LA RIUNIONE DI COMUNITÀ Prof. Marta vigorelli
Il concetto di Comunità Terapeutica, già agli inizi degli anni 1950, è stato introdotto nella teoria e nella pratica delle istituzioni sanitarie e diffuso dal lavoro di Tom Main al Cassel Hospital e di Maxwell Jones all’interno dell’Henderson Hospital (1953). In tutte le forme di Comunità terapeutica è presente la riunione di Comunità, che avviene regolarmente e con una certa frequenza ed è stata definita da Kraft (1966) come l’incontro di gruppo “frequentato da tutta l’équipe e dai pazienti che lavorano e (o) vivono in una specifica unità”. In una Comunità terapeutica strutturata, la riunione di Comunità è l’evento pubblico centrale della vita di Comunità. La riunione di Comunità consente la trasmissione della cultura, dei valori e delle pratiche di comunità a diverse generazioni di pazienti. In essa convergono tutti i trattamenti terapeutici e tutti gli altri incontri, casuali o professionali. Attraverso essa interagiscono i mondi intrapsichici di numerosi individui, appartenenti sia al gruppo dell’équipe sia a quello dei pazienti, dando voce ai mondi interni primitivi, inconsci e irrazionali, così come a quelli maturi, consci e razionali (Rice, 1992). Rappresenta inoltre la dichiarazione simbolica delle modalità di vita e delle relazioni tra i membri della Comunità. Essa ha il vantaggio di fornire una base per il legame emotivo comune tra i suoi membri, sperimentare il clima prevalente e confermare i valori della vita di Comunità (Bell e Ryan, 1984). Nonostante le difficoltà nella conduzione e nella partecipazione a una riunione di Comunità, essa può contenere e regolare i bisogni e i desideri dei suoi membri, qualora funzioni bene. Può essere dunque il trattamento che tiene insieme e integra tra loro tutti gli altri trattamenti e attività, individuali e di Comunità. Questa componente viene considerata fondamentale da diversi autori. Wilmer (1958), ad esempio, ritiene indispensabili le riunioni di Comunità e valuta la loro frequenza per dare un giudizio della Comunità stessa. Secondo Vitale (1964), M. Jones considerava di notevole importanza le riunioni nelle Comunità di sua fondazione e
MacDonald (1964) riteneva
fondamentale inserirle nei nuovi progetti sorti sotto il suo controllo, così come nei tradizionali reparti ospedalieri. Il consenso attribuito alle riunioni di Comunità non ha tuttavia implicato l’avvio di uno loro studio approfondito, poiché la ricerca quantitativa di ciò che accade nel corso delle riunioni è lunga e poco economica. Gli studi effettuati sono prevalentemente descrittivi; pochi consentono di confrontare diversi tipi di riunione, tra i lavori più importanti ricordiamo quelli di Rapaport (1960), 1
Roberts (1960), Fairweather (1967), e Kellam e Chassam (1962). Daniels e Rubin (1968), attraverso misurazioni semplici, oggettive e ripetibili,
hanno usato un metodo di analisi applicabile a
qualunque grande gruppo. Essi registravano il comportamento verbale: venivano annotati dei codici identificativi del soggetto che parlava e del contenuto della comunicazione ogni volta che un paziente o un componente dell’équipe prendeva la parola, attraverso un intervento chiaramente udibile. Nel momento in cui cambiava l’oggetto del discorso veniva fatta una nuova registrazione, anche se chi parlava era la stessa persona. Venivano rilevate due tipologie di punteggio: a) individuale – per il numero di volte che un individuo aveva parlato a ciascun paziente, a ciascun membro dello staff o a tutta la Comunità, per l’introduzione di nuovi argomenti, per quando era in ritardo o abbandonava la riunione, per le parole dirette verso di lui, ecc. b) di gruppo – per il numero di soggetti presenti ad ogni riunione, per il numero di partecipanti a ciascuna discussione e la lunghezza di ogni riunione.
1.2 Cosa rende terapeutica una riunione di Comunità? Bell e Ryan (1984) hanno individuato una serie di fattori che rendono terapeutica la riunione di Comunità. Un elemento fondamentale nella riunione è il senso di Comunità. Le riunioni di Comunità coinvolgono grandi gruppi, hanno luogo frequentemente durante la settimana e sono frequentate sia dai pazienti sia dall’équipe. Ciascun membro del gruppo sperimenta un senso di Sé come efficace, speciale e buono, che viene definito da Almond come (1974) “carisma curativo”. È proprio questa percezione che dà origine al potere curativo della Comunità, la “communitas”, ovvero la forza emotiva all’interno del grande gruppo. Le riunioni di Comunità dei grandi gruppi confermano e creano communitas e, durante le riunioni, i partecipanti lottano contro forze antiterapeutiche e anticommunitas (Sacks e Carpenter, 1974). Nelle riunioni di Comunità tutti i membri esperiscono i sentimenti che derivano dall’essere parte di un gruppo. Per comprendere il funzionamento delle organizzazioni, Miller e Rice (1967) descrivono gli elementi base di un sistema: la sua vita lavorativa (ovvero il suo compito), denotata dall’azione dei membri del sistema come esseri umani razionalmente maturi; la sua vita interiore (la sua sensibilità), caratterizzata da una collusione tra i membri del sistema per supportare o intralciare il compito a seconda dei propri bisogni emotivi; le funzioni di confine che definiscono il sistema in relazione al suo ambiente. Per preservare un senso di Comunità, i membri possono adottare un sistema di valori di tolleranza, che include oggetti e sentimenti sia buoni che cattivi, oppure gli oggetti cattivi 2
interiorizzati possono essere proiettati dal gruppo sulla società esterna, sulla loro “malattia” oppure su alcuni sottogruppi, al fine di proteggere un senso interno di bontà dal potere disintegrante degli oggetti cattivi. I membri dell’équipe partecipano, durante le riunioni, al processo di creazione del senso di Comunità, ma allo stesso tempo possono rimanere in allerta rispetto alla scissione degli oggetti buoni da quelli cattivi e la loro proiezione su individui o gruppi, poiché questa è una manovra tipica all’interno dei grandi gruppi, Comunità terapeutiche incluse (Roberts, 1980). Utilizzando i concetti di Miller e Rice per la comprensione dei grandi gruppi, piccoli gruppi e funzionamento individuale, l’équipe può incoraggiare l’integrazione del Sé e dell’Io di gruppo e prevenire pericolosi processi di gruppo come la creazione di un capro espiatorio. Oltre a fornire un senso di appartenenza a una Comunità, la Comunità terapeutica può supportare lo sviluppo di un senso di dignità e rispetto personali. Una riunione di Comunità dovrebbe essere un sistema aperto, concetto di gestione partecipante prima applicato all’ambiente di Comunità da Maxwell Jones (1976). In un sistema aperto, si pone l’enfasi su una comunicazione a doppio senso e sulla presa di decisione condivisa. Queste caratteristiche creano un’atmosfera di collaborazione e il senso condiviso di “decisione di Comunità” che può essere accettato di buon grado. Tenendo in considerazione il valore umano e il potere terapeutico della condivisione decisionale, Jones suggerisce che la Comunità terapeutica dovrebbe incoraggiare l’appartenenza dei pazienti al governo della propria Comunità (con responsabilità per la conduzione delle riunioni di Comunità). La dignità personale e i diritti umani sono tutelati attraverso un sistema che prevede l'appartenenza dei pazienti al governo elettivo della Comunità e protetti da una costituzione scritta. L’effetto è particolarmente significativo per quei pazienti che sono stati esclusi dalle loro Comunità naturali e sono stati spesso deprivati dei loro diritti umani da programmi di trattamento che enfatizzano il controllo e la gestione. Tutti i membri guadagnano sentimenti di autostima e padronanza sul loro ambiente, cosa che accresce il loro impegno personale e la loro motivazione. Grazie alla quantità di opportunità di essere coinvolti all’interno di tale sistema, anche il paziente più introverso o membro più timido dell’équipe può trovarsi coinvolto come persona responsabile e rispettata. La riunione di Comunità modella queste norme sociali avvalorando il rispetto del programma, il quale, secondo Edelson (1970), permette il bilanciamento delle tensioni tra i bisogni dell’individuo e l’appartenenza al gruppo, senza perciò enfatizzare il gruppo a spese dell’individuo. L’autore afferma inoltre che il sistema sociale e le tensioni legate all’appartenenza alla vita della Comunità Terapeutica riflettono i temi di tutta la realtà di gruppo e vede il paziente psicotico come sofferente 3
