La Gestione educativa degli affetti in Comunità
Gustavo Pietropolli Charmet
La Comunità è lo spazio in cui ai minori si chiede di elaborare il lutto della separazione dai propri genitori ed alla cultura educativa è affidato questo passaggio.
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La Comunità ha il compito di favorire il processo di elaborazione del lutto per la morte simbolica della funzione genitoriale, che è ritenuta dall’intervento dello Stato (un intervento terzo) inadeguata o insufficiente più o meno temporaneamente. Con questo intervento viene somministrato al cucciolo uno dei più significativi lutti che il figlio dell’uomo possa subire: quello di assistere impotente all’eclissi, allo spegnimento progressivo della funzione di contenimento, di capacità auditiva, di nicchia affettiva primaria svolta dalla propria famiglia naturale.
Questo gruppo specializzato, che la Comunità sociale spedisce sul fronte del lutto, della catastrofe generativa quale compito ha se non quello di favorire il processo di elaborazione del lutto riorganizzando la speranza e restituendo futuri possibili, diversi da quelli che erano stati previsti dalla famiglia naturale proprio perciò ritenuta inadeguata e incompetente?
Se lo si vede così, naturalmente, la Comunità ha mille altri compiti, ma, volendo in questa occasione richiamare sinteticamente la complessità, la sfida culturale, affettiva, simbolica e relazionale della Comunità nella gestione degli stati affettivi della mente dei suoi piccoli ospiti, mi sembra importante sottolineare come cercare di collegare gli effetti che provoca il decreto di allontanamento e che l’ingresso nella Comunità inevitabilmente innesca nella mente profonda del piccolo preadolescente-adolescente. Non si dimentichi che è uno dei lutti più terribili che possa capitare di dover elaborare nella storia della propria crescita, si tratta di un processo di separazione che spesso è drammatico e spesso è caratterizzato da eventi che hanno precedenti straordinariamente traumatici, un trauma cumulativo che ha costretto gli operatori sociali, la giustizia minorile, ad intervenire a sancire queste separazioni.
Noi sappiamo che, a seguito dell’allontanamento, Piero (il nome è scelto a caso), e tutti i suoi fratellini ospiti delle nostre Comunità, ha un compito: quello di non diventare un
Gustavo Pietropolli Charmet, docente di Psicologia dinamica all’Università degli Studi di Milano e presidente della Coop. Minotauro. Il testo riproduce l’intervento dell’autore, che ne ha autorizzato la pubblicazione, al Convegno “Comunità alloggio e servizi territoriali: verso un progetto integrato nell’interesse del minore”, Provincia di Bergamo, 08/10/1999
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infame, quello di non tradire il patto segreto stipulato con la propria madre, utente del CPS, con il proprio padre semialcolista, disadattato marginale.
facilmente, ma da una madre debole, pazza, e un padre violento è molto difficile prendere le distanze, si rimane figli per sempre,
Un patto che i minori ospiti della Comunità, in nome dell’etica masochista, rispetteranno. Essi lasciano che la Comunità intoni il suo canto ma segretamente sanno che non tradiranno il patto originario una volta riconquistata la libertà di movimento. Dopo aver simulato di adattarsi al progetto educativo che prevedeva futuri alternativi a quelli organizzati per lui dalla dinastia della famiglia multiproblematica, assistita dai Servizi Sociali, Piero sa che non può tradire il demone dinastico. La sua dinastia chiede che anche lui finisca o in carcere o in manicomio: è lì che si gioca una partita decisiva, è lì che la partita dal punto di vista educativo è estremamente complicata. Personalmente condivido la decisione di passare dal grande anomico concentrazionario dell’Istituto al piccolo domestico familiare, cioè al clima della Comunità, perché se questo è il compito, penso che soltanto un’offerta di relazione straordinariamente ravvicinata ed empatica possa aiutare a disdire il patto. Nonostante questo, se ammettiamo di verificare le cose come effettivamente stanno, possiamo proprio osservare in queste situazioni quanto il figlio dell’uomo, ossia un animale simbolico, accetti qualsiasi tipo di sofferenza pur di non tradire il proprio vincolo, il progetto sottoculturale della propria famiglia multiproblematica, mafiosa, delinquenziale, pur di non tradire la debolezza della propria madre, l’inadeguatezza dei propri genitori, rifiutando i privilegi offerti dalla Comunità, il decoro della quotidianità rispetto al degrado e alla povertà educativa dell’ambiente di provenienza.
destinati a ripetere le loro imprese e i loro gesti, destinati a diventare la mamma o il papà maltrattante.
