La marineria nuragica di Franco Maria Puddu
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La Sardegna ha una sua tradizione marinaresca che va dalle tonnare di Carloforte alla pesca del corallo ai fassonis di Cabras; ma da dove hanno origine queste radici?
a splendida Sardegna, che un illustratissimo e favoloso libro fotografico del 1958 di Marcello Serra, edito da Fossataro, definiva nel titolo “quasi un continente”, è nota ovunque per la selvaggia dolcezza della sua natura, per i suoi mari incontaminati, per il possente ricordo delle vestigia nuragiche e l’antica cultura pastorale che tuttora la caratterizza. Sembrerà perciò strano se ricordiamo che c’è stato un tempo, oramai remoto, in cui i sardi erano anche noti in molti Paesi mediterranei e mediorientali, soprattutto per la loro fama di feroci mercenari che, se catturati, andavano alla morte ridendo, di valenti navigatori e spregiudicati pirati, ma se il lettore ci vorrà seguire passo passo su queste righe, si renderà conto che si tratta di verità tutt’altro che improbabili. Iniziamo, dunque, a parlare dell’antica popolazione degli shardana o sherdi che attualmente molti identificano con gli antichi sardi, della quale sono giunte a noi molte testimonianze, specialmente da altri Paesi come l’Egitto. Avvenne infatti che nel 1887, nei pressi di Tel el Amarna, più o meno al centro della riva destra dell’attuale Canale di Suez, dove un tempo sorgeva la città di Akhetaton, una donna beduina che
stava cercando “combustibile domestico”, ossia sterco di cammello, rinvenne fortuitamente circa 300 tavolette di argilla incise con caratteri cuneiformi, che riportavano corrisponden ze faraoniche intercorse per decenni, tra Rib-Adda, re di Biblo (1400 ca-1350 a.C.), vassallo prima del faraone Amenophi III e poi di Akhenaton (noto originariamente come Amenophi IV). In alcune di queste “missive” i due faraoni si lamentavano della presenza e dell’attività dei pirati shardana, i quali tuttavia erano disposti a concedere i propri servigi come mercenari. In seguito, Ramses II, in una stele ritrovata presso Tanis, diceva di questi shardana che “nessuno ha mai saputo come combattere (li), arrivarono dal centro del mare navigando arditamente con le loro navi da guerra, e nessuno è mai riuscito a resistergli”.
La battaglia di Qadesh A quanto sembra, il valore di questi mercenari, palesemente disponibili sul mercato, non era una leggenda, ma una consolidata realtà, tanto che il faraone decise di arruolarli come sua guardia del corpo, come testimonia l’iscrizione di Qadesh, la grande battaglia che nel 1275 a. C. vide contrapporsi in Siria i maggiori eserciti dell’epoca, quello
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L’armamento di questo guerriero sardo, secondo quanto ci “dicono” i bronzetti nuragici, constava di uno scudo rotondo dal quale vediamo spuntare le sommità e la punta di tre daghe a lama triangolare, una leggera corazza terminante come un corto gonnellino, un elmo ornato da corna molto simile a quello di due guerrieri shardana in combattimento secondo un’incisione egiziana (in apertura)
egiziano di Ramses II e quello ittita di Muwatalli II; in tale iscrizione si dice che 520 shardana componevano la guardia del corpo del faraone. Questo evento, di enorme rilevanza, lasciò notevoli tracce, fra le quali le testimonianze sulle consistenze, anche logistiche, e sulle fisionomie delle fazioni in campo. Per questo sappiamo che gli shardana si distinguevano dagli altri combattenti perché portavano un elmo ornato di corna, uno scudo rotondo (tutti gli altri avevano scudi rettangolari, gli egiziani con il lato superiore arrotondato) e una lunga spada a due tagli oltre a daghe a lama triangolare (gli egiziani erano più che altro arcieri). Di questi apprezzatissimi mercenari (in terra e in mare) abbiamo ancora molte testimonianze sulle
