuscissi a scrivere uno spettacolo che parla a tutti sarei molto contento. Sei impegnato anche nel campo della solidarietà. Prosegue il tuo impegno con “Trame africane”? Non si ferma mai. Mi dò da fare qui a Napoli per quello che posso: diffondere una voce, raccogliere fondi, portare un aiuto. Con i nostri spettacoli facciamo ridere ma contemporaneamente raccogliamo fondi e regaliamo un sorriso a chi ne ha più bisogno di noi. L’essere padre ti ha ancora di più sensibilizzato su questi temi? Sicuramente. Avere un figlio ti cambia la vita e non è una frase fatta. Lo dico anche in uno spettacolo: non sei tu che cresci tuo figlio ma è lui che fa crescere te. Molto teatro e molta televisione. E il cinema? Per il cinema ho qualcosa in cantiere. Non ne parlo perché sono scaramantico, ma diciamo che probabilmente presto mi sarà offerta un’occasione. Anche tu a inizio carriera hai usato il tormentone comico. Senti di essere stato uno dei primi di questa generazione? Non sono stato assolutamente il primo. Ma adesso il tormentone sta anche andando fuori moda perché oggi in televisione lo usiamo molto meno. Il tormentone è quello che ti rende riconoscibile ed è, probabilmente, l’elemento che ha un indice di incidenza superiore al nome e al volto. In conclusione, sei tifoso del Napoli? E in che modo? Sono tifoso in maniera sfegatata. Quando sono davanti alla tv a vedere la partita posso, lontano dalle telecamere, dare sfogo libero alla mia passione. Qualche domenica fa ero con mia figlia in braccio che si stava addormentando e al momento del gol, importantissimo, ho dovuto “urlare in silenzio”. Giuro che è stata dura.
indietro sul problema delle barriere architettoniche”. “Scacchi in piazza”, nell’ambito della “Giornata della disabilità”, ha lanciato chiaro il suo messaggio di partecipazione, di aggregazione, di inserimento e di rifiuto di ogni pregiudizio verso chi è diversamente abile. Un’iniziativa non solo originale, ma anche lodevole, alla quale bisogna sperare che presto si adegui, nello spirito, la politica cittadina per far compiere a Napoli un passo in avanti nella direzione dell’abbattimento di quelle famigerate barriere architrettoniche che costituiscono un ulteriore e grave problema per i disabili.
Qui sopra il Consigliere Vincenzo Russo e Carmine Petrone. In alto, un momento della partita degli “scacchi viventi”
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FRANCESCA BERTINI, LA PRIMA DIVA Dotata di grande carica espressiva, divenne celebre interpretando sempre ruoli di donne dal grande temperamento. Lasciò la carriera, a soli 27 anni, per sposare Paul Cartier di Eduardo Paola l suo nome ci riporta indietro nel tempo, alle magiche ed eleganti atmosfere del cinema muto. Francesca Bertini fa parte di un tempo che ormai sembra lontano anni luce, un tempo in cui dal grande schermo fascinose attrici ammaliavano gli spettatori con pose lascive e occhi penetranti. Nata l’11 Aprile del 1892 a Firenze, Francesca Bertini visse tutta la sua infanzia a Napoli. Sua madre, Adelaide Frataglioni, era una modesta attrice toscana che, rimasta sola con la sua bambina, si legò ad un altro uomo, Arturo Vitiello, un trovarobe napoletano che fece da padre alla piccola Francesca. Furono proprio suo padre e sua madre che le fecero muovere i primi passi sui palcoscenici di Napoli, introducendola nell’affascinante e spietato mondo del teatro. I suoi occhi nerissimi dallo sguardo intenso, i capelli corvini che le incorniciavano i lineamenti decisi ma delicati le spalancarono le porte del Cinema, facendo di lei in soli due anni dal suo esordio sul grande schermo, l’attrice più famosa e più pagata del mondo. Con i suoi oltre 100 film in soli 10 anni di carriera, Francesca Bertini rappresenta la massima espressione della