Musica a bordo! di Franco Maria Puddu
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Balli, canti e musiche da lavoro e non, nella storia della marineria, dalla piroga alla nave da battaglia
ome tutti ben sappiamo, la vita di chi ha scelto di andar per mare non è mai stata, sin dalla notte dei tempi, un facile cammino: da illo tempore ce lo testimonia la frase di Platone secondo il quale al mondo esistevano tre tipi di persone, “i vivi, i morti e quelli che vanno per mare”. Anche Pantero Pantera, capitano delle galee pontificie a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, ricorderà nel libro “L’armata navale”, del 1614, che a bordo delle galee vigeva il detto “la vita è tormento, la morte è sollievo”, ma la testimonianza più deprimente arriva a noi da un vecchio pescatore di Mazara del Vallo che, intervistato negli Anni 50 da Vittorio G. Rossi, il maggior scrittore di mare contemporaneo italiano, disse di sé e dei suoi compagni: “noi, poveri vivi!”. Pure, celando la realtà del suo vivere, o meglio sopravvivere, dietro un’apparenza sfrontata, scanzonata e, a seconda del caso, più o meno malandrina, questa razza tanto a contatto con rischi e pericoli, quanto tenacemente attaccata alla vita, è riuscita, seguendo rotte imprevedibili e imperscrutabili ma, spesso, fortunate, ad attraversare il grande oceano della Storia per giungere ai giorni nostri. Che, ben lo sappiamo, non saranno certo l’optimum per una vita serena, ma che almeno ci consentono di andare al bar senza temere di essere rapiti dagli arruolatori della Marina, di bere una li-
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monata per il gusto di farlo e non per evitare lo scorbuto, e di contraddire il capufficio, senza per questo ricevere trenta colpi di gatto a nove code. Come ha fatto, questa gigantesca band of brothers, a sopravvivere a questo periglioso viaggio nel tempo? Certo non grazie ad una regola fissa: a volte appoggiandosi a qualche superstizione o alla religione (ma anche facendo un sapiente mix delle due), a volte affidandosi al buon senso, spesso imparando oggi per il domani, copiando atteggiamenti di altri e, non diciamo soprattutto ma in buona parte, socializzando fra compagni di sventura e avventura in maniera di creare una quasi fraterna compattezza, ricorrendo, per questo, anche al canto.
C’è canto e canto Quando parliamo di canto, chiariamolo subito, non ci riferiamo a quelle canzoni, spesso languide e strappalacrime che parlano di mari belli e incantati, e poi vanno a finire tutte nello stesso modo, ossia, quanto è bello il mare di questo o quel posto, tanto bello che lontani da questo non si può stare. No, perché queste non sono canzoni per marinai. Saranno belle, certo, con una musica eccellente, però sono per chi sospira struggendosi e guardando il mare, stando con i piedi ben piantati sul molo o sull’impiantito del Bar del Porto.
Sopra, il disegno ricavato da un bassorilievo della prora di una nave da guerra romana, i cui vogatori ritmavano la “palata” con un canto corale o al suono del portisculus, una sorta di nacchera o martello del quale esiste un’unica immagine (a fianco) purtroppo non chiara, proveniente da un mosaico. In apertura, un disegno della Mary Rose, il vascello britannico nel cui scafo vennero rinvenuti numerosi strumenti appartenenti ai marinai
I canti dei marinai parlano di vite dure, di asperità, spesso il mare non lo nominano neanche. Sono canzoni di gruppo utilizzate per lavorare, il che, per il marinaio che vive a bordo, equivale a far vivere la sua casa (la nave) e la sua famiglia (l’equipaggio); strambe melodie molto spesso improvvisate, prive di autori di nome e cantate approssimativamente da gente raffazzonata, ma componenti essenziali del quotidiano di chi viveva sulle navi. Ci è pervenuto dal passato un frammento di una delle più antiche di queste, una celeuma; non sappiamo con esattezza se si trattasse di un vero canto oppure di una sorta di incitazione corale senza pretese musicali, che i rematori di una nave da guerra romana utilizzavano per regolare i tempi di vogata e, nella sincronizzazione dei gesti, ottenere un miglior rendimento con minor fatica.
