LE ANIME DELLE CITTÀ Mercè Rius Universitat Autònoma de Barcelona Nella magistrale narrazione autobiografica che Sarah Kofman scrive appena un anno prima di suicidarsi (nel 1994, a sessant’anni), l’atteggiamento con cui l’autrice affronta la sua durissima esperienza, come figlia di un rabbino deportato e assassinato a Auschwitz, traspare già dal titolo stesso: Rue Ordener, rue Labat. Si tratta dei nomi di due strade di Parigi: una, del quartiere in cui viveva con la sua famiglia, immigrata dalla Polonia, e l’altra, quella del piccolo appartamento di una francese “goi” (cioè, non ebrea) che diede rifugio a lei e a sua madre durante l’occupazione. Il doppio nome non simbolizza tanto un incrocio, quanto piuttosto un parallelismo che, date le circostanze, vuole dire incompatibilità. Due vie che non s’incontrano mai e che, tuttavia, la Sarah della calle Ordener, chiamata sintomaticamente Suzanne quando si trova in calle Labat, deve percorrere spesso se non vuole perdere la vita. Ora come allora deve passare dall’una all’altra, disorientata, paradossalmente, per non sviarsi del tutto. Si tratta di due semplici nomi di vie urbane per un itinerario intimo. Ecco forse un esempio di ciò che significa essere un bambino di città, una creatura nata o cresciuta nella giungla d’asfalto. E dire Parigi è come dire Barcellona... o la metropoli di Cacania. Musil aveva osservato che ciò che marcava la differenza tra le città le poteva identificare tutte in base a un solo criterio: “Si conoscono le città, come le persone, per il loro modo di camminare.” L’idea veniva da molto lontano nel tempo. La formularono, infatti, i primi pensatori greci, anche se in termini più esigenti: le città possono essere conosciute per la loro virtù. Allora la virtù era intesa non come una qualità della coscienza, ma come un perfezionamento dell’anima, che era legata al corpo. Da qui veniva, secondo Aristotele, uno dei tratti distintivi della magnanimità (megalopsychía), cioè, etimologicamente, della grandezza dell’anima. L’uomo magnanimo era caratterizzato dall’assenza di movimenti frenetici, la presenza dei quali avrebbe indicato in lui solamente il trionfo delle passioni animali sulla razionalità umana. Perciò, quando Eugeni d’Ors definì il movimento novecentesco catalano come un rinascimento della cultura classica, emise una sentenza lapidaria: “La città è ritmo.” La Catalogna-città –per il momento, secondo le sue parole, una pura idea in senso platonico– si poteva scorgere materialmente in alcune grandi occasioni: appariva, allora, in mezzo alle strade come un movimento non dedito a rompere le forme, anzi, a dare loro nuova vita. Per
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D’Ors (a differenza, per esempio, delle tesi applicate da Simmel a Venezia), una forma vera non poteva mai essere morta. L’idea che la città fosse ritmo significava, quindi, che doveva avere un’anima. D’Ors s’affrettò a plasmarne una e le diede il nome di Xènius, uno pseudonimo con cui firmava i suoi articoli, chiamati “glosse”, sul giornale La Veu de Catalunya. Allo scopo di fare paese, di cercare di costruire la Catalogna-città, era per lui necessario sdoppiarsi, giacché nessun individuo in carne e ossa può raggiungere con le proprie forze lo Spirito, il quale, essendo comunitario, oltrepassa di molto i limiti individuali. Come per la struttura della personalità – sempre secondo D’Ors– l’anima fa da mediatrice tra il corpo e lo spirito, anche lui aveva bisogno di un “doppio” che lo aiutasse a diffondere lo spirito della cultura in quanto le città sono, prima di tutto, corpo urbano: complessi urbanistici in cui abitano e per i quali transitano corpi umani. Invece, ecco come presentava Xènius la “glossa” del 9 maggio 1906: “Xènius sì che è agile. –Dal momento che non gli pesano carni né ossa né catene dello spazio né catene del tempo... È incorporeo, etereo, psiche, anima... una farfalla di soffio.” Angelica farfalla. Xènius era libero dalle catene spazio-temporali non perché spazio e tempo fossero a lui alieni, anzi, non lo incatenavano da fuori perché, intersecandosi, lo spazio e il tempo costituivano la pasta del suo essere: il suo essere di scrittura. Per tale ragione lo si poteva trovare, nello stesso tempo, ovunque e in nessun luogo della città. Possiede