celebrità dei suoi tempi. Per lei, nel 1915 fu coniato il titolo di diva, nella particolare accezione che questa parola ha finito per avere. Riservatissima, condusse un’esistenza molto appartata. Poco si sa della sua vita, lei stessa in una delle sue autobiografie scrisse “pochissimi erano coloro che potevano affermare di avermi vista di persona. Gelosa di me e del mio affascinate lavoro, uscivo molto raramente: da questo atteggiamento non esulava il calcolo. Avevo intuito che se avessi agito diversamente avrei forse spezzato l’incantesimo”. Francesca Bertini iniziò giovanissima la sua carriera da attrice: nel 1899 esordì a Napoli col nome di Franceschina Favati nella compagnia di Serafino Renzi, in seguito passò nella famosa compagnia Stella e nel 1901 fu scritturata da Gennaro Pantalena. A soli 12 anni, nel 1904 fece il suo ingresso nella compagnia di Eduardo Scarpetta. Ma fu col cinema che raggiunse il successo e la grande celebrità. Dotata di una grande carica espressiva, interpretò quasi sempre ruoli di donne dal grande temperamento, come quello di Assunta Spina, forse il suo film più celebre, conservato nella cineteca nazionale e ancora oggi considerato
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il capolavoro del cinema muto italiano. Diretto da Gustavo Serena nel 1915, “Assunta Spina” fu girato completamente a Napoli e aprì il filone del Cinema “realistico” al quale si ispirò anni dopo il neorealismo. Nella sua carriera Francesca Bertini seppe interpretare, con grande modernità, sia ruoli da popolana che da eroina decadente, dando vita a personaggi di grande passione come Odette, Fedora, Tosca, la Signora delle Camelie e la stessa Assunta Spina. Francesca Bertini si appassionava molto anche al lato tecnico del cinema, collaborando nella stesura delle sceneggiature, suggerendo spunti registici e montando intere scene. Questa sua passione la portò, nel momento massimo del suo successo, a fondare la “Bertini Film”, casa di produzione cinematografica affiliata alla celebre Caesar. Dotata di un carattere molto forte, nella sua vita privata come nel lavoro, imponeva le sue scelte, dai soggetti agli attori, faceva e disfaceva gli ordini del giorno, per ogni scena pretendeva di indossare un abito nuovo e ogni giorno, alle cinque in punto, Francesca Bertini, la diva, doveva essere nei grandi alberghi a prendere il thè con le dame e tra le dame e non c’era programma di lavorazione che tenesse. Inflessibile anche con se stessa, aveva intuito quanto costi la gloria e il successo, e rinunciava all’amore
n° 4 - Aprile 2011 di corteggiatori anche illustri. Perfino la moda di Parigi di quegli anni si era lasciata affascinare dal suo personaggio, lanciava cappelli alla Bertini, mantelli alla Bertini, pettinature alla Bertini. Nell’agosto del 1921 Francesca Bertini venne contattata dalla Fox Film, intenzionata a portarla in America, firmò pure il contratto ma da li a poco ci fu un’altra proposta, molto più importante per l’attrice. Improvvisamente nel settembre del 1921 a soli 27 anni, dopo 10 anni di incontrastato successo e dopo aver guadagnato milioni, Francesca Bertini abbandonò la sua carriera di attrice per sposare quello che sarebbe stato il grande amore della sua vita, il banchiere svizzero Paul Cartier. Anni dopo dichiarò di non essersi mai pentita di questa scelta e di non essere mai stata affascinata dal dorato e luccicante mondo di Hollywood e dall’America in generale. Dopo il matrimonio l’attrice centellinò le sue uscite in pubblico conservando intatto il suo mito e la sua aura di diva. Il 15 ottobre del 1985 nella sua villa romana, in una mite mattinata d’autunno all’età di 93 anni, silenziosamente si spense. Con lei finiva un’epoca, quella di un tempo che ormai sembra lontano anni luce.