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quali però ora non ci dilungheremo (preghiamo comunque il lettore di osservare bene l’immagine del bronzetto nuragico che pubblichiamo) perché non è l’esistenza degli shardana l’oggetto principale del nostro articolo, ma la marineria che contraddistinse questa civiltà. Comunque, a mo’ di chiusa, ricordiamo che archeologi, studiosi e ricercatori discettano ancora sugli shardana, perché se la loro esistenza è più che provata, la loro origine è ancora incerta. Perché non è ancora del tutto chiaro se fossero una popolazione autoctona o proveniente dal Medio Oriente a seguito delle conseguenze, secondo alcuni, di una biblica carestia, secondo altri delle devastanti conseguenze dell’urto di un meteorite con la Terra, mentre altri ancora chiamano in causa il diluvio universale, evento comune a tantissime popolazioni e culture. È comunque del tutto inoppugnabile che in Sardegna arrivarono, vi si stanziarono e di là ripartirono per le loro scorrerie, che li porteranno a integrarsi con altri popoli presso i quali presteranno servizio, mentre quelli rimasti nell’isola, si omogeneizzeranno gradatamente nella stessa civiltà agropastorale dei gruppi tribali più stanziali, fino a svanire in un alone di leggenda. Un poco come nel Lazio e nella Maremma succederà agli etruschi, tanto integrati con il popolo dell’Urbe da dargli ben tre dei suoi primi sette Re: Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo, perdendo però la loro individualità primigenia al punto di farli definire, per lungo tempo, come “un popolo scomparso”. E in tutti i casi, non bisogna stupirsi di determinate integrazioni che ai nostri occhi evoluti, democratici e umani (ma siamo sicuri di ricordarci bene il film con Sidney Poitier “Indovina chi viene a cena”?) possono sembrare strane. Uno dei maggiori eroi della storia sarda che tutti nell’isola conoscono, Hampsicora (cui verrà dedicato lo stadio Amsicora di Cagliari), che scatenò la
Non abbiamo molte certezze sugli spostamenti di questi guerrieri, ma è sorprendente la somiglianza di questa spada celtica rinvenuta in Irlanda e quella Shardana (a destra) rinvenuta in Sardegna; dal momento che i celti non crediamo abbiano raggiunta la Sardegna, si potrebbe pensare che…
rivolta antiromana del 215 a.C. e fu sconfitto nella battaglia di Kornos (a metà strada tra Bosa e Tharros), dove dopo aver appresa la morte in combattimento di suo figlio Josto si suicidò, non era sardo, ma cartaginese. D’altra parte anche San Nicola di Bari, l’idolatrato protettore della città pugliese, non era affatto di Bari, ma era nativo della Licia, una regione attualmente anatolica, in Turchia.
Chi li portava per mare? La domanda che invece sorge è un’altra: dalle testimonianze sappiamo che i temibili shardana operavano in vari “mercati” dell’area mediterranea e mediorientale. Allora non esistevano le Marine Mercantili né le navi traghetto, ma loro si muovevano comunque senza problemi. Chi li portava a destinazione? Inoltre sappiamo anche che erano temibili pirati e, di conseguenza, ottimi marinai. E nessuno si è mai improvvisato pirata pescando triglie. Ma dell’esistenza di una antica marineria, in Sardegna, non esiste apprezzabile traccia, a meno di non far riferimento a quei circa duecento bronzetti nuragici rappresentanti imbarcazioni che fanno bella mostra di sé nei musei isolani, ma anche in un paio di musei toscani, perché alcuni di questi oggetti furono rinvenuti nelle tombe etrusche. Tuttavia, queste piccole e pregiatissime opere d’ar-