Di certo sappiamo che faceva parte dei canti “a risposta” nei quali un capo gruppo, un nocchiere chiamato hortator, proclamava il primo verso al quale l’equipaggio rispondeva. Il “canto” era in esametri e sulle sillabe che seguono qui sotto è stata indicata con un accento acuto l’arsi, ossia l’innalzamento tonale della voce che per il declamatore sostituiva l’accento, il quale, di conseguenza, non sempre si trova dove avrebbe dovuto essere di norma, ma sul quale si “appoggiava” il vogatore con il suo remo ritmando la propria azione.
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Inoltre, sulle molte che facevano rotta per la Terra Santa era molto meglio astenersi da cori profani; i santi pellegrini andavano a sciacquarsi l’anima nel Santo Sepolcro, e non si sa come avrebbero preso le parole decisamente prosaiche dei marinai i quali, a loro volta, non erano tipi da farsi saltare la mosca al naso. Tuttavia, da un punto di vista umano, il rapporto tra il marinaio e la musica è sempre staSui vascelli alla sera, dopo che era stata battuta l’ultima guardia e prima del segnale di dormire, i mato molto intenso; nella rinai si riunivano sottocoperta, vicino agli affusti dei cannoni e si distraevano cantando i loro cori solitudine delle navigazioni, anche se i rapporti interpersonali fra i compagni di bordo potevano divenire difficili, alLa “voce” delle triremi le volte bastava un istante di musica per far rinaRiportiamo la prima strofa: scere amicizia ed aggregazione. I comandanti ben “Héia, Virí, Nostrúm Reboáns Echó Sonet Héia! (corlo sapevano e tutti, sia quelli militari che quelli rettamente sarebbe stato Hèia, Vìri, Nòstrum Rèmercantili, favorivano, nei rari momenti di calma boans echo Sonet Hèia) / Árbiter Éffusí Laté Maris e ai liberi dal servizio, la possibilità di riunirsi per Óre Seréno / Plácatúm Stravít Pelagús Posuítque Procélcantare fra loro e, se possibile, ballare, inteso che, lam, / Édomitíque Vagó Sedérunt Póndere Flúctus.” mare permettendo, una sera a settimana era dediche, tradotta, suonerebbe “Heia, uomini, come l’ecato al canto di robusti cori. co rimbombante suoni il nostro heia. / Il signore del mare che si stende ampiamente con voce sereGli strumenti di bordo na / fece distendere placato il pelago e fece calare la Per questo, a bordo di scafi affondati secoli fa, come tempesta, / e i flutti domati si fermarono per mani britannici Mary Rose (1545) e General Carlcanza di spinta”, dove Heia era derivato da un antiton(1785), o lo svedese Gustavo Wasa(1628), sono co grido di battaglia greco, qua usato per spronare stati rinvenuti numerosi strumenti tra i generi peril rematore. sonali dell’equipaggio, dai violini agli accordion, orLe parole evocano l’immagine di una nave che ganetti bitonali a due mani (che i tedeschi chiamaprocede velocemente, con la prora che, dopo aver vano Schifferklaviere, pianoforte del marinaio, mencavalcato con vigore le onde, con l’aiuto della ditre in Italia venivano chiamati concertine), ai tamvinità doma le forze del mare. Un canto da uomiburelli di svariate dimensioni e tipo ed altro ancora. ni di mare, che formavano un tutt’uno con la proE pensiamo di non andare sull’errato se riteniamo pria nave anche se, in genere, dubitiamo che siano che sulle navi aventi comandanti scozzesi o irlanstati così aulici. desi, qualcuno abbia portato a bordo una cornaIn seguito, però, non avremo più traccia di questi musa, anche se alcune superstizioni dei marinai ci canti, prima di tutto perché le marinerie facenti avvertono che gli strumenti a sacco non sempre parte dell’ormai dissolto Impero Romano vissero incontravano il favore dei naviganti. un lunghissimo periodo di estrema crisi, poi perTutti ricordavano infatti la vicenda di Ulisse al quaché quando iniziò una prima ripresa con l’avvento le, al ritorno da Troia ad Itaca, venne donato un della vela, questa, quadrata, era di limitate dimenotre che conteneva i venti pericolosi per agevolargli sioni e le navi piccole come le caravelle, e non seril viaggio; ma i suoi compagni, pensando che convivano grandi sforzi per governarle.