“CATASTROFE” DEL SENSO
ALAN WURZBURGER
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nelle epoche in cui prevaleva l’analfabetismo linguistico, il mondo contemporaneo trasmette con mezzi complessi (elettronica e informatica) messaggi stereotipati che non hanno bisogno di “lettori” ma di “vedenti”. Lo stesso uso di internet si caratterizza per una fruizione prevalentemente visiva. La complessità del linguaggio verbale (scritto e parlato) torna ad essere prerogativa di ristretti gruppi di “acculturati”. Si riducono, in tal modo, le “autodifese critiche collettive”. L’immagine, associata al “parlato stereotipato”, veicola messaggi totalizzanti, espressione di una nuova ideologia che non ha bisogno di roghi o di sgherri del sovrano per essere imposta. Per dirla con Umberto Eco, la modernità tecnologica ci riporta, col passo del gambero, verso un passato nel quale il potere deteneva e manipolava anche i saperi più elementari. Tra questi vi è l’uso della parola, forse il principale dono fatto agli uomini da Dio. Con l’assottigliarsi dei repertori lessicali, il dissolvimento del senso e del significato è inevitabile. L’imbarbarimento del nostro tempo passa anche per questa catastrofe “provocata”. L’usa-e-getta delle nuove tecnologie confina la parola scritta e parlata in uno spazio virtuale in cui solo pochi eletti sanno orientarsi e scegliere. Sottratto alla percezione multisensoriale che lo rende “reale”, anche il libro si trasforma in entità ectoplasmatica. Negli anni ‘90 del Novecento, Timothy Leary, in un delirio di onnipotenza, paragonava l’universo virtuale a una sorta di “Olimpo sottratto agli dei”. Fortunatamente, oggi siamo lontani sia dalle ebbrezze che dagli scetticismi che hanno accompagnato le nuove tecnologie. Deve prevalere, anche in questo caso, il principio di precauzione. La storia dell’umanità ha qualche millennio alle spalle, non inizia certo oggi. Nostalgici e neofiti non aiutano nel difficile cammino che ci attende.
ragazzi di oggi rispetto alla tua generazione? Noi eravamo più sentimentali, più spirituali. Si imparava a suonare uno strumento da chi lo sapeva già suonare. C’era quasi un rifiuto per la scuola, almeno per me è stato così, e questo comunque è stato un peccato. Loro invece studiano parecchio e ce ne sono alcuni straordinariamente bravi. Hanno grande tecnicismo. Magari, però, saranno tutti omologati, non ci sarà uno spirito libero come avveniva tra di noi all’epoca. Lasciami dire che sono orgoglioso di avere fatto parte di una generazione che aveva previsto dove sarebbe andato a finire il mondo e dove, purtroppo, regolarmente è andato a finire. Abbiamo tentato di smuovere qualcosa, ma eravamo mosche che combattevano contro elefanti. Parli quasi da vecchio saggio. Ti servirai di questo per parlare ai tuoi figli? Non sono un genitore convinto di dover insegnare chissà cosa ai suoi figli. Ho sempre pensato che prima di dire cosa devono fare, devi fargli vedere tu cosa fai. Devi essere un esempio pratico, non teorico, altrimenti non ha senso. Chi apprezzi in particolare tra i tuoi colleghi napoletani? Ce ne sono tanti che mi piacciono ma poi come sempre non riesco a scindere l’artista dalla persona e rimango puntualmente deluso. Comunque, mi piace molto Daniele Sepe. E’ un grande musicista, un fabbro della musica. Ma anche Marco Zurzolo e Francesco Di Bella dei “24 grana”. Ma guardo molto anche al sommerso, a quegli artisti che non trovano spazio ma che non hanno nulla da invidiare ai cosiddetti grandi. Tu neanche puoi immaginare quanti ce ne sono nella nostra città. Per chiudere: cosa rappresenta per te “Aret a Palm”, il locale al centro storico? E’ la mia tana. E’ il luogo dove canto e suono da tanto. Ho cambiato molte band ma ultimamente c’è questo “trio Corda” che funziona bene. Contrabbasso, violoncello e chitarra, la mia. E soprattutto tanta passione ancora.