il dono dell’ubiquità –diceva D’Ors nella “glossa” sopra citata. Nello stesso modo, la sua peculiare temporalità non entrava in contraddizione con l’eternità; ma D’Ors ne aveva bisogno appunto per cogliere –cito ancora– le “palpitazioni del tempo”. Palpitazioni: e siamo sempre in presenza di una questione di ritmo. Nel ritmo temporale respira l’eternità. Come il “soffio” concede dignità alla materialità del corpo. In virtù della sua condizione di anima forgiata nella scrittura, Xènius aveva il dono dell’ubiquità, e perciò poteva fare compagnia ai solitari nei loro nascondigli. Come l’angelo custode. (In fin dei conti, persino la letteratura engagée, come poi avrebbe constatato Sartre, si rivolge alla singolarità delle coscienze nella loro solitudine fondamentale.) Ovviamente non è possibile fare compagnia a un solitario, giacché un solitario in compagnia non è più tale, non è solo. Eppure non sembra che la seguente parola d’ordine orsiana “Solitari di tutto il mondo, unitevi!” –per formare una comunità– voglia auto-annullarsi. Tuttavia, i lettori contemporanei sono fortemente attratti dal suo aspetto paradossale: malgrado la parodia del marxismo contenuta nella citata esortazione, siamo portati a pensare in quella “comunità di quelli che non hanno una comunità” a cui Blanchot fa cenno successivamente ne La comunité inavouable, in riferimento al comunismo di Bataille. Certamente, D’Ors non immaginava la comunità dei solitari come un modello generalizzabile, ma la riservava per un’élite di transfrontiera in grado di guidare il processo che avrebbe dovuto trasformare in cittadini una massa informe d’individui. L’espressione
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“massa d’individui” non è contraddittoria in questo caso, giacché il concetto d’individuo indica qui semplicemente un esemplare della specie umana. Ciò non elude implicazioni politiche, che in questa sede non posso analizzare nei particolari. In poche parole, lungo la sua traiettoria intellettuale (visse fino al 1954), D’Ors non considerò mai i fenomeni di massa come un modo di preservare la singolarità personale grazie alla sospensione dei condizionamenti sociali propria di questi fenomeni. L’idea dei “solitari uniti” basata sull’effetto di neutralizzazione che la società di massa esercita sulle identità, tradizionalmente strutturanti, si diffuse in Francia soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Sartre, in particolare, la elaborò come una proposta ottimista, costruttiva. Sviluppata –con non poche ferite e suture, cuciture e scuciture– tra La nausea e la Critica della ragion dialettica, seguiva un orientamento marxista che contrapponeva la massa rivoluzionaria a quella soggiogata dai regimi totalitari abbattuti. Altri vedevano anche nella rivoluzione una forma di totalitarismo. E non mancavano neppure coloro che giudicavano totalitario lo stesso liberalismo, per l’uso che faceva di mezzi che favorivano la massificazione. Ad ogni modo, anche ora, e forse oggi più che mai, è presente la difficoltà di trasformare l’animale gregario in individuo senza generare l’homo homini lupus. Quando, ai primi del secolo, D’Ors chiedeva istituzioni per la Catalogna, la sua esperienza riguardo le agglomerazioni urbane era solo occasionale. Barcellona non era, neppure lontanamente, una città massificata. Per quanto riguarda il concetto di massa, non aveva ancora raggiunto la specificità filosofica che conosciamo noi, nonostante il fatto che già gli antichi greci lo utilizzassero. Lo applicavano infatti a un fenomeno umano così primigenio che alcune opere della seconda metà del XX secolo, come Massa e potere di Elias Canetti, hanno cercato nell’antropologia le radici della sua manifestazione politica nei totalitarismi contemporanei di qualsiasi colore. Tuttavia le fonti di Canetti erano in gran parte letterarie. Dal canto suo, D’Ors si rivolgeva a Zola e, tra gli autori catalani, frequentava criticamente le narrazioni di Raimon Casellas (1855-1910), come quella intitolata Le moltitudini, o i dipinti di Ramon Casas (1866-1932) sullo stesso tema. Forse per questo, per una perversione del suo idealismo platonico in senso estetico, l’avversione alla massa non gli impedì di appoggiare più tardi il fascismo di Mussolini. In ogni