Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Roma
Anno 20 Numero 1 marzo 2010
Cosa vogliono
le donne
NON PERDIAMOCI DI VISTA Stai per andare in pensione? Stai per cambiare domicilio? Hai un nuovo indirizzo di posta elettronica? Comunicaci tempestivamente i tuoi nuovi recapiti!
“
Editore DirCredito Direttore Responsabile Carlo Zappatori Comitato di Redazione Giampaolo Paiardi Guido Antolini Capo Ufficio Stampa Marco de Candia Segretaria di Redazione Claudia Spoletini
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Hanno collaborato a questo numero: Cristina Attuati, Benedetta Breveglieri, Cristina Britti, Elisabetta Giustiniani, Giovanna Onofri, Claudia Spoletini.
Anno 20 - Numero 1 - marzo 2010 Reg. Trib. di Roma n. 441/2005 Editore: DIRCREDITO Iscritto al ROC (Registro Operatori della Comunicazione) n. 13755 e-mail:
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A TUTTI I NOSTRI LETTORI Inviate quesiti, osservazioni o commenti a:
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di Massimo Bucchi da “il venerdì di Repubblica” - n. 1142 del 5 febbraio 2010
IL PROGETTO SCATOLE “SOLIDE & SOLIDALI”
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e mamme e i bambini della Casa di “Cristian” hanno una storia di vita di strada, da raccontarsi e da raccontare, attraverso le forme di comunicazione e di espressione che ognuno sente più vicine, partendo dall’esperienza che ogni giorno fanno in Casa Famiglia. Storie che si raccontano con dolore e che non si vorrebbero mai sentire. Raccontate con vergogna, perché ciò che di più crudele c’è nella donna profanata e violata è il suo senso di vergogna; quasi che subire la disumanità sia una colpa per chi ne è vittima. Mamme ferite a sangue dalla vita e che della strada non hanno provato l’emozione forte di un viaggio e di una scoperta, piuttosto il sapore acido dell’abbandono e della violenza: madri che hanno riversato sui loro figli tutto l’amore di cui ogni madre è capace, più quello prodotto trasformando il proprio indicibile dolore. La Casa di Cristian è stata ed è testimone di tutto questo: di quegli occhi di donna atterriti, di quelli dei bambini, increduli e impauriti, che sanno tornare ad illuminarsi e a ridere, non certo a dimenticare. Riuscire a strappare una di quelle madri al silenzio e accompagnarla verso una nuova forma di comunità, di incontro. Fare con lei la scoperta rivoluzionaria di una nuova fiducia possibile. Noi abbiamo capito da tempo che operare nella Casa è una possibilità che quelle madri ci offrono; ci interpellano e ci aiutano a sentire su di noi i richiami del mondo, Queste madri hanno, poco per volta, accettato di raccontarsi, in gruppo, con altre madri. E lo hanno fatto con compostezza e sobrietà, perché chi frequenta il dolore vero conosce i limiti delle parole e dell’indignazione. Poi, col tempo, hanno deciso di raccontarsi ad altri, senza mai neanche immaginare, di aver qualcosa da insegnare a qualcuno. Si sono raccontate e basta, poggiando le loro narrazioni su una Marzo 2010
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scatola, e lo hanno fatto con i loro figli attraverso racconti, poesie e disegni. Al termine di un percorso durato cinque mesi, dal laboratorio espressivo hanno preso vita nove storie e poesie. Messaggi positivi e propositivi destinati alla società, perché prenda consapevolezza di una realtà che tante volte, seppur conosciuta, viene taciuta o dimenticata. I racconti, rappresentati graficamente da disegni e fumetti, decorano la Scatola Solidale: un «contenitore», un prodotto concreto che può entrare facilmente nelle case di ciascuno ed essere utilizzato per un uso quotidiano perché la vita si racconta così, con oggetti comuni. La scatola è il veicolo attraverso cui far parlare tutte le persone che, avendo incontrato in Caritas un’opportunità di soluzione al proprio disagio, vogliono renderne partecipe chiunque voglia ascoltarle per testimoniare che si può scegliere, tra tante soluzioni possibili, quella più dignitosa per il proprio futuro. Di queste mamme e dei loro bambini, ci auguriamo, parleranno queste scatole, piene di sogni e speranze.
RIACQUISTARE LA LIBERTÀ
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a parola paura Barbara l’ha sentita e vissuta per tanti anni, esattamente 21. Gli anni del suo matrimonio, con l’uomo che la picchiava e da cui ha avuto due bambini. Barbara ora ha 43 anni e un lavoro, vive nella città di Roma dove sta cercando di ricostruirsi una vita con i figli. È nata e cresciuta in un paesino del litorale laziale, dove a 17 anni ha conosciuto l’uomo che poi ha sposato. Lei aveva appena preso la terza media, con molta fatica: “Io non detestavo la scuola – racconta – ma ho imparato a farlo perché nessuno comprendeva le mie difficoltà di apprendimento e mi metteva in condizione di essere al pari dei miei compagni”. All’inizio della sua storia, lui sembra perfetto: è bello, affettuoso e pieno di attenzioni. Rimasta subito incinta, i genitori vogliono che si sposi. Dopo la nascita del figlio, lui cambia: ha avventure extra-coniugali, perde continuamente il lavoro e comincia a picchiarla. Non vuole però che lei vada via, così come non vuole che lavori: deve stare a casa a badare alla famiglia. Quando lui rimane disoccupato per l’ennesima volta lei finalmente può lavorare: trova un buon impiego e inizia a sperare di poter cambiare le cose, di ricostruirsi una vita da sola con il figlio. Ma poco tempo dopo rimane incinta di nuovo: nasce il secondo figlio e il marito continua a maltrattarla. “Non riuscivo a liberarmi di lui – dice – avevo paura che mi facesse sempre
più male e che facesse del male ai bambini”. È lì che la paura si trasforma in terrore, non potendo chiedere aiuto ai familiari. “Ho ripreso a lavorare – continua – e il mio sogno era riuscire a mettere abbastanza soldi da parte per fuggire con i bimbi e riappropriarmi della mia vita. Lavorando mi sentivo valorizzata. Fino a quel momento non sapevo come potevo uscirne, non ho studiato e non sapevo come ci si muove in certe situazioni. Avevo paura che i servizi sociali potessero togliermi i figli. E sarebbe stato un dolore troppo grande”. Finché il suo capo non ha cambiato le cose. “Mi capitava di arrivare a lavoro con il corpo segnato dai maltrattamenti – afferma – ma è stato questo che mi ha salvato. Ho raccontato finalmente al mio datore di lavoro cosa succedeva e lei mi ha dato il coraggio di ribellarmi”. Il capo di Barbara la mette in contatto con dei centri di accoglienza per donne e bambini che si trovano in situazioni di disagio. Lei scappa con i figli e lì viene sostenuta nel suo percorso di rinascita: aiutata a ritrovare un lavoro, a riallacciare un rapporto sano con i figli, a riacquistare stima di sé e a ritrovare quella forza che non sapeva di avere dentro. Di suo marito non ha notizie, Barbara non l’ha più visto; l’ha denunciato e ha chiesto il divorzio. “Sogno di avere una casa tutta mia – conclude – so che per ora è impossibile perché i problemi sono ancora tanti, ma non importa, ciò che conta è aver riacquistato la mia libertà e poter offrire ai miei figli un ambiente sereno e accogliente. Penso che le istituzioni potrebbero fare di più per le donne sole con figli, offrire maggiori opportunità e una protezione adeguata perché io non mi sento sufficientemente protetta, anche se posso ritenermi fortunata: ho un lavoro che riesco a conciliare con i tempi della famiglia e che mi garantisce dei diritti”.