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COME ELIMINARE LA “VIL RAZZA DANNATA” Il volume di Gabriele Bojano,“Come eliminare i giornalisti (senza finire in prima pagina)” dipinge una galleria di tipi umani da redazione visti con sguardo dissacrante dall’autore di Paolo Montefusco n libro che “va dalla parte del leggero, ma fa riflettere” come dice Marco De Marco. Un volume che disegna i tipi umani che si possono trovare in tutte le redazioni, divisi per categorie e tipologie, dal giornalista Hulk a quello Descamisado, passando per Dracula e Psycho. Al confronto, però, “le altre categorie non stanno meglio” afferma Antonello Velardi, mentre Ottavio Lucarelli conclude con grande ironia dicendo che “noi giornalisti ne usciamo bene, perchè in realtà siamo peggio”. “Come eliminare i giornalisti (senza finire in prima pagina)” di Gabriele Bojano, vicecaposervizio del Corriere del Mezzogiorno, è un pamplhet molto gradevole (con la prefazione di Maurizio Costanzo) che, in occasione della presentazione alla Feltrinelli di Napoli di Via San Tommaso d’Aquino, ha messo d’accordo tutti i colleghi convenuti. Gabriele, alla presentazione napoletana del volume c’era un ottimo clima tra i colleghi, in alcuni momenti persino goliardico. Ti aspetti che tutti prendano bene il tuo libro? Ho messo in conto che qualcuno possa offendersi, anche perché come categoria siamo molto suscettibili e permalosi. Però, come attenuante, c’è lo spirito che ho messo nello scrivere il libro. Ecco, l’aggettivo giusto è quello che hai usato prima, “goliardico”, se per goliardia intendiamo un fenomeno che nasce nelle Università, legato al vivere bene stando insieme agli altri. Io ho scritto un libro per amore verso quesrto mestiere e verso i colleghi. A me hanno insegnato che le buone notizie non fanno notizia, per cui non avrebbe avuto molto senso un libro dedicato al meglio dei giornalisti, quindi ho scelto di giocare un po’ in negativo. I dialoghi ti sono serviti a dipingere personaggi e situazioni, ma quanto c’è di reale? Ovviamente sono partito da cose più o meno reali, da racconti di colleghi, da cose che mi sono successe direttamente. Poi è naturale che ho voluto esagerare, ho voluto deformare questi tipi giocando sul sarcasmo, sul grottesco. Ribadisci, come detto in sede di presentazione, che i tipi umani del tuo libro si possono riscontrare in altre categorie professionali? Certamente. Ho avuto la soddisfazione di sentire da un mio amico medico che ha riconosciuto dei primari in quei personaggi. Quindi, il libro è pensato per i giornalisti, ma è adatto a tutte le categorie. Esistono molte battute sarcastiche sui giornalisti, sono famose
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quelle di Woody Allen. Senza voler apparire ingenui, perchè questa categoria è così bistrattata? Bella domanda. Perché credo che in questo momento stiamo un po’ perdendo il valore fondamentale della nostra professione: la credibilità. Non siamo più molto credibili perché siamo divisi in due macro categorie: i giornalisti filo governativi e quelli anti governativi. E questo secondo me fa male al nostro mestiere. Noi dovremmo nascere e lavorare al di sopra delle parti, il giornalista dovrebbe essere il mediatore ideale tra le esigenze della gente e i poteri politici e non solo. Nel momento in cui il giornalismo si adagia e diventa un giornalismo che insegue le veline oppure rincorre i favori, si perde molta credibilità. Questo non va messo in conto alla nostra tradizione giornalistica che è d’opinione, portata avanti oggi dai vari Feltri, Scalfari ecc.? Sì, è vero. Però il giornalismo d’opinione a me sta anche bene quando è comunque fatto da firme del giornalismo, quando le opinioni sono espresse da quelli che dicevi tu, da quelli che sono dei guru del
