La Resurrezione nell’architettura dei luoghi di culto Relazione di don Gianmatteo Caputo 9 febbraio 2008 Centro Pastorale “G.Urbani” Zelarino
Un saluto a tutti voi - in particolare al direttore - per questa opportunità che ci è offerta quest'oggi di trascorrere insieme, chi più chi meno perché, purtroppo, come accennava prima, noi siamo un po' in difficoltà e per cui anche oggi siamo riusciti a incastrare fra mille impegni e mille appuntamenti questo che però voleva essere un momento di condivisione con voi di tutta la giornata. Io mi scuso già in anticipo ma mi fermerò con voi per una metà della giornata, rimarrà con voi invece Milena e poi ci raggiungerà suor Lena, mentre Andrea Gallo - che offrirà il contenuto più ricco della meditazione sia il mattino che al pomeriggio - starà con voi per tutto il giorno. Quindi, in modo diverso e con contributi differenti, spero che questa giornata possa essere significativa per voi dal punto di vista della riflessione, del confronto, della preparazione o, magari, del richiamo alla memoria di tanti stimoli e di tanti spunti che vi saranno offerti sul tema della Resurrezione in particolare legato all'arte sacra e all'architettura dei luoghi di culto, ma non solo. Vorremmo anche che in questa giornata ci fossero non solo momenti di riflessione per voi (personali), ma anche spunti per quella che sarà poi l'attività che sarete chiamati a svolgere direttamente con i vostri ragazzi. Prima di iniziare, voglio anch'io ricordare - visto che il tema che trattiamo quest'oggi è la Resurrezione - sento anche di vivere questo momento, e penso insieme a tutti quanti voi, come un momento di meditazione, di preghiera, che ci avvicina anche a Lucia che sta vivendo questo momento di sofferenza e di lutto; ma anche insieme a tutti quanti voi per tutti i motivi di sofferenza, di difficoltà, di dolore, di malattia che le nostre famiglie vivono, proprio orientandoci verso la luce della speranza e della Resurrezione che sarà un po' tutto ciò che noi cercheremo di richiamare quest'oggi, orientati verso la luminosità dell'esperienza della Resurrezione a cui la liturgia ci chiama e i luoghi di culto ci testimoniano. La nostra giornata oggi è articolata. Partiremo da quello che è un tentativo insieme a voi di riflessione sul luogo di culto per quelle che sono le sue caratteristiche resurrezionali. O, meglio, le caratteristiche più propriamente escatologiche di ogni chiesa proiettate verso il compimento definitivo del tempo, proiettate verso la prospettiva di Resurrezione. La liturgia, in fondo, è un cammino, un percorso, che ci conduce a vivere - come dicono i testi che provengono dal Vaticano II - il “già” ma il “non ancora” a cui è chiamata la comunità dei credenti. Con il primo passo, sarete invitati a cogliere come alcuni elementi che già nel luogo di culto, già nel modo in cui è organizzato, già nei gesti e nei riti della liturgia che ospita, sono esplicitamente un richiamo alla Resurrezione. In seguito vivremo due momenti più fortemente legati alla dimensione della Resurrezione nell'arte che mireranno soprattutto ad individuare alcuni fuochi del luogo di culto in cui si concentra la testimonianza, la rappresentazione della Resurrezione (pensiamo, per esempio, ad alcuni casi specifici anche individuati nelle chiese veneziane) e nei quali avremo la possibilità di leggere e di vedere l'immagine del Risorto; essi ci riveleranno, da un lato il perché sono collocate in quel contesto e, dall'altro, il contenuto che vogliono richiamare. Faremo poi un ulteriore passo nel nostro percorso andando a leggere quelli che sono i segni dell'esperienza della Pasqua di nostro Signore nei mosaici di San Marco. Lo faremo richiamandoci a quelle immagini, all'interno della basilica, che possono farci maggiormente comprendere e penetrare di più il senso della rappresentazione della Resurrezione in quel contesto preciso, così come è ispirato dai testi delle sacre scritture, e dalla liturgia che annuncia e realizza ciò che le sacre scritture testimoniano. Seguirà ancora un ulteriore passo di approfondimento - ancora più ricco di materiali e di spunti forse anche eterogenei, sotto un certo punto di vista – con il quale cercheremo di mettere in luce tutti quegli elementi e quei segni del Risorto che sono 1
testimoniati nella tradizione artistica; avremo quindi la possibilità di penetrare ancora di più il significato di simboli e segni che richiamano il tema della Resurrezione. Quattro momenti: il terzo - quello legato alla basilica di San Marco - sarà ulteriormente suddiviso in due parti: avrà, una riflessione di contenuto iconografico e una proposta di attenzione e puntualizzazione su temi che possono essere più propriamente didascalici e orientativi anche per il vostro compito di insegnanti, più attenti, in particolare, a quella che può essere una didattica vera e propria, rivolta verso i ragazzi, nell'interpretazione dei simboli pasquali. Ce lo diciamo subito che parlare di Pasqua ai nostri ragazzi, e farlo attraverso immagini, è estremamente difficile. Noi, oltre ad essere adulti ed avere un apparato critico molto più complesso, abbiamo anche una frequentazione di questi temi maggiore; ma se anche noi dovessimo tradurre in parole, prima che in immagini, che cosa sia la Resurrezione qualcuno di noi comincerebbe a balbettare, io per primo. Per fortuna, perché di fatto del mistero