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NON IMPORTA QUANTO DAI MA COME DAI
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lorence ha 33 anni, viene dallo Zambia e vive a Roma da 10 anni. Ha lasciato il suo paese per migliorare la sua condizione lavorativa e per poter riprendere gli studi che aveva interrotto dopo il primo anno di università perché il padre non riusciva più a sostenerla economicamente, avendo altri nove figli di cui occuparsi. “Il mio è un paese estremamente povero e che non offre possibilità alle donne – racconta – se vuoi lavorare puoi fare solo la maestra. Io ci ho provato ma le condizioni in cui lavoravo erano pessime. Nessuna assistenza sanitaria, scarsa igiene, degrado e miseria ovunque”. Ha scelto l’Italia perché la madre conosceva bene la lingua, che le ha insegnato. A Roma Florence è arrivata con un figlio, avuto da una precedente relazione, sperando in un futuro migliore: qui ha conosciuto l’uomo che poi è diventato suo marito e dal quale ha avuto un altro figlio. La scelta della maternità le ha però impedito di riprendere gli studi. “Ho sempre lavorato solo io – sottolinea – mio marito si è dimostrato continuamente irresponsabile e immaturo. Questo, in pratica, ha causato la rottura tra di noi”. Florence perciò è separata di fatto ed oggi è in casa famiglia perché non ha più un suo alloggio e si è ritrovata piena di debiti. “All’inizio pensavamo solo ad avere una casa bella, grande, ad offrire ai nostri figli tutto il meglio. Sul momento non pensi a quanto costano le cose, e se hai abbastanza soldi. E Marzo 2010
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presto sono arrivati i primi debiti”. Florence è passata dalla casa in affitto a una camera in subaffitto, trascinandosi dietro i debiti accumulati. Finché non è stata buttata fuori anche da lì. Ma le istituzioni l’hanno aiutata. “Io ho cercato aiuto – dice – in Italia le istituzioni sono ottime, le informazioni sono sufficienti, basta cercarle e si possono trovare le persone giuste”. Florence oggi ha un impiego con contratto regolare: “Se uno vuole un lavoro lo trova, anche se all’inizio deve accontentarsi di quello che capita e fare sacrifici. Quello che posso dire è che però non ho mai subito discriminazioni”. Florence sta anche cercando, un po’ per volta, di ripagare i suoi debiti. “Ho commesso tanti errori – conclude – però ho capito che l’importante è stare con i miei figli, anche in un monolocale; a loro serve, prima di tutto, attenzione e affetto. E non sono i soldi che ci permettono di avere una vita felice ma il tempo che trascorriamo insieme. Non importa quanto dai, ma come lo dai”.
GIOVANE, PREPARATA E... DONNA
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ha venticinque anni. È siciliana, laureata in Scienze della Comunicazione e da due anni lavora in una filiale in provincia di Palermo. Ha un contratto di apprendistato di quattro anni, e in tasca il desiderio di essere assunta come ogni giovane della sua età. La storia di P è la storia di molti ragazzi: manda una e-mail all’ufficio del personale di una Banca italiana e aspetta. Dopo un anno la Banca la chiama, le fa un colloquio di Gruppo che P supera brillantemente, ed uno successivo individuale. P è brava, preparata, e ha molta voglia di lavorare. La Banca la assume come apprendista e oggi, secondo lei, è già molto, visto che alcuni dei suoi amici sono rimasti “a piedi” dopo una laurea da 110 e lode. P è una giovane donna che si è trovata immersa nel mondo bancario in una terra antica come la Sicilia: terra di fascino e costume, è però anche luogo in cui il mondo della finanza è stato privilegio maschile fino ad una ventina di anni fa. Le donne siciliane che lavorano in banca, hanno cominciato a farlo “d’abitudine” a partire dagli anni ‘80. L’emancipazione femminile che dalla fine degli anni ‘60 conquistò molte regioni italiane ed europee, non conquistò certo le terre di Sicilia. E questo ancora si sente. Nella filiale in cui P lavora, i ruoli di responsabilità sono pressoché tutti concessi ai colleghi e la sua amica F, della provincia di Caltanisetta, è stata addirittura assunta in una filiale di soli uomini. P ci racconta, però, che la mancanza di personale femminile bancario nella sua regione, non può essere considerato un vero e proprio demerito da parte della Banca. La Sicilia ha da sempre vissuto una tradizione fortemente radicata al concetto di famiglia patriarcale in ambito professionale. Una mentalità che cambia con i giovani, ma che resta nella mente di molti individui sopra la cinquantina. Ogni volta che un cliente di una certa età entra nella sua agenzia, infatti, si avverte
sempre un po’ di disagio. P viene sistematicamente esclusa da qualunque informazione venga richiesta allo sportello, dove lei presta servizio. I suoi colleghi sono “scelti” e P sa anche il perché. “Sono ragazzi come me, con la mia stessa formazione, ma sono uomini e fra loro si riconoscono di più. Un cliente anziano non si fida di una donna giovane”. Tuttavia, non è questo che la preoccupa di più: “sono i colleghi in età di pensionamento che sono svogliati e senza più entusiasmo che mi spaventano: “ostacolano” l’assunzione dei giovani più meritevoli, una forza lavoro che costa relativamente poco e crea reddito”. Un collega di P della provincia di Bologna le racconta di come sia stato fortunato ad essere stato assunto in una filiale di giovani. Nessuno supera i quarant’anni e la filiale funziona a tal punto che quasi tutte le attività commerciali di zona sono loro clienti. “Non voglio lasciare a casa nessuno, sia chiaro - dice P - non vuole essere un inno alla giovinezza, ma vorrei che fosse studiato un sistema di incentivazione maggiore a nostro favore, che lavoriamo e cerchiamo di farlo al meglio. Siamo quelli dalla fascia retributiva più bassa, eppure, siamo quelli più motivati”. P è una donna. Giovane, preparata, intelligente. E come lei ce ne sono molte altre.