Gabriele Bojano alla Feltrinelli di Napoli
giornalismo. Quando invece ci troviamo di fronte a del giornalismo un po’ di basso conio allora c’è da pensare. Ben venga l’opinione, ma quando è forte, riconoscibile e soprattutto credibile. Noi sappiamo che Feltri, per esempio, ha una determinata linea. Il problema è quando siamo di fronte a giornalisti che non sono facilmente individuabili: dicono una cosa e magari il giorno dopo se la rimangiano, vanno un po’ a vento, a seconda di come tira l’aria politica. I giovani sono spesso attratti dalla carriera giornalistica perchè pensano che questo mestiere significhi solo fare il Vespa, il Santoro. Ma questi sono grandi nomi giunti alla popolarità. Per la maggior parte non è così, e poi ci sono tanti colleghi che lavorano ma scrivono poco o nulla. Infatti questo libro nasce da questa esigenza. Per sette anni sono stato responsabile della redazione di Salerno del Corriere del Mezzogiorno e ho avuto una produzione di articoli molto bassa perché mi occupavo del lavoro più oscuro: quello di desk, quello di mettere a posto il lavoro dei collaboratori, di fare i titoli. Tutto il lavoro che magari molti non conoscono e che è disconosciuto all’interno degli stessi giornali. Quindi, è vero quello che dici tu: esistono tanti piccoli giornalisti ai quali auguriamo di diventare un giorno dei grandi giornalisti. Essere grandi giornalisti non significa soltanto assurgere a una popolarità di massa, ma essere in pace con se stessi, avere la forza delle proprie idee e soprattutto lavorare con coscienza. Nell’epoca di Youtube qual è il futuro della carta stampata? Il giornalista continuerà a esistere perché tutti quelli che oggi si esprimono su Youtube, e quant’altro, non si possono definire giornalisti: usano le tecnologie per raccontare quello che succede in un dato luogo in un momento molto preciso. Io sono convinto che l’informazione cartacea non morirà mai perché ci sarà sempre bisogno dell’approfondimento, della riflessione. Se la cronaca reale sarà appannaggio dei nuovi media, la carta stampata assumerà sempre più quel ruolo di approfondimento di cui dicevamo e di cui gli italiani sentono sempre l’esigenza e che magari è riservato proprio alle grandi firme. Molto spesso dove c’è uno spreco di denaro pubblico non si presenta un collega, ma il Gabibbo. Il giornalismo d’inchiesta è un po’ in difficoltà? Purtroppo sì, diciamo che ci sono delle figure spurie, chiamiamole così, come le Iene, il Gabibbo. Ma ben vengano anche questi surrogati perché comunque svolgono il ruolo della denuncia civile che è importante. Chiudiamo con due domande che tornano sul libro. Ci sarà una seconda parte? In realtà ho cominciato a scrivere già qualcosa della seconda parte. Ho pensato a un libro da dedicare questa volta alle giornaliste. Il titolo, orientativamente, dovrebbe essere “ Giornaliste, se le conosci le eviti”. Adesso, comunque, sono ancora impegnato con la promozione del libro. Infine, a quale categoria di giornalisti appartieni tu? A una che ancora non esiste: il giornalista “interstiziale”. Perchè a me piace ficcarmi negli spazi lasciati dagli altri colleghi, curiosare e trovare le notizie