L’elaborazione del lutto per una separazione da genitori inadeguati è più problematica, perché da una mamma sufficientemente buona si prendono le distanze molto precocemente e
Sono d’accordo sul fatto che solo il piccolo può riuscire a elaborare e sono d’accordo soprattutto sul fatto che a gestire questo processo debba essere, fino a prova contraria, la cultura educativa. Poteva benissimo non essere così, poteva succedere che a gestire il passaggio fossero le discipline forti, la neuropsichiatria infantile, la psicologia clinica, l’ortopedagogia e via dicendo ed invece è successo che a gestire questo passaggio, a sancire la morte simbolica della famiglia, quindi un rito di iniziazione straordinario, sia stata la cultura educativa, si sia scelto di affidare questo passaggio alla cultura educativa mettendo le altre discipline nelle condizioni di vallette della cultura educativa. Questa gestisce il progetto di rinascita sociale e utilizza come consulenti i rappresentanti delle discipline forti, una scommessa che se la cultura educativa dovesse perdere, si assisterebbe al ritorno sulla scena di culture forti e dei loro rappresentanti. Attualmente le cose non stanno andando male da questo punto di vista, perché
la cultura educativa, cimentatasi con una scommessa culturale di questa portata, è riuscita a ritrovare al proprio interno delle risorse, delle competenze, una capacità progettuale che integra le competenze delle discipline forti senza però diventare la schiava come avviene nelle Comunità terapeutiche. Vediamo ora quali sono le risorse di cui dispone la Comunità nella quale Piero è divenuto ospite, nel momento del passaggio dalla famiglia naturale alla famiglia sociale, che generalmente
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non si ripropone di fare una grottesca e poco credibile imitazione della famiglia, ma si istituisce come gruppo di lavoro costituito da adulti competenti capaci di gestire, di elaborare gli affetti di minori in lutto per la perdita dei genitori naturali. La famiglia sociale, costituita da adulti competenti, ha dalla sua, apparentemente, una scarsezza di tecnologie, metodologie e interventi quasi paradossali, a fronte di una partita sempre più difficile come correttamente i colleghi dicevano prima; attenti, i minori che fanno il loro ingresso nelle Comunità negli ultimi tempi sono sempre più difficili, sono portatori dei segni di un’evidenza che è sotto gli occhi di tutti: la ridistribuzione della ricchezza economica si è accompagnata ad un impoverimento delle capacità educative, alle sacche di vecchia povertà si sono sostituite sacche di povertà educativa impensabili e quindi da questo deriva naturalmente un prodotto, il figlio, che è portatore delle nuove povertà educative. 52
Rispetto a problemi sempre più complicati la Comunità risponde con delle mediazioni culturali con delle metodologie e interventi che sono apparentemente naif, e cioè la mancanza di qualsiasi tipologia di intervento di tipo tecnico, si gioca apparentemente soltanto con i ritmi, la quotidianità, il clima relazionale, la gruppalizzazione dell’affetto, l’offerta di relazione e niente di più. Tutto ciò che é tecnico, che appartiene alla cultura forte, è fuori, altrove (la psicoterapia e tutto il resto). La Comunità ambisce a gestire l’elaborazione del lutto ben sapendo che ogni ragazzo porta dei problemi specifici, è figlio della sua irripetibile storicità familiare, è l’espressione del suo eco-sistema di appartenenza. Ha la psicodiagnosi più disparata, ma si trova in Comunità in base ad un decreto di allontanamento dalla famiglia o qualcosa che gli assomiglia ed è questo ciò che lo accomuna agli altri minori. Questo è alla base della Comunità e la Comunità deve risolvere questo enigma,