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RAPPORTO ABI 2009 IN CRESCITA L’OCCUPAZIONE FEMMINILE
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orrado Faissola, Presidente dell’Abi, ha illustrato, il 17 dicembre 2009, il Rapporto Abi sul mercato del lavoro ed ha sottolineato che la percentuale di assunzioni di personale femminile nel settore del credito è aumentata di 9 punti percentuali, con il 42,1% di occupate fra il 1998 e il 2008. Il tasso di occupazione nella UE a 15 è pari al 58,8% per le donne ed al 74,3% per gli uomini. Si confermano però delle sensibili diversità: si va da un massimo del 65,9% del
Essendo infatti gli uomini più anziani (la maggiore concentrazione dei dipendenti uomini è tra i 51 e i 55 anni, contro i 36-40 anni delle donne) una quota maggiore dei pensionati/esodati spetta agli uomini (66% contro il 34%). In merito ad una propensione crescente delle aziende ad assumere donne, occorre fare un passo indietro, al febbraio 2005, quando nel contratto nazionale è stato inserito l’apprendistato. Risulta che le assunzioni con tale tipologia siano tutte a “vantaggio” femminile: nel 2008 il 3,1% delle donne sono apprendiste contro l’1,8% dei maschi. Si tratta di 4.600 donne contro 3.500 uomini, il che significa che su 10 apprendisti 6 sono donne e 4 uomini. Lo stesso vale per i contratti a termine, mentre esiste una parità per i contratti di inserimento. Considerando che l’apprendistato ha avuto e continua Tasso di occupazione femminile nei principali paesi europei anni 1998 e ad avere un enorme successo 2008. Punti percentuali tra le aziende di credito, si possono fare facilmente i Fonte: elaborazione ABI su dati EUROSTAT conti ed osservare che l’inRegno Unito ad un minimo del 47,5% cremento dell’occupazione femminile, oltre dell’Italia. alla più giovane età, è stato determinato L’Italia, quindi, è ancora il fanalino di coda anche dalle nuove tipologie di assunzione. in termini di occupazione femminile. Relativamente alla “carriera” delle donne, il Nel settore del credito, d’altronde, è signifi- Rapporto osserva che pure il loro inquadracativa la riduzione costante della differenza mento si è modificato, ma con una velocità di occupazione per genere. La percentuale diversa. Il numero dei dirigenti è pressoché sulle assunzioni è sostanzialmente uguale, immutato: per una percentuale totale del 2,2 ma non quella sui rapporti di lavoro cessati. % del personale (ca. 7.600) gli uomini rapMarzo 2010
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presentano il 3,5% della forza lavoro e le donne solo lo 0,5%.
Il rapporto conferma quindi la tendenza nazionale su una maggiore e migliore scolarità femminile, che però non ha riscontri in termini di carriera. Sicuramente l’apprendistato non può considerarsi un trampolino di lancio, si accede al livello più basso della categoria impiegatizia (2 livello 2 area professionale), si staziona un paio di anni per poi passare al livello superiore restandoci altri due anni. Se tutto va bene il rapporto si trasforma a tempo indeterminato. Lo stesso discorso vale per il contratto a tempo determinato, per quello d’inserimento e per il part time: tutte situazioni che non favoriscono la crescita professionale. Purtroppo l’Abi non fornisce dati disaggregati sulle 4 categorie dei quadri direttivi, riuscendo soltanto a ricavare che oltre l’80% dei QD3 e Composizione di dipendenti del credito per inquadramento e genere nel 2007 e 2008 QD4 è appannaggio degli uomini. Fonte: elaborazione ABI È evidente che nonostante la minore età e la migliore Per quanto riguarda i quadri direttivi, le don- scolarità, le donne non fanno carriera in banne cominciano ad entrare nella categoria in ca, e sono promosse ai livelli più bassi dei modo più significativo concentrandosi nei quadri direttivi per forza d’inerzia. ranghi più bassi. I quadri direttivi sono circa Quello che manca, in generale nel Paese, 127.000: il 70% sono uomini, il restante 30% ma in particolare nel settore, è proprio il appartiene invece al genere femminile, ed è concetto di “meritocrazia”, tanto caro ai concentrato nelle categorie QD1 e QD2. liberisti dell’ultima ora, ma applicato più Il rapporto Abi sottolinea anche come si sia per le conoscenze nepotistiche che per elevata la qualità del lavoro, e cioè il titolo quelle culturali. La realtà del lavoro in di studio dei dipendenti. I laureati sono il banca si caratterizza sempre più per uno 32% del totale, contro il 25% del 2005. Il spostamento delle responsabilità verso il contributo a questo miglioramento è dovuto basso, dove le donne stanno crescendo proprio all’incremento femminile, che vanta numericamente e hanno una maggiore rispetto ai colleghi, un maggior numero di disponibilità degli uomini ad accettare laureate (34% contro il 30%). ruoli inferiori.
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TUTTO SI PUÒ RISOLVERE…
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aria ha 44 anni e lavora da 30. Viene da una famiglia numerosa della periferia romana e a 14 anni ha dovuto lasciare la scuola perché la madre voleva che trovasse un impiego per aiutare i fratelli minori. “Volevo studiare – racconta – il mio sogno era diventare medico. Ma dovevo lavorare, almeno così mi sentivo utile. Non siamo mai stati una famiglia unita e questo mi ha fatto soffrire molto”. In età adulta, a 30 anni, Maria conosce l’uomo che diventerà suo marito. “Volevo dare un senso alla mia vita – dice – e andarmene di casa, volevo creare una famiglia mia. Ho scelto di sposarmi perché credo nel valore del matrimonio e la persona che ho incontrato mi sembrava quella giusta”. Ma poco tempo dopo cominciano i dubbi. “Non mi sentivo compresa – spiega – non aveva un pensiero per me, non si ricordava cosa mi piaceva e ho cominciato a dubitare del nostro rapporto. Tanto da aspettare prima di avere un figlio. E invece è successo, senza che me ne rendessi conto”. Le cose cominciano a peggiorare: il marito perde il lavoro e su di lei ricadono tutte le responsabilità. Maria si rimbocca le maniche e per 6 anni le cose continuano ad andare avanti. Tra lavoro e altri due figli. “Non ho mai avuto un lavoro regolare – sottolinea – perché tanti ne approfittavano e io ne avevo bisogno. Quindi ho accettato di tutto senza mai pretendere il rispetto dei miei diritti”. Ma a un certo punto tutto crolla: la famiglia di Maria viene sfrattata di nuovo, dopo aver cambiato casa l’ennesima volta, perché solo con il suo stipendio non riesce a pagare l’affitto. A questo punto Maria si rivolge alla parrocchia, che la mette in contatto con i servizi sociali. Lei e i suoi figli vengono accolti in casa famiglia mentre il marito preferisce
rivolgersi a conoscenti per farsi ospitare. “All’inizio ho avuto difficoltà ad accettare questa nuova realtà – dichiara – poi pian piano mi sono abituata e ho avuto la possibilità di riflettere e capire delle cose di me: sono sempre riuscita a conciliare il mio lavoro con il ruolo di madre, ma in questo ruolo spesso mi sono sentita sola; ho provato a tenere la situazione sotto controllo, ma non ci sono riuscita”. In questo senso “la casa famiglia è stata un’ancora di salvezza. Mi ha permesso di trascorrere più tempo con miei figli e di rallentare il lavoro perché sentivo che i bambini avevano bisogno di me”. Lei pensa che le istituzioni stanno facendo molto, sia per trovarle una casa che per aiutarla con i figli minori. “In mezzo a tante difficoltà – conclude – non tutto il male viene per danneggiarci. Tutto si può risolvere, e bisogna accettare anche quello a cui non c’è rimedio. La fede mi aiuta, mi permette di non arrendermi e di continuare a reagire. Anche se non so ancora quale sarà il mio futuro”. Maria non ha deciso se dare una nuova possibilità al marito assente. Ora vuole pensare solo a se stessa e ai suoi figli. Il suo desiderio è quello di poter riprendere gli studi un giorno per poter avere maggiori opportunità lavorative; adesso, però, sa che l’importante è garantire ai suoi figli stabilità e serenità.