SPAZIO E TEMPO NELLE TOPOCROMIE DI TORNATORE Nelle particolari opere dell’artista siciliano luci e linee s’intrecciano creando uno sviluppo armonico che costruisce geometrie e prospettive o conosciuto Rosario Tornatore tanti anni fa a Catania. La sua ricerca era allora ancora in fieri. Eppure in quelle piante acquifere, dalle lunghe foglie lanceolate, mosse dal vento e protese in alto come tante bandiere, s’intravvedevano già gli sviluppi degli attuali lavori dei cicli Topocromie, Archicromie e Cosmocromie. Per arrivare a tanto, il cammino è stato lungo. Forse perché Tornatore, finché è restato a Catania, era intimamente legato alla varietà e alla bellezza del mondo naturale siciliano, ne subiva la pregnanza e la forza. Allontanatosi dalla Sicilia, e trasferendosi prima a Parigi e poi a Cerrina Monferrato, da dove gli è stato più facile muoversi per realizzare mostre a Parigi, Lubijana, Bruxelles, Londra, Cracovia, Milano, Torino, Alessandria, Vercelli, Venezia, Santa Margherita Ligure, Bologna, ecc. e partecipare alla vita culturale della sua nuova regione, il mondo e il paesaggio della sua gioventù, dalle intense colorazioni meridionali, a poco a poco ha subito una radicale trasformazione. Si è liberato dell’innata densità barocca per diventare un paesaggio dell’anima com’era già accaduto a Salvatore Quasimodo, quando sotto il cielo lombardo vagheggiava l’impasto di forti e contrastanti luci del Sud. Con una sostanziale differenza. Il poeta con i suoi versi ne ripercorreva con struggente malinconia gli echi mentre Tornatore, affrancando i ricordi dai riferimenti alla realtà effettuale, è riuscito a sintetizzarli in
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immagini dense di un’atmosfera percorsa da un esprit de géométrie che, sebbene viva di riferimenti culturali, si è tramutata in una personale astrazione da “paradiso promesso” come scrive Amnon Barzel nel bellissimo catalogo, edito dall’Accademia Internazionale di Arte e Cultura Contemporanea per conto della Bugno Art Gallery di Venezia. Da questa esigenza di lenta sedimentazione interiore nasce la personale visione geometrica dell’artista. Ogni immagine ha un suo “ritmo dinamico”, intenso e affascinante, costituito di luce e movimento che, attraverso un gioco di trasparenze luminose, ricrea un singolare mondo rifrangente di luci e colori. Nelle visioni delle cosmocromiche, il fascinoso intreccio di fonti di luce si compenetra in un raffinato gioco caleidoscopico di linee per racchiudere un ordine prestabilito, da origine del mondo. Non diversamente accade nelle opere del ciclo Archicromie. Vettori di luce calda e trasparente si stringono intorno a essenziali tracce architettoniche, come se volessero racchiuderle entro il caldo respiro del mondo. Ma è nel ciclo delle Topocromie che l’artista raggiunge un equilibrio compositivo di rara efficacia. Tempo e spazio, luci e linee s’intrecciano in un viluppo armonico costruendo arcane geometrie che si dilungano in una teoria di fughe prospettiche in cui concentra l’arcano infinito della creazione. g. p
Una topocromia di Rosario Tornatore
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sussurri & grida
FUMETTI A BRUXELLES Segue da pag. 8
sentato le opere originali di 50 autori europei. Tra gli altri, Hergé, Hugo Pratt e Uderzo. Tre artisti esemplari della linea chiara. Tutto in una linea. Un tutto che, come scrive Michel Serres a proposito di Hergé, “donne à rire, à penser, à inventer”. Il disincantato e, a volte, sprovveduto personaggio Tintin ne è un esempio. Sono, queste di Hergé, delle avventure cariche di sottile umorismo e comicità e di una propria sostenuta surrealtà, in linea con quanto lo stesso autore afferma quando scrive: “se mi sono messo a viaggiare non è stato solamente per vedere nuovi paesaggi o per documentarmi, ma per scoprire altri modelli di vita, altri modi di pensare: insomma, per allargare la mia visione del mondo”. Visione del mondo che per Hugo Pratt è dominante nel personaggio di Corto Maltese in cui si raccolgono gli echi