riuscire a traslocare il figlio dalla famiglia multiproblematica e farlo diventare soggetto sociale, attraverso un’esperienza di appartenenza ad una straordinaria famiglia sociale che gioca con delle offerte apparentemente molto dimesse; questa è l’acrobazia, questa è la competenza dei colleghi che lavorano in Comunità: riuscire a giocare attraverso l’organizzazione della quotidianità, favorendo un investimento delle risorse residue dei ragazzini, oramai stremati su processi di riparazione favorendo un processo di coinvolgimento, di responsabilizzazione, di socializzazione e di espressione del loro dolore, organizzando e contribuendo a costruire una macchina che gestisce gli affetti, che li verbalizza, che li mentalizza, che li rende in qualche modo dicibili, consapevoli per cui alla fine il progetto dovrebbe consistere nel riuscire a parlare della mamma che va al CPS, riuscire a vederla, riuscire a metacomunicare su questa qualità di comunicazione e decidere quale possa essere il proprio destino di fronte a questo disastro: se parentalizzarsi nei confronti della madre e obbedire alla prepotenza del suo bisogno, che ovviamente comanda sempre e comunque sui figli, o scegliere futuri alternativi. Io faccio solo degli esempi, dei flash su quelli che mi sembrano gli stati affettivi che insorgono più frequentemente all’interno della Comunità e che è bene tenere presente nella progettazione educativa, quando si costruiscono macchine per risolvere i lutti, quando si fanno gli ingegneri e le relazioni, cioè gli educatori delle Comunità. Allora,
i ragazzi nella Comunità, figli del decreto, cioè nuovi soggetti antropologici costruiti dai nostri dispositivi, sono arrabbiati, annoiati e tristi e la Comunità ha il compito di organizzare delle risposte intelligenti e tempestive a queste ma-
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nifestazioni che sono correlate alle vicende della quotidianità, che appartengono alla fisiologia dello sviluppo ma che in Comunità diventano di una evidenza spettacolare. In nessun appartamentino della città o del paese come nella Comunità si vivono passioni umane così violente, così coinvolgenti, in nessun altro posto, in nessun’altra postazione educativa si riescono a capire i minori come in Comunità. Tutti gli educatori e non solo coloro che hanno avuto un’esperienza di Comunità sanno che solo nella Comunità si capisce tutto e si rischia di non risolvere nulla; ma per capire si è finalmente nelle condizioni di poter capire davvero, non c’é scuola, non c’é ambulatorio, non c’é centro di aggregazione giovanile, non c’é centro psico-terapeutico che consenta di capire il dolore, la sofferenza, le problematiche della crescita, semplicemente perché si condivide la quotidianità, la notte, l’addormentamento, il risveglio. Attorno a questo gli educatori hanno il compito di organizzare dei riti, di mettersi d’accordo su che cosa voglia dire accompagnare verso l’addormentamento, presentare il giorno cioè la scuola, la società, la complessità, la morte, cosa vuol dire il risvegliare minori in Comunità, e portarli verso la società, verso la scuola di Stato e via discorrendo. Ci sono degli stati affettivi che sono strettamente correlati al decreto, decreto naturalmente come sintomo sociale di una lunga storia che ha poi esito in un atto di allontanamento. Per quanto riguarda le crisi di rabbia, credo che pochi ragazzi siano così arrabbiati come quelli della Comunità e che in pochi luoghi del mondo ci siano crisi di violenza, ci sia una devastazione non solo di suppellettili dell’ambiente domestico, ma delle relazioni, della propria immagine, della bellezza come avviene in Comunità.
La Comunità è un luogo di passioni, perché gioca con le passioni, perché intende suscitare e gestire passioni, spera di riuscire a rompere la cisti dentro la
quale c’é un dolore indicibile del minore e di farlo venire fuori, di drammatizzarlo in qualche modo, di regalargli senso, storicità, parole, insomma, di realizzare obbiettivi educativi. Perché le crisi di rabbia sono frequenti in Comunità? Perché le crisi di rabbia hanno tre origini durante lo sviluppo. La prima è di tipo abbandonico, cioè i ragazzini si sentono abbandonati sempre e comunque; basta una minifrattura dell’assetto relazionale che si sentono abbandonati e devastano tutto perché si sentono abbandonati, si sentono abbandonati perché hanno bisogno di sentirsi abbandonati, hanno bisogno di abbassare moltissimo la temperatura della relazione, non vogliono il calore, non possono tollerare il calore.