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NON HO NULLA MA MI SENTO VIVA!
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ara ha 33 anni, viene dal Marocco ed è arrivata in Italia circa 7 anni fa. Ha frequentato il college fino al 4° anno ed ha interrotto spontaneamente gli studi per inseguire un sogno: “mi piaceva cucire, adoravo creare abiti con le mie mani – dice – potevo essere indipendente e provvedere allo stesso tempo ad aiutare la mia famiglia”. Ha lasciato il suo Paese per vivere nella provincia di Roma con il marito che le è stato imposto dalla famiglia e che aveva conosciuto da poco. Sara non si è opposta alla decisione dei genitori perché nel suo Paese una donna che supera i 25 anni è “aness” ossia una donna che non vale nulla, e lei ne aveva già 27! Arriva in Italia con tanti sogni e speranze. Sa che il marito è un uomo stimato, che ha raggiunto una buona posizione economica e sociale ed è pronta a contribuire al benessere della famiglia adoperandosi nel lavoro, ma le viene da subito proibito. Con il trascorrere dei mesi si accorge che quest’uomo non le piace, non le permette di esprimere opinioni, di uscire, di avere contatti con altre persone, ma spera che il tempo e la maggiore conoscenza cambino la situazione. Le cose invece peggiorano, il marito prende il completo controllo della Marzo 2010
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sua vita e la priva di tutto. Ogni giorno, racconta, “mi umiliava, mi picchiava ed abusava di me; ero sempre in debito con lui e non sapevo per cosa. Non potevo chiedere aiuto alla mia famiglia perché tutte le telefonate avvenivano solo in sua presenza”. Sara si sente sempre più sola e teme per la sua vita, non vuole un figlio e quando scopre di aspettarne uno non è felice, ma decide di essere forte per il suo bambino. Vive la maternità con grande sofferenza e in solitudine, lontana dai suoi affetti e relegata in casa; a distanza di qualche anno arriva un secondo figlio che non desidera, ma che deve avere. “Mi minacciava di morte e più di una volta ho temuto per la mia vita – dice – dovevo solo accudire i suoi figli ed essere sempre disponibile come moglie, per il resto non contavo nulla”. Un giorno, un incontro casuale cambia le cose. Sara racconta il suo dramma e chiede aiuto per scappare dal marito. “Il suo angelo”, come lo definisce, la mette in contatto con un centro d’accoglienza per mamme e bambini e viene ospitata. “Non sapevo che le istituzioni mi avrebbero aiutato, io non parlo italiano e non conosco nulla del posto in cui ho vissuto per anni, lui invece ha un buon lavoro, è colto, simpatico sa come comportarsi; chi mi avrebbe creduto?”. Sara, ora ha iniziato un percorso di sostegno personale e familiare, sta imparando la lingua e ha denunciato il marito.”Non ho nulla – dice – ma mi sento viva! Un sorriso, una parola gentile non ricordavo neanche cosa fossero. E giocare con i miei figli, che gioia!”. Si affida completamente ai servizi perché pensa che per ora siano l’unica possibilità per dare un futuro migliore ai suoi figli, però “non voglio dipendere da loro, ho la mia dignità!”, spiega, “ho solo bisogno di tempo per ritrovarmi come donna e come madre e di essere messa nelle condizioni di poter cercare un lavoro ora che nessuno può impedirmi di lavorare”. Sa che dovrà affrontare molti sacrifici, che sarà dura… ma ci proverà.
LA MACCHINA DA SCRIVERE
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vevo appena 21 anni quando, nel lontano 1976, in una piovosa mattina di novembre, affrontai il mio primo giorno di lavoro in banca. Ero emozionata e fiera di essere stata assunta ma, soprattutto, ero piena di aspettative. Subito dopo la formalizzazione di alcune pratiche burocratiche, venni accompagnata al mio posto di lavoro dove fui presentata ai colleghi. Erano in sette, tutti uomini. Qualche parola di benvenuto, qualche convenevole, e mi venne indicata la mia scrivania dove campeggiava una macchina da scrivere, l’unica presente in quella stanza. Perché solo quella e solo a me? A che mi sarebbe dovuta servire date le mie competenze ed il mio diploma di ragioniera? Non tardai a rendermi conto che la macchina da scrivere discriminava il lavoro delle donne. Fu allora che mi ricordai qualcosa di anomalo legato al mio colloquio per le selezioni e l’assunzione: le domande che mi vennero poste in quella sede, mi sembrarono molto poco pertinenti alla situazione. Che cosa poteva importare infatti agli esaminatori se ero fidanzata, se e quando pensavo di sposarmi, se pensavo di avere dei figli? Non ricordo una sola domanda circa la mia preparazione o riguardo a materie prettamente attinenti al mio futuro lavoro. Tutto questo senza contare la frase di incoraggiamento conclusiva: “Vedrà, lei è una bella ragazza, verrà sicuramente assunta!” Fin dal primo giorno di lavoro mi resi conto che sarebbe stata molto dura, come donna, la carriera che giustamente volevo intraprendere, perché a parità di condizioni e di risultati , ieri come oggi, anche in banca il collega uomo ottiene più facilmente riconoscimenti ed avanzamenti di carriera. Se poi una donna soddisfa il sacrosanto desiderio di avere dei figli, allora la sua carriera subisce dei ritardi tanto ingiusti quanto ingiustificati. E questo è tanto più pesante da sopportare se, come è successo a me, una donna è costretta a chiedere il par time per gestire i figli, il lavoro in casa e quello in banca. Il mio impegno è sempre stato massimo nonostante, in quegli anni, abbia dovuto svol-
gere il mio lavoro in settori e luoghi sempre diversi. Ma ho stretto i denti, aspettando il momento di riprendere servizio a tempo pieno. Ed eccomi finalmente in servizio, piena di entusiasmo e con una gran voglia di soddisfare la mia giusta ambizione per tanto tempo frustrata e… sorpresa! Vengo tenuta in panchina e vista come una riserva anche dalle colleghe! Brave, alla faccia della solidarietà femminile! Ma sono una donna che ama dare il meglio di sé, soprattutto quando le condizioni esterne mi remano contro. Così ho tenuto duro per tanti anni, 34 per l’esattezza, nel corso dei quali mentre lavoravo a pieno ritmo, ho cresciuto i miei figli, li ho accuditi, curati quando erano ammalati ricorrendo all’aiuto di varie baby sitter ed ho provveduto a seguirli nel loro percorso scolastico e di crescita. E tutto questo gestendo ansia e paura di non farcela senza farne parola con nessuno, specialmente con i colleghi. Ho visto molti fare carriera e passarmi avanti solo perché uomini o donne single, ma va bene così. Facendo un bilancio della mia vita di madre e di lavoratrice, posso essere soddisfatta di quello che sono riuscita a fare. Se ho un rimpianto, però, è il dover constatare che il sogno di una reale solidarietà femminile che avevo tanti anni fa è rimasto tale, perché, mio malgrado, ho potuto condividere problemi e difficoltà legati al mio essere donna solo con pochissime amiche e colleghe.