cristiano noi riusciamo soltanto a balbettare qualcosa, non riusciamo ad esprimerlo perché non riusciamo a comprenderlo cioè a chiuderlo dentro concetti, significati, parole e tanto meno immagini. Però quella dimensione di richiamo - ora metaforico, ora simbolico, vedremo poi in quanti modi possiamo declinare questo richiamo alla Resurrezione - è di fatto un dato che inequivocabilmente ha testimoniato nella tradizione cristiana e che, da un certo punto di vista, costituisce proprio anche la ricchezza originale del nostro patrimonio storico-artistico. Il percorso che noi faremo, per quanto complesso e per quanto difficile, vedrete che poi potrà comunque tradursi anche in opportunità e occasione per i nostri ragazzi per aprirsi alla dimensione misterica della Resurrezione, pur senza esaurire in toto quello che sarà, invece, il cammino di fede che ognuno di loro dovrà compiere per penetrare, anche attraverso l'arte, il significato del mistero di Gesù che non è qui, ma è Risorto. Allora cominciamo con questo tentativo di lettura del luogo di culto nella prospettiva dell'escatologia e, quindi, anche della Resurrezione. Ci alziamo in piedi. Il Signore sia con voi. [E con il tuo spirito.] In alto i nostri cuori. [Sono rivolti al Signore.] Non stiamo celebrando la Messa ma, istintivamente, voi avete subito risposto alle mie domande, ai miei inviti alla preghiera, avete immediatamente risposto con la forza dell'abitudine, pur trovandovi in un contesto completamente diverso da quello che è una chiesa. Potremo dire che questa banalissima situazione, di fatto, ci fa già intuire che cosa significhi la capacità che noi adulti abbiamo (i bambini no) di uscire da un contesto: non siamo in una Chiesa ma ci siamo subito disposti a pregare. Questo è un dato fondamentale per comprendere quale sia la forza che certi simboli, certe forme, certi riti (quello che io vi ho proposto era l'inizio di un rito), abbiano su ciascuno di noi. Un bambino forse non avrebbe reagito così. Anche se noi diciamo che i bambini sono molto più educati dall'abitudine, un bambino avrebbe avuto bisogno di più elementi per ritrovarsi immediatamente in questo contesto diverso. Facciamo un'altra prova. Rifacciamo la stessa cosa ad occhi chiusi: chiudiamo gli occhi. Il Signore sia con voi. [E con il tuo spirito.] In alto i nostri cuori. [Sono rivolti al Signore.] 2
In questo caso l'essere usciti dall'ambiente ci spinge a riflettere di più sul contenuto delle parole. Anche questa è una cosa che facciamo da adulti, non da bambini. Il fatto di essere anche dal punto di vista visivo isolati dal contesto, ci fa pensare di più a quello che stiamo dicendo, anche se è pronunciato - ripeto - con la forza positiva - non solo negativa (di solito noi diamo all'abitudine solo un valore negativo) - il valore e la forza positiva dell'abitudine. Ora possiamo sederci. Ad occhi chiusi o ad occhi aperti abbiamo detto “il Signore sia con voi e con il tuo spirito. In alto i nostri cuori, sono rivolti a Signore”. Quante volte abbiamo detto questa frase “sono rivolti al Signore”? Ma che cosa significa “sono rivolti al Signore”? Dentro questa frase è racchiuso il significato che ha avuto una forza addirittura dirompente, nella tradizione cristiana, nell'orientamento delle chiese: sono rivolte al Signore. Vuol dire che il Signore sta da qualche parte e noi ci voltiamo di là. La metànoia, di cui abbiamo parlato prima nella preghiera, racchiude in fondo questo significato: il Signore è da qualche parte e noi ci voltiamo di là. Non entriamo nelle interpretazioni (non direi polemiche) più recenti che sono emerse anche in seguito ad alcuni episodi particolari: faccio riferimento al Papa, quando ha celebrato quei battesimi nella Cappella Sistina e ha celebrato l'Eucarestia con le spalle voltate all'assemblea perché era rivolto verso l'altare che è ospitato dentro alla Cappella Sistina e, quindi di fatto, era rivolto al Signore anche lui, dando le spalle all'assemblea. Ecco non entriamo nell'ambito di queste cose – benché tratteremo anche di questi aspetti – perché, in fondo, dentro a questa piccola frase del rito, propria della preghiera eucaristica, è racchiuso il senso di questo orientamento. Se la liturgia è l'incontro fra Dio che si rivela noi e il suo popolo, che da un lato lo cerca e da un lato si fa trovare, noi dobbiamo sapere prima di tutto dove siamo noi e dove sta Dio; e quindi noi dobbiamo orientarci verso di Lui. Questa caratteristica dal punto di vista non solo topografico - perché questo significa che noi ci dobbiamo richiamare anche a dove sono le nostre chiese - ma anche di tipo geografico, perché dobbiamo capire anche come sono orientate le nostre chiese, è una cosa fondamentale. Se la comunità cristiana è un popolo in cammino, la chiesa come luogo di preghiera non può perdere la caratteristica di essere luogo dove c'è un'assemblea che cammina e, quindi, deve essere orientata verso un certo punto. Questo orientamento - secondo quello che è ciò che ci viene testimoniato dalle parole stesse di Gesù - è un orientamento verso un nuovo incontro con Lui che si ripresenterà a noi. L'escatologia è questo: è l'incontro di nuovo con Cristo, con il Risorto, che si ripresenta a noi. È quindi un luogo che ha una dimensione propriamente pasquale proprio perché non ha il percorso del pellegrinaggio all’indietro nella storia della salvezza, ma ha l'idea