Questo del clima non è una metafora, è una realtà educativa centrale; tenere alta o tenere bassa la temperatura della relazione in Comunità è una questione fondamentale: a mio avviso i ragazzini non sopportano le temperature alte, hanno bisogno di una temperatura costante piuttosto bassa, altrimenti picchiano, rompono, devastano perché sentono che la Comunità sta minacciando gravemente, sta condannando una morte, sta rompendo il loro vincolo e l’unico modo per non sentire il dolore della morte progressiva è attaccare la Comunità stessa e la sua capacità ipnotica seduttiva e le illusioni. Allora devono decidere che la Comunità è cattiva, perché promette ma abbandonerà; allora è meglio abbandonarla subito, la si metta a soqquadro per una settimana dicendo: voglio vedere se adesso non mi rimandano a casa, celebrando il proprio trionfo, dimostrando che non era vero, che la promessa non era vera, dimostrando quindi il loro teorema. Quindi crisi di rabbia abbandonica; crisi di rabbia perché l’unico modo che hanno per legittimare quello che gli è successo è
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identificarsi con il genitore maltrattante. Spesso in Comunità non abbiamo bambini o adolescenti, ma abbiamo la loro mamma, il loro papà maltrattante… picchiano, attaccano, aggrediscono le regole, i fondamenti stessi di organizzazioni sociali.
La Comunità ha bisogno di saper amministrare la giustizia perché deve mettere d’accordo fra loro figli di famiglie diverse e quindi ha bisogno di regole,
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invece i ragazzini difendono il loro vincolo, in certi casi è spettacolare la comparsa sulla scena delle imitazioni convincenti dei genitori maltrattanti o della madre gelida fredda, espulsiva, frigida ecc. In secondo luogo, i nostri ragazzini sono stati umiliati, il decreto umilia, e quindi sono permalosi e di ragazzini permalosi le Comunità sono piene perché lo dicono anche i nostri amici rivali psichiatri secondo i quali si sta diffondendo la patologia narcisistica. Purtroppo è vero, il che vuol dire non che sono boriosi, bulli ecc., vuol dire che sono sempre più permalosi, sempre più fragili narcisisticamente, sempre più intolleranti di qualsiasi tipo di frustrazione, ma a mio avviso il problema centrale è che spesso vivono l’offerta della Comunità, un’offerta spesso sontuosa in termini affettivi, in termini relazionali, in termini di occasioni di crescita, come umiliante e questo dipende dal fatto che sono sempre perennemente sottoidentificati con la loro dinastia multiproblematica e non possono accettare i privilegi se non possono spartirli con tutti gli altri fratellini, zii ecc..., non sono infami. Cosa si può fare in questi casi? A me sembra che l’unica cosa che rimanga è quella di
non pretendere da quelli che s’arrabbiano sempre la normalità, la gratitudine e soprattutto la dipendenza. Cito sempre l’episodio della ragazzina che il 1° giorno di Comunità dà una sberla pazzesca all’educatrice di riferimento che le va incontro.
Qualche mese dopo le dirà: “Ti ho picchiato perché sapevo che ti avrei amato”. Ed è vero, è così, è una minaccia, l’offerta della Comunità è una minaccia per quello che rimane del loro sentimento di identità, di continuità della loro storia familiare. Non possiamo pretendere da loro che si normalizzino, che siano grati rispetto all’offerta che facciamo, che soprattutto accettino livelli di dipendenza rispetto alla Comunità che sarà sempre rinnegata da questa categoria di ragazzini.
Però dobbiamo difendere assolutamente, a tutti i costi, anche se sembra retorico e teorico ma invece, nella concretezza della quotidianità diventa una cosa che si può fare, difendere, dicevo, la bellezza della Comunità, perché la Comunità originariamente nella mente degli educatori, nella mente di chi ha compromesso la vita privata facendo l’educatore della Comunità, la Comunità originariamente è bella, perché ogni giorno che passa diventa sempre più brutta, sempre più degradata, sempre più difficile. È da difendere la sua bellezza formale, ma soprattutto la bellezza dell’essere in Comunità, di poter condividere questa straordinaria esperienza. Rispetto al piccolo vandalo della Comunità o alle bande dei piccoli vandali che attaccano la bellezza della Comunità, gli adulti competenti sono lì apposta, schierati, in difesa intransigente della bellezza della Comunità. Su cosa voglia dire questa metafora ci si può mettere d’accordo giorno per giorno, pomeriggio per pomeriggio. Permettetemi di riprendere il tema della noia.