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tenesse un tesoro che l’eroe non voleva dividere con loro, lo aprirono malaccortamente, scatenando la tragedia. Meglio non correre rischi inutili. Ma anche per quanto riguarda la musica “di servizio”, le note non dovevano far sentire la loro mancanza sulle navi. Agli strumenti portati a bordo per diletto personale dai marinai, nella seconda metà del XVII secolo, sulle navi di Sua Maestà britannica si andarono ad aggiungere quelli “d’ordinanza” dei fanti di Marina, i Royal Marines da tutti meglio conosciuti come “Lobsters” (aragoste), per via dei soprabiti rosso acceso che indossavano. Questi piccoli reparti (la consistenza oscillava da una decina di uomini imbarcati sulle unità minori, fino ai cento ed oltre sui vascelli), avevano i propri musicanti: un tamburo e un paio di pifferi (così detti comunemente, ma che in realtà erano flauti traversi) per i piccoli gruppi, molte più percussioni e fiati per quelli maggiori. Il loro compito era quello di cadenzare le attività dei Marines e, in caso di piccole operazioni anfibie, partecipare a sbarchi o rastrellamenti; ma vivendo fianco a fianco con l’equipaggio (non si può dire in stretto contatto, perché i comandi di bordo facevano in modo che Marines e marinai fossero mantenuti separati per motivi di sicurezza, in quanto i primi erano anche polizia militare, destinata a vigilare e tenere sotto controllo la bassa forza) piano piano si realizzassero delle reciproche collaborazioni che aiutavano a superare le difficoltà della “Vita sulle onde dell’Oceano”, come recita la forse più celebre marcia della Royal Navy.
“Life on the Ocean waves” Ad esempio, durante l’alaggio del capone per salpare le ancore, spesso un Marine suonatore di flauto si sedeva sul grande argano fatto girare a braccia dall’equipaggio che faceva forza sulle stanghe infilate lateralmente alla sua sommità e intonava un motivo cadenzato che aiutava gli uomini nello sforzo. Cose analoghe avvenivano nelle marinerie civili, ma qui in quel periodo si sviluppò maggiormente la tendenza di intonare canti di lavoro, da parte dei marinai, appunto in occasione dei maggiori sforzi collettivi come alzare le vele o salpare l’ancora. Gli equipaggi militari e mercantili, da un punto di vista marinaresco, non differivano granché, e in queste occasioni, intonavano dei canti fortemente ritmati che si attagliavano perfettamente a questo o quello sforzo e li agevolavano nella manovra, coordinandone i tempi. I cori erano guidati da uno Shantyman, in genere un robusto tenore, pos-
Seduto sulla sommità del grande argano salpa ancora, un musicante dei Royal Marines intona, con il suo flauto traverso, una ritmata e briosa musichetta che cadenzerà il lavoro degli uomini e li distrarrà, aiutandoli
sibilmente gallese, che riscuoteva vasto rispetto. Questi canti erano definiti shanties (termine di origine britannica dall’etimo incerto), e si dividevano in due “filoni”: uno per guidare i marinai durante lavori che richiedevano uno sforzo intenso ma abbastanza breve come salpare un’ancora, l’altro per sforzi di maggior durata, come per la manovra delle vele. Potevano essere tanto corali che a risposta. Tutti quanti quelli che non erano contemplati in questi casi, erano considerati sailor’s songs. Ai giorni nostri abbiamo uno splendido esempio dei primi nella scena che mostra la partenza da New Bedford, della baleniera Pequod nel film “Moby Dick” di John Houston del 1956, con Gregory Peck nella parte del capitano Achab, durante la quale si vede un ragazzino di colore che indossa una divisa simile a quella che dall’inizio della seconda metà dell’800 venne distribuita ai marinai britannici (fino a quel momento, sulle navi gli unici a indossare uniformi regolamentari erano i Marines), e che ritma lo sforzo degli uomini che alano l’ancora, cantando “Heave away my Johnny”, battendo il tempo con un tamburello. Heave away è l’equivalente di un “Oh issa”. Senza togliere niente alla bellezza delle immagini, la scena è però una forzatura, in quanto il vestito