a causa di una connessione con gli altri così bassa che è alienato dai valori condivisi che legittimano l’azione e permettono una continuità con le altre generazioni. Senza un sistema di valori valido, questo paziente è senza scopo e aperto al caos degli impulsi. Da questa prospettiva, l’azione terapeutica della riunione di Comunità risiede nella massimizzazione delle relazioni personali, senso di appartenenza e di coinvolgimento. Cumming e Cumming (1962) evidenziano l’importanza delle forze sociali, affermando che esse permettono ai pazienti di interiorizzare nuovi ruoli nonché di re-istituire e migliorare le loro precedenti condizioni adattive. Essi enfatizzano dunque l’importanza di offrire ai pazienti strutture sociali chiare, organizzate e non ambigue e un range di problemi da risolvere. Le riunioni di Comunità aiutano a confermare una cultura stabile attraverso norme di comportamento, che permettono ai pazienti di sviluppare sicurezza nella loro capacità di mantenere dei ruoli positivi e ristabilire le dimensioni comuni dei confini dell’Io, delle relazioni oggettuali e dell’identità. Un problema nel trattamento comunitario dei pazienti è che tali norme possono essere irrealistiche in relazione al mondo esterno rispetto al setting di trattamento. Molti pazienti hanno scoperto che ciò che avevano imparato nel reparto ospedaliero in fase acuta diventava meno rilevante quando rientravano nella Comunità da dove erano venuti. L’équipe può rispondere a questo problema enfatizzando quei valori che potrebbero essere più vicini al contesto di cui fa parte il paziente e possono ancora essere “terapeutici”. Lo staff può inoltre incoraggiare l’”etica di lavoro” (Ryan, Bell, Metcalf e Armstrong, 1979) all’interno della Comunità come norma. Introdurre l’etica di lavoro comunque non è una soluzione in quanto tale, poiché l’ospedalizzazione stessa è un paradosso: offrire un ambiente di supporto e il prendersi cura di loro può aiutare i pazienti a crescere emotivamente, ma può anche creare norme sociali che in seguito saranno impraticabili. Sacks e Carpenter (1974) ritengono fondamentale che l’équipe terapeutica riconosca la natura paradossale del trattamento psichiatrico. Affinché una riunione di Comunità sia terapeutica, è cruciale che queste persone che hanno vissuto come alieni nelle loro Comunità naturali – sperando disperatamente in una “soluzione” più adattiva della psicosi ma incapaci di scoprirne una – possano partecipare nel confermare una cultura che riconosca la complessità di vivere. Tali complessità possono essere afferrate in maniera terapeutica dai pazienti e dall’équipe quando è presente un’atmosfera di mutuale coinvolgimento. Nelle riunioni di Comunità, tutti i membri dell’équipe devono essere veri partecipanti nel processo di gruppo, adottando la strategia della condivisione, all’interno di un processo di comunicazione a doppio senso tra di loro e con i pazienti. Nonostante i pazienti e l’équipe possano riflettere su cosa stanno facendo all’interno della riunione e offrire commenti sul processo al grande gruppo, devono prima di tutto rischiare di essere 4
coinvolti come membri della Comunità. “Solo un membro coinvolto gode di riconoscimento” (Bell, 1982). Alcuni terapeuti si sentono a disagio quando percepiscono tali richieste di mutualità nella riunione di Comunità. Si sentono minacciati quando viene domandato loro di abbandonare la loro maschera protettiva di “oggettività” e concettualizzazione al fine di fare esperienza dell’impegno, attaccamento e vulnerabilità personali. Inoltre, risulta molto difficile da parte dei membri dell’équipe essere di supporto offrendo il meglio di se stessi dal punto di vista emotivo ed intellettuale al gruppo. L’atmosfera sociale che emerge da questa lotta per l’autenticità è essa stessa terapeutica. Infine, la riunione di Comunità è un impegno a svolgere un trattamento olistico, ovvero che prende in considerazione tutti gli aspetti e gli elementi coinvolti. Bell (1979) offre cinque principi di trattamento olistico, che sono applicati alle riunioni di Comunità: 1. Il paziente è trattato come una persona globale, piuttosto che come un insieme di parti “rotte”: l’équipe non tratta solo la sua psicopatologia o la sua disfunzione organica. 2. Lo scopo del trattamento è la crescita piuttosto che la riparazione. Nella riunione di Comunità tutti i membri sono sfidati a impegnarsi in una mutua relazione che può andare al di là di qualsiasi esperienza di relazione o impegno prima conosciuta dai pazienti. Strutture come il voto democratico, partecipazione a commissioni e il tono della mutualità nella riunione forniscono questa opportunità. 3. Un trattamento olistico fornisce un’opportunità per l’espressione delle forze della personalità così come delle sue debolezze. 4. Ogni paziente è considerato come potenziale terapeuta per se stesso e per gli altri: in una riunione di Comunità, i membri più sani esprimono preoccupazione ed aiutano quelli in difficoltà. 5. In un trattamento olistico al paziente è permesso di essere un soggetto partecipante nella relazione, piuttosto che essere considerato come oggetto passivo (Buber, 1958): nella riunione di Comunità, l’équipe e i pazienti condividono le potenti esperienze emotive comuni all’unità di trattamento, facendo fronte insieme alle paure e fantasie di suicidio, annichilimento, omicidio e disintegrazione del Sé. Il paziente dunque non è solo “conosciuto”, ma è riconosciuto anche come “conoscitore”.
1.3 Funzioni e scopi
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La riunione di Comunità ha tra le funzioni principali quella di fornire e mantenere una cultura e un insieme di norme. L’équipe e i pazienti decidono insieme cosa è accettabile, desiderabile o reale. I partecipanti inoltre riaffermano le loro ragioni dello stare insieme e determinano i loro obiettivi e i problemi comuni. La riunione di Comunità può essere intesa come un foro in cui i membri si riconoscono per i loro risultati personali; ciò conduce al rinforzo del sistema di valori della Comunità (Edelson, 1964). Questi momenti pubblici di riconoscimento e valorizzazione hanno un enorme significato per i pazienti e per l’équipe e aiutano a mantenere e comunicare le norme dell’unità. L’espressione pubblica delle norme di Comunità crea aspettative di ruolo da cui tutti i membri sono influenzati: in un’unità di salute mentale, il paziente continua a insegnare e a imparare come è definito il ruolo del paziente con disagio mentale, mentre l’équipe insegna e apprende come è definito il ruolo del curante. Un’ulteriore funzione descritta da Klein (1981) è quella di definire e confermare i confini all’interno del sistema e tra la Comunità e il contesto ambientale più ampio. La Comunità, infatti, viene creata stabilendo ciò che sta al suo interno e ciò che invece sta al di fuori di essa. Tali confini vengono definiti non solo dal punto di vista fisico, ma anche attraverso una consapevolezza psicologica del fatto che la Comunità sia qualcosa di separato e differente dall’ambiente circostante. Tale consapevolezza è consolidata dallo stare insieme di tutti i membri della Comunità e dalla dichiarazione dell’esistenza della stessa Comunità durante la riunione. La definizione di un secondo confine consiste nel controllo della partecipazione alla riunione: i nuovi pazienti e i nuovi membri dell’équipe vengono sempre presentati e tutti gli arrivi e le partenze, incluse le assenze, le vacanze, le riammissioni o i licenziamenti, vengono resi noti e a volte anche discussi. È proprio attraverso la conoscenza di chi è dentro e di chi è fuori che la Comunità si definisce e si ridefinisce di volta in volta, consentendo ad ogni membro di percepire la sua unicità in relazione al gruppo. Un altro confine è delimitato attraverso il controllo dello scorrere del tempo in ogni riunione. Tale processo svolge la funzione di un “Io comune” che integra la memoria, creando continuità da una riunione a quella successiva e scoraggiando la repressione di elementi importanti dell’esperienza di Comunità. In tale modo, anche le esperienze traumatiche possono essere riportate alla coscienza, cosicché la Comunità può far fronte a tali episodi in maniera più adattiva. Infine, è all’interno della riunione di Comunità che sono determinate l’organizzazione e le regole della Comunità intera: in questa sede, sono espressi differenti punti di vista e vengono create nuove strutture secondo voti di maggioranza; inoltre si cerca di identificare i problemi comuni e si promuove la cooperazione nel problem solving. La condivisione in questo processo rafforza l’Io sia dell’individuo sia dei piccoli gruppi. 6