del cammino verso la metà futura. Ogni Chiesa è più o meno, con più o meno evidenza, orientata in questo senso. Come vedete stiamo parlando di un orientamento che non è immediatamente legato alle coordinate nord-est-sud-ovest - anche se noi sappiamo che molte delle nostre chiese hanno anche quell'orientamento - ma è prima di tutto un orientamento che noi tentiamo proprio ad occhi chiusi, cioè che sentiamo non con la forza dell'immaginazione ma con la forza dello Spirito. Questo perché siamo stati educati a questo, nel senso che duemila anni di tradizione cristiana ci hanno abituato a questo e per cui, quando entriamo in una Chiesa, sappiamo che, se siamo dei fedeli un po’ i protagonisti, cerchiamo subito di metterci davanti (perché c'è un avanti e un dietro); se invece vogliamo stare un po' disparte, o se ci sentiamo a disagio perché non è la chiesa dove abitualmente andiamo e non è la nostra comunità cristiana, ci mettiamo più indietro e, magari, cerchiamo una bella colonna per nasconderci. Siamo dentro uno spazio che ha un preciso punto di riferimento e che non è solo spaziale (architettonico-spaziale) ma che è anche un contenuto di valore perché avvertiamo che questa centralità [che non è quella dei nostri partiti] ha una forza e un significato che, in qualche modo, stravolge non solo lo spazio in cui mi trovo ma anche quello 3
che sta l'esterno. Quando noi diciamo che le nostre chiese sono luoghi sacri diciamo una cosa estremamente vera e anche estremamente falsa. Infatti se da un lato leggiamo il Nuovo Testamento ci accorgiamo che, proprio attraverso le parole di Gesù scopriamo che questo concetto di sacralità da lui è stato un po' stravolto, nel senso che ogni luogo è luogo per la preghiera, è luogo della presenza di Dio, è luogo dello Spirito; dall'altro lato ci accorgiamo anche che il valore simbolico di questi luoghi è tale per cui essi stessi costituiscono una sorta di centro, di punto di riferimento, di polo di attrazione dove alcuni singoli elementi che vengono esaltati nella liturgia rivelano maggiormente questo valore. Pensate al tabernacolo (sul quale avrete modo di riflettere oggi pomeriggio); pensate all'altare, luogo proprio del sacrificio e della Resurrezione; pensate all'ambone, luogo della morte e Resurrezione del Signore che viene annunciato durante la liturgia. In un testo abbastanza recente, che raccoglie e gli atti di un convegno fatto proprio sullo spazio liturgico presso la comunità di Bose, un autore sottolinea con forza, con un'analisi dei testi evangelici che potremmo sintetizzare così: gli evangelisti per approcci diversi, ma con un unico obiettivo, mirano a far risaltare dalle parole di Gesù che il tempio è finito (il tempio rappresenta in parte lo stesso concetto della morte, della fine del legame fra uomo e Dio); il velo del tempio si squarcia alla morte di Gesù e un nuovo santuario, non fatto da mani di uomo, diventa la casa di preghiera per tutti i popoli. Quasi a dire che il tempio finito viene sostituito dalla metafora della casa. Ora questo è particolarmente evidente nell'evangelista Marco, ma Luca, Giovanni, e Matteo stesso, non sono molto lontani da queste affermazioni che Marco fa in maniera abbastanza perentoria dato che c'è tutta una sezione del Vangelo che è dedicata al tempio e che, se ricordate bene, si chiude proprio con quel passo in cui Gesù viene avvicinato da un discepolo che gli dice: «Signore guarda che belle le pietre che adornano il tempio». E Gesù, con altrettanta fermezza, in qualche modo cancella lo stupore di fronte alla bellezza del tempio e richiama, invece, il valore diverso che ha il luogo di preghiera, tanto che «non resterà pietra su pietra che non sarà distrutta» 1. Perché allora noi ci soffermiamo con così tanta attenzione sul luogo, sulle pietre, sulla bellezza delle nostre chiese? Perché queste hanno perso, nella tradizione cristiana, il significato che, nel Vangelo viene attribuito negativamente al tempio: sono diventate, nella tradizione cristiana, quella testimonianza sintetica sì di luogo sacro, ma ancor di più di luogo e casa di preghiera, di conseguenza luogo di comunità e luogo di richiamo ad un “non ancora” che deve venire che è quel compimento finale per cui la Chiesa stessa manifesta, per allusione, ciò che è chiamata ad essere la comunità che in essa si trova a celebrare. Poiché sarebbe molto lungo, ma anche molto utile, prendere tutte le citazioni e rileggerle in questa chiave, io le affido alla vostra lettura (vi do, casomai, anche le citazioni di questo testo che approfondisce molto bene il senso di questo approccio al nuovo testamento riguardo al luogo di culto). Se, allora, da un lato noi possiamo dire che la comunità cristiana, così come viene presentata nel Nuovo Testamento, sembra migrare quasi dall'idea di tempio - inteso in chiave antico testamentario - verso l'idea di casa di preghiera, nel Vangelo e nel Nuovo Testamento non emerge da nessuna parte l'esigenza di costruire un luogo di culto. Provate a pensarci: Gesù stesso, negli incontri di preghiera, si trova principalmente o all'aperto o in casa di qualcuno. L'essere all'aperto è fondamentale perché non capiremmo i duemila anni di tradizione architettonica delle nostre chiese, se non sentissimo la forza di questo stare all'aperto di Gesù in preghiera. L'essere “in casa” ci rivela che talvolta sono situazioni quotidiane o eccezionali - ma comunque familiari – che, in qualche modo, diventano l'occasione per la preghiera. In un certo senso, se noi guardiamo alle prime comunità cristiane, ci accorgiamo che i credenti hanno inventato le chiese, nel senso più letterale del termine cioè nel senso che, alla latina, non ne hanno fatto una inventio: le hanno trovate, hanno sfruttato dei luoghi preesistenti, adattandoli, trasformandoli, ma non rielaborandoli ex-novo. 1