I ragazzi della Comunità hanno diritto di annoiarsi, la noia è la bestia nera della Comunità, una Comunità che si ammala di noia, dove il contagio psichico e la noia insormontabile dei ragazzini diventa la noia degli educatori, che li sospinge a cercare di battere la noia attraverso mille espedienti che spesso di educativo non hanno più
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nulla, ma sono soltanto il rimedio in condizioni estreme prima di slogarsi le mascelle a suon di sbadigli. I ragazzini hanno diritto di annoiarsi perché la noia è sempre l’espressione di una fame di relazione, fame di un evento che soddisfi un bisogno che continua a fluire nel corpo e nella mente e ci si aggira per la Comunità come anime in pena, come zombi annoiati, alla ricerca di un evento, di una relazione che soddisfi questa fame. Ma non si può dare il nome a ciò che si cerca; gli educatori che corrono incontro e ti dicono: “Potresti far questo, potresti far quello” cadono nell’agguato di cercare di dare un nome all’oggetto che potrebbe soddisfare questa fame che cresce, ma non è possibile che questo succeda, non è possibile che la noia si plachi attraverso questa strada, perché questi ragazzini per poter dare un nome a quello che cercano, dovrebbero fare quello che fanno i loro coetanei che vivono un’esperienza più privilegiata di altri, cioè dovrebbero poter ricordare. Ma è proprio ciò che non devono fare per non soffrire perché il nome delle cose che possono dare soddisfazione lo si trova ricordandosi ciò che dava soddisfazione; ma se, per legittima difesa, si deve non ricordare e soprattutto non si deve progettare perché tutte e due le attività mentali sono pericolose, perché se si ricorda si sperimenta dolore e se si progetta, ci si confronta con situazioni molto pericolose ancora più gravi in cui si dovranno accettare rischi ancora superiori, come per Piero un’altra famiglia, un’altra scuola, un altro servizio, allora il tempo deve restare fermo, la crescita deve essere bloccata nel tempo fermo della noia. La Comunità consuma tonnellate di tempo ed energia.
questo punto di vista così come la Comunità non deve essere troppo calda, deve accettare di essere anche un po’ noiosa per il rispetto che deve a questo problema che hanno i ragazzi, i quali non devono essere costretti a ricordarsi con cosa si divertivano e non devono essere costretti a pensare precipitosamente al loro futuro che è pieno di straordinaria incertezza.
Questi ragazzini, proprio a causa delle deprivazioni che hanno subito, hanno una straordinaria inerzia simbolica, sono caratterizzati dall’incapacità di progettare se non c’é una mediazione adulta.
Il terzo affetto che la Comunità gestisce ineludibilmente è ovviamente la tristezza. È quello più direttamente riconducibile alle loro esperienze cioè la colpa, la colpa di essere lì. Non è semplice accettare questo per la Comunità; la Comunità si porta dietro una colpa che è quella di aver ucciso simbolicamente i genitori; allora la morte della famiglia naturale ha inevitabilmente a che fare con quella particolare malinconia che viene a galla in Comunità e che imbeve di sé un po’ tutti i comportamenti, un po’ tutta la quotidianità è impastata di questa strana malinconia, di questa
La loro dipendenza dagli adulti non è affettiva è operativa, hanno bisogno di adulti competenti per organizzare quello che dovranno fare nei 5 minuti successivi; allora io credo che anche da
La Comunità ha il rimedio anti-noia che non è l’adulto, che non è l’attività, che non è la rottura dello schema della quotidianità e la proposta dell’avventura ma è il coetaneo perché nella fisiologia dello sviluppo i preadolescenti, i bambini, smettono di annoiarsi quando arriva il coetaneo che è l’unico rimedio anti-noia fisiologico, il resto sono le sostanze stupefacenti e l’ecstasy, ma nella fisiologia dello sviluppo l’unico modo per non annoiarsi è uscire con un amico. La Comunità ha i coetanei e quindi gli adulti competenti hanno a disposizione sia la gruppalità che il coetaneo. Giocano da una buona postazione, purché siano capaci di tollerare la noia, siano capaci di attraversare dei pomeriggi plumbei dal punto di vista dell’incapacità di divertirsi. Permettetemi una domanda: perché mai questi ragazzi dovrebbero essere capaci di provare piacere quando i loro coetanei a piede libero sono caratterizzati dall’incapacità di provare piacere e quindi devono dedicarsi a strani comportamenti rischiosi per provare finalmente qualcosa che assomiglia ad un piacere sintetico?