Poiché la forza dell’Io si sviluppa quando i limiti sono espressi in modo chiaro e coerente, l’organizzazione e la struttura dell’unità offre i confini all’interno dei quali i membri possono utilizzare e dirigere le energie. La riunione di Comunità è un’ottima opportunità per confermare questi confini. La terza funzione principale della riunione di Comunità è sviluppare e mantenere una comunicazione bidirezionale, che conduce ad una relazione mutuale e all’espressione di sentimenti. In un sistema di comunicazione aperto, il problem solving si amalgama con sentimenti personali e, a volte, il tono emotivo personale può essere molto importante. La riunione di Comunità è così un’occasione per risollevare il tono dell’umore di tutto il gruppo, sentire il coinvolgimento emotivo ed offrire un modo di integrare i sentimenti, quando questi sono problematici. Attraverso la condivisione delle forze emotive all’interno della Comunità, l’équipe e i pazienti sviluppano il senso di carisma curativo e la Comunità sviluppa il suo potere terapeutico di communitas: il carisma curativo deriva dalla partecipazione alla Comunità, attraverso cui il soggetto si espone in prima persona e può così capire cosa al proprio interno è veramente curativo; inoltre, la Comunità può agire come amplificatore del potenziale curativo del terapeuta, sintonizzandolo e spingendolo all’interno della Comunità stessa (Bell e Ryan, 1984). Gli scopi variano dalla risoluzione dei problemi di Comunità e il miglioramento della comunicazione (Kraft, 1966), all’implementazione di un approccio della Comunità terapeutica (Rapaport, 1965). I clinici a orientamento comportamentista enfatizzano la riunione di Comunità come strumento per il controllo sociale o comportamentale e per il decision making sulla devianza comportamentale (Daniels e Rubin, 1968). In uno studio di McLees, Margo, Waterman e Beeber (1992), gli scopi erano decisi dai pazienti e dall’équipe ed erano quelli di discutere e risolvere problemi e condividere le informazioni che potevano coinvolgere tutta la Comunità, sviluppare un senso di Comunità, di cooperazione e di cura tra tutti i membri attraverso l’incoraggiamento di una comunicazione aperta e permettere a tutti i membri una comprensione dell’atmosfera prevalente. Winer e Lewis (1984) suggerivano che la riunione di Comunità avrebbe dovuto avere un chiaro scopo psicoterapeutico. Durante la riunione, è possibile, infatti, svelare l’atteggiamento che i pazienti adottano nei confronti dell’équipe nell’hic et nunc per poi esplorarne i significati. Tale interpretazione dovrebbe essere focalizzata sulle resistenze del paziente ad articolare i loro atteggiamenti interni verso l’équipe. Kisch, Kroll, Gross e Carey (1981) hanno riscontrato altri importanti scopi raggiungibili attraverso la partecipazione alla riunione di Comunità. È importante innanzitutto considerare che 7
quando un paziente fa il proprio ingresso in una comunità terapeutica, le sue aspettative sono spesso profondamente differenti dalla realtà. La cura di gruppo in un servizio psichiatrico, seppure sia individualizzata per quanto riguarda la valutazione medica, la farmacoterapia e la psicoterapia, è più improntata alla cooperazione che all’individualismo: il paziente è un membro della Comunità e deve conformarsi alle norme di condotta del gruppo, così come al suo regolamento. Su questa base, la riunione dunque aiuta il paziente ad identificarsi con l’unità come Comunità piuttosto che come insieme di individui. Essa cerca di affrettare l’attuazione di atteggiamenti costruttivi in funzione di un mutuo auto-aiuto. Fornisce una via di sfogo per i sentimenti di perdita di individualità dei pazienti, sottolineando i valori positivi di cooperazione nelle attività ella Comunità e fornendo una base di sostegno per le reali perdite di libertà sofferte dai pazienti. Riconoscendo che esiste una subcultura del paziente all’interno di ogni Comunità, la riunione di Comunità tenta di identificare e far affiorare argomenti che possono violare i diritti di qualcuno o possono essere dannosi per il morale o per la relazione tra l’équipe e i pazienti e all’interno del gruppo dei pazienti. Avere a che fare con la tensione dell’unità e lavorare sulla costruzione di relazioni a volte è l’attività esplicita, mentre altre volte è l’attività implicita della riunione. Molti pazienti, nonostante siano chiusi nel loro mondo, sono percettivi e consci dei problemi degli altri. Spesso tra i pazienti si instaura un buon accordo di “pseudo-terapia”, senza la presenza dell’équipe. La riunione serve come luogo in cui, accrescendo il grado di fiducia nella Comunità, i pazienti permetteranno alle loro idee sugli altri di emergere cosicché l’équipe può entrare nel processo di influenza e persuasione che è parte di ogni reparto psichiatrico. Spesso i problemi di personalità e comportamento sociale degli individui si manifestano apertamente nelle riunioni di gruppo, mentre sono invisibili nel setting di terapia individuale. La riunione, in questo caso, fornisce un luogo per confrontare le inibizioni nel parlare e nel relazionarsi con le ansie sociali. In quanto tale, essa è un mezzo per costruire la capacità di far fronte allo stress e per aumentare la flessibilità dell’individuo nella gestione del disaccordo e della critica senza indurre sentimenti negativi. Idealmente, la riunione può fungere come un luogo sicuro per mettere in pratica nuovi comportamenti e per aumentare il repertorio personale di iniziative sociali e risposte. Ciò presuppone che molte persone che accedono alle unità psichiatriche possono beneficiare, primariamente o secondariamente, di alcuni cambiamenti nello stile delle loro interazioni con le altre persone (Kisch et al., 1981). La riunione di Comunità fornisce anche un’importante opportunità per scoprire i problemi esistenziali della vita emotiva condivisi, indipendentemente dal loro status e dalla diagnosi. Al di là delle lamentele della noia dei fine settimana, è forte il dilemma dell’uso del tempo libero, così come 8
le difficoltà nel provare piacere e divertirsi. Altri argomenti centrali e meglio gestiti durante la riunione, sono il senso di stigmatizzazione per essere stati in ospedale, l’insicurezza nelle visite a casa e le paure di dipendenza riguardo l’abbandono del supporto ospedaliero. La difficoltà di trovare uno sfogo emotivo significativo nella vita familiare è un aspetto rilevante dei problemi del paziente che spesso non è consapevole di non essere solo nell’avere a che fare con genitori imprevedibili, con partner apparentemente non responsivi o con bambini che sembrano predisposti alle svariate problematiche. Idealmente, ancora, la riunione aiuta a sviluppare una maggiore abilità ad essere diretti e sinceri, ma anche tolleranti ed accettanti. Tali valori sono sviluppati in parte dall’esempio dell’équipe che è calda, non giudicante e amichevole e allo stesso tempo è onesta e franca nei suoi modi di vedere. In questo senso, la riunione cerca di promuovere capacità empatiche e di confronto e gestione del conflitto. Per incentivare questo scopo, la riunione, a volte, deve avere anche a che fare con i propri processi e in tale aspetto assomiglia alla terapia di gruppo. La riunione deve occuparsi della paranoia di gruppo e dell’apatia, che conducono a temi che si esauriscono velocemente, e del negativismo, che diventa l’unica base di dialogo. Il gruppo necessita di mantenere un grado di fiducia per accrescere la capacità dei pazienti di aprirsi e discutere di argomenti che hanno la priorità dal punto di vista emotivo. Mentre le dinamiche della riunione si aggiungono alla resistenza e al ritiro, questi aspetti del processo di gruppo necessitano di essere il focus dell’attenzione. Infine, la riunione di Comunità è un luogo in cui i pazienti e l’équipe possono valutarsi ed educarsi a vicenda riguardo gli aspetti efficaci e inefficaci del programma terapeutico. Essa offre la possibilità di scambiarsi nuove idee e sviluppare un mutuo rispetto affinché le abilità di tutti i membri possano contribuire al miglioramento e al benessere dei partecipanti, che siano pazienti o membri dell’équipe. Essa opera per incentivare uno spirito di cooperazione e mutuale coinvolgimento ad un livello appropriato per ciascun membro visto sia come individuo sia come parte della Comunità.