caso, quando firmava come Xènius le sue “glosse”, la sua intenzione era quella di creare mediante la stampa ciò che oggi chiamiamo lo “spazio pubblico”. A un compito simile si dedicò Ortega y Gasset, sebbene con un altro atteggiamento politico: a differenza di D’Ors, si dichiarò sostenitore della seconda repubblica spagnola. La ribellione delle masse vide la luce nel 1926 nelle pagine di un giornale di Madrid. Ortega vi formulava il concetto di “uomo-massa”, ovvero, dell’individuo che non possiede la libertà teorizzata dal liberalismo classico, giacché dimostra di essere incapace di pensare da solo. Non sa più mantenere, rispetto a quanto lo circonda (uomini e cose), la distanza che esige l’autentico pensiero. Cos’altro può essere la massificazione, se non l’eliminazione delle
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distanze? Allora, sebbene la massificazione intellettuale provenga dalla massificazione sociale, l’individuo-atomo –che ormai conosciamo molto bene– risponde al tipo di uomo-massa senza dover partecipare alla “comunione” di gruppo, almeno non fisicamente. Qui la classica dissociazione teorica tra ciò che è intellettuale e ciò che è materiale raggiunge la sua espressione più perfida. Quando si legge in Massa e potere che la congregazione della massa è uno sforzo totalizzante mediante l’assimilazione livellatrice di tutti coloro che vi s’incorporano (Canetti giunge a parlare di un “corpo unico”), soprattutto il filosofo vi può scorgere un’analogia con quell’azione totalizzante che è la costruzione del senso – ma attraverso i corpi invece che mediante gli elementi del discorso. Canetti non segue questo filo teorico; scopre piuttosto il seme dei totalitarismi nell’impulso psicofisico verso la totalità e opera, in seguito, una distinzione tra la massa chiusa e quella aperta. Altri hanno distinto tra “senso chiuso” e “senso aperto”. Ma neppure in questo caso si è in presenza di una stretta equivalenza. Per la massa, l’apertura può implicare un numero indefinito di nuove aggregazioni; a volte, fino a quando la vitalità crescente, alla quale alcuni attribuiscono la forza rivoluzionaria, si trasforma nel suo contrario: in una infinita “catasta di morti”. Da qui il ricorrere di Canetti a un’altra tendenza della massa che diminuirebbe la sua pericolosità: la tendenza a disgregarsi. Ciononostante, la disgregazione può significare un ritorno di ognuno alla propria singolarità, ma ci sono anche individui che sono soliti comportarsi come “frammenti staccati dalla massa”. L’espressione è di Canetti stesso; la prendo in prestito per affermare che frammenti di tal foggia sono gli individui-atomi di oggi, come se la massa si decongestionasse per sopravvivere in stato centrifugo. L’individuo-atomo non partecipa alla costruzione del senso né ci prova. Se non pensa in maniera autonoma è perché il senso gli viene dato già preconfezionato. La sua condizione di uomo-massa ha la propria radice in questa passiva accettazione che lo converte in un semplice trasmettitore inerte delle parole d’ordine sociali. Come si spiega che, in epoca moderna, la disgregazione liberi l’individuo dall’atavica comunione di gruppo solo per atomizzarlo? Una ragione (non sufficiente e forse neppure necessaria, ma pur sempre una ragione) la troviamo nel concetto medesimo di massa, considerata dal punto di vista della gestione del governo. Più che su leggi fisiche o psicologiche, ancora adattabili all’individuo –se non in quanto membro della società, almeno in quanto esemplare della specie–, la governance si basa sulle leggi della statistica, che sono quelle della “popolazione”. Questo concetto di popolazione definisce la massa come un oggetto di calcolo, cioè, statistico. Secondo Michel Foucault, la statistica, come il suo stesso nome indica, è stata “la scienza dello Stato” fin dall’inizio. Si praticava già alcuni secoli prima che le teorie della fisica del XX secolo elevassero il calcolo delle probabilità a modello di razionalità. Una magnifica espressione del nuovo stato di cose ci viene offerta, ancora una volta, dalla letteratura. Musil inizia L’uomo senza qualità con l’ironica insinuazione che una città bene