Mc 13, 1-2 4
Tutti questi luoghi hanno subìto delle trasformazioni che li hanno caratterizzati proprio in ordine a questa prospettiva di essere luogo in cui la comunità si raduna e si mette in cammino: sono luoghi di una comunità che è chiamata e che va verso. Non serve che ripeta a voi il significato delle parole ecclesìa e anche tutto ciò che deriva in una visione non solo teologica, ma anche ecclesiologica del popolo cristiano. Per questo sono luoghi inventati, nel senso che non hanno nulla nuovo, ma che si trasformano - e costantemente si trasformano - in una prospettiva che dà un carattere analogo anche allo stesso edificio, perché questo luogo può, di volta in volta, assumere delle caratteristiche diverse. Vorrei leggervi alcune parole di Congar2 che sono estremamente significative per comprendere questo fatto di un luogo che è plasmato dall'assemblea che si raduna. “Per una chiesa si parla di assemblea liturgica. È chiaro che l'aggettivo, qui, è decisivo. Nel senso forte del termine, esso specifica; non ogni raggruppamento di persone è un'assemblea: bisogna essere stati invitati, aver risposto ad una convocazione e ci dev'essere, in ogni assemblea, un elemento che la costituisce, un qualche cosa che viene proposto di fare insieme; nel caso specifico è il cui culto da rendere Dio. Questo culto non è lasciato alla pura iniziativa semplice, ma viene da Cristo, viene dal suo corpo, è atto di Cristo nel suo corpo”. Queste parole estremamente pensate e misurate, dicono esattamente che cosa sia una comunità cristiana quando è in una chiesa. Se noi però guardiamo alla tradizione, ci accorgiamo che questi valori li ha sempre vissuti e li ha sempre espressi arricchendoli ogni volta di forme e di modi diversi per esprimerli. Facciamo un esempio. Questo fatto di essere comunità convocata, chiamata, che si costituisce e che si trasforma in assemblea proprio perché ha una motivazione precisa, si è tradotto, per esempio, nell'utilizzo delle campane: la liturgia inizia con il suono delle campane. Anche se la Messa non comincia in quel momento, già il suono delle campane è - nella consuetudine-abitudine del valore di quel segno - è un richiamo al costituirsi di un'assemblea. Quando noi diciamo che le campane sono segno della Resurrezione, facciamo un'affermazione che salta tutta una serie di contenuti che sono quelli che ci rivelano il perché. Perché le campane sono il segno della Resurrezione? Perché sono segno di una liturgia che, attraverso il suono, vive alcuni momenti nella sua storia dell'anno liturgico e li sottolinea e li puntualizza anche attraverso la partecipazione di tipo sonoro. Un'assemblea cristiana, per tutto il tempo di Avvento, non vive il canto dei Gloria perché è il canto della notte del Natale; e quel canto della notte del Natale è già segno e richiamo di quella nascita - che è la nascita senza più morte - che è la stessa Resurrezione. Una comunità cristiana che vive il suono delle campane anche con intonazioni diverse - vedete come poi si può scendere fino al dettaglio: solo che di molti di questi dettagli noi abbiamo perso la chiave interpretativa - che forse è ancora presente nel retaggio mentale di molti di noi, il fatto che una campana a lutto suona in maniera diversa da una campana festosa e gioiosa, e ce ne accorgiamo perché c'è qualcosa in quel simbolo che è interno a noi, che sta prima di noi e di tutte le nostre interpretazioni. Al tempo stesso, però, rischiamo di scollegarlo da quello che è il valore rituale celebrativo che quel suono e quello strumento (la campana) ha. La comunità cristiana quindi, già solo dal suo radunarsi e poi nel suo celebrare, è comunità pellegrina, in cammino. Quindi non è una comunità di vagabondi che si trovano per caso ma è una comunità che si può chiamare comunità in quanto tale proprio perché è orientata verso un luogo e un luogo vissuto come una tappa, non come la méta: le chiese non sono la méta del nostro cammino ma sono una tappa per raggiungere un’altra méta. Se noi guardiamo nella tradizione cristiana come, anche dal punto di vista geografico-topografico, le nostre chiese sono state poi orientate nel corso dei secoli, saremo sorpresi da una lettura storico-scientifica attenta. Infatti noi spesso diciamo che le 2
Yves-Marie-Joseph Congar OP (Sedan, 8 aprile 1904 – Parigi, 22 giugno 1995) è stato un cardinale e teologo francese, fu insieme a Jean Daniélou e Henri de Lubac uno dei precursori della nuova teologia, che, soprattutto fra gli anni 1940 e 1950 considerò nello studio della dogmatica gli sviluppi della filosofia contemporanea. 5