1.4. Le componenti della riunione di Comunità Rice (1993) sostiene l’utilizzo di una sorta di contratto tra i partecipanti alla riunione di Comunità. Tali contratti si instaurano fra tre gruppi: l’amministrazione della CT, l’équipe e i pazienti. L’amministrazione svolge un ruolo essenziale di supporto, senza il quale le riunioni di Comunità non potrebbero di fatto funzionare. È importante dunque che l’amministrazione supporti i terapeuti e l’équipe nello svolgimento del loro lavoro. L’accordo di tale componente riguarda 9
fondamentalmente tre aspetti: il riconoscimento dell’importanza della riunione di Comunità, il riconoscimento che nessun altro trattamento o nessun’altra attività dei pazienti o dell’équipe avrà luogo nell’orario della riunione di Comunità (vi sono delle eccezioni per quanto riguarda le emergenze e il trattamento di pazienti incapaci di prendere parte alla riunione e così via), esigenza che tutta l’équipe terapeutica (infermieri, psicoterapeuti dei pazienti, psichiatri, psicologi, assistenti sociali, terapeuti occupazionali e altri clinici) sia presente all’incontro, anche se possono esserci delle eccezioni in casi particolari. Gli accordi con l’équipe ricalcano quelli fatti con l’amministrazione, infatti i suoi membri concordano nel frequentare tutte le riunioni di Comunità quando sono in servizio, concordano nell’essere partecipe e nell’arrivare in tempo e rimanere per tutta la sessione. Gli accordi con i pazienti sono simili a quelli con lo staff e sono in linea con quelli stipulati con l’amministrazione. L’équipe deve di tanto in tanto effettuare valutazioni cliniche riguardanti il limite entro il quale ciascun paziente può comprendere ed essere all’altezza delle aspettative e quanto fare ciò aiuti il paziente. I pazienti si impegnano a frequentare tutte le riunioni a meno che ciò non sia chiaramente dannoso alcuni membri, mentre gli altri impegni sono gli stessi che riguardano l’équipe.
1.4.1 Il ruolo degli operatori Il ruolo che gli operatori rivestono nell’ambito dell’équipe ha un’importanza decisiva per il buon svolgimento delle riunioni. Rice (1984) dedica attenzione alle responsabilità dell'équipe degli operatori che, sebbene siano minori rispetto a quelle dei terapeuti, sono allo stesso tempo molto simili. I membri dell’équipe devono inoltre ascoltare attentamente i pazienti e rispondere in maniera adeguata ai loro bisogni. A volte vengono chiamati a parlare in quanto rappresentanti di diversi sottosistemi, quali quelli infermieristici, quelli medici e quelli della terapia di gruppo. In altre occasioni, viene chiesto loro di gestire i conflitti tra i pazienti e l’équipe. In particolare, gli operatori devono adottare un giudizio clinico per decidere quanto del conflitto indirizzare all’interno della riunione e quanto altrove. Ad esempio, se un paziente nutre rabbia riguardo un evento accaduto durante la terapia individuale e fa emergere questi sentimenti durante la riunione di Comunità, sarà più utile per il terapeuta riconoscere l’importanza del paziente e suggerirgli di approfondire questa tematica nella seduta individuale successiva. Se invece emerge un conflitto con un altro terapeuta che coinvolge un numero più consistente di pazienti e la loro vita, diventa più opportuno esplorarlo apertamente durante la riunione. In altre occasioni ancora, l’équipe ha il compito di indirizzare agli altri 10
partecipanti dei messaggi più sottili da parte dei pazienti. In ultima battuta, l'équipe, all'interno di un'unica discussione, può dover indirizzare tutti i livelli di comunicazione appena descritti. Per rendere più effettivo il ruolo dei membri dell’équipe, è importante un confronto con i terapeuti, immediatamente seguente alle riunioni di Comunità. Questo incontro permette all’équipe di esprimere ciò che è stato compreso della riunione e chiarire ciò che è rimasto oscuro, ma anche di istruire i nuovi componenti dell’équipe su come ascoltare e partecipare ad una riunione di Comunità.
1.4.2 Il leader Dalle osservazioni di Klein e Brown (1987), emerge una duplice funzione del leader nel contesto delle riunioni di Comunità. Innanzitutto egli svolge un ruolo importante durante le riunioni stesse con i pazienti e con l’équipe, ma non è da sottovalutare la sua attività anche nei momenti precedenti e successivi alla riunione, i quali includono processi di formazione degli operatori e creazione di un team di lavoro collaborativo. In entrambi i casi, il leader deve stabilire gli obiettivi e i compiti della riunione, deve assumere un ruolo attivo e direttivo nella creazione di una struttura chiara, logica e prevedibile e perseguire lo sviluppo di un format operativo adatto al raggiungimento dello scopo. Il leader deve quindi dimostrare delle capacità di mediazione tra il compito stabilito e il gruppo che partecipa all’esecuzione di quello stesso compito. Yalom (1975) include tra i ruoli del leader quello di “ingegnere sociale”, che si occupa di definire e regolare le transizioni attraverso confini importanti – di tempo, di compito, di ruolo e di appartenenza – che riguardano l’esperienza di gruppo. Al leader spettano anche la decisioni in merito a questioni pratiche, con particolare attenzione alla frequenza e alla durata delle riunioni, al rispetto del setting e dell’orario in cui esse si tengono, alla partecipazione di tutti e alle tematiche da affrontare. Un altro compito del leader è quello di aiutare il gruppo a stabilire un clima che permetta di lavorare sui compiti attribuiti alla riunione in modo disteso, in modo da raggiungere gli obiettivi prefissati. Questa mansione include la precisa identificazione delle strutture sociali, come la suddivisione del lavoro e dell’autorità e lo sviluppo di norme ed aspettative all’interno del gruppo designato per instaurare una comunicazione e una condivisione di informazioni aperte e dirette e un’atmosfera non giudicante tra i membri. Durante il lavoro, il leader dovrebbe sottolineare l’importanza di raccogliere e sintetizzare le informazioni principali, rinforzare la condivisione di opinioni, idee ed esperienze pertinenti al problema in questione, promuovere la chiusura di una tematica prima di passare a quella seguente e utilizzare attivamente l’esame di realtà, la 11
confrontazione e, all’occorrenza, l’interpretazione per chiarire le distorsioni, le dispercezioni e le false aspettative da parte dei membri del gruppo. Per definire un clima che permetta alla riunione di Comunità di diventare un gruppo di lavoro effettivo, il leader e l’équipe devono dimostrare di possedere delle abilità negli ambiti in cui i pazienti sono notevolmente carenti, per fornire dei modelli di funzionamento validi ed efficaci. Lavorare insieme, in maniera collaborativa, orientata allo scopo, mutualmente supportiva ed interdipendente fornisce a molti pazienti un’esperienza nuova, un modello con cui identificarsi e la possibilità di interiorizzare quegli aspetti di quell’Io di cui essi sono carenti. Nelle comunità di degenza breve, il leader dovrebbe essere orientato al supporto (Klein, 1979, 1981). In termini pratici, si tratta di coinvolgere il paziente nella creazione di un’alleanza terapeutica attraverso l’instaurazione di un transfert positivo. In particolare, il suo ruolo è quello di stabilire gli obiettivi e il programma della riunione e controllare che vengano intrapresi compiti realistici e realizzabili in un breve arco di tempo. Inoltre, egli dovrebbe mantenere un approccio orientato allo scopo, con un focus sulle aree di interesse primario. Se si presenta la necessità di analizzare le relazioni interpersonali, può essere efficace concentrarsi sull’hic et nunc, infatti nei grandi gruppi, emergono spesso meccanismi mentali e modelli relazionali primitivi, mentre, secondo un orientamento supportivo, risulta più opportuno da parte dell’équipe e del leader focalizzare l’attenzione sui processi consci e preconsci e gli scopi dovrebbero essere quelli di permettere lo sviluppo di funzioni dell’Io più adattive, attraverso l’utilizzo di tecniche di costruzione dell’Io e la focalizzazione sulle capacità del paziente di crescita e di coping. Il leader può tuttavia incontrare diverse difficoltà. In un gruppo ampio, infatti, l’assenza di una strutturazione della riunione può essere causa dell’aumento di ansia tra l’équipe e i pazienti, di diminuzione della motivazione alla partecipazione e di un aumento della confusione riguardo la natura e gli scopi della riunione; in parallelo, aumentano i meccanismi di difesa di scissione e proiezione. In tale situazione, il leader è il primo bersaglio delle proiezioni da parte di altri partecipanti di componenti svalutate, denigrate e inaccettabili, così come degli ideali dell’Io. Di conseguenza, possono accrescersi in lui le difficoltà a capire chi è e cosa è in grado di fare. Il gruppo inizia a sviluppare modalità di funzionamento fondate sugli assunti di base1 (Bion, 1961); il leader è spesso investito di caratteristiche onnipotenti e onniscienti e più il gruppo diventa inetto e incapace di funzionare, più ci si aspetta che il leader fornisca cure e nutrimento sufficienti a 1
Gli assunti di base sono dei meccanismi di difesa necessari a tenere sotto controllo le angosce primitive che possono derivare dalla partecipazione ad un gruppo; essi sono inconsci e per tale ragione spesso appaiono in contrasto alle idee razionali dei partecipanti. Bion identifica tre assunti di base: attaccamento, attacco-fuga, dipendenza.