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amministrata è quella che può giustificare il numero di morti nei suoi incidenti di traffico servendosi di percentuali statistiche. Di recente, il filosofo Habermas ha rivendicato i sondaggi d’opinione come un mezzo per rafforzare lo spazio pubblico, che non ha mai cessato di difendere. Nell’ambito letterario, per spostarci ancora più indietro nel tempo, un romanzo del XIX secolo non ambientato nella metropoli, ma in una società rurale, condensava già nel suo titolo un’intuizione affine a quella di Musil. Mi riferisco a Le anime morte di Gogol. Ricordo la mia delusione giovanile quando scoprii che si trattava di un’allusione alla statistica e non a un dramma esistenziale. Accecata dalla fantasia, avevo scordato una metafora comune nel linguaggio giornalistico della Spagna franchista: allora ci si informava, per esempio, di una città che aveva “un milione di anime”. Il numero di anime era, quindi, un eufemismo per la popolazione. Negli anni Cinquanta e Sessanta, il ritmo di Barcellona non realizzava assolutamente il modello lodato da Xènius nel Glosari, il quale si entusiasmava descrivendo l’aspetto di strade e piazze durante una giornata di elezioni. Forse favoleggiava più che descrivere, ma l’occasione non gli mancava. Durante la dittatura di Franco, invece, le concentrazioni cittadine più ritmiche di cui ho memoria erano le processioni. Credo che verso Pasqua, si celebrava all’aria aperta anche qualche esibizione di canto da quelli che la gente del quartiere chiamava “i cori del Clavé”, in memoria dei gruppi di cantori d’estrazione operaia fondati dal repubblicano Anselm Clavé nel 1850. In ogni caso –apolitica o impolitica che fosse– la vita quotidiana nel quartiere rappresentava, per la maggior parte della gente, il proprio “modo di vivere” (il bios dei filosofi greci). Se me lo permettete, o se per lo meno mi scusate, farò un’estrapolazione audace. Quando vengo a Venezia mi sento trasportata –in maniera retrospettiva e, quindi, con l’immaginazione– alla Barcellona della mia infanzia. Ovviamente non prendo in considerazione le infrastrutture moderne e molti altri elementi. D’altro canto, non so neppure quale peso abbiano, in questa mia sensazione, le cause psicologiche. Ma anche se avessero un peso decisivo, ciò non impedirebbe che si potesse trattare di una questione di ritmo. Naturalmente, mi riferisco alle zone di Venezia in cui i turisti sono rari, scarsi, anche se non del tutto assenti, altrimenti non potrei raccontare qui e ora la mia esperienza. La Barcellona attuale non ha quasi nulla a che vedere con quella del mio ricordo. È una città massificata che confuta le categorie degli autori citati, tutte precedenti agli anni Ottanta. La riflessione di questi autori è ancora molto interessante e utile in certi aspetti. Ma, nell’insieme, è ormai tanto obsoleta quanto i referenti politici a partire dai quali loro pensavano i fenomeni di massa, sia per guidarli, come nel caso di Sartre, sia per rifiutarli, come Canetti. Ma c’è di più: stiamo arrivando a un punto in cui alcune teorie non solo non servono ormai più a spiegare la nostra realtà sociale, ma in cui quest’ultima inizia a ostacolare la loro stessa comprensione teorica. Come esempio porto l’apprezzata interpretazione
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dell’Iliade che ci ha lasciato Simone Weil: per avvicinare il lettore a uno dei passaggi principali lo fa riflettere sull’esperienza che le persone non si comportano nello stesso modo quando trovano sulla loro strada altre persone o semplici oggetti. Per lei, la cosa più immorale consisteva nell’uguagliare i due modi di condotta: abbassare fisicamente le persone alla categoria di cose. Ebbene, se osserviamo come circola la gente per le strade di Barcellona, lì in breve tempo nessuno potrà comprendere questa riflessione della Weil. Per essere un po’ più precisa mi riferirò ancora una volta alle classificazioni di Canetti. Secondo lui, quando la massa viene presa dal panico, ognuno dei suoi componenti si muove agitatamente come se gli altri fossero oggetti che ostacolano il suo passo. Affermo, quindi, che i barcellonesi quando escono in strada, forse in misura maggiore quando c’è meno gente, si comportano come frammenti di massa in stato di panico. Non si tratta di uno stato soggettivo. Per lo meno ci offre un motivo di dubbio un’altra