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Jack, al termine del periodo di arruolamento, ora che sono finalmente “safe and sound at home again” (sani e salvi a casa di nuovo), ricordando di quando “Long we’ve tossed on the rolling main”, si potrebbe dire “eravamo sbattuti dalla tempesta” e altro ancora; si tratta di un mondo indubbiamente molto diverso da quello degli ufficiali, anche se, bisogna riconoscerlo, neanche per questi, l’imbarco era una vita di rose e fiori. Attecchì ovunque questa forma di arte indubbiamente popolare? Possiamo con certezza ritenere di sì, anche se, Una bella e realistica immagine tratta dal film del 2003 Master e Commander, di Peter Weir: però, non ovunque allo stesnel pieno della battaglia l’armamento di un cannone è pronto al pezzo. Si vedono i marinai che reggono i cavi destinati a smorzare il rinculo dell’affusto mentre il capopezzo è in so modo. piedi, il pugno alzato, con in mano il cavetto tirafuoco dell’acciarino; dietro lui sono pronQuelli che divennero più ti lo spugnatore e lo scovolatore. In queste situazioni nascevano grandi amicizie “canterini” furono, per forza di cose, i popoli che effettuadel ragazzo (una copia di una delle prime divise da vano le più lunghe navigazioni, di conseguenza marinaio della Royal Navy) e quel particolare shangli inglesi e i francesi; gli spagnoli, come pure gli tie, sono forse posteriori di almeno un decennio se italiani, ebbero invece più care le canzoni di marinon due rispetto all’episodio illustrato dal film, ma na provenienti dalla propria tradizione popolare, l’impatto magico e al contempo realistico che la mentre per il lavoro preferivano fare affidamento scena dà alla narrazione e all’atmosfera del momenpiù su un “oh issa” gridato che su un “have away” to, fa superare qualsiasi licenza poetica del regista. cantato. Però con una piccola eccezione. Sin dall’XI Secolo, infatti, abbiamo notizia dello sviJohn e Jack, camerati di bordo luppo della pesca del tonno in Sicilia (ma poi anche Un esempio analogo è il canto “Don’t forget your in Sardegna, Liguria, Toscana e Calabria), con speold shipmate” (non dimenticare il tuo vecchio caciali sistemi di reti chiamati tonnare, dove vengono merata di bordo) da parte degli ufficiali dell’HMS convogliati i branchi dei tonni di passaggio fino a Surprise nel film “Master and Commander” di Peter farli accedere ad un locale senza uscita detto “cameWeir, con Russel Crowe, del 2003. ra della morte”. Qua i pesci vengono uccisi e estratIn questo caso, si badi bene però, la canzone è una ti dall’acqua con degli arpioni dai “tonnaroti”, una sailor’s song, un canto da marinaio, non uno shanconsorteria di marinai specializzati in questo lavotie da lavoro, e, probabilmente, anch’essa è, pur se ro, guidati da un raìs, un capo indiscusso dotato di di solo pochi anni, posteriore al momento storico grande esperienza e ascendente sul personale. della pellicola, volta al tentativo di mostrarci realiGli ordini della complessa serie di azioni richieste sticamente il legame che intercorreva tra gli uffiper portare a termine la pesca vengono dati dal ciali di bordo, e il rapporto che li legava allo spesraìs con una specie di discorso / preghiera che miso ingiustamente disprezzato equipaggio. schia frasi esorcistiche a preghiere, a disposizioni, Infatti, nel film, gli ufficiali, al termine di una pica frasi incomprensibili che fanno parte di eredità colo intrattenimento svoltosi fra di loro in quadraancestrali, fino a che l’ultimo tonno non è ucciso to, cantano in coro questo motivo; ma l’ascoltatoe l’acqua del mare è diventata totalmente rossa di re attento intuisce che è stato scritto da marinai, sangue, come dopo una battaglia. Il canto del raìs per marinai, con termini e situazioni da marinaio. si chiama Cialoma, e l’origine di questo etimo non Parla del ritorno a terra di due shipmates, John e è sicura. Certo, è molto simile a Celeuma.