nostre chiese sono, per la maggior parte, soprattutto le più antiche, orientate - come dice la parola stessa - ad Oriente. In realtà non è così. Se noi andiamo ad analizzare storicamente questo tipo di fenomeno, così come appare a noi, ai nostri occhi, leggendo oggi le architetture delle nostre chiese, anche di quelle storiche, ci accorgeremmo che le chiese più antiche erano, sì distribuite lungo una sorta di asse che va da ovest a est, ma l'orientamento - quello che fa coincidere l'abside con la zona del presbiterio verso Oriente - in realtà è una corsa non dei primi secoli. Di questo ce ne accorgiamo leggendo alcune omelie, molto antiche, alcuni documenti, che testimoniano molto chiaramente che verso Oriente si trovava inizialmente la porta delle chiese. Quindi un'immagine assolutamente capovolta rispetto a quello che noi pensiamo. Questo però solo in origine. Questo perché, al di là delle testimonianze che riusciamo ad avere dal passato, è evidente che un certo modo di vivere la liturgia delle origini prevedeva uno svolgimento del rito, completamente diverso da quello che noi abbiamo acquisito nel corso dei secoli. Le porte della Chiesa - che oggi siamo abituati a pensare come strumenti che chiudono la comunità e l'assemblea all'interno del luogo di culto - erano solitamente aperte o, addirittura, non c'erano lasciando entrare la luce del sole. Leone Magno, in una sua omelia di Natale, rimprovera i fedeli perché durante quella festa essi si voltavano verso la facciata della Chiesa (cioè verso le porte) per guardare il sole nascente (retaggio questo dell'antica festa del dio sole). Quindi in qualche modo li rimprovera perché al dio sole riservavano ancora il gesto di un bacio che veniva mandato in direzione del sole; segno questo che rende chiaro che le porte della chiesa erano orientate verso Oriente. In effetti, nei primi secoli, la Chiesa non aveva gli altari così come pensiamo noi, anzi. L'altare aveva le caratteristiche più o meno di quello che hanno adesso i nostri altari provvisori nelle chiese storiche cioè avevano il valore più o meno della mensa vera e propria, del tavolo che veniva spostato per l'occasione, durante la liturgia. Inoltre, le liturgie erano molto diverse da quelle che pensiamo noi, dove uno fa lo spettatore fedele che rimane al suo posto; avevano, invece, una caratteristica in cui il movimento era molto più partecipativo e sentito all'interno dello spazio. Questa idea, quindi, di una Chiesa che va dalla porta all'altare, ma dove l'altare si muove, aveva fatto sì che nei primi secoli questa luce del sole che veniva da Oriente, entrava dalle porte del luogo di culto. Per cui la Chiesa era sì orientata, ma con le sue porte verso il sole, quasi a significare con forza che la fine del rito era il cammino verso il sole. L'esatto contrario di quello che vediamo testimoniato solo un secolo più tardi (e per tutta la tradizione) dove viene perso anche un certo valore significativo che avevano, per esempio, i grandi mosaici di contro-facciata (come quello che abbiamo qui vicino, a Torcello) dove il mistero della salvezza non risplende più di quella luce che viene, appunto, da Oriente, ma mette in cammino verso Oriente. Questa necessità di reinterpretare, e di rivedere quindi, l'edificio in rapporto alla sua azione, ci fa capire che quando noi viviamo la nostra liturgia, ci troviamo all'interno di uno spazio che ha una sua dimensione fissa, quella dell'edificio, ma anche una dimensione partecipativa, attuativa - che è poi la liturgia stessa - che si esprimono con linguaggi differenti ma che, in qualche modo, si combinano; talvolta si possono anche contrapporre; qualche volta invece diventano di vero aiuto alla comprensione dello spazio. La fede, per sua natura, non è statica: ci mette sempre in cammino; se noi ci sediamo con la nostra fede, non aggiungiamo nulla alla nostra esperienza di vita. In qualche modo il rito attiva la nostra esperienza di fede che viviamo dentro luogo di culto: noi siamo chiamati dall'azione liturgica a vivere il luogo della chiesa come un'occasione nella quale tutti gli elementi concorrono a farci percepire questa dimensione del cammino. Ecco, allora, che quando poi, nella tradizione, le chiese hanno subito questa sorta di capovolgimento per cui l'altare è finito in fondo all'abside e, anzi, definitivamente la costruzione della Chiesa era orientata per cui l'abside sta proprio a Oriente (cioè da dove sorge sole) è avvenuto che è stata percepita come maggiormente significativa la necessità di sentire l'azione liturgica orientata verso il sole nascente, orientata verso quel fuoco che costituiva 6
anche il fuoco della celebrazione; e lì è man mano slittato l'altare che ha finito con l'essere posizionato verso l’abside, verso il catino dell'abside, così come non lo percepiamo oggi. Questo aspetto ha, in qualche modo, maggiormente caratterizzato il ruolo della porta - che prima era sfondamento verso la presenza di Dio – valorizzando maggiormente la dimensione di porta come ingesso al luogo di aggregazione. Ecco perché la porta-Cristo ha finito con l'essere talmente arricchita nel suo valore simbolico proprio di luogo del passaggio dei fedeli - luogo nel quale i fedeli diventano un corpo solo - per cui la porta-Cristo si è arricchita di ogni decorazione ed elemento per dare sia l'idea del cammino, del pellegrinaggio (pensate ai portali che, con la loro strombatura, cercano proprio di percorrere già lo spazio iniziale della Chiesa; oppure pensate a qualche portale monumentale di qualche grande cattedrale e vedrete come in fondo c'è già un percorso, un cammino, nel passare solo una soglia, quello che una porta dovrebbe essere una soglia e invece ingloba in sé l'elemento del cammino) e, al tempo