considerazione di Canetti, questa riguardante l’uso delle mani: lo considera pericoloso proprio perché l’uomo civilizzato si sente libero dall’intenzione di uccidere, quindi si può permettere di usarle senza alcun limite cosciente. Se estendiamo queste considerazioni al corpo umano nella sua interezza, sorge spontanea una domanda: cosa rappresentano i viandanti di Barcellona che si usurpano a vicenda lo spazio vitale senza neppure averne l’intenzione? Sono lupi dall’apparenza di agnelli o agnelli dall’apparenza di lupi? Chi lo sa! Giacché non è possibile parlare propriamente di soggettività in quanto manca l’intenzione, mi limiterò a concludere (con un’opposizione presa da Adorno) che quel panico forse non è soggettivo, ma è proprio obiettivo. Meno le persone coinvolte se ne rendono conto più il panico aumenta, giacché il fatto che lo ignorano impedisce loro di combatterlo. Sfugge all’intelligenza, ma muove i corpi. Ciò è, se non altro, il panico: questo naufragio corporale. Nell’attualità, voci d’allarme si stanno propagando per l’Europa: le nostre società democratiche stanno perdendo lo “spazio pubblico”. Dal mio punto di vista, Barcellona presenta già fisicamente quest’assenza. Ecco una performance d’avanguardia quanto mai penosa. Gli analisti sanno, o dovrebbero sapere, che la situazione non si può imputare solo alla densità demografica. Ma non sembra neppure un indizio di saggezza la loro propensione, a bandire il lato materiale del problema, o a rivolgersi ai mezzi tecnici per superare dall’interno la materialità stessa. In tal modo affidano alla tecnologia una nuova “spiritualizzazione” del mondo. Risulta sorprendente l’ottimismo con cui, per la maggior parte, innalzano la comunicazione via Internet, come se si trattasse di una sorta di comunità ideale venuta a sostituire la Civitas Dei, nella quale i nostri avi riponevano la speranza di sopravvivere alle ingiustizie di questo mondo. In più, la nuova comunità perfetta avrebbe, rispetto a quella precedente, il vantaggio di essere democratica. In Spagna, più di un decennio fa, le aspettative suscitate dai nuovi mezzi risvegliarono persino la vena letteraria di qualche professore di
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filosofia della scienza. “Telepolis” era il nome della città più autentica, strutturata a forma di rete, ed eterea come il vecchio Xènius. L’accesso a questa città avveniva quasi senza impiego di spazio o di tempo. Facilitava, dunque, la partecipazione democratica che, altrimenti, era condannata alla morte per assenteismo. Risolveva perfino l’inveterato problema di Rousseau: quello di avere uno spazio abbastanza ampio in cui si possono riunire tutti i cittadini dello Stato. A Telepolis possono stare i cittadini di tutto il pianeta. Chiunque vi può fare atto di presenza senza muoversi dal luogo in cui si trova. Una comunità di assenti? I solitari di tutto il mondo uniti? La comunità di quelli che non hanno una comunità? A mio avviso non è niente di tutto ciò, ma un altro fenomeno di massa che diviene palese –come diceva Canetti– nell’affanno di aumentare costantemente il numero di intrappolati nella rete. Del resto, il valore di una pagina web dipende dal numero dei visitanti, no? L’anima delle città è il loro ritmo, in assenza del quale sono morte. E il ritmo nasce da una particolare combinazione di spazio e tempo; se uno dei due elementi viene a mancare non si dà ritmo. Dunque, la massificazione on line corrisponde alla perdita d’anima delle città reali, dove i cittadini si abbandonano a movimenti frenetici, antitesi della magnanimità, in uno spazio riconosciuto solo in funzione del tempo che s’impiega a percorrerlo. (Il professor Cacciari ha scritto sulla significazione urbana della velocità.) In compenso, mentre la città reale o materiale “dissimula” lo spazio, la città telematica “dissimula” il tempo. La sua innovazione spettacolare consiste nella riduzione infinitesimale del tempo che impiega l’informazione a spostarsi. Il suo sogno dorato, la simultaneità. Dunque, il nome di “comunità impossibile” si adatta, ma solo fino a un certo punto: nella misura in cui la trasmissione in un presunto “tempo reale” è pura illusione, che contribuisce a risaltare ancor di più la non simultaneità, comunque insuperabile, della