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MICROCREDITO AL FEMMINILE DIRITTO ED OPPORTUNITÀ
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l concetto di microcredito, inteso come strumento finanziario dedicato alle fasce economicamente più deboli per promuovere il loro affrancamento da situazioni di indigenza e dipendenza, assume una connotazione del tutto nuova ed attuale se coniugato al femminile e contestualizzato al periodo di crisi profonda che non solo il Sistema–Paese, ma il mondo intero, sta vivendo. La povertà e quindi ancora di più la povertà femminile va radicalizzandosi, assumendo delle connotazioni di forte drammaticità anche nel nostro Paese dove la piccola impresa rappresenta l’ossatura portante dell’economia. In quest’ottica il microcredito, attraverso l’agevolazione finanziaria concessa a chi non dispone di capitali propri, finisce per contrastare in modo efficace la concentrazione della produzione e quindi della ricchezza nelle mani di poche aziende multinazionali. Il microcredito, e non necessariamente solo quello declinato al femminile, rappresenta soprattutto nelle regioni meridionali, in cui l’accesso al credito è particolarmente complicato, uno strumento efficace per combattere il fenomeno dell’usura e promuovere l’innovazione di prodotto e l’esplorazione di nuovi orizzonti produttivi. Fare microcredito non significa infatti prestare semplicemente denaro a chi non ne ha, ma promuovere, in una logica solidaristica, una cultura di fiducia tra l’istituzione finanziaria, in questo caso non convenzionale, e il fruitore del servizio. Il microcredito, quindi, soprattutto se diretto alle donne e ai giovani rappresenta anche una forma concreta di inclusione sociale in un sistema dove pochi capiscono che la crisi si supera avendo il coraggio di andare oltre logiche di mero profitto ed individualismo sfrenato. Il concetto di “aiuto per aiuto” non va necessariamente inteso come beneficenza a fondo perduto, infatti la percentuale dei debitori insolventi nell’ambito dell’attività di microcredito Marzo 2010
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(circa il 2% sul totale) risulta essere infinitamente più bassa se paragonata a quella di erogazione di credito ordinario. Questo fenomeno va probabilmente ascritto al fatto che chi usufruisce di tale strumento, verosimilmente dopo essersi visto chiudere in faccia la porta da istituti bancari e società finanziarie, si sente fortemente responsabilizzato rispetto al mantenimento degli impegni assunti. Il credito solidale diretto alle imprenditrici donne negli anni passati si è sviluppato soprattutto nei Paesi emergenti, come forma di ammortizzatore sociale in contesti in cui la donna che ha perso la famiglia o che ne viene deliberatamente esclusa rischia di precipitare in un limbo di disperazione e degrado all’interno del quale gli unici mezzi per sopravvivere sono il ricorso alla prostituzione e l’accattonaggio. È evidente che tali situazioni limite sono fortunatamente meno frequenti nel nostro Paese dove, tuttavia, sempre più donne, escluse da un mercato del lavoro fortemente in crisi, si trovano nell’impossibilità di crearsi un reddito che consenta loro di sopravvivere dignitosamente. Oggi come ieri, l’emancipazione femminile, non tanto e non solo fisica, ma soprattutto culturale e mentale, passa attraverso l’indipendenza economica e la piena inclusione sociale. Il microcredito alle donne è stato definito una vera e propria rivoluzione sociale perché, oltre a dare un ruolo importante alle donne all’interno di società maschiliste, ha creato anche una rete di solidarietà tra donne, che prima non esisteva, che è servita anche a denunciare violenze e soprusi da parte degli uomini. Nonostante l’utilità e la semplicità di un sistema che si rivolge a fasce sociali deboli, che hanno la necessità di ritagliarsi un reddito e una professionalità in una società che privilegia il profitto al valore, va sottolineato che le grandi istituzioni finanziarie solo di recente hanno compreso le vere potenzialità del microcredito, tanto è vero che il Fondo
Monetario Internazionale, ma anche le nostre Banche, preferiscono affidarsi alla finanza speculativa dei paradisi fiscali, assai lontani dall’economia reale, piuttosto che alla micro finanza. Questo, purtroppo, dimostra di avere imparato ben poco da quanto successo a causa dei terremoti finanziari che hanno investito il mondo nell’ultimo biennio. Siamo di fronte ad una finanza ad alto contenuto speculativo che ha dimostrato nei fatti di non sapersi autoregolamentare, e soprattutto, così miope e supponente da non riuscire a comprendere come il microcredito non risulti efficace solo per il sud del mondo. Di fronte alla crisi economica di dimensioni planetarie la micro finanza rappresenta uno strumento fondamentale e lungimirante
anche nei paesi occidentali, in cui la lista delle categorie a rischio di esclusione sociale, con in testa donne, giovani ed immigrati, va allungandosi di giorno in giorno. Tuttavia, perché si strutturi e diventi patrimonio integrante di un certo modo di fare credito e, perché no, Banca è necessario che si passi da semplice assistenzialismo a fondo perduto, ad opportunità concreta per la trasformazione del profitto in valore. Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione copernicana in termini economici e culturali e chissà che non siano proprio le donne, che tradizionalmente sono meno impaurite dal cambiamento, a farsi interpreti di questa evoluzione in positivo del sostegno al fare e al produrre.
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TUTTO DIPENDERÀ DA ME!
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arika è una giovane e bella ragazza italiana, nata e cresciuta in un piccolo paese della provincia di Roma. Ha 18 anni e due splendidi bambini. La sua famiglia ha sempre vissuto nelle difficoltà economiche, ma non le ha mai fatto mancare l’affetto e l’ha sempre appoggiata nelle sue scelte. Interrompe volontariamente gli studi dopo aver preso la licenza media. La scuola non le piaceva, spiega, non si è mai sentita a suo agio e ha avuto molte difficoltà a livello relazionale. “Ero oggetto di derisione da parte dei miei compagni, ero troppo timida per reagire e senza volerlo mi sono messa in disparte finché gli altri non hanno smesso di vedermi!”. Marika non ha amici, il suo unico punto di riferimento è la madre alla quale è molto legata. A 16 anni conosce un ragazzo molto più grande, se ne innamora e per la prima volta si sente davvero felice. Vivono una bella storia d’amore e quando scopre di aspettare un bambino entrambi accolgono la notizia con gioia e provano a costruirsi una famiglia, anche se la convivenza e la maternità la spaventano molto data la sua giovane età. Marika dopo la nascita del bambino vive un momento di depressione legato
all’evento stesso e il compagno, invece di sostenerla, la fa sentire inadeguata e incapace di assolvere il suo ruolo di madre, tanto da indurla a ritornare a casa dei genitori. Per un anno continuano a frequentarsi, lui è presente come padre ma non come compagno e quando scopre che Marika aspetta un secondo figlio decide di lasciarla, senza darle spiegazioni. La situazione di Marika peggiora quando, senza un compagno e con due bambini da crescere, si ritrova, da un giorno all’altro, anche senza una casa perché la famiglia non riesce più a far fronte alle difficoltà economiche e viene sfrattata. La madre di Marika chiede alle Istituzioni di intervenire per tutelare la figlia e i nipoti e, dopo diversi alloggi di fortuna, vengono accolti in una casa famiglia. Marika è smarrita e confusa, inizia un percorso di sostegno personale e genitoriale. “Ho bisogno di crescere – dice – non rimpiango la mia scelta perché, anche se sono così giovane, sono una madre felice! Le responsabilità sono tante ed è molto faticoso occuparsi dei bambini, soprattutto quando ti sei sempre appoggiata agli altri per crescerli ed ora devi pensarci da sola, ma posso farcela!”. Marika non ha mai lavorato e sa che senza una qualifica è difficile trovare un impiego, ma vuole impegnarsi per dare una casa e un futuro sereno ai suoi figli. “Quello che si può fare oggi – conclude – dipende solo da me, ed è dentro di me che devo trovare la forza e la fiducia necessarie per costruirmi un futuro diverso; non so quasi nulla di quello che le istituzioni possono offrirmi, non so se è poco o se è tanto, ma so che, al di là degli aiuti che potrò ricevere, tutto dipenderà da me!”.