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mantenere i membri. Questa situazione porta allo sviluppo di invidia, avidità e svalutazione del leader, nel momento in cui questi non riesce a soddisfare le richieste che gli sono state rivolte. I tentativi del leader di preservare la continuità, di fornire una struttura e di restaurare l’ordine falliranno, a meno che l’équipe e i pazienti non comincino ad interagire in maniera collaborativa, piuttosto che in collusione con le modalità di funzionamento basate sugli assunti di base (Kernberg, 1976). Il problema fondamentale per il leader consiste nel riuscire a mantenere l’integrità, ossia deve comportarsi in linea con i compiti stabiliti e con le restrizioni associate alla riunione di Comunità. È importante continuare a perseguire questo obiettivo al di là dei tentativi dei partecipanti di minare il lavoro della riunione di Comunità e di trasformarla in un gruppo funzionante secondo gli assunti di base. L’integrità deve essere mantenuta anche rispetto ad una consapevolezza interna di sé nel ruolo di leader. Egli, infatti, nel grande gruppo rischia di modificare il proprio ruolo in relazione a determinate richieste avanzate dal gruppo (Pines, 1975), diventando ostile e manifestando apertamente i propri impulsi e i contenuti primitivi del Super Io. Tuttavia, nelle riunioni di Comunità, il leader riceve il supporto di altri membri dell’équipe, per contrastare la spinta regressiva. In questo caso, i colleghi possono svolgere la funzione di Io osservante (Greene, 1992), al fine di liberare il mondo interno del leader dalle proiezioni.
1.5 La forma della riunione Dopo una breve descrizione delle componenti che prendono parte ad una riunione, è bene soffermarsi sul modo in cui essa prende forma. Non esistono delle regole generali, tuttavia vari autori hanno riscontrato determinate caratteristiche che sembrano essere funzionali alla buona riuscita di tali riunioni. Per quanto riguarda il setting, non vengono attuate particolari restrizioni, tuttavia viene puntualizzato che la riunione deve essere un momento in cui un gruppo di pazienti psichiatrici si ritrova sotto qualche forma di gestione professionale. L’istituzione può variare da un ospedale mentale di un grande Stato (Furedi et al., 1974; Berne, 1968), a una piccola unità psichiatrica (Cooper, 1974), a una Comunità terapeutica ampia (Jones, 1952; Abramczuk, 1966), o più piccola (Edwards et al., 1966). La tipologia di professionisti coinvolti si differenzia in base al tipo di istituzione: in alcune Comunità terapeutiche, l’équipe può essere composta esclusivamente da psicologi, assistenti sociali o amministratori, mentre nelle istituzioni psichiatriche formali sono inclusi anche i medici e gli infermieri (Ng, 1992). A causa delle differenze nel setting, l’ampiezza
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della riunione varia notevolmente, da più di 100 partecipanti in quella di Furedi (1974), fino ad un numero molto ristretto di 15 (Kraft, 1966). Anche per quanto riguarda la frequenza e la durata, non esistono delle prescrizioni precise. In generale, possono essere indette riunioni con cadenza variabile da una volta alla settimana fino ad una volta al giorno. Alcuni autori sono flessibili nella frequenza delle riunioni da una settimana a quella successiva. Ad esempio, Schiff e Glassman (1969) riportarono la frequenza delle riunioni all’interno delle loro Comunità come variabile da due a cinque volte a settimana. La durata di una riunione non viene riportata spesso. Alcuni autori, ragionevolmente, non stabiliscono una limite di durata fisso, permettendo che essa occupi il tempo necessario di volta in volta (Ng, 1992). In generale, il range che viene riportato varia tra i 45 e i 60 minuti (Roberts, 1960; Doherty, 1974; Maratos e Kennedy, 1974; Klein, 1981; Ng et al. 1982). Russakoff e Oldham (1982) affermano che la riunione deve avere una durata sufficiente per permettere una discussione adeguata e significativa rispetto alle tematiche importanti, ma non può durare oltre la soglia di tolleranza dei pazienti più gravi. Date queste premesse, secondo i due autori, un tempo di 45 minuti può risultare un buon compromesso. Un altro parametro da valutare è la disposizione spaziale dei partecipanti alla riunione. Poiché i partecipanti includono pazienti sia volontari che involontari, essa può avere un grande impatto sul controllo degli impulsi antisociali (Russakoff e Oldham, 1982). Per tale ragione, può essere utile organizzare due terzi delle postazioni in una modalità simile a quella delle sale riunioni (“sociofuga”) e quelle restanti in un semicerchio situato di fronte agli altri (modalità “sociopeta”) (Lothstein, 1978). Ci si aspetta che alcuni pazienti si rifugeranno in comportamenti antisociali e avranno uno scarso controllo sui loro impulsi, perciò, nonostante i posti non siano assegnati, i membri dell’équipe cercheranno di sedersi a fianco dei pazienti più distruttivi, mentre il leader prenderà posto in un luogo ben visibile a tutti.