stesso, abbandonano quell'ingresso di luce (la luce dei salvati) e si arricchiscono invece degli elementi del mondo che sta fuori e che rimane fuori, quasi chiamando anch’esso all'incontro con Dio, ma rimasto sulla porta. Su questo potremo fare tutta la riflessione sulle nostre cattedrali europee per riconoscere il grande valore che assume la porta che diventa simbolo di Cristo e, al tempo stesso, simbolo anche di quella soglia rispetto ad un luogo che proietta in un altro mondo. Mentre prima la Chiesa era aperta verso la presenza di Dio, era ancora richiamo di quel pregare fuori, che era abitudine di Gesù - quando si capovolge l'orientamento del luogo liturgico, la porta diventa la soglia e viene recuperato quel valore di sacralità del luogo Chiesa. Pensiamo alle nostre chiese moderne che di tutta questa tradizione prendono, purtroppo, solo l'ultimo tassello addirittura, talvolta, confondendolo - cercando di arricchirlo - confondendolo con dei valori che non sono in sé valori che hanno tutta la ricchezza di questa tradizione. Pensate, per esempio, alle nostre chiese che cercano di assomigliare alle case, per essere casa tra le case. Vi rendete conto di come quel valore iniziale neotestamentario, poi tradotto in una esigenza di aprirsi verso la realtà, la natura, la luce, l'Oriente che aveva la Chiesa orientata con le porte aperte verso il sole, che poi passa un altro modello che invece afferma il mondo verso un luogo che riprende elementi della sacralità templare, e che in qualche modo si ripropone però come cammino, come l'orientamento verso un'escathon (un luogo che è anche ‘altro’, che non è più sacro, ma santo perché porta a Dio); nelle nostre chiese tutto questo viene perso perché manca di questi passaggi che la tradizione ha fatto diventare modifiche sul luogo di culto, nel senso che spesso si sono usati luoghi preesistenti al culto che poi sono stati trasformati, e sono invece, purtroppo, stati tradotti in spazi che cercano il sacro ma come completamente altro, e quindi perdono tutti quegli elementi radicati nell'esperienza della prima Chiesa, oppure cercano una verticalità che però non ha più il senso della verticalità originaria dei nostri luoghi di culto che erano come motivo di proiezione verso il cielo, verso un cielo che però era espresso anche in modi diversi, non solo con la dimensione dell’altezza. Cercate di intuire - e sono ovviamente degli spunti quelli che vi sto dando, non vi sto dando l'interpretazione completa, ricca e puntuale di quella che è la tradizione architettonica delle nostre chiese - ma sto cercando di farvi capire come queste nostre chiese in cui noi ci troviamo a celebrare sono fatte prima di tutto del loro disegno architettonico che dobbiamo recuperare nel suo valore simbolico perché, altrimenti, consideriamo questi luoghi indifferentemente come altri finendo col viverli esattamente come abbiamo fatto prima, vivendo un rito che è indifferente al luogo, quasi chiudendo gli occhi e lasciando che tutta la carica espressiva del luogo sia dimenticata, lasciata da parte, e supplita dalla nostra intenzionalità. Le nostre chiese non ci sono indifferenti: se noi recuperiamo il senso di questi luoghi potremo anche scoprire qual’è la dimensione più interiore, più spirituale, che le chiese stesse riescono ad esprimere. Il luogo di culto, nella sua definizione spaziale, ha dimensioni diverse. 7
La prima dimensione è quella della prossimità, la dimensione prossemica, lo stare presso, lo stare vicino; la ricerca di un centro rispetto al quale io mi avvicino [ripeto, non è una questione politica]. L'orientamento nasce da qui: io mi sento orientato perché c'è un punto a cui mi riferisco. Non sono un'entità nello spazio: ho un centro di gravità. Questa dimensione prossemica determina anche una dimensione di tipo cinetico: sono in movimento, mi sto avvicinando a questo centro; il muoversi nella liturgia non è opzionale, è fondamentale. Se noi insegniamo ai nostri ragazzi a compiere alcuni gesti - e a compierli bene - oltre al valore di gioco, di dimensione ludica (che poi diventa per loro buona abitudine) insegniamo a vivere in modo positivo una dimensione che è essenziale al rito: la gestualità, la cultura della ritualità del gesto, dello stare nella liturgia e nelle chiese, sono fondamentali perché sono tutte occasioni che ci danno modo di riflettere sull’idea di pellegrinaggio che mi muove verso un centro (dimensione motoria e dimensione di vicinanza). Proviamo a pensare. Lo stare in piedi e lo stare seduti, anche se nelle nostre comunità è vissuto in maniera diversa, (voi sapete, basta passare il confine e andare in Austria per vedere gli austriaci che, durante la consacrazione, si siedono; da noi qualcuno s'inginocchia, qualcuno sta in piedi, qualcuno si volta e fa altre cose): il fatto che il gesto, non solo assemblearmente ma nel suo valore di movimento, già disponga a sentire che c'è un salto nella celebrazione nel momento della consacrazione, diventa già un elemento di attenzione, diventa come una spia (un segnale) di un momento particolare della nostra celebrazione; però, in realtà, non è da valorizzare l'aspetto di rispetto piuttosto che quello di sacralità del momento celebrativo; ciò che invece deve essere colto è proprio questa dimensione per cui il corpo stesso partecipa ad un'azione che altrimenti diventa soltanto di tipo cerebrale. Se io