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Il singolare e, a suo modo, impressionante “campo di battaglia” dove combattevano la loro cruenta guerra i tonnaroti siciliani, sardi, liguri e calabresi del 700 e dell’800, al comando del raìs (al centro sulla barca, tingendosi di sangue e di sudore al canto della Celeuma
Anche tedeschi e baltici svilupparono una notevole corrente di canti ma attenzione, questi popoli hanno sempre fatto ricorso a canti di gruppo in determinati ambienti, come quello militare o quello navale, militare e mercantile; d’altronde, nonostante la differenziazione dovuta alla mentalità degli abitanti dei vari Länder, la socializzazione tramite il canto corale è caratteristica di quest’area. I canti iniziarono a prendere piede nei primi decenni del XVII Secolo, per poi prosperare nell’epoca coloniale, durante quella che si potrebbe chiamare la “saga” dei clipper, durante tutta l’epoca della baleneria fino all’inizio dello scorso secolo quando, gradatamente, andarono scemando con la scomparsa della marineria veliera. D’altronde, si sa, specialmente in Marina, i maggiori stravolgimenti sono sempre stati portati dal progresso, mai dalle battaglie, con imprevedibili cambiamenti delle abitudini e della vita di bordo. Basti infatti pensare al povero celeusta che guidava i rematori delle trireme ritmandone i tempi, scomparso perché sostituito dall’aguzzino che li controllava con ben più efficaci staffilate, il quale a sua volta sarà scalzato, con tutti i remi e i rematori, dall’arrivo della vela quadra, che alla fine dovrà cedere il passo alla più manovriera vela latina che
consentiva di andare di bolina. Quindi gli ultimi due colpi di maglio: l’arrivo prima degli scafi in ferro e poi della propulsione a vapore. Quali “effetti collaterali” si direbbe oggi, ebbe la diffusione delle canzoni da marinaio? Il primo fu, sicuramente, lo svilupparsi di alcune danze che divennero poi caratteristiche di questo ambiente. Già erano conosciute delle danze fra uomini che alcuni definivano “Gighe”, ma la danza sembra esser nata nel corso del XVI secolo a bordo dei vascelli inglesi, unendo movimenti che mimavano una serie di movimenti familiari ai marinai del tempo come scrutare l’orizzonte facendosi ombra agli occhi con la mano, alare l’ancora o arrampicarsi sulle griselle.
Dalla Hornpipe alla Hivinau Ne esistevano almeno due varianti: una più veloce e una più lenta, danzate con scarpe dalla scuola dura per enfatizzare il tempo; dal XVII secolo divennero note con il nome di Hornpipe. Si dice che il capitano Cook le considerasse un ottimo metodo per mantenere i suoi uomini in salute: quando il mare era calmo e il ponte sgombro, ordinava che i marinai danzassero una hornpipe al suono di un violino, ed era convinto che grazie a que-
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mando”, del 1962, con uno splendido Alec Guinness ed un altrettanto bravo quanto odioso Dirke Bogarde. Ma ci furono altri effetti che nessuno avrebbe previsto; quando in vaste fasce d’Africa tutti gli europei, di qualunque nazionalità fossero, erano chiamati frengi (per via dei colonizzatori francesi), a Otaheite (Tahiti secondo la dizione dell’epoca) e in tutta la Polinesia erano definiti peritani (britons nell’accezione locale del nome), a Tahiti nacque una danza che qualcuno conosce ancora: la hivinau, i cui esecutori erano molto indaffarati sul palco. In realtà mimavano i gesti dei marinai inglesi quando alavano l’ancora o, alle manovre, gridavano Questa foto ripresa a bordo della HMS Warspite nel 1928 ci ricorda che una delle “Heave now” (hivinau). danze da marinaio preferite era la hornpipe, con la quale, nei momenti liberi, sulle navi di Sua Maestà si tormentavano gli allievi costringendoli ad addestrarsi; con Un solista guida con un canto a riquanta soddisfazione da parte loro non sappiamo, ma a giudicare dalle espressioni… sposta il coro e le mosse dei ballerini, che danzano in un doppio cersto sulle sue navi le malattie erano scarse. Abbiamo chio, schierati intorno all’orchestra di percussioni. qualche dubbio, ma qualcuno la dovette prendere Ma i buoni tahitiani imitavano con troppo zelo la sul serio, stando alla immagine che pubblichiamo, vita di un vascello con a bordo un grosso equipagscattata a bordo della Warspite nel 1928. gio, e proprio per questo, e per la sopravvenuta Noi comunque, volendo, possiamo vedere una belimpossibilità di trovare tanti ballerini quanti marila, se pur breve, rappresentazione di una danza di nai, la hivinau sta cadendo nel dimenticatoio. Cobordo ottimamente ricostruita nel film “Ponte di co■ me i canti di bordo.
La Hivinau, una certamente stupenda danza ballata dai nativi della Polinesia, il cui nome derivava da “Heave now”, l’equivalente britannico di “Oh issa!”sta andando vero il tramonto per i motivi che il lettore leggerà nell’articolo
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