te in bronzo, realizzate con la tecnica della cera persa, sono state sin dal 1800, quando attrassero l’attenzione di studiosi e ricercatori, vincolate da false convinzioni che (anche se formulate in perfetta buona fede, s’intende) le individuavano sempre come oggetti di culto o ex voto. La tendenza odierna, invece, porta a identificarle come opere che, per un motivo o un altro, non riproducevano semplicemente oggetti a forma di nave, ossia rappresentativi di un concetto ma non di una cosa reale; perché in realtà erano, in piccolo, modelli di navi realmente esistenti, e fra un bronzetto che simboleggia e uno che riproduce un modello reale c’è una bella differenza. Per prima cosa, vediamo che basicamente rappresentano tre tipi di imbarcazione: una individuale, una a fondo piatto e una a scafo arrotondato. La prima è una piccola zattera, quasi un guscio di noce, identificabile negli odierni fassonis, le zattere ad un posto un tempo costruite e utilizzate (oggi sempre meno) dai pescatori dello stagno di Cabras, a Oristano, utilizzando mazzi di steli di giunco palustre legati fra loro, che sicuramente erano
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La principale tipologia delle imbarcazioni sarde in questi tre bronzetti conservati al Museo archeologico di Cagliari: in primo piano una imbarcazione individuale sul tipo dei fassonis, poi due altre imbarcazioni con protome animale e battagliole piuttosto alte e decorate
prodotte anche da quelli che, un tempo, operavano nello stagno di Cagliari, più noto ai giorni nostri come stagno di Santa Gilla. Curiosamente, al mondo esistono due soli altri Paesi dove si trovano imbarcazioni uguali: in Perù, dove sul lago Titicaca le popolazioni indigene da sempre costruiscono ed impiegano le balsas, galleggianti del tutto uguali ai fassonis, e l’antico Egitto, dove i pescatori realizzavano le loro barche, praticamente identiche a questi, legando insieme mazzi di steli di papiro. Il che dimostra che quando la necessità aguzza l’ingegno, identiche situazioni portano l’intelligenza umana, sia pure in ambienti diversissimi, a raggiungere gli stessi risultati. Anche perché, se non certo con i laghi di alta montagna del Perù, un tempo remoto i protosardi ebbero rapporti continuativi con punici e fenici, popoli “gomito a gomito” con gli egiziani, il che
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potrebbe aver favorito un’osmosi di notizie ed informazioni sulle costruzioni di queste particolari specie di imbarcazioni.
La tecnica delle tavole cucite Gli altri due modelli sono di barche ben maggiori, sicuramente oltre i dieci metri, ma una a scafo a sezione trapezoidale, il che fa supporre una costruzione “a tavole cucite”, priva di qualsiasi chiodatura, con il fasciame tenuto in sede da elementi di cavo utilizzando una tecnica simile a quella cui facevano ricorso gli egiziani, l’altra a scafo arrotondato. L’albero, invece, sempre presente nelle unità maggiori, non era alloggiato in una scassa nella parte interna dello scafo, ma collegato a questo appoggiando su quattro punti grazie ad adeguate strutture, cosa che favoriva la stabilità e la robustezza. In cima all’albero, nei bronzetti, è sempre presente
un grosso anello in genere sormontato da una piccola mezza luna, che ha fatto sbizzarrire non poche fantasie; chi ha supposto che fosse un sistema di traguardo per tracciare una rotta, chi ha detto che nell’anello doveva passare il pennone dell’albero, chi altro ancora. Molto probabilmente e più semplicemente, però, si trattava, nella navicella bronzea, che uno scopo doveva pur avere, (probabilmente, pur rappresentando un modello di nave, veniva impiegato come lampada ad olio, con il combustibile versato all’interno dello scafo dal quale sporgevano uno o più stoppini) di un anello che serviva a spostarla tenendolo fra due dita senza scottarsi con le fiammelle, o di un sostegno al quale appenderla al muro, a un trespolo o a un basso soffitto. La protome invece, che quasi sempre presente, rappresentava animali, non era utilizzata dalle altre marinerie a questo scopo, né lo avrebbero mai utilizzata in futuro: si trattava, in genere, di un toro, un cervo o un muflone più o meno abilmente stilizzati. Animali comuni che all’epoca erano abbondanti in Sardegna, nelle cui sembianze si accomunavano idee di energie che probabilmente dovevano “assicurare” alla nave: forza, eleganza, velocità, come l’occhio apotropaico serviva a “guardare” benevolmente la rotta delle navi greche e romane.