letterari di Melville, Conrad, Lewis, Cooper e, soprattutto, di Henry De Vere Stacpoole. La prima puntata del suo primo romanzo “Una ballata del mare salato” fu pubblicata nel 1971. “Tutto, nella Ballata - secondo Umberto Eco - segue il ritmo delle rotte marine che raccontano anche la psicologia dei personaggi”. Corto Maltese ha il fascino dell’avventura, si lascia trasportare dal caso “alla ricerca d’improbabili tesori o di amiche scomparse”. Incarna l’ideale dell’eroe romantico, forte della sua integrità interiore. Un eroe d’altri tempi. Solitario, ombroso, romantico. Sicuro di sé di fronte alle rovine del mondo. Queste sue caratteristiche hanno fatto sognare generazioni di lettori. Il disegno di Hugo Pratt è essenziale ma, al contempo, colto e popolare. Sulle “virtù” e la comicità popolare si reggono le storie di Asterix, il gallico eroe di Alberto Uderzo e René Goscinny. In mostra ci sono le prime tavole in cui è presentato “ce petit guerrier moustachu”, un po’ guascone che incarna, nel bene e nel male, lo spirito francese che, con fine ironia, gli autori hanno saputo con intelligenza e arguzia rappresentare e mostrare a tutto tondo. Insomma, negli “eroi” dei fumetti in mostra al Museo CB-BD di Bruxelles si possono già intravedere, in nuce, pregi e difetti dei loro stessi concittadini: Tintin per il Belgio, Asterix per la Francia, Corto Maltese per l’Italia. Già questa possibilità di specchiarci nei nostri difetti comuni mi spinge a invitare gli organizzatori del prossimo Comicon cittadino (Castel S. Elmo 29 aprile - 1 maggio) a fare tutto il possibile per trasportare la mostra in Italia.
n° 4 - Aprile 2011
LA SOLITUDINE DELL’UOMO MORETTIANO “Habemus Papam”, sostenuto ottimamente da tutto il cast, conserva le tematiche care al regista e parla di alienazione umana con una traccia di speranza di Luisa Apicella a società civile è in crisi sotto tanti punti di vista e anche l’istituzione cattolica ne risente. La sua massima guida spirituale, il Papa, si dimostra titubante di fronte al grande impegno e alla responsabilità che deve sostenere. Sarebbe riduttivo, però, parlare di “Habemus Papam”, ultimo straordinario film di Nanni Moretti, come una semplice critica alla politica oppure all’istituzione cattolica. Il regista dello splendido “Ecce Bombo”, infatti, indaga nella solitudine degli uomini. Tutti. Li guarda nella loro nudità, privi di incarichi, titoli, impalcature. I cardinali riuniti in Conclave nella Cappella Sistina procedono all’elezione del nuovo Papa. Smentendo tutti i pronostici, viene nominato il Cardinale Melville il quale accetta con titubanza l’elezione ma, al momento di presentarsi alla folla dal balcone centrale della Basilica di San Pietro, si ritrae. Lo sgomento assale i cristiani in attesa ma, ancor più, i cardinali che debbono cercare di porre rimedio a questo evento mai verificatosi sotto questa forma. Si decide, pur con tutte le perplessità imposte dalla dottrina, di far accedere ai palazzi apostolici lo psicoanalista più bravo, Nanni Moretti, appunto, per tentare di far emergere le cause che hanno spinto il Papa al diniego e favorirne un ripensamento. Con “Habemus Papam”, Moretti racconta con efficacia come le chiese, che siano confessionali, che siano fedi laiche, come la psicoanalisi o che sia quella stessa politica che nel film è presente nella sua apparente assenza, sono crollate da tempo e forse non lo sanno. E a rimanere in piedi, tra le macerie in attesa di ricostruzione, sono gli uomini: uomini che non sanno più dove mettere le mani, segnati da una profonda deriva esistenziale, che procedono per tentativi, che fanno i conti con la loro inadeguatezza e coi loro sogni.