mi alzo in piedi esprimo già la necessità del movimento, esprimo già la necessità di una provvisorietà del mio modo di stare (perché in piedi sto meno tranquillo e meno sicuro che lo stare seduto), esprimo una partecipazione: ci sono tutta una serie di elementi che dicono questo. Tanto più la liturgia mi fa sentire che io non sono seduto a teatro ma sono in cammino verso la Pasqua - e torniamo al tema della Resurrezione - quanto più la celebrazione nella sua ritualità, e nel luogo che la ospita, riuscirà a farmi sentire che sta esprimendo ciò che mi viene dato da vivere. C'è un altro aspetto che credo che sia fondamentale: quando noi parliamo di Chiesa - lo sappiamo tutti - attribuiamo questa parola sia al luogo che alla comunità. Questo aspetto che è metonimico, per cui sposto il nome dal contenitore al contenuto, è un aspetto che non è assolutamente banale. Facciamo un altro esempio. Quando io penso e chiedo un buon vino, posso anche chiedere un buon bicchiere: il bicchiere mi dà lo stesso valore della parola “vino”; il contenitore passa al contenuto. Ecco per noi questa cosa è scontata, però ha sempre il valore di un sorta di allegoria quindi di un qualcosa che non ha il contenuto autentico: infatti noi sappiamo bene che il bicchiere resta bicchiere e che il vino resta vino e che il bicchiere non lo posso bere mentre il vino sì. Noi, quando parliamo di Chiesa - e diamo lo stesso nome alla comunità e al luogo - noi teniamo viva l'allegoria. Questo guardate è un grosso limite per noi ed è un limite difficilissimo da far capire ai vostri ragazzi. Quando un vostro ragazzo prende un cellulare in mano e vi spara (“bum-bum”), lui è convinto di avere una pistola in mano, non un cellulare e non pensa che sia una allegoria: lui ha una pistola; tanto che, se volete fermarlo, non dovete dirgli: “Metti via il cellulare!” ma gli dovete dire “Mettiamo via le armi!” e, allora, lo mette via. Noi, adulti, siamo portati istintivamente a cogliere più l'aspetto allegorico dei simboli invece che quello intrinsecamente autentico che hanno. Vi propongo di fare un altro salto insieme a me. Quando noi ci troviamo in una chiesa, in questa chiesa possiamo - purtroppo celebrare un funerale o celebrare un matrimonio. Diremo che questa celebrazione è stata triste o allegra indipendentemente dal fatto che il contenitore sia lo stesso, perché sarà il rito che avrà condizionato il senso e il significato della percezione che io ho di quello spazio. In realtà se le nostre chiese (comunità) fossero davvero partecipi della comunità (edificio), questa distinzione
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che noi facciamo tra il contenitore e il contenuto che ci porta a chiudere gli occhi - come abbiamo fatto prima - e a dimenticare dove siamo, sarebbe meno percettibile. Vi dico questo perché, di fatto, noi siamo disabituati a guardare lo spazio in cui ci troviamo; siamo disabituati a cogliere la valenza positiva che lo spazio può avere. Se noi riusciamo ad educare i nostri ragazzi a cogliere alcuni elementi dello spazio, sicuramente avremmo fatto un lavoro molto utile per loro perché si sentiranno aiutati anche dal luogo dell'azione liturgica, a vivere il mistero che celebrano. Questo è un compito che però non è affidato al nostro insegnamento o alle indicazioni didascaliche date momento per momento nella liturgia, ma è dato proprio dal modo di celebrare dell'assemblea; dev'essere cioè un valore condiviso da tutti. Se noi, per esempio, riusciamo a far cogliere ai nostri ragazzi che c'è un percorso da compiere durante la Messa, anche solo cogliendolo come intuizione, loro sentiranno che, anche se stanno tutta la Messa nello stesso posto, stanno davvero compiendo un cammino; ma dovranno anche fare esperienza di questo cioè dovranno potersi anche alzare e muovere, sperimentare che questo movimento è un qualcosa di reale; altrimenti la dimensione di pellegrinaggio verso la Resurrezione viene completamente persa e loro si sentono in Chiesa esattamente come in un cinema, in cui stanno assistendo ad un film più o meno appassionante o divertente. In questo senso, l'altro aspetto di analisi del luogo di culto è quello di tipo metaforico ovvero di similarità che, in questo caso, è vicino all'analogia. Pensate a quante volte le nostre chiese sembrano qualcos'altro e addirittura ci sforziamo di farle sembrare qualcos'altro. Per esempio: quando noi celebriamo il battesimo e mettiamo una bacinella (più o meno decente) sul presbiterio per celebrare il battesimo (ma talvolta l’ho visto anche sull'altare), e mettiamo la bacinella lì perché la devono vedere tutti (perché siamo al cinema, appunto) e devono vedere tutto, e tutti devono sentire e tutti devono accogliere bene il primo “uèè”, piuttosto che l'azione del papà che accende la candela, e così via, ecco noi stiamo facendo una cosa che ripropone l'idea che al battesimo si assiste come degli spettatori ad una rappresentazione, e abbiamo buttato alle spalle quel valore fortemente simbolico, che non aveva bisogno di didascalia, che era costituito dai fonti battesimali all'ingresso della Chiesa che davano l'idea dell'ingresso nella comunità di un bambino o di nuovo credente. Questo non ci sono parole che lo spiegano: noi possiamo farci sopra tutti i discorsi che vogliamo, però finché ce li facciamo noi che li sappiamo, funzionano; ma alla prossima generazione dopo