Questa navicella mostra una protome a testa di cervo, animale un tempo abbondante nell’isola, e l’albero, sovrastato dal famoso anello, fissato alle battagliole (ma probabilmente questa può essere una “licenza” dell’artista) con quattro braccia lignee di cui due sono mancanti nell’oggetto raffigurato
Quali erano le strutture logistiche che potevano appoggiare le navi della marineria sarda? Non le conosciamo tutte, anche perché molto in là nei secoli; di sicuro però conosciamo i porti di Karalis (Cagliari), Sulki (Sant’Antioco), Tharros (presso Cabras), Turris Libisonis (Porto Torres). Ma a questi se ne univano moltissimi altri minori, ma proprio per questo indispensabili per la navigazione
Una navicella nuragica rinvenuta in Toscana, a Vetulonia, nella cosiddetta Tomba del Duce, e oggi conservata nel Museo archeologico di Firenze, mostra tante rappresentazioni animali da essere stata soprannominata “l’arca di Noè”
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Quali erano le rotte dei sardi? Su questo non abbiamo indicazioni precise anche se abbiamo notizie dei commerci per l’esportazione di ossidiana, di importazione di cinabro dall’Etruria, di import export con i fenici, i punici e gli egiziani; c’è chi azzarda addirittura traffici con il nord Europa per il prezioso stagno, mentre danno a pensare delle spade a lama dritta e doppio taglio rinvenute in area celtica, in Irlanda, di fattura assolutamente identica a quella delle spade shardana. Infine non dobbiamo dimenticare l’osmosi culturale e religiosa che si verificò con quanti si spostarono per vivere in Sardegna o da questa isola per andare a seguire un incarico o un amore presso altri popoli, portando con se usanze e costumi. Per questo motivo, infatti, sono stati reperiti bronzetti raffiguranti navi nelle necropoli etrusche di Vulci e Vetulonia. Quest’ultima immagine ci mostra un modello ricostruito ai giorni nostri dove si possono scorgere con chiarezza e precisione tutti i particolari descritti sino ad ora Bisogna però considerare che la storia che avrebbe avuto seguito, doveva svilupparsi secostiera, per l’uscita repentina con l’attacco alla condo una piega ben diversa da quella che avrebpreda e il rapido disimpegno. bero immaginato i sardi. Gli shardana, infatti, braAnche come sistemi di appoggio a chi navigava, vi, valenti ed eroici quanto si vuole, erano un popossiamo ricordare molti nuraghe che, normalpolo di non grande consistenza, noto sin dai temmente considerati come presidi terrestri, a volte si pi più antichi per essere una parte dei “popoli del trovavano sul mare (e non avevano compiti di tormare”, ossia alleato di altre etnie e compartecipanri di avvistamento). te ad azioni concordate e comuni. Quando queste altre etnie vennero gradatamente Il complesso di Cala del Vino distrutte da Roma, o deposero le armi abbandoAd esempio abbiamo il piccolo complesso nuraginando la pirateria, gli shardana si trovarono ad esco di Cala del Vino, situato a pochi chilometri da sere sempre più isolati e, vista la situazione, con le Alghero, già noto per essere stato usato dai romaspalle scoperte. ni, dove esiste un porticciolo difeso da una diga Considerando poi la sempre maggiore presenza foranea di scogli naturali, e dove recentemente soromana nell’isola e di navi romane, onerarie e da no state rinvenute delle bitte in pietra e un certo guerra, nei suoi porti, e conseguentemente con numero di ancore, sempre in pietra, di tipo nural’aumento di presenze di marinai sardi nella clasgico. Inoltre vi sono due nuraghe costieri, uno dei sis, l’attività “in proprio” degli isolani iniziò a diquali fino ad ora sconosciuto e mai censito, del minuire fino a spengersi del tutto, tolte le attività diametro di 12 metri, che con la loro posizione pescherecce e di piccolo cabotaggio che con la peconsentono di allineare il navigante su due rotte sca del tonno e del corallo sono perdurate sino ai di approccio all’approdo senza correre il rischio di giorni nostri o quasi, mantenendo a lungo e intatincocciare gli scogli della diga. ■ to il nostalgico sapore della tradizione.
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