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Questo è il film più maturo di un regista che ha saputo conservare intatti il proprio segno inconfondibile e le tematiche che gli stanno da sempre a cuore integrandoli, con grande intelligenza e sensibilità, a uno sguardo che si allarga su una dimensione che afferma di non condividere ma che qui osserva con la giusta dose di ironia fusa a un profondo rispetto. I due personaggi, lo psicanalista e il Papa, sono le due facce della stessa medaglia, non a caso protagonisti di uno scambio di luoghi più che di ruoli. Si ritrovano accettandosi, quindi. Accettando loro stessi e la loro condizione: quella di esuli in un mondo alieno e fatto di rovine. Ritrovano la speranza e il coraggio verso il futuro. La loro spiritualità, religiosa o laica che sia, la loro identità. Straordinari gli attori nel cast, tra i quali Margherita Buy e Roberto Nobile. Eccezionali Michel Piccoli, Nanni Moretti, Renato Scarpa, Massimo Dobrovic.
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EDIZIONE IN RUSSO In prima pagina Gianni Pittella, eurodeputato di lunga esperienza in quanto parlamentare europeo dal 1999. Pittella ha ricoperto, negli anni, numerosi incarichi nelle più importanti Commissioni dell’UE, tra cui il Bilancio e il Mercato Interno. Oggi è Primo Vice Presidente Vicario del Parlamento Europeo. Nell’intervista, Gianni Pittella fa il punto sulla situazione nel Nord Africa e sulla crisi finanziaria globale, mettendo in risalto il ruolo della Russia che è tornata a essere una delle maggiori economie del mondo. A Dublino si è svolto il Consiglio Mondiale della WARP. Si è discusso, in particolare, del ruolo della stampa nella costruzione di un’identità russa nelle nuove generazioni. Inoltre, sono stati ricordati due grandi eventi della storia russa: l’impresa di Yuri Gagarin e l’inizio della seconda guerra mondiale. Gerardo Pedicini ci porta a Bruxelles dove sono esposte numerose strisce originali di alcuni tra i fumetti più conosciuti e apprezzati nel mondo: Tin Tin, Corto Maltese e Asterix. Una mostra che non solo mette in risalto le capacità organizzative e la maggiore idoneità delle strutture presenti in tanti paesi europei, ma parla di personaggi il cui valore va sicuramente oltre il puro divertimento. Ricordiamo, a sessant’anni dalla morte, Ernest Hemingway, uno tra i maggiori scrittori di tutti i tempi. L’autore americano fu, in particolare, un maestro nell’uso dell’aspetto artigianale della scienza dello scrivere. Una mostra dedicata al grande pittore russo
Aleksandr Dejneka ha aperto la serie di eventi che vedono il 2011 come anno della cultura di Italia e Russia. Un fitto calendario di appuntamenti di grande rilievo culturale segnerà quest’anno con eventi che si svolgeranno in Italia e in Russia, nel segno dell’interscambio, in tutti i campi della cultura, dalla letteratura alla musica. L’Associazione Culturale CULT ha portato in Italia il professor Dmitrij Trubotchkin, Direttore dell’Istituto di Stato per gli Studi d’Arte e Docente di Studi Teatrali presso l’Accademia Russa di Arti Teatrali di Mosca. Trubotchkin ha tenuto una lezione sulla Commedia dell’Arte russa all’Università di Fisciano, cui è seguito uno spettacolo. A Torino, il Salone Internazionale del Libro 2011 avrà come ospite d’onore la Russia, con una folta presenza di autori e un programma dedicato ai più piccoli. La presenza russa a Torino costituirà una delle maggiori esposizioni dell’intero Salone.
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