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STARE TUTTI INSIEME
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abbia, solitudine, vergogna e senso di colpa. Questi sentimenti hanno accompagnato l’infanzia e l’adolescenza di Alessia, una giovane donna romana di 31 anni. È stata costretta ad abbandonare gli studi per occuparsi dei fratelli minori e delle faccende domestiche, la sua famiglia non l’ha mai protetta e amata, racconta “non mi sono mai sentita una figlia, ma una schiava; mia madre faceva la bella vita ed ha permesso che mio padre abusasse di me per anni”. A 18 anni, raccoglie tutte le sue forze e con coraggio lascia tutto e tutti e si rivolge alle Autorità per chiedere aiuto. Denuncia il padre, tutt’oggi detenuto. Alessia inizia a pensare a se stessa e alla sua vita, non ha una casa e non ha un lavoro, è tutto molto difficile ma si sente per la prima volta felice. “Ho chiesto aiuto alla Caritas per mangiare e per vestirmi; non mi sono mai vergognata di questo perché non stavo mica rubando!”. A 22 anni conosce un ragazzo di cui si innamora e con il quale pensa di costruirsi una famiglia. Si frequentano per un po’ di tempo e decidono di convivere; ben presto si rende conto che non è l’uomo giusto per lei, ma è troppo tardi per lasciarlo: aspetta un bambino! Per tre anni è costretta a subire violenze fisiche e psicologiche ma non è la vita che vuole per suo figlio, così decide di andare via anche se non ha nulla. Sola e con un bambino non ce la fa e decide che la scelta più giusta è dare una famiglia al piccolo in cui poter crescere serenamente; il dolore e il senso di colpa sono forti ma non vuole che il figlio paghi per i Marzo 2010
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suoi errori, sceglie l’affidamento come atto d’amore! Alessia, nel frattempo, segue un percorso di sostegno personale e prende la licenza media per poter avere delle migliori opportunità lavorative; l’unico obbiettivo è riprendere con sé suo figlio. Incontra un uomo che le dà finalmente l’amore che cerca e dal quale ha un altro figlio. Tutto sembra perfetto ma il lavoro è poco e mal retribuito, non riesce più a pagare l’affitto ed è costretta a lasciare la casa. Si rivolge di nuovo ai servizi e viene accolta in casa famiglia. Con le istituzioni, spiega, ha un rapporto conflittuale. È l’unico punto di riferimento che ha ed è contenta che ci siano delle persone grazie alle quali oggi può sentirsi una donna e una madre che “può farcela” ma, allo stesso tempo, è stanca di appoggiarsi agli altri. Ha voglia di indipendenza, ma potrà raggiungerla solo quando non avrà più bisogno delle Istituzioni. “Sto lottando per trovare il mio posto nella società – conclude – cerco un lavoro che mi dia la possibilità di avere una vera casa in cui poter vivere con i miei figli. Quello che io non ho mai avuto, i miei figli lo meritano e stare tutti insieme è la cosa che più desidero”.
CORRERE IL RISCHIO DI “UNA SCELTA”
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iamo insieme a G, classe 1975, una bella ragazza della provincia di Bari e una laurea in Economia con lode. N-Buongiorno G. G-Buongiorno. N-G sei molto giovane ma sei già mamma. G-Si. Ho un bambino di 1 anno, un vulcano! N-Sei in banca già da qualche anno. Come sei arrivata fino a qui? G-Ho cominciato come molti altri: nel 2003 mi offrirono uno stage di sei mesi a soli 300 euro. Non era certo uno stipendio, ma un rimborso spese. Però io decisi di accettare perché pensai che poteva essere un’occasione per dimostrare le mie capacità ed essere assunta a tempo indeterminato. N-Ti hanno assunto dopo lo stage? G-Non subito. Ne ho fatto un altro sempre di sei mesi, questa volta con uno stipendio di 600 euro mensili. Mi hanno affiancata ad una società internazionale di consulenza dell’area risk management E stata un’esperienza veramente positiva, molto stimolante sotto tutti i punti di vista. Avevo sempre le valigie in mano, ma ne è valsa sicuramente la pena. N-E poi ti hanno finalmente assunta.
G-Si. Era il 2004. Andai a Milano. Ho dovuto fare una scelta. Ho chiuso le porte a molti affetti, al mio fidanzato di allora, ho lasciato la mia casa, la mia famiglia. Ma è stato importante. La Banca mi ha aiutato con qualche agevolazione creditizia. Sai, la vita al Nord è più dispendiosa che da noi, a Bari. Ora è tutto diverso, comunque. N-Diverso perché? Perché ti considerano una ragazza del sud? È poi così terribile vivere a Milano? G-No, non intendevo diverso in questo. Diciamo che l’interazione con le altre colleghe non è stata semplicissima. A volte, fra donne, non si è molto solidali. E, soprattutto, tendono un po’ tutti a non trasferire le informazioni. Credo che nel nostro Paese ci sia molta resistenza a fare un lavoro di squadra. Al di la di tutto, però, sono felice. Queste sono difficoltà che tutti affrontano quotidianamente. N-Ora hai anche un compagno, il padre di tuo figlio. Questo è un grande sostegno. G- Assolutamente si. Lui lavora nel settore informatico e mi è stato di grande aiuto. Ora sono capo ufficio e debbo dire, che oltre alla mia capacità e caparbietà, ho anche la sua collaborazione nella gestione della vita domestica. In più, e in questo Milano è molto organizzata, usufruisco di tutti i vantaggi che un asilo aziendale offre. Non posso certo lamentarmi. N-Vuoi dare qualche consiglio a qualche tua coetanea? G-Non saprei. Forse che se capita l’occasione non bisogna lasciarla sfuggire ed essere pronti anche a lasciare la propria terra e i familiari. È un sacrificio, ma vale la pena correre il rischio.