di noi, non funzioneranno più perché non avranno mai avuto esperienza di qualcosa di diverso, avranno cancellato tutti i segni di presenza o di modalità precedente, avranno perso il valore: di questa perdita saremo responsabili noi. Per questo motivo vi dico che c’è anche un aspetto metaforico che, pur non avendo una valenza simbolica assoluta, ha in fondo, dentro di sé, un significato che noi dobbiamo recuperare, testimoniare o, perlomeno, far percepire ai nostri ragazzi. Quindi le nostre chiese sono dentro ad un rito che si avvale dei segni dello spazio che nel rito viene significato, che nello spazio può anche essere metaforizzato, ma che, comunque, richiama l'idea di un luogo che non è destinato a risolvere - o ad esprimere completamente - il mistero che testimonia: il fatto di essere chiese in cammino. Ho parlato del rito, della metafora offerta dallo spazio e del richiamo alla dimensione di pellegrinaggio della Chiesa. Pensiamo, ad esempio, ai nostri amboni (purtroppo spesso solo leggii) nelle nostre chiese. Quando non c'è la liturgia – eucaristica, o qualunque altro tipo di liturgia - la Parola di Dio dovrebbe essere comunque là, aperta e ben visibile (qualche parroco si preoccupa che gli portino via il messale, ed è vero); però senza la Parola, quell'ambone è un bel leggio la cui forza architettonica – caspita, se siamo a San Marco è espressa lo stesso: chi mette in dubbio che quello sia il simbolo del sepolcro vuoto, con tanto di aquila di Giovanni ecc.? – però se, invece, è un leggio sgangherato nelle nostre povere parrocchie, almeno che abbia sopra la Parola di Dio che gli dia un po' di dignità. Questo aspetto è metafora, ovviamente, perché non è in se un
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simbolo significativo: simbolo - quella Parola e quell'ambone - lo diventano davvero durante l'azione liturgica; però questo tipo di attenzione prolunga la liturgia anche fuori dallo spazio liturgico. Io credo che questi aspetti qui dovremo imparare a riconoscerli perché, anche se immediatamente non ne abbiamo la percezione, una certa curiosità - in rapporto a questi segni - sta emergendo in maniera forte da parte di molti; noi saremo degli sciocchi se sciupassimo i tanti perché dei nostri bambini e non cercassimo di dare loro delle risposte. Loro le domande ce le fanno, ce le fanno e, talvolta, ci spiazzano anche un po' rispetto ad alcuni contenuti che dobbiamo dire loro. Per questo motivo dico potrebbe essere una buona occasione quella di essere stimolati dalle loro domande a dare delle risposte. Vorrei concludere - perché ho visto che ho speso già troppo tempo - con un ultimo riferimento. Se le nostre chiese hanno questa caratteristica - di essere un luogo che esprime il valore di un “non ancora” a cui siamo chiamati e in cui l'azione liturgica si colloca nel “già”, che è l'oggi della salvezza, che è richiamo e memoriale della presenza di Cristo, ma anche proiezione verso il futuro - noi possiamo dire che le nostre chiese, in fondo, sono luoghi per fare esperienza della Resurrezione di Gesù, perché sono luoghi utopici: nel senso che sono luoghi senza luogo. La chiesa è uno spazio ben preciso che non è altro dal mondo (perché, alle origini, aveva le porte aperte), ma anche che esprime una santità rispetto al mondo (perché è orientata verso la Gerusalemme celeste), che ci fa abitare (perché è una casa) però che è anche l'abitare il “non ancora” - che è proprio la prospettiva della Resurrezione - e che ci fa cogliere il senso dell'essere comunità in cammino. Per questo, siamo veramente tutti “parroci” ovvero uomini pellegrinanti: siamo tutti sempre in attesa di una casa, che non è quella. Se noi riusciamo ad approfondire dal punto di vista spirituale, però poi a tradurre in termini gestuali, partecipativi, di coinvolgimento liturgico, queste poche idee che ho cercato di esprimervi questa mattina, io sono convinto che avremo una percezione diversa del luogo chiesa e che riusciremo anche far fare all'assemblea - e quindi tanto più a farli fare ai nostri bambini - dei gesti che non sentono come un linguaggio alternativo rispetto ai loro modo di modi di comunicazione (che sono fatti di “batti il cinque” o di altri gesti particolari), ma che sono l'espressione di una comunità che si trova davvero a vivere, nell'esperienza del quotidiano, l'esperienza del definitivo, del di là dal tempo, l’esperienza dell'ottavo giorno. Vorrei concludere facendo solo un ultimo riferimento ad un testo che i vescovi italiani hanno emanato per l'adeguamento delle chiese storiche. C'è un punto, in questo documento, che dice così: “La chiesa-edificio si può considerare una “icona escatologica” grazie al collegamento dinamico che unisce il sagrato alla porta, all’aula, all’altare e culmina nell’abside, grazie all’orientamento di tutto l’edificio, al gioco della luce naturale, alla presenza delle immagini e al loro programma.” Forse mi direte che questa frase dice molto più chiaramente quello che io ho cercato di balbettare per più di un'ora, ed è vero: la Chiesa edificio è davvero questo cammino verso l’escathon che ospita l'azione liturgica che realizza questa cosa nel mistero ma che, al tempo stesso, andrebbe sfruttata appieno; perché noi cristiani, purtroppo, viviamo le nostre chiese come abbiamo fatto prima: ad occhi chiusi. Grazie.
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