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tristezza, di questa nostalgia rinnegata. Credo che è proprio su questo che la Comunità a mio avviso fa bene a non mettersi in una prospettiva terapeutica, nel non riportare queste manifestazioni sentimentali, affettive dentro paradigmi forti, clinici.
Credo che sarebbe utile continuare a parlare di tristezze, di noia e non di patologia narcisistica o di patologie depressive perché la cultura educativa lavora quotidianamente;
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anche in una colonia estiva si lavora sulla noia e sulla tristezza, sulla nostalgia della famiglia, eppure siamo in vacanza, siamo in spiaggia, siamo con ragazzini normali. Allora gestire la noia e la tristezza è di competenza della cultura educativa, certo qui siamo di fronte ad una tristezza di tipo particolare, siamo di fronte al tema centrale della Comunità, il motivo stesso per il quale i ragazzini sono lì. Credo alla capacità della Comunità di offrire una possibilità di uscire dal lutto attraverso la riparazione; ho l’impressione che i ragazzini, che non si affezionano, non dipendono dalla Comunità, al contrario di quelli che sono i difensori, quelli che lavorano per la Comunità, quelli che apparecchiano, quelli che preparano, che aggiustano, che in qualche modo sono soccorrevoli non nei confronti delle persone ma nei confronti dei significanti della Comunità (l’arredo, i percorsi, i programmi, quotidiani, ecc...); riparare la Comunità diminuisce moltissimo la colpa e la tristezza così come
credo che bisogna fare un grande sforzo nella Comunità per allargare molto gli spazi dei processi creativi e dell’espressione, tenendo presente che dal lutto e dalla colpa fisiologicamente si
esce attraverso un surplus di responsabilità rispetto a ciò si è perduto verosimilmente per colpa propria, e quindi rivitalizzandolo attraverso la creatività, l’espressione. Credo che la Comunità abbia dalla sua uno strumento straordinario che è la possibilità di favorire la socializzazione della tristezza, di usare un grande distillatore collettivo in cui mettendo insieme il lutto individuale si può fare una grande elaborazione istituzionale. Da questo punto di vista mi sembra possibile definire una Comunità come un grande distillatore educativo di tristezza e di noia. Penso che sia giusto chiedersi che cosa ci gestiamo effettivamente in Comunità?
Conoscenze? Corporeità? Regole? Sì anche questo, ma soprattutto gestiamo affetti, perché è l’unica speranza che abbiamo che il ritorno di Piero in famiglia, se dovesse tornare, sia fondato sul fatto che Piero è un nuovo soggetto, non è più solo figlio della sua famiglia, ha degli anticorpi, ha una nuova capacità di tollerare ciò che prima l’ha distrutto, ha trovato delle soluzioni che ha imparato negli anni in cui era diventato figlio della famiglia sociale costituita dagli adulti competenti. Se dovrà affrontare, se dovrà celebrare un distacco più o meno definitivo dalla propria famiglia naturale, lo potrà fare non perché ridiventerà figlio di un’altra famiglia, ma perché è diventato un soggetto, perché la Comunità l’ha aiutato ad individuarsi, a soggettivarsi, l’ha aiutato a pensare a se stesso, l’ha aiutato a trovare le parole per dirlo, ad autorappresentarsi. Questo non avviene attraverso le cure, le tecniche, le terapie, avviene attraverso la full immersion in una quotidianità, in un clima relazionale che sia davvero capace di elaborare affetti.