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CONDIVIDERE GIOIE E DOLORI
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argara ha 38 anni. È nata e cresciuta in una piccola città di mare della Polonia, lontana dalla capitale, che vive soprattutto di turismo e non offre molte opportunità lavorative. Ha terminato la scuola dell’obbligo e ha frequentato per tre anni una scuola professionale. Inizia a lavorare molto giovane per aiutare la famiglia e poter essere indipendente. I suoi genitori si sono separati quando era piccola, il padre non li ha mai aiutati e perciò la madre lavorava tutto il giorno. A 18 anni conosce un ragazzo suo coetaneo e si innamora. Decidono di convivere a casa dei genitori di lui e, a distanza di un anno, nasce un figlio, desiderato da entrambi. Durante la gravidanza il compagno le era vicino e la sosteneva “ero spaventata, non sapevo cosa volesse dire essere madre, avevo sempre paura di sbagliare, ma ero felice perché imparavamo insieme ad essere genitori!” spiega. “Non avevamo una casa nostra perché le case nella mia città – dice – si affittano solo ai turisti e noi non avevamo abbastanza soldi per comprarla”. Margara smette di lavorare per dedicarsi al bambino ma il lavoro del compagno non è sufficiente, così di comune accordo lui parte per l’Olanda in cerca di fortuna, mentre lei ritorna a casa dalla madre. Nel giro di un anno però le cose cambiano: lui smette di farsi sentire e non manda più i soldi; lei prova a cavarsela da sola, ma il lavoro è poco, mal retribuito e non riesce a conciliarlo con il ruolo di madre “In Polonia, una donna sola con un bambino, senza una famiglia alle spalle, non può farcela”, spiega. Cinque anni fa, insieme ad un’amica decide - con il “cuore a pezzi” e piena di dubbi - di partire per l’Italia, lasciando il figlio alla madre; una decisione necessaria per cercare di offrire al suo bambino un futuro migliore. Arriva in Puglia e trova lavoro abbastanza in fretta grazie a dei connazionali; deve raccogliere frutta e verdura nelle campagne per Marzo 2010
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15 ore al giorno per un compenso di 250 euro al mese e senza nessuna forma di tutela; non le importa perché i soldi le servono. Nel frattempo conosce un ragazzo rumeno di cui si innamora. Non si accorge di essere incinta se non al 3° mese di gravidanza e questa notizia la sconvolge perché cambia tutto; è confusa, ma il compagno desidera il bambino e le promette il suo sostegno; lavora fino al 7° mese di gravidanza. La situazione lavorativa del compagno non migliora così pensano di trasferirsi a Roma in cerca di opportunità migliori. Con un bambino in arrivo, senza lavoro e con pochi soldi a disposizione è difficile trovare una casa; si appoggiano a conoscenti, ma le cose peggiorano ancora quando, durante un controllo medico, scopre che il bambino è affetto da una malformazione cardiaca che comporta cure specifiche, costose e interventi nel corso degli anni. “Ero arrabbiata con me stessa. Ho pensato che fosse colpa mia, del troppo lavoro… ma senza soldi cosa potevo fare?!?” racconta con le lacrime agli occhi. Alla nascita del bambino decide di chiedere aiuto alla Caritas. Viene accolta in casa famiglia, impara la lingua italiana, viene messa nelle condizioni di crescere il figlio in un ambiente sano e protetto e, riuscendo poi ad inserirlo al nido, trova un lavoro. “Lavoro da anni, ma non ho un contratto… Devo accontentarmi per ora, non ho altra scelta! Cerco però di migliorare perché come tutti desidero una casa mia dove poter vivere con i miei due figli”. Il rapporto con il compagno continua tra alti e bassi, anche se lui è un buon padre; per ora ciò che conta per Margara è stare vicino al figlio. Le preoccupazioni sono tante ma poter condividere gioie e dolori dell’essere madre con altre madri le dà forza e fiducia; il suo cuore ferito si risanerà quando potrà riavere con sé anche l’altro figlio verso il quale si sente profondamente in colpa.
SOLA IN MEZZO AL MARE
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ara è una donna egiziana di 42 anni. Ha frequentato il liceo professionale ed ha iniziato a lavorare subito dopo aver terminato gli studi. La sua è una famiglia molto numerosa e suo punto di riferimento, avendo con la madre un rapporto conflittuale, era il padre: “ero la sua principessa e ho potuto fare sempre ciò che desideravo, anche rifiutare per anni di sposarmi!”. La morte improvvisa del padre cambia gli equilibri familiari e si trova costretta a lasciare la sua casa “mia madre non mi ha mai voluto bene, non ha mai cercato un rapporto con me e appena ha potuto mi ha allontanato” spiega. Chiede ospitalità alla sorella e nel frattempo conosce un uomo con il quale si sposa dopo soli due mesi, racconta “non ero sicura che fosse l’uomo giusto, ma lo speravo”. Dopo un anno di matrimonio e con l’arrivo di un figlio, desiderato da entrambi, il marito le propone di partire per l’Italia per migliorare la loro condizione economica e, anche se non è felice con lui, il suo dovere di moglie gli impone di seguirlo. Racconta: “nel mio Paese una donna che chiede il divorzio è una donna destinata a rimanere sola e io dovevo pensare anche a mio figlio”. Mara è a Roma da quasi 15 anni, ha due bam-
bini e parla pochissimo l’italiano. Il marito trova un buon lavoro e offre una casa alla sua famiglia, ma non amore. Il sogno di una vita felice si rompe pian piano e Mara è costretta a sopportare per anni violenze e umiliazioni; non ha relazioni sociali, non può frequentare amici e deve solo occuparsi della casa e dei figli. “Essere madre è difficile quando sei sola e devi proteggere i tuoi bambini da un uomo violento; dai tutto l’amore che hai, nascondi la tua sofferenza, ma non basta… Non potevo lasciarlo perché non sapevo a chi chiedere aiuto e alla fine è stato lui a lasciarci”. Il marito si innamora di un’altra donna, prende tutti i suoi averi e torna in Egitto lasciandola senza niente. Non può pagare l’affitto perché non ha soldi, non trova lavoro perché non parla la lingua e in più ha due bambini ai quali provvedere. Mara è disperata, si sente “sola in mezzo al mare”, raccoglie tutto il coraggio e prova a chiedere aiuto ai servizi sociali, viene così accolta in casa famiglia. Inizia un percorso per ritrovare autostima, recuperare la dignità, per essere pronta ad impegnarsi nella ricerca della sua autonomia economica. “I miei figli sono il mio mondo, tutto ciò che posso fare è dar loro tranquillità e stabilità”. Ha fiducia nel futuro e la fede le è di sostegno e di conforto; sa che da sola sarà molto faticoso, ma il primo obbiettivo per essere una donna libera è conoscere il mondo in cui vive. Crede nell’aiuto delle Istituzioni perché è grazie a queste che ora ha un’altra possibilità per sperare in una vita migliore. Per ora ha trovato solo dei piccoli lavoretti, senza contratto e con una retribuzione minima, ma non si arrende! ”Ho paura del futuro, mi chiedo ogni giorno cosa farò? Andrà bene? Potrò dare una casa ai miei figli? Ce la farò a mettere i soldi da parte per un affitto? – dice – ho tanti dubbi, tante preoccupazioni perché voglio che i miei figli abbiano un futuro, è per loro che devo farcela!”.