realtà propria degli interlocutori. Esiste qualcosa di più passibile d’essere male interpretato che un’e-mail, per quanto ben scritta? Se non ce ne rendiamo facilmente conto è perché chiamiamo “scrivere” un’operazione che non merita questo nome. Le innovazioni introdotte nella società dalle telecomunicazioni non sono innovazioni radicali in quanto non modificano le istituzioni politiche stabilite. Semmai, al contrario, le virtù che vengono loro attribuite risiedono nella loro eventuale ottimizzazione del regime democratico come lo conosciamo. Forse la perfetta esecuzione della rappresentatività annullerebbe il concetto stesso di rappresentazione politica; in ogni caso, non sembra che gli chiedano questo coloro che decidono di distribuire computer portatili nelle aule della scuola primaria. Insomma, al di fuori dello spazio e del tempo, l’irreale Telepolis ha “rivoluzionato” solamente i mezzi esecutivi della comunicazione scritta, la loro applicazione e nient’altro. (Tralascio appositamente, come fuori contesto, l’assorbente predominio dell’immagine.) Una prova dell’immobilismo è data dal fatto stesso che le divagazioni teoriche sul tema sono iscritte nella tradizionale filosofia dello “spirito comunitario”, cioè, promuovono la crescente
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astrazione che ci ha giustamente portati a dover affidare ai computer una costruzione atemporale dello spazio pubblico. Spazio senza tempo: contradictio in terminis perché, in fondo, la razionalità è ritmo. L’astrazione appartiene all’essenza del linguaggio fino a un punto tale che i concetti che indicano gli elementi più concreti sono anche i più astratti, come per esempio quello di “individuo”: ugualmente predicabile di tutti noi nella misura in cui ognuno, nella propria singolarità, non può compararsi a nessun altro. Gli individui si possono mettere a confronto solo per parti; non nella loro integrità. Ma il termine “individuo” non significa anche indiviso? Su questo paradosso si basa il principio etico-politico della non-discriminazione e la forma più depurata della democrazia rappresentativa: un individuo, un voto. Ovviamente ne sorgono conflitti insolubili. Lo ripeto, il linguaggio implica astrazione: nominare una cosa è già astrarre. Ciò ci obbliga a prendere precauzioni. Bisogna lottare contro la suggestione secondo la quale non esiste alcuna distanza tra il nome e la cosa. Distanza: ciò di cui l’uomo-massa è incapace, e per tale ragione non pensa. Internet sopprime questa distanza perchè non è di sua competenza. Il suo ambito è quello della comunicazione. Perciò ignora lo spazio e il tempo costitutivi della scrittura intesa come uno sforzo imperativo: quello di scrivere e di scrivere per dire “quello” (ça) –con queste parole inizia il libro della Kofman. Per lei, non si tratta di dire la cosa in quanto semplice oggetto, ma di cogliere l’evento. Tutte le cose umane passano, ossia, avvengono e trascorrono. Non c’è nulla che sia a-temporale –neppure ciò che è eterno. La dimensione temporale delle cose, dunque, richiede lo spazio della scrittura. Il ça della Kofman si chiama anche Auschwitz. “Auschwitz” non indica una cosa-oggetto, ma “quello”, una cosa passata, anche se non del tutto e fermata in gola come il “questo” (ceci) che provocava la nausea a Roquentin, l’antieroe sartriano. In apparenza, la parola ça e la parola “Auschwitz” si trovano su poli opposti, giacché la prima indica l’indeterminato, e la seconda, un luogo ben definito e concreto (anche se coloro che erano obbligati a occuparlo si facevano sempre più evanescenti fino a perdere l’identità umana, come hanno mostrato Primo Levi o Giorgio Agamben, rispettivamente in ambito letterario e filosofico). Eppure, nonostante la loro apparente opposizione formale, “quello” e “Auschwitz” sono entrambe deittiche, parole-indice, che si limitano a indicare una direzione, a segnalare la cosa. Possono voler dire tutto e niente, ma nessuna delle due produce senso. Auschwitz è il nome di un evento che, invece di generare senso, lo ha completamente distrutto, perché ha posto in luce che il desiderio totalizzante portato all’estremo si volge contro la vita stessa che vi cercava riparo per conservarsi. I campi di sterminio sono la massa in quanto “catasta di morti”. Per questa ragione, probabilmente, Rue Ordener, rue Labat scorre come una continua “disgregazione” del senso, dei diversi sensi abbozzati nel corso delle sue pagine. Nella prima, l’autrice qualifica i propri libri come “scorciatoie”, vale a dire, deviazioni che “tagliano” il percorso per orientarlo verso un’altra direzione. Ormai la