1.5.1 Strutturazione della riunione La strutturazione della riunione dovrebbe facilitare il raggiungimento degli obiettivi. Per tale ragione, essa non dovrebbe essere tanto rigida da precludere le comunicazioni affettive ed inconsce dei membri tale da apparire troppo restrittiva ed autoritaria, né troppo destrutturata da infondere un senso di confusione, ansia e insoddisfazione e tale da rimuovere ogni possibilità di revisione critica di ciò che accade (Klein e Brown, 1987). Pines (1975) suggerisce che, affinché il grande gruppo possa essere effettivamente utilizzato come mezzo per il trattamento, è essenziale disporre di metodi efficaci che rispondano alla minaccia di anonimità, di esperienza di confusione e di incapacità di 14
trovare un ruolo appropriato per sé all’interno di un grande gruppo. In generale, è possibile affermare che, più la popolazione è disturbata e la permanenza nella Comunità è breve, maggiore sarà il beneficio tratto da un formato della riunione più strutturato. La selezione di una tipologia di strutturazione adatta per una Comunità particolare è molto complessa e per individuare quella più adatta è necessario considerare diversi fattori. In primo luogo, è essenziale identificare le funzioni, gli obiettivi e i compiti della riunione. Questa valutazione deve avvenire in relazione ai programmi di trattamento più ampi che hanno la priorità e ai compiti di ricerca e formazione sostenuti dall’unità e dall’ospedale. Nel momento in cui la riunione di Comunità non è chiaramente collegata agli obiettivi prioritari all’interno del setting, essa diviene irrilevante oppure è vissuta come un punto di raccoglimento in cui sono messi in atto comportamenti oppositivi nei confronti dell’unità, dell’ospedale e della leadership. Ad un livello più pratico, è necessaria una chiara relazione tra la strutturazione scelta e gli obiettivi del lavoro. Inoltre, qualunque strutturazione venga selezionata, essa attiverà l’espressione di certi contenuti e processi e interferirà con l’espressione di altri contenuti e processi. Quindi, per esempio, utilizzando un formato non strutturato, in cui non è stabilito l’ordine del giorno e in cui i partecipanti sono incoraggiati a intavolare una discussione, qualunque segno di mutua preoccupazione nella Comunità sembra condurre a livelli di ansia più alti dei partecipanti, a livelli minori di apparente organizzazione e coerenza e all’emergere di livelli di pensiero e di relazione con gli altri più regressivi. Comunque, se si concettualizza la riunione di Comunità come opportunità di promuovere le capacità di pianificazione del paziente, di implementare reali obiettivi di lavoro, di negoziare con l’équipe e di esercitare appropriate abilità di decision making nel contesto della vita di Comunità, il format non strutturato può non condurre al perseguimento di questi compiti. Può essere invece più adatta una riunione maggiormente strutturata, con la stesura di report e discussioni sulle attività di piccoli gruppi di lavoro costituiti sia da membri dell’équipe sia da pazienti responsabili di pianificare e implementare vari eventi di Comunità. Dunque, più il formato operazionale è strutturato, più sarà possibile promuovere processi di pensiero secondari diretti allo scopo, che conducono all’esame dei ruoli che i pazienti e l’équipe assumono in relazione ai reali obiettivi del lavoro in Comunità e incoraggiano la comunicazione tra pazienti ed équipe, il decision making, la negoziazione e la collaborazione. Minore è la strutturazione della riunione, più è probabile evocare livelli primitivi di pensiero e di relazione, che implicano relazioni oggettuali disturbate e strategie di coping più primitive verso queste interiorizzazioni (Klein e Brown, 1987).
1.5.2 Un modello di riunione di Comunità 15
Nonostante la grande variabilità nella strutturazione, Rice (1993) fornisce un interessante modello realistico delle riunioni di Comunità, riconoscendo quattro fasi principali. La fase iniziale è generalmente ben strutturata e facilita la sistemazione dei membri. Dopo un inizio puntuale, i terapeuti invitano i partecipanti a presentarsi, cosa che aiuta ad avvicinare i nuovi membri e a dare a tutti la possibilità di associare un nome ai volti. Tale processo ovviamente può non essere necessario, in particolar modo nelle comunità in cui la popolazione è abbastanza stabile, anche se questo è un fenomeno alquanto raro a causa del turnover che si sta diffondendo sempre più. In questa ultima circostanza, o in situazioni in cui le tracce della memoria dei pazienti sono severamente compromesse dalla malattia, denominare gli altri può essere molto utile per rinforzare il riconoscimento iniziale della loro esistenza, ma anche come passo iniziale verso la formazione di legami. In questa fase è importante illustrare velocemente ed in termini di uso quotidiano gli obiettivi della riunione. Seguono poi degli annunci da parte dell’équipe (generalmente a proposito di eventi in ospedale, oppure pianificazioni di vacanza, modifiche nei programmi di trattamento o dimissioni), e dei pazienti (ad esempio congedi, cambi di camera e privilegi). La fase seguente può essere considerata di transizione, in quanto include risposte e dialoghi, incoraggiati dai leader e dall’équipe, relativi agli annunci fatti. Queste discussioni sono utili, dal momento che permettono ai pazienti di esplicitare le loro paure, i loro sentimenti e le preoccupazioni relative agli annunci. In un momento successivo, hanno luogo le discussioni più importanti. Esse possono avere origine dagli annunci, oppure possono emergere argomenti più rilevanti. Per tale ragione, i terapeuti possono incoraggiare una discussione aperta. Il dibattito può cominciare anche quando i terapeuti notano nelle conversazioni una serie di elementi che procurano preoccupazioni ai membri della Comunità. Si procede poi verso la fase finale. La riunione, così come deve cominciare in orario, deve anche terminare secondo i tempi prestabiliti. Questo permette di definire chiaramente il tempo e lo spazio delle riunioni di Comunità e di distinguerle dagli altri eventi all’interno della struttura. Osservazioni cliniche indicano anche che la puntualità nell’inizio e nella fine della riunione aiuta a contenere e ridurre l’ansia dei partecipanti. Quest’ultima fase offre anche l’opportunità di salutare chi lascia la Comunità e di riepilogare quanto è stato detto, pertanto i terapeuti dovrebbero concedere un tempo sufficiente per questo processo. Nonostante sia quindi importante che i terapeuti concedano un tempo adeguato per ciascuna di queste fasi e per i loro contenuti, dovrebbero anche essere consapevoli che tale struttura segue il normale decorso della riunione. Tutti i gruppi vivono delle fasi iniziali, centrali e finali e questo è 16
vero specialmente quando i tempi di inizio e di fine sono chiari (Mann, 1973). La regolazione dei tempi per l’introduzione delle diverse fasi non implica una procedura arbitraria, ma significa piuttosto che i terapeuti devono ascoltare attentamente e seguire l’andamento della riunione e introdurre ogni fase il più possibile in armonia con lo sviluppo della riunione stessa. 1.6 Tecniche di conduzione Affinché le funzioni e gli obiettivi sopra specificati (cfr par. 2.3) possano essere assolti, è necessario stabilire una serie di procedure a cui attenersi. È importante che l’équipe elegga un portavoce, che assuma il ruolo di leader. Tra le sue caratteristiche non si dovrebbe ricercare il carisma, quanto piuttosto la tranquillità; dovrebbe impegnarsi in compiti di management ed avere come obiettivo principale quello di aiutare la riunione di Comunità a funzionare correttamente (Roberts, 1980). In tal modo, il leader supporta la struttura e permette l’adattamento. Durante l’appello, il leader si fa carico di indicare ai partecipanti quali sono,nell’équipe, i membri assenti, includendo una breve spiegazione, in quanto la mancata presenza di un terapeuta può far nascere diverse fantasie tra i pazienti (ad esempio, in un giorno di cattivo tempo i pazienti possono pensare ad un incidente). Anche il rappresentante dei pazienti dovrebbe indicare il motivo dell’assenza di altri pazienti, infatti anche questa situazione può alimentare fantasie di pericolo e può causare paura all’interno della Comunità. In seguito possono essere presentati i nuovi entrati, senza però chiedere loro il motivo per cui sono arrivati in Comunità, per non causare ulteriore disagio. Il leader può sollevare argomenti riguardanti preoccupazioni che hanno colpito l’équipe, oppure può chiedere direttamente ai pazienti di introdurre un tema di discussione, o ancora può rappresentare una posizione dell’équipe. Infine, il leader dovrebbe essere in grado anche di parlare per se stesso e di supportare la libertà di ogni partecipante di aprirsi (Bell e Ryan, 1984). Se il presidente della riunione è un paziente, i membri dell’équipe dovrebbero imparare a fungere da consulenti e partecipanti attivi, abbandonando il classico ruolo di leader. I terapeuti però, non essendo abituati a questa impostazione, possono sentirsi in un primo momento disorientati e insicuri riguardo al valore terapeutico che potrebbe avere la loro presenza. L’obiettivo dell’équipe è quello di facilitare il corretto funzionamento delle norme, enfatizzando quelle positive, dei confini e di favorire la creazione di un’atmosfera in cui i sentimenti possono essere espressi e i loro significati possono essere esplorati. L’équipe lavora per massimizzare l’impatto terapeutico di queste funzioni, cosa che richiede particolari abilità nel decidere quando un intervento sia appropriato e a quale livello (Russakoff e Oldham, 1982).