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SOGNI RIMASTI NEL CASSETTO
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a storia di F potrebbe sembrare assurda… invece non lo è, ed è molto più comune di quanto si possa pensare. L’ambito è quello bancario, apparentemente attento alle competenze del singolo ma spesso discriminante, almeno nei confronti del gentil sesso. F sembrava proprio avere tutte le carte in regola per riuscire a raggiungere una posizione quantomeno soddisfacente. Assunta negli anni ‘80, nel pieno del boom bancario, prende servizio presso la Direzione Generale di un importante banca come impiegata addetta ad un settore della finanza. Oltre a tanta voglia di lavorare, possiede una laurea cum laude in Economia e Commercio conseguita in tempi brevissimi alla LUISS, polo universitario che le aveva anche proposto un rapporto di collaborazione. Ma, si sa, la banca era la banca… un posto sicuro, protetto, serio, dove si guadagnava bene! Per questo F si tira su le maniche e comincia subito a fare la gavetta, adattandosi a lavori modesti, ma con l’intima certezza che le cose sarebbero cambiate. E, a dire il vero, con il tempo cambiarono poiché le persone che lavoravano con lei si accorsero che era competente, precisa ed affidabile… ma, quello che non cambiò, se non molti anni dopo, fu la promozione al grado superiore, un semplice Capo Reparto. Da quel momento in poi aumentarono le pretese, le richieste di fare sempre più straordinari, di eseguire lavori che non le competevano, di usare le mani più che il cervello. Ma, se puoi mettere a frutto le tue competenze, se puoi sbrogliare una matassa, se hai disponibilità mentale e fisica… O se comunque apporti elementi positivi… perché il collega che ti sta accanto deve superarti in carriera, in considerazione, in stima? Benissimo, F reagisce, non si può vivere di solo pane… seconda laurea… ci riprova. Si rimette in gioco… “magari stavolta va meglio”…. Ma le nuove competenze e le Marzo 2010
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nuove sfide non arrivano a segno. Nel frattempo, i sogni rimangono sogni, le speranze rimangono speranze, ma la vita – quella fuori dalla banca – comincia a chiedere di pagare pegno. E, così, un genitore ormai anziano si ammala, l’altro non ha più la forza di reagire e, la figlia, deve occuparsene. Di fronte a tali esigenze, la banca, che certo molto non ha dato, passa in secondo piano. La richiesta di part time viene approvata al prezzo di non poter più fare carriera (ma di quale carriera si sta parlando?) e, comunque, nel pomeriggio mancherà qualcuno disposto a fare le fotocopie, mandare i fax, rimettere a posto i faldoni nell’archivio… pertanto, avendo messo i suoi capi in difficoltà, deve ringraziare del fatto che non le abbiano cambiato posto di lavoro. È la fine… solo gli scatti di anzianità consentono ad F di arrivare a Vice Capo Ufficio. Nel frattempo i sogni sono finiti, i genitori sono morti e le due lauree sono rimaste infruttuose. F è una mia cara amica. Rimane una donna colta e intelligente. Provata, ma non più di tanto, perché, per fortuna, ha ancora fiducia nel prossimo. È andata così. Due lauree nel cestino. Una intelligenza schiacciata, commensurata a situazioni maschiliste. 30 e passa anni di banca. Sogni rimasti nel cassetto. Troppo tardi per aprirlo. Fra poco la pensione e… capitolo chiuso!!!
UN QUADRO APPESO AD UNA PARETE CHE NESSUNO GUARDA PIÙ Noi-Ciao A. A-Ciao. N-Raccontaci come hai iniziato la tua vita da bancaria. Sei del settore legale, vero? A-È cominciato tutto dopo la mia laurea in Giurisprudenza. Era il 1985 e fui assunta come impiegata di primo livello, terza area professionale, dopo una tesi da 100 e lode in Diritto Costituzionale Italiano e Comparato. N-Complimenti, una materia complessa! Questo ti avrà aperto delle porte immagino. A-Sicuramente mi ha aiutato ad essere assunta, ma all’inizio facevo un lavoro amministrativo, non specialistico. Ero nell’ufficio contenzioso e non facevo altro che battere a macchina lettere ed atti giudiziari. Venticinque anni fa non esistevano i computer, ma le macchine elettriche con memoria incorporata. Un lavoro non certo bisognoso di un laureato. N-Nessuno dei responsabili del tuo ufficio sapeva delle tue competenze? A-Non proprio. Il mio capo ufficio di allora si rese conto, per fortuna, che ero stata sottovalutata e mi assegnò dei compiti di qualità: iniziai dal recupero dei crediti al consumo, per passare velocemente al fallimentare, la mia vera passione. Ho rappresentato la Banca nelle udienze in Tribunale. N-Che brava. E allora perché non fai ancora fallimentare? A-Una bella domanda! Dopo dieci anni di sudato lavoro sono stata promossa a capo ufficio. Dopo un paio di anni avrei dovuto passare, come da nostro contratto, al livello di Qd1 viste le responsabilità che assumevo ogni volta che andavo in udienza. Lo chiesi. Mi fu risposto che dovevo meritarlo e, ovviamente, non arrivò nessuna promozione! Scusa, non vorrei sembrare polemica, ma forse lo sono già…. N-Non ti preoccupare. Dimmi cosa è accaduto. A-Mi sono rivolta al mio sindacato e abbiamo fatto vertenza alla Banca. Ma non siamo mai arrivati in fase dibattimentale perché mi è stato poi riconosciuto il grado. Come è stato anche tracciato un segno sul mio nome.
N-Che vuoi dire? A-Voglio dire che la mia carriera è finita in quel momento. In parte, a causa della ristrutturazione del mio ufficio. Alcuni sono rimasti. Io sono stata trasferita. N-A fare cosa? A-Faccio advise alle filiali. Controllo gli sconfini dei conti correnti. Come fossi una macchina: Ma basta, ho deciso di smettere di lottare, ho cinquant’anni e tanti problemi a casa. N-Ti riferisci a tuo figlio vero? A-Esattamente. Ha diciannove anni, è un bellissimo ragazzo, ma preda di depressioni che mio marito fa finta di non vedere, forse perché non vuole accettarlo. N-Qual è il problema di tuo figlio? A-È affetto da una patologia che viene definita, in termini psichiatrici, dismorfofobia. È un’ossessione immaginaria per cui il paziente è convinto di essere deforme anche non essendolo. N-Cosa ti hanno detto i medici? A-Mi sono rivolta ad una infinità di psichiatri e specialisti. Mi hanno detto di fare una terapia familiare, marito incluso. Ma niente. Nulla da fare. Mio marito è un avvocato, si cura solo di questo e anzi, mi considera colpevole rispetto a nostro figlio. N-Lavori sempre? A-Si. Faccio sempre advise. Almeno occupo il tempo. Mi sento come se fossi un quadro impolverato. Appeso ad una parete che nessuno guarda più.
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