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cerimonia del senso non può altro che consistere nel fare e nel disfare, nell’intraprendere un percorso per passare poi dall’altro lato. Non si tratta di confezionare una rete a maglie strette – né urbana né cibernetica. Non si tratta neppure di accumulare vernice, ma di levigare finché il bianco dell’osso ci fa male agli occhi. Alla Kofman bastano due nomi di vie: Ordener, Labat. Questa duplicità risuona in quella tra il suo nome di imprestito e il suo nome “di battesimo”: Suzanne e Sarah. Personalmente, mi induce a realizzare un confronto con altre: Mercè e Mercedes, Roser e Rosario, Jaume e Santiago... Sotto la dittatura franchista, l’unico riconoscimento pubblico del nome proprio catalano iniziava e terminava nella fonte battesimale. Poi, restava recluso nell’ambito privato. Oggi, nella Spagna delle autonomie, l’uso del nome è liberale. Spesso genera una pessima versione dei tipici conflitti di diritti... Così stanno le cose, non posso evitare di citare Kafka, attraverso Claudio Magris in Danubio, il quale cita a sua volta Giuliano Baioni: Kafka, pur così affascinato dalla vita del ghetto ebraico e dalla sua letteratura, ha duramente e dolorosamente proclamato che un poeta deve staccarsi da ogni letteratura di un piccolo popolo il quale, costretto a difendersi da influssi esterni e tutto assorbito in questa lotta per la sopravvivenza, non tollera un grande scrittore. Kafka, scrive Giuliano Baioni, diviene consapevolmente quel grande scrittore che una letteratura minore ed oppressa, tesa a difendere la propria identità nazionale e culturale e desiderosa di voci positive e consolatorie, rifiuta perché egli fa il vuoto intorno a sé, crea lacerazioni, mette in pericolo la compattezza della piccola comunità.
Logicamente, l’atteggiamento critico in se stesso non garantisce il talento letterario dello scrittore che lo adotta. Tutto dipenderà, stando alle parole di Baioni/Magris, dal grado di pericolo in cui i suoi scritti mettono la comunità stessa. Stavo per dire la “sua”, “la propria”... ma, in che senso? Dove si trova la comunità di chi scrive in una lingua il cui presente è ridotto a una presenza “simbolica”? Una lingua che si trova in una situazione simile non ha futuro. Né passato, perché quest’ultimo si attiva solamente se si guarda in avanti; eccetto se si sceglie di trasformarla in una “lingua morta” e, a differenza di quelle che chiamiamo così, inutile per i neologismi –ergo, morta e sepolta. Allora, cosa può fare al rispetto lo scrittore che ne ha bisogno per “dire” il (suo) mondo, più che per “comunicarsi”? La domanda può sembrare paradossale, ma non lo è. La riconoscenza che sentiamo per le persone che ci hanno insegnato a parlare si deve al fatto che ci hanno insegnato a dire le cose. A dire le cose, e non a comunicarci giacché, senza alcun tipo di comunicazione preliminare, non avremmo potuto imparare nessuna lingua. Ne consegue che, per comunicarci, è sufficiente e perfino troppo l’uso di Internet. Invece, per dire le cose, bisogna scrivere: “E mi spinge a scrivere, scrivere” – scrisse Kofman. Per dire cosa? Per dirlo a chi? L’impulso non dipende dal numero di lettori; abbiamo sempre saputo che non si scrive per la massa. Forse la comunità di quelli che non hanno una comunità si esaurisce nello stretto spiegamento spazio-temporale della scrittura: vi appare e scompare– tra la vita e la morte, in piena aritmia– come in attesa di una risposta che colui che lancia il grido ai morti e ai vivi, ai suoi amori e ai suoi odi impossibili, probabilmente, non otterrà mai. Questo solitario, se non si
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accontenta della possibilità di entrare nel reame dello spirito, se vorrebbe infondere anima in ciò che scrive, non conoscerà altra forma di trascendenza. E non dovrebbe lamentarsene. Venezia, 4 novembre 2009
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