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Un’altra tecnica importante è la condivisione delle informazioni. Poiché il focus riguarda le problematiche comuni a tutta la Comunità, non devono esserci segreti e tutte le informazioni importanti devono essere presentate pubblicamente. Un errore frequente dei leader più inesperti è di interpretare un processo prima che sia stato raccolto un numero sufficiente di informazioni. L’interpretazione precoce, infatti, può avere effetti dannosi, come la denigrazione del dibattito in corso (trapela il messaggio per cui conta solo ciò che è implicito e non manifesto), l’aumento delle resistenze piuttosto che la promozione dell’insight e l’inibizione della partecipazione attiva dei pazienti alla riunione. Poiché alcuni pazienti possono essere psicotici, è preferibile mantenere un focus concreto, ricordando che prima di concentrarsi sulla fantasia bisogna chiarire la realtà. È strano notare come durante la psicoterapia individuale, i terapeuti sono più attenti alla chiarificazione come passaggio preliminare all’interpretazione, mentre all’interno delle riunioni di Comunità si affrettano spesso ad interpretare. Il compito socioterapeutico (Edelson, 1970) è facilitato anche dalla richiesta di informazioni all’intera Comunità piuttosto che ai singoli pazienti. Rivolgersi a un singolo paziente può infatti trasformare quest’ultimo nel capro espiatorio e può far perdere di vista l’obiettivo principale, cioè quello di promuovere la communitas. Mentre può essere interessante comprendere il ruolo di ciascun partecipante all’interno delle dinamiche di gruppo, una premessa della riunione è che l’azione di tutti gli individui è coinvolta nel contesto della Comunità ed è una funzione del contesto stesso. Caudill (1974), nella sua interpretazione sociologica del processo di un disturbo collettivo in un reparto psichiatrico, sottolinea che gli eventi del reparto saranno strettamente legati con aspetti della psicopatologia dei pazienti, ma questi stessi eventi possono essere compresi solo guardando ai contributi dell’intero sistema. Ad un paziente può essere chiesto perché ha fatto una determinata azione, ma essa è da valutare solo come un sintomo di un processo di Comunità. Prima di passare all’argomento successivo, è sempre buona norma effettuare una chiusura formale del discorso che si ritiene concluso, per evitare che i pazienti più disorganizzati abbiano difficoltà nel seguire l’andamento della riunione. Le cariche di presidente e di segretario della riunione possono essere affidate a residenti della Comunità e questo rinforza la democraticità del governo all’interno della struttura. La responsabilità del presidente è quella di mettersi a disposizione di tutte le sottocommissioni della Comunità; egli inoltre può indire riunioni straordinarie in tempi di crisi, o può coordinare dei gruppi più piccoli. Durante la riunione, agisce come una qualsiasi persona di un’organizzazione civile. È da sottolineare quanto il presidente debba essere capace di svolgere questo compito, nonostante i suoi
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deficit psicologici. Il presidente è eletto dall’intera Comunità e, anche nel caso in cui si confondesse facilmente o dovesse possedere scarse abilità, è sempre rispettato da tutti. Da non sottovalutare è anche la particolare attenzione da rivolgere ai pazienti appena entrati o dimessi, in particolare ai soggetti psicotici, per i quali l’esperienza di separazione è un evento particolarmente frustrante. La riunione deve essere supportata sia nella fase iniziale che in quella conclusiva, infatti cominciare con elementi distruttivi non permette ai pazienti più malati di mantenere quell’atteggiamento prosociale coesivo che cercano di riscoprire di giorno in giorno; allo stesso modo, terminare la riunione con elementi distruttivi influenza il comportamento dei pazienti immediatamente successivo alla riunione, mentre terminare in maniera più positiva aiuta i pazienti a comprendere il processo della riunione e a mantenere un comportamento prosociale.
1.7 Dinamiche di gruppo implicate Rice (1993) utilizza tre metafore per descrivere le dinamiche di una riunione di Comunità. -
La riunione di Comunità può essere assimilata ad una riunione cittadina, poiché riguarda aspetti gestionali e svolge diversi compiti essenziali per il funzionamento della Comunità. A questo livello di organizzazione, i compiti di gestione riguardano lo scambio di informazioni (Almond, 1974), la discussione di cambiamenti e di procedure legate ai pazienti e al loro trattamento e la gestione generale della vita quotidiana.
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La riunione di Comunità è simile ad una riunione di famiglia, poiché si dedica ai piaceri, ai conflitti, alle attrazioni, agli amori, alle paure e alla rabbia che nascono tra le persone che vivono, lavorano e dormono sotto lo stesso tetto. A questo livello di organizzazione, la riunione di Comunità è caratterizzata da aspetti interpersonali più intimi rispetto a quelli appena descritti. In questo caso, infatti, la riunione di Comunità serve da un lato a facilitare la creazione della Comunità di famiglia, grazie alla presentazione dei membri e alla condivisione di qualcosa di personale; grazie a questa funzione, inizia a svilupparsi un’identità di appartenenza (Kirsch et al., 1981) D’altra parte la riunione facilita il processo di separazione attraverso la focalizzazione dell’attenzione sui pazienti e sui membri dello staff che stanno lasciando la Comunità, ritagliando dei momenti adeguati per i saluti. Inoltre, la riunione si occupa di altre questioni interpersonali e familiari, come i litigi tra i pazienti per l’uso dello spazio nella camera da letto, le discussioni tra un paziente e un membro dell’équipe, ecc. La riunione consente perciò un dialogo diretto tra le parti in tensione e una buona opportunità di esprimere sentimenti, riducendo l’ansia. 19
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La riunione di Comunità è simile ad un teatro, infatti i pazienti proiettano sulla riunione, sulla sua leadership e sull’équipe una varietà di preoccupazioni e conflitti inconsci e preconsci e si identificano con le risposte reali o immaginate dei terapeuti e dell’équipe. La forza delle proiezioni può essere così potente che i leader dei terapeuti e l’équipe si sentono come attori di un copione scritto dai pazienti (Bion, 1959). Le proiezioni spesso contengono rappresentazioni di oggetti o di parti di essi e i loro impulsi sessuali o aggressivi derivati, rendendo l’équipe e i terapeuti capaci di risanare o distruggere, investendoli di un potere carismatico (Almond, 1974; Rice e Rutan, 1981).
1.7.1 Le difese Turquet (1974) ed altri autori hanno parlato dell’azione nei grandi gruppi di profondi processi regressivi, che esercitano un importante effetto sul senso di identità individuale e di continuità nel corso del tempo, anche tra persone con un buon funzionamento. L’attivazione della regressione e di svariati meccanismi di difesa usati per farvi fronte, in particolare la proiezione, l’identificazione proiettiva e la scissione, sfociano, in un contesto non strutturato, nello sviluppo di una situazione di gruppo altamente instabile dal punto di vista emotivo. I partecipanti vivono emozioni intense ed estreme, legate alla consapevolezza della rapida formazione e dissoluzione di sottogruppi tra i membri. In assenza di nette distinzioni di compiti, durante la riunione si possono verificare rapidi e inaspettati cambiamenti di argomento, l’attenzione non è condivisa e viene a mancare il senso di continuità. Tali aspetti spesso sono causa di un maggior senso di ansia, di confusione e di vulnerabilità tra i partecipanti. L’ampiezza del gruppo e la natura imprevedibile delle interazioni che si sviluppano rendono estremamente difficile per i partecipanti l’impegno ad un uso più circoscritto della proiezione seguito dall’esame di realtà, tipico delle interazioni dei piccoli gruppi (Main, 1975). Invece, prevalendo i processi di pensiero primitivi, i membri del gruppo spesso si trovano in estrema difficoltà nel recupero di ciò che è stato proiettato o scisso. Questo è aggravato dal fatto che nel gruppo vengono proiettati non solo le qualità indesiderate dell’individuo, ma anche aspetti dell’ideale dell’Io. Come risultato, l’individuo esperisce uno svuotamento della personalità associato alla perdita di quelle parti del Sé che sono state esternalizzate. Ne risulta un Io impoverito, che non è in grado di effettuare un esame di realtà e che attua valutazioni patologiche sul Sé e sugli altri. I sistemi proiettivi e la diffusione d’identità tendono a predominare come conferma che non è più possibile una relazione continua tra sé e la realtà esterna, dunque il soggetto esperisce continue minacce al mantenimento dell’identità (Kernberg, 1980; Turquet, 1975). 20
In particolare, l’ampio numero dei partecipanti spesso rende difficile il mantenimento di un contatto faccia a faccia. In queste circostanze, le proiezioni diventano sempre più fantastiche e disorganizzate, in quanto la mancanza di un contatto visivo depriva i pazienti del senso di diversità degli altri, il cui comportamento verbale e non verbale può dare un feedback che consente di modificare queste proiezioni. Questo fenomeno si può verificare in particolare all’interno di riunioni non strutturate. È possibile trovare diverse soluzioni a questo problema. Un aumento di proiezioni e identificazioni con i terapeuti e con l’équipe che partecipano alla riunione (Greene et al., 1980) può aiutare a contenere e rinforzare l’identità di ciascuno, ma all’aumentare dell’idealizzazione dei terapeuti e dell’équipe, si crea un gruppo di dipendenza (Bion, 1959). Un’altra soluzione, specialmente quando la prima fallisce, è quella di scegliere un paziente come leader, in particolare puntando su alcuni soggetti narcisisti che abbiano buone capacità di organizzare la riunione, che spesso possono essere anche migliori di quelle dell’équipe (Kernberg, 1980). Il desiderio di questi soggetti di occupare il centro della scena e di manipolare coloro che li circondano li mette nella condizione di riuscire ad appianare le tensioni di gruppo. Un’ulteriore soluzione possibile è la rottura della riunione in piccoli gruppi, oppure, per alcuni pazienti, la costituzione di speciali legami uno a uno. I membri possono così identificarsi con il piccolo gruppo o con la coppia e proiettare le loro preoccupazioni al di fuori. La riunione può dunque regredire da un gruppo di dipendenza a un gruppo di interezza (Turquet, 1974; McMillan, 1981; Morrison et al., 1985), in cui la scissione è la difesa principale. Non è infrequente che le preoccupazioni vengano tradotte in azioni, procurando danni sia ai pazienti che ai membri dell’équipe. I comportamenti sono distruttivi nei confronti della riunione, così come verso la struttura nel suo complesso e spesso conducono ad un aumento dell’ansia iatrogena e alla regressione, limitando l’efficacia del trattamento. Anche l’équipe tuttavia può mettere in atto meccanismi di difesa di proiezione, anche se indubbiamente ha un controllo migliore su di essi, sentendosi meno sopraffatta e ricorrendo in misura minore all’acting out rispetto ai pazienti. Main (1975) nota inoltre che nei grandi gruppi non strutturati si presenta una via di fuga dalla complessità umana nella generalizzazione e nella semplificazione. Questo processo porta all’invenzione di una singola entità, “il gruppo” o “la riunione”, che è dotato di diverse qualità derivanti in primo luogo dalle vite interiori degli individui presenti e che svolge la funzione di contenimento attraverso la proiezione. Questa invenzione fittizia serve anche come via di fuga dal pericolo di essere frustrati e travolti da una varietà di relazioni distorte con altri che vengono 21
investiti di proiezioni. Relazionandosi col gruppo, l’individuo rinuncia allo sforzo di stabilire relazioni personali con altri individui e fa ricorso ad un mondo interno in cui può utilizzare ulteriori processi proiettivi per espungere aspetti non desiderati della personalità. Mentre la rabbia e la frustrazione sono scisse e proiettate nel gruppo, vengono stimolate profonde paure di fusione, isolamento e annichilimento. Pines (1975) ha sintetizzato l’esperienza soggettiva, conscia e preconscia, in tale situazione. Nello specifico, rileva che gli individui si sentono persi, spaventati e non in contatto con aspetti di Sé e degli altri. L’individuo ha paura della dominazione del grande gruppo (Main, 1975; Turquet, 1975) e, come risultato di questi processi proiettivi, si sente sempre più immaturo e inadeguato. L’incapacità di adattarsi a questa nuova situazione e sviluppare ruoli utili si manifesta nella perdita di abilità, disorientamento e paura della perdita di un senso di individualità.
1.8 Effetti della riunione di Comunità Quando un paziente entra in una Comunità terapeutica, le sue aspettative di ottenere degli effetti positivi sono estremamente elevate. La letteratura riporta diversi dati a favore del miglioramento non solo dei pazienti, ma anche dell’intero reparto, grazie anche all’azione della riunione di Comunità. Ad esempio, Amark (1973) afferma che questa migliora l’autonomia dei pazienti e la loro percezione di essere supportati. Abramczuk (1966), nella descrizione dello sviluppo di una Comunità terapeutica all’interno della sua unità psichiatrica, notò i benefici della riunione di Comunità settimanale: essa, congiuntamente ad altre caratteristiche della Comunità, permetteva lo sviluppo della coesione tra i pazienti, con un conseguente infittimento e una maggior rapidità nello sviluppo della rete relazionale sia tra di loro che con i membri dell’équipe terapeutica, un’attenuazione dei comportamenti aggressivi e distruttivi e delle tensioni emotive ed una diminuzione delle tendenze passive ed autistiche; anche la durata del ricovero diminuiva considerevolmente. Secondo Woods (1970), la riunione riduceva l’aggressività overt e covert sia dei pazienti che dello staff. Cooper (1974) nutriva la speranza che i suoi pazienti riuscissero ad integrare dal punto di vista cognitivo la loro esperienza in Comunità con le loro esperienze di vita. Anche prendendo in considerazione come unità il reparto e l’équipe, si possono riscontrare risultati positivi. Amark (1973) ritiene che la riunione sia un buon mezzo di supervisione all’interno dello staff, ma allo stesso tempo un’occasione per lo sviluppo dell’indipendenza e per la crescita individuale. Anche Roberts (1960) concorda nell’affermare che la riunione promuove lo sviluppo dell’équipe. Russakoff e Oldham (1982) notano che l’orientamento al compito della riunione rende
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più sicuri i pazienti e permette loro lo sviluppo di una morale più integra. Abramczuk (1966) riscontra una ridotta necessità di utilizzare neurolettici.
1.9 Problemi Tra la teoria e la pratica, spesso il divario è troppo ampio e si può avere un riscontro nell’esperienza di routine che vivono i partecipanti alla riunione (Kisch et al., 1981). Molti membri dell’équipe hanno un approccio alla riunione che oscilla tra l’apprensione e la noia, infatti gli incontri spesso sono monotoni. Inoltre, il livello di aggressione verbale può essere molto intenso e il grado di raziocinio e di logica utilizzati per esprimere un punto di vista è spesso molto limitato. Alcuni partecipanti a volte sono presenti contro la loro volontà e qualche paziente è psicotico o comunque ha capacità limitate di pensare in modo chiaro o di funzionare in maniera razionale. Il gruppo a volte si trova controllato e soggetto al comune denominatore più basso delle relazioni sociali. Sia i membri dello staff che i pazienti sono spesso sconvolti dalle loro difficoltà nell’esprimere apertamente i loro sentimenti e le loro idee e, in alcune occasioni, non ricevono il supporto adeguato dal gruppo quando espongono un’opinione. In tale situazione, le regole del gruppo sono quelle di mantenere un basso profilo, correre pochi rischi e sperare che qualcun altro faccia scorrere il discorso in maniera superficiale. Inoltre, anche per quanto concerne i sentimenti sperimentati in seguito alla riunione, Furedi et al. (1974), rilevano un aumento nei livelli di ansia, di aggressività e depressione tra i pazienti a causa della forma direttiva che gli incontri possono assumere. Anche rispetto alle riunione non direttive, Edelstein (1972) descrive una serie di reazioni difensive da parte dei pazienti, come silenzio, sonnolenza, iperattività fisica e aumento delle critiche verso gli altri pazienti e verso l’équipe. Abramczuk (1966) parla di criticismo, disapprovazione, comportamento passivo. A conclusione riportiamo un’esperienza italiana: nel volume da lui curato “Terapeutico e antiterapeutico:”(1997) Metello Corulli dedica un capitolo alla riunione di comunità narrando un episodio significativo in cui un momento di grave crisi della CT Il Porto, che aveva investito tutti i livelli della Comunità, con furti, conflitti e turbolenze intense era stato affrontato con una settimana intensiva di riunioni quotidiane, che gradualmente avevano pacificato il clima attraverso un’auto osservazione che coinvolgeva sia i livelli cognitivi che emotivi, realizzando una presa di coscienza delle responsabilità differenziate sia tra gli operatori che tra gli ospiti e una ripresa dell’andamento più fluido della vita comunitaria.
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